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“Rivoluzione” nel senso tecnico della parola, cioè capovolgimento della situa-
zione ecclesiastica.
Ed è una situazione che ci tocca a noi direttamente, come cattolici. E cattolici
– vorrei sperarlo – non tiepidi, ma cattolici che, almeno, vogliono essere fer-
vorosi. E ci tocca direttamente perché tocca un punto fondamentale del nostro
essere cattolici, che è la fede nel Papato.
Di fronte a questa situazione innegabile, di cambiamenti paradigmatici, qual-
cuno dice: “Bisogna chiudere gli occhi”. Proprio chiudere gli occhi. Altri di-
cono: “Non si può chiudere gli occhi, comunque non dobbiamo parlare”. Altri,
per rispetto, dicono: “Vabbè, magari in privato diciamo due o tre cose, ma in
pubblico non ci va di attaccare il Papa”.
Questa è una posizione perfettamente comprensibile. Anzi, lodevole, nel senso
che sono persone che sentendo che la loro fede magari traballerebbe un po’, se
entrassero troppo in dettaglio nell’analisi di questi cambiamenti, preferiscono
non entrare nel merito di queste cose, di questi cambiamenti.
Ora, per un cattolico un po’ più informato, va detto che la Dottrina cattolica
contempla perfettamente – e da sempre (adesso vi leggerò qualche testo) – la
possibilità di dissentire dai pastori, anche dal Pastore supremo. Senza perciò
perdere la fede e neanche metterla a rischio.
Quindi, partendo da una posizione – e questo è un punto fondamentale – di
una fede incrollabile nel papato, e di una venerazione totale per la figura del
Sommo Pontefice, la stessa Dottrina cattolica ci insegna che non solo possiamo
ma che, ogni tanto, dobbiamo dire la nostra, se quello che noi vediamo arrivare
dall’alto è in contrasto col Magistero della Chiesa.
Questo libro (di José Antonio Ureta, intitolato Il «cambio di paradigma di papa
Francesco. Continuità o rottura nella missione della Chiesa?, ndt) è un’analisi dei primi
cinque anni del pontificato di papa Francesco – ed è stato presentato a Verona
alla presenza del prof. Stefano Fontana – ad un certo punto, in un capitolo, cita
diversi teologi.
Il primo – sarò velocissimo – è niente meno che San Tommaso d’Aquino:
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«Se quando ci fosse un pericolo per la fede, i sudditi sarebbero tenuti a rimproverare i
loro prelati anche pubblicamente. Il modo della riprensione conveniente è pubblico e
manifesto perché l’esternazione contestata è stata pubblica e manifesta».
Quindi lo stesso San Tommaso lo dice chiaramente.
San Roberto Bellarmino, grandissimo santo della Controriforma – quindi pro-
prio il momento storico ed ecclesiale in cui si è affermato il papato in polemica,
in contrasto col protestantesimo che lo negava, quindi in una delle auge del
papato – (è lui che scrive un libro sul papato, De romano pontefice), e lui dice:
«Così come è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito a quello
che aggredisce le anime o che perturba l’ordine civile, o soprattutto resistere a quel pon-
tefice che tentasse di distruggere la Chiesa».
Ve lo ripeto: questo nell’auge della Controriforma, nell’auge dell’esaltazione del
Papato in chiave antiprotestante, in un libro dedicato al Papato, il De romano
pontefice, una delle più note – se non la più nota – delle opere di San Roberto
Bellarmino.
Francesco Suarez, un altro di questo periodo della cosiddetta neoscolastica:
«Se il Papa emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve obbedire: sarà
lecito resistergli».
Victoria, un altro grandissimo teologo spagnolo.
Il cardinale Caetano, nella stessa opera in cui difende la superiorità del Papa sul
Concilio, dice:
«Orbene si deve resistere in faccia al Papa che pubblicamente distrugge la Chiesa».
