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DISPENSA DI DIRITTO CIVILE

La tutela individuale e collettiva del consumatore.

Francesco Caringella

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Indice

SCHEMA DELLA LEZIONE

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1. NOZIONE DI CONSUMATORE a) Corte di Giustizia, 3 settembre 2015, c-110/14; b)

Corte di Cassazione 1 febbraio 2016, n.1869; c) Corte di Giustizia 4 giugno 2015, C-497-13;

d) Corte di Giustizia 25 gennaio 2018, C-498/16; La nozione di consumatore tra il Codice

del Consumo e la Legge n. 3 del 2012

2. LE CLAUSOLE ABUSIVE Corte giustizia, Sez. II, Sent., 20-09-2017, n. 186/16

3. LA NON VINCOLATIVITÀ DELLE CLAUSOLE ABUSIVE Corte di Giustizia 21

dicembre 2016, cause riunite C-154/15 e C-307/15

4. APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA ANTITRUST AI CONTRATTI “A VALLE”

Corte di cassazione 12 dicembre 2017, n. 29810

5. TUTELA DL CONSUMATORE E “UMBRELLA EFFECTS” Corte di Giustizia 5

giugno 2014, in causa 557/12

6. INTERVENTO DI UN’ASSOCIAZIONE DI CONSUMATORI IN GIUDIZIO A

SOSTEGNO DI UN CONSUMATORE a) Corte di Giustizia, 27 febbraio 2014 in causa

470/12; b) Corte di Cassazione 19 febbraio 2015, n. 3323; c) Sezioni Unite 16 novembre

2016, n. 13304

7. LA CORTE D’APPELLO DI MILANO SULLA CLASS ACTION: I DANNI NON

PATRIMONIALI OMOGENEI Corte d’Appello di Milano, 25 agosto 2017, n. 2828

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8. LE SEZIONI UNITE RISOLVONO LA QUESTIONE DELLA RICORRIBILITÀ

DELL’ORDINANZA DI INAMMISSIBILITÀ DELLA CLASS ACTION Corte di

Cassazione Sezioni Unite 1 febbraio 2017, n. 2610.

9. LE SEZIONI UNITE SULLA FORMA SCRITTA DEL CONTRATTO QUADRO

RELATIVO AI SERVIZI DI INVESTIMENTO Corte di cassazione, Sezioni Unite 16

gennaio 2018, n. 898

Argomenti specialistici di notevole interesse

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Schema della lezione

1. INTRODUZIONE E RATIO DELLA DISCIPLINA CONSUMERISTICA


1.1.DAL CONTRATTO AI CONTRATTI
L’avvento del consumerismo mette in crisi la tradizionale idea di unitarietà del contratto
disciplinato dal codice civile (ispirato ai valori del liberismo e della signoria della
volontà).
L’esigenza di protezione del consumatore (parte debole) fa emergere un’esigenza di
differenziazione della disciplina dei contratti normativamente asimmetrici di cui egli sia
parte.
1.2.GIUSTIZIA CONTRATTUALE, CONTRATTO ASIMMETRICO E SINDACATO
DEL GIUDICE
Il tendenziale venir meno del principio di insindacabilità della volontà negoziale nei
contratti asimmetrici (dunque squilibrati a livello economico, sociale o normativo) si
attualizza in vista del perseguimento di una ideale giustizia contrattuale.
Per comprendere a pieno tale dinamica è opportuno richiamare, in cenni, altri istituti che,
già nella formulazione del codice civile, evocano tale intento (la rescissione, il divieto
d’usura, la sindacabilità della clausola penale sproporzionata).
Agli stessi ideali è ispirata la normativa del cd terzo contratto (rinvio).
1.3.MODELLO CONSUMERISTICO DA ECCEZIONE A SISTEMA GENERALE
Il modello consumeristico, nato come eccezione al contratto disciplinato nel c.c. ai fini
descritti, assurge a modello generale e a sua volta completo, parallelo rispetto a quello
codicistico.

2. RIFERIMENTI COSTITUZIONALI
Art 2: principio di solidarietà;
art. 3: uguaglianza sostanziale;
art. 41: tutela della libertà di iniziativa economica.

3. EVOLUZIONE STORICA
3.1.ORIGINI E DIRITTO ROMANO
3.2.LA TUTELA DEL CONTRAENTE DEBOLE E IL SINDACATO
SULL’EQUILIBRIO CONTRATTUALE NEI CODICI DEL 1865 E 1942
La matrice liberale del codice del 1865 e la tendenziale insindacabilità dell’equilibrio delle
prestazioni.
La previsione di casi tassativi di sindacato del regolamento negoziale e la tutela formale
del codice del 1942.
Le parziali risposte fornite dalla l. 52/’96, di attuazione della direttiva CE 93/13, e della l.
281/’98 che regolamenta l’azione collettiva da parte delle associazioni dei consumatori.
3.3.DAL C.C. AL CODICE DEL CONSUMO
La scelta di introdurre una normativa extra-codicistica e settoriale in materia
consumeristica: il dlgs 206/2005.

4. NOZIONI
4.1. IL CONSUMATORE

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L’art 33 Cod. Cons e l’ambito applicativo della disciplina consumeristica: il rilievo della
definizione soggettiva di consumatore e professionista (con riferimento anche ad altre
nozioni di consumatore fornite dall’ordinamento, ad es. dalla disciplina del risanamento
dei debiti).

a. Il consumatore persona fisica


La ratio dell’esclusione dall’ambito di applicazione della disciplina consumeristica
delle persone giuridiche (anche con riferimento all’Ordinanza Cost. 469/2002).
b. La centralità del dato teleologico: gli scopi estranei all’attività d’impresa
La complessa indagine sullo scopo dell’atto e i relativi corollari:
- che lo scopo del contratto sia estraneo all’attività d’impresa è accertamento
necessario e sufficiente all’applicazione della disciplina consumeristica;
- a rilevare ai fini della qualifica di un soggetto come professionista, non
applicandosi così la disciplina de qua, è l’occasionalità contingente dell’atto
rispetto alla professione (anche se l’atto sia estraneo alla professione stessa);
- ai fini della qualificazione soggettiva del contraente non rileva il momento
dell’esecuzione ma quello della stipula del contratto;
- l’operazione economica va valutata nel complesso.
c. Rinvio a par. 6.1
Rinvio per l’analisi di dettaglio di varie questioni problematiche emerse
sull’applicabilità della disciplina consumeristica a vari contratti (quelli stipulati dal
condominio o del lavoratore subordinato, quelli in vista della professione, quelli misti
etc).

4.2. I CONTRATTI DEL CONSUMATORE


Accanto ad una parte generale, che disciplina tutti i contratti con i consumatori (di cui nel
proseguo), il Codice del Consumo regola nel dettaglio singole tipologie contrattuali
(vendita di beni al consumo, vendita fuori dai locali commerciali, contratti informatici, a
distanza, etc).
Dunque la disciplina applicabile al sinolo contratto nasce dalla sinergia tra quella generale
e quella speciale prevista per la singola fattispecie.

5. DISCIPLINA VIGENTE
5.1.LE CLAUSOLE VESSATORIE
La lista grigia, la lista nera e le clausole residuali.
L’impossibilità di una tipizzazione esaustiva della vessatorietà e le condizioni probatorie
della stessa (Cass. 10910/2017 e CG 2017 C-186/16)
5.2.LO SQUILIBRIO SIGNIFICATIVO, ORIGINARIO E NORMATIVO
Analisi sintetica del concetto di squilibrio adottato dal Codice del Consumo; differenze
con il concetto di squilibrio preso in considerazione dal legislatore già in vari istituti del
c.c.
5.3.I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLO SQUILIBRIO
Breve analisi dei criteri di valutazione della sussistenza dello squilibrio previsti dal Codice
del Consumo.
a. La buona fede

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Criterio oggettivo o soggettivo? Tesi dualistica o monistica per la valutazione dello
squilibrio? Criterio attizio o comportamentale?
b. Le circostanze del caso concreto
Oggettive o soggettive
c. Lo squilibrio relativo all’oggetto
La natura solo normativa dello squilibrio rilevante alla luce del Codice del Consumo,
salvo il dettato dell’art. 34 c. 2
d. Neoformalismo, trasparenza e vessatorietà
Breve analisi dell’art. 35 (con il relativo dovere di trasparenza e informazione,
chiarezza e comprensibilità).
L’esplicitazione del dovere di buona fede contrattuale inteso come dovere di
informazione e trasparenza, già implicito agli art. 1337 ss c.c.
Gli effetti della violazione del precetto.
5.4.LE ESIMENTI DELLA VESSATORIETA’
Breve analisi delle situazioni che escludono la vessatorietà.
a. Le clausole riproduttive di leggi
Il problema delle clausole riproduttive di regolamenti, bandi, prassi, circolari.
b. La trattativa
Natura e caratteri della trattativa; problemi probatori.

6. AMBITI APPLICATIVI PROBLEMATICI E PROFILI SOSTANZIALI


Breve analisi delle questioni emerse con maggiore urgenza in giurisprudenza e dottrina
relative all’ambito di applicazione della normativa consumeristica.
a. I contratti in vista della professione
b. I contratti misti
c. Le operazioni economiche complesse e i contratti di garanzia
(su cui CG 2015, C- 110/14 e Cass. 1862/2016)
d. La tutela del consumatore terzo rispetto al contratto
e. Il consumatore apparente e la buona fede
f. Il lavoratore subordinato
g. L’ambigua consistenza ontologica del condominio e la nozione di consumatore
h. I contratti con la PA e la disciplina consumeristica
Cenni sulla capacità giuridica di diritto privato della PA e sulla applicabilità alla stessa
della qualifica di professionista ai fini del dlgs 206/2005

7. TUTELA E PROFILI PROCESSUALI


7.1.LA TUTELA INDIVIDUALE
a. Le nullità di protezione
La collettivizzazione dell’interesse personale e la coincidenza tra interesse individuale
e collettivo; le finalità dell’istituto.
L’eterogeneità delle nullità di protezione (formali e sostanziali, attizie e
comportamentali, testuali e virtuali).
I caratteri della disciplina, con breve analisi delle affinità e differenze rispetto
all’istituto della nullità codicistica (necessaria parziarietà, legittimazione, natura di
accertamento o costitutiva della sentenza, sanabilità, prescrizione, tutela del sub

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acquirente, rilevabilità ex officio, effetti della dichiarazione di nullità parziale e potere
di supplenza del giudice).
b. La tutela restitutoria
Breve disamina dei suoi caratteri essenziali.
c. La tutela risarcitoria
d. Il recesso di pentimento

7.2.LA TUTELA SUPER-INDIVIDUALE


a. La tutela collettiva e la legittimazione delle Associazioni
L’interesse collettivo non come sintesi degli interessi individuali, ma come interesse
dalla consistenza ontologica autonoma.
La natura essenzialmente inibitoria e preventiva dell’azione.
Cenni sui problemi processuali: le Associazioni sono sostituti processuali dei
consumatori? C’è litisconsorzio necessario?
b. La tutela meta-individuale e la class action
I caratteri essenziali della class action e la ratio dell’istituto.
I suoi profili di debolezza.
Cenni sui problemi processuali affrontati più di recente dalla giurisprudenza: le SU
2610/2017 sull’ordinanza di inammissibilità dell’azione di classe per mancanza dei
presupposti e sulla sua ricorribilità in Cassazione.
c. La class action pubblica (dlgs 2009/198)
Cenni al modello di class action prevista nel sistema amministrativo contro le
inefficienze di amministrazioni e concessionari di servizi pubblici.
Differenze e affinità col modello civilistico di class action.

8. DIRITTO COMUNITARIO E I PRINCIPI UNIDROIT


Breve disamina di come il motore delle nuove tendenze nazionali in materia di sindacabilità
del contratto, specie in materia consumeristica, sia stato spesso da individuarsi nella normativa
comunitaria.
L’evoluzione, in breve, della materia: dai Trattati istitutivi CEE, al Trattato di Maastricht, alla
direttiva CE 93/13.
L’art. 3.10 dei principi UNIDROIT e l’art. 4.109 dei Principles of European Contract Law.

9. ELEMENTI DI DIRITTO COMPARATO


La class action statunitense come paradigma per l’analogo istituto dell’ordinamento
nazionale; affinità e differenze.

10. LA TUTELA DELL’IMPRENDITORE DEBOLE


La tutela del professionista “debole”. Il cd terzo contratto:
a. La legge sulla subfornitura;
b. Il divieto di abuso della dipendenza economica;
c. La tutela delle microimprese;
d. Le intese anticoncorrenziali.
10.1.IL DIRITTO COMUNE DELLA VENDITA TRASNFRONTALIERA

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Selezione giurisprudenziale
1. NOZIONE DI CONSUMATORE

a) Corte di Giustizia, 3 settembre 2015, c-110/14;

Introduzione

La Corte di Giustizia interviene con la presente pronuncia a specificare le coordinate della nozione
di consumatore fornita dall’art. 2 della direttiva 93/13/CEE, indispensabile ad individuare i confini
di applicazione di tale normativa.
Nell’affermare che un «consumatore» è qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto di detta
direttiva, agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua attività professionale, la Corte,
da un lato, ribadisce come quello del consumatore non sia uno status inerente alla persona
astrattamente considerata, ma una condizione soggettiva di tipo elastico che dipende dalle
finalità della singola contrattazione, tracciando la forma di un consumatore che potremmo definire
“a geometrie variabili”.
Lo stesso soggetto, quindi, può essere considerato un professionista o un consumatore a seconda che
il singolo contratto sia stipulato in concreto per un fine professionale o personale.
Allo stesso tempo, l’accertamento della condizione soggettiva del consumatore non dipende
dalla verifica reale della debolezza contrattuale dello stesso, essendo richiesta sempre e solo
un’analisi prettamente oggettiva e teleologica dell’estraneità della contrattazione alla professione
esercitata.
D’altro canto, essa risolve il dubbio se, quando un soggetto stipuli un contratto di garanzia, per
stabilire se costui sia un professionista o un consumatore, sia necessario guardare allo scopo che
persegue colui che rilascia la garanzia ovvero allo scopo a cui è funzionale il debito garantito.
Sul tema anche il dibattito tra le corti interne è stato vivace.
Una giurisprudenza nazionale (per vero minoritaria) ha ritenuto di attribuire una rilevanza autonoma
alla qualità soggettiva del garante; l’imposizione maggioritaria, d’altro canto, è stata a lungo quella
secondo la quale, dovendosi valutare il fine dall’operazione complessiva, si dovrebbe concludere che
abbia rilevanza il contratto principale e non il contratto di carattere accessorio (così Cass. 11
gennaio 2011, n. 314): sul contratto accessorio si trasferirebbe dunque “di rimbalzo” la qualifica di
contratto consumeristico, ove quello principale sia estraneo all’attività professionale del contraente.
A ben vedere la Corte di Giustizia propone una soluzione mediana: si deve distinguere a seconda
che la garanzia sia stata rilasciata da un soggetto che abbia una posizione collegata all’attività
imprenditoriale posta in essere dal debitore garantito o, al contrario, se la garanzia sia rilasciata
per finalità estranee all’attività di carattere professionale.
Questa impostazione, peraltro, sembra fatta propria anche dalla Cassazione (Cass. 1 febbraio 2016
n. 1862) che ha inteso includere nella nozione di consumatore anche il fideiussore che agisca
quale “privato”, in assenza di qualsivoglia collegamento con l’attività professionale svolta.

Massima

L’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le
clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che una
persona fisica che eserciti la professione di avvocato e stipuli con una banca un contratto di credito
nel quale lo scopo del credito non sia specificato può essere considerata un «consumatore», ai sensi
di tale disposizione, qualora un simile contratto non sia legato all’attività professionale di detto
avvocato. La circostanza che il credito sorto dal medesimo contratto sia garantito da un’ipoteca
concessa da tale persona in qualità di rappresentante del suo studio legale e gravante su beni

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destinati all’esercizio della sua attività professionale, quale un immobile appartenente a detto studio
legale, non è in proposito rilevante.
Sentenza
(omissis)
16 Conformemente a tali definizioni, un «consumatore» è qualsiasi persona fisica che, nei
contratti oggetto di detta direttiva, agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua
attività professionale. Inoltre, un «professionista» è qualsiasi persona fisica o giuridica che, nei
contratti oggetto della direttiva 93/13, agisce nell’ambito della sua attività professionale, sia essa
pubblica o privata.
17 Pertanto, è con riferimento alla qualità dei contraenti, a seconda che essi agiscano o meno
nell’ambito della loro attività professionale, che detta direttiva definisce i contratti ai quali essa si
applica (…).
18 Tale criterio corrisponde all’idea sulla quale è basato il sistema di tutela istituito dalla direttiva
medesima, ossia che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista
per quanto riguarda sia il potere di trattativa sia il livello di informazione, situazione che lo induce ad
aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse
(…).
19 Alla luce di una siffatta situazione di inferiorità, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13
prevede che le clausole abusive non vincolino i consumatori. Si tratta di una disposizione
imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale, che il contratto determina fra i diritti e gli
obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra
queste ultime (…).
20 Nel contempo, è opportuno rammentare che una stessa e identica persona può agire in quanto
consumatore nell’ambito di determinate operazioni e in quanto professionista nell’ambito di
altre.
21 La nozione di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, possiede,
(omissis), carattere oggettivo e prescinde dalle conoscenze concrete che l’interessato può avere o
dalle informazioni di cui egli realmente dispone.
22 Il giudice nazionale adito nel contesto di una controversia vertente su un contratto che può rientrare
nell’ambito di applicazione di tale direttiva deve verificare, tenendo conto di tutti gli elementi di
prova e, segnatamente, delle condizioni di tale contratto, se il mutuatario possa essere qualificato
come «consumatore» ai sensi di detta direttiva (…).
23 A tal fine, il giudice nazionale deve tener conto di tutte le circostanze del caso concreto, e in
particolare della natura del bene o del servizio oggetto del contratto considerato, idonee a dimostrare
i fini per i quali il bene o il servizio è acquisito.
24 Per quanto riguarda le prestazioni offerte dagli avvocati nell’ambito dei contratti di assistenza
legale, la Corte ha già preso in considerazione la disparità tra i «clienti-consumatori» e gli avvocati,
dovuta segnatamente all’asimmetria informativa tra tali parti contrattuali (…).
25 Tale considerazione non può tuttavia escludere la possibilità di qualificare un avvocato come
«consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), di detta direttiva, qualora tale avvocato agisca per
fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale (…).
26 Un avvocato che stipuli con una persona fisica o giuridica, la quale agisce nell’ambito della sua
attività professionale, un contratto non correlato all’esercizio della professione legale, segnatamente
in quanto privo di collegamento con l’attività del suo studio, versa infatti, rispetto a tale persona, nella
situazione di inferiorità di cui al punto 18 della presente sentenza.
27 In un caso siffatto, anche a voler affermare che un avvocato dispone di un elevato livello di
competenze tecniche (v. sentenza Šiba, C 537/13, EU:C:2015:14, punto 23), tale circostanza non
consentirebbe di presumere che egli non sia una parte debole rispetto a un professionista. Come
ricordato al punto 18 della presente sentenza, la situazione di inferiorità del consumatore rispetto al
professionista, alla quale il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è diretto a porre rimedio,
riguarda infatti tanto il livello di informazione del consumatore quanto il suo potere di trattativa in
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presenza di condizioni predisposte dal professionista, e sul cui contenuto tale consumatore non può
incidere.
28 Con riferimento alla circostanza che il credito sorto dal contratto interessato è garantito da
un’ipoteca concessa da un avvocato in qualità di rappresentante del proprio studio legale e gravante
su beni destinati all’esercizio dell’attività professionale di tale avvocato, quale un immobile
appartenente a detto studio legale, occorre constatare che, come rilevato in sostanza dall’avvocato
generale ai paragrafi da 52 a 54 delle sue conclusioni, tale circostanza non incide sulla valutazione
espressa ai punti 22 e 23 della presente sentenza.
29 Il procedimento principale verte infatti sulla determinazione della qualità di consumatore o di
professionista della persona che ha concluso il contratto principale, ossia il contratto di credito,
e non della qualità di tale persona nell’ambito del contratto accessorio, ossia la concessione di
ipoteca a garanzia del pagamento del debito sorto dal contratto principale. In una causa quale
quella di cui al procedimento principale, la qualificazione come consumatore o professionista
dell’avvocato nella sua veste di garante ipotecario non può, di conseguenza, determinare la sua qualità
nell’ambito di un contratto principale di credito.
30 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione posta
dichiarando che l’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso
che una persona fisica che eserciti la professione di avvocato e stipuli con una banca un
contratto di credito nel quale lo scopo del credito non sia specificato può essere considerata un
«consumatore», ai sensi di tale disposizione, qualora un simile contratto non sia legato
all’attività professionale di detto avvocato. La circostanza che il credito sorto dal medesimo
contratto sia garantito da un’ipoteca concessa da tale persona in qualità di rappresentante del
suo studio legale e gravante su beni destinati all’esercizio della sua attività professionale, quale
un immobile appartenente a detto studio legale, non è in proposito rilevante.

b) Corte di Cassazione 1 febbraio 2016, n.1869;

Introduzione

La definizione di consumatore, così come quella di professionista, non ha un unico referente


normativo.
Vi sono infatti una pluralità di norme, sia nel corpo del Codice del Consumo che estranee rispetto ad
esso, che rievocano, in modo non sempre omogeneo, tale definizione in funzione dell’applicazione
di discipline di settore. A tal proposito si pensi all’art. 5 del Codice del Consumo, ai fini della
disciplina delle informazioni commerciali; all’art. 18 dello stesso codice, in reazione alla disciplina
delle pratiche commerciali scorrette; o al successivo art. 101, in riferimento ai servizi pubblici.
Ancora, la nozione viene fornita da ulteriori normative speciali e settoriali, si pensi all’art. 121 TUB,
all’art. 2 del D.lgs n.70/2003 sul commercio elettronico o all’art.1 del codice delle comunicazioni
elettroniche.
Una ulteriore definizione di consumatore, su cui si concentra la sentenza della Corte di Cassazione
in commento, è quella fornita dalla l. n. 3/2012 intervenuta sulle procedure di esdebitazione e
sulla disciplina del risanamento dei debiti dei privati.
Si tratta di una normativa di portata ampia che stabilisce, all’art.6 c.2 lett. b), che “si definisce
consumatore il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei
all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Con la sentenza in esame, la Cassazione si sforza di plasmare in concreto tale nozione, analizzandone
la portata e studiandone i confini.
La definizione infatti è solo apparentemente sovrapponibile a quella dell’art. 3 del Codice del
Consumo: la giurisprudenza della Suprema Corte ne fornisce qui una interpretazione estensiva e
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teleologica, funzionalizzata a dare massima applicazione alla normativa introdotta nel 2012,
affermando che ai fini della disciplina de qua il soggetto vada qualificato come consumatore tutte
le volte in cui l’insolvenza da sanare derivi da debiti consumeristici, non avendo rilievo il fatto
che attualmente egli svolga o abbia, in passato, svolto un’attività professionale.

