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Alcune note su “Momenti psicotici nel trattamento di pazienti psicotici”
Introducendo il loro rapport sulla “teoria psicoanalitica del delirio”, nel 1958 a Bruxelles, Nacht e
Racamier rivolgevano ai colleghi presenti un invito: “… il est grand temps que les psychanalystes
sʹoccupent sérieusement des psychoses”. Formulazione che, senza valutarne la componente
“sintomatica”, rivelatrice dei tempi e delle ben note vicissitudini societarie, risulterebbe piuttosto
altisonante, tenendo conto non solo del contributo di Lacan sulle psicosi, ma di ciò che oltre Manica
l’apporto kleiniano stava sviluppando, anche intorno alle questioni dei meccanismi psicotici.
Formulazione importante, ad ogni modo, e in parte rispondente ad una realtà che il solo Racamier
avrebbe voluto richiamare ancora a vent’anni di distanza, al congresso di Firenze, prima di
riprenderla in una delle sue opere più note (1978). Un’esortazione ripetuta cui, al di là di una
convergenza o di un dissenso su posizioni più specifiche (la saldatura tra psicosi e delirio in Nacht
e Racamier, il ruolo pervasivo del pensiero paradossale in Racamier), molti analisti francesi delle
generazioni successive, come Vassilis Kapsambelis, avrebbero cercato di rispondere.
Psichiatra, curatore di un recente (2012) Manuel de psychiatrie clinique et psychopathologique de lʹadulte
e autore tra l’altro ‐per una nota collana francese‐ di un testo introduttivo sull’angoscia (tradotto in
italiano nel 2009), Kapsambelis ha affrontato le questioni che la psicosi pone al metodo e alla teoria
psicoanalitica da una prospettiva che deve non poco alla sua esperienza “territoriale”, in buona parte
maturata presso il centro medico‐psicologico “Philippe Paumelle” di Parigi, strettamente legato al
“Centre de Psychanalyse et de Psychothérapie E. et J. Kestemberg”. Questa esperienza sostiene e
motiva diversi scritti di Kapsambelis, come quelli dedicati (proseguendo il lavoro di Guyotat,
Angelergues, e appunto Kestemberg) alle possibilità di inquadramento metapsicologico della
somministrazione dei neurolettici, o agli aspetti di “tecnica attiva” spesso implicati nel lavoro con le
psicosi (cfr. 1994, 1999a, 1999b, 2001, 2002a, 2002b).
Kapsambelis ha ripetutamente posto il pensiero e la psicopatologia psicoanalitica alla prova della
“terapeutica psichiatrica” e del funzionamento psicotico, utilizzando anche gli spunti offerti da una
certa attenzione per la letteratura britannica e statunitense. Il lavoro che presentiamo fornisce di
questo un’ulteriore testimonianza; infatti il campo di ciò che Kapsambelis propone di considerare
come “momento psicotico nel trattamento di pazienti psicotici” viene progressivamente individuato
proprio partendo da una duplice differenziazione: da un lato rispetto all’episodio psicotico acuto o
subacuto, dall’altro rispetto a ciò che, seguendo l’indirizzo kleiniano, potrebbe essere definito
“transfert psicotico”. Pur lavorando per una posizione più “sfumata” (rispetto ad una netta
preferenza per la concezione di un “investimento transferale” come critica alla figura clinica del
transfert psicotico), Kapsambelis affronta la questione con i parametri della tradizione in cui, come
il plurale usato in più occasioni segnala, si riconosce per formazione.
In un articolo dedicato alle specificità della “scuola francese” nel trattamento dei pazienti psicotici,
Kampsamelis (2001, 279) metteva in evidenza un aspetto caratterizzante, in un’ottica ancora una
volta “differenziale”: “in Francia, a partire da un approfondimento dello statuto della parola e del
suo valore simbolizzante (che deve molto ai lavori di Lacan e in particolare alla sua critica della
“psicoanalisi della psicosi” espresse nella Questione preliminare) gli analisti hanno imparato ad
utilizzare con prudenza l’interpretazione della cura analitica tipo nella sua forma classica … e
soprattutto le interpretazioni che poggiano sul contenuto transferale del discorso del paziente”.