Questo Victoria… Quando c’era tutta la polemica se il Concilio era superiore
al Papa – cioè se un Concilio può dire una cosa contraria a quella che il Papa
dice con maggiore autorità –, tutti i teologi fecero quadrato intorno al Papa,
specialmente Victoria, che disse: “No, assolutamente. Il Papa è supremo”. Ma, pur
affermando che il Papa è supremo, lui dice questo.
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L’AL non formula dottrinalmente una nuova dottrina, non dice; ma proprio
perché non dice, finisce a dire molto di più che non se dicesse.
Allora, io mi soffermerei su quattro argomenti.
Però, siccome sono arrivato tardi e vi ho fatto perdere tempo, vi farei lo sconto
di uno, e mi soffermerei su tre argomenti.
1. Il primo è proprio il linguaggio.
2. Il secondo è la discontinuità con la teologia morale espressa nella VS.
3. Il terzo è l’equivoco in cui molti sono caduti, nel periodo di ricezione
dell’AL.
Allora, il problema del linguaggio.
Comincio dal problema del linguaggio perché è veramente centrale. È vera-
mente centrale! C’è un linguaggio nuovo, un linguaggio rivoluzionario. C’è un
linguaggio – secondo me – non adatto al Magistero.
Il Magistero non dovrebbe – non può – esprimersi con questo linguaggio. Però,
dicendo questo, si nota, si registra che è veramente un nuovo linguaggio.
Il linguaggio di AL insinua, accenna, suggerisce, rimanda indirettamente, allude,
suggestiona, ma non precisa nulla.
Ci sono frasi contradditorie, con al centro il “ma”.
«Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò
non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o
alcune conseguenze che da essa derivano» (AL, n. 3).
Tra le due parti della frase, separate del “ma”, non mi sembra che ci sia una
continuità.
Ci sono molte frasi che sono impostate retoricamente con un’estremizzazio-
ne, diciamo così, dei concetti.
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«La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno […]. Nes-
suno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!
[…] Essi […] non devono sentirsi scomunicati» (AL, n. 296.297.299).
“Essi” sono i divorziati “risposati”. Ma quando mai – e chi mai ha considerato
un divorziato “risposato” scomunicato. Gli stessi due predecessori di papa
Francesco – che pure hanno precisato la dottrina morale in materia –, nei do-
cumenti relativi, avevano sempre detto che i divorziati “risposati” devono es-
sere considerati non estranei alla Chiesa, accolti, legittimamente valorizzati –
legittimamente valorizzati –.
Ecco, queste frasi mi sembrano un po’ artici retorici. Non so siete d’accordo.
Cioè l’estremizzazione… ma, concettualmente, non è fondata quest’estremiz-
zazione.
Domande artificiose, senza risposte.
«Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro
della società. Ma chi si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi
che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità
dell’unione coniugale?» (AL, n. 52).
La risposta non c’è. Ecco, anche questo è un artificio retorico – o eristico, se
vogliamo dire.
Poi ci sono molte espressioni che sembrano degli slogan. Qualcuna potrebbe
essere, non so, il titolo di un film, però teologicamente sono “impalpabili”, non
sono inquadrabili.
«… pietre morte da scagliare contro gli altri…» (AL, n. 49). Ma la Dottrina e il Van-
gelo non sono «pietre morte da scagliare contro gli altri»! Se io vi dicessi una cosa del
genere – e voi non teneste conto che io sono papa Francesco – … se qualcuno
vi dicessi una cosa di questo tipo, e non sapeste chi sia, che peso dareste ad una
frase di questo genere? Cosa vuol dire?
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1 Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni,
molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano
che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il
bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).
2 In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non
dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013],
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44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e
un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039).
3 «[…] Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti
sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave
colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista
dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non
era mai stato valido. […] La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione
eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita
contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. [….] La riconcilia-
zione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti
di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione
con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio,
l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di
astenersi dagli atti propri dei coniugi […]».
