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131bis

Corte Cost., sent. 24 maggio 2017


MANCATA ESTENSIONE DELLA NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO ALLA
RICETTAZIONE DI PARTICOLARE TENUITÀ: INFONDATA (MA NON TROPPO) LA RELATIVA QUESTIONE DI
LEGITTIMITÀ
La mancata estensione della causa di esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. alle ipotesi di ricettazione di particolare
tenuità di cui all’art. 648, co. 2, c.p. è o non è irragionevole al cospetto dei principi
costituzionali? Innanzitutto ricapitoliamo il caso che ha dato adito al giudizio di
legittimità costituzionale.La vicenda trae origine da un processo penale a carico di un
imputato, accusato di aver ricettato trentuno astucci di certa provenienza illecita in
quanto muniti di marchi e segni distintivi contraffatti. A fronte di tale addebito, ritenuto
fondato in punto di fatto, il Tribunale di Nola rileva il fatto possa essere sussunto nella
fattispecie attenuata della ricettazione di particolare tenuità di cui all’art. 648, co 2, c.p.Il
Tribunale di Nola, tuttavia, osserva ulteriormente che il caso di specie sarebbe
astrattamente riconducibile ai casi di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis c.p., se non
fosse per l’insuperabile sbarramento normativo fissato dallo stesso art. 131-bis c.p.: la
ricettazione, ancorché attenuata ai sensi del comma 2 dell’art. 648 c.p. ha, infatti,
massimo edittale pari a sei anni, superiore, quindi, al limite inderogabile di cinque anni
fissato dal primo comma dell’art. 131-bis c.p. Siffatta impossibilità di applicare l’art.
131-bis c.p. nelle ipotesi di ricettazione di particolare tenuità, tuttavia, appare
irragionevole agli occhi del giudice remittente. Tale irragionevolezza discenderebbe in
particolare: a) in primo luogo, dalla disparità di trattamento tra le ipotesi di
ricettazione attenuata, astrattamente gravi in quanto il relativo massimo edittale arriva a 6
anni di reclusione, che tuttavia in concreto si manifestano spesso come scarsamente
offensive, e fattispecie di reato astrattamente meno gravi in quanto il relativo massimo
edittale non supera i 5 anni – e che dunque rientrano del campo di applicazione dell’art.
131-bisc.p. –, ma che in concreto possono manifestarsi come assai lesive del bene
giuridico tutelato;b) in secondo luogo, da considerazioni sistematiche: la scelta del
legislatore di ancorare l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al limite edittale massimo
di cinque anni senza tenere in debita considerazione l’assetto complessivo delle singole
fattispecie e del relativo trattamento sanzionatorio sarebbe «arbitraria» – e dunque
sindacabile da parte della Corte Costituzionale – oltreché foriera di «difficoltà e storture
nell’applicazione pratica».Da ciò il sospettato contrasto dell’art. 131-bis c.p. con l’art. 3
Cost sub specie di principio di uguaglianza e ragionevolezza «laddove, stabilendo che la
disposizione del primo comma si applica anche quando la legge preveda la particolare
tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, non estende
l’applicabilità della norma all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, comma 2, c.p.,
fattispecie [per l’appunto]irragionevolmente esclusa dall’ambito applicativo dell’art.
131-bis c.p. in ragione del limite massimo della pena astrattamente superiore ad anni
cinque».A tale censura si aggiunge poi, nella prospettazione del giudice remittente,
quella relativa alla violazione del principio di offensività, ricavabile dagli artt. 13, 25 e 27
Cost.

