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I paesi che hanno leggi antidoping vere e proprie sono pochissimi (Italia, Francia, Spagna,

Belgio), anche se molti paesi si stanno adeguando."La gran parte degli scambi avviene su
Internet per reperire clandestinamente i farmaci e le sostanze. Un mercato virtuale che
sfrutta siti che hanno il loro 'quartier generale': “In Paesi che non hanno leggi chiare in
materia o che non effettuano controlli". E non bisogna andare troppo lontano, Ce ne sono
anche in Europa. Atleti professionisti o dilettanti, sportivi della domenica, medici,
farmacisti, personal trainer, informatori scientifici, titolari di centri benessere: tutti sono
coinvolti, anche minorenni. Come pure lunghissimo è l'elenco delle sostanze sequestrate:
steroidi, anabolizzanti, anoressizzanti, integratori alimentari, sostanze stupefacenti,
anfetamine. E mancano all’appello tutte le pratiche vietate e le manipolazioni che
costituiscono comunque un'altra branca non secondaria del doping a vari livelli. Le cattive
abitudini si prendono da piccoli. Un buon 50% dei ragazzi che fa sport assume sostanze
per aiutare a migliorare le proprie prestazioni, non importa se si tratta di sportivi
professionisti o no. Si va dall'uso delle vitamine fino agli steroidi. E si tratta di
comportamenti sbagliati che si imparano sin da giovanissimi. Anche a sette, otto anni i
bambini assumono creatina e aminoacidi ramificati. Un meccanismo che è "lo stesso alla
base del ragionamento con cui si dice che dal consumo di droghe leggere prima o poi si
possa più facilmente passare a quello di sostanze stupefacenti più pericolose". E qualche
responsabilità, non secondaria, va attribuita anche ai genitori "che non solo non vigilano
con attenzione su cosa fa il loro figlio, ma che spesso sono gli stessi fornitori di vitamine e
integratori, assolutamente non necessari, tantomeno ai giovani a cui serve solo l'acqua
per reidratarsi dopo lo sforzo".

Se si entra in alcuni centro fitness della penisola, a cui vanno aggiunti tutti i centri sportivi,
per trovarsi facilmente davanti, in bella vista, il frigo con qualsiasi tipo di integratore, o il
banco con barrette e snack per chi fa sport. Se non peggio. Manca un controllo capillare,
ci si affida ad un esile codice etico, facilmente dimenticato e/o stravolto. Ma cosa spinge
adulti e giovani, anzi giovanissimi, a fare uso di integratori o peggio di sostanze proibite?
"Dentro le palestre e i centri sportivi si aggirano oramai due degli spettri più gravi del
nostro tempo, quello dell'apparire e quello che spinge a scendere a ogni genere di
compromesso per raggiungere un determinato obiettivo, che si ritiene legittimo. Oramai
dunque la parola fitness è svuotata di qualsiasi significato". Ovvero, alla base del
fenomeno c’è: "Il ruolo basilare che l'immagine ha assunto nella società contemporanea.
Oggi i muscoli e l'uso di sostanze proibite sono percepiti come strumenti per accreditarsi
all'esterno con una immagine forte". In pratica una corazza che si indossa "Quando si
pensa che in un confronto interpersonale non si riscuoterebbe altrettanto effetto". E a
questo meccanismo non sono indenni i più giovani che anzi, in virtù della loro età
"Ipertofizzano questi comportamenti. Senza neppure tenere conto dei propri limiti fisici,
con pericolosi compromessi per la loro salute fisica e psichica". Quindi, accanto alla lotta
al doping sportivo andrebbe alimentata quella al doping "domestico", cioè di chi non
pratica sport a livello professionale o dilettantistico ma solo per sé. Un obbiettivo ancora
lontano. Inutile aggiungerlo. Sospeso sull’abisso.

Un giovane che oggi volesse praticare sport seriamente, con ambizioni agonistiche, ma
anche semplicemente curare il proprio fisico a scopo salutistico si troverebbe nella non
facile condizione dell’equilibrista sul filo e con forti propensioni a cadere. Tante, troppe le
spinte verso il risultato e la prestazione da ottenere ad ogni costo; tante, troppe le lusinghe
della farmacia, consentita e non; dell’aiutino che dà la “spintarella” e la “marcia” in più. E’ il
cosiddetto “modello italiano”, quello – unico purtroppo - in voga in quasi tutti gli sport sotto
l’egida del Coni, la via nostrana allo sport praticato è una delle molle più potenti che
spingono i giovani verso il doping. Un modello che passa necessariamente attraverso
un’assurda distorsione dell’attività sportiva giovanile. Dirigenti ed allenatori tesi solo a
scoprire nuovi talenti; tesseramento per l’agonismo sempre più precoce; selezione
esasperata dei “talenti” (considerati tali solo in funzione della prestazione; degli altri
chissene...); emarginazione dei bambini che di talento non ne possiedono abbastanza;
specializzazione precoce. Tutto per un solo fine: risultati, medaglie che nello sport
moderno vogliono dire soldi. Prima di tutto per l’ente che monopolizza lo sport: il Coni. Che
a fronte dei piccoli emolumenti offre quasi esclusivamente le medaglie olimpiche o
mondiali.