4 «Il Concilio sa che spesso i coniugi, che vogliono condurre armoniosamente la loro vita coniugale, sono ostacolati da alcune condizioni
della vita di oggi, e possono trovare circostanze nelle quali non si può aumentare, almeno per un certo tempo, il numero dei figli; non
senza difficoltà allora si può conservare la pratica di un amore fedele e la piena comunità di vita. Là dove, infatti, è interrotta l’intimità
della vita coniugale, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli: allora corrono pericolo
anche l’educazione dei figli e il coraggio di accettarne altri. […]» (Gaudium et spes, n. 51)
5 «Là dove, infatti, è interrotta l’intimità della vita coniugale, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso
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Se uno è fragile, la Chiesa deve “curare” la sua “fragilità”, non convertirlo. Non
convertirlo! Se uno è fragile in un altro senso, “curerà” questa “fragilità”, come
si cura una ferita, una menomazione; non convertirlo perché non c’è da passare
dal male al bene, né dal peccato alla Grazia – è un passaggio ontologico, è un
passaggio che riguarda l’essere della persona –, ma semplicemente c’è da “cu-
rare” una “ferita” che è dovuta alla situazione esistenziale, alle circostanze che
fondano, diciamo così, la “fragilità”.
Capite che, il cambiamento di parole, implica un grosso cambiamento.
Al convento dei frati minori dove vado io, la parola peccato non c’è più, viene
sostituita ormai sistematicamente dalla parola “fragilità” o dalla parola “debo-
lezza”. I peccati sarebbero delle “debolezze”.
Poi la parola “imperfezione” è molto significativa.
– E concludo col discorso del linguaggio. Poi, nel libro, faccio molti altri
esempi, perché è veramente importante. –
La situazione, chiamiamola di “fragilità” – che è la situazione di peccato (se-
condo il “vecchio vocabolario”) –, specialmente delle coppie che una volta
erano dette “irregolari”, è presentata sempre come un’imperfezione.
Però una cosa imperfetta – penso siate d’accordo con me – non è perfetta, ma
è comunque sulla via della perfezione. Cioè non è negativa, qualcosa di positivo
ce l’ha; sarà magari all’inizio, avrà fatto un primo “passino”, però non la puoi
condannare.
Se riconosci che è un’imperfezione, allora dovrai aiutarla a progredire, cioè a
sviluppare quel anche poco, magari, di positivo che ha. Allora una convivenza
prematrimoniale – naturalmente con attività sessuale – è un “matrimonio imper-
fetto”. Cioè è qualcosa di positivo – magari embrionalmente –, non di negativo.
Un “matrimonio imperfetto” che la cura pastorale della Chiesa non deve condan-
nare – perché non è un peccato –, ma, partendo dagli aspetti positivi che anche
nella convivenza prematrimoniale ci sono – perché se è un’imperfezione qualche
perfezione ce l’ha –, deve far crescere la cosa fino a raggiungere il matrimonio.
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Allora, capite che anche l’utero in affitto è “embrionalmente” una maternità che
avverrà nel matrimonio, quando sarà perfetta tra due persone che si amano e
aperte alla vita. Ma anche la “coppia omosessuale” allora è un “matrimonio in
embrione”. E anche lì bisognerà – e la “pastorale” oggi fa così – non condannare,
ma partire dal positivo che c’è.
Però il positivo che c’è, riguarda la relazione o le persone? Non può riguardare
la relazione, perché la relazione è sbagliata. Ma AL – in quel famoso brano che
è stato considerato sconvolgente – dice che la Grazia di Dio può essere pre-
sente anche nella relazione cosiddetta “irregolare”. Ma se è peccato, come fa
ad essere presente la Grazia di Dio? Il fatto è che non è più peccato: è “fragi-
lità”. E nella “fragilità” passa la Grazia di Dio che si prende cura dei “fragili”,
come si prende cura dei “poveri”, ecc., e li conduce amorevolmente verso il
meglio.
