Domanda: la bellezza estetica può essere vettore di contenuto narrativo o tematico?
Risposta: assolutamente sì, per quanto strano possa sembrare.
E’ un discorso, questo, che vale per tutte le forme d’arte, ma che, forse, trova la sua ragion d’essere quando si applica questo ragionamento al cinema. Pensateci, sembra che da almeno una trentina d’anni a questa parte, una certa tendenza abbia preso piede nella dimensione della settima arte, una tendenza che punta a spostare il focus dell’attenzione del regista, o meglio il centro tematico del film, dal puro racconto al modo in cui gli elementi di scena si organizzano sullo schermo, in buona sostanza dal “cosa” al “come”. Sia chiaro, il modus operandi che sto provando ad analizzare in questo momento è una corretta e sacrosanta pratica artistica che è legittima proprio perché non è altro che un modo come un altro per portare in scena, sulla pellicola, quella volontà di analizzare e comprendere il reale che è intrinseca nella natura stessa del cinema, anzi, giusto per precisare (e per dare concretezza a dei ragionamenti che altrimenti sembrano campati in aria), vi giro tre o quattro nomi di personaggi, registi o veri e propri progetti a cui possiamo tranquillamente far risalire questa tendenza: Arca Russa di Sokurov Blackhat di Michael Mann Praticamente tutta la filmografia di Terence Malick The Knick di Steven Soderbergh Se si riflette anche solo per pochi secondi sui film che ho inserito in quest’elenco quello che salta all’occhio è che ognuno di questi progetti si caratterizza per operare su un pattern comune a tutti gli altri: le trovate visive (spesso delle panoramiche, dei piani sequenza particolarmente complessi, la camera posizionata ad angolazioni insolite e via dicendo) sono in primo luogo estremamente misurate e controllate (dopotutto, sono le “parole” che questi registi usano per portare avanti la loro poetica e la logorrea non piace a nessuno) e successivamente hanno un loro senso intrinseco, quasi una loro “necessità di esistenza” proprio perché sono i tasselli che contribuiscono a sviluppare un commento a quello stesso reale che il film si propone di analizzare. Ecco dunque che il piano sequenza di Arca Russa è, semplicemente, la Storia che si snoda senza apparente soluzione di continuità di fronte ai nostri occhi di testimoni muti dell’epopea Russa; i movimenti di macchina apparentemente confusi di Blackhat sono il modo con cui Mann commenta questa realtà atrofizzata dalla tecnologia da cui noi stessi siamo talmente assorbiti da non poter riconoscere il nemico che ci minaccia; la cura visiva tipica dello stile di Malick è, di fatto, la pura sostanza delle sue personalissime riflessioni sul senso della vita attorno a cui struttura i suoi progetti; il distacco, la posizione distanziata della macchina da presa dal centro della scena, la fotografia asettica che Soderbergh ha scelto per The Knick sono tutti elementi che puntano a commentare il disgusto, il disprezzo con cui gli autori della serie desiderano portare in scena l’ignoranza, l’involontario bigottismo, l’assurdo classismo della borghesia americana dei primi del ‘900 (classe sociale di cui i chirurghi e i medici del Knickerbocker fanno parte). E’ un raccontare per immagini più che con le parole e, aggiungiamo, è ancor più legittimo perché all’interno di questi film, di questi progetti (come di molti altri che per necessità di spazio ho tenuto fuori) si respira con piacere un’anima pensante, l’anima del regista, dello sceneggiatore, l’anima, in buona sostanza, di una persona che comunque, al di là di tutto, desidera raccontare una storia che bene o male risulti se non esemplare quantomeno utile a comprendere la realtà in cui viviamo. Tutto questo discorso ci porta a Revenant, meglio, ci porta ad aprire una parentesi sul progetto precedente di Iñárritu, quel Birdman trionfatore agli Oscar 2015 che a poco più di dodici mesi dalla sua uscita si è dimostrato uno dei film più