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Narrativa

A mia madre Attilia


Per l’attenzione al testo, i consigli e i suggerimenti ringrazio Sebastiano Giuffrida,
Hans Fravonk, Sandro Toni, Stefano ed Elena Zanoli
Lina Danielli

Il pepe di Griet

Romanzo
Bononia University Press
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40124 Bologna
tel. (+39) 051 232882
fax (+39) 051 221019

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento totale o parziale,
con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm
e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Impaginazione: Sara Celia

In copertina: © Catrin Welz-Stein, Her Garden

Stampa: Global Print (Gorgonzola - Milano)

Prima edizione: ottobre 2014


Sommario

Ago e filo  9

Il leone d’Anversa  23

Nel ventre della balena  35

Gli stivali di Rubens  45

Gioielli di famiglia  59

Nel cuore dell’ambra  75

Tangeri… Tangeri!  99

L’erba del gatto  111

La polvere d’henné 119

Mercatanti di Genova  131

Il dente d’avorio  145


La vanità della polena  155

La bottega della meraviglia  169

Nell’anno del Signore 1637  181

Giochi di specchio  199


Ago e filo

V erso la mezza mattina d’un giorno di settembre del 1583,


in un borgo delle Fiandre, una vecchia dal corpo enorme
schiuse la porta.
«Siete voi Brechtje Jansdochter, la cucitrice?», disse in un fia-
to l’estraneo passandole il fagotto che teneva fra le mani, «ecco
la nipote della vostra povera sorella».
«Figurarsi se mi piglio in casa la figlia di nessuno!», rispose
Brechtje.
«In quanto unica parente in vita tocca a voi tenerla, diversa-
mente Anversa è vicina, molto vicina, e le guardie fanno presto
a venire. Volete forse dei guai con la legge?».
La donna guardò il fagotto, da cui sbucavano due ciuffi neri
e rigidi sopra una minuscola testa: sembrava una lumaca uscita
dal guscio… una lumaca piagnucolante.
«Ma dove lo trovo il latte?».
«Non mi riguarda», e l’estraneo se n’andò.
«Domineddio, aiutami!», alzò gli occhi al cielo Brechtje,
«questi poveri piedi non ce la fanno mica ad arrivare alla mucca
dentro la stalla del mugnaio».
Mentre cercava di recuperare qualcosa per spegnere quel fri-
gnare, con la coda dell’occhio vide la propria immagine riflessa
nello specchio appoggiato alla parete. La deformità in più tra il
petto e il ventre la disgustò al punto d’alzare un braccio, pronto
al lancio del fagotto ma, sentendosi guardare truce dal vetro, il
gesto restò a mezz’aria.
Davanti a quello specchio, erano passate tutte le donne del
borgo anche solo per rimirarsi immaginando le mosse delle si-
gnore di città. Giovani e vecchie, brutte e belle, chiedevano
d’aggiustare le vesti in cambio d’una pagnotta, d’un boccale di
birra o d’un paio di zoccoli.
E proprio quella lastra raccattata chissà dove, macchiata di
marroncino e attraversata da una crepa giusto nel centro, salvò
la vita alla piccola che si chiamava Griet.
Fu la prima cliente della giornata a leggere quel nome nella
strisciolina legata alla caviglia, che pendeva dalla spalla su cui
Brechtje aveva caricato il fagotto. Circa la data di nascita, la pi-
scia aveva annacquato il quarto numero.
«Almeno le hanno affibbiato il nome giusto… quello che per
tutta la vita si portano addosso le povere e le brutte come la fi-
glia del birocciaio», commentò la parente sfilandosi l’ingombro.
Dopo due giorni la moglie del mugnaio dal naso grosso, ap-
pena giunta per una cucitura, s’accorse d’un cesto in vimine con
dentro la bambina, sistemato alla meglio ai piedi del letto che,
con attorno il filo per appendervi i mutandoni, sembrava suffi-
cientemente grande per accogliere entrambe.
«Cos’hai da guardare storta?», rispose piccata Brechtje. «L’ho
sistemata lì mica per cattiveria, ma perché così non rischio di
schiacciarla mentre dormo».
L’altra non parve convinta e, poiché si dava delle arie sen-
tendosi diversa dalle comari del borgo, cominciò a manifestarlo
senza pudore. Accarezzava le piume della gallina, cui aveva ap-
pena tirato il collo, che portava legata alla cintola con una corda
ad indicare come a casa sua si mangiasse bene. La vecchia cuci-
trice non gliela fece passare liscia e, mentre le prendeva l’orlo,
sollevò esageratamente il sottanone. Apparvero due gambe dal
colore del latte con dei segni blu, che nel centro davano sul pa-
onazzo e all’intorno erano giallini.
La superbona le pigliava di santa ragione, le carezze del ma-
rito dal naso grosso, quando lui tornava dall’osteria con il passo
barcollante e negli occhi una fiamma cattiva.