Lo Stato versa nelle casse del Foro Italico 462.228.700 euro (bilancio Coni 2007). Letto in
vecchie lire, tanto per non dimenticare il valore delle cose, siamo a quota 894 miliardi, 999
milioni, 564.949. Insomma vicini agli 895 miliardi. Lasciamo perdere per un attimo i
discorsi cosiddetti "sociali", cioè quanto di questa cifra va a finire per la crescita
dell'educazione e della pratica sportiva, in altre parole di una "cultura" sportiva che non sia
incentrata esclusivamente sulla filosofia della prestazione e del risultato. Al Coni - non è
una novità - il criterio "meritocratico" è uno solo: chi vince ottiene di più, come osserva un
emerito collega su un quotidiano a diffusione nazionale. Cioè i soldi vengono divisi in
funzione di risultati e medaglie. Per avere un idea delle proporzioni in atto, se alle FSN,
cioè alle federazioni sportive nazionali vanno 221.323.328 euro (dati tratti dal bilancio
2007) agli enti di promozione sportiva (molti dei quali autentici "bracci sportivi" di partiti
politici; anche questo un aspetto su cui meditare e probabilmente intervenire) finiscono
solo 17.999.985, ivi compresi i 2.877.000 del Cusi, lo sport universitario. L'attenzione
dell'Ente per lo sport per tutti e di tutti vale poco più del 3,8% del budget totale del Coni.
Non avremo mai una grande cultura sportiva continuando su questa strada, ma intanto i
nostri amati dirigenti sportivi ci gettano in faccia i risultati."Noi vinciamo le medaglie, meglio
noi della nostra economia". E via, a gonfiarsi il petto. Sono 28 quelle che arrivano da
Pechino, con un pizzico di buona sorte sarebbero state 4-5 in più ma il discorso di fondo
non cambia: sono medaglie "pesanti" perché ciascuna di esse ci costa un patrimonio:
siamo intorno ai 24 milioni e mezzo di euro ciascuna, cioè quasi 47 miliardi e mezzo di
vecchie lire, pur limitando il discorso alle sole "spese vive". Infatti se si addizionano tutti i
vari contributi alle discipline olimpiche nel quadriennio, si arriva alla bella somma di
685.898.488 euro. Quasi 686 milioni di euro, ovvero 1.328 miliardi di vecchie lire e rotti.
Ovvero 24,5 milioni a medaglia circa. E sono soldi che vengono tutti dalle tasche del
contribuente, essendo attualmente il Coni finanziato interamente dallo Stato. Una cifra che
difficilmente trova concorrenza in ambito internazionale, se si escludono paesi totalitari
come la Cina, che affida allo sport parte importante della sua immagine politica e
comunque, alla fine, le sue 100 medaglie olimpiche se le è ben portate a casa.

Ci si può meravigliare in questo contesto che il fenomeno doping fra i giovani sia percepito
in modo poco chiaro? A loro arriva un’uniformazione confusa, spesso addirittura
contraddittoria. Su di loro agiscono spinte e “modelli” – prima di tutto quello “prestativo” –
che piegano ogni e qualsiasi volontà. I media glissano o minimizzano. I “dopati” di oggi
tornano subito ad essere “campioni” domani: basta fare un risultato, magari vincere, non
importa come. E’ quello che ho definito in uno dei miei scritti su “SportPro” il buonismo
dalla memoria corta. Un fenomeno che si sta diffondendo sui media e che ormai dalla
storia (leggi negazione dell’olocausto) arriva anche allo sport. In cosa consiste? Semplice:
prendete un avvenimento, una situazione storica, un personaggio diciamo “discusso” solo
qualche tempo fa, fate passare il tempo che serve perché si perda nell’opinione della
gente la memoria dell’eventuale “misfatto” compiuto o nel quale il personaggio è stato
coinvolto, aggiungeteci un pizzico di intervista accomodante (cioè con domande che non
vanno al di là dell’evidente e del banalmente immediato) e il gioco è fatto. Ecco l’ex
“cattivo” diventare buono, o se proprio non si può, eccolo trasformato in povero cristo
vittima di chissà quale sistema persecutorio. Un meccanismo ben noto a tanto
berlusconismo e che funziona sul principio della dimenticanza. E’ la memoria negata che,
dai e dai, scava la pietra. Altro che la classica goccia. Gli esempi sarebbero infiniti.

Tanto per capire, ecco su “Repubblica” una mega-intervista a Paolo Bertini, l’arbitro che
perfino la discussa Federcalcio ha il pudore di ripresentare. E di fatto lo mette fuori dai
suoi organismi. “Non sono l’arbitro di Moggi”, dice l’ineffabile fischietto, ormai ufficialmente
un ex. “Mai favorito la Juve. Ho sbagliato anche a vantaggio degli altri”. Insomma da
protagonista in negativo della vicenda “sim e telefonate” a vittima. Ora, delle due l’una: o i
giudici che si sono occupati della sua vicenda sono dei pazzi visionari, oppure c’è
qualcosa che non torna nelle parole dell’ex maglietta nera, accolte senza la minima
obiezione. Solo il 15 aprile del 2007, non molto tempo fa, dunque, un articolo sullo stesso
giornale raccontava di 42 telefonate in 24 ore con argomento centrale il match fra Juve e
Milan del 18 dicembre 2004 (finito 0-0). “Un tabulato sul quale sono riportati, analizzati e
graficamente visualizzati i dati delle quarantadue chiamate che nelle ventiquattro ore
precedenti al fischio di inizio della partita corsero sulle linee telefoniche svizzere in uso a
Moggi, al suo collega e complice Fabiani, e all' arbitro Bertini. Quarantadue telefonate che,
secondo i pm Beatrice e Narducci, determinarono «un risultato diverso da quello
conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione (...) esito perseguito dal
Bertini che si adoperava per il raggiungimento di un risultato comunque favorevole alla
squadra di Moggi».La Juve era prima in classifica con 38 punti. Il Milan seguiva a 34. Una
vittoria dei rossoneri avrebbe ridotto il distacco ad un punto. E la vittoria del Milan non ci
fu. Anche qui alla fine prevale il buon cuore. Un anno e poco più e tutto passa nel
dimenticatoio. E’ la riabilitazione via stampa attraverso la negazione della memoria. Il
doping si impara da giovani. Da una parte le continue spinte verso l’aiutino, verso quel
particolare prodotto che accelera il recupero o che consente di dimagrire più in fretta,
verso le vitamine “che la frutta di oggi non ha più”, verso l’integratore più o meno
contaminato (“altrimenti come fai a fare 100 chilometri in bici tutti i giorni?”). Per poi
scivolare quasi meccanicamente verso prodotti e “aiuti” più potenti che un’industria oggi in
espansione mondiale spinge sui fronti del lecito e dell’illecito.

