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Palumbo
© Copyright by G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A. - 2008
Proprietà letteraria dell’Editore
Stampato in Italia
Indice
Inferno, canto I 15
2 Particolare e universale 19
3 L’enigma dell’inizio 23
6 Il cammino e la via 31
10 Proclamare il lutto 47
17 Completare il senso 77
19 Il realismo e l’individuo 87
Nota 109
Was sich sonst dem Blick empfohlen,
Mit Jahrhunderten ist hin!
…
Vorbei und reines Nicht: vollkommnes Einerlei!
…
Alles Vergängliche
Ist nur ein Gleichnis.
Il saggio che segue non è stato scritto per aggiungere conoscenze filo-
logiche o intertestuali alla critica dantesca. Chi scrive, contemporanei-
sta, non avrebbe le competenze adeguate e non ne ravvisa la necessi-
tà: su quel versante, al contrario, la bibliografia è sovrabbondante e
in continua espansione. Un primo scopo è piuttosto di indagare le ra-
gioni che hanno imposto a Dante di inventare un modo nuovo di rac-
contare e di definire il significato dell’esperienza umana e del mondo.
In questo senso la parola “allegoria” è usata in questo saggio, e già nel
suo titolo, in un’accezione alquanto diversa da quella solitamente im-
piegata negli studi danteschi, soprattutto in Italia: non è qui una fi-
gura retorica o un grado della scrittura ma una strategia di organizza-
zione del discorso e una modalità di rappresentazione della conoscen-
za. Il presupposto è che il salto esistente fra la Commedia e le opere
precedenti derivi da una catastrofe di civiltà, intuita e affrontata dal
poeta negli anni dell’esilio. Il tentativo, come si vede, è di collegare
gli elementi specifici del poema e la storia in cui prendono corpo, non
senza azzardare un cortocircuito che di certo apparirà discutibile a
molti. Ma piuttosto che onorare di correttezza procedurale un testo
inerte, chi scrive ha preferito scuoterlo e tormentarlo in modo perfi-
no brutale. La sua paura più grande infatti è che la Commedia diven-
ga un oggetto specialistico, di scarso interesse per i lettori comuni e in
particolare per i giovani; un documento archeologico. Ed ecco il secon-
do scopo: mettere il capolavoro di Dante a contatto con il nostro mon-
do e la nostra sensibilità. Un secondo presupposto è che al presente si
vada determinando, e si sia già in gran parte determinata, una cata-
strofe di civiltà paragonabile a quella diagnosticata da Dante sette se-
10 Dante e la nascita dell’allegoria
coli fa; e che egli abbia qualcosa da dirci. La forza della voce lontana
di Dante sta però nella sua alterità, e per questo nel contatto fra il suo
mondo e il nostro non si è puntato all’omologazione ma alla distinzio-
ne. Non abbiamo bisogno di un contemporaneo, magari da addome-
sticare con le nostre cure critiche, ma di un diverso da noi; e di un
modello di significato capace di sopravvivere alla catastrofe. Il terzo
presupposto, dunque, è che Dante abbia da dire oggi a noi una cosa
diversa da quella finora comunicata ai lettori, e che in questa novità
stia la sua vita. Sforzarci di ascoltarla è il nostro compito.
1.
Il compito del traduttore
tra parte una filosofia della storia capace di fissare ogni particolare en-
tro la logica provvidenzialistica universalizzante. È la filosofia della
storia che legge nella personale vicenda di Dante la universale vicen-
da dell’umanità, e può collocare entro un’eguale intenzione divina di
soccorso tanto l’agire dei protoromani Eurialo e Niso quanto quello
dei loro antagonisti Camilla e Turno (vv. 107-108).