La nota 351 è veramente strabiliante. È stato detto che la nota 351…
Parlo sempre di una nota a piè pagina. Le note a piè pagina sono quelle che
nessuno legge mai. Teniamo presente quest’aspetto, che indica, come dire, una
metodologia un po’ insidiosa, non proprio chiarissima. Un modo di procedere
come quando si firma un contratto e ci sono le paroline microscopiche che
nessuno legge. Uno che presenta un contratto così, non è molto rassicurante.
Molti hanno detto che, in questa nota, papa Francesco ha aperto alla Comu-
nione ai divorziati “risposati” senza la Confessione. Non lo dice, però vediamo
un attimo.
Intanto, un po’ prima, lui dice – cioè al testo a cui si riferisce la nota –, lui dice:
«A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una si-
tuazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in
modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere
nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL, n.
305).
Questo è detto nel testo: “… si può vivere in grazia di Dio, si può amare, si può crescere
nella vita di grazia dentro una situazione oggettiva di peccato…”.
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Allora, uno che legge la nota, mette – anche se la cosa non viene detta – in
collegamento “in una relazione si può vivere in grazia di Dio”, i sacerdoti non devono
infierire, la Comunione non è solo “per i perfetti, ma anche per i deboli”. E siccome
due più due fa quattro, l’accesso sia implicitamente, non dichiaratamente… O
quanto meno è costruito il “quadro” in cui dentro il quale possa essere giusti-
ficato l’accesso.
Tant’è vero che di AL, come sapete meglio di me, sono state fatte molte inter-
pretazioni. Alcuni episcopati l’hanno intesa in un modo – negano l’accesso
all’Eucarestia –, altri episcopati in un altro modo – e lo concedono –. Il caso
più famoso è quello fra la Germania e Polonia, che sono ai confini. Al di là ci
si comporta in un modo, al di qua in un modo diverso. Quindi vuol dire che
non è detto esplicitamente, altrimenti non ci sarebbero queste interpretazioni
diversificate.
Però sapete che il Papa ha anche convalidato un’interpretazione: quella dei ve-
scovi argentini, in una lettera che è stata poi pubblicata negli Acta Apostolicae
Sedis; quindi è, diciamo così, magistero a tutti gli effetti.
Allora qui si assiste ad una cosa – mi permetto di dire – un po’ strana. Cioè il
testo di AL non lo dice.
Come dirò tra un attimo, il card. Caffarra, mons. Livio Melina, il prof. Kampo-
wski, il prof. Spaemann, dicono che il testo di AL non introduce nessuna novità
dottrinale, neanche in questo campo dell’accesso alla Comunione.
I vescovi argentini interpretano il testo inespresso, un testo che sul punto è
inespresso. Il Papa conferma un’interpretazione di un testo che quella cosa lì
non lo dice.
Tant’è vero che il card. Caffara ha detto, ha scritto testualmente: “Se il Papa
avesse voluto che si permettesse l’accesso alla Comunione, l’avrebbe scritto”. Ma qui, il card.
Caffarra è stato molto ingenuo. Perché la caratteristica di AL è di dire senza
dire. Per questo che molti, attenendosi ai criteri tradizionali, non hanno capito.
Perché, attenendosi ai criteri tradizionali, si può dire che in AL non c’è nessuna
novità.
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Ma il card. Kasper ha detto che “non cambia niente – cito testualmente – ma cambia
tutto”. Perché è cambiata la prospettiva.
Allora il card. Caffarra e tanti altri si sono attenuti alla vecchia prospettiva, per
cui quando il Papa insegna qualcosa, lo insegna in un certo modo. Ma ormai
AL testimonia la nuova prospettiva, che consiste nell’aprire processi, nella prassi.
È far emergere la nuova dottrina dalla prassi, dalla pratica, non definendo pre-
ventivamente la nuova dottrina. Questo è l’equivoco – così ho anticipato già
l’ultimo punto che volevo trattare –, l’equivoco principale nella ricezione.
