Sei sulla pagina 1di 2

La Truffa Dei Logan rischia di essere recepito come un episodio minore all’interno della filmografia

di un autore come Steven Soderbergh che già si caratterizza per una sua difficoltà di catalogazione
da parte dello spettatore contemporaneo.
Il percorso artistico di Soderbergh si è innervato e sviluppato, negli anni, attorno a tre direttrici
fondamentali.
In primo luogo c’è lo studio e la riflessione attorno alla forma cinematografica: il senso estetico di
Soderbergh è uno dei più sviluppati e raffinati del cinema contemporaneo, i rapporti che instaura con
oggetti, personaggi e macchina da presa, oltreché la disposizione degli stessi nel quadro sono a tal
punto curati, studiati fin nei minimi dettagli che diventano essi stessi, per primi, vettori di messaggi,
di letture ideologiche, di commento e presa di posizione del regista nei confronti della dimensione
del racconto.
La seconda direttrice su cui si organizza la poetica del regista sembra poi essere costituita da quel
serbatoio di spunti e input costituito dalla dimensione postmoderna, con cui Soderbergh intrattiene
un rapporto meno marcato, forse più stilizzato, etereo, rispetto a cineasti come Joel e Ethan Coen, ma
da cui egli non si fa problemi a prelevare stilemi e forme narrative del cinema di genere, citazioni,
addirittura veri e propri elementi costruttivi che contribuiscono a delineare le caratterizzazioni dei
vari personaggi.
A fare come da collante tra queste due linee costruttive c’è infine una fortissima tendenza alla
sperimentazione, che porta Soderbergh a giocare costantemente con i modelli di riferimento, con la
forma cinematografica, con i prelievi dall’immaginario collettivo, ricombinandone i tratti essenziali,
smontandoli, rimontandoli dopo minime ma significative variazioni.
Per la sua profondità di pensiero e preparazione, Steven Soderbergh è uno dei cineasti più rispettati
dalla critica ma al contempo, spesso, molti spettatori, molti commentatori, finiscono per approcciarsi
al suo cinema con sospetto. Le fondamenta della poetica del regista, in effetti, fanno in modo che il
suo cinema non rifletta mai, o quasi mai, sul presente, sulla contemporaneità, in chiave critico-
ideologica, finendo per dare l’impressione di operare su un piano assolutamente separato rispetto al
contesto sociale, al REALE, in cui finisce per inserirsi.
L’idea generale è che Steven Soderbergh, al netto dei fatti, sia un regista pienamente formalista,
fautore di un cinema profondamente stilizzato e che finisce per riflettere, per organizzare un discorso
critico solo e soltanto attorno al cinema e alle forme di rappresentazione.
E allora è qui che il discorso attorno a La Truffa Dei Logan si fa interessante e che qualsiasi commento
attorno a questo progetto domanda precisione e attenzione nell’approccio; perché ci troviamo a
confrontarci con quello che forse è il primo film in cui Steven Soderbergh dichiaratamente esce dalla
sua comfort zone iperstilizzata e decide di confrontarsi con la società americana contemporanea,
organizzando un discorso che provi ad analizzare alcune delle linee di pensiero maggiori che
contraddistinguono l’America emersa dalle macerie conseguite all’elezione di Donald Trump.
La Truffa Dei Logan è dunque un affresco di quell’America profonda dal cui malcontento, dal cui
isolamento, nasce di fatto gran parte della vittoria di Trump alle ultime elezioni. Non bisogna, tuttavia,
cadere in facili equivoci. Il tessuto del film, che si struttura senz’altro sulla linea di altri heist movie
di Soderbergh (la serie Ocean’s in primis), ma che di fatto si muove su un innesto proveniente da
precedenti esperienze di quelli che potremmo definire Hillbilly Heist Movies, i film che portano in
scena rapine organizzate da delinquenti improvvisati, spesso provenienti da classi sociali basse,