È tuttavia un’eredità inaridita, che proprio la Commedia si inca-
rica di liquidare, sostituendo al cortocircuito simbolistico fra partico-
lare e universale il processo allegorico della ricostruzione intellettua-
le. A questo rinnovamento dei modi di costruire il significato bisogne-
rà dedicare, riflettendo sul primo canto del poema, una speciale atten-
zione: il canto proemiale, infatti, più ancora che introdurre alla vicen-
da narrativa, ha la funzione di definirne le modalità organizzative; sta
lì, insomma, per educare il lettore a una tecnica di rappresentazione
fantastica in gran parte inedita e innovativa, almeno per un poeta,
quella che abdica dal modo simbolistico e abbraccia appunto l’allego-
ria. Intanto, però, quel Dante che presto renderà impossibile attribui-
re un significato alle parole-chiave «cammino» o «selva oscura» o «di-
ritta via» senza collocarle all’interno di un sistema di relazioni concet-
tuali e di convenzioni antropologico-culturali, cioè senza imporne la
decifrazione secondo la tecnica allegorica, quello stesso Dante chiede
di leggere «nostra vita» come ‘vita degli uomini in generale’ e al tem-
po stesso come ‘vita di un soggetto unico’, dunque come universale e
come particolare insieme; chiede, cioè, di applicare un principio di de-
cifrazione simbolica. Così Verdi, nell’estremo Te Deum, apre con una
pagina di gregoriano il successivo sviluppo audacemente polifonico,
imponendo all’ascoltatore di registrare le radici della costruzione
contrappuntistica, ovvero di fissare contemporaneamente l’antico e il
nuovo, soffrendo l’esperienza straniante che ne deriva; una modalità
che l’arte moderna ripeterà molte volte, e, per restare alla musica, per
esempio, da Stravinski a Hindemith.
Dante, dunque, vuole che il lettore riconosca subito un modo ben
familiare di descrivere la realtà attribuendole senso, cioè di descrive-
re il particolare attribuendogli universalità. Lo vuole con tanto mag-
gior forza quanto più è sul punto di proclamare la perdita di tale tra-
sparenza conoscitiva e la fine del sistema di valori che a essa era im-
plicita. Lo smarrimento nella selva, anzi, è anche e innanzitutto lo
smarrimento di questa corrispondenza simbolistica fra particolare e
universale, il procedere sul mondo di un velo che copre la trasparen-
za delle relazioni di senso, l’oscurarsi del brillare fenomenico quale im-
mediatezza semantica.
Particolare e universale 21
La novità che sta per essere proclamata sul piano della tecnica
rappresentativa non è infine meno audace di quella che segna la
materia della rappresentazione: un aldilà realisticamente caratterizza-
to. Questa novità era tale per il lettore del tempo di Dante e lo è per
quello di oggi: il lettore del Medioevo era abituato a forme di rappre-
sentazione che cogliessero l’universale nel particolare; il lettore di og-
gi ha perso la fiducia nella possibilità di una relazione affidabile fra i
due piani. Per il lettore suo contemporaneo l’audacia di Dante consi-
steva nel revocare in dubbio la trasparenza magica tra contingenza e
trascendenza, tra cosa e significato, imponendo un processo ricogni-
tivo fondato sull’allegoria del viaggio, dunque del dispiegamento
mondano di descrizione, di conoscenza, di ragionamento. Per il letto-
re nostro contemporaneo l’audacia della Commedia risiede innanzitut-
to, ben diversamente, nella dantesca certezza tuttavia perdurante che
fra particolare e universale, fra esistenza individuale e destino ultimo,
fra fenomeno e significato persista un nesso, per quanto bisognoso di
essere rintracciato in un complesso sistema di mediazioni e rico-
struito in un processo. Ammettiamo pure che il fascino di Dante agli
occhi moderni consista in buona misura nella sua percezione precoce,
e perfino profetica, della rottura dell’equilibrio antico tra dato e
senso; ma d’altra parte non meno nella intatta fiducia nella possibili-
tà di reintegrare il vuoto precipitato fra cosa e significato.
Fascino a parte, tuttavia, non possiamo nasconderci che il lavo-
ro critico richiesto al lettore moderno è particolarmente arduo, se egli
dovrà da una parte, per correttezza storico-filologica, ricostruire il si-
gnificato che il gesto di Dante assume rispetto ai codici preesistenti,
in particolare valutando appieno il peso rivoluzionario dello strumen-
tario allegorico chiamato a rimpiazzare i vecchi procedimenti simbo-
listici; e però anche, dall’altra, per essere filosoficamente adeguato al-
la propria attualità, illuminare il significato che la soluzione dantesca
sprigiona al cospetto del nostro tempo.