controversi degli ultimi anni. Senza Birdman non si può comprendere Revenant, meglio senza comprendere le ragioni di un progetto creativo alle spalle di Birdman rischieremmo di cadere nella trappola che Iñárritu ha allestito per noi con Revenant, ma a quello ci arriveremo, quindi, tanto vale iniziare. C’è poco da girarci intorno, tanto vale essere diretti: Birdman è la concretizzazione su pellicola del concetto di fantasmagoria Benjaminiana. E’ un film che colpisce, Birdman, un film che stupisce e blandisce lo spettatore medio, ma che, al netto dei fatti, ha ben poche frecce al suo arco per lasciare davvero il segno nel panorama della cinematografia mondiale. Non è un film prettamente narrativo: la storia che racconta è, in effetti, trita e ritrita, zeppa di cliché e soprattutto propone spunti di riflessione che un certo Robert Altman ha sviluppato ben prima e con maggior forza e convinzione di Iñárritu, nel corso di una carriera quarantennale. Al contempo non è neanche un film “visivo”: in effetti, quel lunghissimo (falso) piano-sequenza attorno a cui si organizza la narrazione non è né contenustico (non sottolinea solo alcuni particolari passaggi della narrazione come capita spesso, ma anzi appiattisce la stessa in una carrellata continua) e tuttavia non è neanche simbolico o tematico (non sviluppa un particolare tema della pellicola, anzi, tuttora mi chiedo cosa significhi quel piano sequenza: l’identità di Birdman che perseguita Riggan? Le sue colpe del passato che non l’abbandonano mai? Mah…se ci pensate, ogni ipotesi è valida proprio perché nel corso del film nulla sembra spiegare effettivamente il senso di questa particolare tecnica di ripresa). E’ un oggetto artistico strano, Birdman, soprattutto perché, in fondo, è impossibile da categorizzare. Ad una prima occhiata sembra che Iñárritu voglia strutturare il film su quella bellezza estetica portatrice di un messaggio da cui siamo partiti, ma ora sappiamo che non è affatto così. Manca, più di ogni altra cosa, a Birdman quella sorta di anima, di volontà di raccontare una storia e di rendere un po’ meno oscura la realtà per tutti noi che la ascoltiamo che è condizione necessaria per l’esistenza di tutte le manifestazioni artistiche di questo mondo, non solo dei film. Fa male dirlo, ma ad Iñárritu interessa meno di zero di portare su schermo i demoni privati di Riggan Thompson, è chiaro piuttosto come egli sia interessato a creare un prodotto bello che, forse ancor prima di stupire piacevolmente quanto superficialmente gli spettatori, contribuisca a nutrire il suo ego smisurato di artista. E’ un film vuoto Birdman, al contempo così vicino al fare cinema (è, obiettivamente, il punto più alto a cui la fotografia cinematografia è arrivata finora) e così lontano dal luogo cinema, ambiente di aggregazione, falò sociale in cui si raccontano storie per far capire agli spettatori che sono meno soli di quanto pensano. Piuttosto, per continuare sul filo della metafora, Birdman è più simile a quegli assoli metal tipicamente anni ’90 che suonavano virtuosi della chitarra elettrica come Steve Vai o Yngwie Malmsteen, prodotti esteticamente splendidi ma che, a causa della loro grande durata e virtuosistica complessità, finivano per diventare plasticosi momenti utili ad appagare il desiderio di superiorità del musicista. In questo senso, Revenant è la diretta continuazione della poetica di Birdman, con la differenza che ora il nostro uomo, forte dell’Oscar e dell’appoggio incondizionato dello spettatore più superficiale (che dice che tanto è tutto bello, qualsiasi cosa egli faccia, perché tanto ha vinto l’Oscar e dunque qualcosa vorrà dire no?), neanche si preoccupa più di creare un’intelaiatura drammaturgica anche minima che faccia da perfetto supporto (e rinforzo) al lavoro sull’immagine. Più che essere banale (non esistono storie banali, piuttosto modi banali di raccontare una storia), la narrazione al centro di Revenant è piuttosto priva di