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Il Buio Dopo La Luce

Leggenda vuole che a intervalli regolari, durante ogni concerto, Mick Jagger si prenda qualche
momento per sé, rallenti il ritmo dell’esibizione ed utilizzi queste parentesi per capire, grazie a
segnali che solo lui sembra essere in grado di captare, qual è il responso del pubblico all’esibizione
stesso o, più semplicemente, se la loro performance sta piacendo o meno. E’ quasi una mania,
derivata forse da un carattere profondamente competitivo o meglio da quel terrore quasi atavico di
perdere in un attimo ciò che ha impiegato anni ad ottenere. Con buona probabilità anche in questo
momento Mick è chiuso nel suo palazzo mentale, esattamente alla fine del primo terzo della setlist
attorno a cui è organizzato il concerto. Anzi, quasi certamente la parentesi che egli dedica alla sua
riflessione personale è iniziata addirittura prima della fine di Love In Vain che in effetti, al termine
dell’ultima strofa si dipana in un lungo assolo di chitarra blues di solito suonato dall’altro Mick,
Mick Taylor, e dunque lascia il tempo a Jagger di lasciarsi inghiottire dal suo rifugio personale
prima di quanto già non voglia fare. L’uomo designato per far tornare Mick sulla Terra prima che
l’uomo possa perdersi definitivamente è Keith Richards. Keith sa interpretare gli input che gli
lancia inconsciamente Mick, lo fa ogni sacrosanta volta, e come ogni sacrosanta volta, anche in
questo momento, su quel palco, sa che deve agire prima che sia troppo tardi. Con un movimento
quasi automatico Keith va verso Mick Jagger, prova ad intercettare il suo sguardo e nel giro di
pochi secondi, guardandolo negli occhi gli dice le cinque parole che ripete da anni per risolvere una
situazione come questa: “Are you all right, mate?” Mick a questo punto si gira, guarda Keith
Richards, fa un cenno affermativo del capo e torna verso il centro del palco per riorganizzarsi con il
resto della band e continuare il concerto; Keith potrebbe giurare a sé stesso di aver visto un breve
sorriso negli occhi del suo cantante, evidentemente, anche stavolta, il test uno ad uno con il
pubblico è andato bene.
Mick sembra essere tornato definitivamente in sé, fa un cenno a Charlie che batte quattro tempi sul
bordo di uno dei suoi tamburi e dà il via al pezzo successivo, Under My Thumb. Da questo
momento in poi l’esibizione degli Stones travalica lo spettro dell’ordinario per entrare di diritto
nella sfera della leggenda. Il gruppo smette di suonare poco prima di arrivare alla metà del pezzo,
Jagger e gli altri sono deconcentrati dalle urla che provengono dal pubblico, i musicisti credono di
trovarsi di fronte a dei tafferugli tra ubriachi e, appurato ciò, riprendono il pezzo dall’inizio. Gli
Stones ancora non lo sanno, ma hanno appena fatto un frontale con il grande treno della Storia, un
frontale talmente pesante che costituirà una sorta di Reset per l’inconscio collettivo dell’America di
quegli anni.
E’ il 6 Dicembre 1969, siamo all’Altamont Free Concert e sono passati poco meno di quattro mesi
dal concerto di Woodstock. Le urla ed il caos interpretati dagli Stones e dal resto del pubblico come
il tipico caos da rissa in un concerto sono in realtà i suoni di un omicidio. A finirci sotto è Meredith
Hunter, un giovanissimo nero che ha avuto l’unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento
sbagliato e di aver perso il controllo nel modo peggiore possibile. La ricostruzione, a quasi
cinquant’anni di distanza è ancora lacunosa, ma probabilmente Hunter ha esagerato con l’erba, ha
fumato una canna di troppo e, preso dalla foga, si è fatto largo quasi fin sotto il palco, ha tirato fuori
la sua pistola, ha sparato un colpo in aria ed è stato subito circondato dagli Hell’s Angels incaricati
di vigilare sull’evento, che hanno avuto la geniale idea di renderlo inoffensivo con una decina di
coltellate.