Massima

Ai sensi della legge 27 gennaio 2012, n. 3, la nozione di consumatore per essa abilitato al piano,
come modalità di ristrutturazione del passivo e per le altre prerogative ivi previste, non ha riguardo
in sé e per sé ad una persona priva, dal lato attivo, di relazioni d'impresa o professionali, invero
compatibili se pregresse ovvero attuali, purché non abbiano dato vita ad obbligazioni residue,
potendo il soggetto anche svolgere l'attività di professionista o imprenditore, invero solo esigendo
l'art. 6, comma 2, lett. b) una specifica qualità della sua insolvenza finale, in essa cioè non potendo
comparire obbligazioni assunte per gli scopi di cui alle predette attività ovvero comunque esse non
dovendo più risultare attuali, essendo consumatore solo il debitore che, persona fisica, risulti aver
contratto obbligazioni - non soddisfatte al momento della proposta di piano - per far fronte ad
esigenze personali o familiari o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti
dall'estrinsecazione della propria personalità sociale, dunque anche a favore di terzi, ma senza
riflessi diretti in un'attività d'impresa o professionale propria, salvo gli eventuali debiti di cui all'art.
7 comma 1 terzo periodo (tributi costituenti risorse proprie dell'Unione Europea, imposta sul valore
aggiunto e ritenute operate e non versate) che sono da pagare in quanto tali, sulla base della verifica
di effettività solutoria commessa al giudice nella sede di cui all'art. 12 bis comma 3 legge n. 3 del
2012.
Sentenza
(omissis)
la questione decisa, nonostante l'esito di inammissibilità del ricorso, giustifichi, per la sua particolare
importanza e sia pur con riguardo al solo punto del requisito tipologico necessario in capo al
proponente, l'enunciazione ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3, del principio di diritto circa la
nozione di consumatore, quale rilevante al fine dell'accesso ai benefici di cui alla L. n. 3 del 2012.
Proprio con tale disciplina, il nostro ordinamento ha infatti riunificato la composizione delle
situazioni d'insolvenza attorno ad un criterio d'ispirazione concorsuale e, per quanto in contesti
organizzativi frammentati soggettivamente e dunque in una pluralità di procedure, mediante una
diversa connotazione relazionale con la giurisdizione lato sensu esecutiva. Nella versione più basica
di tale allestimento procedurale dei debiti, la nozione di consumatore - tra le altre, invece e per
lo più definite in negativo, per la sottrazione alla concorsualità comune - quale posta nel nuovo art.
6, comma 2, lett. b), risulta pacificamente più specifica di quella di cui all'art. 3, comma 1, lett. d) del
Codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), dato che essa esige che i debiti della "persona
fisica" derivino "esclusivamente" (e non più prevalentemente, come nel D.L. n. 212 del 2011, art. 1,
comma 2, lett. b, per il quale rilevava il sovraindebitamento dovuto prevalentemente
all'inadempimento di obbligazione contratte dal consumatore, come definito dal codice del consumo)
da atti compiuti "per scopi estranei all'attività imprenditoriale e professionale eventualmente svolta".
Si tratta di una definizione che fa leva su elementi dinamici e in apparenza di tipo soggettivo
complesso, poichè essa - pur dovendosi adattare al riferimento positivo alla persona fisica, e dunque
escludendo persone giuridiche ed enti, comunque strutturati - non censisce in realtà solo
l'organizzazione del debitore (secondo il quesito di chi sia o sia stato consumatore), o comunque
non lo fa in modo assoluto, ma si dà carico di inquadrarla in termini innanzitutto utili alla
procedura in esame (e ai suoi scopi), in ragione di una peculiare scelta pratica di meritevolezza
della composizione finale, nello schema del concorso, della massa passiva. Le obbligazioni
assunte esclusivamente per scopi estranei all'attività d'impresa o professionale, a propria volta,
costituiscono un limite relativo: pur prestandosi l'impianto ad una lettura non univoca, ai fini della L.
n. 3 del 2012, consumatore potrebbe infatti in astratto anche essere un imprenditore (che rientri, per
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ragioni di coerenza rispetto al collegamento tipologico in negativo rispetto ai requisiti del R.D. n. 267
del 1942, e di quelli speciali dedicati all'imprenditore commerciale, all'interno delle soglie
dimensionali del sistema concorsuale minore in oggetto e per le regole temporali di accesso ivi
previste) ovvero un professionista (non importa se ordinistico o meno), come si ricava dalla
previsione di eventualità dell'esercizio di simile attività tratteggiata nel cit. art. 6. Va però stabilito
se siffatta circostanza appartenga unicamente ad un profilo di più intensa, ma pregressa,
soggettività economica oppure possa essere sospinta sino a ricomprendere altresì il
professionista o l'imprenditore, sia pur senza più debiti originati da quell'attività e con debiti
invece solo "comuni" da ristrutturare, secondo la legge speciale, dunque questa volta nella veste
esclusiva di consumatore indebitato.
3. La constatazione circa l'attualità della figura del potenziale ricorrente (in base alla seconda tesi,
anche consumatore-imprenditore o consumatore-professionista) già potrebbe discendere dal
passaggio di testo del cit. art. 6, comma 2, lett. b), ove si fa riferimento al debitore persona fisica e
sono menzionati espressamente i debiti nascenti da attività d'impresa o da professione, apparendo
sufficiente che essi non sussistano più. A propria volta l'art. 7, comma 1, terzo periodo, per il quale
"in ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell'Unione Europea, all'imposta sul
valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la
dilazione del pagamento", è clausola specificamente richiamata dall'art. 12 bis, comma 3, ove si
prevede, tra le altre condizioni, l'omologa del piano del consumatore se il giudice vi ravvisa "l'idoneità
dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili, nonchè dei crediti di cui all'art. 7,
comma 1, terzo periodo". Tali ultimi crediti, almeno in parte, esprimono una diretta riferibilità socio-
economica proprio alle attività d'impresa o professionali, venendo ad interrogare allora l'interprete o
per una sollecitazione a ravvisare l'intero richiamo alla stregua di un refuso (poichè in evidente
contraddizione con la portata tipologica di esclusione di debiti da impresa o professione con cui la
stessa definizione di consumatore è introdotta nel predetto art. 6 cit.) o per una diversa premessa di
senso che possa refluire, pur se alla stregua di circostanza speciale, in un giudizio compatibile con
l'accesso al piano del consumatore anche da parte di soggetti che si trascinino siffatti debiti, contratti
in una qualità - poi dismessa o almeno non produttiva di debiti così caratteristici - di imprenditori o
professionisti. Una prima possibile risposta, ad avviso del Collegio, risiede nella osservazione per cui
proprio l'art. 6, comma 2, lett. b), implica che anche i debiti d'impresa o relativi allo svolgimento delle
professioni bene potrebbero essere stati assunti, ai fini qui considerati, ciò che rileva non essendo
tanto la loro contrazione (od oggettiva insorgenza) quale fatto storico in sè, occorrendo piuttosto che
essi non siano sopravvissuti al momento della prospettazione della predetta qualità personale in
funzione ristrutturativa del passivo ai sensi della L. n. 3 del 2012, cioè con la proposta di piano.
Ulteriori e più solidi indici normativi, tuttavia, rinviano (pur non risolvendo ogni ricaduta procedurale
e di coordinamento fra i diversi modelli compositivi dell'insolvenza) ad un giudizio di compossibilità
letterale della figura del consumatore con quella dell'imprenditore o professionista: a) tra i presupposti
di ammissibilità, l'art. 7, comma 2, vieta l'accesso alle procedure (accordo, comma 1 o piano del
consumatore, comma 1 bis) "quando il debitore, anche consumatore: a) e soggetto a procedure
concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo", implicitamente supponendo uno scrutinio
possibile solo fra imprenditori commerciali sotto o sopra la soglia di cui alla L. Fall., art. 1; b) l'art.
8, comma 3 bis, ha riguardo (in una disposizione intitolata al contenuto dell'accordo o del piano del
consumatore) ad una proposta di accordo o di piano che può essere "presentata da parte di chi svolge
attività d'impresa"; c) l'art. 9, ancora sotto il medesimo p.1 dettato in tema di Disposizioni generali e
nella Sezione prima delle Procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in tema di
"deposito della proposta" si riferisce, al comma 3, al "debitore che svolge attività d'impresa",
imponendogli l'onere di depositare le scritture contabili degli ultimi tre esercizi, con copia conforme
all'originale; d) l'art. 14 quinquies, comma 2 lett. c) stabilisce l'annotazione nel registro delle imprese
della apertura della liquidazione, vicenda che può derivare anche da una conversione evolutiva o per
eventi anomali del piano del consumatore, ex art. 14 quater; e) tra le sanzioni, ai sensi dell'art. 16,
comma 1, lett. b), è prevista la punizione del debitore che, al fine di ottenere l'accesso alle procedure
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di cui alle sezioni prima e seconda (dunque anche del piano del consumatore), sottrae, occulta o
distrugge, anche in parte, la "propria documentazione contabile".
4. Ritiene questa Corte che la prescritta destinazione dei debiti a scopi estranei rispetto
all'attività d'impresa o di professione, precisata in negativo (e solo "eventualmente svolta", cioè
con riguardo al passato), permetta allora di rinvenirne la compatibilità innanzitutto con il
consumatore sovraindebitato che non sia o non sia mai stato nè imprenditore nè professionista,
con chi lo sia stato e però non lo sia tuttora ovvero con chi lo sia tuttora - nell'accezione
dimensionale interna ai requisiti di accesso più generali di cui alla L. n. 3 del 2012 - ma non
annoveri più tra i debiti attuali quelli un tempo contratti in funzione di sostentamento ad una
di quelle attività. La dizione in esame, invero, enfatizza la finalizzazione delle obbligazioni e
tuttavia, nonostante la sintesi della formula, consente di istituire un ulteriore collegamento implicito
ancora negativo tra il debito e lo svolgimento in proprio delle predette attività, lasciando unicamente
aperta la ricognizione della figura del consumatore, dunque la sua compatibilità rispetto al soggetto,
anche professionista o imprenditore, indebitato ma per attività altrui, per le quali ovviamente, secondo
un apprezzamento di merito, sia escluso un qualsivoglia rimando al perseguimento di operazioni che
rivelino, oltre lo schema di sostegno solidaristico a terzi, un impiego del rischio così assunto in una
dimensione partecipativa, per il comune interesse d'impresa o anche all'attività professionale.
5. Quanto poi al valore del richiamo all'art. 7, comma 1, terzo periodo, la sua previsione tra i
presupposti di ammissibilità dell'accordo di ristrutturazione dei debiti mediante un piano che, ai sensi
della norma, contempli al più una dilazione del pagamento, esprime un dato di criticità se assunta in
blocco anche ove il progetto ristrutturativo non sia del debitore comune sovraindebitato bensì del
consumatore, secondo l'accezione più restrittiva ed invece rinviene una sua maggiore coerenza,
laddove si postuli la figura in esame compatibile con quella di chi svolge o abbia svolto attività
d'impresa o di professione: posto che la formula adottata dall'art. 12 bis, comma 3, prescrive che il
giudice, in funzione omologatoria, comunque proceda "verificata la fattibilità del piano e l'idoneità
dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili, nonchè dei crediti di cui all'art. 7,
comma 1, terzo periodo", il riferimento al predetto art. 7, potrebbe peraltro essere inteso - in un'ottica
selettiva della specialità del trattamento dei debiti consumeristici - non al pagamento dei crediti
pubblicistici descritti e però anche secondo le modalità ivi imposte (la dilazione), bensì come mero
obbligo di pagamento proprio di quei crediti, senza altre peculiarità solutorie, pertanto conferendo
valenza assoluta all'adempimento integrale, anche per i richiami ripetuti all'art. 12 ter, comma 4,
(risoluzione) e art. 13, comma 3 (esecuzione). Se infatti si ammette che il consumatore, inteso
come il soggetto indebitato che si proponga di ristrutturare debiti di consumo, può accedere al
piano nonostante i debiti attuali quali l'IVA, le ritenute, i tributi risorse UE, la circostanza
presupposta della possibile attuale e perdurante titolarità in capo al soggetto proponente altresì
della veste di imprenditore o professionista, genera il dubbio della scarsa tenuta del quadro
personalistico emergente dalla riforma del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 18, comma 1, lett.
n), (convertito nella L. 17 dicembre 2012, n. 221), secondo una questione di coerenza della
portata precettiva della definizione di consumatore introdotta all'art. 6, comma 2, lett. b).
Essa risulterebbe però conciliabile se si giustappone da un lato la preclusione ad ammettere nella
figura soggetti con obbligazioni contratte per scopi non estranei all'attività d'impresa o di professione,
che siano però tuttora svolte e dall'altro l'apertura eccezionale a "debiti economici" di natura
pubblicistica - come quelli appena citati - da dedurre obbligatoriamente nel piano con trattamento
adempitivo non temperato da alcuna dilazione. Si darebbe così l'ipotesi di un soggetto in generale
senza debiti d'impresa o da professione, attualmente esercente tali attività economiche in senso lato e
con debiti pubblicistici massimamente qualificati ma non dilazionabili nel progetto unilaterale nel
quale consiste il piano del consumatore, ove si da un concorso virtuale tra creditori di impresa o
professione (che non dovrebbero vantare pretese esigibili o comunque dedotte nel piano, ad esso
perciò estranei), creditori da obbligazioni esterne all'impresa o alla professione, oggetto di
risanamento e dunque destinatari del sacrificio, accanto infine ai creditori pubblici predetti, soggetti
a dilazione negli altri modelli di composizione della crisi ma qui con diritto al pagamento nominale
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per intero. Lo scenario, va riconosciuto, poggia sulla persistenza dell'opzione, non solo ideologica,
per cui la figura del consumatore, che nella legge in esame (omissis) bensì alla generalità delle
relazioni di debito, debba coesistere anche in capo a chi sia imprenditore o professionista attuale, in
una logica di generale favor verso la più adatta composizione della crisi da sovraindebitamento. Un
effetto particolare è allora costituito dall'ipotesi di un piano del consumatore allestito da simile
soggetto economico che però, lasciando sullo sfondo i rapporti d'impresa o pendenti con i terzi e quale
professionista (che per definizione non dovrebbero essere sfociati, salva l'eccezione menzionata, in
obbligazioni da adempiere), impieghi i suoi beni e i suoi redditi per ristrutturare il resto dei suoi debiti:
l'obiezione per cui si determinerebbe così un mutamento sostanziale delle garanzie generiche offerte
dal proprio patrimonio, in concreto utilizzato per la ridefinizione di una massa passiva che, assente
da ogni ricognizione segregata o autonoma pregressa (perchè in capo alla persona fisica nessuna
distinzione in tal senso sarebbe configurabile, ogni bene apparendo destinato naturalmente a
soddisfare debiti d'impresa o di professione alla pari dei debiti di consumo), verrebbe separata nella
opportunità liquidatoria o comunque nella vocazione satisfattiva a vantaggio solo dei debiti c.d.
comuni, può essere superata rinviando alle opportunità contestative, sul profilo della convenienza,
rimesse a qualunque interessato (dunque anche ai creditori d'impresa o da professione, non coinvolti
nel piano) e, prima ancora, ai controlli giudiziali sulle cause del sovraindebitamento e la serietà dei
propositi compositivi ex art. 12 bis, rispettivamente commi 4 e 3.
6. La tesi alternativa e più restrittiva, qui non condivisa e che muove dall'opposta opzione volta ad
affermare - pur sulla base di un'indubbia farraginosità della L. n. 3 del 2012, ad iniziare dalla sua
vicenda d'origine ma eccessivamente costruita sull'esplicatività del refuso o ridondanza di richiamo
come chiavi di lettura - una riduttiva portata accidentale del richiamo all'art. 7, comma 1, terzo
periodo (da parte dell'art. 12 bis, comma 3) e un intento precettivo assoluto dell'art. 6, comma 2, lett.
b) (sulla coesistenza di debiti non comuni in capo al consumatore), circoscrive la figura del
consumatore a chi intenda ristrutturare debiti persistenti che non sono sorti da attività
d'impresa o professione, nemmeno in parte, ne ammette la compatibilità con chi abbia svolto
in passato tali attività, ma vieta il medesimo esercizio odierno, senza tuttavia una base
normativa che dia conto dei plurimi richiami all'imprenditore o al professionista come sopra
riportati dal testo della legge n. 3.
7. Osserva il Collegio che la legge in effetti non fa parola di una matrice omogenea assoluta
dell'insolvenza, almeno nel senso che la locuzione che qui interessa non si richiama alla sua
produzione, cioè alle relative cause economiche, altri essendo i requisiti scrutinabili a questo fine,
come soprattutto all'art. 12 bis, comma 3, se il giudice "esclude che il consumatore ha assunto
obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente
determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle
proprie capacità patrimoniali". Il richiamo è piuttosto alla qualità dei debiti da ristrutturare che la
connotano, in sè considerati e nella loro composizione finale. Ma proprio per questo il piano del
consumatore si offre come modello ulteriore di composizione della crisi della persona fisica,
escludendosi che vi possano essere dedotti debiti d'impresa o contratti per la professione, salva
l'eccezione pubblicistica predetta. In questa ottica l'accesso a tale procedura individua una delle
facoltà riservate al sovraindebitato, ove l'accordo con i creditori è sostituito da un atto unilaterale del
debitore alla stregua di proposta di ristrutturazione dei debiti e di soddisfacimento dei crediti rivolta
al tribunale, al quale compete poi approvarla attraverso l'omologazione. Ciò permette di precisare,
per il valore programmatico che anche in questa sede può assumere la specificazione, che non vi sono
margini per non escludere dall'accesso a tale procedura (ed in generale allo statuto concorsuale che
vi si richiami tipologicamente) tutti quei soggetti che abbiano assunto obbligazioni composite e che
vogliano in tal modo, cioè come consumatori, ristrutturarle. Salvo il ricorso (anche) per essi alla
diversa procedura di composizione della crisi ex art. 10 ovvero di liquidazione L. n. 3 del 2012, ex
art. 14 ter, l'abbandono espresso del criterio della prevalenza delle obbligazioni estranee rivela, nella
ricognizione del consumatore ai fini qui intesi, un intento restrittivo che giustifica e contrappesa la
selezione di meritevolezza della evidente semplificazione dell'omologazione procedimentale:
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potendo prescindere dall'approvazione dei creditori per la via del voto o comunque della conta dei
consensi, essa impone nel suo presupposto personalistico una tracciabilità altresì delle cause
dell'insolvenza non risalenti ad attività economica organizzata (d'impresa o non, e pur tuttora
praticabile) che ne permetta, al pari dello scenario scevro da determinazione colposa di siffatto
sovraindebitamento (art. 12 bis, comma 3), un sicuro ancoramento tipologico alla figura del debitore
compromesso in atti di rischio non speculativo o comunque proprio dell'intermediazione
organizzativa, secondo un profilo appunto conformato ad una dimensione di non eccedenza del
diverso e minore rischio contratto essenzialmente nel modello operazionale del consumo. La natura
dei debiti residui, collegandosi alla fonte degli stessi, diviene pertanto nella L. n. 3 del 2012, al
contempo la giustificazione dell'accesso al beneficio e il suo perimetro operativo, conseguendone che
anche i creditori del consumatore sono nella condizione di non poter esprimere, salvi i controlli sopra
visti, aspettative di regolazione concorsuale con un più tipizzato (e garantistico) coinvolgimento
procedurale, qui non obbligatorio, com'è invece previsto negli altri rimedi a disposizione del
sovraindebitato.
Ritiene conclusivamente il Collegio, esprimendo il principio di diritto ai sensi dell'art. 363 c.p.c.,
comma 3, che, ai sensi della L. 27 gennaio 2012, n. 3, la nozione di consumatore per essa abilitato
al piano, come modalità di ristrutturazione del passivo e per le altre prerogative ivi previste,
non abbia riguardo in sè e per sè ad una persona priva, dal lato attivo, di relazioni d'impresa o
professionali, invero compatibili se pregresse ovvero attuali, purchè non abbiano dato vita ad
obbligazioni residue, potendo il soggetto anche svolgere l'attività di professionista o
imprenditore, invero solo esigendo l'art. 6, comma 2, lett. b), una specifica qualità della sua
insolvenza finale, in essa cioè non potendo comparire obbligazioni assunte per gli scopi di cui
alle predette attività ovvero comunque esse non dovendo più risultare attuali, essendo
consumatore solo il debitore che, persona fisica, risulti aver contratto obbligazioni - non
soddisfatte al momento della proposta di piano - per far fronte ad esigenze personali o familiari
o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall'estrinsecazione della propria
personalità sociale, dunque anche a favore di terzi, ma senza riflessi diretti in un'attività
d'impresa o professionale propria, salvo gli eventuali debiti di cui all'art. 7, comma 1, terzo
periodo (tributi costituenti risorse proprie dell'Unione Europea, imposta sul valore aggiunto e
ritenute operate e non versate) che sono da pagare in quanto tali, sulla base della verifica di
effettività solutoria commessa al giudice nella sede di cui alla L. n. 3 del 2012, art. 12 bis, comma
3.
(omissis)
c) Corte di Giustizia 4 giugno 2015, C-497-13

Introduzione
Oltre a fornire alcune coordinate pratiche in relazione al principio di non aggravamento della
posizione del consumatore (con riferimento alla denuncia tempestiva del consumatore dei difetti del
prodotto e all’onere probatorio su di esso gravante alla luce della disciplina sui beni di consumo), la
sentenza in commento è determinante nel senso di riconoscere al giudice investito della
controversia il potere di rilevare d’ufficio la qualifica di consumatore di una delle parti in
processo.
Evocando il principio dell’effetto utile, la Corte di Giustizia ha ritenuto che quando si stipula un
contratto tra un professionista e una persona fisica quest’ultima si presume consumatore, ciò
al fine di evitare il rischio di gravare la parte debole di una probatio diabolica, poco coerente con
la ratio protezionistica della disciplina nel suo complesso.
Tutto ciò non implica che il giudice eserciti d’ufficio un potere discrezionale eccedente la sua
giurisdizione, bensì, solamente, che egli accerti e verifichi l’esistenza di una condizione di legge che
determina l’applicabilità di una norma giuridica.
Tale arresto impone una riflessione più ampia sulla reale portata della disciplina consumeristica,
che investe non solo aspetti sostanziali, ma anche processuali, attribuendo al giudice poteri
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inusitati per colmare le omissioni, le inerzie e le incapacità del consumatore in un’ottica
paternalistica estranea al liberismo economico che domina il resto del diritto dei contratti.
Viene da sé che, proprio nell’ottica del principio dell’effetto utile, il descritto potere del giudice
non possa spingersi fino a dichiarare la nullità di protezione di una clausola anche quando ciò
sia contrario agli interessi del consumatore ovvero quando quest’ultimo non esprima in tal
senso la propria volontà (in termini dunque parzialmente differenti rispetto alle ipotesi di rilievo
d’ufficio della nullità “tradizionale”, di cui alle SU nn. 26242 e 26243 del 12 dicembre 2014).
Un ulteriore limite al potere del rilievo d’ufficio, va peraltro ravvisato nell’ipotesi in cui un
contraente per dolo o colpa abbia creato un’apparenza, e dunque un affidamento, circa la sua
qualità professionale: in tal caso i principi di buona fede e certezza delle situazioni giuridiche
imporrebbero di dare prevalenza all’apparenza, escludendo che si possa rilevare d’ufficio la
qualifica di consumatore consciamente dissimulata.

Massima

1) La direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni
aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, deve essere interpretata nel senso che il
giudice nazionale adito nel contesto di una controversia vertente su un contratto che può rientrare
nell’ambito di applicazione della citata direttiva è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli
elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti,
a verificare se l’acquirente possa essere qualificato come consumatore nell’accezione di tale
direttiva, anche se quest’ultimo non ha espressamente rivendicato questa qualità.
2) L’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 deve essere interpretato nel senso che esso
va considerato come una disposizione equivalente ad una disposizione nazionale avente nel diritto
interno rango di norma di ordine pubblico, e che il giudice nazionale è tenuto ad applicare d’ufficio
qualsiasi disposizione che garantisca la sua trasposizione nel diritto interno.
3) L’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44 deve essere interpretato nel senso che esso
non osta ad una norma nazionale la quale preveda che il consumatore, per usufruire dei diritti che
gli spettano in forza di tale direttiva, debba denunciare tempestivamente al venditore il difetto di
conformità, a condizione che tale consumatore, per procedere a detta denuncia, disponga di un
termine non inferiore a due mesi a decorrere dalla data in cui ha constatato tale difetto, che la
denuncia cui occorre procedere verta solo sull’esistenza di detto difetto e che essa non sia
assoggettata a regole relative alla prova che rendano impossibile o eccessivamente difficile per il
citato consumatore esercitare i propri diritti.
4) L’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 deve essere interpretato nel senso che la
regola secondo cui si presume che il difetto di conformità esistesse al momento della consegna del
bene
– si applica quando il consumatore fornisce la prova che il bene venduto non è conforme al
contratto e che il difetto di conformità in questione si è manifestato, ossia si è palesato concretamente,
entro il termine di sei mesi dalla consegna del bene. Il consumatore non è tenuto a dimostrare la
causa di tale difetto di conformità né a provare che la sua origine è imputabile al venditore;
– può essere disapplicata solo se il venditore prova in maniera giuridicamente sufficiente che la
causa o l’origine del difetto di conformità risiede in una circostanza sopravvenuta dopo la consegna
del bene.