Ancora una volta, il momento della parafrasi è quello decisivo per
valorizzare entrambi gli aspetti della questione, purché la parafrasi evi-
ti di ridursi a mero supporto filologico del testo, limitandosi a una fun-
zione di archeologia semantica, e non di meno eviti di gettare disin-
volti ponti di senso fra il testo e il lettore, ovvero fra l’antico e l’at-
tuale. Infatti né il nostro presente può essere pensato come orizzon-
te pacificato di significato alla luce del quale (cioè secondo i protocol-
li semantici del quale) spiegare l’antichità del dato testuale, ricondu-
cendo il lontano (misterioso) al prossimo (noto), né dunque esiste già
una lingua – inspiegabilmente esente da opacità – che parli con noi di
22 Dante e la nascita dell’allegoria
L’eroe dantesco, abbiamo detto, vive dunque la sua avventura per ren-
dersi degno di morire. Infatti, se la vita costituisce un cammino, la me-
ta coincide con la morte. Anche da questo punto di vista, la distanza
dal modello cavalleresco e soprattutto da quello moderno non potreb-
be essere maggiore. Per i moderni la vita non è un cammino, non è un
viaggio; ma se pure tale si volesse considerare – per l’inerzia di una
metafora morta –, sarebbe un cammino o un viaggio che ha il proprio
fine in se stesso, o nell’autoaffermazione individuale. Nel poema, in-
vece, se si esclude il fine, il viaggio non ha più né significato né ragion
d’essere. La differenza fra noi e Dante è all’incirca quella che distin-
gue un viaggio turistico da un pellegrinaggio alla volta di una rilevan-
te meta religiosa. Il viaggio di Dante assomiglia al secondo perché
prende valore dall’arrivo. Solo la funzione di testimone destinato do-
po il ritorno sulla Terra a riferire del proprio viaggio introduce nel
complesso paradigma del poema una complicazione, traendo dal mo-
dello religioso un compito secolarizzato. Ma è evidentemente un
aspetto diverso della questione.
La centralità dell’equivalenza allegorica vita-cammino per la
possibilità di leggere correttamente il significato del viaggio dantesco
è sancita anche dalla collocazione della parola «cammin» al culmine del
primo verso del poema, e della parola «vita» alla fine di esso, quale
prima parola-rima (da legare, non senza surplus semantico, al succes-
sivo «smarrita» e magari a «via»). Poco meno rapida è la comparsa
sulla scena dell’antagonista «morte» (v. 7), in un verso forse più tor-
mentato del dovuto dagli interpreti e tuttavia egualmente ambiguo:
«Tant’è amara che poco è più morte». Alcuni hanno riferito l’amarez-
28 Dante e la nascita dell’allegoria
basso loco» (v. 61), cioè verso la selva e la valle, incalzato dalle tre fie-
re e dalla lupa in particolare, dopo aver, non certo casualmente, con-
fessato: «io perdei la speranza de l’altezza» (v. 54). D’altra parte, e
per citare solo alcuni fra i tanti elementi di supporto, il leone incute
al protagonista «paura» (v. 44), condizione connessa, come si è visto,
alla valle e alla selva; la lupa gli trasmette «gravezza» (v. 52), il cui si-
gnificato – benché i commentatori insistano a decifrarlo (addomesti-
carlo) nel senso di ‘affanno, angoscia ecc.’ – sarà in primo luogo lo
stesso dell’unico altro passo in cui compare entro il poema (Inf.
XXXII, 73), e cioè ‘pesantezza’; e la pesantezza fa scendere verso il
basso. Ancora, Dante, intravisto il colle assolato, trasforma subito la
riconquistata serenità in un cammino verso l’alto, e resta fermo il pie-
de che è più in basso (v. 30). E si noti come, anche in questo caso, al
sostantivo «paura» (v. 19) tocchi di segnalare la relazione con lo spa-
zio, se il quietarsi della paura consente quell’innalzamento che la sua
presenza invece impedisce (ai vv. 6, 15 e 44). D’altra parte, nel can-
to seguente sarà ancora una crisi di paura – subito denunciata e rin-
tuzzata da Virgilio – a ripresentare per il protagonista il rischio di do-
ver rinunciare al viaggio e di riprecipitare, di conseguenza, nella sel-
va (cfr. Inf. II, 45 e 122, dove tuttavia è usato il sostantivo «vilta-
de»/«viltà», dovendosi evidentemente il meno nobile e più radicale
«paura» restare confinato alla solitudine dell’esordio; né, usato ben
quattro volte nel primo canto dell’Inferno, il sostantivo tornerà più pri-
ma del Paradiso, dove compare due sole volte). Infine, a dare fiducia
al protagonista concorre il fatto che «il sol montava ’n sù con quelle
stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quel-
le cose belle» (vv. 38-40).