La Corte ritiene, nel merito, non fondate le censure formulate dal giudice remittente. La
Corte dichiara non fondata la violazione dell’art. 3 Cost. attesa l’assenza, nel caso di
specie, di limiti costituzionalmente vincolanti alla discrezionalità legislativa. In
particolare, la Consulta sottolinea l’inidoneità dei tertia comparationis indicati dal
giudice remittente a fungere da parametro di riferimento ai fini della verifica della lesione
del principio di ragionevolezza. Nessuna delle fattispecie di reato proposte dal Tribunale
di Nola costituisce – a parere della Corte – un valido «modello comparativo, al quale fare
riferimento per individuare una soluzione costituzionalmente obbligata». Le figure di
reato proposte dal giudice a quo, infatti, sono ritenute incomparabili con la ricettazione
«sia per quanto attiene alla loro struttura, sia anche, per la maggior parte di esse, per
quanto attiene ai beni tutelati». Sintomatico di tale inidoneità sarebbe proprio il fatto che
il giudice remittente abbia indicato quale termine di paragone un elenco molto nutrito di
reati e non uno solo o alcuni di essi. Così, richiamando la propria giurisprudenza sul
punto, la Corte ribadisce che «anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o
irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di
specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia
penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione
delle valutazioni riservate al legislatore. Se così non fosse, l’intervento, essendo creativo,
interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al
legislatore».Anche la questione relativa alla scelta di ancorare l’applicabilità dell’art.
131-bis c.p. al solo massimo edittale viene ritenuta dalla Corte infondata. E ciò in
quanto il giudizio di ponderazione che soggiace alla scelta di estendere o meno a
determinate fattispecie una causa di esclusione della punibilità appartiene – in prima
battuta – al legislatore ed è pertanto sindacabile dal giudice costituzionale nelle sole
ipotesi di manifesta irragionevolezza; ciò che a parere della Consulta non è ravvisabile
nel caso di specie.Una volta esclusa la violazione dell’art. 3 Cost. sub specie di principio
di ragionevolezza e uguaglianza, molto sinteticamente la Corte rigetta anche le ulteriori
censure prospettate dal giudice remittente poiché fondate sull’erroneo presupposto che
l’ambito di applicazione della causa di esclusione della punibilità in
parola comprenda fatti in concreto inoffensivi, mentre – come noto – il beneficio di cui
all’art. 131-bisc.p. entra in gioco solo in presenza di fatti caratterizzati da una certa,
seppur minima, offensività.Nonostante la declaratoria di non fondatezza delle censure
prospettate dal giudice remittente, la Corte riconosce tuttavia il carattere
insoddisfacente della situazione normativa attuale in materia di ricettazione, e le
conseguenze che da essa discendono in relazione alla causa di non punibilità in questione.
Due, in particolare, i profili che la Corte sottolinea:a) anzitutto, «l’anomalia» della
cornice edittale della ricettazione di particolare tenuità, anomalia risultante
dall’ampia forbice edittale tra il minimo e il massimo (quindici giorni – sei anni) e dalla
«ampia sovrapposizione» con il quadro edittale previsto per l’ipotesi base della
ricettazione (due anni – otto anni);b) inoltre, poi, il fatto che è ben possibile immaginare
che possano presentarsi casi concreti – punibili con la pena minima di soli quindici giorni
di reclusione – in cui sussistano tutti gli altri requisiti richiesti per dell’applicabilità della
causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, soprattutto ove si
consideri che «invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa
consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei
mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere
indicativa di fatti di ben maggiore offensività».E la via per ovviare a «situazioni di questo
tipo» viene individuata dalla Corte proprio nella discussa possibilità di introdurre,
all’interno dell’art. 131 bis c.p., «oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale
la causa di non punibilità non possa operare, […] anche una pena minima, al di sotto
della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità»,
intervento che tuttavia non può che spettare al legislatore.

In una precedente sentenza la Corte aveva proceduto a un sindacato di ragionevolezza


della fattispecie impugnata che era svincolato dalla necessaria individuazione di un
valido tertium comparationis.A sostegno di un sindacato fondato sull’irragionevolezza
intrinseca della fattispecie impugnata indicavamo in particolare l’orientamento espresso
dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 236/2017 in tema di proporzionalità
della pena, nella quale la Corte ha «strutturato il cuore della motivazione non già attorno
alla disparità di trattamento tra la disposizione censurata [alterazione dello stato civile
di un neonato realizzata mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità] e
altra disposizione assunta come tertium comparationis, quanto piuttosto attorno
all’irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione
oggetto di scrutinio». Tale orientamento, tuttavia, non è stato ripreso nella presente
occasione; e, anzi, proprio l’assenza di un valido tertium comparationis – effettivamente
non individuabile –, e più in generale l’assenza di limiti costituzionalmente vincolanti
della discrezionalità legislativa in base ai quali intervenire “a rime obbligate”, è stato
l’argomento centrale della declaratoria di non fondatezza della questione di legittimità
sollevata.É però nello spiraglio finale lasciato aperto dalla Corte Costituzionale che forse
risiede l’aspetto più significativo della pronuncia in commento.Il fatto che la Corte abbia
ritenuto di non poter sindacare la scelta operata dal legislatore, non le ha però impedito di
evidenziare quei profili di stortura di cui sopra abbiamo dato conto. Storture alle quali è
la stessa Corte a proporre un possibile rimedio: introdurre, nella disciplina della causa di
non punibilità per particolare tenuità del fatto, il criterio del minimo edittale, al di sotto
del quale – seppur superato il limite massimo dei cinque anni – lasciare la facoltà al
giudice del caso concreto di vagliare l’applicabilità della causa di esclusione della
punibilità. Insomma, a buon intenditore poche parole: giacché «di tali interventi […], una
volta che ne sia stata rilevata l’esigenza, non può non farsi carico il legislatore, per
evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui».