Sentenza

(omissis)
Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede
sostanzialmente se, in forza del principio di effettività, il giudice nazionale investito di una
controversia relativa alla garanzia che il venditore deve all’acquirente nel contesto di un
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contratto di vendita vertente su un bene mobile materiale, sia tenuto ad esaminare d’ufficio se
l’acquirente debba essere considerato alla stregua di un consumatore ai sensi della direttiva
1999/44, sebbene tale parte non si sia avvalsa di detta qualità.
(omissis)
34 In base alle informazioni fornite alla Corte, si è provveduto alla trasposizione della direttiva
1999/44 nell’ordinamento giuridico olandese inserendo nel libro 7 del BW, rubricato «Contratti
speciali», tra le regole di garanzia e indistintamente applicabili a tutti i contratti di vendita,
disposizioni specifiche per i contratti di vendita relativi a un bene di consumo.
35 Tuttavia, per quanto riguarda il contratto di vendita oggetto del procedimento principale, il
giudice del rinvio spiega che sussiste un dubbio in merito alle disposizioni applicabili, in quanto
non è appurato se detto contratto di vendita sia stato stipulato con un consumatore.
(omissis)
38 A questo proposito occorre considerare che, in linea di principio, è compito del giudice
nazionale, onde individuare le norme giuridiche applicabili ad una controversia sottopostagli,
qualificare giuridicamente i fatti e gli atti dedotti in giudizio dalle parti per corroborare le loro pretese.
Tale qualificazione giuridica costituisce una condizione preliminare in una situazione, come quella
di cui al procedimento principale, in cui la garanzia del bene venduto, reclamata dalla parte
richiedente, possa essere disciplinata da norme distinte in funzione della qualità dell’acquirente.
Siffatta qualificazione, di per sé, non implica che il giudice eserciti d’ufficio un potere discrezionale,
bensì, solamente, che egli accerti e verifichi l’esistenza di una condizione di legge che determina
la norma giuridica applicabile.
39 Così come il giudice nazionale, nel contesto delle modalità processuali del suo ordinamento
giuridico interno, è chiamato, onde individuare la norma di diritto nazionale applicabile, a procedere
alla qualificazione degli elementi di diritto o di fatto sottopostigli dalle parti, eventualmente invitando
queste ultime a fornire qualsiasi precisazione utile, esso è altrettanto tenuto, in forza del principio di
equivalenza, a procedere alla stessa operazione per determinare se una norma di diritto dell’Unione
sia applicabile.
(omissis)
41 Pertanto, chiarire se il principio di effettività consenta al giudice nazionale di qualificare come
consumatore una parte che non si è avvalsa di tale qualificazione è una questione che si pone
unicamente nell’ipotesi in cui le modalità processuali dell’ordinamento giuridico interno non
forniscano al giudice nazionale alcun mezzo per attribuire ai fatti e agli atti controversi la loro esatta
qualificazione, qualora questa non sia stata espressamente richiamata dalle stesse parti per avvalorare
le loro pretese.
42 Di fatto, in forza del principio di effettività e nonostante norme giuridiche interne contrarie, la
Corte ha imposto al giudice nazionale di applicare d’ufficio talune disposizioni contenute nelle
direttive dell’Unione in materia di tutela dei consumatori. Tale obbligo è stato giustificato dalla
considerazione che il sistema di tutela posto in atto da tali direttive è fondato sull’idea che il
consumatore si trova in una situazione d’inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia
il potere nelle trattative sia il grado di informazione e che esiste un rischio non trascurabile che,
soprattutto per ignoranza, il consumatore non faccia valere la norma giuridica intesa a tutelarlo
(omissis).
43 La Corte ha precisato che ciascuna situazione in cui si pone la questione se una norma
procedurale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto
dell’Unione dev’essere esaminata tenendo conto del ruolo di detta disposizione nell’insieme del
procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi
giurisdizionali nazionali (omissis).
46 Al contrario, il principio di effettività richiede che il giudice nazionale adito nel contesto
di una controversia vertente su un contratto che possa entrare nell’ambito di applicazione della
citata direttiva, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari
a tal fine o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti, sia tenuto a verificare se
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l’acquirente possa essere qualificato come consumatore, anche se quest’ultimo non ha
espressamente rivendicato questa qualità.
(omissis)
48 Alla luce delle considerazioni suesposte, occorre rispondere alle questioni prima, seconda,
terza e settima che la direttiva 1999/44 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale
adito nel contesto di una controversia vertente su un contratto che può rientrare nell’ambito di
applicazione della citata direttiva è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi
di diritto e di fatto necessari a tal fine o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti, a
verificare se l’acquirente possa essere qualificato come consumatore, anche se quest’ultimo non
ha espressamente rivendicato questa qualità.
Sulla quinta questione
58 Con tale questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il principio di effettività osti a
una norma nazionale che obblighi il consumatore a dimostrare di avere tempestivamente
informato il venditore del difetto di conformità.
(omissis)
60 A tale proposito giova rammentare che l’articolo 5, paragrafo 2 della direttiva 1999/44 consente
agli Stati membri di prevedere che il consumatore, per fruire dei suoi diritti, debba denunciare al
venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui lo ha constatato.
61 Secondo i lavori preparatori della citata direttiva, tale possibilità mira a soddisfare l’esigenza
di rafforzare la certezza del diritto, incoraggiando l’acquirente ad adoperare una «certa diligenza,
tenendo conto [de]gli interessi del [venditore]», «senza istituire un obbligo rigoroso di effettuare
un’ispezione meticolosa del bene» [v. motivazione della proposta di direttiva COM (95) 520 def.,
pag. 14].
62 Pertanto, come emerge dalla formulazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44,
letto in combinato disposto con il suo considerando 19, e dalla finalità perseguita da tale disposizione,
l’onere fatto gravare in tal modo sul consumatore non può spingersi oltre quello consistente nel
denunciare al venditore l’esistenza di un difetto di conformità.
63 Quanto al contenuto di tale informazione, in questa fase non si può esigere che il
consumatore produca la prova che effettivamente un difetto di conformità colpisce il bene che
ha acquistato. Tenuto conto dell’inferiorità in cui egli versa rispetto al venditore per quanto riguarda
le informazioni sulle qualità di tale bene e sullo stato in cui esso è stato venduto, il consumatore non
può neppure essere obbligato ad indicare la causa precisa di detto difetto di conformità. Per contro,
affinché l’informazione possa essere utile per il venditore, essa dovrebbe contenere una serie di
indicazioni, il cui grado di precisione varierà inevitabilmente in funzione delle circostanze specifiche
di ciascun caso di specie, vertenti sulla natura del bene in oggetto, sul tenore del corrispondente
contratto di vendita e sulle concrete manifestazioni del difetto di conformità lamentato.
64 Per quanto riguarda la prova che al venditore è stata fatta tale denuncia, essa segue, in linea di
principio, le norme nazionali in materia, le quali, tuttavia, devono rispettare il principio di effettività.
Se ne evince che uno Stato membro non può istituire obblighi tali da rendere impossibile o
eccessivamente difficile per il consumatore esercitare i diritti che attinge dalla direttiva 1999/44.
65 Occorre pertanto rispondere alla quinta questione che l’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva
1999/44 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una norma nazionale la quale
preveda che il consumatore, per usufruire dei diritti che gli spettano in forza di tale direttiva,
debba denunciare tempestivamente al venditore il difetto di conformità, a condizione che tale
consumatore, per procedere a detta denuncia, disponga di un termine non inferiore a due mesi
a decorrere dalla data in cui ha constatato tale difetto, che la denuncia cui occorre procedere
verta solo sull’esistenza di detto difetto e che essa non sia assoggettata a regole relative alla
prova che rendano impossibile o eccessivamente difficile per il citato consumatore esercitare i
propri diritti.
Sulla sesta questione

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66 Con tale questione, il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, come funziona la
ripartizione dell’onere della prova operata dall’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44
e, segnatamente, quali siano gli elementi che devono essere dimostrati dal consumatore.
67 Come constatato al punto 53 della presente sentenza, tale disposizione prevede una norma di
deroga al principio secondo cui è compito del consumatore rovesciare la presunzione di conformità
del bene venduto, sancito all’articolo 2, paragrafo 2, di tale direttiva, e fornire la prova del difetto di
conformità che egli lamenta.
68 Qualora il difetto di conformità si sia manifestato entro sei mesi dalla consegna del bene,
l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 alleggerisce l’onere della prova che grava sul
consumatore prevedendo che si presuma che il difetto esistesse al momento della consegna.
69 Per poter usufruire di tale alleggerimento dell’onere probatorio, il consumatore deve tuttavia
produrre la prova di determinati fatti.
70 In primo luogo, il consumatore deve far valere e fornire la prova che il bene venduto non è
conforme al corrispondente contratto in quanto, ad esempio, non presenta le qualità convenute in
quest’ultimo o, ancora, è inidoneo all’uso che ci si attende abitualmente per questo genere di bene. Il
consumatore è tenuto a dimostrare solamente l’esistenza del difetto. Egli non è tenuto a provare la
causa di quest’ultimo né a dimostrare che la sua origine è imputabile al venditore.
71 In secondo luogo, il consumatore deve provare che il difetto di conformità in questione si è
manifestato, ossia si è palesato concretamente, entro il termine di sei mesi dalla consegna del bene.
72 Una volta dimostrati tali fatti, il consumatore è dispensato dall’obbligo di provare che il difetto
di conformità esisteva alla data della consegna del bene. Il manifestarsi di tale difetto nel breve
periodo di sei mesi consente di supporre che, per quanto esso si sia rivelato solo successivamente alla
consegna del bene, fosse già presente, «allo stato embrionale», in tale bene al momento della
consegna [v. la motivazione della proposta di direttiva COM (95) 520 def., pag. 12].
73 Grava allora sul professionista l’obbligo di produrre, se del caso, la prova che il difetto di
conformità non era presente al momento della consegna del bene, dimostrando che tale difetto trova
la propria origine o la sua causa in un atto o in un’omissione successiva a tale consegna.
74 Qualora il venditore non sia in grado di provare in maniera giuridicamente sufficiente che la
causa o l’origine del difetto di conformità risiede in una circostanza sopravvenuta dopo la consegna
del bene, la presunzione sancita all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 consente al
consumatore di avvalersi dei diritti che attinge da tale direttiva.
75 Occorre pertanto rispondere alla sesta questione che l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva
1999/44 deve essere interpretato nel senso che la regola secondo cui si presume che il difetto di
conformità esistesse al momento della consegna del bene
– si applica quando il consumatore fornisce la prova che il bene venduto non è conforme al
contratto e che il difetto di conformità in questione si è manifestato, ossia si è palesato
concretamente, entro il termine di sei mesi dalla consegna del bene. Il consumatore non è tenuto
a dimostrare la causa di tale difetto di conformità né a provare che la sua origine è imputabile
al venditore;
– può essere disapplicata solo se il venditore prova in maniera giuridicamente sufficiente
che la causa o l’origine del difetto di conformità risiede in una circostanza sopravvenuta dopo
la consegna del bene.

d) Corte di Giustizia 25 gennaio 2018, C-498/16;

Introduzione

Con la pronuncia in commento la Corte di Giustizia torna sull’assunto per cui l’accertamento della
condizione soggettiva del consumatore non dipende dalla verifica reale della debolezza

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contrattuale dello stesso, essendo richiesta sempre e solo un’analisi prettamente oggettiva e
teleologica, basata inevitabilmente su presunzioni.
Avendo riguardo all’obiettivo principale di una tutela efficace ed effettiva del consumatore, la
Corte tiene a mente il bisogno di regole certe, chiare ed univoche, non ammettendo che
l’applicabilità della normativa consumeristica possa dipendere da indagini soggettive e opinabili sulla
capacità in concreto del consumatore, sulle informazioni effettive a sua disposizione e dunque sulla
maggiore o minore forza contrattuale reale del singolo.
Una volta accertato dunque che egli abbia agito per finalità estranee alla propria attività
professionale, il consumatore sarà tale anche quando abbia una forza economica maggiore, un
bagaglio di informazioni superiore o un’esperienza operativa più intensa del professionista.
Tale assunto, che spesso ritorna negli arresti della giurisprudenza europea (in tal senso le sentenze
del 3 luglio 1997, Benincasa, C 269/95 e del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01), viene ribadito
sciogliendo il dubbio ermeneutico sulla qualifica di consumatore di colui che gestisca un account
Facebook.
La Corte di Giustizia si dimostra ferma nel ritenere che la nozione di consumatore prescinde dalle
conoscenze o dalle informazioni di cui una persona disponga e dipende esclusivamente
dall’indagine sullo scopo professionale o meno dell’atto che viene preso in considerazione, non
invece alla situazione soggettiva complessiva di quella stessa persona, potendo un solo e
medesimo soggetto essere considerato un consumatore nell’ambito di determinate operazioni
ed un operatore economico nell’ambito di altre.

Massima

L’art. 15 Regolamento (CE) 44/2001 deve essere interpretato nel senso che l’utilizzatore di un
account Facebook privato non perde la qualità di «consumatore» allorché pubblichi libri, tenga
conferenze, gestisca altri siti Internet, raccolga donazioni e si faccia cedere i diritti da numerosi
consumatori al fine di farli valere in giudizio. Ai sensi dell’art. 16 il foro del consumatore non può
essere invocato per l’azione di un consumatore diretta a far valere, dinanzi al giudice del luogo in
cui egli è domiciliato, non soltanto diritti propri ma anche quelli ceduti da altri consumatori
domiciliati nello stesso Stato membro, in altri Stati membri oppure in Stati terzi.
Sentenza
(omissis)
25 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 15 del
regolamento n. 44/2001 debba essere interpretato nel senso che un utilizzatore di un account
Facebook privato non perde la qualità di «consumatore» ai sensi di tale articolo quando pubblica libri,
tiene conferenze, gestisce siti Internet, raccoglie donazioni e si fa cedere i diritti di molti consumatori
al fine di farli valere in giustizia.
(omissis)
La Corte ha precisato che la nozione di «consumatore», ai sensi degli articoli 15 e 16 del
regolamento n. 44/2001, deve essere interpretata in maniera restrittiva, facendo riferimento alla
posizione di tale persona in un determinato contratto, in relazione alla natura ed alla finalità di
quest’ultimo, e non invece alla situazione soggettiva di quella stessa persona, potendo un solo e
medesimo soggetto essere considerato un consumatore nell’ambito di determinate operazioni
ed un operatore economico nell’ambito di altre (v., in tal senso, sentenze del 3 luglio 1997,
Benincasa, C 269/95, EU:C:1997:337, punto 16, e del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01,
EU:C:2005:32, punto 36).
30 La Corte ha da ciò dedotto che soltanto i contratti conclusi al di fuori e indipendentemente da
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qualsiasi attività o finalità di natura professionale, all’unico scopo di soddisfare le proprie necessità
di consumo privato di un individuo, rientrano nel particolare regime previsto dal suddetto
regolamento in materia di tutela del consumatore, in quanto parte ritenuta debole, protezione che non
è giustificata nel caso di contratti che hanno come scopo un’attività professionale (v., in tal senso,
sentenza del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01, EU:C:2005:32, punto 36).
31 Ne consegue che le regole specifiche di competenza di cui agli articoli da 15 a 17 del regolamento
n. 44/2001, si applicano, in linea di principio, solo nell’ipotesi in cui la finalità del contratto concluso
tra le parti abbia ad oggetto un uso non professionale del bene o del servizio interessato (v., in tal
senso, sentenza del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01, EU:C:2005:32, punto 37).
32 Per quanto riguarda, più in particolare, una persona che conclude un contratto per un uso che
si riferisca in parte alla sua attività professionale e che sia quindi solo in parte estraneo a
quest’ultima, la Corte ha dichiarato che tale persona potrebbe avvalersi di tali disposizioni solo
nell’ipotesi in cui il collegamento di siffatto contratto con l’attività professionale dell’interessato
sia talmente tenue da divenire marginale e abbia, pertanto, solo un ruolo trascurabile nel
contesto dell’operazione per la quale il contratto è stato stipulato, considerata nel suo complesso
(v., in tal senso, sentenza del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01, EU:C:2005:32, punto 39).
33 È alla luce di tali principi che occorre esaminare se un utente di un account Facebook non perda
la qualità di «consumatore», ai sensi dell’articolo 15 del regolamento n. 44/2001, in circostanze come
quelle di cui al procedimento principale.
34 A tal riguardo, risulta segnatamente dalla decisione di rinvio che il sig. S. ha inizialmente
utilizzato, tra gli anni 2008 e 2010, un account Facebook che aveva aperto esclusivamente per fini
privati mentre, a partire dal 2011, ha utilizzato anche una pagina Facebook.
35 Secondo il ricorrente nel procedimento principale, esistono due contratti distinti, uno per la pagina
Facebook e l’altro per l’account Facebook. Facebook Ireland sostiene, invece, che l’account
Facebook e la pagina Facebook formano parte di un unico e stesso rapporto contrattuale.
36 Anche se spetta al giudice del rinvio accertare se il sig. S. e Facebook Ireland siano effettivamente
vincolati da uno o più contratti e trarne le conseguenze per quanto riguarda la qualità di
«consumatore», occorre precisare che anche un eventuale collegamento contrattuale tra l’account
Facebook e la pagina Facebook non pregiudicherebbe la valutazione di tale qualità alla luce dei
principi ricordati ai punti da 26 a 29 della presente sentenza.
37 Nell’ambito di tale valutazione, conformemente all’esigenza, ricordata al punto 29 della presente
sentenza, di interpretare restrittivamente la nozione di «consumatore» ai sensi dell’articolo 15 del
regolamento n. 44/2001, occorre, in particolare, relativamente ai servizi di una rete sociale digitale
che hanno tendenza ad essere utilizzati durante un lungo periodo, tener conto dell’evoluzione ulteriore
dell’uso che viene fatto di tali servizi.
38 Tale interpretazione implica, in particolare, che un ricorrente utilizzatore di tali servizi possa
invocare la qualità di consumatore soltanto se l’uso essenzialmente non professionale di tali servizi,
per il quale ha originariamente concluso un contratto, non ha acquisito, in seguito, un carattere
essenzialmente professionale.
39 Per contro, dato che la nozione di «consumatore» si definisce per opposizione a quella di operatore
economico (v., in tal senso, sentenze del 3 luglio 1997, Benincasa, C 269/95, EU:C:1997:337, punto
16, e del 20 gennaio 2005, Gruber, C 464/01, EU:C:2005:32, punto 36) e che essa prescinde dalle
conoscenze o dalle informazioni di cui una persona realmente dispone (sentenza del 3 settembre 2015,
Costea, C 110/14, EU:C:2015:538, punto 21), né le competenze che l’interessato possa acquisire nel
settore nel cui ambito rientrano tali servizi, né il suo impegno ai fini della rappresentanza dei diritti e
degli interessi degli utilizzatori di tali servizi lo privano della qualità di «consumatore» ai sensi
dell’articolo 15 del regolamento n. 44/2001.
40 Un’interpretazione della nozione di «consumatore» che escludesse tali attività si risolverebbe,
infatti, nell’impedire una tutela effettiva dei diritti di cui i consumatori dispongono nei confronti delle
loro controparti professionali, compresi quelli relativi alla protezione dei loro dati personali.
Un’interpretazione siffatta sarebbe in contrasto con l’obiettivo enunciato dall’articolo 169, paragrafo
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1, TFUE di promuovere il loro diritto all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi.
41 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando
che l’articolo 15 del regolamento n. 44/2001 deve essere interpretato nel senso che un
utilizzatore di un account Facebook privato non perde la qualità di «consumatore» ai sensi di
tale articolo allorché pubblica libri, tiene conferenze, gestisce siti Internet, raccoglie donazioni
e si fa cedere i diritti da numerosi consumatori al fine di far valere in giudizio tali diritti.
Sulla seconda questione
42 Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 16, paragrafo
1, del regolamento n. 44/2001 debba essere interpretato nel senso che esso non si applica all’azione
di un consumatore diretta a far valere, dinanzi al giudice del luogo in cui è domiciliato, non soltanto
diritti propri ma anche diritti ceduti da altri consumatori domiciliati nello stesso Stato membro, in
altri Stati membri oppure in Stati terzi.
43 A tal proposito, occorre ricordare, preliminarmente, che le norme sulla competenza di cui alla
sezione 4 del capo II del regolamento n. 44/2001 costituiscono una deroga tanto alla regola generale
di competenza fissata dall’articolo 2, paragrafo 1, di tale regolamento, che attribuisce la competenza
ai giudici dello Stato membro nel territorio del quale il convenuto è domiciliato, quanto alla regola di
competenza speciale in materia di contratti, dettata dall’articolo 5, punto 1, del medesimo
regolamento, secondo cui il giudice competente è quello del luogo in cui è stata o deve essere eseguita
l’obbligazione dedotta in giudizio. Pertanto, tali norme devono necessariamente essere oggetto di
un’interpretazione restrittiva (v. sentenza del 28 gennaio 2015, Kolassa, C 375/13, EU:C:2015:37,
punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
44 Inoltre, la Corte ha già rilevato che, poiché la disciplina particolare istituita dagli articoli 15 e
seguenti del regolamento n. 44/2001 è ispirata dalla preoccupazione di proteggere il consumatore in
quanto parte contraente considerata economicamente più debole e meno esperta, sul piano giuridico,
della sua controparte, il consumatore è tutelato solo allorché egli è personalmente coinvolto come
attore o convenuto in un giudizio. Pertanto, l’attore che non sia esso stesso parte del contratto di
consumo di cui trattasi non può beneficiare del foro del consumatore (v., in tal senso, sentenza del 19
gennaio 1993, Shearson Lehman Hutton, C 89/91, EU:C:1993:15, punti 18, 23 e 24). Tali
considerazioni devono applicarsi anche nei confronti di un consumatore cessionario di diritti di altri
consumatori.
(omissis)
2. LE CLAUSOLE ABUSIVE Corte giustizia, Sez. II, Sent., 20-09-2017, n. 186/16
Introduzione
La Corte di Giustizia nella presente pronuncia rievoca i tratti della nozione di “clausola abusiva”,
con riferimento in particolare a due quesiti relativi alla consistenza ontologica di tale clausola:
1. Se il significativo squilibrio da essa prodotto vada verificato al momento della stipula o se
anche la sopravvenuta eccessiva onerosità del contratto rilevi a tal fine;
2. Se la chiarezza e comprensibilità della clausola riguardi solo la sua dimensione linguistica e
formale o abbia una portata contenutistica e sostanziale, anche con riferimento alle sue
eventuali conseguenze economiche.
Quanto al primo quesito, la Corte di Giustizia ribadisce che il significativo squilibrio deve essere
originario, ponendosi nel solco della sua precedente giurisprudenza (sentenza del 9 luglio 2015,
Bucura, C-348/14 e sentenza del 14 marzo 2013, Aziz, C-415/11).
È evidente infatti che le norme consumeristiche non si occupano dello squilibrio sopravvenuto,
ossia di fatti nuovi rispetto alla stipulazione che la rendano asimmetrica, alla luce del dato letterale
dell’art. 4 c. 1 della direttiva 93/13/CEE, che recita che “il carattere abusivo di una clausola
contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo

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riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano
detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende”.
A tale disposizione fa eco, nell’ordinamento nazionale, l’art. 34 del Codice del Consumo che
richiama le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto.
D’altro canto non è un caso che la disciplina del consumatore si attui principalmente attraverso una
categoria di invalidità, la nullità, ontologicamente riconducibile ad una patologia originaria del
contratto.
Venendo al secondo quesito, la Corte abbraccia una lettura estensiva e sostanziale dei concetti di
chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali, evocati dall’art. 4 c. 2 della direttiva
93/13/CEE.
A ben vedere la medesima questione è emersa anche a fronte del disposto dell’art. 35 del Codice
del Consumo che, recependo la direttiva citata, prevede due precetti.
In primo luogo, la norma dispone che “le clausole proposte al consumatore per iscritto devono essere
redatte in modo chiaro e comprensibile”, per poi aggiungere al secondo comma che: “in caso di
dubbio sul senso di una clausola prevale l’interpretazione favorevole al consumatore”.
Entrambe tali disposizioni fissano un principio generale di trasparenza.
Va preliminarmente osservato che, se per molti i concetti di chiarezza e comprensibilità rappresentano
un’endiadi, non manca chi, invece, distingue tra la chiarezza (che riguarda la modalità grafica del
testo come aspetto formale) e la comprensibilità (che riguarda il contenuto sostanziale, che deve
essere facilmente comprensibile senza usare locuzioni tecniche e terminologie specifiche non
accessibili al consumatore medio).
Alla luce del suddetto substrato normativo, dunque, la Corte di Giustizia reputa necessario che la
clausola sia comprensibile, sia decifrabile e che il suo contenuto sia intellegibile, anche in
relazione alle possibili conseguenze economiche che la clausola possa avere sul consumatore.
La Corte, con una giurisprudenza recepita anche dalle corti interne, si attesta dunque nel ritenere che,
per valutare se il contratto sia davvero trasparente non possa prescindersi dalla circostanza che
nel corso della trattativa siano state fornire informazioni che consentano di illuminarne
adeguatamente il contenuto.
Si può dire dunque che quella che la direttiva 93/13/CEE e il Codice del Consumo esigono è una
forma ad informationem, la cui finalità principale è la protezione dell’autonomia negoziale del
consumatore.
In tale dimensione, l’abusività della clausola poco comprensibile e la responsabilità precontrattuale
del professionista che non fornisca idonee informazioni al fine di consentire al consumatore di
comprendere a pieno tale clausola sembrano trovare un punto d’incontro.

Massima
L'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che il requisito
secondo cui una clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile
presuppone che, nel caso dei contratti di credito, gli istituti finanziari debbano fornire ai mutuatari
informazioni sufficienti a consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e
in piena cognizione di causa. A tal proposito, tale requisito implica che una clausola, in base alla
quale il prestito deve essere rimborsato nella medesima valuta estera nella quale è stato contratto,
sia compresa dal consumatore non solo sul piano formale e grammaticale, ma altresì in relazione
alla sua portata concreta, nel senso che un consumatore medio, normalmente informato e
ragionevolmente attento e avveduto, possa non solo essere a conoscenza della possibilità di
apprezzamento o deprezzamento della valuta estera nella quale il prestito è stato contratto, ma anche

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valutare le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sui suoi
obblighi finanziari. Spetta al giudice nazionale procedere alle verifiche necessarie al riguardo.
L'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che la valutazione
del carattere abusivo di una clausola contrattuale deve essere effettuata con riferimento al momento
della conclusione del contratto in questione, tenendo conto dell'insieme delle circostanze di cui il
professionista poteva essere a conoscenza in tale momento e che erano idonee a incidere
sull'ulteriore esecuzione di detto contratto.
Sentenza
[omissis] questioni pregiudiziali:
"1) Se l'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che il
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto debba essere
valutato con riferimento rigorosamente al momento della stipula del contratto oppure se esso
comprenda anche il caso in cui, durante l'esecuzione di un contratto ad esecuzione periodica o
continuata, la prestazione del consumatore sia divenuta eccessivamente onerosa rispetto al
momento della stipula del contratto a causa di variazioni significative del tasso di cambio.
2) Se con chiarezza e comprensibilità di una clausola contrattuale, ai sensi dell'articolo 4, paragrafo
2, della direttiva 93/13, debba intendersi che tale clausola contrattuale debba prevedere soltanto i
motivi alla base dell'inserimento nel contratto della clausola suddetta e il suo meccanismo di
funzionamento oppure se debba prevedere anche tutte le sue possibili conseguenze in funzione delle
quali può variare il prezzo pagato dal consumatore, ad esempio il rischio di cambio, e se alla luce
della direttiva 93/13 si possa ritenere che l'obbligo della banca di informare il cliente al momento
della concessione del credito riguardi esclusivamente le condizioni del credito, ossia gli interessi, le
commissioni, le garanzie poste a carico del mutuatario, non potendo far rientrare in tale obbligo il
possibile apprezzamento o deprezzamento di una valuta estera.
3) Se l'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che le
espressioni "oggetto principale del contratto" e "perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un
lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall'altro" comprendono una clausola
integrata in un contratto di credito stipulato in una valuta estera concluso tra un professionista e un
consumatore e che non è stato oggetto di una trattativa individuale, in forza della quale il credito
dovrà essere restituito nella medesima valuta".
(omissis)
Con la terza questione, a cui è opportuno rispondere in primo luogo, (omissis) il governo rumeno e la
banca hanno invocato l'eventualità che la clausola oggetto del procedimento principale sia solo il
riflesso del principio del nominalismo monetario sancito dall'articolo 1578 del codice civile rumeno,
di modo che, in forza dell'articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 93/13, detta clausola non ricadrebbe
nell'ambito di applicazione di quest'ultima.
A tal proposito, occorre ricordare che l'articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 93/13 istituisce
un'esclusione dall'ambito di applicazione della stessa, riguardante le clausole che riproducono
disposizioni legislative o regolamentari imperative (sentenza del 10 settembre 2014, Kušionová,
C-34/13, EU:C:2014:2189, punto 76, nonché, in tal senso, sentenza del 21 marzo 2013, RWE
Vertrieb, C-92/11, EU:C:2013:180, punto 25).