Quello che Kapsambelis delinea con chiarezza è il profilo di una tradizione le cui scelte concettuali,
prima ancora che lessicali, sono però da intendere come effetto e non come posizione causalistica di
principio: l’effetto di una differenza legata alla “domanda” che resta determinante. Riferendosi alle
attività del “Centre Paumelle”, alcuni anni fa (2007, 10) Kapsambelis notava: “[d]al momento che il
Centro è un’istituzione “territoriale” [sectorisée], i pazienti che vi sono stati accolti hanno sin
dall’inizio avuto, e hanno tuttora, un profilo “a‐specifico”, indifferenziato, il che costituisce una
differenza epidemiologica e sociologica importante in rapporto ad esperienze precedenti nei paesi
di lingua inglese, dove l’approccio psicoanalitico alle psicosi ha il più delle volte riguardato un
pubblico «avvertito» e, che fondamentalmente, «domanda»”. Questione non secondaria anche in
questa sede, dal momento che le tesi proposte nell’articolo nascono dall’esperienza clinica con
pazienti seguiti in questo contesto istituzionale.
È in esso che trovano le proprie condizioni di svolgimento quei trattamenti di pazienti psicotici nel
corso dei quali prendono forma i momenti psicotici. Si tratta di fenomeni che concernono una
microclinica che, riproponendo implicitamente la questione del rapporto tra “trattamento” e
“clinica”, si presenta però al tempo stesso come profondamente psicoanalitica, essendo fondata,
nella presentazione dell’autore, su frammenti e resti il cui senso potenziale appare solo nell’après
coup dell’ascolto, da parte del terapeuta, del suo stesso ascolto, quando cioè diviene possibile isolare
quello che per Kapsambelis è l’unico vero e proprio “effetto” di questi momenti all’interno della
relazione terapeutica: “un’interruzione del lavoro associativo dell’analista”.
I momenti psicotici isolati (che a loro volta non esauriscono l’insieme dei “momenti psicotici” nel
trattamento di pazienti psicotici) sono organizzati da Kapsambelis in tre categorie, tre condizioni di
cui testimoniano altrettanti spaccati di lavoro clinico. Il lavoro con “R.” offre per Kapsambelis
l’esempio di un pensiero senza immagini, formula che sta ad indicare una rappresentazione di parola
che ha perduto le sue rappresentazioni di cosa, il che è mostrato da “R.” attraverso la possibilità
paradossale di pensare un nome in totale assenza di una rappresentazione della persona cui il nome
corrisponde; una dis‐oggettualizzazione “duplice”, perché al disinvestimento della
rappresentazione della persona si accompagna, in questo “momento”, il ritiro da tutti gli scambi
possibili.
Un altro “momento psicotico” è quello che, nel corso di un trattamento, può cristallizzarsi intorno a
ciò che a posteriori si manifesterà come una comunità di pensiero. Lo spaccato della cura di “Denis”,
cui Kapsambelis ricorre per presentare l’esperienza, risulta di particolare efficacia, non ultimo
perché, attraverso una successione di frammenti che riesce a rendere l’immediatezza della clinica,
solleva indirettamente l’interrogativo di cosa deve essere presente, in questa convinzione di un
pensiero condiviso “da sempre” tra paziente e terapeuta, per poterla considerare di matrice
schizofrenica. Scrive Kapsambelis: “questi pazienti schizofrenici sembrano parlarvi come se li
conosceste da sempre … riferimenti a luoghi o nomi citat[i] come se voi l[i] conosceste da sempre,
interpenetrazione del ricordo e dell’attuale attraverso un impiego estensivo del tempo presente più
che del passato prossimo”. Gli esempi alludono a condizioni che prese singolarmente possono
ritrovarsi in quadri diversi, anche nevrotici (in cui è in gioco la conoscenza dell’intimità del paziente
da parte del terapeuta), ma che il loro interagire rende caratteristici della schizofrenia. Ciò su cui
Kapsambelis attira però maggiormente l’attenzione – per una ragione su cui torneremo in seguito‐
è il discorso di “Denis”, fatto di formule verbali che si collocano appunto sul piano di un “sapere”
condiviso e che sembrano testimoniare della necessità di far fronte, “costi quel che costi” (come dice
ripetutamente il paziente commentando ad anni di distanza la sua decisione di restare con la madre
dopo il divorzio dei genitori), a ciò che Aulagnier (1984) considerava come un buco nel discorso
sulle origini libidiche del soggetto.