La Grande Illusione Va In Pezzi
Ad Altamont, quella sera, va in mille pezzi qualcosa. E’ come se, ad appena quattro mesi
dall’evento cardine della Summer Of Love, quel concerto di Woodstock che sa di miracolo per la
sua capacità di aver attratto così tante persone diverse riunite in un solo luogo per celebrare la pace,
la libertà e la voglia di cambiare le cose, quella stessa utopia, quella stessa forza che gli hippy, che i
giovani alternativi avevano provato ad incanalare per ottenere qualcosa di costruttivo si fosse
rivoltata contro di loro tutta nello stesso istante e con una forza straordinaria. E’ come se Meredith
Hunter, prima di essere un ragazzino di diciotto anni, prima di essere la vittima di un omicidio,
fosse una sorta di capro espiatorio, un’entità che al suo interno ha raccolto tutte le istanze di
cambiamento di quegli anni di rivoluzioni, di controcultura e che, venendo uccisa, non avesse fatto
altro che liberarle, rendendole inutili, inutilizzabili, un po’ come se il destino avesse voluto punire
tutte quelle menti libere e piene di voglia di cambiamento mostrando loro che un mondo come il
nostro, un mondo in cui un gruppo di persone si arroga il diritto di ammazzarne un’altra come se
nulla fosse, in realtà non è affatto pronto per la rivoluzione che loro vogliono attuare, anzi forse non
lo sarà mai. Il punto di vista degli Stones sull’affare Altmont si trova in un documentario, Gimme
Shelter, in cui i registi David ed Albert Maysles prendono i quattro musicisti, li mettono di fronte
alle registrazioni di quella sera ad un anno di distanza dai fatti e li “costringono” a ripercorrere i
loro passi, li obbligano ad elaborare criticamente quanto accaduto quel giorno, omicidio Hunter
compreso. Se avete modo di vedere quel documentario concentratevi sulle loro facce mentre
visionano i film: anche loro si erano accorti che qualcosa si era rotto, anche loro si erano accorti che
il nuovo sistema, quello che stavano provando ad instaurare insieme ad altri rappresentanti della
cultura alternativa di quegli anni aveva fallito ancor prima di cominciare e probabilmente, in quelle
sequenze del ’70 si stavano già chiedendo come avrebbero fatto a dirlo ai loro fan.
Eh già perché l’artista è, forse prima di qualsiasi altra cosa, una guida, un faro per la collettività, un
uomo in grado di captare le minime vibrazioni della coscienza collettiva, di interpretare i
cambiamenti in atto nella società e di mostrare, attraverso la sua arte, la via per affrontare la
transizione da un contesto sociale ad un altro. E’ una sua responsabilità, una responsabilità che ha
inconsciamente deciso di arrogarsi nel momento in cui ha preso una chitarra in mano o un pennello
tra le dita e, possiamo tranquillamente dire, in questo caso, nel caso di Altamont e delle
controculture giovanili, la responsabilità impiega pochissimo a diventare obbligo, perché è
abbastanza chiaro che se qualcuno non avverte alla svelta quegli stessi giovani, quegli stessi
guerriglieri culturali che la guerra che stanno combattendo non è tanto sbagliata quanto inutile
perché la società che stanno tentando di cambiare semplicemente non sembra voler accettare il
cambiamento, queste persone finiranno inghiottite, schiacciate dalla loro stessa carica emotiva e,
soprattutto, rimarranno indietro, nelle loro torri d’avorio, mentre il resto del mondo, il resto della
società va avanti.