Perché il card. Caffarra – poveretto! – dice: Se il Papa, in aereo, rispondendo
ad una domanda sulla nota 351 ha detto: “Non me la ricordo” … Il card. Caffarra,
nella sua ingenuità, si chiedeva – ma giustamente, a rigor di buon senso –:
“Come posso considerare questo un insegnamento dottrinale?”.
Però, ripeto ancora una volta, il card. Caffarra, secondo me, non ha capito –
perché lui era della vecchia mentalità – che adesso il magistero percorre altre
strade. Altre strade al punto che AL configura anche in modo diverso il ruolo
del Papa, il ruolo magisteriale del Papa. Perché ricordiamoci che il paragrafo 3
di AL dice la Dottrina può essere diversamente interpretata – lo dice testual-
mente –.
E, se vi ricordate, uno dei primi paragrafi dell’Evangelii gaudium (EG) diceva che
non tutte le questioni dottrinali devono essere risolta dal Centro, ma anche le
conferenze episcopali possono dirimere questioni dottrinali. Allora in questo
modo si viene a creare, nella Chiesa cattolica, un pluralismo dottrinale.
La differenza fra la prassi pastorale della Chiesa tedesca e quella della Chiesa
polacca, voi la definireste solo una differenza pastorale? Io la definisco una
differenza dottrinale, perché la nuova prassi presuppone una nuova dottrina.
Ed è questa la strada di AL: aprire nuove prassi – senza dire che si tratta di una
nuova dottrina –, ma prassi che presuppongono una nuova dottrina. Del resto,
ripeto, in EG il discorso di un decentramento dottrinale era stato annunciato.
Mi fermo qui per il discorso sul linguaggio, però ho trattato anche l’ultimo
punto, quello dell’equivoco sulla ricezione.
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affrontare i quali ci dà la forza della Grazia. Non ci lascia soli. Questo è il primo
punto fondamentale.
Abbiamo detto prima, a proposito della parola “imperfezione”, che l’irregola-
rità dei comportamenti morali viene vista solo un grado perfetto in se stesso,
non completamente perfetto, ma comunque con delle imperfezioni. Questo
deriva dall’intendere come ideale le proposte morali di Gesù Cristo.
Ma diceva il card. Caffarra: “Vorrei vedere io una donna, una sposa, alla quale
io suo sposo le dicesse: ‘Senti, il matrimonio, fra me e te, è un ideale che io
cerco imperfettamente di raggiungerlo’. Il matrimonio è una realtà, non un
ideale!”.
Questo è il primo punto: ideali o prescrizioni?
2) Secondo punto. Il rapporto fra Legge divina e legge naturale.
In AL l’espressione “legge naturale” non c’è mai – “legge morale naturale”. La
VS dedica paragrafi e paragrafi a spiegare che c’è una legge morale naturale a
cui l’uomo ha accesso anche con la ragione. Che però è in relazione con la
soprannatura e le permette di essere veramente se stessa e, allo stesso tempo,
la sviluppa e la perfeziona. Ecco, detto in due parole.
Per esempio, il divorzio… No, scusate, l’adulterio è anche un atto morale che
può essere esaminato dal punto di vista della legge morale naturale, razionale,
non solo dalla Legge positiva divina – che Gesù ha detto «saranno due in una
carne sola» (cfr. Mt 19; Mc 10) – certo quello poi conferma e purifica, rende
addirittura più esigente – la Legge divina – rispetto alla legge morale naturale.
Perché addirittura dice:
«Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma Io vi dico: Chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore»
(Mt 5, 27-28).
Quindi radicalizza, perfezionandola, la legge morale naturale. Però la legge mo-
rale naturale vale, va mantenuta. Non è che le Beatitudini (cfr. Mt 5, 3-12) ci
permettano di non seguire più i Comandamenti, che sono anche di legge
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morale naturale. Non è che noi pensiamo di meritare la vita eterna volendo bene
a Gesù, amando Gesù che è nel nostro cuore – come si dice oggi –, e non seguendo le
leggi del Decalogo. Non è possibile! Perché Gesù è il Creatore, quindi è l’autore
della legge morale naturale, non solo di quella Divina positiva.
