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La Corte ritiene, nel merito, non fondate le censure formulate dal giudice remittente. La
Corte dichiara non fondata la violazione dell’art. 3 Cost. attesa l’assenza, nel caso di
specie, di limiti costituzionalmente vincolanti alla discrezionalità legislativa. In
particolare, la Consulta sottolinea l’inidoneità dei tertia comparationis indicati dal
giudice remittente a fungere da parametro di riferimento ai fini della verifica della lesione
del principio di ragionevolezza. Nessuna delle fattispecie di reato proposte dal Tribunale
di Nola costituisce – a parere della Corte – un valido «modello comparativo, al quale fare
riferimento per individuare una soluzione costituzionalmente obbligata». Le figure di
reato proposte dal giudice a quo, infatti, sono ritenute incomparabili con la ricettazione
«sia per quanto attiene alla loro struttura, sia anche, per la maggior parte di esse, per
quanto attiene ai beni tutelati». Sintomatico di tale inidoneità sarebbe proprio il fatto che
il giudice remittente abbia indicato quale termine di paragone un elenco molto nutrito di
reati e non uno solo o alcuni di essi. Così, richiamando la propria giurisprudenza sul
punto, la Corte ribadisce che «anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o
irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di
specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia
penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione
delle valutazioni riservate al legislatore. Se così non fosse, l’intervento, essendo creativo,
interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al
legislatore».Anche la questione relativa alla scelta di ancorare l’applicabilità dell’art.
131-bis c.p. al solo massimo edittale viene ritenuta dalla Corte infondata. E ciò in
quanto il giudizio di ponderazione che soggiace alla scelta di estendere o meno a
determinate fattispecie una causa di esclusione della punibilità appartiene – in prima
battuta – al legislatore ed è pertanto sindacabile dal giudice costituzionale nelle sole
ipotesi di manifesta irragionevolezza; ciò che a parere della Consulta non è ravvisabile
nel caso di specie.Una volta esclusa la violazione dell’art. 3 Cost. sub specie di principio
di ragionevolezza e uguaglianza, molto sinteticamente la Corte rigetta anche le ulteriori
censure prospettate dal giudice remittente poiché fondate sull’erroneo presupposto che
l’ambito di applicazione della causa di esclusione della punibilità in
parola comprenda fatti in concreto inoffensivi, mentre – come noto – il beneficio di cui
all’art. 131-bisc.p. entra in gioco solo in presenza di fatti caratterizzati da una certa,
seppur minima, offensività.Nonostante la declaratoria di non fondatezza delle censure
prospettate dal giudice remittente, la Corte riconosce tuttavia il carattere
insoddisfacente della situazione normativa attuale in materia di ricettazione, e le
conseguenze che da essa discendono in relazione alla causa di non punibilità in questione.
Due, in particolare, i profili che la Corte sottolinea:a) anzitutto, «l’anomalia» della
cornice edittale della ricettazione di particolare tenuità, anomalia risultante
dall’ampia forbice edittale tra il minimo e il massimo (quindici giorni – sei anni) e dalla
«ampia sovrapposizione» con il quadro edittale previsto per l’ipotesi base della
ricettazione (due anni – otto anni);b) inoltre, poi, il fatto che è ben possibile immaginare
che possano presentarsi casi concreti – punibili con la pena minima di soli quindici giorni
di reclusione – in cui sussistano tutti gli altri requisiti richiesti per dell’applicabilità della
causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, soprattutto ove si
consideri che «invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa
consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei
mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere
indicativa di fatti di ben maggiore offensività».E la via per ovviare a «situazioni di questo
tipo» viene individuata dalla Corte proprio nella discussa possibilità di introdurre,
all’interno dell’art. 131 bis c.p., «oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale
la causa di non punibilità non possa operare, […] anche una pena minima, al di sotto
della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità»,
intervento che tuttavia non può che spettare al legislatore.
Anche l'imputato di più reati avvinti dal vincolo della continuazione può beneficiare della
causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p. Secondo
costante giurisprudenza di legittimità, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità
della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p., il comportamento è
ABITUALE quando l'autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha
commesso almeno due illeciti, oltre a quello preso in esame (Cass. pen., Sez. Un., 25
febbraio - 6 aprile 2016, n. 13681). Così premesso, occorre verificare se il
riconoscimento del vincolo della continuazione possa eliminare la condizione ostativa
della abitualità della condotta; secondo un certo orientamento la norma, nel descrivere il
contenuto dell'abitualità ostativa alla concessione del beneficio, richiede uno specifico
accertamento giudiziale solo nel caso in cui l'imputato sia stato dichiarato delinquente
abituale, professionale o per tendenza. Diversamente, quando vi sia la consumazione di
più reati della stessa indole e quando sia contestato un reato che abbia ad oggetto
condotte plurime, reiterate e abituali, il riconoscimento della condizione ostativa non
richiede una pregressa dichiarazione giudiziale.Tale impostazione non è condivisa dal
Collegio, il quale ritiene che non vi possa essere una identificazione tout court tra
continuazione ed abitualità nel reato, posto che il legislatore, nell'introdurre una nuova
causa di non punibilità, ha preferito ricorrere ad un concetto diverso da quello di
occasionalità, scelta che si giustifica con la volontà di assicurare all'istituto un più ampio
ambito di operatività, escludendovi solo quei comportamenti espressivi di una
SERIAZIONE dell'attività criminosa e di una abitudine del soggetto a violare la legge.