Quest’ultimo riferimento al sole che va verso l’alto ha un’impor-
tanza particolare, anche perché viene esplicitamente nominata qui, a
questo proposito, la partecipazione di Dio all’ordine universale (e il let-
tore scoprirà che lo stesso richiamo all’amore divino quale motore del-
l’universale armonia degli astri è collocato a concludere, cento canti
più tardi, il poema). Il collegamento sole-alto-Dio-movimento che i vv.
38-40 postulano costituisce la conferma e il suggello della complessa
costruzione compiuta dal poeta nei versi che precedono, e in partico-
lare nei primi diciotto del canto. Anche le rime cooperano peraltro,
anche in questo caso, a definire una sorta di surplus semantico, o di
scorciatoia narrativa, legando – con la serie «cammino: mattino: divi-
no» – il tema della vita/viaggio alla meta teologica per il mezzo pre-
gnante della luce (e una serie proprio opposta è invece «oscura: dura:
paura»).
38 Dante e la nascita dell’allegoria
Perché il sole possa alludere a Dio, perché possa cioè offrirsi valida-
mente (in modo riconoscibile e convenzionalmente fondato) quale fi-
gura di Dio, è necessario che esso venga accolto nel poema così come
viene effettivamente vissuto e inteso fra gli uomini e nella storia. An-
che questo fatto costituisce una rivoluzione radicale, le cui conseguen-
ze sull’arte e sulla civiltà occidentali diverranno valutabili solo più tar-
di; ed è una rivoluzione connessa alla costituzione del procedimento
allegorico.
Per capire l’importanza di questa rivoluzione è necessario consi-
derare come nella prospettiva del simbolismo medievale il principio di
realtà avesse un valore molto relativo, e perfino negativo. L’universo
postulato dalla cultura del simbolismo – abitato da bestiari, erbari, la-
pidari e in genere costruito in una prospettiva che ai nostri occhi può
apparire per molti versi magica – non considerava la descrizione
della realtà un vincolo al meccanismo della sua interpretazione, né un
valore ai fini del rinvenimento del significato delle cose. La differen-
za fra l’animale effettivamente noto e quello favoleggiato – la diffe-
renza, s’intende, ai fini della conoscenza profonda delle cose – era va-
lutata in termini di efficienza culturale e sociale. Per meglio dire, la
corretta valutazione della realtà nota, cioè della realtà materiale, ripo-
sava sulla capacità da parte di una interpretazione di trascendere la re-
altà stessa, almeno quale essa si presenta agli occhi del mondo. Il sot-
tinteso del simbolismo medievale è infatti duplice: da una parte esso
considera i dati e i fenomeni quali segnali di una dimensione ulterio-
re coincidente con la sola verità che conta, quella trascendente, né al-
cun evento sensibile è pensabile al di fuori di questo cortocircuito at-
44 Dante e la nascita dell’allegoria
verimento! In realtà, se nel sole (qui ricordato per la terza volta in me-
no di mezzo canto) è stata riconosciuta una figura della divinità, co-
me non assegnare al traslato sensoriale un significato anche pienamen-
te proprio, stante la centralità del rapporto fra Dio e parola nella mi-
tologia cristiana? Se si applica anche a questo caso – e si deve appli-
care – il sistema allegorico dei parallelismi e delle contrapposizioni, ne
consegue, stabilito il rapporto con i vv. 17-18 (che alludono alla
guida diretta del sole), che il modo in cui il sole di cui qui si parla gui-
da gli uomini è servendosi della parola: una conferma ulteriore del si-
gnificato trascendente (e cristiano) del sole.
L’espressione «’l sol tace» indica in modo pregnante come il ti-
po di parola che emana dal sole sia una parola-luce: le grandi vetrate
delle cattedrali gotiche davano in quegli anni una manifestazione tan-
gibile di questa concezione, cui anche Dante aveva contribuito con la
stagione stilnovistica della sua arte. Tuttavia, ancora una volta, è giun-
ta una svolta storica che ha opacizzato la lucentezza del verbum
cristiano; e come non è più possibile arrampicarsi direttamente ver-
so la sommità del colle, così è negata la presenza di una parola-luce.
Per tornare in condizione di fruirne, il pellegrino dovrà conquistare
i cieli extrastorici del Paradiso.
