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C’è troppo rosso

Avevo poggiato sul tavolo accuratamente un libro pieno di


immagini colorate, un telefonino, un ukulele e dei soldi. Era
il momento della verità: il sole splendeva e irraggiava la
stanza e il tavolo attraverso la finestra aperta. Mio figlio
ormai aveva imparato a camminare da alcune settimane, così
lo lasciai lì, solo e senza altre alternative (la stanza era spoglia
e non forniva alcuno stimolo diverso, se non quello della
scelta). La luce, inoltre, era quasi accecante, divina direi.
Oggi avrei capito l’inclinazione sua. Non l’amavo
abbastanza, forse non l’amavo affatto: sua madre, una
prostituta che lo ha cacato sul davanzale della mia porta, è
scappata, presumo. Quel giorno era fermo, freddo e inerte;
solo le palpebre un leggero movimento, per far calare le
lacrime, suggerivano. Ero impietosito: aveva pezzi di feci
ancora attaccati sulla testa e sulle cosce.
Dopo averlo messo a terra, iniziai a scrutarlo guardingo. Per
valutare successivamente la sua scelta con ancora più
attenzione, stavo riprendendo il tutto con una vecchia
videocamera usata da me qualche lustro passato per girare
filmini pornografici venduti ai miei amici.
Controllavo la messa a fuoco, quando quella piccola palla
di carne sudaticcia, prese in mano quell’aggeggio con i pixel
colorati così velocemente che non feci in tempo per girarmi.
Ero irato. È come scoprire l’omosessualità di tuo figlio
scovandolo succhiare un enorme pene, nella sua stanzetta
con la foto di famiglia e quella con la sua ragazza accanto il
suo letto.
Caricai, caricai forza sulla gamba destra per scattare
velocemente. Il mio calcio lo scaraventò fuori, fuori dalla
finestra.
I bambini hanno le ossa elastiche, ma non abbastanza per
rimbalzare da venti metri.
In prigione conobbi Arturo; era un bravo ragazzo se non
fosse che… Arturo era un criminale. Mia madre diceva
sempre che non bisogna fidarsi dei criminali, perché quello
che vogliono è soltanto fotterti. Avevo circa otto anni
quando lei mi raccontava tutto questo. Io mi fidavo di lei
allora e ancor più ora: mio padre era in carcere da due anni
e cinque mesi.
A volte parlavamo è vero; le notti in carcere sono lunghe, in
più la solitudine e il silenzio ti conducono in un vortice
infinito e pericolosissimo, ossia il pensare. Così
scambiavamo quattro parole. Ero sufficiente con lui; infatti
se solo fosse trapelato fuori da queste mura che avevo per
amico un criminale chissà cosa avrebbero pensato, o meglio
detto di me, perciò non gli feci credere mai di essere amici.
Anzi mi comportavo come il genitore col figlio, quando
questo domanda cose fin troppo complesse al genitore che,
non potendosi mostrare titubante, risponde laconicamente
sottintendendo, per via della sua autorità genitoriale, una
certa e sottilissima superbia inchiodata da un sorriso da
sornione e dalla fronte madida di sudore.
Una sera mi aggredì. Io credetti questo quando lui mi saltò
addosso ed io per legittima difesa, gli conficcai quello
sporco spazzolino, che stava ai piedi del letto su un lenzuolo
di sporcizia e polvere indescrivibile, dritto nell’occhio destro.
Non penso di averlo accecato: i morti sono ciechi per natura.
Era morto, penso per lo spavento, nell’attimo in cui con la
mia mano sinistra diminuivo la distanza fra la punta di
plastica e quel bulbo, che da lì a poco non sarebbe più stato
dignitoso e rispettoso nei confronti degli altri bulbi sani
chiamarlo così; tuttavia, per essere sicuro del crudele destino
riservato dagli dei al mio non-amico, cercai di farmi spazio
nella cavità oculare con movimenti rotatori, sperando prima
o poi di sentire il cervello, come quando trent’anni prima resi
donna la vicina di casa mia operando però in zone e con
strumenti differenti. Sono convinto che mentre cercavo di
rovinare quel nuovo imene, il grado d’igiene non molto
elevato dello spazzolino stimolò curiose infezioni; erano
scoppiettanti come popcorn in preparazione e con un
notevole flusso di pus che scorreva simile al siero liberato
dalla mozzarella di bufala punteggiata dalla forchetta.
Il giorno dopo ci fu il processo. Solo allora scoprii alcuni
dettagli su di lui. Era ebreo e voleva soltanto amarmi.
Entrambi gli elementi non migliorarono, peggiorarono
soltanto la situazione. Ero solo, il cadavere giaceva accanto
me. Fui condannato. Non c’era il giudice, non c’erano
avvocati, non c’era la televisione. La mia nuova prigionia mi
relegò all’angolo opposto della cella rispetto al mio caro
letto.
Penso siano passate settimane prima che qualcuno o
qualcosa si facesse vivo. Era Arturo, quel qualcosa di vivo.
Pensai che fosse un delirio della follia, così mi strofinai gli
occhi. Non cambiò nulla, lui era sempre lì di fronte a me
pietrificato. Così continuai, continuai a strofinare – non
poteva essere vero – finché vidi del sangue sulle mani: dagli
occhi colava sangue. D’un tratto la stanza fu rossa. In realtà
non vidi più la stanza ma solo colore. Era quello ciò che
avevo avuto sempre di fronte ma che non avevo mai visto: il
rosso, ovvero il sangue.
Sono nato nel sangue e ho vissuto nel sangue e ora –
pensavo – morivo nel sangue. La mia vita era stata ridotta in
quell’esatto istante, descritta in maniera efficace e
riproducibile con una sequenza numerica. Mi hanno inserito
qui dentro. Sono un colore utilizzabile per un documento di
testo digitale.

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