Eppure di questa realtà i giovani non hanno una corretta percezione. Lo dice una
interessante ricerca sui ragazzi delle scuole medie di Verona, fatta dai professori Guido
Fumagalli e Roberto Leone, della facoltà di scienze motorie dell’Università di Verona. 1300
questionari distribuiti, di cui 969 analizzati (96,6%). Ebbene, il dato più saliente è che la
pratica sportiva risulta diffusa: quasi l’80% pratica uno sport e lo fa da oltre 5 anni. Ma il
giudizio nei confronti del problema doping è a dir poco preoccupante: ben il 14% degli
studenti ha un atteggiamento favorevole (il 12% ritiene addirittura che non debba essere
punito), e un ulteriore 16% ha un atteggiamento ambiguo. Un ragazzo su tre. Solo il 5%
pensa che il doping possa dare dipendenza come le sostanze stupefacenti, ma quel che
più conta circa il 20% risponde “si” alla domanda se una competizione di altissimo livello
e/o con grande ritorno economico giustificherebbe l’uso del doping. E il 37% farebbe
giocare un atleta malato se fosse disponibile a riprova che l’atleta è ormai considerato più
una macchina da prestazione (che deve comunque funzionare), che un essere dotato di
sentimenti e umanità. Questo modo di pensare, secondo l’indagine, ha soprattutto un
responsabile: i media. Che una volta di più coprono, glissano, mistificano, disinformano.
Infatti per i ragazzi le fonti di informazione sul doping sono costituite per più del 70% da tv
e radio; per il 65% dai giornali e solo per il 20% dalla scuola. Le informazioni sul doping e
le sostanze dopanti sono in generale insufficienti anche nel caso di sostanze, come l’EPO,
di cui molto si è parlato sui “media”. Dei farmaci si conosce poco e quel poco non riguarda
la tutela della salute individuale. La scuola, l’ambito sportivo e la famiglia non sembrano
svolgere un ruolo importante nelle conoscenze in questo campo.

Che fare allora? Formazione e informazione, prima di tutto. Media, scuola, famiglia,
società sportive. E’ ovvio ma tutto questo appartiene ad un modello ancora tutto in
divenire. Un modello cui Bardelli si richiama quando parla di sport etico e di valori da
ripristinare. Renzo ha fatto riferimento ad una intera “generazione epo”, riferendo in un
altro libro della diffusione di un prodotto che consentiva “miracoli” a livello prestativo,
simbolo concreto di una mentalità truffaldina diffusa e dominante. In questo ultimo libro il
discorso si fa più generale: il problema ha ben altre dimensioni: è la trasformazione dello
sport intero, non solo del ciclismo, nelle sue più svariate sfumature, indotta dalla dilagante
mercificazione, che fa pensare ad una “generazione di furbi e furbetti”. Bisogna uscire da
questo “cul de sac” se si vuole invertire la tendenza. Questa ultima, attenta e documentata
analisi di fatti e avvenimenti di Bardelli è un validissimo aiuto per conoscere e ricordare.
Per gettare i semi di una nuova consapevolezza.

Eugenio Capodacqua

Renzo Bardelli, laureato in materie letterarie, è nato nel 1937 a Bottegone, frazione di Pistoia, città
nella quale è stato anche Sindaco. Ha il ciclismo nel sangue: nql 1955 era già corrispondente della
rivista ufficiale dell'UVI (l'allora Unione Velocipedistica Italiana), negli anni '70 è stato presidente del
G.S. Bottegone Ciclismo e dell'U.C. Il Micco Pistoia, società che hanno visto tra le loro file anche
corridori del calibro di Francesco Moser, Mario Cipollini, Michele Bartoli, Alessandro Petacchi. Ha
collaborato con la rivista "Tuttobici" e ricoperto incarichi all'interno della Federazione ciclistica
italiana. Da 20 anni organizza il "Memorial Giampaolo Bardelli", un premio per chi ha compiuto atti
tangibili e significativi contro la diffusione del doping nello sport. Anche per questi motivi ha ricevuto
la "Stella d'argento al merito sportivo" del CONI e riconoscimenti da parte del CIO (Comitato
Olimpico Internazionale)

Renzo Bardelli
"Mondo doping"
Angeli, furbi e furbetti dello sport
Prefazione di Eugenio Capodacqua
---
Collana Diritti in gioco diretta da Alberto Foggia e Valentino Spataro
Bradipo libri

IL PROBLEMA DEL DOPING NELLO SPORT

Il problema

Il doping nello sport è un problema di carattere mondiale. L’idea che una sostanza, una
“pozione magica”o una pratica possano in qualche modo alleviare la fatica e la sofferenza
fa parte della cultura dei popoli. L’uomo si percepisce debole di fronte agli avvenimenti
delle vita quindi cerca un qualcosa che gli dia la convinzione di riuscire a superare
l’ostacolo della malattia, di guarire da eventuali ferite.

Le origini del doping affondano nella storia: infatti, il ricorso a sostanze assunte allo scopo
di modificare le capacità di prestazione sportiva o, "più semplicemente", la propria struttura
muscolare e corporea (come avviene oggi per numerosi frequentatori delle palestre),
rappresenta un fenomeno che ha radici lontane (Greci e Romani) e che assume ai nostri
tempi preoccupanti dimensioni ed è in continua espansione. Nello sport di vertice sembra
sia diventato una pratica quasi “necessaria”, ma con rischi elevatissimi, anche di morte,
come rivelano alcuni casi del passato.

Alle Olimpiadi di Roma, del 1960, un ciclista danese, Kurt Jensen, muore in gara per avere
fatto ricorso ad amfetamine; sempre per uso di amfetamine nel 1967al Tour de France
muore il ciclista inglese Tommy Simpson
La morte di una notissima atleta come Florence Griffith Joyner (1998) per crisi cardiaca
all’età di soli 38 anni, è accompagnata da molti sospetti
Nel ciclismo dal 2003 al 2004 sono morti per problemi cardiaci ben 6 corridori, alcuni di
primissimo piano: Zanette (33), un dilettante di 16 anni, il francese Salanson (23); Marco
Rusconi (24). Lo spagnolo Jimenez (32) e Pantani (34) per overdose di cocaina. Un altro
caso si è verificato il 2 novembre 2004: l’ex campione del mondo di ciclismo Gerrie
Kneteman (53)
L'elenco si allunga di anno in anno anche se non sempre è possibile correlare
direttamente la pratica dopante con il decesso.