Allora l’adulterio poteva essere analizzato anche dal punto di vista della ragione.
Però non viene affrontato in questo modo in AL; viene solo considerato, di-
ciamo così, un Precetto divino, o meglio un ideale proposto da Gesù.
3) Terzo punto. L’esistenza di precetti morali naturali negativi.
La VS insisteva molto suoi cosiddetti intrinsece mala, cioè azioni sempre malvage,
che nessuna intenzione buona può, diciamo così, legittimare; che non sono mai
da fare, in qualsiasi situazione.
L’AL non solo non riprende questa Dottrina, però con la sua concezione di
peccato come “fragilità”, evidentemente, qualcosa di assolutamente negativo
che non si debba mai fare, privo di attenuanti, non si possa fare.
4) Quarto punto. Il ruolo della coscienza.
La coscienza, per la VS, non crea mai la norma morale, ma la applica – la riceve
e la applica; la conosce e la applica. La applica anche in modo “creativo”. Non
prendete “applicazione” come qualcosa di automatico, di meccanico, di pas-
sivo. Ma la applica, non la crea.
In AL, anche se dottrinalmente non è che si dica l’opposto, però dall’interpre-
tazione del testo, si capisce invece che la coscienza ha anche un valore creativo.
Volete una prova? Per l’accesso alla Comunione, secondo le disposizioni scritte
e stabilite da molte conferenze episcopali, l’ultima decisione è della coscienza
del soggetto implicato. Quindi, nella concezione della relazione tra la norma e
la coscienza, c’è – in AL – un’iper-valutazione della coscienza, che va a danno
del corretto equilibrio tra questi due elementi.
5) Distinzione fra peccato mortale e peccato veniale.
Questo è un altro punto interessante. A parte il fatto che, almeno a me sembra
– l’ho letta ma potrebbe essermi sfuggita –, la parola “peccato” non c’è.
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Quindi non si parla né del peccato mortale, né del peccato veniale. Probabil-
mente si accenna con altri termini, però la distinzione tra i due sparisce e sem-
bra – almeno questa è una mia interpretazione – che esistano solo i peccati
veniali. Perché essendo che tutto dipende dalla situazione in cui uno si trova, e
dai condizionamenti della situazione, che sono attenuanti, può esserci solo il
peccato veniale, non il peccato mortale, che non ammette attenuanti.
6) Altro punto. L’aiuto della Grazia al credente.
Due persone divorziate “risposate” che decidono di “vivere come fratello e
sorella”, ce la fanno? Leggendo AL, per quel dubbio insinuato nella nota 329,
sembrerebbe di no. Ma con la Grazia tutto è possibile. Questa è la diversità
d’impostazione della VS. Con la Grazia tutto è possibile.
«L’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, diffici-
lissima: non è mai però impossibile» (VS, 102).
Questo è un altro punto.
7) L’ultimo punto è il concetto di misericordia.
L’AL insiste molto sul fatto che nessun peccato può cancellare la misericordia
di Dio. Però nella VS si insisteva molto di più nel dire che la misericordia di
Dio dà la forza di non peccare. E c’è tutta l’interpretazione del brano dell’adul-
tera (cfr. Gv 8, 1-11) che i due documenti leggono in maniera diversa.
Concludo. Mi sarebbe piaciuto anche mostrarvi come, secondo me, AL è stata
progettata, programmata nei minimi particolari, fin da quando è stato designato
il card. Kasper a tenere la lezione ai cardinali nel febbraio 2014 in vista del
doppio sinodo. Da allora, a quando è uscita – non ho tempo per farvi la croni-
storia dei fatti –, è plausibilissimo pensare che tutto sia stato programmato,
progettato e condotto avanti con grande scientificità e con grande coerenza.