Dove la parola-luce sia negata e impossibile, cioè nell’inferno del-
la nuova civiltà affaristico-imprenditoriale che si affaccia dietro il pro-
cesso di secolarizzazione in corso nella società comunale, l’alternativa
al silenzio è un genere nuovo di parola, che persegua sul piano della
ricostruzione argomentativa quel significato che non balugina più
nella luminosità del verbum. Di questa parola nuova, audacemente ter-
rena e realistica, la Commedia darà innumerevoli esempi, prima che
«ciò che per l’Universo si squaderna» si mostri nuovamente, con la vi-
sio Dei, «legato con amore in un volume» (Par. XXXIII, vv. 86-87).
E intanto il colloquio con Virgilio ne dà una prima audacissima prova:
maestro anche nei dialoghi, Dante inaugura la serie con un attacco ric-
co di pathos, una fra le ragioni che garantiscono, oltre che l’importan-
za, la riuscita artistica di questo canto, a torto più studiato che ama-
to. Abbiamo letto «tace» (v. 60), abbiamo letto «lungo silenzio» e
«fioco» (v. 63); e di schianto – acuito dal rimando al «gran diserto»
– ecco questo «gridai a lui», il vero atto di nascita del personaggio pro-
tagonista. Finora lo si è visto smarrito, assonnato, spaventato, solo bre-
vemente rincuorato e subito vinto dalle difficoltà, infine rovinosamen-
te volto verso l’abisso. Certo, per un attimo ha guardato in alto, spe-
rando di poter scalare il colle verso la luce e la salvezza; ma si è trat-
tato quasi di un peccato di hybris, o almeno di una velleitaria illusio-
Una nuova parola 63
ne: se quel gesto fosse davvero bastato a riaprire la partita, allora la sel-
va non sarebbe più stata terribile quanto la dichiara la sfilza di agget-
tivi al v. 5. E invece è ora, gridando nel deserto come il profeta, che
il protagonista esce veramente dallo stato di passività, prende coscien-
za della propria condizione, inizia a battersi per tentare un rimedio.
Molti lettori hanno colto l’importanza delle prime parole pronun-
ciate dal pellegrino, le prime, fra l’altro, che risuonino sulla scena del-
la Commedia: una richiesta di aiuto affidata a un salmo (il L di David)
e a una parola latina, quasi un modo per congiungere subito i vertici
della propria formazione sincretistica, la Bibbia e la classicità pagana
(Virgilio in testa). Non meno importante è però forse quel «gridai a
lui», e quella toccante specificazione «qual che tu sii, od ombra od
omo certo» (v. 66): in un poema irto di incontri e fondato su colloqui
– e spesso colloqui a due –, questo erompere della comunicazione e
della richiesta di comunicazione sembra alludere a un livello non tra-
scurabile della novità dantesca. Dante, certo, chiede all’apparizione
misteriosa un soccorso concreto; ma si direbbe che non meno chieda
di essere udito e di ricevere risposta. È un «grido» non meno «affet-
tuoso» di quello che il protagonista rivolgerà ai due cognati cinque
canti dopo, capace di vincere l’inerzia della memoria storica e di richia-
mare in vita lo stramorto Virgilio, costringendolo a passare dal «lun-
go silenzio» alla autopresentazione dei vv. 67-75. E dopo le sferzan-
ti domande (retoriche) dei vv. 76-78, Dante suggellerà il riconoscimen-
to del suo modello letterario esaltandone innanzitutto la facoltà dia-
lettica:
gio”» (v. 91). Come è ormai negata la possibilità della via diretta al
colle, dell’ascensione epifanica, così è impraticabile la poetica che ne
costituiva l’espressione stilisticamente omologa. La Commedia non po-
trà più puntare sul «bello stilo», né sull’«onore» che da esso era de-
rivato. L’altro viaggio da tenere è anche una parola nuova, dialogica
e realistica; una parola che dica la frattura del legame epifanico fra co-
sa e senso e si incarichi di risarcirlo: una parola nuova per una poesia
nuova.
15.