Cass. 11378/2018: 131 bis e continuazione

Il ricorso è destituito di fondamento e deve essere disatteso. Deve premettersi che il


Collegio ritiene di aderire all'orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo il
quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art.
131-bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della
continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di
"comportamento abituale" per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa
al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza "non occasionale". Nel
caso in esame non si verte, però, nell'ipotesi di reato continuato, posto che, in
considerazione delle peculiarità del reato contestato, deve ritenersi che le condotte ascritte
all'imputata, per l'unitario contesto spazio - temporale nel quale si collocano, vadano di
fatto a costituire una condotta inscindibile per l'unitario contesto. E' principio consolidato
quello secondo il quale la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico
servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per fini personali al di fuori dei casi d'urgenza o
di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d'uso. Considerata,
poi, la struttura del peculato d'uso (che implica l'immediata restituzione della cosa), la
valutazione in discorso deve di regola essere riferita alle singole condotte poste in essere,
salvo che le stesse, per l'unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a
costituire una unica condotta inscindibile. Ritiene il Collegio che, nel caso in esame,
ricorra proprio tale ultima ipotesi, avendo l'imputata utilizzato il telefono dell'ufficio in
un arco temporale assai ristretto. Le singole telefonate poste in essere dall'imputata
devono, quindi, essere considerata come un'unica condotta e non come condotte plurime,
eventualmente unite dal vincolo della continuazione. Alla luce di quanto sopra
evidenziato, non si pone, pertanto, la questione afferente l'inapplicabilità al reato
continuato della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. La condotta posta in
essere dalla B., peraltro, ha prodotto un'offesa al bene giudico protetto sicuramente di
particolare tenuità e, conseguentemente, bene ha fatto il G.u.p. di Pesaro a dichiarare non
doversi procedere nei confronti della stessa ricorrendo la causa di non punibilità per la
particolare tenuità del fatto.

CASS., PEN., SEZ. II, 26 APRILE 2017, N. 19932: CASO ISOLATO!!!


sempre sul reato continuato

Anche l'imputato di più reati avvinti dal vincolo della continuazione può beneficiare della
causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p. Secondo
costante giurisprudenza di legittimità, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità
della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p., il comportamento è
ABITUALE quando l'autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha
commesso almeno due illeciti, oltre a quello preso in esame (Cass. pen., Sez. Un., 25
febbraio - 6 aprile 2016, n. 13681). Così premesso, occorre verificare se il
riconoscimento del vincolo della continuazione possa eliminare la condizione ostativa
della abitualità della condotta; secondo un certo orientamento la norma, nel descrivere il
contenuto dell'abitualità ostativa alla concessione del beneficio, richiede uno specifico
accertamento giudiziale solo nel caso in cui l'imputato sia stato dichiarato delinquente
abituale, professionale o per tendenza. Diversamente, quando vi sia la consumazione di
più reati della stessa indole e quando sia contestato un reato che abbia ad oggetto
condotte plurime, reiterate e abituali, il riconoscimento della condizione ostativa non
richiede una pregressa dichiarazione giudiziale.Tale impostazione non è condivisa dal
Collegio, il quale ritiene che non vi possa essere una identificazione tout court tra
continuazione ed abitualità nel reato, posto che il legislatore, nell'introdurre una nuova
causa di non punibilità, ha preferito ricorrere ad un concetto diverso da quello di
occasionalità, scelta che si giustifica con la volontà di assicurare all'istituto un più ampio
ambito di operatività, escludendovi solo quei comportamenti espressivi di una
SERIAZIONE dell'attività criminosa e di una abitudine del soggetto a violare la legge.
Ciò non significa che la presenza del reato continuato debba comunque sempre consentire
l'accesso alla causa di non punibilità in oggetto, consentendo di valutare favorevolmente
la presenza dei due indici della particolare tenuità dell'offesa e della non abitualità del
comportamento; significa solo che il giudice, sulla base di siffatti indici, deve soppesare
l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti per giungere ad un giudizio di
meritevolezza o meno al riconoscimento della causa di non punibilità.

SSUU, sent. 25 febbraio 2016


LE SEZIONI UNITE SULL'APPLICABILITÀ DEL NUOVO ART. 131-BIS C.P. ALLE CONTRAVVENZIONI
STRADALI (ART. 186, COMMI II E VII, C.D.S.)