Sottovalutato

Diffuso e radicato in moltissimi paesi, il problema doping per anni è stato sottovalutato o
considerato di secondo piano dalle autorità sportive e governative non solo nostrane.
Limitato, cioè, alle fasce alte dei praticanti, agli atleti di élite. Nella realtà, il modello
proposto al vertice: cioè la caccia alla prestazione massima e/o al risultato ad ogni costo,
rimbalza in tutti i suoi aspetti (metodologici e - soprattutto - farmacologici) fino ai livelli più
bassi (giovanissimi, allievi, amatori), contaminando dalle basi la corretta impostazione dei
valori legata allo sport. E costituendo uno dei pericoli maggiori per la salute. Secondo le
statistiche Istat più recenti in Italia ci sono circa 12 milioni di praticanti sportivi e 3 milioni di
“agonisti” (tesserati alle varie federazioni sportive e agli enti di promozione). Ebbene quei
12 milioni non sono tutelati né dalla legge italiana (376/2000) né dalle regole dello sport.
Intanto il doping progredisce.

L’escalation della “farmacia del diavolo

Antica Grecia: misture di erbe, infusi, ecc.


ANNI ‘50 – ‘70: Stimolanti (anfetamine)
ANNI ‘70 – ‘85: Stimolanti, anabolizzanti
ANNI ‘85 – 2000: Stimolanti, anabolizzanti, ormoni (eritropoietina, gh, ecc.)
ANNI 2000: Stimolanti, anabolizzanti, ormoni, “carrier” dell’ossigeno
2003: Thg, la prima molecola “pensata”solo per fare doping
IL FUTURO (VICINISSIMO): Doping genetico

Negli anni, il modello tradizionale del doping, proposto fino alla fine degli anni '70
singolarmente da medici, tecnici e/o allenatori, si è evoluto e diffuso ad ampie categorie di
sportivi. E' stata la cosiddetta "specializzazione" dei metodi di "preparazione chimica" che
ha proceduto di pari passo con l'evoluzione e le scoperte nel campo della metodologia
dell'allenamento, mescolandosi e integrandosi con essa. Presto è risultato evidente che i
farmaci usati, le manipolazioni fisiologiche (trasfusione autogena, arricchimento del
sangue attraverso ormoni e/o molecole sintetiche nuove,ecc.) erano così complicate e di
difficile realizzazione da richiedere apposite strutture mediche, laboratori di analisi
specializzati, nonché notevoli investimenti di denaro. Obbiettivi raggiungibili non più dal
singolo atleta, ma solo da strutture più allargate e con buona disponibilità di denaro.
Ecco allora assumere importanza e un ruolo determinante la particolare organizzazione
sportiva italiana: il Coni e le federazioni; che trova la sua giustificazione (un bilancio
attorno ai 450 milioni di euro: 900 miliardi di vecchie lire l'anno) quasi esclusivamente nel
raggiungimento del risultato, nel caso specifico le medaglie.

Perché il doping si è diffuso?

Il doping si è diffuso perché tanti, troppi fattori hanno spinto nella stessa direzione:
l’organizzazione sportiva italiana e il suo particolare “modello”; la complicità delle stesse
strutture di controllo (non dimentichiamo il caso del laboratorio di Roma, dove venivano
scartate il 50% delle provette con l’alibi che “tanto gli anabolizzanti nel calcio non
servono…” ); la monetizzazione sempre più marcata dello sport, toccato da interessi
economici che soprattutto negli ultimi anni lo hanno trasformato e trasfigurato, rispetto al
passato anche recente. Sport come portatore esclusivo (o quasi) di istanze economiche,
dunque sport che abbandona tutta una serie di valori che ne avevano in passato costituito
la trama essenziale per non dire la stessa essenza. Ecco i motivi principali della diffusione
del doping.
Affermarsi nello sport comporta ai nostri giorni notevoli vantaggi: denaro, fama, notorietà.
La “mondializzazione” della competizione e l’uso “politico” dello sport. Est
(socialista-comunista) e ovest (liberista) si sono contrapposti politicamente anche
attraverso lo sport, ciascuno per sottolineare la valenza del proprio sistema sociale. Da cui
la necessità di primeggiare a tutti i costi: così da una parte è nato il doping di stato,
dall’altra una forma “liberista” e ipocrita di tolleranza basata soprattutto sull’inefficienza
(voluta?) del sistema di controllo e sui ritardi. Anche da noi c’è stata per anni una forma
mascherata di doping di stato.
la monetizzazione marcata dello sport attraverso l’ingresso degli sponsor: nel 1976 i
diritti tv per le olimpiadi erano di circa 31 milioni di dollari, per le Olimpiadi di Pechino ne
saranno pagati 1714.
La medicalizzazione della società
La crisi dei valori
Le colpe dei media

Se il fenomeno doping è arrivato alle dimensioni e alla attuale diffusione capillare fin nelle
categorie più insospettabili di sportivi – giovani, giovanissimi e perfino gli “amatori” - una
grossa fetta di responsabilità spetta proprio ai “media”, a come cioè hanno nel tempo
affrontato il problema, come lo hanno proposto (o non proposto) all’opinione pubblica,
come hanno tentato di risolverlo, se hanno tentato in qualche modo di risolverlo. Mi capita
spesso, da dilettante cicloamatore di frequentare gruppi di coetanei: cinquantenni come
me, che dovrebbero fare dello sport un momento di relax, di evasione, di piacere, dunque
dovrebbero prendere l’impegno in modo distaccato e sereno. Ebbene, in questi gruppi,
spesso non si parla che di ematocrito alto o basso, di integratori, di prodotti di questo o
quell’altro tipo, per non dire di altro. Insomma, mi capita anche di toccare con mano la
diffusione a macchia d’olio di una mentalità vera e propria, radicata e difficile da estirpare.
L’idea di sport legata indissolubilmente a quella del farmaco. Un’idea difficile da estirpare
anche oggi che il fenomeno – quanto meno - è stato portato alla luce e pare di intravedere
una certa volontà concreta di farvi fronte.