quegli ancoraggi, di quelle basi che, prima di rendere il racconto interessante, lo dotano di quegli aspetti che contribuiscono a sviluppare la più classica delle empatie tra opera e spettatore. Non stupisce, in questo senso, notare proprio come i personaggi siano, in fondo, tagliati con l’accetta tanto è la superficialità con cui sono tratteggiate le loro psicologie o i raccordi narrativi risultino spesso mancanti, o, peggio, inseriti nella storia senza alcuna apparente logica di consequenzialità (personaggi escono e rientrano nella linea narrativa senza un perché, flashback si susseguono senza la vera e propria volontà di indagare il passato del protagonista e via dicendo). Iñárritu non potrebbe essere più distaccato dalla storia che sta raccontando, non potrebbe essere più disinteressato al destino di Glass ed al contempo non potrebbe essere più impegnato ad affogare nel suo egoismo, nel suo desiderio di creare un’immagine bella ma vuota e nella superficialità dello spettatore medio che, elogiandolo quando invece dovrebbe tirarlo giù a sassate dal piedistallo su cui inopinatamente è assiso, gli fa credere di essere il regista più grande del mondo. Revenant è il freddo, superficiale, fantasmagorico secondo mattone, con cui Iñárritu sembra voler costruire la sua personale torre d’avorio con cui punta a isolarsi dalla realtà concreta che con il suo cinema dovrebbe contribuire ad avvicinare al suo pubblico, ti rendi conto di questa terribile verità quando ti prendi tre secondi della tua vita e rifletti sul modo in cui il regista si è rapportato con le sue “appendici”, con gli uomini che, in teoria, dovrebbero collaborare con lui a costruire il racconto che egli intende portare in scena. Di Caprio, attore grandioso, degno di profonda stima e simpatia, sembra essere stato lasciato solo alla fine del primo atto, momento in cui perde la bussola ed il supporto del regista (chiaramente troppo impegnato a dirigere lunghissime ed inutili carrellate nelle foreste canadesi) e dunque inizia ad improvvisare in modo quasi disperato, lasciandosi andare a smorfie di dolore fuori luogo, sguardi in macchina incomprensibilmente salvifici, arrivando fino ad assecondare lo svolgimento di scene ai limiti del ridicolo solo perché il regista vede in esse un’opportunità per delle panoramiche spettacolari. Menzione a parte va fatta per Emanuelle “El Chivo” Lubezsky, fondamentalmente Dio sceso in terra con in mano un faro da cinquemila Watt, direttore della fotografia di Revenant e seconda appendice di Iñárritu: è lui, vero e proprio scultore ed artigiano della luce naturale a dotare il film di quel poco di anima, di atmosfera, di sapore, che lo salva dall’essere un fallimento completo. Dispiace solo, in questo senso, che stiamo parlando di un film di Iñárritu, se fosse stato Lubezsky a dirigere forse, avremmo fatto un discorso diverso… Per quanto paradossale possa sembrare dunque, Revenant alla fine si dimostra meritevole di una stiracchiata sufficienza, che più che essere un giudizio è un sincero ringraziamento e riconoscimento alla manovalanza attoriale e tecnica che, in fondo, ha fatto di tutto per tentare di salvare il progetto di Iñárritu da Iñárritu stesso, peccato solo che l’operazione di salvataggio sia irrimediabilmente fallita a causa dell’ego smisurato del nostro uomo di cui sopra. Iñárritu lavora per trilogie, ha iniziato con la Trilogia Sulla Morte ed ora è arrivato al sesto film, forse chiudendo una seconda trilogia, formata da Biutiful, Birdman e Revenant ancora senza nome (anche se, a questo proposito, una cosa come: “Oh-Mio-Dio-Mamma-Guarda-Come-Sono-Bravo- A-Fare-I-Campi-Lunghi” potrebbe funzionare…), a questo punto non resta che sperare che nel prosieguo della sua carriera il regista abbandoni questa spasmodica ricerca dell’immagine bella ma fredda e vuota e torni a farci assaporare il sangue, la carne, il sudore, la rabbia, le lacrime vere di capolavori come Babel, Amores Perros o 21 Grammi.