Gli Stones chiuderanno quel concerto, già stanchi e disillusi per quanto stava accadendo di fronte ai
loro occhi, suonando Street Fighting Man, un pezzo che celebra le rivolte sociali in atto in quegli
anni di Vietnam e di ingiustizie, ma che, fatta partire in quella circostanza, suona come il canto del
cigno di quegli stessi valori positivi su cui si dilunga il testo della canzone, un po’ come a voler dire
“Ora, signori e signori è tutto finito, fumiamoci un ultimo spinello tutti insieme e da domani
ricominciamo da capo”. Nel ’71 il gruppo fa uscire Sticky Fingers, l’album con cui Mick e gli altri
provano a ricominciare dopo il fallimento di Altamont, un disco in cui non c’è traccia di inni politici
o di canzoni di commento ai cambiamenti sociali in atto e tuttavia abbondano pezzi che si muovono
sulle corde più classiche dello stile del gruppo (sesso, droga, ironia e via dicendo), un po’ come se
gli Stones volessero insabbiare tutto ciò che è stato (o non è stato, in questo caso), un po’ come se
volessero aiutare i loro fan ad affrontare il cambiamento, o meglio il suo fallimento, distraendoli e
facendo loro riprendere contatto con i valori del passato, magari più superficiali ma, almeno per ora,
più sicuri. In realtà l’approccio del gruppo alla catastrofe, alla distruzione delle illusioni può essere
presa per ciò che è, può essere registrata ma non può essere criticata perché in quegli anni molti altri
artisti, molti altri intellettuali agirono nel loro esatto modo. Manca, in questo inizio di anni ’70,
qualcuno che prenda gli americani, prenda i giovani alternativi, gli dia due ceffoni in faccia e gli
faccia capire seriamente che le loro istanze di cambiamento sono mal poste e che, per il loro bene è
necessario che tornino da dove sono venuti e si riorganizzino per bene, prima che sia troppo tardi,
anche a costo di presentarli come ridicoli, anche a costo di criticarli. O forse…forse una personalità
del genere in giro in questi anni c’è, solo che al momento è ancora bloccato nel circuito
underground e dunque non riesce a trasmettere il senso del suo messaggio come vorrebbe ma in
fondo…beh in fondo non fa niente, l’importante è che ci sia, l’importante è che combatta, che ci
provi, che sia il faro che il suo ruolo lo obbliga ad essere.
Consigli Ad Un Giovane Ribelle
Richard C. Sarafian è un regista che, a tutt’oggi, è stato uno dei migliori commentatori del
fallimento delle istanze di ribellione e cambiamento di quegli anni forse perché il gene della
disillusione, della distruzione, ce l’ha nel sangue. Sarafian ha origini armene, meglio, è figlio di
armeni scappati in America per sfuggire alla morte durante il genocidio dei primi del ‘900 perciò sa
perfettamente, anche inconsciamente, cosa vuol dire quando il tuo mondo, il contesto in cui ti trovi
al meglio ti crolla addosso malgrado tu ti sforzi di tenerlo insieme e se davvero il destino ha deciso
che sarà lui l’uomo incaricato di “svegliare” i giovani americani dalla loro illusione beh il nostro
uomo di certo non si tira indietro, anzi, come vedremo tra poco, sembra pronto a fare le cose in
grande stile.
Quando il suo Man In The Wilderness uscì nelle sale andò a prendere il suo posto tra quei western
di rottura con la tradizione Fordiana e si incamminò quindi sul sentiero già tracciato da capolavori
precedenti come The Wild Bunch ma ora, a quasi quarant’anni di distanza dalla prima proiezione è
chiaro che Sarafian ha progettato il suo film per farlo essere una sorta di bomba culturale densa di
significato pronta ad esplodere a contatto con lo spettatore più recettivo e a modificare la sua
coscienza ed il modo in cui si rapporta alla società che lo circonda e lo ospita. A questo punto, a noi
che lo osserviamo da spettatori a me, che mi rapporto all’opera come un qualcosa da studiare, da
capire, non rimane che raccogliere i detriti dello scoppio, con il preciso obiettivo di ricostruire la
bomba, con il preciso intento di comprendere le intenzioni che hanno animato Sarafian durante la
progettazione del suo film.