Il fenomeno doping è arrivato pesantemente anche ai giovani 16-17enni al punto che


scrivono e telefonano in continuazione chiedendo disperatamente cosa fare, perché
l’allenamento e la dedizione in certi sport non basta più. Però di questo problema si stenta
a trovare traccia sui giornali.
Eppure i segnali non mancano. Come il caso di quel presidente che obbligava i suoi atleti
a doparsi, sottraendo loro addirittura una fetta dello “stipendio” mensile per pagare le
medicine; e chi si sottraeva da questo meccanismo veniva multato. La notizia non è
nuovissima, ma è emblematica.
E’ emersa durante le indagini dei Nas di Firenze e Bologna, sulla farmacia Guandalini dei
Giardini Margherita.

Appena approdato in quella squadra, nel luglio del '98, il presidente della società - ha
raccontato un giovane corridore - gli fornì subito 10 fiale di Epo. Successivamente gli
venne trattenuto un milione. Quindi, poco tempo dopo, gli vennero date tre fiale di Gh,
l'ormone della crescita per una ulteriore trattenuta di 300.000 lire. Le prestazioni dell’atleta
migliorarono e riuscì a vincere diverse gare, anche importanti. La distribuzione delle
sostanze dopanti veniva fatta, secondo lo stesso corridore, nell'albergo dove la squadra
era in ritiro, dallo stesso presidente della società.

Ma per il nostro dilettante non era una novità. Già prima di approdare in questa formazione
aveva provato l'Epo. Il medico che lo seguiva, ben conosciuto negli ambienti degli
inquirenti, gli fece una ricetta. Il corridore ha raccontato anche di aver ricevuto Epo da un
suo precedente direttore sportivo: 4-5 fiale assunte ogni 3-4 giorni con iniezioni
sottocutanee. Gli costarono 400.000 lire. Insomma, siamo all’assurdo: o ti dopi (a tue
spese) oppure ti multo.

E’ o non è un caso clamoroso? Ebbene, andate a vedere quanti giornali se ne sono


occupati e come lo hanno fatto; controllate lo spazio che hanno dato nelle loro pagine. Se
la tv, onnipresente in tutte le case, ha dedicato al problema la minima attenzione. Spazi
minimi e un rilievo relativo. L’argomento trattato con la fretta delle cose che si fanno con
fastidio.

Eppure si parlava di un giovane che all’epoca dei fatti era juniores (17 anni), si parlava di
prodotti “pesanti” come l’Epo e il gH, gli effetti della cui somministrazione massiccia a
lungo termine – sicuramente dannosa - non sono conosciuti neppure dalla scienza più
avanzata. Si parlava, cioè del futuro di questo sport; di uno sport che entra in tante
famiglie, che riguarda milioni di italiani. E che futuro può avere uno sport in cui un
ragazzino di 17 anni è costretto a doparsi altrimenti non emerge? Quale genitore darebbe
il suo consenso alla pratica sportiva sapendo che il proprio figliolo corre il rischio di sentirsi
avvicinare dal primo direttore sportivo praticone e proporre l’uso di farmaci pericolosissimi
per la salute?

Le responsabilità degli operatori

Ebbene, se tutto questo è ancora realtà oggi - e lo è - allora noi operatori dei media
dobbiamo domandarci perché. Come sia stato possibile arrivare a questo. Cosa abbiamo
fatto e come abbiamo affrontato il problema in questi anni.
Ma il caso del ciclismo è solo uno dei tanti esempi possibili, perché, dai casi nandrolone
nel calcio alle positività ai test antidoping registrate perfino negli scacchi non è sbagliato
ipotizzare che situazioni analoghe si verifichino in molti altri sport. La scienza
farmacologica ha fatto enormi passi in avanti negli ultimi anni; l’uso distorto di prodotti
anche importanti per la salute pubblica (l’Epo è uno di questi: serve per curare i dializzati)
consente in tante discipline, da quelle di squadra a quelle individuali, da quelle di
resistenza a quelle di forza, di compiere significativi passi in avanti dal punto di vista della
prestazione e del risultato. E, a differenza del passato, consente anche all’atleta mediocre
di fare importanti progressi, costringendo spesso il campione – quello con le doti naturali –
a fare altrettanto per non essere superato. Inoltre, l’uso di certi prodotti ha richiesto e
richiede l’intervento di medici esperti, di staff attrezzati, di un’organizzazione anche
economica, cioè, che nel tempo ha portato alla formazione di una vera e propria ragnatela
di “addetti”, medici soprattutto più o meno “bravi” nel calibrare alchimie e prodotti
pericolosissimi per la salute; più o meno e conosciuti; più o meno seguiti. Una ragnatela
impressionante.
Ebbene, di tutto questo se ne è parlato pochissimo e se ne parla pochissimo. Dobbiamo
chiederci perché.
Perché i “media” conservano ancora una sorta di fastidio nell’affrontare un argomento ed
un fenomeno che ormai per la sua diffusione capillare diventa problema di salute
pubblica? A sostegno di questa affermazione posso dire con certezza che molti atleti di
primissimo piano hanno avuto o hanno attualmente notevoli problemi di salute. Ma, quel
che è peggio, potrei citare alcuni esempi di cicloamatori costretti a fermarsi per l’uso
smodato e improprio di farmaci e medicinali. Padri di famiglia con il cuore fortemente
danneggiato, il fegato a pezzi, disfunzioni pericolosissime. Per cosa, poi? Una modesta
coppetta o una spalletta di prosciutto vinta nella gara rionale. Sarebbe opportuno chiedersi
il perché di queste follie.