Con le sentenze in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono


pronunciate sulle questioni relative alla possibilità di applicare la nuova causa di non
punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) alle fattispecie
contravvenzionali previste dall'art. 186, comma II, lettere b) e c), Codice della Strada
nonché dall'art. 186, comma VII, Codice della Strada. Tali reati, com'è noto, puniscono
rispettivamente le condotte di coloro che si pongano alla guida in stato di
ebbrezza alcolica (corrispondente a quantità di alcool nel sangue superiori a 0,8 g/l, per
la lettera b), ed a 1,5 g/l, per la lettera c)) o che si rifiutino di sottoporsi agli
accertamenti alcolimetrici previsti dai commi III, IV e V della medesima norma.La
soluzione adottata dal Supremo Collegio per entrambe le questioni è stata di segno
positivo.In entrambe le pronunce - sostanzialmente identiche nel contenuto - la Corte si è
innanzitutto premurata di riassumere le perplessità evidenziate dalla sezione
rimettente in merito alla possibilità di applicare la nuova causa di non punibilità alle
contravvenzioni in questione. Con particolare riferimento alla problematica relativa al
reato di guida in stato di ebbrezza, il collegio rimettente, nello specifico, aveva
criticamente segnalato quanto segue:
1)l'art. 186, comma II, C.d.S. prevede - alla lettera a) - un illecito amministrativo,
configurabile nei casi di guida in stato di ebbrezza con quantità di alcool nel sangue
compresa tra gli 0,5 e gli 0,8 g/l: la natura di tale illecito, dunque, comporterebbe una
palese disparità di trattamento, data dal fatto che colui che venisse colto alla guida in
un "minimo" stato di ebbrezza alcolica sarebbe sottoposto ad una sicura sanzione (seppur
di natura amministrativa), non emendabile da alcuna causa di non punibilità;
diversamente, i conducenti sorpresi con un tasso alcolemico penalmente rilevante (ai
sensi delle lettere b)e c) della medesima norma) potrebbero "sfuggire" ad ogni censura
attraverso l'applicazione del nuovo art. 131-bis c.p.;
2)la valutazione di maggiore o minore pericolosità sarebbe già stata effettuata dal
legislatore, il quale - con la previsione delle progressive soglie di punibilità - avrebbe già
imposto una connotazione di tenuità alle condotte punite con la sola sanzione
amministrativa: il giudice, applicando la nuova normativa, si sostituirebbe dunque al
legislatore, non avendo alcun parametro a cui ancorare il giudizio di tenuità diverso dal
dato quantitativo di superamento della soglia;
3) la fattispecie penale in questione si pone a tutela dei beni giuridici della
"regolarità della circolazione e della sicurezza stradale", beni autonomi e distinti da
quelli della vita e della incolumità fisica dei singoli: in relazione ai beni protetti,
dunque, non sarebbe ipotizzabile alcuna gradualità dell'offesa né alcuna rilevanza
delle concrete modalità della condotta di guida, posto che lo stesso legislatore ha
opportunamente previsto due circostanze aggravanti (la guida in orario notturno e la
causazione di un incidente stradale) a tutela delle fattispecie concrete caratterizzate da
maggior allarme sociale;
4)da ultimo, non sarebbe condivisibile la conclusione prospettata dalla sentenza Longoni
in punto di sanzioni amministrative accessorie: se tale sentenza, infatti, aveva concluso
per l'obbligo di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie anche in caso di
pronuncia assolutoria per particolare tenuità del fatto, l'ordinanza di rimessione alle
Sezioni Unite ha evidenziato l'insormontabile dato testuale dell'art. 186, comma II-quater,
C.d.S., il quale postula l'applicazione di dette sanzioni solamente in caso di sentenza di
condanna o di applicazione della pena.

Diversamente, con riferimento alla fattispecie di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti


acolimetrici, l'ordinanza di rimessione si era posta in contrasto con un'altra sentenza di
legittimità che aveva ritenuto la compatibilità del nuovo istituto con il reato di cui all'art.
186, comma VII, Codice della Strada.Il collegio rimettente, in questo secondo caso,
aveva criticamente segnalato quanto segue:
1)la fattispecie penale in questione, costituita dal rifiuto di sottoporsi agli esami
alcolimetrici da parte del conducente di un veicolo, si risolverebbe in una condotta di
dissenso "sempre uguale a se stessa": tale condotta, in particolare, delineerebbe un reato
istantaneo per il quale sembrerebbe impossibile procedere ad una graduazione
dell'offensività nel senso richiesto dall'art. 131-bis c.p.;
2) il nuovo istituto, poi, richiede di valutare la sola condotta, non consentendo di
apprezzare se essa abbia o non abbia dato luogo ad una situazione concretamente
pericolosa: ciò posto, dunque, non sarebbe possibile condividere la soluzione prospettata
dalla sentenza Pasolini, che aveva ritenuto di riconoscere la causa di non punibilità per
particolare tenuità del fatto proprio in ragione del mancato riscontro di concreta
pericolosità;
3) il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, infine, dovrebbe individuarsi nel
regolare andamento dei controlli di polizia: in relazione a tale bene, secondo l'opinione
dei Giudici rimettenti, non sarebbe ipotizzabile alcuna graduazione dell'offesa.

Successivamente, introducendo la parte motivazionale in diritto, la Corte ha in primo