Prima di essere una storia (vera) di sopravvivenza, la narrazione per immagini organizzata da
Sarafian attorno alla figura di Bass è il racconto di come un ambiente solitamente ospitale,
conosciuto all’uomo che interagisce con esso, di colpo si rivolta contro quest’ultimo e diventa il suo
peggior nemico. Bass, un po’ come Meredith Hunter prima di lui, è una sorta di simulacro che però
stavolta il regista inserisce nello stesso contesto di quei giovani alternativi che vedranno il suo film
e con cui il regista sembra voler interagire. Il nostro protagonista è esattamente come il giovane
esponente della controcultura medio di quegli anni che ha visto andare in mille pezzi il contesto
sociale in cui credeva di essere a suo agio e che era convinto di saper modellare secondo il proprio
volere e tuttavia è chiaro che ci troviamo di fronte alla punta dell’iceberg. Il parallelismo tra la
storia del protagonista e la Storia, con la S maiuscola che ha impattato con gli spettatori del film è
ad un tempo l’esca per ottenere l’attenzione del pubblico e per fare in modo che i presenti in sala
sviluppino una certa dose di empatia con la vicenda raccontata ma è, anche e soprattutto, il
preambolo, la premessa, con cui Sarafian ed il suo team creativo si preparano a confutare e a
criticare ogni singolo fondamento di quella controcultura, che, a leggere retrospettivamente i fatti,
sembra aver fallito ancor prima di iniziare a fare sul serio.
La natura incontaminata celebrata dagli hippy ed eletta da questi ultimi come luogo prediletto per
un nuovo inizio, un primo tassello da cui si possa costruire una società migliore di quella
contemporanea, appare, nel film, come la prima minaccia per Bass. Non più entità benevola al
servizio di un’utopica rinascita dalle ceneri della rivoluzione ma cornice inospitale, solitaria,
drammaticamente silenziosa e soprattutto irta di pericoli in ogni angolo che accoglie l’avventura
non desiderata da Bass e tutte le tribolazioni e le sofferenze che essa comporta.
Il discorso di Sarafian sembra essere anche teologico, per quanto si possa definire teologica una
discussione organizzata attorno ad un western con un protagonista che cerca vendetta contro i
compagni che l’hanno abbandonato dopo che egli è stato quasi ferito a morte da un grizzly. Sarafian
e gli altri del suo team sanno che gli anni delle controculture, della ribellione sono stati anche anni
in cui i giovani dissidenti si sono rifugiati in religioni New Age e si sono abbandonati acriticamente
al controllo di santoni, guru o individui dubbiamente illuminati e dunque ecco che, nei flashback,
Bass viene descritto come ateo fin dalla prima infanzia e costantemente impegnato a domandarsi il
senso dell’impatto di Dio sulla vita quotidiana degli uomini (tra l’altro ironico come per il
protagonista la sua Bibbia tascabile funzioni più come un portafortuna che per altro e che
soprattutto egli interagisca con l’oggetto nei modi più impensati, prima strappandone una manciata
di fogli per farci il fuoco e poi per leggere alcuni passi per rassicurarsi sulla questione, ben più
terrena e violenta, della vendetta personale). Il Bass di Sarafian non è un personaggio ateo perché
anticristiano ma piuttosto perché è cosciente di vivere in un contesto, in una società che può
cambiare solo grazie ai suoi sforzi ed ai suoi impegni e non per qualche trascendente intervento
divino. Egli è esattamente come i giovani ribelli dovrebbero essere, costantemente “nel tempo”,
costantemente pronti a fare la cosa giusta affidandosi solo sulle proprie forze e non a qualche
insegnamento becero di qualche religione alla moda o di qualche santone New Age.