Il rimedio del dialogo
cate. Si affaccia così una dimensione laica e mondana della parola che
sembra perfino anticipare – nei modi, non nei fini – la prospettiva del
Decameron: solo che nel mondo di Boccaccio gli effetti dinamici
della parola e la sua costitutiva problematicità andranno misurati sul
successo terreno e sull’efficacia immanente, laddove nella Commedia
il valore della parola sarà sempre riferito a un fine trascendente che
coincide con il successo ultraterreno, cioè con la salvezza. Anche in
questo caso la dimensione allegorica dantesca è costituita quale neces-
sità di misurare su parametri laici scopi religiosi, cioè di seguire un per-
corso problematico e aperto al fine di raggiungere una meta che ricom-
ponga in unità il molteplice. Come l’autorità imperiale è un rimedio
alla caduta sociale dell’umanità, così il processo allegorico, con tutte
le sue dipendenze (inclusa la relativizzazione dialettica della parola),
è un rimedio alla caduta epistemologica.
La necessità di riconnotare la parola in una prospettiva di costru-
zione del senso produrrà ora i grandi conflitti più o meno espliciti, co-
me quello esemplare con Farinata, ora le progressive acquisizioni di
esperienza fruite dal protagonista; e in ogni caso getterà in una dimen-
sione processuale la sfera della verbalità. È un tirocinio che il pellegri-
no deve scontare, fino a sentirsi dichiarare da Beatrice l’opportunità
di dire la sete per avere da bere (Par. XVII, 7-12), cioè la necessità di
comunicare anche in Paradiso, verbalmente, le proprie curiosità,
nonostante la facoltà dei beati di leggergli nel pensiero, in vista di una
dimensione terrena priva di ogni immediatezza comunicativa. In
questo modo, perfino l’esperienza della perfetta identità di parola e co-
sa che qualifica la tappa paradisiaca del viaggio si propone quale op-
portunità propedeutica alla vita sociale segnata dalla caduta, dalla con-
fusione babelica e infine dalla intermissione della continuità fra ver-
bum e res. La raccomandazione di Beatrice sembra peraltro offrirsi an-
che quale implicita risposta alla meraviglia sottintesa nelle parole di
Dante, allorché Virgilio – il «savio gentil che tutto seppe» (Inf. VII,
3) – gli chiede «“Ma tu perché ritorni a tanta noia? / Perché non sa-
li il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?”» (vv. 76-
78): «“Vedi la bestia per cui io mi volsi ecc.”» (v. 88). È come se lo
sventurato protagonista dicesse: perché mi chiedi ragione della mia ri-
nuncia a salire sul colle e della mia fuga verso il basso? Non vedi for-
se da solo, anche senza che io ne parli, la causa del mio comportamen-
to? Dante, cioè, non ha ancora capito che il viaggio a lui destinato non
avrà i caratteri della “visione” ma caratteri nuovi, in cui la dichiara-
zione verbale del proprio mondo interiore costituirà un passaggio ine-
vitabile della conoscenza e della crescita spirituale; benché lui stesso,
Il rimedio del dialogo 67
Primo cominciamento
Era venuta ne la mente mia
la gentil donna che per suo valore
fu posta da l’altissimo signore
nel ciel de l’umiltate, ov’è Maria.
Secondo cominciamento
Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil cui piange Amore,
entro ’n quel punto che lo suo valore
vi trasse a riguardar quel ch’eo facia.
5 Amor, che ne la mente la sentia,
s’era svegliato nel destrutto core,
e diceva a’ sospiri: «Andate fore»;
per che ciascun dolente si partia.