La terza condizione esemplificativa è l’effetto di un’auto‐interdizione del pensiero non legata ad una
definita configurazione psicopatologica, discussa attraverso il resoconto del lavoro con un paziente
di origini asiatiche, “Li”; una dinamica, quella dell’interdizione del pensiero, che è stata a sua volta
oggetto di particolare attenzione da parte di Aulagnier (cfr. soprattutto 1976). È così che trovano
espressione tanto la tesi centrale quanto l’argomentazione principale dell’articolo: anche negli
psicotici il trattamento riserva peculiari momenti in cui la psicosi manifesta, non solo per la sua
natura “a cielo aperto” ma per la condizione di incontro data dal trattamento, la propria verità, sia
dal punto di vista dello specifico funzionamento, sia da quello che sembra rimandare ad un evento
“storico” nucleare e fondatore, in cui “qualcosa dello sviluppo del pensiero” ha comportato “il
rischio di una perdita vitale dal lato dell’oggetto (di soddisfacimento), senza alcuna possibilità di
una compensazione (consolazione?) per mezzo degli autoerotismi”. In questi pazienti, per
Kapsambelis, è in gioco l’impossibilità di ciò che Racamier (1992) ha considerato come un “lutto
originario”.
L’interdirsi di pensare si manifesta in alcuni in maniera molto semplice (ad esempio con un rimando
manifesto ad una madre depositaria del sapere del soggetto e sul soggetto), in altri ‐ed è il caso di
“Li”‐, prenderà la forma del silenzio. Nel discutere la contraddizione tra questo interdetto di pensare
e “il nostro metodo di sopravvivenza alla lunga più efficace, il pensiero stesso”, Kapsambelis rileva
che la “logica” dell’interdetto sembra non aver bisogno della pulsione di morte, perché “se il
pensiero si trova interdetto come mezzo di sopravvivenza è unicamente in quanto esso appare, dal
punto di vista del paziente, come in contraddizione con la sopravvivenza”. Kapsambelis osserva
però che “perché la vita possa trovarsi, in alcune circostanze, come «naturalmente» contrapposta al
lavoro del pensare, e dunque del ricordarsi, occorrerebbe credere che «la vita», nella forza
dell’attuale che la anima, si nutra certo del passato ma anche, e congiuntamente, che questo passato
di cui si nutre sia una tabula rasa”; condizione che riproporrebbe, questa volta dal versante psicotico,
la questione del rapporto tra “attuale e produzione del passato” (Scarfone, 2006). Quando, come
nella vita psichica di “Li”, non c’è producibilità del passato perché l’attuale non è un tempo presente
in cui può a suo modo trovare posto l’anacronismo del sessuale infantile, all’io non resterebbe che
la possibilità (attraverso l’azione) di una rappresentazione fallimentare, o meglio di una
rappresentazione paradossale dell’impossibilità di quella che potrebbe essere chiamata funzione
Nebenmensch; in questa condizione l’interdirsi di pensare, ci dice Kapsambelis, rientra allora nelle
pulsioni dell’io. Una conclusione che induce ad interrogarsi sulla concezione dell’io e su ciò che è in
gioco nel porsi come soggetto di una parola e di un pensiero, cioè nell’assumere una parola “in prima
persona singolare”, occupando una posizione di “soggetto” nel senso grammaticale e sintattico del
termine, “atto di individualizzazione attraverso il quale si afferma una certa singolarità”.