Ultimo nucleo del discorso critico organizzato da Sarafian attorno al suo film sembra essere quello
legato all’uomo. L’umanità ritratta dal regista nel film è formata infatti da personaggi gretti,
amorali, egoisti, cinici, che già da soli, con la loro semplice presenza in scena, sembrano essere
un’amara constatazione di come, se è vero che secondo le controculture giovanili la nuova società
doveva nascere dall’aggregazione di più persone unite dalla volontà di ricercare ed ottenere il bene
comune, è indubbio che queste altruistiche unioni siano impossibili da ottenere in un contesto
popolato da individui del genere (che ricordavano così da vicino gli Americani di quegli anni).
Un Pamphlet Per La Ricostruzione
Già così, Man In The Wilderness appare come uno dei più importanti saggi critici sul fallimento dei
movimenti di ribellione della controcultura giovanile degli anni ’60 ma possiamo provare a fare una
cosa per vedere se riusciamo ad allargare il cerchio e a scendere ancora più in profondità
sull’argomento. Basta scorrere la filmografia di Sarafian per notare come in quello stesso 1971 in
cui uscì nelle sale Man In The Wilderness, solo, qualche mese prima, il pubblico conobbe il suo
Vanishing Point, cioè il racconto della rovinosa quanto inspiegabile fuga di Kowalski, un reduce del
Vietnam che cerca di raggiungere San Francisco nel più breve tempo possibile correndo giorno e
notte sulle polverose strade degli Stati Uniti Sud Occidentali e finendo la sua corsa schiantandosi
contro un posto di blocco istituito dalla polizia per fermarlo. Vanishing Point è probabilmente un
film tecnicamente migliore di Man In The Wilderness ma, preso da solo, è anche un’opera
fastidiosamente incompleta. Il fatto è che di fronte ai nostri occhi c’è un film che inizia un discorso
ed organizza una critica al sistema delle controculture giovanili che però verrà terminato e confutato
interamente solo da Man In The Wilderness. Pensateci, è come se Sarafian scegliesse di pianificare
la sua argomentazione come fa con le panoramiche dei suoi film, prima critica i valori astratti e poi
si dedica a fare a pezzi gli elementi cardine delle culture underground a lui contemporanei a più alto
grado di concretezza. Prima dunque (con Vanishing Point) critica quella ricerca di libertà che è
sempre sulla bocca di hippy ed alternativi di turno ma che, effettivamente, specie se messa nelle
mani sbagliate si rivela in tutta la sua precarietà, in tutto il suo non senso; poi, fatto ciò, girando
Man In The Wilderness, precisa la sua critica utilizzando come base d’appoggio valori più tangibili,
più legati alla vita quotidiana come la religione, la vita comune e via dicendo. Preso nella sua
interezza dunque, il “progetto” di Sarafian sembra essere caratterizzato dai tratti dello studio
filosofico e del saggio antropologico ma per noi, più semplicemente, sembra essere la scossa, il
cazzotto in faccia che le giovani generazioni sembrano aver bisogno per riprendersi dallo shock di
Altamont.
Viene da chiedersi, a chiusura di quest’analisi se Sarafian con i suoi film si sia limitato a criticare
un modello di società (e di reazione ad essa) o piuttosto si sia impegnato anche a proporre un
modello positivo attorno a cui, secondo lui, la collettività del futuro potrà strutturarsi. A questa
domanda, almeno personalmente, sento di rispondere in modo affermativo. Sarafian è un cinico
analista della società a lui contemporanea ma non è un reazionario. Anche lui crede che le cose
debbano cambiare, magari alla svelta, solo che non pensa che il modo migliore per farlo sia affidarsi
ad una manica di giovani hippy ed artistoidi underground che raramente hanno dimostrato di sapere
cosa stessero facendo. Il futuro del mondo per Sarafian sembra risiedere piuttosto in uomini come
Bass, personaggi che, da soli, senza affidarsi ad altri, senza piegarsi ai voleri e ai capricci di un Dio,
contando solo su loro stessi arrivano a piegare il contesto in cui si trovano ai loro voleri. E’ a loro
che il regista sembra affidare il futuro della società e a noi, noi spettatori, Sarafian, sardonico,
sembra dire “provateci…provate ad essere come lui…magari funziona…”

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