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Quando i piedi della piccola superarono il bordo del vimine,
fu messa a dormire su quattro assi stese direttamente sul pavi-
mento con sopra un cumulo di stracci ripiegati a far da cuscino
e materasso.
Lì rimase Griet, inverno dopo inverno, estate dopo estate,
biascicando qualche parola che capivano solo le pulci: le intime
di casa, le sole a dare presenza e animazione a quel luogo, in tut-
to e per tutto morto.
Le galline ogni giorno, puntualmente, la svegliavano con ri-
petuti, delicati becchi sui piedi perché era lei che doveva farle
uscire dallo steccato del recinto, appena fuori dall’uscio, sulla
strada verso Anversa. E la parola Antwerpen, pronunciata dalle
contadine del borgo sventolando il palmo destro quasi si trat-
tasse d’una cosa di gran lusso, non pareva il nome della vicina
città bensì quello d’un luogo irreale, per loro lontano quanto la
luna. Si scioglieva in bocca quel suono e Griet scandiva «Ant wer
pen», di notte, sentendo il rumore dei passi pesanti di chi saliva
i gradini in legno della scala esterna del vicino molino. E il rim-
bombo, quasi per incanto, si spegneva.
Se, invece, gli scricchiolii metallici della ruota chiodata face-
vano sentire i loro gemiti, pensava che il diavolo in carne e ossa
con le chiavi in mano fosse lì lì per infilarle nella toppa, entrare
e portarla dritta all’inferno distesa sopra le sue corna.
«Antwerpen, Antwerpen», ripeteva allora a gran voce sve-
gliando la parente.
«Sei una bastarda che non mi fa dormire», rantolava la vec-
chia mentre la cuffia le andava di traverso e uno sputo scendeva
sul pavimento.
Però quel nome, come quello d’una mamma inventata, dava
a Griet il coraggio di spingersi fuori nell’ultimo squarcio di
buio. Sollevava gli occhi verso le pale del molino, simili a due
uccellacci a riposo, e raramente guardava le stelle che illumina-
vano solo pochi alberi striminziti su un suolo appassito. Le pia-
ceva, invece, sentire tra i denti il gusto della terra del bosco che
sapeva di funghi. Chissà che buoni fatti in padella per insapori-
re il petto delle chiocce!
Ma la parente teneva le galline solo per le uova e, una volta
ch’erano diventate vecchie, le passava al prete tanto per ave-

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re, in mancanza d’altro, qualche indulgenza da mettere sotto
i denti.
«Se non vuoi mangiare a tradimento, fai la sguattera e porta
dentro qualche centesimo», ripeteva Brechtje.
Ma, al di là dei quattro muri della casupola, c’era solo il vuo-
to e nessuno da quelle parti cercava una lavapiatti visto che il
padrone dell’osteria se la cavava con una vecchia serva. A quella
età, diceva lui ai clienti, anche se l’avesse regalata, non faceva
gola a nessuno e così nella locanda non sarebbero nate gelosie
per una femmina.