Ciò non significa che la presenza del reato continuato debba comunque sempre consentire
l'accesso alla causa di non punibilità in oggetto, consentendo di valutare favorevolmente
la presenza dei due indici della particolare tenuità dell'offesa e della non abitualità del
comportamento; significa solo che il giudice, sulla base di siffatti indici, deve soppesare
l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti per giungere ad un giudizio di
meritevolezza o meno al riconoscimento della causa di non punibilità.
Le Sezioni Unite, peraltro, hanno rilevato che la valutazione sulla tenuità del fatto non è
per nulla preclusa dalla circostanza per cui gli illeciti penali in questione hanno natura
di reati di pericolo presunto: in particolare - dopo aver ricordato che per i reati afferenti
a questa categoria non è richiesta alcuna indagine in ordine alla effettiva pericolosità della
fattispecie concreta - la Corte ha comunque affermato, richiamando l'esemplificazione già
riportata in precedenza, che «resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla
stregua della manifestazione del reato ed al solo fine della ponderazione in ordine alla
gravità dell'illecito, quale sia [...] il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al
bene tutelato».
L’attenzione della Corte si sposta allora verso il principio, espresso dall’art. 16 c.p., di
“espansività” delle norme del codice penale alle materie regolate da leggi speciali. Come
noto, questa disposizione prevede espressamente che le norme contenute nel codice
penale trovino applicazione anche in relazione a materie regolate da altre leggi speciali,
salvo che queste ultime abbiano già diversamente disposto sulle medesime materie. Si
tratterebbe, in definitiva, di una ‘clausola di salvaguardia della disciplina speciale’, la
cui portata di limite alla prevalenza della normativa codicistica deve essere verificata
guardando ai singoli istituti non di per sé soli considerati e quindi rapportati tra di loro in
termini astratti, bensì alla luce del ruolo che ciascuno assume nel proprio contesto.Ciò
posto, con specifico riferimento alla questione in esame, le Sezioni Unite ritengono che
l’interprete sia chiamato a valutare se l’ipotesi di particolare tenuità del fatto per i reati di
competenza del giudice di pace abbia già trovato o meno espressa regolamentazione
all’interno del d.lgs. 274/2000, normativa speciale ai sensi dell’art. 16 c.p. Del resto, si
osserva, la medesima operazione ermeneutica è fatta propria dallo stesso decreto
274/2000 che all’art. 2 rinvia, per quanto concerne le disposizioni processuali, alle norme
del codice di procedura penale, laddove applicabili.A supporto di tali considerazioni la
sentenza in commento richiama il ragionamento espresso nella pronuncia con la quale la
Consulta ha rigettato la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione
all’art. 60 d.lgs. 274/2000, che esclude l’operatività della sospensione condizionale alle
pene irrogabili dal giudice di pace: nel dichiarare la compatibilità della norma in parola
con l’art. 3 Cost., i giudici delle leggi avevano infatti avuto occasione di affermare come
la legittimità costituzionale di quanto disposto dall’art. 60 dovesse essere vagliata
tenendo conto delle peculiarità del “microcosmo punitivo” in cui lo stesso si innesta, alla
luce di una valutazione complessiva della disciplina per i reati di competenza del giudice
di pace. Si osserva, inoltre, che sarebbe improprio ravvisare l’intervenuta abrogazione
tacita dell’art. 34 d.lgs. 274/2000 ad opera dell’art. 131 bis c.p., ai sensi e per gli effetti
dell’art. 15 Preleggi: come infatti appena visto, le Sezioni Unite ritengono che nessun
rapporto di genere a specie può dirsi sussistente tra le due norme, poste le differenze
in termini tanto di effetti, quanto di requisiti. Da ultimo, viene rilevato come in alcun
modo valga ad inficiare le conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite la circostanza per
cui il d.lgs. 28/2015, nell’introdurre la causa di non punibilità per particolare tenuità del
fatto, ha inciso su alcune disposizioni processuali (artt. 411 e 469 c.p.p.) che trovano
applicazione anche nel procedimento per reati di competenza del giudice penale. Ciò per
il semplice fatto che il rinvio operato dalle singole norme del d.lgs. 274/2000 alle
disposizioni processuali in parola deve essere configurato quale rinvio fisso, e dunque al
testo normativo così come formulato al momento di entrata in vigore del decreto sul
giudice di pace, senza alcuna rilevanza delle modifiche successivamente apportate alle
norme richiamate.