Piangendo uscivan for de lo mio petto
10 con una voce che sovente mena
le lagrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quei che n’uscian for con maggior pena,
venian dicendo: «Oi nobile intelletto,
oggi fa l’anno che nel ciel salisti».*
Non si dice nulla di nuovo ammettendo che il terreno sul quale Dan-
te soprattutto applica la sua originale strategia realistica è quello del-
la lingua. Già nella precisione differenziale del lessico, la sua è una lin-
gua popolata di individui concreti e particolari. Anche solo relativamen-
te allo spazio fisico del territorio qui considerato, ecco la «valle», lo
«passo», la «piaggia», l’«erta»; e poi la «selva», il «colle» (base e ver-
tice), il «basso loco», il «gran diserto». È bandita ogni genericità; e non
meraviglia che la specificità innanzitutto lessicale della descrizione dan-
tesca abbia indotto l’elaborazione di atlanti topografici. Qui la lingua
non è fatta per evocare ma per definire. Non è più infatti da ogni sin-
gola parola che può sperarsi l’illuminazione, simbolisticamente: come
la realtà di cui parla, anche la lingua è divenuta muta e opaca; e non la
parola singola ma il sistema della lingua nel suo complesso può semmai
ancora concedere il privilegio del senso. La lingua non è più l’accesso
epifanico alla totalità del mondo, ma piuttosto uno strumentario
mondano di orientamento secolarizzato: serve a descrivere e può vale-
re a interpretare. La parola stessa ha anzi patito la scissione dal signi-
ficato: può essere la cosa e può essere l’idea, non può più aspirare a
esprimere l’unità di cosa e idea, come nella stagione del simbolismo. La
lingua deve perciò proporsi quale strumento di riunificazione dialetti-
ca di cose e idee, secondo una strategia che ne faccia l’equivalente rea-
listico del mondo delle cose quali esse sono disseminate nel tempo e nel-
lo spazio – e di qui l’allargamento “comico” del lessico e degli stili –,
e nello stesso momento ne faccia anche lo strumento fondamentale di
ricostruzione sistematica di relazioni e di gerarchie. Alla parola sta di
inseguire la dispersione dei significanti messa in moto dalla catastrofe
98 Dante e la nascita dell’allegoria
Ora, se non può esservi dubbio circa il significato del sistema al-
legorico fondamentale, costruito su quella legge dei parallelismi e del-
le contrapposizioni di cui si è detto nei §§ 7-8, alquanto meno certa
è la specifica valenza del colle. I commentatori hanno d’altra parte ri-
conosciuto nel sole una raffigurazione del divino, e nella selva il
suo contrario; ma sul valore specifico del colle, ecco invece una curio-
sa alternanza di diaspora interpretativa e di ecumenismo generico. E
se la prima produce ipotesi alquanto fantasiose, dal secondo scaturi-
sce un accordo invero poco fruttuoso: «la felicità terrena» (Bosco-Reg-
gio) e «la vita virtuosa e ordinata» (Sapegno) sono le conclusioni di
una tradizione tutt’altro che recente. Il colle, cioè, non esisterebbe in
quanto tale, ma solo al fine di alludere ad altro: proprio in barba a un
fondamento della strategia allegorica – ricordata anche nella epistola
a Cangrande –, secondo cui il senso allegorico non può che fondarsi
sul letterale e la seconda verità dell’allegoria non può che manifestar-
si quale adempimento di una verità di carattere realistico. Ora,
avremmo qui un colle ipotetico il cui adempimento non avrebbe
nulla a che fare con un colle, risolvendosi in un insieme di atteggia-
menti astratti: felicità, virtù, ordine.
Tre ordini di ragioni spingono invece a leggere in questo colle una
raffigurazione del monte purgatoriale. La prima ragione è di tipo in-
tertestuale, e potrebbe bastare da sola alla causa. La seconda ragione
è nella logica della strategia allegorica complessiva di questo canto. La
terza ragione, infine, è di tipo strettamente linguistico-retorico, a pat-
to di annettere alla lingua e alla retorica una funzione importante nel
sistema figurale.
L’attribuzione del significato di “vita virtuosa e felice” si fonda
fra l’altro su un successivo passaggio del canto, nel quale Virgilio de-
finisce il colle «dilettoso monte». Ma rileggiamo l’intero passo:
«[…]
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
Come non cogliere nelle domande della guida una punta di sfer-
zante ironia? È come se Virgilio dicesse: “Ti accorgi bene, ora che
vorresti salire sul colle, quanto sia difficile recuperare le facoltà per-
dute con l’abitudine a vie torte e buie e basse!”; ovvero: “Ti accorgi
bene, ora che vorresti intraprendere un cammino di purificazione e