L’interrogazione concerne quindi il definirsi del “soggetto” anche nella necessità di indirizzarsi a
qualcuno, “a costo di indirizzarsi a se stesso”, chiosa Kapsambelis (“… e se non ho chi mi oda, parlo
dʹamor con me”, cantava Cherubino, ricordandoci che l’“indirizzo” non può che essere, in questo
caso, un indirizzo libidico). Attraverso l’atto di “presa della parola”, come si potrebbe anche dire, il
soggetto riconosce di fronte a lui un oggetto e pone al tempo stesso le premesse perché da questa
possibilità di indirizzo, in cui il soggetto si afferma, sorga poi ciò che propriamente si riconoscerà
come “io”. È allora evidente –e dichiarato‐ che nel definire la propria posizione, dalla quale diviene
possibile individuare i “momenti psicotici”, Kapsambelis riconosce un valore specifico alla
distinzione tra “soggetto e “io”: “[i]l miglior modo di convincersi della necessità di una distinzione
tra «io» e «soggetto» è di pensare alle loro rispettive genesi. Se per quanto riguarda l’io il carattere
per così dire «endogeno» della sua genealogia non desta alcun dubbio … la genesi del soggetto è più
complessa”.
Questa connotazione “endogena” della genealogia dell’io potrebbe però essere pensata facendo
pesare al massimo le virgolette con cui Kapsambelis sospende il senso più immediato del termine,
potrebbe cioè essere pensata di fatto invertendo, rovesciando la direzione del rapporto io‐soggetto
che poco più avanti Kapsambelis ricostruisce: non un “io rudimentale” che si dota del soggetto, ma
al contrario un “soggetto” come “spazio in cui io può avvenire” (Aulagnier, 1975), come spazio cioè
che ha a sua volta trovato (presup)posto nell’indirizzo dell’altro, tra le coordinate che il movimento
identificatorio dell’oggetto‐altro‐soggetto (per dirlo con Rousillon cfr. p.e. 2004) deve aver tracciato,
creando così in un unico movimento anche la sua stessa dimensione “oggettuale”. La “genesi del
soggetto”, la soggettivazione, come risultato della dimensione intersoggettiva (non interpersonale)
di un incontro originario con l’oggetto‐altro‐soggetto, più che con le condizioni che garantiscono lo
sviluppo di un potenziale soggettuale già lì. È ciò che per altro mi pare essere implicato da quanto
ricorda lo stesso Kapsambelis, ossia che “[l]a parola, necessaria allo sviluppo del pensiero, ha
bisogno dell’acquisizione di un linguaggio e questo linguaggio è quello dell’altro, dell’oggetto, dei
primi oggetti senza di cui gli esseri umani non possono né sopravvivere né diventare umani”.
Diventare umani, appunto; seguendo la prospettiva di Aulagnier (come suggerisce a più riprese
Kapsambelis), il linguaggio dell’“oggetto” ci accoglie originariamente (“incontro originario”)
anticipandoci come “soggetto”, per creare in maniera graduale (salvo il prodursi di una “violenza
secondaria”) lo spazio per l’avvento di un io. È poi certo che, una volta creato questo spazio, l’io non
vi avviene una volta per tutte ma progressivamente (ciò che Kapsambelis definisce “evoluzione
somatopsichica”, l’essere umano in “situazione di incontro continuo con l’ambiente fisico‐psichico
che lo circonda”: Aulagnier, 1975), e il soggetto si rifonda in quel “processo identificatorio” che è
senz’altro da pensare come “ frutto dell’incontro io‐oggetto” in cui tanto il pensiero quanto la parola
sono “coprodotti” da io e oggetto.
L’accento posto sulla “coproduzione di io e oggetto”, un “fatto di incontro” da cui è indissociabile
tanto lo sviluppo del pensiero quanto l’articolazione della parola, conduce Kapsambelis ad
evidenziare, nel chiudere il suo lavoro, un intreccio molto stretto tra concezione dell’origine della
vita psichica (del “funzionamento mentale”) e concezione della relazione terapeutica con la psicosi.
È proprio perché il soggetto è “il bambino dell’incontro”, ed è proprio perché questo incontro è una
“scena primaria” in cui il paziente schizofrenico fatica a fantasmatizzarsi come bambino (restando,
nel suo fantasma, in‐fans), che ciò che succede nel trattamento, “in questo momento di incontro e di
elaborazione in comune di una storia, acquisisce in alcuni momenti una connotazione particolare,
rivelatrice della sua problematica più fondamentale”. Individuare momenti psicotici nel
trattamento dei pazienti psicotici, per Kapsambelis equivale dunque alla possibilità di trattare di
questa problematica di fondo; “trattare di”, o forse trattare con: averci a che fare, non necessariamente
trattare.
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