Se ne parla poco

Eppure se ne parla poco e quasi con disagio. E come non riconoscere, in tutto questo, che
un ruolo molto pesante ed importante lo hanno avuto e lo hanno proprio i media? Abbiamo
sbagliato e forse continuiamo a sbagliare. Da una parte non abbiamo sottolineato
abbastanza i rischi e il dilagare del fenomeno; dall’altra quando il problema è esploso nella
sua virulenza, non ne abbiamo parlato a sufficienza, non lo abbiamo affrontato come si
dovrebbe. Il clamore sull’atleta di nome e poi il vuoto. Il nulla o quasi.
Parlo in generale, perché – come ho già accennato – qualche eccezione c’è. Ma resta,
appunto, un’eccezione.
Cos’è che ha spinto e spinge ancora i “media” a occuparsi così superficialmente di un
fenomeno pure così importante e così vasto?
Perché solo adesso, alla luce dei casi clamorosi, come le perquisizioni al Giro 2001, gli
arresti al Giro 2002, i processi penali, le squalifiche sportive (sempre piuttosto dolci...),
ecc. ci si avvicina all’argomento con maggiore interesse?
Cosa succede? Siamo stati tutti compromessi noi giornalisti e operatori del settore ? Tutti
in malafede, complici, comprati, venduti?
Malafede e complicità ci sono state, certamente. Malinteso senso degli interessi comuni
anche. Ma credo piuttosto alla superficialità, all’ignoranza, all’impreparazione legate
all’idea o meglio al pregiudizio diffuso di cosa sia e debba essere lo sport nella nostra
società. Della sua funzione sociale, come parte importantissima della vita di tutti i giorni.
Del messaggio che - sui fatti di sport - per anni è passato dai “media” al grosso pubblico.
La grande illusione

Nell’opinione comune, nell’inconscio collettivo, nella mentalità della gente al termine sport
è generalmente abbinato un qualcosa di leggero, un concetto di evasione, relax, riposo; un
mondo a parte con le su regole; un mondo che funziona perché produce vittorie e risultati,
che investe concetti importanti e positivi per l’individuo come la salute, lo stare bene, il
benessere fisico. Ebbene questi concetti, questa idea dello sport, è stata alimentata dalla
scuola, dalla famiglia, dalla dirigenza sportiva e dai “media” anche quando con il tempo e
con l’avvento del denaro (gli sponsor) lo sport - almeno quello di vertice, il più
appariscente - si è trasformato radicalmente, divenendo un’altra cosa rispetto a prima.
Divenendo cioè né più né meno che un fenomeno dalle forti basi economiche, regolato
dalla legge degli interessi. Con tutto quello che concerne e ne deriva. Però – almeno dal
punto di vista dell’informazione - lo si è continuato a trattare come se fosse lo sport di
prima: ingenuo, limpido, non condizionato da interessi. Solo a forza di scandali e casi
clamorosi questa visione sta lentamente cambiando.
E qui sta, secondo me la prima grande responsabilità dei “media”: aver accettato questo
compromesso mai scritto; aver fatto finta che tutto fosse come prima; aver continuato a
trattare lo sport, come un fenomeno becero da baraccone: il record, il risultato, i gol, gli
aspetti più superficiali. Magari alimentando un tifo per il quale certe tendenze
campanilistiche assai diffuse nel nostro paese costituivano il terreno, l’humus ideale. Si è
guardato solo alla superficie. Si è rinunciato, si rinuncia ad approfondire. Perché? E’
troppo noioso? Troppo rischioso? Troppo difficile?
Abbiamo contribuito ad alimentare una illusione di massa. Che faceva comodo a tanti. E
questo – per chi fa il mio mestiere - vuol dire che c’è stata una rinuncia ad esercitare una
parte importante per non dire basilare della professione: quella di analizzare, approfondire,
indagare ogni fenomeno in tutti i suoi aspetti, informare cioè il pubblico di una realtà
completa, intera, nella sua globalità.
Così anche oggi nei “media” c’è un generale appiattimento. I giornali sono tutti uguali; le
trasmissioni televisive sportive sono tutte uguali. Se una trasmissione come il “Processo
del lunedì”, dove si litiga e ci si insulta dietro l’alibi dello sport, dura con successo da tanti
anni vuol dire che la cultura sportiva in questo paese non ha fatto grossi passi avanti.
Per carità: può piacere anche distrarsi di tanto in tanto. Ma quello non può essere un
“modello”. E invece lo è: seguito e imitato da tutti. E questo non lo ritengo un buon
segnale.

Le difficoltà di chi denuncia

Ricordo in anni non recentissimi, che quando su “Repubblica”, assieme al collega


Zambardino ci occupammo del caso doping nell’atletica (si era nel lontano ’84) fummo
pesantemente attaccati da alcuni colleghi, che non perdevano l’occasione dalle colonne
dei loro giornali o dalla tv di ripetere che eravamo degli assurdi “Torquemada
dell’antidoping”, che non capivamo nulla, che danneggiavamo l’intero movimento atletico
da cui tutti avevano da guadagnare, per chissà quale libidine da scoop. Quanto a
quest’ultimo aspetto preciso, per dovere di cronaca, che il tema doping – almeno a quanto
mi risulta – non fa vendere ai giornali una copia in più, dunque è assurdo andare a caccia
di scoop.
Ma poi, con il tempo abbiamo capito l’atteggiamento dei colleghi: si è visto che il tale era
diventato responsabile dell’ufficio stampa della federazione il cui capo era al centro delle
accuse e dello scandalo; il tal’altro ne era divenuto consigliere e segretario particolare.
Naturalmente a colpi di centinaia di milioni. Per carità: scelte legittime. Ma che a posteriori
hanno spiegato meglio tanta acredine. Passi per i rapporti personali, ma la vera vittima, in
quei casi è stato il lettore.
Cosa sia poi diventata l’atletica internazionale negli anni – un vero fenomeno da
baraccone – lo si è visto dopo. Dal caso Ben Johnson a i nostri giorni (Christie, Mitchell,
ecc.) una teoria infinita di casi-doping che hanno gettato e gettano un’ombra grigia su tutto
questo sport. Un’ombra difficilmente cancellabile. Eppure sarebbe facile: dove sono
interessi e miliardi lì è sempre possibile l’imbroglio. Basterebbe vigilare.
Ma il “Torquemada dell’antidoping” ha le sue brave difficoltà anche con gli interlocutori
sportivi. Con gli atleti, ad esempio, ai quali direttori sportivi e allenatori imponevano di non
rilasciare interviste a chi non si dimostrava accondiscendente o pretendeva di trattare
argomenti così scabrosi.