A quindici anni Griet con in corpo il perenne brontolio del-


lo stomaco poteva inghiottire l’intero carretto che, guidato dal
garzone, s’avviava per portare la farina al forno di città lascian-
do sui sassi un odore capace di mangiarsi anche la nebbia fitta
dell’alba. Osservati a distanza i tre cesti di fitto vimine, stipati
di sacchi di farina, e la figura del ragazzo, curvo per la fatica del
traino, diventavano sempre più piccoli e simili a una formica
col carico sul dorso. Parevano sparire tra le pieghe della terra
mentre lei ritornava a guardare le pale del molino che, con un
giro d’ombre, facevano da orologio del borgo.
«Chissà quanto tempo impiega il garzone per arrivare sino
ad Anversa? E là come si sveglia la gente? Guardando il cielo co-
perto di nubi», chiedeva e si rispondeva.
Lei si levava all’alba per lavorare tutto il santo dì. Accanto
alla finestra, cuciva con sulla spalla sinistra la roba da sistemare
e sull’altra il lavoro fatto. Per non crollare dal sonno sui panni
sporcandoli con il moccio, accelerava i punti e la velocità delle
dita la teneva sveglia.
«Ma guardatela… è secca e curva come un chiodo di carro»,
ridacchiava la parente con la comare di turno trascinando la ra-
gazza verso lo specchio.
«Come un chiodo di carro», assentiva l’altra perché tutte nel
borgo avevano paura della vecchia Brechtje. Un tempo ragazza
senza fidanzato, poi donna senza marito e, adesso, una vedova
completa che guardava bieca le altre fortunate con un ammas-
so di fili scuri infilati negli aghi, stretti sull’angolo sinistro della
bocca, quasi fosse una colata di fiele.

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«E ha gli occhi spiritati del diavolo, neri di pece», insisteva
con la seconda o la terza cliente.
«A me, invece, sembrano blu», azzardava questa.
«Sì, certo, blu come il mare in tempesta che si mangia i no-
stri marinai e fa nere le facce delle loro mogli», concludeva la
vecchia.
«Magari le andasse di traverso un ago!», augurava Griet alla
parente tra sé e sé, «così da quella pancia uscirebbero gli spiriti
maligni». Ma, per la paura di venire punita dal dio del prete, su-
bito si faceva il segno della croce e biascicava un atto di dolore.
Sorpresa sull’atto dalla levatrice del borgo, venne presa per
un’unta dal Signore che in convento avrebbe mangiato a sbafo e
imparato a fare i merletti.
«Figurasi… e non fatemi parlare… poi io non so come por-
tarla in questi beghinaggi», commentava Brechtje.
A parlare di luoghi santi escono i diavoli che mettevano gril-
li cattivi nella testa della ragazza. Affamata e piegata come un
uncino a furia di stare sull’ago mentre piovevano sulle sue spalle
botte, scherni e minacce, la poveretta arrivò a pensare che avreb-
be ucciso la parente. Magari facendo leva sull’aiuto del garzone
del mugnaio che con il bidente mentre la vecchia dormiva…
Carino il ragazzo, figlio d’un contadino e di nome Jan, quando
al rientro dalle consegne di città picchiettava il vetro della fine-
stra per salutarla. Di domenica, invece, passava e passava davan-
ti alla casa perché lei potesse ammirare le braghe lunghe sino al
polpaccio, le calze viola, la giubba di panno color ruggine, la
tracolla di vimini con dentro una fetta di pagnotta e il berretto
nero tra le mani. Però fare fuori Brechtje non passava per la capa
di Jan, convinto che sarebbe finito in galera con gran dispiacere
di sua madre.
Si potrebbe inventare, diceva col pensiero Griet, che qual-
cuno di notte, dopo essere entrato in casa, avesse commesso il
massacro. La cosa, però, non suonava credibile. «Ma tu», do-
mandò il garzone quella volta durante un loro incontro nella
stalla, «senti suonare le campane dentro la tua testa quando ti
monto?».
Intanto si tirava su le braghe marroni e le passava una fetta
d’un pagnotta fresca, rubacchiata dal cesto delle consegne, che