L’altro tema – ne ho già accennato – è quello della ricezione che sta in
quell’equivocità, per cui i vescovi dell’Emilia-Romagna hanno chiamato “rela-
zioni coniugali” le relazioni tra conviventi, per esempio. Perché l’altro aspetto
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è che il discorso del linguaggio non è che finito con l’AL, ma continua. Cioè
c’è un uso del linguaggio ispirato da AL che, ormai, è diventato comune.
L’ultimo paragrafo del mio libro s’intitola così: L’ultima esortazione apostolica. Che
sia l’ultima esortazione apostolica di un certo tipo, che sia l’ultima esortazione
apostolica di un altro tipo, poco cambia. Perché qui è cambiato qualcosa di
grosso.
Gianni Baget-Bozzo diceva: “Dopo il Concilio Vaticano II pastorale, nessun papa si
azzarderà più a convocare un concilio dottrinale o dogmatico”. Io dico: “Dopo AL – non
voglio essere troppo negativo dicendo nessun papa – può essere che sia difficile, per
i nuovi pontefici, ritornare alla vecchia concezione di esortazione apostolica”. Ovvero que-
sta: i vescovi se la dicevano per mesi, ecc., però davano poi in mano al Papa i
loro risultati, e il Papa faceva un documento dottrinale. Per questo vi dicevo
che anche la figura del papato, con AL, rischia di cambiare.
Grazie mille.
Julio Loredo: Ecco, come avete visto, è stato un assaggio del libro. E mi au-
guro che lo prendiate.
Comunque, c’è una cosa interessante da sottolineare. Un documento pontificio
non è mai una cosa per le nuvole, non è mai qualcosa fatto per gli angeli. È il
documento di un Pastore che incide direttamente nella vita concreta delle sue
pecorelle.
Quindi un documento pontificio va visto anche nel contesto del processo sto-
rico nel quale s’inserisce. Per esempio l’enciclica…
Scusate, parentesi. Prima ho commesso un lapsus chiamando l’AL enciclica: è
un’esortazione apostolica. Mea culpa.
L’enciclica – questa sì – Pascendi Dominici Gregis, di condanna al modernismo, di
San Pio del settembre 1907, oltre al contenuto strettamente dottrinale, cioè al
testo, evidentemente aveva un senso di condanna a quella tendenza storica,
affinché non andasse – come poi è andata – verso l’eresia.
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Anche qui l’AL ha un senso non soltanto del testo, ma anche come “cala” nella
realtà concreta, oggi; nella quale realtà concreta c’è evidentemente un “ura-
gano” rivoluzionario in senso liberale, in senso libertario, in senso ugualitario,
di rompere qualsiasi norma morale, ecc. Come suona un documento di questo
tipo, in un ambiente come quello di oggi? Ecco, questo è l’aspetto pastorale
che diventa un aspetto essenziale, importantissimo del documento.
Detto questo, se ci sono delle domande, approfittiamo della presenza del prof.
Stefano Fontana.
Prima domanda: Quello che vedo è una consecutio da Paolo VI fino ad oggi. Perché
Paolo VI incomincia un po’ ad introdurre il principio mondano anche nella morale sessuale.
Poi anche Giovanni Paolo II si focalizza molto sull’amore umano. E poi si arriva a questo.
C’è una consecutio: non possiamo negarlo. Non le pare?
Stefano Fontana: La domanda è enorme, perché richiederebbe di ripercorrere
gli ultimi pontificati.
Io dico questo: da Paolo VI ci sono stati elementi di continuità, secondo questo
filone, che ha condotto a AL, però ci sono stati anche in Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI molti elementi in cui questo processo è stato trattenuto.
Qui non ho il tempo, ma Benedetto XVI può essere – anzi, deve essere – in-
terpretato anche in questo senso. Non che completamente si sia risolto il pro-
blema: è stato un trattenimento. Credo che la situazione di adesso sia diversa.
Sia tale per cui ogni trattenimento di un processo di secolarizzazione, chiamia-
mola così – di sintesi, per capirci –, non è più trattenuto, ma è promosso. Ed è
promosso dai vertici della Chiesa.