Le inchieste

All’ex allenatore giallorosso non sarò mai abbastanza grato. Zeman, adoperando con
intelligenza il palcoscenico del calcio, ha avuto il grande merito di rendere il tema-farmaci
nello sport ed il problema doping, popolare; di imporlo, cioè, all’attenzione dell’opinione
pubblica come problema reale. E con lui o, comunque sottolineate dal clamore del suo
caso, sono dilagate le inchieste della magistratura: Guariniello, i giudici di Ferrara e
Bologna i procedimenti penali di Torino (Pantani) e Brescia. Fino ai clamorosi blitz di Nas e
Finanza negli ambienti del ciclismo. Una serie di iniziative che hanno stracciato il velo sul
doping nello sport in Italia, mettendo il risalto la giustezza di una legge che ha consentito
con i blitz clamorosi delle forze dell’ordine di conoscere le drammatiche dimensioni di un
fenomeno che è ormai contiguo a quello della droga e che trae alimento da ambienti
criminali come camorra e mafia.
In tanti, in quei lontani giorni d’estate all’insegna del caso Zeman hanno capito che sotto e
dietro la creatina c’era qualcosa di oscuro, di mai approfondito, di abbastanza logico
anche per uno sport che deve mettere in campo gli atleti praticamente ogni giorno. E’ stato
un periodo, in cui il problema doping, ha acquistato, per così dire, diritto di cittadinanza su
giornali e tv. Ma sempre in modo relativo. Si è trattato di una sorta di “libertà vigilata”. Ben
lungi dall’affondare nelle radici del problema, i “media”, tuttavia se ne sono occupati.
Almeno non hanno rimosso. E questo è stato già un buon risultato. L’inizio di una svolta
che ancora deve essere completata.
Ma questo va ascritto principalmente a merito della magistratura ordinaria che si è
sostituita all’inerzia e alla complicità delle strutture di controllo sportive. E alla relativa
sensibilità dei media sul tema.
Eppure non è stato e non è facile. I freni sono ancora tanti. Ci sono gli interessi di alcuni
giornali e dei media che spesso giocano ruoli equivoci. Ci si ferma volentieri alla prima
stazione. Alla semplice cronaca. Un esempio? Quante inchieste giornalistiche sulla
diffusione o meno del fenomeno doping nel calcio sono state fatte dopo il cosiddetto
scandalo Zeman? Tavole rotonde, convegni, congressi, tanti, quanti se ne vuole. Inchieste
poche. Pochissime.
I “media” tacciono. O glissano. O si occupano del tema solo nel momento critico delle
notizie di cronaca; negli ultimi tempi incalzanti. Ma l’atteggiamento di fondo non cambia:
l’azione di Vieri o il tiro di Totti vengono illustrati e sviscerati come se si trattasse della
nuova teoria della relatività (disegnino, schemi, fotografie, fiumi di inchiostro, chilometri di
pellicola, ecc.), ma guai a graffiare appena la superficie. Come dire: popolo bue, beccati
questo e non disturbare il manovratore che maneggia miliardi.
Si dice: ma al pubblico non importa nulla del doping, quello che vuole è questo. Il pubblico
vuole sognare e illudersi. Tesi suggestiva e con un certo contenuto di verità. Sognare è
importante come vivere. Ma siamo sicuri che davvero il pubblico voglia solo questo? Mi
permetto di dissentire, almeno per un motivo: come si fa a dire che la gente vuole solo
quello quando non è mai stato offerto qualcosa di diverso? Per i segnali che ho
personalmente mi risulta che se la gente viene informata correttamente reagisce in modo
molto positivo. Il pubblico è molto più intelligente di quanto non lo si possa stimare a priori
dicendo “questo interessa, questo non interessa”. Ho nel cassetto decine e decine di
lettere, ricevo quotidianamente decine e decine di e-mail che provano quanto sostengo.
Non è vero che alla gente piace essere ingannata. Già, perché quello del doping nello
sport è forse il più grande inganno perpetrato dai “media”, specie negli ultimi anni. Un
inganno che continua quando si raccontano mezze verità, si assumono atteggiamenti
fintamente comprensivi, si fugge la realtà del problema. E qui un ruolo decisivo lo ha la
televisione. Uno strumento dalla potenza enorme perché entra in tutte le case. Potrei fare
numerosi esempi. Ne cito solo qualcuno.

Lo sport come evasione?

Tutto questo appartiene ad una visione assai poco culturale dello sport. Uno sport inteso
come puro divertimento ed evasione, loisir, panacea inconscia delle preoccupazioni della
gente anche quando, come nel caso del calcio, è ormai essenzialmente un affare dai
profondi connotati economici (non è la tredicesima industria italiana?). Lo sport “deve” fare
eccezione. Nei giornali politici spesso le pagine sportive sono considerate un’area di
evasione e di “scarico”. Le polemiche e le critiche? Ci possono essere, ma debbono
limitarsi alla lamentela del tale giocatore perché non è schierato in campo dall’allenatore o
alla critica sul tale modulo di gioco o sul tal’altro. Altro non è concesso. Anche perché con
questa mentalità dilagante se poco poco ti azzardi a scavare un po’ più a fondo ti sbattono
subito in faccia il “silenzio stampa”. Non hai più interviste, non lavori più.
Il caso Davids. Poi c’è l’ignoranza. Intesa in senso buono. Quella di chi non sa, non
conosce e pretende di giudicare. Anzi non perde l’occasione per giudicare, solo perché sta
Esemplare il caso Davids, quando denunciò la malattia agli occhi: il glaucoma. Su uno dei
maggiori quotidiani nazionali ci fu una grande indignazione di fronte al fatto che un “povero
calciatore non si poteva curare come un normale cittadino solo perché il prodotto (prima
un collirio, poi le pasticche) conteneva una sostanza che rende positivi ai test antidoping”.
Informazione che definirei tifosa, di parte, per usare un eufemismo.
Un’informazione inesatta, parziale. Ma chi l’ha detto che un atleta non si possa curare
usando prodotti proibiti all’antidoping? Nessuno. Le regole dicono che se un atleta è
malato può e deve assumere tutto ciò che gli consenta di guarire. Il diritto alla salute è
garantito dalla costituzione. Solo che, se qualcuna di queste medicine contiene sostanze
doping, l’atleta non deve giocare o partecipare a competizioni. E’ normale: se uno è
malato generalmente se ne sta a casa finché è guarito. Non lavora. E’ uno dei punti
cardine dello statuto dei lavoratori. Le esigenze economiche della società per la quale il
calciatore che non gioca si svaluta, non dovrebbero prevalere sulla salute. Insomma le
regole ci sono, basta rispettarle.
Invece cosa succede? I dirigenti juventini prima hanno chiesto (ed ottenuto) una deroga
per il collirio, poi hanno chiesto ed ottenuto l’estensione della deroga alle pasticche (più
energiche). Infine, si sono piegati all’evidenza: ci voleva l’intervento chirurgico. Ma guai
anche semplicemente a segnalare il problema.
Le cose sono state ben evidenti molto tempo dopo, quando Davids è risultato positivo al
nandrolone, un anabolizzante. Ma anche in questo caso l’atteggiamento dei media era
improntato essenzialmente alla comprensione, per non dire alla complicità.
Invece cosa succede? I dirigenti juventini prima hanno chiesto (ed ottenuto) una deroga
per il collirio, poi hanno chiesto ed ottenuto l’estensione della deroga alle pasticche (più
energiche). Infine, si sono piegati all’evidenza: ci voleva l’intervento chirurgico. Ma guai
anche semplicemente a segnalare il problema.
Le cose sono state ben evidenti molto tempo dopo, quando Davids è risultato positivo al
nandrolone, un anabolizzante. Ma anche in questo caso l’atteggiamento dei media era
improntato essenzialmente alla comprensione, per non dire alla complicità.