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lei ghermiva tra denti ancora rancidi di sesso. La cucitrice non
ci mise molto a capire che rispondendo uno squillante e convin-
to Sì, come il maschio s’aspettava, avrebbe guadagnato la metà
d’un uovo sodo con una pioggia di briciole, miste a pezzetti
gialli di tuorlo, anche bella a vedersi mentre scendeva lungo la
camicia macchiandola.
«Ma tu non ridi quasi mai?», le chiese un giorno che faceva
caldo, «invece le femmine, quelle che si chiamano Margaretha
oppure Greta, quando le vedo scendere al porto in compagnia
dei loro parenti hanno sempre un viso tutto allegro».

Jan, per vantarsi, non faceva che parlare del porto d’Anversa.
«Dovresti vederlo, Griet, mentre entra nel fiume Schelda…
lo fa come un buon marito che si cala nel letto della propria mo-
glie, pronta ad abbracciarlo!».
Così lei s’era convinta che nel porto potesse esserci davvero
tutto anche l’odore dimenticato di sua madre.
«Non farti illusioni», diceva l’esperto, «da quelle parti c’è
solo una gran puzza di pesce».
Ma la ragazza pensava che, chissà, forse lo sguardo di suo
padre potesse essere come quello, azzurro, d’un marinaio visto e
non visto in un lampo di felicità.
«Va là», proseguiva il garzone, «i marinai hanno delle facce
bruciate dal sole e dal sale, con certe mani da far paura. Alcuni,
sai, portano guanti di cuoio per non far capire chi sono, una
volta sbarcati».
«Continua, continua», lo incitava mentre si perdeva con oc-
chi sgranati sognando una foresta di velieri e galeoni ormeggiati
fianco a fianco, separati solo da stretti passaggi per le chiatte.
Il giovane, puntigliosamente, precisava che le navi dalle vele
grosse erano quelle degli spagnoli mentre inglesi e zelandesi ma-
novravano imbarcazioni snelle da quando il fiume Schelda era
stato chiuso dagli olandesi e, di conseguenza, anche la porta
d’Anversa. E lei immaginava di vedere dal vivo l’arrivo dei va-
scelli, avvistato in lontananza dall’intrico degli alti alberi, e poi
lo sbarco delle mercanzie migliori, giunte dai quattro angoli del
globo.
Intanto Jan, che aveva iniziato con una bella strizzatina al

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capezzolo della cucitrice, a testa china e con ampi giri del brac-
cio, blaterava eccitato: «Sapessi come sono grossi quelli della
polena sulla prua di quella nave, ancorata vicino alla banchina
in legno, con tre ordini di remi per quaranta vogatori. Eh, non
a caso tutti la chiamano la Madonna del porto! Seni da balia,
Griet, da linguata!».
«E i miei capezzoli, come sono i miei capezzoli?».
«Non li vedi quando ti lavi?».
«Non li guardo mai».
«O non ti lavi mai!».
«Dai, dimmi come sono?».
Lui ci pensò e poi: «I tuoi guardano le stelle», e con un sor-
riso spiegò: «oh, non sarai mica invidiosa dei seni della polena?
Quelli non servono a niente perché le navi le spingono avanti le
braccia dei rematori, o le vele quando tira il vento».
La carezzò sul viso e aggiunse: «Sai, le statue sulla prua si pi-
gliano solo gli schiaffi delle onde e indicano a noi, che non sia-
mo capaci di leggere, da dove proviene l’imbarcazione».
Ma lei altro voleva sapere: «In che modo giungono le merci?».
Jan, a polsi uniti e a mani divaricate, raffigurava come le
navi, giunte alla foce della Schelda, facessero rotolare sulle spalle
dei facchini barili e recipienti. Le merci più grosse venivano sca-
ricate sulle banchine per mezzo di gru in legno, manovrate da
uomini rinchiusi in una gabbia al volante d’una grande ruota.
«E dopo?».
Le dita del garzone si muovevano nell’aria per indicare le
barche che, risalendo il fiume, portavano i prodotti nei rispet-
tivi canali: quello dello zucchero, del burro, del pepe e delle
spezie.
Poi con un bel crescendo concludeva: «Così da Gouda arri-
va il formaggio e da Harleem la birra Jopenbier, cotta nell’alcol
perché l’acqua è sporca».
A Griet sarebbe bastato anche solo vederlo il cibo esposto
in cumuli torreggianti dal precario equilibrio nelle vetrine del-
le botteghe, raccolte attorno al Castello. Oppure annusare gli
odori, emanati dalle miracolose pozioni degli speziali, preparate
all’istante contro il male di pancia o per placare quella tosse che
ogni tanto sconquassava gola e polmoni.