luogo affrontato - ed agevolmente superato, in entrambe le sentenze - la questione relativa
alla possibilità di applicare direttamente nel giudizio di legittimità il nuovo art. 131-bis
c.p.: in particolare, si è richiamata giurisprudenza di legittimità oramai consolidata,
secondo la quale la nuova norma costituisce un'innovazione di diritto sostanziale in
termini più favorevoli per l'imputato.Dunque, correndo l'obbligo per il giudice di
applicare la lex mitior anche nel giudizio di legittimità, con particolare riferimento
all'applicabilità diretta dell'art. 131-bis c.p. in relazione alle fattispecie già definite in
grado d'appello prima dell'entrata in vigore della norma stessa la Corte di Cassazione avrà
pieno titolo di pronunciarsi e - dove ravvisasse nella motivazione della sentenza
impugnata gli estremi per l'applicabilità del nuovo istituto - potrà financo pervenire ad
una sentenza di annullamento senza rinvio ai sensi dell'art. 620, comma I, lettera L),
c.p.p.
Chiarito quanto sopra, le Sezioni Unite si sono dunque approcciate alla soluzione dei
quesiti loro proposti, ovverosia «se la causa di non punibilità per particolare tenuità del
fatto sia compatibile con il reato di guida in stato di ebbrezza» e «se l'art. 131-bis c.p. sia
applicabile al reato [di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici]».La
decisione ha preso le mosse proprio dalle sentenze Longoni e Pasolini, che le ordinanze
di rimessione alle Sezioni Unite avevano ampiamente criticato: la Corte, in particolare, ha
evidenziato come le citate sentenze siano addivenute ad una soluzione positiva dei
quesiti in esame mediante un approccio privo di aspetti critici. Nei nodi motivazionali in
commento, in primo luogo, la Corte ha censurato le osservazioni del collegio rimettente
nel punto in cui esse legano il nuovo istituto al principio di offensività, rimarcando il
fatto che tale principio generale attiene «all'essere o non essere di un reato», mentre la
nuova causa di non punibilità «riguarda per definizione fatti senza incertezze pienamente
riconducibili alla fattispecie legale». Immediatamente, poi, le Sezioni Unite hanno
ricordato che il dato normativo del nuovo art. 131-bis c.p. investe il giudice di
una «valutazione complessa che ha oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del
danno o del pericolo valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma, c.p.»: il compito del
giudice, in sostanza, non deve limitarsi alla considerazione della sola "quantità" di
aggressione al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, ma deve estendersi
all'analisi di tutte le peculiarità della fattispecie concreta.In particolare, secondo la
Corte, «non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica; è la concreta
manifestazione del reato che ne segna il disvalore»: adottando quest'ottica interpretativa,
dunque, il Supremo Collegio ha rimarcato la necessità di operare una corretta
distinzione tra fatto tipico e fatto storico, ove solo quest'ultimo assume rilevanza ai fini
del giudizio di tenuità (o non tenuità) del fatto.

Su queste basi, dunque, le Sezioni Unite hanno enucleato il seguente principio di


diritto: «essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua
interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione
della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l'applicazione
del nuovo istituto».

L'opinione contraria - a detta della Corte - dovrebbe considerarsi certamente deviata da


un'impropria sovrapposizione tra fatto tipico e fatto storico; il collegio ha inoltre
affermato - incidenter tantum - che la medesima tesi contraria condurrebbe peraltro alla
paradossale conseguenza dell'inapplicabilità del nuovo istituto all'intera categoria dei c.d.
"reati bagatellari", sovente caratterizzati dalla mera omissione di una
prescrizione. Sempre con riferimento alla valutazione circa le modalità della condotta,
inoltre, la Corte ha evidenziato come il richiamo dell'art. 131-bis c.p. all'art. 133, comma
I, c.p. attribuisca rilevanza anche ai profili relativi all'intensità del dolo o al grado della
colpa del soggetto attivo: il giudice, dunque, dovrà assumere le proprie determinazioni
sulla possibile tenuità del fatto anche valutando il concreto incidere sulla fattispecie
concreta dell'elemento VOLITIVO del reo.

A conclusioni non dissimili la Corte è pervenuta anche in relazione alla valutazione


sull'entità del danno o del pericolo: in particolare, il Supremo Collegio ha ribadito la
scorrettezza di preclusioni precostituite, indicando nuovamente la necessità di effettuare
analisi mirate sulla manifestazione del reato e dunque - in relazione al parametro relativo
all'entità del danno o del pericolo - sulle conseguenze dannose o pericolose della
condotta.Secondo le Sezioni Unite, quindi, «emerge un dato di cruciale rilevo, che deve
essere con forza rimarcato: l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta
degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza».In particolare, la
circostanza per cui la valutazione inerente all'entità del danno/pericolo non è da sola
sufficiente a completare il giudizio di tenuità del fatto è desunta - per la Corte - non solo
dal dato testuale dell'art. 131-bis c.p. ma anche da due ulteriori e specifici argomenti:
1)da un parte, il legislatore ha espressamente previsto che la nuova disciplina sia
applicabile anche quando la legge prevede la speciale tenuità del danno o del pericolo
come circostanza attenuante, così suggerendo che la valutazione di particolare tenuità del
fatto deve essere ancorata agli indicatori relativi alla condotta ed alla colpevolezza anche
in presenza di un danno di speciale tenuità; 2) d'altro canto, per evitare che i reati di più
grave graduazione possano essere travolti dall'applicazione della nuova causa di non
punibilità, il legislatore ha espressamente previsto clausole di esclusione; l'offesa, infatti,
non può essere ritenuta particolarmente tenue qualora la condotta abbia cagionato - quali
conseguenze non volute dall'agente - la morte o le lesioni gravissime della persona offesa
oppure nei casi in cui l'autore abbia agito per motivi abbietti o futili, con crudeltà,
adoperando sevizie o approfittando delle condizioni di minorata difesa della vittima (art.
131-bis, comma II, c.p.).