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La Corte ha già statuito che tale esclusione presuppone che ricorrano due condizioni. Da un lato, la
clausola contrattuale deve riprodurre una disposizione legislativa o regolamentare e, dall'altro, tale
disposizione deve essere imperativa (sentenza del 10 settembre 2014, Kušionová, C-34/13,
EU:C:2014:2189, punto 78).
Pertanto, al fine di stabilire se una clausola contrattuale sia esclusa dall'ambito di applicazione della
direttiva 93/13, spetta al giudice nazionale verificare se tale clausola riproduce le disposizioni del
diritto nazionale applicabili tra i contraenti indipendentemente da una loro scelta, o quelle che sono
di natura suppletiva e pertanto applicabili in via residuale, ossia allorché non è stato convenuto alcun
altro accordo tra i contraenti al riguardo (v., in tal senso, sentenza del 21 marzo 2013, RWE Vertrieb,
C-92/11, EU:C:2013:180, punto 26, e del 10 settembre 2014. [omissis]
Nel procedere a dette verifiche necessarie, il giudice nazionale deve tener conto del fatto che,
considerato in particolare l'obiettivo della suddetta direttiva, cioè la protezione dei consumatori dalle
clausole abusive inserite nei contratti conclusi da questi ultimi con professionisti, l'eccezione
introdotta dall'articolo 1, paragrafo 2, della medesima direttiva deve essere interpretata
restrittivamente (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2014, Kušionová, C-34/13,
EU:C:2014:2189, punto 77).
Nel caso in cui il giudice del rinvio dovesse constatare che la clausola oggetto del procedimento
principale non ricade in tale eccezione, gli spetterebbe pertanto verificare se essa è riconducibile alla
nozione di "oggetto principale del contratto" o a quella di "perequazione tra il prezzo e la
remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall'altro", ai sensi
dell'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13. 33 Sebbene sia vero che tale verifica spetta, come
già ricordato al precedente punto 22, unicamente al giudice del rinvio, la Corte è tuttavia tenuta a
desumere da detta disposizione i criteri applicabili in sede di tale esame. [omissis]
Per quanto riguarda la categoria delle clausole contrattuali rientranti nella nozione di "oggetto
principale del contratto", ai sensi dell'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, la Corte ha
statuito che tali clausole devono intendersi come quelle che fissano le prestazioni essenziali del
contratto stesso e che, come tali, lo caratterizzano (sentenze del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y
Monte de Piedad de Madrid, C-484/08, EU:C:2010:309, punto 34, e del 23 aprile 2015, Van Hove,
C-96/14, EU:C:2015:262, punto 33).
Per contro, le clausole che rivestono un carattere accessorio rispetto a quelle che definiscono l'essenza
stessa del rapporto contrattuale non possono rientrare nella nozione di "oggetto principale del
contratto", ai sensi di tale disposizione (sentenze del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai, C-
26/13, EU:C:2014:282, punto 50, e del 23 aprile 2015, Van Hove, C-96/14, EU:C:2015:262, punto
33).
Nel caso di specie, da numerosi elementi del fascicolo sottoposto alla Corte si deduce che una
clausola, come quella oggetto del procedimento principale, inserita in un contratto di credito stipulato
in una valuta estera concluso tra un professionista e un consumatore, e che non è stata oggetto di un
negoziato individuale, in forza della quale il credito deve essere restituito nella medesima valuta,
rientra nella nozione di "oggetto principale del contratto", ai sensi dell'articolo 4, paragrafo 2, della
direttiva 93/13.
A tal proposito, è opportuno osservare che, con un contratto di credito, il creditore si impegna,
principalmente, a mettere a disposizione del mutuatario una determinata somma di denaro, mentre
quest'ultimo si impegna, da parte sua, principalmente a rimborsare, generalmente con gli interessi,
tale somma secondo le scadenze previste. Le prestazioni essenziali di tale contratto si riferiscono,
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dunque, ad una somma di denaro che deve essere definita in relazione alla moneta di pagamento e di
rimborso pattuita. Pertanto, come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 46 e seguenti delle sue
conclusioni, il fatto che un credito debba essere rimborsato in una certa valuta riguarda, in linea di
principio, non già una modalità accessoria di pagamento, bensì la natura stessa dell'obbligazione del
debitore, costituendo così un elemento essenziale del contratto di mutuo. [omissis]
Inoltre, secondo una giurisprudenza costante della Corte, le informazioni, prima della conclusione
di un contratto, in merito alle condizioni contrattuali ed alle conseguenze di detta conclusione, sono,
per un consumatore, di fondamentale importanza. È segnatamente in base a tali informazioni che
quest'ultimo decide se desidera vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista
(sentenze del 21 marzo 2013, RWE Vertrieb, C-92/11, EU:C:2013:180, punto 44, nonché del 21
dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 50).
Nel caso di specie, trattandosi di prestiti in valuta estera come quelli oggetto del procedimento
principale, va sottolineato, come ricordato dal Comitato Europeo per il rischio sistemico nella sua
raccomandazione CERS/2011/1, del 21 settembre 2011, sui prestiti in valuta estera (GU 2011, C 342,
pag. 1), che gli istituti finanziari devono fornire ai prenditori di mutuo informazioni sufficienti a
consentire a questi ultimi di assumere decisioni prudenti e consapevoli e dovrebbero quanto meno
includere l'impatto sulle rate di rimborso che deriverebbe da un forte deprezzamento della moneta
avente corso legale nello Stato membro nel quale il prenditore di mutuo è domiciliato e da un aumento
del tasso di interesse estero (raccomandazione A - Consapevolezza dei rischi da parte dei prenditori,
punto 1).
Come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 66 e 67 delle sue conclusioni, da un lato, il
mutuatario deve essere chiaramente informato del fatto che, sottoscrivendo un contratto di mutuo
formulato in una valuta estera, si espone a un determinato rischio di cambio che gli sarà,
eventualmente, economicamente difficile sostenere in caso di svalutazione della moneta nella quale
egli percepisce il proprio reddito. Dall'altro lato, il professionista, nella fattispecie l'istituto bancario,
deve esporre le possibili variazioni dei tassi di cambio e i rischi inerenti alla sottoscrizione di un
mutuo in valuta estera, segnatamente nell'ipotesi in cui il consumatore mutuatario non percepisca il
proprio reddito in tale valuta. Spetta, peraltro, al giudice nazionale verificare che il professionista
abbia comunicato ai consumatori interessati tutte le informazioni pertinenti che permettano loro di
valutare le conseguenze economiche di una clausola, come quella oggetto del procedimento
principale, sui loro obblighi finanziari.
Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l'articolo 4,
paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui una
clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile presuppone che, nel caso
dei contratti di credito, gli istituti finanziari debbano fornire ai mutuatari informazioni sufficienti a
consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di
causa. A tal proposito, tale requisito implica che una clausola, in base alla quale il prestito deve essere
rimborsato nella medesima valuta estera nella quale è stato contratto, sia compresa dal consumatore
non solo sul piano formale e grammaticale, ma altresì in relazione alla sua portata concreta, nel
senso che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto,
possa non solo essere a conoscenza della possibilità di apprezzamento o deprezzamento della valuta
estera nella quale il prestito è stato contratto, ma anche valutare le conseguenze economiche,
potenzialmente significative, di una tale clausola sui suoi obblighi finanziari. [omissis]
Con la sua prima questione, a cui occorre rispondere in ultimo, il giudice del rinvio chiede, in
sostanza, se il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti del contratto, ai sensi
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dell'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13, causato da una clausola abusiva, debba essere
analizzato con riferimento unicamente al momento della conclusione del contratto.
A tal proposito, la Corte ha già statuito che, per poter valutare il carattere abusivo di una clausola
contrattuale, il giudice nazionale deve tener conto, come indicato dall'articolo 4 della direttiva 93/13,
della natura dei beni o dei servizi oggetto del contratto e fare riferimento, "al momento della
conclusione del contratto", a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione (v., in tal
senso, sentenza del 9 luglio 2015, Bucura, C-348/14, non pubblicata, EU:C:2015:447, punto 48 e
giurisprudenza ivi citata) [omissis] tenendo conto dell'insieme delle circostanze di cui il
professionista poteva essere a conoscenza in tale momento e che erano idonee a incidere sull'ulteriore
esecuzione del contratto in questione, in quanto una clausola contrattuale può essere portatrice di uno
squilibrio tra le parti che si manifesta solo durante l'esecuzione di quest'ultimo. [omissis]
Infatti, per chiarire se una clausola come quella oggetto del procedimento principale determini,
malgrado il requisito della buona fede, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti
e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, il giudice nazionale deve verificare se il
professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo con il consumatore, avrebbe potuto
ragionevolmente aspettarsi che quest'ultimo aderisse ad una siffatta clausola nell'ambito di un
negoziato individuale (v., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2013, Aziz, C-415/11, EU:C:2013:164,
punti 68 e 69).

3. LA NON VINCOLATIVITÀ DELLE CLAUSOLE Corte di Giustizia 21 dicembre 2016,


cause riunite C-154/15 e C-307/15
Introduzione
La nullità di protezione non è l’unica forma di tutela individuale riconosciuta al consumatore:
l’azione di restituzione è un’azione diversa ma potenzialmente integrativa rispetto a quella di
nullità ed ulteriore rispetto a quella risarcitoria.
Proprio in relazione agli effetti restitutori della nullità, la Corte di Giustizia è intervenuta con la
sentenza in oggetto, con riferimento alla disciplina consumeristica spagnola, statuendo che sarebbe
incompatibile con la normativa comunitaria una disciplina nazionale che limiti la restituzione
alle sole prestazioni eseguite dopo la sentenza che ha dichiarato la nullità.
Una siffatta limitazione tradirebbe la ratio protezionistica della tutela del consumatore, che vuole
che il contratto nullo sia inefficace ab origine e che quindi tutte le prestazioni eseguite per effetto
di esso siano passibili di restituzione.
D’altronde, l’effetto della restituzione integrale delle prestazioni già svolte sarebbe conseguenza
diretta del fatto che la clausola non sarebbe mai dovuta entrare nel contratto.
Peraltro la Corte non manca di osservare che l’assenza di tale effetto restitutorio potrebbe
pregiudicare l’effetto deterrente che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE, in
combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo 1, della stessa, intendono perseguire.

Massima
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le
clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che osta
ad una giurisprudenza nazionale che limiti nel tempo gli effetti restitutori legati alla dichiarazione
giudiziale del carattere abusivo, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, di una clausola
contenuta in un contratto stipulato fra un consumatore e un professionista, alle sole somme

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indebitamente versate in applicazione di una siffatta clausola successivamente alla pronuncia della
decisione che ha accertato giudizialmente tale carattere abusivo.
Sentenza
(omissis)
Con le due questioni nella causa C‑154/15 e con le prime questioni nelle cause C‑307/15 e C‑308/15,
che occorre esaminare congiuntamente, i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se l’articolo 6,
paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che osta ad una
giurisprudenza nazionale che limita nel tempo gli effetti restitutori legati alla dichiarazione
giudiziale del carattere abusivo, nell’accezione dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, di
una clausola contenuta in un contratto stipulato fra un consumatore e un professionista solo
alle somme indebitamente versate in applicazione di tale clausola successivamente alla
pronuncia della decisione che ha giudizialmente sancito tale carattere abusivo.
(omissis)
Orbene, a questo riguardo, la Corte ha statuito che le informazioni, prima della conclusione di un
contratto, in merito alle condizioni contrattuali ed alle conseguenze di detta conclusione, sono, per un
consumatore, di fondamentale importanza. È segnatamente in base a tali informazioni che
quest’ultimo decide se desidera vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista
(sentenza del 21 marzo 2013, RWE Vertrieb, C‑92/11, punto 44).
Pertanto, l’esame del carattere abusivo, nell’accezione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva
93/13, di una clausola contrattuale vertente sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, nel
caso in cui il consumatore, prima della stipula di tale contratto, non abbia disposto dell’informazione
necessaria in merito alle condizioni contrattuali e alle conseguenze di siffatta stipula, rientra nel
campo di applicazione di detta direttiva, in generale, e, in particolare, del suo articolo 6, paragrafo 1.
52
Pertanto, e nei limiti in cui i giudici del rinvio fanno riferimento alla sentenza del 9 maggio 2013, che
limita l’effetto restitutorio della dichiarazione del carattere abusivo delle clausole «di tasso minimo»,
occorre esaminare se l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere interpretato
nel senso che autorizza un giudice nazionale a disporre una siffatta limitazione.
53
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dispone che gli Stati membri prevedono che le clausole
abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il
consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali.
54
Tale disposizione deve essere considerata come una norma equivalente alle disposizioni nazionali
che occupano, nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico
(v., in questo senso, sentenza del 30 maggio 2013, Asbeek Brusse e de Man Garabito, C‑488/11,
EU:C:2013:341, punto 44).
55
Inoltre, si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale, che il contratto
determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire
l’uguaglianza tra queste ultime (sentenza del 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito, C‑618/10,
EU:C:2012:349, punto 63).
56
Data la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si basa la tutela assicurata ai
consumatori, che si trovano in una situazione d’inferiorità rispetto ai professionisti, la direttiva 93/13
impone agli Stati membri, come risulta dal suo articolo 7, paragrafo 1, in combinato disposto con il
ventiquattresimo considerando della medesima, di fornire mezzi adeguati ed efficaci «per far cessare
l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori» (sentenza
del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai, C‑26/13, EU:C:2014:282, punto 78).
57

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Per procedere in tal senso, il giudice nazionale deve semplicemente disapplicare la clausola
contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti del consumatore,
senza essere autorizzato a rivedere il contenuto della medesima (v., in tal senso, sentenza del 14
giugno 2012, Banco Español de Crédito, C‑618/10, EU:C:2012:349, punto 65).
58
In questo contesto, da un lato, il giudice nazionale deve valutare d’ufficio il carattere abusivo
di una clausola contrattuale rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, così
procedendo, ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista a partire dal
momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari.
59
Infatti, la piena efficacia della tutela prevista dalla direttiva esige che il giudice nazionale che
abbia accertato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola possa trarre tutte le conseguenze
derivanti da tale accertamento, senza attendere che il consumatore, informato dei suoi diritti,
presenti una dichiarazione diretta ad ottenere l’annullamento di detta clausola (sentenza del 30
maggio 2013, Jőrös, C‑397/11, EU:C:2013:340, punto 42).
60
Dall’altro lato, il giudice nazionale non può essere autorizzato a rivedere il contenuto delle
clausole abusive, salvo contribuire ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti
dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive
(v., in questo senso, sentenza del 21 gennaio 2015, Unicaja Banco e Caixabank, C‑482/13, C‑484/13,
C‑485/13 e C‑487/13, EU:C:2015:21, punto 31 e giurisprudenza citata).
61
Dalle considerazioni che precedono emerge che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13
deve essere interpretato nel senso che una clausola contrattuale dichiarata abusiva deve essere
considerata, in linea di principio, come se non fosse mai esistita, cosicché non può sortire effetti
nei confronti del consumatore. Pertanto, l’accertamento giudiziale del carattere abusivo di una
clausola del genere, in linea di massima, deve produrre la conseguenza di ripristinare, per il
consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale
clausola.
62
Se ne evince che l’obbligo in capo al giudice nazionale di disapplicare una clausola contrattuale
abusiva che prescriva il pagamento di somme che si rivelino indebite implica, in linea di
principio, un corrispondente effetto restitutorio per quanto riguarda tali somme.
63
L’assenza di tale effetto restitutorio, infatti, potrebbe pregiudicare l’effetto deterrente che
l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, in combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo
1, della stessa, mira a collegare alla dichiarazione del carattere abusivo delle clausole contenute
in contratti stipulati tra un consumatore e un professionista.
64
Invero, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dispone che gli Stati membri prevedano che le
clausole abusive non vincolano il consumatore «alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni
nazionali» (sentenza del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C‑40/08, EU:C:2009:615,
punto 57).
65
Cionondimeno, la circostanza che la tutela garantita dalla direttiva 93/13 ai consumatori sia regolata
dal diritto nazionale non può modificare la portata, né, di riflesso, la sostanza, di tale tutela, rimettendo
in questione il rafforzamento dell’efficacia di tale tutela tramite adozione di regole uniformi in merito
alle clausole abusive, che è stato voluto dal legislatore dell’Unione europea, come emerge dal decimo
considerando della direttiva 93/13.
66

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Di conseguenza, per quanto spetti agli Stati membri, mediante le loro legislazioni nazionali, definire
le modalità per dichiarare il carattere abusivo di una clausola contenuta in un contratto, nonché le
modalità con cui si realizzano i concreti effetti giuridici di tale dichiarazione, quest’ultima deve
tuttavia consentire di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui
egli si sarebbe trovato se tale clausola abusiva non fosse esistita, fondando, in particolare, un
diritto alla restituzione dei benefici che il professionista ha indebitamente acquisito a discapito
del consumatore avvalendosi di tale clausola abusiva.
67
Nel caso di specie, con la sentenza del 9 maggio 2013, cui si riferiscono i giudici del rinvio, il Tribunal
Supremo (Corte suprema) ha statuito che la dichiarazione del carattere abusivo delle clausole «di
tasso minimo» in oggetto non incideva né sulle situazioni definitivamente decise con decisioni
giurisdizionali aventi forza di giudicato, né sui pagamenti effettuati prima della data di pronuncia di
tale sentenza, e che, pertanto, gli effetti di tale dichiarazione, in particolare il diritto del consumatore
alla restituzione, erano circoscritti, in forza del principio della certezza del diritto, alle somme
indebitamente versate a decorrere da tale data.
68
A questo proposito, invero, la Corte ha già riconosciuto che la tutela del consumatore non riveste un
carattere assoluto. In particolare, essa ha statuito che il diritto dell’Unione non obbliga un giudice
nazionale a disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono, in particolare, autorità di cosa
giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione di
una disposizione, di qualunque natura essa sia, contenuta nella direttiva 93/13 (v., in questo senso,
sentenza del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C‑40/08, EU:C:2009:615, punto 37). Ne
consegue che il Tribunal Supremo (Corte suprema) poteva legittimamente statuire, nella sua sentenza
del 9 maggio 2013, che quest’ultima non era idonea ad influire sulle situazioni risolte in via definitiva
mediante decisioni giurisdizionali anteriori aventi forza di giudicato.
69
Parimenti, la Corte ha già dichiarato che è compatibile con il diritto dell’Unione la fissazione di
termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza nell’interesse della certezza del diritto (sentenza
del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C‑40/08, EU:C:2009:615, punto 41).
70
Tuttavia, si deve distinguere l’applicazione di una modalità processuale, come un termine ragionevole
di prescrizione, da una limitazione nel tempo degli effetti di un’interpretazione di una norma del
diritto dell’Unione (v., in questo senso, sentenza del 15 aprile 2010, Barth, C‑542/08, EU:C:2010:193,
punto 30 e giurisprudenza citata). A questo proposito, occorre rammentare che spetta solo alla Corte,
alla luce dell’esigenza fondamentale dell’applicazione uniforme e generale del diritto dell’Unione,
decidere sulle limitazioni nel tempo da apportare all’interpretazione che essa fornisce di una norma
(v., in questo senso, sentenza del 2 febbraio 1988, Barra e a., 309/85, EU:C:1988:42, punto 13).
71
Pertanto, le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali, alle quali si riferisce l’articolo 6,
paragrafo 1, della direttiva 93/13, non possono pregiudicare la sostanza del diritto, spettante ai
consumatori in forza di tale disposizione, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte ricordata
ai punti da 54 a 61 di questa sentenza, a non essere vincolato da una clausola reputata abusiva.
72
Orbene, la limitazione nel tempo degli effetti giuridici discendenti dalla dichiarazione della nullità
delle clausole «di tasso minimo» cui ha proceduto il Tribunal Supremo (Corte suprema) nella sua
sentenza del 9 maggio 2013 si risolve nel privare, in modo generale, qualsiasi consumatore che abbia
stipulato, prima di tale data, un contratto di mutuo ipotecario contenente una siffatta clausola, del
diritto di ottenere la restituzione integrale delle somme che ha indebitamente versato all’istituto di
credito sulla base di tale clausola nel periodo precedente al 9 maggio 2013.
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Ne consegue che una giurisprudenza nazionale come quella risultante dalla sentenza del 9
maggio 2013, relativa alla limitazione nel tempo degli effetti giuridici discendenti dalla
dichiarazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale in forza dell’articolo 6,
paragrafo 1, della direttiva 93/13, consente di garantire solamente una tutela limitata ai
consumatori che abbiano sottoscritto un contratto di mutuo ipotecario contenente una clausola
«di tasso minimo» prima della data di pronuncia della decisione che ha accertato giudizialmente
tale carattere abusivo. Questa tutela si rivela pertanto incompleta ed insufficiente e costituisce
un mezzo che non è né adeguato né efficace per far cessare l’inserzione di questo genere di
clausole, a dispetto di quanto dispone l’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva (v., in questo
senso, sentenza del 14 marzo 2013, Aziz, C‑415/11, EU:C:2013:164, punto 60).
(omissis)
Dall’insieme delle considerazioni che precedono risulta che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva
93/13 deve essere interpretato nel senso che osta ad una giurisprudenza nazionale che limiti nel tempo
gli effetti restitutori legati alla dichiarazione del carattere abusivo, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo
1, di tale direttiva, di una clausola contenuta in un contratto stipulato fra un consumatore e un
professionista, alle sole somme indebitamente versate in applicazione di una siffatta clausola
successivamente alla pronuncia della decisione che ha accertato giudizialmente tale carattere abusivo.

4. APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA ANTITRUST AI CONTRATTI “A VALLE”


Corte di cassazione 12 dicembre 2017, n. 29810

Introduzione

Nel volgere lo sguardo oltre gli angusti confini del Codice del Consumo, con la presente sentenza la
Corte di Cassazione evidenzia gli effetti riflessi sulla tutela del Consumatore della normativa
antitrust.
Viene così messo in luce che la legge del 10 ottobre 1990, n. 287 (cd legge Antitrust) detta norme a
tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche
gli altri soggetti – tra cui inevitabilmente i consumatori - che abbiano interesse alla conservazione
del carattere competitivo del mercato al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio
conseguente alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata.
Di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, infatti, il consumatore vede eluso il
proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e dunque ad esercitare
compiutamente la propria autodeterminazione negoziale.
Ciò, d’altronde, non stupisce se si pensa che il cosiddetto contratto "a valle" costituisce lo sbocco
naturale dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne gli effetti.
Tale effetto si produce, a parere della Corte, ogniqualvolta un’intesa anticoncorrenziale sia stata
perfezionata prima del negozio a valle ritenuto a sua volta nullo, anche se l’Autorità Indipendente
garante del mercato abbia rilevato l’abusività dell’intesa a monte solo a posteriori.

Massima

In tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dall’art. 2 della legge n.


287 del 1990, la stipulazione "a valle" di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle
intese illecite concluse "a monte" (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi ABI in materia
di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative)
comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte
dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato (nella specie, per
quello bancario, la Banca d’Italia, con le funzioni di Autorità garante della concorrenza tra istituti
creditizi, ai sensi degli artt. 14 e 20 della L. n. 287 del 1990 (in vigore fino al trasferimento dei poteri
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all’AGCM, con la legge n. 262 del 2005, a far data dal 12 gennaio 2016)) a condizione che
quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo,
considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive
del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza.

Sentenza

(omissis)
8.1. Ciò che forma oggetto di discussione è il fatto che, il contratto stipulato tra il fideiussore (il sig.
B. ) e la Banca (Unicredit) il 18 febbraio 2005, non potrebbe essere dichiarato nullo in forza di un
dictum (dell’Autorità di garanzia) sopravvenuto al patto (il provvedimento della Banca d’Italia n.
B423 del 2 maggio 2005) e ciò: a) perché la Banca d’Italia aveva invitato l’ABI a trasmettere le
circolari emendate al sistema bancario; b) l’illegittimità delle singole previsioni contrattuali tipizzate
era tale in conseguenza del loro inserimento uniforme nello schema ABI, sicché solo il mancato
adeguamento dell’Associazione al provvedimento della Banca d’Italia sarebbe comportamento
omissivo idoneo a determinare la nullità dei contratti stipulati in base alle NBU (norme bancarie
uniformi).
9. Il ragionamento della Corte territoriale non è condivisibile.
9.1. Nell’arresto delle sezioni unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 2207 del 2005) è già stato
precisato che "la legge "antitrust" 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di
concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti
del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione
del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente
alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da
un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore,
acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta
effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto "a valle"
costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti.".
9.2. In quella stessa sede, ha osservato la Corte che, "siccome la violazione di interessi riconosciuti
rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto "ex" art. 2043
cod. civ., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative
per l’effetto di una collusione "a monte", ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un
rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della
nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990, azione la
cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma alla competenza esclusiva, in unico grado di merito,
della corte d’appello".
10. Orbene, il ricorrente ha portato in giudizio, avanti alla Corte d’appello di Venezia l’esistenza di
un danno "a valle" (in conseguenza del contratto, oggetto di esame in questa sede) per effetto
dell’intesa vietata ("a monte"), tenuto conto, da un lato che, di fronte ad un’intesa restrittiva della
libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede svilito
(se non calpestato) il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e, dall’altro,
che il cosiddetto contratto "a valle" costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne
e ad attuarne gli effetti.
10.1. La richiesta giudiziale del consumatore (ossia, in primis, la possibilità di accertare la nullità
dell’accordo contrattuale) è stata radicalmente esclusa dalla Corte territoriale in quanto esso era
anteriore (sia pure di pochi mesi) all’esito dell’istruttoria condotta e solo il mancato adeguamento
dell’ABI, nella predisposizione delle NBU, dovrebbe dirsi atto omissivo illegittimo e potrebbe
costituire un comportamento idoneo a determinare la nullità dei contratti stipulati successivamente
alla pronuncia del controllore pubblico, ove non derogato dall’istituto di credito in specifiche
fattispecie negoziali.