riavvicinarti a Dio, come l’abito del peccato non si possa dismettere
100 Dante e la nascita dell’allegoria
Come nel primo dell’Inferno Virgilio, che ben conosce gli ostaco-
li del pellegrino, lo pungola nel chiedergli perché non salga verso i di-
letti del monte luminoso, così qui Beatrice, sulla cima del Purgatorio,
apre la requisitoria contro il suo fedele chiedendogli, dopo averlo aiu-
tato in ogni modo a raggiungere quella meta, come egli abbia osato di
conseguire quel luogo felice. La stessa espressione «dilettoso monte»
impiegata dalla prima guida si ripresenta nelle parole della seconda,
scissa in «monte» e «felice». È da escludere – come pure ad alcuni in-
terpreti è parso possibile – che Beatrice parli seriamente, per rimpro-
verare davvero Dante di aver osato un viaggio siffatto e conseguito
l’arrivo nell’Eden. A prescindere dalla dominante sarcastica delle pa-
role di Beatrice in questo canto e nel successivo (dove arriverà a chia-
mare «barba» il volto di Dante per accusarne la avanzata maturità),
evidentemente la beata è ben felice di questo arrivo, e se qualcosa in-
tende qui lamentare è solamente – al di là del rovesciamento ironico
– la sua lentezza; quasi dicesse: “Ti sei finalmente degnato di salire sul
monte! eppure lo sapevi da tanto tempo che solo qui si trova la vera
felicità!”. Il più evidente sarcasmo di queste due domande si specchia
in quello delle altre due rivolte a Dante da Virgilio sessantaquattro
canti prima. Ora, come Beatrice dicendo «monte» allude a quello del
Parlare del colle 101
te fisico della montagna una pulsante figura umana: piedi, spalle, ve-
stiti… Cioè, per dir meglio, la metafora, insistendo sull’area seman-
tica del corpo umano, innalza due corpi in parallelo: quello del refe-
rente realistico montuoso e quello di un’allegoria antropomorfica. Ora,
come non ricordare tanto che il Purgatorio è il grande dono concesso
da Dio all’uomo, quasi un’immagine vivente dell’umanità redenta,
quanto che sulla cima del monte purgatoriale Dante incontra il Para-
diso terrestre, il luogo originariamente destinato da Dio all’umanità
(«fatto per proprio de l’umana gente»: Par. I, v. 56)?
La grande figura umana che traspare dietro il colle sembra voler-
ne orientare l’adempimento figurale anche in quanto rivela di lacuno-
so e incompleto: se le spalle costituiscono la sommità del colle, tutta-
via a completare un corpo ideale di uomo manca ancora la testa, cul-
mine non solo fisico dell’identità umana, e questa non può che esse-
re riconosciuta in qualcosa che si collochi al di sopra del colle, cioè nel
sole. Al quale spetta dunque di adempiere l’integrale identità umana:
della storia in genere, e del destino particolare di Dante.
22.
Il momento dei lupi
tati nel saggio sono quelli fortunati di Bosco-Reggio (Le Monnier, Fi-
renze 1988) e di N. Sapegno (La Nuova Italia, Firenze, 1985). Dove-
roso segnalare, fra i molti altri commenti consultati, quelli di A. M.
Chiavacci Leonardi (Mondadori, Milano 1991) e di E. Malato (Sag-
gio di una nuova edizione commentata delle opere di Dante. Il canto I
dell’«Inferno», Salerno, Roma 2007).
Una parte del § 18 è già stata pubblicata su «Allegoria» quale
commento del capitolo XXXIV della Vita nuova (VI, 16, 1994, pp.
88-98) e poi raccolta in Parafrasi e commento, Palumbo, Palermo
2003, pp. 53-64; alcuni passaggi del § 22 riprendono qualche paragra-
fo di Perché leggere Dante (oggi)?, uscito pure su «Allegoria» (XI, 31,
1999, pp. 43-50) e poi raccolto in La strana pietà. Schede sulla lettera-
tura e la scuola, Palumbo, Palermo 1999, pp. 15-24.
Senza le discussioni sullo statuto del simbolo e dell’allegoria
svolte durante le riunioni redazionali della rivista «Allegoria» e sen-
za gli studi teorici del mio maestro Romano Luperini su questi temi
e sulla questione dell’attribuzione del significato questo saggio non sa-
rebbe stato scritto.
Un ringraziamento particolare va poi agli amici che hanno letto
e discusso questo saggio prima della pubblicazione – Daniela Brogi,
Tiziana de Rogatis, Raffaele Donnarumma, Natascia Tonelli, Luigi
Trenti –, anche se la gratitudine per l’incoraggiamento che mi hanno
trasmesso non può che andare unita al rammarico di non aver saputo
meglio far tesoro dei loro consigli preziosi.
Un ringraziamento infine agli amici editori, che accolgono anco-
ra una volta un mio libro per piccolo mercato, a condividere una co-
mune passione per i valori della cultura e della ricerca.
Finito di stampare dalla Luxograph s.r.l.
per conto della G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A.
Palermo, dicembre 2008