La Corte, quindi, ha concluso il proprio iter argomentativo calando le argomentazioni


sopra riassunte nelle fattispecie concrete portate al suo interesse.Specificamente, in
relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, il collegio ha sostenuto che - pur
essendo ovvio che un ampio superamento delle soglie di rilevanza penale
tendenzialmente potrebbe portare ad escludere la configurabilità del nuovo istituto - in
ogni caso «nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare le
peculiarità del caso concreto».Per attribuire valore tangibile alla propria conclusione,
poi, la Corte ha riportato l'esempio - già utilizzato dalla citata sentenza Longoni - di colui
che, in stato di gravissima alterazione alcolica, si ponesse alla guida di un'auto all'interno
di un parcheggio isolato, spostandola solo di qualche metro: appare chiaro, al di là della
banalizzazione dell'esempio, che una fattispecie concreta di tal fatta - senz'altro tipica e
connotata dall'offensività intrinseca dei reati di pericolo presunto - potrebbe
tranquillamente essere riconosciuta come particolarmente tenue.

Da ultimo, le Sezioni Unite si sono pronunciate anche sulla problematica relativa


all'applicabilità o meno delle sanzioni amministrative accessorie per la guida in stato di
ebbrezza in caso di riconoscimento della causa di esclusione della punibilità ex art. 131-
bis c.p.: la Corte, in particolare, è addivenuta ad una conclusione diversa sia rispetto alla
sentenza Longoni (che aveva ammesso l'applicazione delle sanzioni accessorie anche in
caso di sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto) che rispetto
all'ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite (che, al contrario, negava
quanto sostenuto dalla predetta sentenza). Il collegio, infatti, ha osservato che
il corpus normativo del Codice della Strada - agli artt. 224 e 224-ter - disciplina
l'applicazione delle sanzioni amministrative: orbene, posto che le norme in parola si
occupano anche dei casi di estinzione del reato per causa diversa dalla morte
dell'imputato, disponendo che in tali occasioni sia l'amministrazione pubblica ad
applicare le sanzioni amministrative accessorie al reato di guida in stato di ebbrezza,
secondo la Corte tali norme - dovendo considerarsi residuali e, pertanto, applicabili alla
generalità delle fattispecie - devono ritenersi valide anche per il caso in esame.
Dunque, «le sanzioni amministrative riprendono la loro autonomia ed entrano nella
sfera di competenza dell'amministrazione pubblica».

In modo non dissimile, con riferimento al reato di rifiuto di sottoporsi ai test


alcolimetrici, la Corte ha evidenziato che la fattispecie in esame sanziona il rifiuto di
sottoporsi ai test alcolimetrici volti all'accertamento dello stato di ebbrezza rilevante ai
fini del secondo comma del medesimo articolo: in conseguenza di ciò, secondo la
Corte, «la lettura della ratio e dello sfondo di tutela che presiedono alla contravvenzione
in esame sarebbe fallace ed astratta se non si confrontasse con l'intimo intreccio tra i
due reati, enfatizzato dal fatto che uno è punito con le sanzioni previste dall'altro».Ciò
posto, le Sezioni Unite hanno affermato che il reato qui di interesse «non punisce una
mera, astratta disobbedienza, ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di
essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose», di talché «non può farsi a meno
di esaminare la collaterale contravvenzione di cui al richiamato comma 2 dell'art. 186,
[che] si inscrive nella categoria [...] dei reati a pericolo presunto». Su questo
presupposto, dunque, il Supremo Collegio ha ribadito - anche in relazione al rifiuto di
sottoporsi ai test alcolimetrici - la bontà dell'esempio, supra richiamato, già utilizzato
nella sentenza Longoni (ovverosia la condotta di colui che rifiutasse di sottoporsi agli
accertamenti dopo essere stato colto in una condotta di guida non concretamente
pericolosa).La Corte, inoltre, ha osservato che «non è certo indifferente, nella
ponderazione del fatto e del bisogno di pena, se un comportamento che si estrinseca in
un mero rifiuto sia accompagnato da manifestazioni di irriguardosa e violenta
opposizione o sia invece dovuto ad una non completa comprensione del contesto, ovvero
a concomitanti esigenze personali socialmente apprezzabili»: il Supremo Collegio, in
sostanza, sembrerebbe suggerire la necessità di vagliare attentamente - ai fini del
possibile riconoscimento della nuova causa di esclusione della punibilità - le modalità
stesse del rifiuto ed il contesto in cui esso si estrinseca.