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11. Ma tale ragionamento è errato in quanto istituisce una sorta di potere di prescrizione, necessario
e pregiudiziale rispetto ad ogni accertamento del giudice, da parte dell’autorità garante rispetto ai
comportamenti svolti in facto dai soggetti da essa vigilati che non trova riscontro in nessuna
previsione di legge né nei principi regolatori della materia.
11.1. Questa Suprema Corte regolatrice (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 827 del 1999) ha precisato che
l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (la cosiddetta legge "antitrust"), "allorché dispone che siano nulle
ad ogni effetto le "intese" fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua
parte rilevante, non ha inteso riferirsi solo alle "intese" in quanto contratti in senso tecnico ovvero
negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà’ tendenti a realizzare una funzione specifica
attraverso un particolare "voluto". Il legislatore - infatti - con la suddetta disposizione normativa
ha inteso - in realtà ed in senso più ampio proibire il fatto della distorsione della concorrenza,
in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune
interesse, le attività economiche; il che può essere il frutto anche di comportamenti "non
contrattuali" o "non negoziali". Si rendono - così - rilevanti qualsiasi condotta di mercato (anche
realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale) purché con la consapevole
partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di "intesa"
rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente "unilaterali". Da ciò consegue che,
allorché l’articolo in questione stabilisce la nullità delle "intese", non abbia inteso dar rilevanza
esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva
sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione - anche successiva al
negozio originario la quale - in quanto tale - realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza".
11.2. Pertanto, qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa
venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione
dell’art. 2 della legge antitrust.
(omissis)
11.6. Ad ogni modo, la Corte territoriale, che è l’organo deputato all’accertamento in fatto, alla luce
dei principi sulla prova privilegiata elaborati da questa Corte, non può (né potrà, ancora) escludere la
nullità di quel contratto per il solo fatto della sua anteriorità all’indagine dell’Autorità indipendente
ed alle sue risultanze, poiché se la violazione "a monte" è stata consumata anteriormente alla
negoziazione "a valle", l’illecito anticoncorrenziale consumatosi prima della stipula della fideiussione
oggetto della presente controversia non può che travolgere il negozio concluso "a valle", per la
violazione dei principi e delle disposizioni regolative della materia (a cominciare dall’art. 2 della
legge antritrust).
11.7. Con un ragionamento similare, del resto, questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 827 del 1999)
ha già considerato rilevanti persino gli illeciti in atto, per quanto generati anteriormente
all’emanazione della legge del 1990, stabilendo "che, quanto ai rapporti ancora in corso alla data di
entrata in vigore della legge n. 287/90, non si renda di per sé sufficiente ad escludere l’applicabilità
ad essi - della disciplina in questione il profilo per cui il fatto (di natura in sé negoziale) generatore
del singolo rapporto (ad esempio, una convenzione fra imprese) si fosse, alla suddetta data, già
realizzato; ed infatti, ferma restando la ovvia intangibilità di quel fatto originario e di qualunque suo
effetto già verificatosi antecedentemente all’entrata in vigore della nuova legge, rientrano comunque
sotto la disciplina in questione tutte le vicende successive del rapporto che realizzino profili di
distorsione della concorrenza.".
(omissis)

5. TUTELA DL CONSUMATORE E “UMBRELLA EFFECTS” Corte di Giustizia 5


giugno 2014, in causa 557/12
Introduzione

33
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Il ventaglio di strumenti di tutela riconosciuti al consumatore, a fianco della nullità di protezione delle
clausole vessatorie e dei conseguenti effetti restitutori, è completato dalla facoltà ad egli attribuita di
agire per il risarcimento dei danni cagionati dalla condotta illecita del professionista.
Sempre nell’ottica di una estensione delle tutele riconosciute al consumatore, volta a garantire
l’effetto utile della disciplina consumeristica, già prima dell’intervento della Cassazione appena
analizzato - che riconosce gli effetti della nullità delle intese “a monte” sulle stipulazioni “a valle” -
la Corte di Giustizia aveva riconosciuto, con la sentenza oggetto di approfondimento, il diritto al
risarcimento del danno arrecato al contraente di un contratto a valle quando un’intesa
anticoncorrenziale tra due imprese riverberi su di esso i propri effetti distorsivi.
In particolare, il consumatore che subisca l’imposizione di clausole inique determinate dalle intese
restrittive a monte potrà chiedere il risarcimento del danno alle parti delle intese (alla luce dei cd
umbrella effects), nel rispetto delle norme processuali interne, anche quando abbia stipulato con
un altro professionista che si sia limitato a recepire l‘intesa a monte.
La Corte precisa che le norme processuali che regolano tale facoltà devono essere ispirate tanto al
principio di equivalenza, che impone di prevedere per la tutela delle posizioni giuridiche garantite
dal diritto comunitario una livello di protezione pari a quelle riconosciute dal diritto interno, quanto
al principio di effettività, che impone di non rendere eccessivamente oneroso o financo impossibile
(ad esempio gravando il consumatore di una probatio diabolica) l’esercizio di tali diritti.

Massima
L’articolo 101 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad un’interpretazione e ad
un’applicazione del diritto nazionale di uno Stato membro consistente nell’escludere, in termini
categorici, per motivi giuridici, che imprese partecipanti ad un’intesa rispondano civilmente dei
danni risultanti dai prezzi che un’impresa terza abbia fissato, in considerazione dell’operato
dell’intesa, ad un livello più elevato rispetto a quello che sarebbe stato applicato in assenza
dell’intesa medesima.
Sentenza
(omissis) 8 L’intesa oggetto del procedimento principale (in prosieguo: l’«intesa contestata»)
era volta a garantire all’impresa favorita un prezzo più elevato rispetto a quello che avrebbe
potuto applicare in condizioni normali di concorrenza. L’intesa ha quindi falsato il mercato e,
segnatamente, l’evoluzione dei prezzi rispetto a quanto sarebbe avvenuto in condizioni
concorrenziali.
9(omissis)
10 Richiamandosi all’«effetto di prezzo di protezione» («umbrella effect»), la ÖBB Infrastruktur
chiedeva alle ricorrenti nel procedimento principale il risarcimento del danno stimato in EUR 1 839
239,74, derivante dal fatto di aver acquistato da imprese terze, non aderenti all’intesa di cui trattasi,
ascensori e scale mobili ad un prezzo più elevato di quello che sarebbe stato fissato in assenza
dell’intesa medesima, in quanto dette imprese terze avrebbero beneficiato della sua esistenza per
fissare il proprio prezzo ad un livello più elevato.
11 La domanda della ÖBB Infrastruktur, respinta dal giudice di primo grado, veniva invece accolta
dal giudice d’appello.
12 Adito dalle ricorrenti nel procedimento principale, l’Oberster Gerichtshof si interroga sui requisiti
ai fini del sorgere della responsabilità dei partecipanti ad un’intesa, con riguardo all’articolo
101 TFUE ed alla giurisprudenza della Corte, segnatamente alle sentenze Courage e Crehan
(C-453/99, EU:C:2001:465); Manfredi e a. (da C-295/04 a C-298/04, EU:C:2006:461) e Pfleiderer
(C-360/09, EU:C:2011:389).
13 Secondo la giurisprudenza dei giudici austriaci, il soggetto che chiede il risarcimento del danno
per responsabilità extracontrattuale sarebbe tenuto a dimostrare la sussistenza di un sufficiente nesso
di causalità nonché del nesso di illiceità, vale a dire la violazione di una norma di legge di tutela, ai
34
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sensi dell’articolo 1311 dell’ABGB.
14 Il giudice del rinvio fa presente che, in applicazione della nozione di sufficiente nesso di causalità,
l’autore di un danno deve garantire il risarcimento di tutte le conseguenze, ivi comprese quelle
fortuite, di cui potesse considerare in abstracto il verificarsi, ma non il risarcimento delle conseguenze
atipiche. Secondo tale giurisprudenza, qualora un’impresa estranea ad un’intesa benefici dell’effetto
del prezzo di protezione, non sussisterebbe sufficiente nesso di causalità tra l’intesa stessa e
l’eventuale danno subito dall’acquirente, in quanto si tratterebbe di un danno indiretto, di un effetto
collaterale di una decisione autonoma che un soggetto terzo all’intesa avrebbe assunto sulla base di
proprie considerazioni gestionali. L’effetto prodotto su un concorrente dalla situazione del mercato,
quale determinata dagli aderenti di un’intesa, le conclusioni economiche da questi tratte per la propria
impresa nonché per i propri prodotti e le decisioni gestionali conseguentemente assunte, in particolare
con riguardo alla fissazione dei prezzi, sarebbero considerati determinati, in larga misura, da un ampio
numero di fattori, privi di alcun rapporto con l’intesa.
15 Quanto alla questione dell’illiceità, l’Oberster Gerichtshof avrebbe affermato che, alla luce della
dottrina relativa alla finalità di tutela dell’intesa, il fatto di causare il danno patrimoniale
implicherebbe l’obbligo di risarcimento solamente nel caso in cui l’illiceità del danno risulti dalla
violazione di obblighi contrattuali, di diritti assoluti o di norme di tutela. Il punto determinante
consisterebbe, quindi, nell’accertare se la norma violata dall’autore del danno fosse volta alla tutela
degli interessi del soggetto leso. Ciò non avverrebbe nel caso del sistema dei prezzi di protezione
(«umbrella pricing»), che non implicherebbe alcuna relazione di illiceità. I comportamenti illeciti
degli aderenti ad un’intesa sarebbero volti a ledere i soggetti acquirenti dei loro prodotti ai prezzi
artificialmente elevati da essi praticati. Il pregiudizio causato dal prezzo di protezione non sarebbe
altro che un effetto collaterale di una decisione indipendente che un soggetto terzo all’intesa ha
assunto sulla base di proprie considerazioni gestionali.
16 Il giudice del rinvio sottolinea che la questione se, nel diritto dell’Unione, il danno risultante
dall’effetto dei prezzi di protezione debba costituire oggetto di risarcimento è molto controversa nella
dottrina tanto tedesca quanto austriaca. In considerazione del primato del diritto dell’Unione, la
questione posta rivestirebbe importanza determinante, in considerazione dell’incertezza esistente in
merito alla questione se il rigetto del diritto al risarcimento sia compatibile con il principio di
effettività stabilito dalla Corte.
17 Conseguentemente, l’Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’articolo 101 TFUE (articolo 81 CE, articolo 85 del Trattato CE) debba essere interpretato
nel senso che chiunque possa esigere dai partecipanti ad un’intesa anche il risarcimento del
danno arrecatogli da un soggetto estraneo al gruppo dei partecipanti all’intesa stessa il quale,
nella scia dell’aumento dei prezzi di mercato, abbia alzato i prezzi dei propri prodotti più di
quanto avrebbe fatto in assenza dell’intesa medesima (“umbrella pricing” – prezzo guida),
cosicché il principio di effettività stabilito dalla Corte […] ne imponga il riconoscimento in base
al diritto nazionale».
Sulla questione pregiudiziale
18 Considerato che gli articoli 85 del Trattato CE, 81 CE e 101 TFUE presentano, sostanzialmente,
lo stesso contenuto, si farà riferimento unicamente all’articolo 101 TFUE, attualmente in vigore.
19 Con la questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se l’articolo 101
TFUE osti ad un’interpretazione e ad un’applicazione del diritto di uno Stato membro,
consistente nell’escludere categoricamente, per motivi di ordine giuridico, la responsabilità
civile di imprese aderenti ad un’intesa per i danni risultanti dai prezzi che un’impresa terza
abbia fissato, in considerazione dell’operato dell’intesa, ad un livello più elevato di quanto
avrebbe fatto in assenza dell’intesa medesima.
20 Si deve ricordare che gli articoli 101, paragrafo 1, TFUE e 102 TFUE producono effetti diretti nei
rapporti tra i singoli ed attribuiscono direttamente a questi diritti che i giudici nazionali devono
tutelare (omississ)
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21 La piena efficacia dell’articolo 11 TFUE e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito al
paragrafo 1 di detto articolo sarebbero messi in discussione se per chiunque risultasse impossibile
chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento idoneo a
restringere o falsare il gioco della concorrenza (sentenze Courage e Crehan, EU:C:2001:465, punto
26; Manfredi e a., EU:C:2006:461, punto 60; Otis e a., C-199/11, EU:C:2012:684, punto 41, nonché
Donau Chemie e a., C-536/11, EU:C:2013:366, punto 21).
22 Conseguentemente, tutti hanno il diritto di chiedere il risarcimento del danno subito quando
sussiste un nesso di causalità tra tale danno e un’intesa o una pratica vietata dall’articolo 101 TFUE
(sentenze Manfredi e a., EU:C:2006:461, punto 61, nonché Otis e a., C-199/11, EU:C:2012:684,
punto 43).
23 Il diritto riconosciuto a chiunque di chiedere il risarcimento di tale danno rafforza, infatti, il
carattere operativo delle regole di concorrenza dell’Unione ed è tale da scoraggiare gli accordi
o le pratiche, spesso dissimulati, idonei a restringere o falsare il gioco della concorrenza,
contribuendo quindi al mantenimento di un’effettiva concorrenza nell’Unione europea
(sentenze Courage e Crehan, EU:C:2001:465, punto 27; Manfredi e a., EU:C:2006:461, punto 91;
Otis e a., EU:C:2012:684, punto 42; Pfleiderer, EU:C:2011:389, punto 29, nonché Donau Chemie e
a., EU:C:2013:366, punto 23).
24 In assenza di normativa dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di
ogni singolo Stato membro stabilire le modalità di esercizio del diritto di agire per il
risarcimento del danno risultante da un’intesa o da una pratica vietati dall’articolo 101 TFUE,
ivi comprese quelle relative all’applicazione della nozione di «nesso di causalità», sempreché
siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività (sentenza Manfredi e a., EU:C:2006:461,
punto 64).
25 In tal senso, le norme applicabili alle azioni dirette a garantire la tutela dei diritti riconosciuti
ai singoli dall’effetto diretto del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle
relative ad analoghe azioni di natura interna (principio di equivalenza) e non devono rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti
dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (omissis).
26 A tal riguardo, e particolarmente nel settore del diritto della concorrenza, tali norme non devono
pregiudicare l’applicazione effettiva degli articoli 101 TFUE e 102 TFUE (v. sentenze VEBIC,
C-439/08, EU:C:2010:739, punto 57; Pfleiderer, EU:C:2011:389, punto 24, nonché Donau Chemie e
a., EU:C:2013:366, punto 27).
27 Nel procedimento principale, la ÖBB Infrastruktur sostiene che parte del danno da essa subito è
stato causato dall’intesa in questione, che ha consentito il mantenimento di un prezzo di mercato ad
un livello talmente elevato che concorrenti non aderenti a tale intesa hanno potuto anch’essi
beneficiare di tale prezzo di mercato, superiore a quello che sarebbe risultato in assenza dell’intesa
stessa, in termini sia di utili o semplicemente di sopravvivenza, qualora la loro struttura fosse stata
tale che condizioni normali di concorrenza avrebbero potuto produrre la loro eliminazione dal
mercato.
28 Gli interessati che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte non hanno contestato che il
fenomeno di prezzo di protezione («umbrella pricing») sia riconosciuto, in presenza di talune
circostanze, quale una delle possibili conseguenze di un’intesa. Per contro, le ricorrenti nel
procedimento principale contestano, sostanzialmente, l’opportunità di interpretare il diritto
dell’Unione nel senso dell’accoglimento delle richieste di risarcimento del danno fondate
sull’esistenza di un prezzo di protezione («umbrella claims»).
29 A tal riguardo, si deve rilevare che il prezzo di mercato è uno dei principali elementi presi in
considerazione da un’impresa nella determinazione del prezzo al quale offrire i propri prodotti o
servizi. Nel caso in cui un’intesa riesca nell’intento di mantenere prezzi artificialmente elevati per
taluni prodotti e qualora sussistano determinate condizioni di mercato attinenti, segnatamente, alla
natura del prodotto o alla dimensione del mercato oggetto dell’intesa stessa, non si può escludere che
l’impresa concorrente, esterna all’intesa, decida di fissare il proprio prezzo offerto ad un importo
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superiore a quello che avrebbe fissato in normali condizioni di concorrenza, vale a dire in assenza
dell’intesa. Ciò premesso, ancorché la determinazione del prezzo offerto sia considerata quale
decisione puramente autonoma, adottata dall’impresa non aderente all’intesa, si deve tuttavia rilevare
che tale decisione ha potuto essere presa con riferimento ad un prezzo di mercato falsato dall’intesa
e, conseguentemente, in contrasto con le regole della concorrenza.
30 (omissis) 31 Per quanto attiene alla normativa nazionale oggetto del procedimento principale, dalla
decisione di rinvio emerge che la normativa austriaca esclude, in termini categorici, il diritto al
risarcimento del danno in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, in quanto
si ritiene che il nesso di causalità tra il pregiudizio subito e l’intesa de qua sia interrotto, in assenza di
un vincolo convenzionale con un’aderente all’intesa stessa, dalla decisione dell’impresa,
autonomamente adottata, di non partecipare all’intesa, pur essendo stato fissato, per effetto
dell’esistenza di quest’ultima, un prezzo di protezione («umbrella pricing»).
32 È ben vero, come rammentato supra al punto 24, che spetta, in linea di principio,
all’ordinamento giuridico interno di ogni singolo Stato membro stabilire i principi relativi
all’applicazione della nozione di «nesso di causalità». Tuttavia, dalla giurisprudenza della
Corte, richiamata supra al punto 26, emerge che tali norme nazionali devono garantire la piena
effettività del diritto dell’Unione in materia di concorrenza (v., in tal senso, sentenza VEBIC,
EU:C:2010:739, punto 63). In tal senso, tali norme devono tener specificamente conto dell’obiettivo
perseguito dall’articolo 101 TFUE, volto a garantire il mantenimento di una concorrenza effettiva e
non falsata del mercato interno e, quindi, di prezzi fissati in base al meccanismo della libera
concorrenza. È su tali premesse che la Corte ha dichiarato, come ricordato supra al punto 22, che le
normative nazionali devono riconoscere a chiunque il diritto di richiedere il risarcimento del
pregiudizio subito.
33 Orbene, la piena effettività dell’articolo 101 TFUE sarebbe rimessa in discussione se il diritto
di chiunque di chiedere il risarcimento del pregiudizio subito fosse subordinato dalla normativa
nazionale, in termini categorici e a prescindere dalle specifiche circostanze della specie, alla
sussistenza di un nesso di causalità diretta, escludendo tale diritto nel caso in cui il soggetto
interessato abbia intrattenuto rapporti contrattuali non con un membro dell’intesa, bensì con
un’impresa ad essa non aderente, la cui politica in materia di prezzi sia tuttavia conseguenza
dell’intesa che ha contribuito a falsare i meccanismi di formazione dei prezzi operanti in
mercati retti da regime di concorrenza.
34 Conseguentemente, la vittima di un prezzo di protezione («umbrella pricing») può ottenere il
risarcimento del danno subito ad opera degli aderenti ad un’intesa, ancorché non abbia
intrattenuto vincoli contrattuali con il medesimo, laddove risulti accertato che, alla luce delle
circostanze di specie e, segnatamente, delle peculiarità del mercato interessato, detta intesa
fosse tale da poter incidere sull’applicazione di un prezzo di protezione da terzi agenti
autonomamente e che tali circostanze e peculiarità non potessero essere ignorate dai membri
dell’intesa medesima. Spetta al giudice del rinvio verificare la sussistenza di tali condizioni.
35 La Kone e la Otis deducono che la proponibilità di domande di risarcimento del danno subito per
effetti di prezzi elevati, che siano conseguenza dell’esistenza di un prezzo di protezione, costituiscono
azioni risarcitorie punitive, in quanto al pregiudizio subito dalla ÖBB-Infrastruktur non
corrisponderebbe un arricchimento delle ricorrenti nel procedimento principale. Si deve tuttavia
rilevare che norme in materia di responsabilità extracontrattuale non subordinano l’entità del
danno risarcibile al vantaggio economico realizzato dall’autore dell’illecito da cui il danno sia
derivato.
36 (omissis)
Per questi motivi,
la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
L’articolo 101 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad un’interpretazione e ad
un’applicazione del diritto nazionale di uno Stato membro consistente nell’escludere, in termini
categorici, per motivi giuridici, che imprese partecipanti ad un’intesa rispondano civilmente
37
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dei danni risultanti dai prezzi che un’impresa terza abbia fissato, in considerazione dell’operato
dell’intesa, ad un livello più elevato rispetto a quello che sarebbe stato applicato in assenza
dell’intesa medesima.

6. INTERVENTO DI UN’ASSOCIAZIONE DI CONSUMATORI IN GIUDIZIO A


SOSTEGNO DI UN CONSUMATORE:
a) Corte di Giustizia, 27 febbraio 2014 in causa 470/12
Introduzione
La Corte di Giustizia con la sentenza in esame ricostruisce il complesso ruolo delle associazioni di
categoria nella tutela dei consumatori e, in applicazione dei principi di equivalenza delle tutele
giurisdizionali e di effettività, non individua, almeno in via generale, un conflitto tra la direttiva
93/13/CEE e una disciplina nazionale che non ammette – salvo che sia dato a tal fine esplicito
mandato - l’intervento dell’associazione consumeristica a sostegno delle ragioni che un singolo
consumatore abbia azionato esercitando un’azione individuale.
La Corte osserva che in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, della citata direttiva 93/13/CEE, gli Stati
membri devono provvedere a fornire mezzi adeguati ed efficaci al fine di far cessare l’inserzione
delle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
A tal proposito, è contemplata la possibilità per gli enti che abbiano un interesse proprio a
tutelare i consumatori e siano considerati come idoneamente rappresentativi degli stessi di
adire le autorità giudiziarie, perché queste accertino se determinate clausole presentino un carattere
abusivo e, eventualmente, ne vietino l’utilizzo (a tal proposito la sentenza del 24 gennaio 2002,
Commissione/Italia, C-372/99), anche in via preventiva ove queste non siano state ancora recepite
nei contratti.
E’ quanto avviene nell’azione collettiva, conosciuta dal nostro ordinamento all’ art. 37 del Codice
del Consumo.
Se ciò è vero, va d’altro canto osservato che la direttiva 93/13/CEE non contempla espressamente
una simile facoltà di azione (o intervento) alle associazioni nell’ambito di controversie
individuali che coinvolgono un singolo consumatore.
La Corte conclude che è dunque onere dell’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato
membro stabilire tali norme di azione o intervento, in virtù del principio dell’autonomia
procedurale, a condizione che esse non siano meno favorevoli delle norme che disciplinano
situazioni simili sottoposte al diritto interno (secondo il principio di equivalenza) e che non rendano
praticamente impossibile o eccessivamente arduo l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto
dell’Unione (secondo il principio di effettività).