proletarie, sottogenere che potremmo far originare da I Soliti Ignoti di Monicelli e che è influenzato
senza alcun dubbio da alcune idee di scrittura dei Coen (che dopotutto al filone Hillbilly si erano
dedicati con l’incursione di O Brother Where Art Tou?) è tutt’altro che una facile satira di questa
sorta di microcosmo socioculturale a stelle e strisce.
Meglio, il film è intelligentemente puntellato da numerosi spunti satirici che vogliono mettere alla
berlina quelli che sono diventati nel recente passato i fondamenti della morale trumpiana,
dall’infallibile istinto dell’imprenditore rampante (pensiamo al personaggio di Seth Mcfarlane), al
machismo più spinto, dal becero nazionalismo ad un populismo quasi accecante nella sua integralità,
il punto, tuttavia, è che piuttosto che essere questi degli elementi che sanciscono e strutturano
l’obiettivo finale della pellicola (sarebbe in fondo troppo semplice fare una satira su un contesto
socioculturale già, per certi versi, ai limiti della sensibilità comune), diventano dei punti di partenza
su cui organizzare il vero e proprio discorso sotteso al progetto di Soderbergh.
Potremmo in fondo far partire tutto dall’empatia. Lungi dall’essere personaggi monodimensionali
goffi, comici, quasi caricaturali e che per questo quasi debbono coinvolgerci emotivamente a forza, i
protagonisti de La Truffa Dei Logan non negano mai la loro natura di individui letteralmente nati,
formati, da quello stesso ambiente che Soderbergh mette tra parentesi, la differenza è che per un
motivo o per un altro la loro maturazione non è ancora completa e dunque, assurdamente, nessuno tra
i componenti del gruppo di rapinatori è stato completamente assorbito dal contesto in cui è nato. I
loro atteggiamenti sono mitigati, addolciti, c’è una sana ingenuità in loro, una purezza nei gesti, nelle
parole, nelle azioni che compiono. I protagonisti del film, quasi consapevoli della loro natura
profonda, decidono convintamente di rifiutarla e sembrano cercare, attraverso il colpo, un’occasione
di rivincita e riscatto.
La Truffa Dei Logan funziona prima di qualsiasi altra cosa per il peculiare rapporto che organizza tra
gli spettatori e gli agenti della loro storia. Man mano che il racconto va avanti, è chiaro infatti che il
legame che il pubblico sviluppa con i protagonisti è un’empatia dovuta a fattori più complessi di una
gag inserita al momento giusto o di una battuta sagace. Soderbergh organizza un film di contrasti.
Una commedia action ambientata nel rozzo e profondo Sud girata con classe ed eleganza, in cui si
muovono personaggi fallibili, di per sé nutriti da un’ideologia sbagliata da cui però scelgono di
allontanarsi, divenendo per questo irresistibili. Soderbergh porta in scena, in due parole, il buon
selvaggio di Rousseau, il prodotto ancora sano di una società in rapida corruzione e che tutto sommato
riesce a mantenersi puro, autentico, genuino, desideroso di “cambiare stato” (per dirla con Verga).
Per questo i personaggi del film funzionano, perché è un po’ come se il regista (con un atteggiamento
profondamente maturo), ammettesse che forse un modo giusto di approcciare la realtà socioculturale
del profondo Sud c’è e di certo non passa per il rifiuto totale dei suoi fondamenti, piuttosto per un
approccio critico agli stessi, che porta l’individuo ad incorporarli ma non a lasciarsi totalmente
assorbire da essi finendo per perdere la propria umanità.
Prima di essere una grande prova di quel cinema che coniuga la dimensione commerciale a quella
autoriale, La Truffa Dei Logan rappresentata la prima incursione di Steven Soderbergh nella lettura
della contemporaneità, un’incursione da cui emerge una lettura moderata della società che lo
circonda.

Potrebbero piacerti anche