Le Sezioni Unite, peraltro, hanno rilevato che la valutazione sulla tenuità del fatto non è
per nulla preclusa dalla circostanza per cui gli illeciti penali in questione hanno natura
di reati di pericolo presunto: in particolare - dopo aver ricordato che per i reati afferenti
a questa categoria non è richiesta alcuna indagine in ordine alla effettiva pericolosità della
fattispecie concreta - la Corte ha comunque affermato, richiamando l'esemplificazione già
riportata in precedenza, che «resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla
stregua della manifestazione del reato ed al solo fine della ponderazione in ordine alla
gravità dell'illecito, quale sia [...] il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al
bene tutelato».

Sez. Un., u.p. 22 giugno 2017 n. 53683


A PROPOSITO DELLA INAPPLICABILITÀ DELL'ART. 131-BIS C.P. AI REATI DI COMPETENZA DEL
GIUDICE DI PACE

Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno


dato risposta negativa al quesito circa l’operatività nel procedimento dinanzi al
giudice di pace della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.La Corte ha
infatti ritenuto che le ipotesi di particolare tenuità del fatto in relazione a reati di
competenza del giudice di pace siano regolate ai soli sensi della speciale causa di
improcedibilità di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000, in ragione delle peculiarità che
caratterizzano tale procedimento, al punto da delinearne una sorta di “microcosmo
punitivo”. Le Sezioni Unite hanno in primo luogo ricostruito i termini del contrasto
giurisprudenziale insorto sulla questione in esame, ripercorrendo in particolare i due
principali orientamenti emersi.In base ad una prima soluzione interpretativa la causa
di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. non sarebbe applicabile nei procedimenti di
competenza del giudice di pace, ove le ipotesi di particolare tenuità si ritengono
disciplinate dal solo art. 34 d.lgs. 274/2000, norma speciale che dà espressione alle
finalità conciliative proprie di tale peculiare procedimento.Questo primo filone
giurisprudenziale ha in particolare posto in rilievo le numerose differenze che
caratterizzano i due istituti. Anzitutto, per quanto concerne i presupposti applicativi,
mentre l’art. 131 bisc.p. prevede quale limite di operatività dell’istituto il massimo
edittale pari a cinque anni di reclusione, nessun riferimento al quantitativo di pena
astrattamente irrogabile si ritrova nell’art. 34 d.lgs. 274/2000.Diversa sarebbe anche la
valutazione richiesta al giudice, che solo nell’art. 34 si estende ad eventuali interessi
individuali per i quali si rende inopportuna l’inflizione di una sanzione penale (vale a dire
il “pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può arrecare alle esigenze di
lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini o
dell’imputato”).
Si osserva inoltre come la portata dell’art. 131 bis c.p. risulterebbe circoscritta rispetto a
quella dell’art. 34 d.lgs. 274/2000, in ragione del requisito della non abitualità della
condotta illecita e della serie di ipotesi ritenute astrattamente incompatibili con la
particolare tenuità del fatto.Ulteriore argomento dal quale si ricaverebbe l’asserita
inconciliabile diversità dei due istituti è rappresentato dal ruolo riconosciuto alla persona
offesa ai fini della loro stessa operatività. Infatti solo per i reati di competenza del giudice
di pace è attribuita alla persona offesa la facoltà di opporre un insuperabile veto alla
definizione del procedimento per tenuità del fatto.Secondo l’opposto orientamento,
invece, tuttavia, si è innanzitutto osservato che negare l’applicabilità dell’art. 131 bis al
procedimento dinanzi al giudice di pace si risolverebbe in un inaccettabile paradosso: una
simile preclusione infatti finirebbe per eludere la finalità deflattiva cui è ispirata la causa
di non punibilità in questione e, ancor prima, l’intera riforma del 2015, nonostante
l’intrinseca minor offensività propria dei reati di competenza di tale giudice. La natura
sostanziale dell’istituto di cui all’art. 131 bis, espressamente riconosciuta dalle Sezioni
Unite allorché chiamate ad affrontare profili di retroattività della norma in esame, viene
indicata da questo secondo orientamento quale ragione principale del diverso ambito
applicativo dell’istituto in parola rispetto a quello delineato dall’art. 34 d.lgs.
274/2000.Del resto, a nulla rileverebbe invocare il principio di specialità, posto che tra le
due norme non sussiste alcun rapporto di genere a specie.

Ebbene, le Sezioni Unite ritengono condivisibile il primo orientamento, concludendo