Massima
La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti
stipulati con i consumatori, in particolare gli articoli 6, paragrafo 1, 7, paragrafo 1, e 8 di tale
direttiva, letti in combinato disposto con gli articoli 38 e 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa
nazionale in applicazione della quale non è ammesso l’intervento di un’associazione per la tutela dei
consumatori a sostegno di un determinato consumatore, in un procedimento di esecuzione, avviato
contro quest’ultimo, di un lodo arbitrale definitivo.
Sentenza
(omissis)
36 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 93/13, in
particolare gli articoli 6, paragrafo 1, 7, paragrafo 1, e 8 di tale direttiva, letti in combinato
disposto con gli articoli 38 e 47 della Carta, debba essere interpretata nel senso che essa osta ad
una normativa nazionale in applicazione della quale non è ammesso l’intervento di
38
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un’associazione per la tutela dei consumatori a sostegno di un determinato consumatore, in un
procedimento di esecuzione, avviato contro quest’ultimo, di un lodo arbitrale definitivo.
37 A tale riguardo, dalla decisione di rinvio risulta che, nel procedimento principale, la Združenie
HOOS chiede di essere ammessa ad intervenire nel procedimento esecutivo avviato dalla Pohotovost’
contro il sig. Vašuta, in particolare perché essa ritiene che, con la sua decisione di sospendere il
procedimento esecutivo del lodo arbitrale solo per una parte del credito e di autorizzare l’esecuzione
per la parte restante, l’Okresný súd Svidník non ha, pur in presenza di una clausola compromissoria
abusiva, accordato d’ufficio al consumatore un’adeguata tutela e non ha tratto le conseguenze di
diritto dalla mancata indicazione del tasso annuale effettivo globale nel contratto di credito al
consumo. Quest’ultima decisione non sarebbe conforme alla giurisprudenza della Corte derivante
segnatamente dalla citata ordinanza Pohotovost’.
38 A norma dell’articolo 93, paragrafo 2, del codice di procedura civile, risulta inoltre che
un’associazione per la tutela dei consumatori può essere ammessa come parte interveniente in una
controversia, nella fase di merito, che coinvolga un consumatore. Per contro, nei procedimenti di
esecuzione concernenti un consumatore, che si tratti di esecuzione di una sentenza di un giudice
nazionale o di un lodo arbitrale definitivo come quello di cui al procedimento principale, il codice
delle esecuzioni non permette, ai sensi della giurisprudenza del Najvyšší súd Slovenskej republiky e
dell’Ústavný súd Slovenskej republiky, che venga ammesso l’intervento di una siffatta associazione.
39 Secondo una giurisprudenza costante, il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è
fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione d’inferiorità rispetto al
professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione,
situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza poter
incidere sul contenuto delle stesse (sentenze del 27 giugno 2000, Océano Grupo Editorial e Salvat
Editores, da C‑240/98 a C‑244/98, Racc. pag. I‑4941, punto 25, e del 26 ottobre 2006, Mostaza Claro,
C‑168/05, Racc. pag. I‑10421, punto 25, nonché l’ordinanza Pohotovost’, cit., punto 37).
40 Al fine di garantire la tutela voluta da detta direttiva, la Corte ha più volte evidenziato che tale
situazione di disuguaglianza può essere riequilibrata solo mediante un intervento positivo,
esterno al rapporto contrattuale (sentenze citate, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, punto
27; Mostaza Claro, punto 26 e Asturcom Telecomunicaciones, punto 31, nonché ordinanza
Pohotovost’, cit., punto 39).
41 A tale riguardo, la facoltà per il giudice di esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola
costituisce un mezzo idoneo al conseguimento tanto dell’obiettivo fissato dall’articolo 6 della
direttiva 93/13, che è quello di impedire che il singolo consumatore sia vincolato da una clausola
abusiva, quanto dell’obiettivo dell’articolo 7 della medesima direttiva, dato che tale esame può avere
un effetto dissuasivo e può contribuire a far cessare l’inserimento di clausole abusive nei contratti
conclusi tra un professionista e i consumatori (sentenze del 21 novembre 2002, Cofidis, C‑473/00,
Racc. pag. I‑10875, punto 32, e Mostaza Claro, cit., punto 27, nonché ordinanza Pohotovost’, cit.,
punto 41).
(omissis)
43 Per quanto riguarda il ruolo che le associazioni per la tutela dei consumatori possono svolgere,
occorre sottolineare che, in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, gli Stati membri
devono provvedere a fornire mezzi adeguati ed efficaci al fine di far cessare l’inserzione delle clausole
abusive nei contratti stipulati con i consumatori (sentenza del 26 aprile 2012, Invitel, C‑472/10, punto
35). A tal proposito, risulta dall’articolo 7, paragrafo 2, di tale direttiva che questi mezzi comprendono
la possibilità per persone o enti che abbiano un interesse legittimo a tutelare i consumatori di adire le
autorità giudiziarie perché queste accertino se delle clausole redatte per un uso generalizzato
presentino un carattere abusivo e, eventualmente, ne vietino l’utilizzo (v. sentenze del 24 gennaio
2002, Commissione/Italia, C‑372/99, Racc. pag. I‑819, punto 14, e Invitel, cit., punto 36).
44 La natura preventiva e la finalità dissuasiva delle azioni inibitorie, nonché la loro indipendenza
nei confronti di qualsiasi conflitto individuale concreto, implicano che dette azioni possano essere

39
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esercitate anche quando le clausole delle quali si chiede sia vietato l’utilizzo non siano state inserite
in contratti determinati (v. sentenze citate Commissione/Italia, punto 15, e Invitel, punto 37).
45 Tuttavia, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 62 delle sue conclusioni, è
necessario constatare che né la direttiva 93/13 né le direttive successive, che completano la
regolamentazione in materia di tutela dei consumatori, contengono norme volte a disciplinare il ruolo
che può o deve essere riconosciuto alle associazioni per la tutela dei consumatori nell’ambito di
controversie individuali che coinvolgono un consumatore. Dal tenore della direttiva 93/13 dunque
non emerge se tali associazioni debbano o meno avere il diritto di essere ammesse ad intervenire a
sostegno di consumatori nell’ambito di tali controversie individuali.
46 Ne consegue che, in assenza di una disciplina dell’Unione concernente la possibilità a
favore delle associazioni per la tutela dei consumatori d’intervenire nelle controversie
individuali che coinvolgono dei consumatori, spetta all’ordinamento giuridico interno di
ciascuno Stato membro stabilire tali norme, in virtù del principio dell’autonomia procedurale,
a condizione però che esse non siano meno favorevoli delle norme che disciplinano situazioni
simili sottoposte al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano praticamente
impossibile o eccessivamente arduo l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione
(principio di effettività).
47 Per quanto concerne, in primo luogo, il principio di equivalenza, esso richiede che la norma
nazionale di cui trattasi si applichi indifferentemente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto
dell’Unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi un oggetto e una causa
analoghi (v., in particolare, la sentenza del 29 ottobre 2009, Pontin, C‑63/08, Racc. pag. I‑10467,
punto 45).
48 Per verificare se il principio citato è rispettato nel procedimento del quale è investito il giudice
del rinvio, spetta a quest’ultimo, che è il solo ad avere una conoscenza diretta delle modalità
procedurali dei ricorsi nel proprio sistema giuridico interno, esaminare sia l’oggetto sia gli elementi
essenziali dei ricorsi asseritamente analoghi di natura interna. Tuttavia, ai fini della valutazione che
tale giudice dovrà compiere, la Corte può fornire al medesimo taluni elementi sull’interpretazione del
diritto dell’Unione.
49 A tal proposito, dalla decisione di rinvio emerge che l’articolo 37, paragrafo 1, del codice delle
esecuzioni, come ha evidenziato l’avvocato generale al paragrafo 73 delle sue conclusioni, esclude
l’intervento di qualsiasi soggetto terzo in qualunque procedimento di esecuzione di una decisione di
un giudice nazionale o di un lodo arbitrale definitivo, sia che tale decisione sia basata sulla violazione
del diritto dell’Unione sia sull’inosservanza del diritto interno.
50 In queste circostanze, non si può ritenere che una siffatta disciplina violi il principio di
equivalenza laddove non prevede le possibilità di autorizzare l’intervento di un’associazione per la
tutela dei consumatori in un procedimento di esecuzione di un lodo arbitrale definitivo come quello
di cui al procedimento principale.
51 Per quanto riguarda, in secondo luogo, il principio di effettività, occorre ricordare che la Corte
ha già affermato che ciascun caso in cui si pone la questione se una norma procedurale nazionale
renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere
esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento
e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo, si
devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale,
quali la tutela del diritto alla difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del
procedimento (v. sentenza del 5 dicembre 2013, Asociación de Consumidores Independientes de
Castilla y León, C‑413/12, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
52 A tale riguardo, l’articolo 38 della Carta prevede che nelle politiche dell’Unione è garantito un
livello elevato di protezione dei consumatori. Tale imperativo vale per l’applicazione della direttiva
93/13. Tuttavia, in assenza di una norma di tale direttiva che preveda un diritto in capo alle
associazioni per la tutela dei consumatori d’intervenire nelle controversie individuali in cui siano

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coinvolti consumatori, l’articolo 38 della Carta, di per sé, non può imporre un’interpretazione di detta
direttiva nel senso che tale diritto è in essa riconosciuto.
53 Si può procedere a tale rilievo anche per le disposizioni dell’articolo 47 della Carta relative a
un diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, da cui discende che venga accordato un
patrocinio a spese dello Stato a coloro che non dispongono di risorse sufficienti, se tale aiuto è
necessario a garantire l’effettività dell’accesso alla giustizia. Dal momento che la stessa direttiva
prevede, nell’ambito delle controversie che coinvolgono un professionista e un consumatore, un
intervento positivo, esterno al rapporto contrattuale, del giudice nazionale investito di tali
controversie, non si può, ad ogni modo, sostenere che il rifiuto di ammettere l’intervento di
un’associazione a sostegno di un determinato consumatore costituisca una violazione del diritto a un
ricorso giurisdizionale effettivo di tale consumatore come garantito dal suddetto articolo. Inoltre,
l’intervento di un’associazione per la tutela dei consumatori non può neppure essere assimilato al
patrocinio a spese dello Stato che a norma di detto articolo deve essere concesso, in taluni casi, a chi
non dispone di risorse sufficienti.
54 Per quanto attiene poi alla possibilità per un’associazione per la tutela dei consumatori di
invocare in tale contesto il suddetto articolo, occorre osservare che la mancata autorizzazione di
tale intervento in un procedimento che coinvolge un consumatore non lede il diritto
dell’associazione a un ricorso giurisdizionale effettivo per la difesa dei diritti ad essa
riconosciuti in quanto associazione di tale tipo, in particolare i suoi diritti di azione collettiva di
cui all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
55 Del resto, si deve aggiungere che, conformemente alla normativa nazionale di cui al
procedimento principale, un’associazione può rappresentare direttamente un tale consumatore
in ogni procedimento, compreso quello di esecuzione, su mandato di quest’ultimo.
56 Da quanto detto emerge che una normativa nazionale, come quella oggetto del
procedimento principale, non viola il principio di effettività per il fatto di non prevedere la
possibilità per un’associazione per la tutela dei consumatori di intervenire in un procedimento
di esecuzione di una decisione giudiziaria o di un lodo arbitrale definitivo.
57 Sulla scorta di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione
che la direttiva 93/13, in particolare gli articoli 6, paragrafo 1, 7, paragrafo 1, e 8 di tale direttiva, letti
in combinato disposto con gli articoli 38 e 47 della Carta, deve essere interpretata nel senso che essa
non osta ad una normativa nazionale in applicazione della quale non è ammesso l’intervento di
un’associazione per la tutela dei consumatori a sostegno di un determinato consumatore, in un
procedimento di esecuzione, avviato contro quest’ultimo, di un lodo arbitrale definitivo.

Sulla seconda questione


58 Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 37, paragrafi
1 e 3, del codice delle esecuzioni debba essere interpretato nel senso che non osta a che un giudice
nazionale, in base agli articoli 6, paragrafo 1, 7, paragrafo 1, e 8 della direttiva 93/13, riconosca
a un’associazione per la tutela dei consumatori la qualità di interveniente in un procedimento
di esecuzione di un lodo arbitrale definitivo.
59 In realtà, con tale questione, il giudice del rinvio sottopone alla Corte un quesito inerente
all’interpretazione che può essere accordata al proprio diritto nazionale.
60 Orbene, non spetta alla Corte interpretare, nell’ambito di un procedimento pregiudiziale,
disposizioni legislative o regolamentari nazionali (v. sentenze del 9 settembre 2003, Jaeger, C‑151/02,
Racc. pag. I‑8389, punto 43, e del 23 marzo 2006, Enirisorse, C‑237/04, Racc. pag. I‑2843, punto 24
e giurisprudenza ivi citata).

b) Corte di Cassazione 19 febbraio 2015, ordinanza n. 3323;

Introduzione

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Se la pronuncia della Corte di Giustizia appena analizzata “passa a palla” all’ordinamento
interno a ciascuno stato membro, con l’ordinanza in esame viene invocato l‘intervento delle
Sezioni Unite proprio a risolvere il controverso quesito relativo all’ammissibilità,
nell’ordinamento italiano, di un intervento ad adiuvandum dell’associazione esponenziale dei
diritti dei consumatori in un processo attivato dall’azione individuale di un singolo
consumatore.
In materia si sono infatti confrontate avverse impostazioni.
Secondo una prima teoria, restrittiva, il ruolo delle associazioni sarebbe limitato alle facoltà
ad esse concesse dal Codice del Consumo, nelle ipotesi di azione collettiva e, qualora sia
fornito ad esse espresso mandato, di class action.
Contrariamente, una seconda impostazione, facendo leva sull’indispensabile ruolo ancillare di
tali associazioni nella tutela dei consumatori, non esclude la possibilità di un atipico
intervento ad adiuvandum delle stesse anche nelle controversie individuali.
Come evidenziato dalla presente ordinanza, tale secondo orientamento, d’altro canto, si contra
con l’ulteriore dubbio se, al fine di dare consistenza all’interesse che giustifichi l’intervento, si
debba riscontrare un'efficacia riflessa del giudicato anche nella sfera giuridica
dell’associazione o se sia sufficiente la preesistenza di un rapporto giuridico tra la parte e
l’associazione interveniente, tale da postulare quanto meno la possibilità che quest'ultima
possa trarre un concreto vantaggio secundum eventum litis.
Sviscerando le opzioni illustrate e le complesse questioni processuali ad esse sottese ed
evidenziando come le stesse diano luogo ad un contrasto apparentemente insanabile, l’ordinanza
rimette il dilemma alle Sezioni Unite.

Massima

Va rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione,
ritenuta di massima di particolare importanza, concernente l’ammissibilità dell’intervento “ad
adiuvandum” di un’associazione esponenziale dei consumatori/risparmiatori in un giudizio
individuale, promosso da una pluralità di essi per denunciare la lesione di diritti riconosciuti
dalla legge in virtù dell’asimmetria informativa e contrattuale caratterizzante il loro rapporto
con l’intermediario finanziario.
Ordinanza

(omissis) All'interno di questo sistema incentrato anche normativamente sulla funzione delle
associazioni e sul rilievo della riproducibilità e standardizzazione dei diritti individuali risarcitori dei
consumatori oltre che sull'efficacia collettiva della tutela inibitoria o conformativa, si pone come prius
logico il quesito relativo alla configurabilità di un ruolo attivo, riconosciuto nel processo, alle
associazioni anche nelle azioni individuali promosse dai consumatori, ancorchè, come nella specie,
in forma cumulativa.
Il secondo quesito che sottende, tuttavia, una risposta affermativa al primo, riguarda più
specificamente la modalità di partecipazione delle associazioni all'interno del processo rivolto alla
tutela individuale dei consumatori ovvero se ed in che forma può manifestarsi l'intervento in giudizio
delle predette associazioni fuori delle azioni collettive. Il presente giudizio pone esclusivamente la
questione dell'ammissibilità dell'intervento ad adiuvandum e non di quello principale, fondato sul
riconoscimento di un interesse autonomo e diretto alla partecipazione al giudizio e alla conseguente
formazione del giudicato.
In ordine alla prima questione le soluzioni prospettabili sono di segno opposto.
Si può sostenere che il ruolo delle associazioni nei giudizi consumeristici si esaurisce in quello
espressamente previsto dal Codice del Consumo. Le associazioni possono essere rappresentative
dei diritti ed interessi dei consumatori se iscritte nel registro apposito ed agire per la tutela inibitoria
o conformativa o possono, all'interno delle rigorose condizioni previste dalla legge, promuovere ed
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instaurare l'azione di classe. Il legislatore si è preoccupato di regolare il diritto d'azione
individuale dei consumatori anche quando sia proposta un'azione collettiva o di classe ma nulla
ha indicato nell'ipotesi contraria, così confermando la tipicità dell'intervento giurisdizionale
delle associazioni medesime. La soluzione estensiva potrebbe determinare un' incontrollata
partecipazione di enti esponenziali di diritti ed interessi dei consumatori anche costituiti ad hoc per
singole controversie, così determinandosi una sorta di eterogenesi dei fini rispetto all'esigenza di
offrire una tutela adeguata e tendenzialmente tempestiva a tali diritti.
Può, tuttavia, essere sostenuta anche la soluzione contraria fondata, per quanto riguarda
l'intervento ad adiuvandum, sul riconoscimento del rilievo che le associazioni hanno nella tutela
dei diritti dei consumatori anche ante causam, costituendo nella stragrande maggioranza dei
casi la prima "agenzia" d'informazione, conoscenza e riconoscimento dei diritti dei singoli
consumatori. (art. 2 e 139 codice del consumo). La trasformazione delle singole violazioni o lesioni
denunciate in una dimensione collettiva e standardizzabile costituisce il nucleo della funzione delle
associazioni proprio in virtù dell'insufficienza ed inadeguatezza delle risposte individuali sia in fase
stragiudiziale che giudiziale. Il raggiungimento di quest'ultimo obiettivo può essere realizzato
mediante le forme tipiche di tutela collettiva previste negli artt. 140 e 140 bis del codice del consumo
ma anche mediante azioni cumulative quando non vi siano le condizioni giuridiche o le azioni tipiche
non siano ritenute lo strumento più adeguato per la tutela dei diritti da intraprendere. Il quadro così
delineato può integrarsi con il riconoscimento costituzionale del valore dell'associazionismo (art. 18
Cost.) e con il pari rilievo riconosciuto all'associazionismo dall'art. 12 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea nonché del successivo art. 38 nel quale è stabilito che nelle
politiche dell'Unione è garantito un livello di protezione elevato per i consumatori.
Oltre alle opzioni alternative illustrate è, tuttavia necessario fornire una definizione giuridica
dell'interesse ad adiuvandum così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.
L'intervento adesivo dipendente deve fondarsi su un interesse giuridico e non di mero fatto ad
una delle due soluzioni alternative della controversia.
Sul contenuto dell'interesse giuridico non vi è una totale consonanza.
Si ritiene alternativamente necessario che si debba riscontrare un'efficacia riflessa del giudicato
anche nella sfera giuridica del terzo o che sia sufficiente la preesistenza di un rapporto giuridico
tra una delle parti ed il terzo tale da postulare quanto meno la possibilità che quest'ultimo possa
trarre un concreto vantaggio secundum eventum litis.
La configurazione più restrittiva dell'interesse ad adiuvandum si può riscontrare nella recente
pronuncia n. 25145 del 2014: L' intervento adesivo dipendente del terzo è consentito ove
l'interveniente sia titolare di un rapporto giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle
parti o da esso dipendente e non di mero fatto, attesa la necessità che la soccombenza della parte
determini un pregiudizio totale o parziale al diritto vantato dal terzo quale effetto riflesso del
giudicato, nonché nella coeva n. 364 del 2014: "La legittimazione "ad adiuvandum" ex art. 105,
secondo coma, cod. proc. civ. presuppone che il giudicato destinato a formarsi tra le parti del giudizio
arrechi una lesione ad un interesse giuridico e non meramente fattuale del terzo interveniente.
(omissis).
Deve, tuttavia, rilevarsi che proprio in tema di intervento adesivo dipendente dei cd. enti esponenziali
d'interessi collettivi e diffusi l'orientamento è stato più estensivo. Nella sentenza n. 15535 del 2005 è
stato affermato che:"Le associazioni dei consumatori e degli utenti sono legittimate ad intervenire nel
giudizio instaurato da un consumatore avanti al giudice di pace per il recupero delle somme versate
quale canone per il servizio di depurazione delle acque reflue a causa dell'inesistenza del servizio,
giacchè la legge 30 luglio 1998, n. 281 all'art 3 attribuisce ad esse la legittimazione ad agire, a tutela
di interessi collettivi, al fine di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi del consumatori,
senza preclusione delle azioni individuali di costoro, danneggiati dalle medesime violazioni." In
questa pronuncia la Corte, rivolgendosi, tuttavia, ad un'associazione iscritta nell'elenco che abilita
alla proposizione di azioni collettive ex art. 140 cod.consumo (e ratione temporis ex artt. 3 e 5 1. n.
281 del 1998), non richiede ai fini dell'intervento ad adiuvandum che l'interesse
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dell'interveniente sia fondato sull'efficacia riflessa del giudicato, essendo sufficiente che essa
abbia come scopo sociale il raggiungimento del medesimo obiettivo (la rimozione della violazione
delle norme lesive dei diritti dei consumatori ed il riconoscimento dei loro - diritti economici) che
s'intende perseguire con l'azione individuale, ancorché relativo a diritti altrui, e
conseguentemente non inciso neanche indirettamente dal giudicato, dal momento che la finalità
istituzionale degli enti in questione è proprio la promozione, la protezione e la tutela
giurisdizionale di diritti non propri ma di una una categoria di soggetti che dalle associazioni
intendono essere direttamente rappresentati (nelle azioni collettive) o sostenuti (nelle azioni
individuali o cumulative). Peraltro la Corte aggiunge che il diritto delle associazioni d'intervenire nei
giudizi individuali costituisce un corollario della conservazione del diritto d'azione dei consumatori
anche dopo la proposizione di azioni collettive ed in virtù della nuova disciplina dei diritti dei
consumatori introdotta con la legge n. 281 del 1998 ritiene superati i precedenti orientamenti contrari
(Cass. 1111 del 2003). La non univocità degli orientamenti giurisprudenziali (anche nella
giurisprudenza di merito le posizioni al riguardo sono non convergenti) e delle tesi della dottrina oltre
che il rilievo socio economico della questione inducono il Collegio a rimettere al Primo Presidente
come questione di P massima di particolare importanza quella formante oggetto dell'unico motivo di
ricorso incidentale relativa all'ammissibilità dell'intervento ad adiuvandum delle associazioni
resistenti nel presente giudizio (Sportello del Consumatore e Comitato San Giorgio) in quanto enti
esponenziali dei diritti e degli interessi dei consumatori risparmiatori.

c) Sezioni Unite 16 novembre 2016, sentenza n. 23304

Introduzione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in risposta al quesito sottoposto con l’ordinanza n.
3323/2015 appena esaminata, hanno ammesso l’intervento delle associazioni dei consumatori
anche nel giudizio promosso dal singolo consumatore quando, pur non avendo agito in forza di
mandato e dunque come sostituti processuali del consumatore stesso, esse possano qualificarsi come
intervenuti "ad adiuvandum", posto che l'esito del giudizio potrebbe avere un effetto riflesso,
positivo o negativo ma comunque giuridicamente apprezzabile, nella loro sfera giuridica.
Nell'intervento ad adiuvandum, specifica la Suprema Corte, non si richiede infatti la titolarità di
un diritto nei confronti delle parti originarie ma soltanto la presenza di un interesse
giuridicamente rilevante ad un esito favorevole della controversia.
Proprio in ordine alla natura dell'interesse legittimante l'intervento adesivo ai sensi dell'art. 105 c. 2
c.p.c. è intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, del 26 luglio 2016, n. 15422: in tale occasione la
Suprema Corte ha infatti enunciato espressamente il principio per il quale: “l'intervento adesivo
dipendente del terzo è consentito ove l'interveniente sia titolare di un rapporto giuridico connesso
con quello dedotto in lite da una delle parti o da esso dipendente e non di mero fatto, attesa la
necessità che la soccombenza della parte determini un pregiudizio totale o parziale al diritto vantato
dal terzo quale effetto riflesso del giudicato. Invero l'interesse richiesto per la legittimazione
all'intervento adesivo dipendente nel processo in corso fra altri soggetti (art. 105, secondo comma,
cod. proc. civ.), deve essere non di mero fatto, ma giuridico, nel senso che tra adiuvante e adiuvato
deve sussistere un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tale che la posizione soggettiva del
primo in questo rapporto possa essere - anche solo in via indiretta o riflessa - pregiudicata dal
disconoscimento delle ragioni che il secondo sostiene contro il suo avversario in causa”.
Dunque, se la questione riguarda la legittimazione ad intervenire di un'associazione che si
propone, come indicato nel proprio statuto, la cura, la promozione e la tutela dei diritti dei
consumatori, il suddetto interesse, anche solo indiretto o riflesso, ad intervenire potrebbe essere
facilmente rintracciabile sotto vari aspetti (ad esempio nel veder riconosciuto il ruolo di capofila
dell’associazione in questione; nel veder affermata la ragione statutaria della stesa; nel pervenire ad
una soluzione positiva spendibile in altre analoghe controversie; etc).
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Se ciò è vero in termini generali, osserva la Corte che il giudizio oggetto della specifica controversia
è stato tuttavia introdotto nel 2004, in epoca precedente all'introduzione del Codice del Consumo e
nel vigore della L. n. 281 del 1998.
Ebbene, nel vigore di tale norma, non può ignorarsi che la legittimazione ad agire delle associazioni
discendeva dalla qualità di ente esponenziale attribuita ope legis in base ad un sistema di iscrizione in
un apposito elenco, formalità dotata di carattere costitutivo della legittimazione stessa.
Tale iscrizione, nella concreta fattispecie, sarebbe mancata e la circostanza sarebbe dirimente nel caso
di specie in quanto, se in forza dell'articolo 3, l. cit., solo le associazioni iscritte possono agire per la
tutela collettiva degli stessi diritti riconosciuti ai consumatori, a maggior ragione solo queste
potranno intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore.

Massima

In ordine alla natura dell'interesse legittimante l'intervento adesivo ai sensi del secondo comma
dell'articolo 105 c.p.c., e' sopravvenuta ' rispetto all'ordinanza di rimessione ' la pronuncia di queste
Sezioni unite, 26 luglio 2016 n. 15422, la quale ha enunciato il principio per il quale
l'intervento adesivo dipendente del terzo e' consentito ove l'interveniente sia titolare di un rapporto
giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle parti o da esso dipendente e non di mero
fatto, attesa la necessita' che la soccombenza della parte determini un pregiudizio totale o parziale
al diritto vantato dal terzo quale effetto riflesso del giudicato. Invero l'interesse richiesto per
la legittimazione all'intervento adesivo dipendente nel processo in corso fra altri soggetti (articolo
105 c.p.c., comma 2), deve essere non di mero fatto, ma giuridico, nel senso che tra adiuvante e
adiuvato deve sussistere un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tale che la posizione
soggettiva del primo in questo rapporto possa essere ' anche solo in via indiretta o riflessa '
pregiudicata dal disconoscimento delle ragioni che il secondo sostiene contro il suo avversario in
causa'

Ebbene, nel vigore della L. n. 281 del 1998, la legittimazione ad agire discende dalla qualita' di ente
esponenziale ope legis, attribuita in base al sistema previsto dall'articolo 3 della legge stessa e con
un sistema di iscrizione in elenco 'avente carattere costitutivo della legittimazione', in base ad
accertamento disciplinato in sequenza procedimentale ex articolo 5, comma 2, L. cit.. Se, dunque,
l'iscrizione nell'elenco ha carattere costitutivo della legittimazione, essa, se non immediatamente
provata (in presenza di 'non contestazione'), deve, quanto meno, essere allegata da chi agisce. E,
nella concreta fattispecie, dalla sentenza impugnata la circostanza predetta non risulta neppure
allegata, mentre dalla memoria depositata ai sensi dell'articolo 378 c.p.c., si evince una implicita
ammissione dell'inesistenza dell'iscrizione.
Si tratta di rilievo dirimente perche', se in forza dell'articolo 3, L. cit., le associazioni iscritte possono
agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori,
a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore.

