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Robin Campillo, il regista francese di 120 Battiti Al Minuto, negli anni ’90 faceva parte di Act-Up, il

collettivo politico-intellettuale che (in questo caso in Francia) si è dedicato a portare all’attenzione
del pubblico la condizione dei malati di AIDS e a sfatare i falsi miti legati alla malattia. Campillo è
omosessuale e durante la militanza ha purtroppo visto morire, proprio a causa della malattia il suo
compagno dell’epoca.
Proprio per questo 120 Battiti Al Minuto non è solo una sorta di biopic su un movimento politico ma
è anche e soprattutto la storia di una parte (tragica) della sua stessa vita.
E allora ecco che il nostro uomo può e deve a questo punto compiere una scelta che racchiude in sé
tutta l’anima del film da fare, una scelta che rima, in sostanza, con lo stile, con il registro da adottare
per portare in scena fatti così complessi, delicati, soprattutto personali.
120 Battiti Al Minuto sarebbe potuto essere l’ennesimo film cronaca su un segmento poco conosciuto
dell’attivismo LGBT anni ’90, un pastiche di cronaca, immagini di repertorio, lieve pietismo e pathos
nello stile del racconto, situazioni e personaggi più o meno stereotipati, 120 Battiti Al Minuto sarebbe
potuto passare per questo inosservato ma al contrario risulta una pellicola profondamente originale
non tanto nei fatti che racconta ma proprio per il modo in cui sceglie di portare in scena la storia di
un movimento di attivisti.
Campillo, e a questo punto si sarà capito, ha scelto la strada poco battuta e ha trasformato quello che
sarebbe potuto essere un ordinario film storico in una pellicola dalla forte impronta sperimentale che
si regge sulla pura sublimazione, sul volontario rimodellamento delle sue componenti costruttive,
all’insegna dell’essenziale, del suggerito più che del mostrato. Il tessuto narrativo del film subisce,
ad esempio, un lento sfasamento che lo porta a trasformarsi da pellicola storica a film intimista
dedicato al racconto dell’amore tragico tra due ragazzi nell’occhio del ciclone dell’AIDS ma con il
tempo ci si accorge che tutte le coordinate tipiche del genere stanno subendo una profonda
ridefinizione dalle fondamenta.
Le ariose scene corali che ci si aspetterebbe da una pellicola del genere sono abolite, le manifestazioni
sono girate con piani stretti che isolano i personaggi e soprattutto non hanno volutamente il
dinamismo tipico di sequenze del genere, assomigliano, in fondo, a performance spettacolari
d’avanguardia ben inserite in un reticolo definito dello spazio scenico (pensiamo al finale) e in fondo
(di nuovo, in piena controtendenza con il genere) tutto il film si regge su un seme teatrale molto
pronunciato, come dimostra la centralità delle riunioni del collettivo Act Up all’interno della pellicola
(in fondo tutto il film si gioca in una stanza chiusa con un pubblico che ascolta un relatore e i dibattiti
che seguono le proposte di azione), di fatto una vera e propria performance teatrale con un attore di
fronte ad una platea di spettatori, una performance che può anche raccogliersi nell’intimità di un
monologo o di un dialogo come dimostrano i racconti dei vari giovani spesso scambiati a fil di voce,
tutti giocati sul momento in cui sono stati infettati per la prima volta. Un elemento sperimentale,
questo, che certo caratterizza il tessuto del racconto ma che soprattutto innerva la pura forma del
progetto di Campillo. La diegesi viene manipolata dal montaggio che anticipa delle azioni, le fa
scorrere in parallelo al voice over degli attori alla maniera della Nouvelle Vague o addirittura le
simula (pensiamo al racconto dei vari progetti da sviluppare per il Pride), il suono viene ridotto
all’osso, di vera e propria musica non c’è quasi traccia, ricorrono, tuttavia, i motivi minimali di stampo
elettronico ma soprattutto, di nuovo in ossequio a quel registro intimista che da un certo momento in
poi caratterizza il film, si lascia spazio al silenzio, rotto dai sussurri e dai rumori carnali, dai suoni
prodotti dai corpi sudati che si abbracciano a testimoniare un ultimo baluardo di resistenza di due
ragazzi che si amano alla malattia.
120 Battiti Al Minuto è in sostanza una piccola perla del genere per la sua abilità di raccontare una
storia usuale in modo inusuale, a dimostrazione dell’estrema padronanza degli strumenti del genere
di Campillo.

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