per l’inapplicabilità dell’art. 131 bis c.p. ai procedimenti dinanzi al giudice di
pace.Invero, sin dalle prime battute la Corte mette in rilievo il diverso spirito che muove i
due istituti: la finalità deflativa, per quanto attiene alla causa di non punibilità di cui
all’art. 131 bis, che, come indicato nella relazione di accompagnamento al decreto
introduttivo, sarebbe stata destinata ad operare “nella giustizia ordinaria”;
l’obiettivo conciliativo, quanto all’art. 34 d.lgs. 274/2000, come testimoniato
dall’attribuzione alla persona offesa di un potere di veto alla concreta operatività di tale
causa di improcedibilità.Proprio il ruolo centrale attribuito alla persona offesa nel
giudizio per i reati di competenza del giudice di pace è espressione della finalità
conciliativa che impernia la ratio stessa di tale procedimento speciale, rappresentandone
al contempo l’obiettivo ultimo. Del resto, anche la Consulta in più occasioni ha posto
l’accento sul carattere del tutto peculiare del procedimento di cui al d.lgs. 274/2000 e ne
ha escluso la comparabilità con quello ordinario, affermando che il legislatore può
derogare alla disciplina comune senza incorrere in alcuna violazione del dettato
costituzionale.Ciò premesso, le Sezioni Unite chiariscono come il canone ermeneutico
cui fare riferimento per risolvere il concorso apparente tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 34
d.lgs. 274/2000 non sia da rinvenire nel principio di specialità di cui all’art. 15 c.p.
L’applicazione di questa regola richiederebbe infatti l’“individuazione di un nucleo
comune presente in entrambe le discipline in questione, con aggiunta di uno o più
elementi specializzanti in assenza dei quali la norma speciale torni ad essere
integralmente sostituibile dalla norma generale”. Nel caso in esame ciascuna norma
presenta elementi specializzanti rispetto all’altra, sicché deve riconoscersi che i due
istituti si pongono in un rapporto non già di specialità, quanto, al più, di ‘interferenza’. Né
sarebbe utile il richiamo alla specialità reciproca, criterio che non è affatto idoneo a
risolvere il concorso apparente tra norme accordando prevalenza ad una piuttosto che
all’altra disposizione, ma che la giurisprudenza di solito richiama per sostenere la
possibilità di applicare CONTESTUALMENTE entrambe le norme in concorso.

L’attenzione della Corte si sposta allora verso il principio, espresso dall’art. 16 c.p., di
“espansività” delle norme del codice penale alle materie regolate da leggi speciali. Come
noto, questa disposizione prevede espressamente che le norme contenute nel codice
penale trovino applicazione anche in relazione a materie regolate da altre leggi speciali,
salvo che queste ultime abbiano già diversamente disposto sulle medesime materie. Si
tratterebbe, in definitiva, di una ‘clausola di salvaguardia della disciplina speciale’, la
cui portata di limite alla prevalenza della normativa codicistica deve essere verificata
guardando ai singoli istituti non di per sé soli considerati e quindi rapportati tra di loro in
termini astratti, bensì alla luce del ruolo che ciascuno assume nel proprio contesto.Ciò
posto, con specifico riferimento alla questione in esame, le Sezioni Unite ritengono che
l’interprete sia chiamato a valutare se l’ipotesi di particolare tenuità del fatto per i reati di
competenza del giudice di pace abbia già trovato o meno espressa regolamentazione
all’interno del d.lgs. 274/2000, normativa speciale ai sensi dell’art. 16 c.p. Del resto, si
osserva, la medesima operazione ermeneutica è fatta propria dallo stesso decreto
274/2000 che all’art. 2 rinvia, per quanto concerne le disposizioni processuali, alle norme
del codice di procedura penale, laddove applicabili.A supporto di tali considerazioni la
sentenza in commento richiama il ragionamento espresso nella pronuncia con la quale la
Consulta ha rigettato la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione
all’art. 60 d.lgs. 274/2000, che esclude l’operatività della sospensione condizionale alle
pene irrogabili dal giudice di pace: nel dichiarare la compatibilità della norma in parola
con l’art. 3 Cost., i giudici delle leggi avevano infatti avuto occasione di affermare come
la legittimità costituzionale di quanto disposto dall’art. 60 dovesse essere vagliata
tenendo conto delle peculiarità del “microcosmo punitivo” in cui lo stesso si innesta, alla
luce di una valutazione complessiva della disciplina per i reati di competenza del giudice
di pace. Si osserva, inoltre, che sarebbe improprio ravvisare l’intervenuta abrogazione
tacita dell’art. 34 d.lgs. 274/2000 ad opera dell’art. 131 bis c.p., ai sensi e per gli effetti
dell’art. 15 Preleggi: come infatti appena visto, le Sezioni Unite ritengono che nessun
rapporto di genere a specie può dirsi sussistente tra le due norme, poste le differenze
in termini tanto di effetti, quanto di requisiti. Da ultimo, viene rilevato come in alcun
modo valga ad inficiare le conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite la circostanza per
cui il d.lgs. 28/2015, nell’introdurre la causa di non punibilità per particolare tenuità del
fatto, ha inciso su alcune disposizioni processuali (artt. 411 e 469 c.p.p.) che trovano
applicazione anche nel procedimento per reati di competenza del giudice penale. Ciò per
il semplice fatto che il rinvio operato dalle singole norme del d.lgs. 274/2000 alle
disposizioni processuali in parola deve essere configurato quale rinvio fisso, e dunque al
testo normativo così come formulato al momento di entrata in vigore del decreto sul
giudice di pace, senza alcuna rilevanza delle modifiche successivamente apportate alle
norme richiamate.

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