Sentenza

(omissis)
Ritenuto pregiudiziale l'esame della censura relativa
alla legittimazione ad intervenire ad adiuvandum della associazione (omissis) la Prima Sezione
civile, con ordinanza n. 3323 del 19 febbraio 2015, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per
l'eventuale rimessione della causa alle Sezioni unite.
L'ordinanza di rimessione ha evidenziato che la non univocita' degli orientamenti giurisprudenziali
(anche della giurisprudenza di merito) in ordine alla natura dell'interesse che legittima
all'intervento adesivo oltre che il rilievo socio economico della questione inducono a ritenere come
questione di massima di particolare importanza quella formante oggetto dell'unico motivo di ricorso
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incidentale, relativa all'ammissibilita' dell'intervento ad adiuvandum delle associazioni resistenti
nel presente giudizio (omissis) in quanto enti esponenziali dei diritti e
degli interessi dei consumatori risparmiatori.
(omissis)
5.- Le azioni risarcitorie promosse dagli investitori nel presente giudizio hanno natura individuale
ancorche' siano state proposte, ai sensi dell'articolo 33 c.p.c., davanti al giudice del luogo di residenza
o domicilio di una delle parti (o come puo' ritenersi nella specie di tutte) per essere decise nello stesso
processo. Ne consegue che la questione da affrontare riguarda
la legittimazione ad intervenire ad adiuvandum di un'associazione che si propone, come indicato
nel proprio statuto, la cura, la promozione e la tutela dei diritti dei consumatori in un giudizio
individuale, promosso da una pluralita' di singoli risparmiatori, i quali denuncino specificamente la
lesione di diritti loro riconosciuti dalla legge in virtu' dell'asimmetria informativa che caratterizza
il rapporto tra risparmiatore/investitore ed intermediario.
Da un lato, dunque, l'ordinanza di rimessione segnala l'esigenza di uniformazione giurisprudenziale
in ordine alla portata dell'articolo 105 c.p.c., comma 2, e, dall'altro, evidenzia la questione di massima
importanza concernente la posizione specifica ' in relazione a quella norma '
delle associazioni dei consumatori, una volta che la legge (il codice del consumo), se prevede
l'intervento del singolo consumatore nel giudizio iniziato dalle associazioni per converso, non
disciplina espressamente l'intervento di queste nelle azioni individuali dei consumatori.
(omissis)
6.- In ordine alla natura dell'interesse legittimante l'intervento adesivo ai sensi del secondo comma
dell'articolo 105 c.p.c., e' sopravvenuta ' rispetto all'ordinanza di rimessione ' la pronuncia di queste
Sezioni unite, 26 luglio 2016 n. 15422, la quale ha enunciato il principio per il quale
l'intervento adesivo dipendente del terzo e' consentito ove l'interveniente sia titolare di
un rapporto giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle parti o da esso dipendente
e non di mero fatto, attesa la necessita' che la soccombenza della parte determini un pregiudizio
totale o parziale al diritto vantato dal terzo quale effetto riflesso del giudicato. Invero
l'interesse richiesto per la legittimazione all'intervento adesivo dipendente nel processo in
corso fra altri soggetti (articolo 105 c.p.c., comma 2), deve essere non di mero fatto, ma
giuridico, nel senso che tra adiuvante e adiuvato deve sussistere un vero e
proprio rapporto giuridico sostanziale, tale che la posizione soggettiva del primo in
questo rapporto possa essere ' anche solo in via indiretta o riflessa ' pregiudicata dal
disconoscimento delle ragioni che il secondo sostiene contro il suo avversario in causa'.
7.- Tanto premesso, osserva la Corte che il presente giudizio e' stato introdotto nel 2004. Dunque, in
epoca precedente all'introduzione del codice del consumo e nel vigore della L. n. 281 del 1998.
Si tratta di premessa indispensabile per escludere ogni inutile richiamo al vigente articolo 140 bis
cod. cons. che potrebbe far ipotizzare una legittimazione concorrente di associazioni non iscritte e
dei singoli consumatori danneggiati.
Prima dell'introduzione di tale ultima norma, le Sezioni unite hanno avuto modo di evidenziare, in
passato, che gli interessi diffusi sono 'adespoti' e possono essere tutelati in sede giudiziale solo in
quanto il legislatore attribuisca ad un ente esponenziale la tutela degli interessi dei singoli
componenti una collettivita', che cosi' appunto assurgono al rango di interessi 'collettivi'. Per altro
verso, l'esclusione dell'accesso dei singoli alla tutela giudiziale appare giustificata dall'esigenza di
evitare che una pluralita' indefinita di interessi identici sia richiesta con un numero indeterminato di
iniziative individuali seriali miranti agli stessi effetti, con inutile aggravio del sistema giudiziario e
conseguente dispersione di una risorsa pubblica; e con frustrazione, inoltre, dell'effetto di
incentivazione dell'aggregazione spontanea di piu' individui in un gruppo esponenziale, il che,
soprattutto in sistemi cui e' ignota la tutela dei diritti individuali omogenei da parte di singoli (invece
tipica delle class actions, nelle quali il costo del processo non e' pero' sopportato in proprio dall'attore),
vale anche ad equilibrare l'entita' delle risorse che ciascuna parte ha interesse ad investire nella
controversia (Cass. SU, n. 7036 del 2006).
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La L. 30 luglio 1998, n. 281 (Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti), nelle parti rilevanti
nel giudizio, dispone: 'Art. 1. Finalita' ed oggetto della legge.
In conformita' ai principi contenuti nei trattati istitutivi delle Comunita' Europee e nel trattato
sull'Unione Europea nonche' nella normativa comunitaria derivata, sono riconosciuti e garantiti i
diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne e' promossa la tutela
in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a
perseguire tali finalita', anche attraverso la disciplina dei rapporti tra
le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni.
(omissis)
Ai fini della presente legge si intendono per:
(omissis)
b) 'associazioni dei consumatori e degli utenti': le formazioni sociali che abbiano per scopo
statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori o degli utenti.
(omissis)
1. Le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell'elenco di cui all'articolo 5, sono
legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo al giudice competente:
a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti;
b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate;
c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o piu' quotidiani a diffusione nazionale
oppure locale nei casi in cui la pubblicita' del provvedimento puo' contribuire a correggere o eliminare
gli effetti delle violazioni accertate'.
Ebbene, nel vigore della L. n. 281 del 1998, la legittimazione ad agire discende dalla qualita' di ente
esponenziale ope legis, attribuita in base al sistema previsto dall'articolo 3 della legge stessa e con un
sistema di iscrizione in elenco 'avente carattere costitutivo della legittimazione', in base ad
accertamento disciplinato in sequenza procedimentale ex articolo 5, comma 2, L. cit.. Se, dunque,
l'iscrizione nell'elenco ha carattere costitutivo della legittimazione, essa, se non immediatamente
provata (in presenza di 'non contestazione'), deve, quanto meno, essere allegata da chi agisce. E, nella
concreta fattispecie, dalla sentenza impugnata la circostanza predetta non risulta neppure allegata,
mentre dalla memoria depositata ai sensi dell'articolo 378 c.p.c., si evince una implicita ammissione
dell'inesistenza dell'iscrizione.
Si tratta di rilievo dirimente perche', se in forza dell'articolo 3, L. cit., le associazioni iscritte possono
agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori,
a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore.
Si e', invero, evidenziato che, nonostante una certa 'evanescenza' di alcune delle situazioni soggettive
previste dalla L. n. 281 del 1998, la circostanza che esse non presuppongano alcun collegamento
esclusivo tra bene e individuo fa si' che l'azionabilita' di esse non possa essere negata, stante il
disposto dell'articolo 24 Cost..
Se quelle situazioni giuridiche appartengono anche al singolo (talche' se ne deve ammettere la
tutelabilita' in via individuale), dev'essere possibile, stante l'atipicita' dell'azione inibitoria, ammettere
che consumatori e utenti possano accedere individualmente anche alla tutela giurisdizionale a
carattere preventivo, pur non essendo tale tutela espressamente prevista nell'articolo 3.
Si verifica, pertanto, una tale connessione tra situazioni giuridiche che, addirittura, l'associazione
iscritta potrebbe intervenire nel giudizio promosso dal consumatore per sostenere le ragioni
connesse alle situazioni tutelabili ex articolo 3, lettera a) e b) (inibire gli atti e i comportamenti lesivi
degli interessi dei consumatori e degli utenti e adottare le misure idonee a correggere o eliminare
gli effetti dannosi delle violazioni accertate).
In ogni caso dovrebbe trattarsi di associazioni iscritte ' circostanza insussistente nella concreta
fattispecie ' e l'intervento ricadrebbe nella disciplina di cui all'articolo 105 c.p.c., comma 1.
(omissis)

7. LA CORTE D’APPELLO DI MILANO SULLA CLASS ACTION: I DANNI NON


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PATRIMONIALI OMOGENEI IL LORO ADEGUATO INDENNIZZO Corte
d’Appello di Milano, 25 agosto 2017, n. 2828

Introduzione

La sentenza in commento ribalta la precedente pronuncia di primo grado con cui il Tribunale di
Milano aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059
c.c., formulata con azione di classe ex art. 140 bis del Codice del Consumo dagli utenti coinvolti
in una serie di eccezionali disagi e ritardi nella circolazione dei treni di una nota compagnia
ferroviaria.
Il Tribunale, in particolare, aveva ritenuto sufficienti gli indennizzi, minimi ed automatici, indicati
per i casi di ritardo occasionale dalla normativa in essere, facendosi in tal senso scudo con l'art. 17
del Regolamento CE n. 1371/2007, relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto
ferroviario, che stabilisce i risarcimenti minimi in caso di ritardo, fissando i relativi criteri di calcolo.
Nell'interpretazione fornita dal Tribunale, l'art. 17 sopra richiamato farebbe sì salva la possibilità,
per i passeggeri titolari di un titolo di viaggio o di abbonamento costretti a subire un susseguirsi di
ritardi o soppressioni di servizio durante il periodo di validità dello stesso, di richiedere in aggiunta
ai suddetti indennizzi minimi ulteriori somme a titolo di risarcimento per quei danni,
patrimoniali o non patrimoniali, scaturenti dalla lesione delle singole posizioni soggettive, ma ciò
solo al di fuori dell'azione di classe disciplinata dall'art. 140 bis del Codice del Consumo, dunque
attraverso azioni individuali ad hoc.
La Corte di Appello, con la sentenza in commento, ha accolto le opposte istanze dei pendolari,
escludendo l'operatività degli usuali criteri di indennizzo - applicati in relazione al verificarsi di
ritardi fisiologici ed occasionali - e riconoscendo un indennizzo omogeneo del danno non
patrimoniale ex art. 2059 c.c., a fronte delle sofferenze e dei disagi sofferti dagli utenti.
Secondo la Corte, peraltro, ciò non confligge affatto con il disposto dell'art. 140 bis del Codice del
Consumo, il cui dato letterale non consente di escludere che, al di là del quantum indennitario
calcolato secondo i criteri uniformi indicati dall'art. 17 del Regolamento CE per l'ipotesi di mero
ritardo, possano configurarsi ulteriori danni, ugualmente "omogenei" e parimenti suscettibili di
tutela mediante l’azione di classe.
A ben vedere il principio dell’effetto utile e la valorizzazione della ratio protezionistica della
disciplina consumeristica consentono ancora una volta di implementare le tutele riconosciute al
consumatore parte debole del rapporto, attraverso una interpretazione teleologica e funzionalizzata
del dato letterale fornito dal Codice del Consumo e dalla normativa comunitaria.

La massima

L'art. 17 del Reg. CE n. 1371/2007 deve leggersi in combinazione con l'art. 140-bis cod. cons. nel
senso di consentire ai passeggeri dotati di titolo di viaggio o titolari di abbonamento, che siano
costretti a subire plurimi ed eccezionali "ritardi o soppressioni di servizio durante il periodo di
validità dello stesso", la possibilità di agire con azione di classe per ottenere un "indennizzo
adeguato" rispetto ai "danni omogenei" eccedenti la misura dell'indennizzo minimo previsto in caso
di ritardo sporadico o occasionale.

La sentenza

[omissis] L’art. 17 del Regolamento CE n. 1371/07 stabilisce infatti i risarcimenti minimi in caso
di ritardo fissando i relativi criteri di calcolo, ma fa salva la possibilità per i passeggeri titolari di
un titolo di viaggio o di abbonamento, che siano costretti a subire un susseguirsi di ritardi o
soppressioni di servizio durante il periodo di validità dello stesso” di “richiedere un indennizzo
adeguato secondo le modalità di indennizzo delle imprese ferroviarie “.
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Non può in effetti dubitarsi che tale ipotesi ricorra nel caso in esame, dato il carattere del tutto
straordinario ed abnorme della situazione venutasi a creare, rispetto al normale funzionamento delle
linee ferroviarie gestite da Trenord S.p.A., nei giorni di dicembre 2012, in cui i ritardi e le
soppressioni di convogli risultano aver coinvolto, per giorni, migliaia di viaggiatori, privati non solo
della possibilità di usufruire normalmente dei servizi che la Società appellata avrebbe dovuto
garantire e costretti a viaggiare in condizioni di sovraffollamento o a subire ritardi, cancellazioni e
modifiche di itinerario, ma lasciati anche privi di ogni tipo di informazioni o di assistenza (circostanza
a sua volta non contestata), quali avrebbero dovuto essere comunque garantite a norma dell’art. 8 del
citato Regolamento recepito dall’art. 107 delle Condizioni generali di contratto).
Proprio il carattere del tutto eccezionale della situazione descritta induce ad escludere l’operatività
nella specie degli usuali criteri di indennizzo (recepiti nelle Condizioni generali di contratto), quali
normalmente applicati da Trenord S.p.A. in relazione al verificarsi di ritardi per così dire “fisiologici”
rispetto all’organizzazione del trasporto ferroviario di passeggeri, e a considerare che debba invece
operarsi un apprezzamento delle conseguenze derivanti dalle situazioni denunciate in termini di
“adeguatezza” rispetto, appunto, alla peculiarità del caso.
Il che, per altro verso, non confligge con il disposto dell’art. 140 bis del Codice del consumo, nulla
escludendo che, al di là del quantum indennitario calcolato secondo i criteri uniformi indicati
dall’art. 17 del Regolamento CE cit. per l’ipotesi di mero ritardo, possa ipotizzarsi la configurabilità
di ulteriori danni legati a disservizi nell’esercizio del trasporto ferroviario, ugualmente “omogenei”
e dunque suscettibili di tutela mediante la proposizione di azione di classe.
Come questa stessa Corte ha già avuto modo di osservare nell’ordinanza del 3 marzo 2014 emessa in
sede di reclamo avverso il provvedimento di inammissibilità assunto dal Tribunale di Milano l’8
novembre 2013, “Ai fini della corretta interpretazione del termine “omogenei” contenuto nell’art.
140 bis cod. consumo va tenuto conto della ratio e delle esigenze la cui tutela ha portato
all’introduzione dell’azione di classe. Quest’ultima si propone sia di accrescere la fiducia dei
consumatori e degli utenti nel funzionamento del mercato e, per converso, di consentire agli
imprenditori una valutazione generalizzata dei danni da risarcire, sia di apprestare una effettiva ed
efficace tutela di situazioni in cui la trascurabile entità del danno a fronte dei costi per ottenerne il
ristoro distoglierebbe il consumatore dal far valere i propri diritti. Nel contempo lo strumento in
esame semplifica la soluzione di siffatte controversie, potenzialmente numerose o numerosissime”.
Di fatto, nel caso in esame, a partire da un’unica causa costituita dalla descritta grave forma di
disorganizzazione ed inefficienza di Trenord S.p.A. protrattasi per giorni, “unico è anche
l’inadempimento lamentato, ovvero la non corretta gestione del servizio di trasporto, avente valenza
plurioffensiva sulle singole posizioni individuali, rispetto alle quali esplica comunque in maniera
analoga i propri effetti ...”, tanto da potersi tali effetti ricondurre a “tipi di disagio – ritardi,
cancellazioni, trasbordi, sovraffollamento, mancanza di informazioni –” sostanzialmente
standardizzati.
È corretto dunque ritenere, [omissis], che l’art. 17 Regolamento CE n. 1371/07 debba leggersi, in
combinazione con l’art. 140 bis Cod. consumo, nel senso di consentire ai passeggeri, dotati di titolo
di viaggio o titolari di abbonamento, che siano stati costretti a subire plurimi “ritardi o soppressioni
dì servizio durante il periodo di validità dello stesso “, la possibilità di agire con azione di classe per
ottenere un “indennizzo adeguato” rispetto a danni “omogenei” eccedenti la misura dell’indennizzo
minimo previsto in caso di ritardo sporadico o occasionale.
[omissis]
È dunque corretto ritenere che il ristoro del danno patrimoniale non possa nella specie diversamente
ipotizzarsi, rispetto al vastissimo numero di utenti interessati, se non appunto in applicazione dei
criteri indicati dal Regolamento comunitario e in concreto applicati da Trenord S.p.A., che prevedono,
nel caso in cui il viaggiatore non preferisca rinunciare al viaggio e ottenere il rimborso del biglietto,
un indennizzo non inferiore al 25% del prezzo pagato per ritardi pari o superiori a 60 minuti e del
50% per ritardi pari o superiori a 120 minuti. Considerazioni diverse valgono con riferimento al
danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c.
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Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, è necessario e sufficiente che il fatto illecito
configuri oggettivamente la lesione di diritti della persona penalmente e costituzionalmente protetti.
Nel caso in esame, non v’e dubbio che Trenord S.p.A. abbia cagionalo, per inefficienza
nell’organizzazione del proprio personale dipendente, disservizi e disagi tali da coinvolgere migliaia
di viaggiatori in forma continuativa per un periodo di tempo prolungato (dal 9 al 17 dicembre 2012),
costringendoli – come detto – a subire ritardi prolungati, cancellazione di corse, trasbordi da un
convoglio all’altro, modifiche di itinerari, condizioni di sovraffollamento dei convogli, senza neppure
garantire forme di assistenza minime o diramare informazioni sui tempi di attesa o su eventuali
percorsi alternativi.
Di tale condotta la società appellata deve senz’altro rispondere, non potendosi condividere la negativa
valutazione circa la possibilità di una stima, secondo criterio omogeneo, dei danni in parola la cui
effettività si fonda su nozioni di comune esperienza, in quanto tutti gli utenti, titolari di abbonamenti
periodici e dunque, nella generalità, pendolari, dovettero certamente sviluppare in modo uniforme e
generalizzato una forma di ansia e di insofferenza per gli inconvenienti, i fastidi e le difficoltà, se non
addirittura l’impossibilità di effettuare i propri normali spostamenti al fine di raggiungere le sedi dì
lavoro, i luoghi di studio e così via.
Si tratta di disagi la cui quantificazione non può tuttavia rapportarsi alla diversa lunghezza del tragitto
quotidiano, siccome suggerito dall’Associazione Altroconsumo, poiché le afflizioni, i patimenti, le
angosce connesse alle estenuami attese e alle limitazioni sofferte rispetto alla propria libera
circolazione, nonché all’esigenza di reperire mezzi di trasporto alternativi costituiscono stati
soggettivi sicuramente idonei ad accomunare tutti i viaggiatori coinvolti, ma che prescindono
dall’estensione chilometrica di ogni singolo abbonamento, la cui rilevanza si situa piuttosto nell’area
dell’indennizzo garantito dal Regolamento comunitario.
A titolo, dunque, di ristoro rispetto al danno non patrimoniale “omogeneo” come sopra delineato,
miglior criterio, ad avviso della Corte, è quello di compensare in egual misura ciascuno dei soggetti
coinvolti per le “sofferenze” patite, stabilendo una somma in aggiunta all’indennizzo come
erogato da Trenord S.p.A. [omissis].

8. LE SEZIONI UNITE RISOLVONO LA QUESTIONE DELLA RICORRIBILITÀ


DELL’ORDINANZA DI INAMMISSIBILITÀ DELLA CLASS ACTION: Corte di
Cassazione Sezioni Unite 1 febbraio 2017, n. 2610.

Introduzione

Alle Sezioni Unite è demandato, con la presente pronuncia, il compito di risolvere un insanabile
contrasto insorto tra le prima e la terza sezione della Cassazione relativo all’ammissibilità del
ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’azione
di classe ex art. 140 bis del Codice del Consumo.
Se infatti la prima sezione (con sent. n. 9772/2012) ha ritenuto che l’ordinanza di
inammissibilità, frutto di una cognizione sommaria e pronuncia di mero rito, non assumesse la
dignità del giudicato e non fosse per tale ragione impugnabile in Cassazione, la sezione
terza ha avversato gli argomenti addotti nella pronuncia del 2012 (e sviscerati dalla sentenza in
esame), addivenendo ad opposte conclusioni.
E’ facendo leva sul profilo della decisorità della ordinanza di inammissibilità dell’azione di
classe che, a parere della Suprema Corte, si gioca la partita della sua impugnabilità, posto che
proprio il carattere della decisorietà viene ritenuto il presupposto essenziale per proporre
ricorso ex art. 111 Cost.
Se questa è la premessa, è evidente che una pronuncia simile all’ordinanza di inammissibilità
della class action, pur incidendo sull’ulteriore esperibilità del rimedio dell’azione di classe
– posto che essa impedisce che questa venga nuovamente proposta da chi abbia già esercitato
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l’azione ritenuta inammissibile - non ha effetti lesivi della posizione sostanziale degli attori,
che possono esercitare comunque azioni individuali a tutela dei propri diritti, né degli altri
soggetti appartenenti alla classe che non abbiano aderito all’azione, che possono esercitare a
loro volta una nuova class action.
Pur concludendo la fase giudiziale, dunque, le Sezioni Unite ritengono che l’ordinanza di
inammissibilità dell’azione di classe non è idonea a passare in giudicato né può definirsi
decisoria, in quanto tale essa non può considerarsi impugnabile per Cassazione, senza che
ciò pregiudichi il diritto all’azione degli interessati ex art. 24 Cost.