Bruciare lo scandalo

Un altro atteggiamento assai diffuso nei “media” è quello di “bruciare” lo scandalo tutto
insieme; in una volta sola. Si fa un grande sforzo; si produce un’inchiesta voluminosa; se
ne parla per qualche tempo e poi, immancabilmente arriva il silenzio. Arriva il momento di
“occuparsi di altro”; di “parlare di sport e basta”. Come se parlare di doping non fosse
parlare di sport, visto il legame ormai evidentissimo fra i due fenomeni: prestazione e
risultati da ottenere da una parte – farmacia proibita e non dall’altra. Tutto questo è
accaduto ed è comprovabile con il fatti. Basta andarsi a consultare con un po’ di pazienza
gli archivi di alcuni dei maggiori quotidiani sportivi o dei mensili di stampa specializzata.
Una atteggiamento mentale conservativo direi, non necessariamente complice, ma reale e
diffuso. E’ un atteggiamento che non riguarda solo il problema doping, ma che si evidenzia
in particolar modo quando i temi giornalistici da affrontare si fanno molto scabrosi. E allora
c’è da chiedersi – al di là degli episodi – cosa sia diventata questa professione. Che cosa
trasmettiamo ai nostri lettori-spettatori. Quali valori. Quale rispetto delle regole. C’è da
chiedersi se sia giusto continuare a raccontare solo una parte della verità. Ad ingannare
ed ingannarci.
Qualcosa, sia pur timidamente, si muove. Ma è sempre poco di fronte all’entità del
problema. La cronaca nera ha fatto sì che ci sia più attenzione anche da parte dei media.
Ma manca una linea, una strategia di fondo, una tensione continua verso l’obbiettivo,
specie alla tv, che è il “principe” dei mezzi di comunicazione.
Un mezzo troppo importante perché il tema della farmacia nello sport venga affrontato
solo se c’è la cronaca a imporlo o il caso o il nome di grido. Senza la tv, con il suo potere
di entrare in tutte le case, tutti i discorsi sulla “mentalità da cambiare”, sulla cultura dello
sport da rifondare diventano esercitazioni accademiche.

Il doping nello sport è un problema di carattere mondiale.


Diffuso e radicato in moltissimi paesi, è sempre stato sottovalutato o considerato di
secondo piano dalle autorità sportive e governative delle varie nazioni.
Limitato, cioè, alle fasce alte dei praticanti, agli atleti di élite.
Nella realtà, il modello proposto al vertice: cioè la caccia alla prestazione massima e/o al
risultato ad ogni costo, rimbalza in tutti i suoi aspetti (metodologici e -soprattutto-
farmacologici) fino ai livelli più bassi (giovanissimi, allievi, amatori), contaminando dalle
basi la corretta impostazione dei valori legata allo sport.

Negli anni, il modello tradizionale del doping, proposto fino alla fine degli anni '70
singolarmente da medici, tecnici e/o allenatori, si è evoluto e diffuso ad ampie categorie di
sportivi.
E' stata la cosiddetta "specializzazione" dei metodi di "preparazione chimica" che ha
proceduto di pari passo con l'evoluzione e le scoperte nel campo della metodologia
dell'allenamento, mescolandosi e integrandosi con essa.
Presto è risultato evidente che i farmaci usati, le manipolazioni fisiologiche (trasfusione
autogena, arricchimento del sangue, ecc.) erano così complicate e di difficile realizzazione
da richiedere apposite strutture mediche, laboratori di analisi specializzati, nonché notevoli
investimenti di denaro.
Obbiettivi raggiungibili non più dal singolo atleta, ma solo da strutture più allargate e con
buona disponibilità di denaro.
Ecco allora assumere importanza e un ruolo determinante la particolare organizzazione
sportiva italiana: il Coni e le federazioni; che trova la sua giustificazione (un bilancio di
oltre 1.000 miliardi l'anno) solo nel raggiungimento del risultato, nel caso specifico le
medaglie.

Interviene il Ministero della Sanità.

Nel Marzo del 1985, rispondendo ad una interpellanza dell'onorevole Adriana Ceci, il
Ministero della Sanità, l'onorevole Degan, dichiara inammissibile la pratica
dell'emotrasfusione nello sport allo scopo di incrementare le prestazioni. L'emotrasfusione
è una pratica medica che va realizzata solo nei casi gravi (interventi chirurgici, incidenti,
malattie) che lo richiedano. L'utilizzazione nello sport va, dunque, considerata inaccettabile
e svolta in condizioni di clandestinità.

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