Seconda domanda: Ma alla fine moriremo cattolici? Cioè, nella Chiesa ormai ci sono
due “anime”, ma un corpo non può avere due anime. Cioè i due “orientamenti” si elidono,
si contraddicono, ma non si sovrappongono. E noi che vogliamo rimanere fedeli all’insegna-
mento della Chiesa di sempre, come dobbiamo comportarci?
Stefano Fontana: Noi dobbiamo sforzarsi di morire cattolici. E per cercare di
fare questo, bisogna che comprendiamo bene che cos’è – anche qui ci sarebbe
un percorso enorme – il senso della Tradizione a cui dobbiamo rimanere legati.
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Trascrizione a cura di Cooperatores-Veritatis.org
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stanno lavorando – non so quali teologi – e che le differenze fra cattolici e protestanti verranno
eliminate. La mia domanda è: verranno eliminate perché noi non andremo più a ricevere il
Corpo e il Sangue di Cristo, ma andiamo a ricevere una “memoria”, oppure verranno elemi-
nate perché loro verranno a ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo?
Stefano Fontana: Che la Chiesa cattolica si stia protestantizzando mi sembra
evidente. C’è stata tutta un’influenza della teologia protestante e della filosofia
protestante sulla teologia e sulla filosofia cattolica. E credo che anche questo
sia verissimo. Bisognerebbe dimostrarlo ma non c’è tempo.
Quindi, tra le due soluzioni, i due sbocchi che lei prefigurava, andando avanti
con questa logica, è quella a favore dei protestanti, non quella a favore dei cat-
tolici che si avvera.
Il motivo per cui il Papa dice questo è che lui dice sempre che bisogna cercare
ciò che si unisce e non ciò che ci divide. Però con i protestanti ci divide Cristo.
Non è che ci dividano cosa marginali o secondarie, ci divide la visione e la
concezione di Cristo.
Quindi bisogna recuperare anche ciò che ci divide. Perché ciò che ci divide,
identifica l’identità. E le identità sono diverse appunto perché una non l’altra.
Se poi estendiamo il discorso, volevo ricordare anche la famosa dichiarazione
di Abu Dhabi di papa Francesco, in cui lui ha firmato una frase secondo cui
Dio ha voluto tutte le religioni, vuole tutte le religioni. L’arcivescovo Schneider
ha scritto al Papa, chiedendo di precisare dottrinalmente questa faccenda, per-
ché è grave. Il Papa gli ha risposto, sempre per lettera, dicendo che lui l’ha
precisata in un Angelus domenicale. Precisando che, per volontà di Dio, lui in-
tendeva la volontà con cui Dio le permette, cioè la volontà permissiva. Le vuole,
ma non le vorrebbe… L’arcivescovo Schneider ha chiesto un’ulteriore precisa-
zione, perché questa faccenda qua è piuttosto grave, se lasciata così.
Quindi il discorso del dialogo con i protestanti potremo anche estenderlo al
discorso con le altre fedi religiose, su cui c’è attualmente una confusione di
notevole portata.
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della mia morte, io possa dire: Veramente, fui un uomo cattolico, tutto apostolico, ro-
mano, romano, romano!».
Infatti il suo epitaffio è: Fuit vir Catholicus, Apostolicus, plene Romanus (fu un uomo
cattolico, apostolico, pienamente romano).
Detto questo, perché l’ho detto? Perché questo è il nostro atteggiamento. E
finché ci saranno cattolici che abbiano la Chiesa nel loro cuore, la Chiesa ci sarà
sempre. Ha la promessa dell’indefettibilità, quindi la Chiesa… le porte dell’in-
ferno non prevarranno contro di Essa.
Quindi, qualcuno [del pubblico, ndt] ha detto, speriamo di andarcene prima
che finisca: non finisce! Punto. Quindi fiducia, fiducia, fiducia. Sempre avanti.
Di nuovo al prof. Fontana: Grazie mille.
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