Massima

Allorquando l'azione di classe di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 140 bis, sia finalizzata
ad ottenere la tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dai singoli appartenenti alla classe e non
anche un interesse collettivo, l'ordinanza d'inammissibilità adottata dalla corte d'appello in sede di
reclamo non è impugnabile con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., comma 7, essendo il
medesimo diritto suscettibile di tutela attraverso l'azione individuale finalizzata ad ottenere il
risarcimento del danno. La dichiarazione di inammissibilità preclude altresì la riproposizione
dell'azione da parte dei medesimi soggetti ma non da parte di chi non abbia aderito all'azione oggetto
di quella dichiarazione.
Sentenza
1. - La controversia è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite per prevenire un contrasto in
ordine alla questione se sia ammissibile o no il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza
che dichiara inammissibile l'azione di classe di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art.
140 bis.
2. - La questione è già stata affrontata dalla Prima sezione civile di questa Corte con la sentenza
n. 9772 del 2012, la quale ha affermato il seguente principio di diritto: "l'ordinanza
d'inammissibilità dell'azione di classe D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ex art. 140 bis,
(codice del consumo) è fondata su una delibazione sommaria ed è unicamente finalizzata
ad una pronuncia di rito, idonea a condizionare soltanto la prosecuzione di quel processo
di classe senza assumere la stabilità del giudicato sostanziale ovvero impedire la
riproposizione dell'azione risarcitoria anche in via ordinaria; deve essere, pertanto, esclusa
l'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso detta ordinanza, salvo per quel che
attiene la pronuncia sulle spese e sulla pubblicità".
Tale decisione si fonda sostanzialmente su quattro rilievi, così riassumibili:
(a) l'ordinanza di inammissibilità ex art. 140-bis non impedisce la proposizione dell'azione
risarcitoria in sede ordinaria; ciò che è inibita (dall'ordinanza di inammissibilità) "non è la
tutela giurisdizionale di un diritto, sebbene la tutela giurisdizionale in una determinata forma di
un diritto tutelabile nelle forme ordinarie"; il provvedimento di rigetto del reclamo avverso
l'ordinanza di inammissibilità è dunque analogo a quello di rigetto della "domanda
d'ingiunzione", cioè un provvedimento che "non pregiudica la riproposizione della domanda
anche in via ordinaria";
(b) anche quando l'azione collettiva venga rigettata per manifesta infondatezza, ciò non
impedirebbe la presentazione di una nuova istanza, anche soltanto fondata su una migliore
esposizione in iure della propria pretesa;
(c) l'ordinanza di inammissibilità dell'azione di classe si fonda su una delibazione sommaria, e
quindi non può assumere la stabilità del giudicato sostanziale;
(d) posto che il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140 bis, comma 14, stabilisce che "non sono
proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo
la scadenza del termine per l'adesione assegnato dal giudice ai sensi del comma 9", deve ritenersi
che è solo l'ordinanza di ammissibilità dell'azione di classe a precludere la proposizione
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della medesima azione di classe per i medesimi fatti e nei confronti d ella stessa impresa:
l'ordinanza di inammissibilità, per contro, non ne precluderebbe la riproponibilità.
3. - La Terza sezione di questa Corte ha affermato di non potere condividere la soluzione adottata
nella sentenza n. 9722 del 2012, sulla base delle seguenti ragioni:
(a) il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140 bis, non riconosce affatto la riproponibilità dell'azione
collettiva che sia stata dichiarata inammissibile (prevedendo soltanto la libera riproponibilità
dell'azione individuale);
(b) non varrebbe l'argomento del carattere alternativo ed equivalente dell'azione di classe
rispetto all'azione individuale, giacchè, oltre alle differenze in rito delle due forme processuali
di tutela, l'azione collettiva appare in grado di esercitare una maggiore pression e sul
professionista o produttore e di garantire minori costi per il consumatore, con conseguente
definitività della statuizione di sua inammissibilità; avendo, per di più, l'azione individuale,
contenuti, scopi ed effetti ben diversi dall'azione di classe, consentendo soltanto la seconda di
proteggere interessi collettivi, di riequilibrare il rapporto, e di lasciare il debitore esonerato "da
ogni diritto ed incremento" sulle somme pagate entro centottanta giorni dal deposito della
sentenza (D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140 bis, comma 12);
(c) neppure corrisponderebbe al vero che la valutazione di inammissibilità dell'azione di classe
si riduca ad una valutazione sommaria, in quanto l'art. 140 bis, comma 6, condiziona tale
pronuncia alla verifica della manifesta infondatezza della pretesa, esito che può derivare
pure da un esame a cognizione piena; e tenuto altresì conto dell'assonante dizione contenuta
nell'art. 360 bis c.p.c., con riguardo al quale l'inammissibilità del ricorso discende da una
cognizione affatto sommaria della Corte di cassazione;
(d) non vi sarebbe alcuna incompatibilità logico-giuridica tra l'affermata improponibilità di
ulteriori azioni di classe, una volta scaduto il termine per l'adesione, e la temuta improponibilità
delle stesse nuove azioni a seguito di una prima declaratoria di inammissibilità;
(e) colliderebbe con il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. la
conclusione dell'illimitata reiterazione dell'azione di classe inizialmente dichiarata
inammissibile, se soltanto "meglio strutturata in punto di diritto";
(f) non avrebbe alcun senso l'ordine della "più opportuna pubblicità a cura e spese del
soccombente", che accompagna l'ordinanza di inammissibilità (art. 140 bis, comma 8) ove la
domanda potesse sempre essere riproposta;
(g) vi sarebbe contraddizione fra il giudicato che si forma ove l'infondatezza dell'azione di classe
non risulti manifesta, e sia perciò dichiarata con sentenza di rigetto della domanda, e la libera
riproponibilità dell'azione stessa che sia apparsa, invece, talmente priva di fondatezza da essere
tacciata addirittura di inammissibilità.
4. - Il tema oggetto del presente giudizio è quindi quello della ricorribilità o no in cassazione
del provvedimento con il quale in sede di reclamo la Corte d'appello dichiara inammissibile
l'azione di classe. (omissis)
4.1. – (omissis)
5. - E' opportuno altresì ricordare che l'art. 140 bis, nel testo attualmente vigente dispone
(omissis).
6. - Tanto premesso, deve ricordarsi che, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 7, "contro le
sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari
o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge". Questa Corte ha da
tempo chiarito (Cass. n. 2953 del 1953), e poi ripetutamente ribadito, che un provvedimento,
ancorchè emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio requisito
necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. - quando pronuncia o, comunque, incide con
efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento
giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti nonchè della
definitività - in quanto non altrimenti modificabile - può essere oggetto di ricorso ai sensi dell'art.
111 Cost..
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La decisorietà, dunque, consiste nell'attitudine del provvedimento del giudice non solo ad
incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato
(nel che risiede appunto la differenza tra il semplice "incidere" e il "decidere": cfr., per tutte,
Cass. n. 10254 del 1994).
6.1. - Dalla richiamata disciplina legislativa, e segnatamente dal comma 1 dell'art. 140 -bis ("i
diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 nonchè gli interessi
collettivi sono tutelabili anche attraverso l'azione di classe") emerge chiaramente che tale azione,
ove sia proposta - come nella specie unicamente a fini risarcitori e non a tutela di interessi
collettivi, non costituisce altro che uno strumento apprestato al legislatore per far valere la
domanda risarcitoria: costituisce, cioè, un mezzo processuale di tutela che, per quanto si dirà,
si aggiunge a quello ordinario spettante al singolo interessato per ottenere il bene della vita
consistente nel risarcimento di un danno che egli assume di avere subito per effetto della
condotta posta in essere dal soggetto danneggiante.
Indubbiamente, la possibilità di far valere in via collettiva una pretesa risarcitoria può
concorrere ad attribuire alla pretesa stessa una efficacia maggiormente incisiva nei
confronti del danneggiante: ciò tuttavia non comporta che, nel caso in cui vengano fatte valere
unicamente posizioni individuali e non venga quindi azionato un interesse collettivo, il bene
della vita cui mira la domanda sia diverso dal ristoro del pregiudizio subito dal singolo
appartenente alla classe e sia, quindi, un bene che può senz'altro essere tutelato anche attraverso
la proposizione di un'azione individuale avente la medesima finalità. In al tri termini, la
differenza soggettiva che si ha tra azione di classe e azione individuale, allorquando con la
prima vengano fatte valere pretese che incidono esclusivamente sul piano risarcitorio o
restitutorio, non determina un mutamento dell'oggetto della domanda, che continua ad
essere la pretesa alle restituzioni o al risarcimento del danno subito da ciascuno degli
appartenenti alla classe che abbiano agito con l'azione di cui all'art. 140 bis.
Ne consegue che ove si riconoscesse la natura decisoria del provvedimento che definisce in sede
di reclamo il giudizio con dichiarazione di inammissibilità - senz'altro definitivo in quanto
avverso lo stesso non è previsto alcun rimedio impugnatorio verrebbe meno la possibilità stessa
per il singolo attore proponente l'azione di classe di ottenere altrimenti il bene della vita oggetto
della domanda giudiziale.
6.2. – (omissis)
D'altra parte, nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite si è affermato che "q uando il
provvedimento impugnato sia privo dei caratteri della decisorietà e definitività in senso
sostanziale, il ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111 Cost., comma 7, non è
ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale,
quali espressione del diritto di azione, ed in particolare del diritto al riesame da parte di un
giudice diverso, in quanto la pronunzia sull'osservanza delle norme che regolano il processo,
disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all'esame
del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell'atto giurisdizionale cui il processo è
preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e
definitivo, se di tali caratteri quell'atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica
processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in
cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito" (Cass., S.U., n. 11026 del 2003).
La definitività sulle modalità di svolgimento dell'azione in giudizio (cioè su un c.d. diritto
processuale), ma non sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio, è, dunque, inidonea a
giustificare il ricorso straordinario.
6.2.1. - Le considerazioni sin qui svolte consentono anche di affermare che l'azione di classe
dichiarata inammissibile non è riproponibile dai medesimi soggetti che la hanno proposta
o hanno ad essa aderito. In proposito, appaiono condivisibili le argomentazioni svolte
nell'ordinanza di rimessione, nel senso che la dichiarazione di inammissibilità non può essere
considerata priva di effetti. Se è vero, infatti, che la cognizione del tribunale o della corte
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d'appello in sede di reclamo è caratterizzata da sommarietà, è altrettanto vero che una
valutazione di inammissibilità è stata effettuata dal giudice competente all'esito di una
cognizione che può spingersi anche ad esaminare profili di merito della pretesa azionata (la sua
manifesta infondatezza). Predicare la riproponibilità della medesima azione da parte dei
medesimi soggetti destinatari della statuizione di inammissibilità appare inoltre contrastante con
l'esigenza di non reiterare l'esercizio della giurisdizione in relazione al medesimo oggetto da
parte dei medesimi soggetti.
Tuttavia, il Collegio ritiene che alla detta conclusione non possa pervenirsi in termini
assoluti. Invero, se si considera che la "classe" è per definizione composta da una pluralità
indistinta di soggetti, non può ritenersi che la dichiarazione di inammissibilità dell'azione
proposta da un comitato o da un'associazione per conto di alcuni soggetti abbia una
efficacia preclusiva della possibilità di ricorrere a quel mezzo di tutela processuale anche
per tutti gli altri appartenenti alla classe, ai quali la intervenuta dichiarazione di
inammissibilità non sarebbe opponibile, essendo essi rimasti estranei alla precedent e
iniziativa giudiziaria. Orienta in questo senso il rilievo che, ai sensi dell'art. 140 bis, comma
9, con l'ordinanza con cui ammette l'azione il tribunale fissa termini e modalità della più
opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe. La
possibilità di adesione all'azione è quindi condizionata all'ammissibilità dell'azione stessa, nel
mentre la dichiarazione di inammissibilità della stessa finirebbe con il precluderne la
proponibilità nei confronti di coloro che non hanno proposto l'originaria azione o non hanno alla
stessa aderito nella sua fase iniziale.
Deve, quindi, ritenersi che la dichiarazione di inammissibilità dell'azione di classe non
pregiudichi la proponibilità di altra azione di classe da parte di soggetti diversi da quelli
per i quali è intervenuta la dichiarazione di inammissibilità. Peraltro, una volta che, in
ipotesi, la nuova azione di classe dovesse essere dichiarata ammissibile, si riapre la
possibilità, per chi fosse stato destinatario di una dichiarazione di inammissibilità e non
abbia, successivamente a quella dichiarazione, proposto la domanda risarcitoria in via
individuale come pure, per le ragioni suesposte, deve ritenersi possibile - di aderire alla
azione di classe nel termine indicato dal tribunale ai sensi del citato comma 9 dell'art. 140-
bis.
7. - In conclusione, deve ritenersi che, (omissis)

9. LE SEZIONI UNITE SULLA FORMA SCRITTA DEL CONTRATTO QUADRO


RELATIVO AI SERVIZI DI INVESTIMENTO Corte di cassazione, Sezioni Unite 16
gennaio 2018, n. 898
Introduzione
Il quesito giuridico a cui le Sezioni Unite della Cassazione forniscono una risposta con la sentenza in
esame è originato dal fatto che l’art. 23 TUF prevede la forma scritta, sotto pena di nullità
relativa, dei contratti di investimento.
Tale disposizione si giustifica nell’ottica della tutela del contraente debole che stipula con
l’intermediario finanziario in una situazione di sostanziale asimmetria informativa, con una
conseguente alterazione del processo di formazione della volontà che potrebbe dar luogo ad
inammissibili squilibri del regolamento negoziale.
La norma, in particolare, introduce una nullità di protezione nel caso in cui il contratto non abbia
forma scritta ed una copia dello stessso non sia consegnata all’investitore, iscrivendosi in un più
ampio modello di neoformalismo negoziale fatto proprio dalla disciplina consumeristica: nell’ottica
della illustrata funzione di tutela della parte debole del contratto, tali formalità sono considerate
indispensabili per assicurare che il consumatore sia correttamente informato relativamente al
contenuto del contratto di investimento, al fine di garantire un esercizio pieno e consapevole della
sua libertà negoziale.
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Ma se questa è la ratio tanto dell’obbligo di forma scritta quanto di quello di consegna dell’esemplare
all’investitore, non sarebbe ragionevole, come pure sostenuto da taluno, ritenere che l’obbligo di
sottoscrizione del contratto valga anche per l’intermediario a pena di nullità del contratto.
Il legislatore, infatti, non ha inteso introdurre un inutile formalismo bilaterale, attribuendo
invece una funzione protezionistica e informativa alle formalità imposte.
Alla luce di ciò, la Corte con la pronuncia in esame giunge ad affermare che non si può sostenere che
sia richiesta a pena di nullità anche la sottoscrizione dell’intermediario, né che l’eventuale assenza
della stessa possa pretestuosamente considerarsi come indice della mancanza di volontà contrattuale
da parte del professionista, la quale volontà può agevolmente desumersi dal fatto che egli abbia
consegnato la copia al consumatore, predisposto unilateralmente il regolamento contrattuale o
comunque eseguito il contratto.

Massima
Il requisito della forma scritta del contratto-quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dal
D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 23, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga
consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell'investitore, non
necessitando la sottoscrizione anche dell'intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla
stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.
Sentenza
(omissis)
Passando all'esame del merito, va rilevato che nella specie, dato che la domanda spiegata dai sigg. C.
e R. è intesa a far valere la nullità di due operazioni di investimento del 18/11/1999 e del 21/12/1999,
con le relative conseguenze, per la addotta mancanza di un valido contratto-quadro, occorre vagliare
detto profilo avuto riguardo alla disciplina applicabile alla data delle operazioni di investimento, il
che vuol dire che, pur risalendo al 25/1/1994 la scrittura a cui le parti hanno fatto riferimento, ed
essendo applicabile a detta data ratione temporis, la L. 2 gennaio 1991, n. 1, il cui art. 6, è stato
abrogato dal D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415, e l'intera legge è stata abrogata dal D.Lgs. 24 febbraio
1998, n. 58, art. 214, comma 1, lett. aa), è alla successiva disciplina di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998,
ed al regolamento Consob n.11522 del 1998 che occorre avere riguardo, proprio perchè rileva il
collegamento tra le operazioni del 1999 ed il contratto-quadro, la cui regolamentazione è mutata nel
tempo.
Ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, nella formulazione applicabile nella specie, e per la parte
che qui rileva "1. I contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento e accessori sono redatti
per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d'Italia, può prevedere
con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei
contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di
inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo.
2.E' nulla ogni pattuizione...
3.Nei casi previsti dai commi 1 e 2, la nullità può essere fatta valere solo dal cliente...".
Detto disposto normativo pone la questione, specifico oggetto di rimessione da parte della I sezione
civile con l'ordinanza del 27/4/2017, n. 10447, "se il requisito della forma scritta del contratto di
investimento esiga, oltre alla sottoscrizione dell'investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam
dell'intermediario".
Ai fini della compiuta valutazione del profilo che qui specificamente interessa, va ricordato che il
modulo contrattuale, su cui si è sviluppato il contenzioso tra le parti, porta la sola sottoscrizione dei
clienti, e vi è contenuta la dichiarazione prestampata che: " un esemplare del presente contratto ci
viene rilasciato debitamente sottoscritto per accettazione dai soggetti abilitati a rappresentarvi".
Il contratto-quadro, già previsto dalla L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 6, nonchè dal successivo D.Lgs.
23 luglio 1996, n. 415, art. 18, così qualificato in quanto destinato a costituire la regolamentazione
dei servizi alla cui prestazione si obbliga l'intermediario verso il cliente, è stato ritenuto nella
giurisprudenza di legittimità accostabile per alcuni aspetti al mandato, derivandone obblighi e diritti
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reciproci dell'intermediario e del cliente, e le successive operazioni sono state considerate quali
momenti attuativi dello stesso(così le pronunce Sez. U. 19/12/2007, nn. 26724 e 26725).
Per costante giurisprudenza, il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, laddove parla di forma scritta a pena di
nullità, si riferisce ai contratti-quadro e non ai singoli servizi di investimento o disinvestimento, la
cui validità non è soggetta a requisiti formali, salvo la diversa previsione convenzionale nel contratto-
quadro (omissis).
Ne consegue che la questione della nullità per difetto di forma scritta nell'intermediazione finanziaria
riguarda, salvo eccezioni del regolamento negoziale, unicamente il contratto-quadro, che è alla base
delle singole operazioni concluse nel tempo.
omissis
In particolare, nell'ampia e complessa motivazione, la sentenza 5919/2016, premesso che ben si
sarebbe potuto provare il contratto in forma scritta anche in presenza di sottoscrizioni delle parti
contenute in documenti distinti, purchè risultante il collegamento inscindibile tra gli stessi, così da
evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo, ha applicato il principio di carattere
generale, secondo cui se è prevista la forma scritta ad substantiam, il contratto deve essere provato a
mezzo della produzione in giudizio; si è poi concentrata sulla possibilità, negata, di desumere la
conclusione del contratto dalla dichiarazione sottoscritta dalla cliente di avere ricevuto copia del
contratto sottoscritta dal soggetto abilitato a rappresentare la banca; ha di seguito ritenuto preclusa la
prova testimoniale, non ricorrendo il caso della perdita incolpevole ex art. 2724 c.c., n. 3, quella per
presunzioni ex art. 2729 c.c., ed a mezzo del giuramento ex art. 2739 c.c.; ha escluso infine che
potesse invocarsi nella specie il principio secondo il quale la produzione in giudizio della scrittura da
parte del contraente che non l'ha sottoscritta realizza un equivalente della sottoscrizione, dato che si
sarebbe in tal modo potuto ritenere perfezionato il contratto, ma solo con effetti "ex nunc" e non "ex
tunc".
Su detto ultimo profilo, vale la pena di segnalare la difforme pronuncia del 22/3/2012, n. 4564, che,
in relazione al contratto di conto corrente bancario, disciplinato dall'analoga normativa D.Lgs. n. 385
del 1993, ex artt. 117 e 127, ha escluso la nullità per difetto di forma, rilevando che il contratto aveva
avuto pacifica esecuzione, visti gli ordini di investimento e la comunicazione degli estratti conto, e
richiamando il principio secondo il quale la produzione in giudizio del contratto realizza un valido
equivalente della sottoscrizione mancante, purchè la parte che ha sottoscritto non abbia in precedenza
revocato il proprio consenso ovvero sia deceduta.
A detto precedente si è rifatta l'ordinanza del 7/9/2015, n. 17740, per ritenere valida la clausola
compromissoria prevista nel contratto di intermediazione finanziaria.
Dette due pronunce sono sostanzialmente isolate, tanto che la questione che qui specificamente
interessa è stata correttamente portata all'attenzione delle sezioni unite come di massima di particolare
importanza ex art. 374 c.p.c., comma 2, e non per dirimere un contrasto tra le sezioni semplici o
all'interno della stessa sezione.
Tanto premesso, deve aversi in primis riguardo al profilo della nullità, come prevista dalla normativa
richiamata, ponendosi, solo ove debba concludersi per il vizio radicale, l'ulteriore questione
dell'equipollenza a mezzo della produzione in giudizio della scrittura.
A riguardo, pur non attribuendosi alla formulazione letterale della norma efficacia dirimente, va
evidenziato che nell'art. 23 t.u.f. si enfatizza la redazione per iscritto, e, per dato normativo
chiaramente espresso, si considerano sullo stesso piano detta redazione e la consegna di un esemplare
al cliente, che è l'unica parte che può far valere la nullità.
Si è quindi in presenza di un precetto normativo che in modo inequivoco prevede la redazione per
iscritto del contratto relativo alla prestazione dei servizi di investimento e la consegna della scrittura
al cliente, a cui solo si attribuisce la facoltà di far valere la nullità in caso di inosservanza della forma
prescritta.
Le previsioni in oggetto rendono ben chiara la ratio della norma.
La nullità per difetto di forma è posta nell'interesse del cliente, così come è a tutela di questi la
previsione della consegna del contratto, il cui contenuto, previsto di base dall'art. 30 del
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regolamento Consob, siccome prevedente le modalità di svolgimento del rapporto, deve
rimanere a disposizione dell'investitore.
Si coglie quindi la chiara finalità della previsione della nullità, volta ad assicurare la piena
indicazione al cliente degli specifici servizi forniti, della durata e delle modalità di rinnovo del
contratto e di modifica dello stesso, delle modalità proprie con cui si svolgeranno le singole
operazioni, della periodicità, contenuti e documentazione da fornire in sede di rendicontazione,
ed altro come specificamente indicato, considerandosi che è l'investitore che abbisogna di
conoscere e di potere all'occorrenza verificare nel corso del rapporto il rispetto delle modalità
di esecuzione e le regole che riguardano la vigenza del contratto, che è proprio dello specifico
settore del mercato finanziario.
Va da sè che la finalità protettiva nei confronti dell'investitore si riverbera in via mediata sulla
regolarità e trasparenza del mercato del credito.
L'avere individuato la ragione giustificatrice della prescrizione normativa non vale peraltro a risolvere
di per sè la questione che qui interessa, ma sostanzialmente ad indirizzare l'interpretazione dei profili
che qui si pongono, e cioè il rapporto tra il perfezionamento del contratto e la forma con cui questo
si estrinseca, e tra il documento in forma scritta come espressione della regolamentazione del rapporto
e la sottoscrizione come riferibilità dell'atto.
Il vincolo di forma imposto dal legislatore (tra l'altro composito, in quanto vi rientra, per specifico
disposto normativa, anche la consegna del documento contrattuale), nell'ambito di quel che è stato
definito come neoformalismo o formalismo negoziale, va inteso infatti secondo quella che è la
funzione propria della norma e non automaticamente richiamando la disciplina generale sulla nullità.
Ora, a fronte della specificità della normativa che qui interessa, correlata alla ragione giustificatrice
della stessa, è difficilmente sostenibile che la sottoscrizione da parte del delegato della banca, volta
che risulti provato l'accordo(avuto riguardo alla sottoscrizione dell'investitore, e, da parte della banca,
alla consegna del documento negoziale, alla raccolta della firma del cliente ed all'esecuzione del
contratto) e che vi sia stata la consegna della scrittura all'investitore, necessiti ai fini della validità del
contratto-quadro.
Ed infatti, atteso che, come osservato da attenta dottrina, il requisito della forma ex art. 1325 c.c., n.
4, va inteso nella specie non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità propria
della normativa, ne consegue che il contratto-quadro deve essere redatto per iscritto, che per il suo
perfezionamento deve essere sottoscritto dall'investitore, e che a questi deve essere consegnato un
esemplare del contratto, potendo risultare il consenso della banca a mezzo dei comportamenti
concludenti sopra esemplificativamente indicati.
Si impone a questo punto un'ulteriore osservazione: tradizionalmente, alla sottoscrizione del
contratto si attribuiscono due funzioni, l'una rilevante sul piano della formazione del consenso
delle parti, l'altra su quello dell'attribuibilità della scrittura, e l'art. 2702 c.c., rende chiaro come la
sottoscrizione, quale elemento strutturale dell'atto, valga ad attestare la manifestazione per iscritto
della volontà della parte e la riferibilità del contenuto dell'atto a chi l'ha sottoscritto.
Tale duplice funzione è nell'impianto codicistico raccordata alla normativa di cui agli artt. 1350 e
1418 c.c., che pone la forma scritta sul piano della struttura, quale elemento costitutivo del contratto,
e non prettamente sul piano della funzione; la specificità della disciplina che qui interessa, intesa nel
suo complesso e nella sua finalità, consente proprio di scindere i due profili, del documento, come
formalizzazione e certezza della regola contrattuale, e dell'accordo, rimanendo assorbito l'elemento
strutturale della sottoscrizione di quella parte, l'intermediario, che, reso certo il raggiungimento dello
scopo normativo con la sottoscrizione del cliente sul modulo contrattuale predisposto
dall'intermediario e la consegna dell'esemplare della scrittura in oggetto, non verrebbe a svolgere
alcuna specifica funzione.
Nè l'interpretazione qui seguita incide sulla doverosa, specifica ponderazione con cui l'investitore
sceglie di concludere il contratto-quadro nè porta a concludere per un singolare contratto "a forma
scritta obbligatoria per una sola delle parti e con effetti obbligatori solo per l'altra parte che nulla ha

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invece sottoscritto", scenario che non tiene conto della precipua ricostruzione imposta dalla normativa
e che omette integralmente di considerare che la nullità può essere fatta valere solo dall'investitore.
Nella ricostruzione che qui si è offerta, inoltre, la previsione della nullità, azionabile solo dal cliente,
in caso di inosservanza dei requisiti di forma della redazione per iscritto e della consegna
dell'esemplare alla parte, si palesa quale sanzione per l'intermediario, ben armonizzandosi nello stesso
contesto del D.Lgs. n. 58 del 1998, che è nel complesso inteso a dettare regole di comportamento per
l'intermediario, e rispetta il principio di proporzionalità, della cui tenuta si potrebbe dubitare ove si
accedesse alla diversa interpretazione(e sulla rilevanza cardine del principio di proporzionalità queste
sezioni unite si sono di recente espresse, sia pure nell'ambito della responsabilità civile, ai fini del
riconoscimento di sentenza straniera comminatoria di danni punitivi nella pronuncia del 5/7/2017, n.
16601).
E' stato sostenuto da autorevole dottrina che la normativa in oggetto sarebbe intesa non solo alla tutela
del cliente, ma risponderebbe anche all'esigenza di garantire una buona organizzazione interna della
banca, da ciò conseguendo la nullità del contratto-quadro ove privo della sottoscrizione del delegato
dell'istituto di credito: tale ricostruzione, pur muovendo dall'esigenza di modificare in melius prassi
organizzative non del tutto commendevoli, oltre a non trovare un solido fondamento nella normativa
che qui si esamina, sembrando una sorta di giustificazione a posteriori della nullità, si muove in
un'ottica esasperatamente sanzionatoria, e perviene ad un risultato manifestamente sproporzionato
rispetto alla funzione a cui la forma è qui preordinata.
A riguardo, ragionando in termini più generali, può affermarsi che nella ricerca dell'interpretazione
preferibile, siccome rispondente al complesso equilibrio tra interessi contrapposti, ove venga istituita
dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta ed immediata non un
interesse generale, ma anzitutto l'interesse particolare, l'interprete deve essere attento a circoscrivere
l'ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l'interesse protetto dalla
nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche.
L'interpretazione seguita è altresì in linea con le disposizioni dell'ordinamento Europeo, che nell'art.
19, par. 7 della direttiva 2004/39/CE del Parlamento e del Consiglio del 21/4/2004 (Mifid 1), recepita
dal d.lgs. 17/9/2007, n.164, così come nell'art. 25, par. 5 della direttiva 2014/65/UE (Mifid 2), a cui
è stata data attuazione con il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129, al fine di perseguire gli obiettivi di
trasparenza e di tutela degli investitori, punta l'accento sulla registrazione del o dei documenti
concordati, in tal modo evidenziandosi la necessità che risulti la verificabilità di quanto concordato.
Nè la conclusione muterebbe a ritenere ancora in vigore l'art.39 della direttiva 2006/73/CE del
10/8/2006, con il riferimento all' accordo di base "scritto, su carta o su altro supporto durevole, con il
cliente, in cui vengano fissati i diritti e gli obblighi essenziali dell'impresa e del cliente".
(omissis)

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1. Nozione di consumatore e contratti collegati

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8. Recesso consumeristico: nozione e differenze rispetto al normale recesso di


pentimento

9. Forma, formalismo e trasparenza nei contratti consumeristici

10.La nullità necessariamente parziale

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