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Quanto a Jan, ben altro aveva annusato nei luoghi più segre-
ti, dove si faceva un traffico proibito… un commercio…
«Che commercio?», domandò lei.
L’altro non rispose preferendo raccontare la festa che s’inau-
gurava ad ogni imbrunire quando, accese le lanterne sulle fac-
ciate delle case, le vie s’inghirlandavano di collane luminose.
Forse, se fosse stato ricco, una collana vera Jan gliela avrebbe
pure regalata, visto che sapeva muoversi nel quartiere dei taglia-
tori di diamanti, tra le viuzze dalle porte tutte uguali, senza lan-
terne, chiuse dentro edifici in un labirinto di scale.
«Non credo che uno come te…», gli disse con un sorrisetto.
«Ah, non ci credi? Allora vallo a chiedere a Sebastian lo
spagnolo».
«Sebastian… chi?».
«Uno arrivato dalla Spagna ad Anversa con la fame in corpo,
due dita in meno nella mano sinistra e il tarlo di fare fortuna per
via di certi traffici. Di lui, al porto, tutti hanno paura anche di
fare il nome perché va per le spicce con gli spioni».
«Che traffici fa lo spagnolo?».
E per non farsi mancare la risposta, questa volta, gli strinse
i genitali, che i giovani delle Fiandre portano in evidenza come
un sacchetto gonfio e goloso.
«Beh, è considerato il principe dei ladri del porto e punta
grosso, sai, al mercato…».
«Quale mercato?».
«Ma non lo so, a me l’hanno detto gli altri. Io arrivo solo a
masticare, quando l’arraffo, qualche granello di pepe che un po’
di brio te lo dà».
«Anch’io lo voglio il mio granello… so già che mi piacerà…
sì che mi piacerà giocarci con la lingua».
«Se diventi un po’ grassa, lo trovi un marinaio disposto a
sfilare per te dal sacchettino rosso, che porta legato alla cintola,
qualche chicco, così lo pilucchi tra le labbra sottili».
«Sono davvero tanto sottili?».
«Come le crepe lungi i muri dei canali».
Griet iniziò a ridere, prima sommessamente, poi il riso s’allar-
gò mostrando gengive rosee e candidi dentini con gli incisivi da
roditore. Infine, la risata diventò sempre più larga e tonante per-

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ché, dopo ogni pausa, pigliava un nuovo spaventoso suono: un
grido, come il rimbombo della paura sulla superficie del pozzo.
Un altro giorno nella stalla faceva tanto freddo e loro s’av-
vinghiarono vestiti, per scambiarsi un po’ di calore quando Jan
le soffiò nell’orecchio: «Adesso sarai tu a tirare il collo alla gal-
lina per metterla attorno alla tua cintola. La moglie del mu-
gnaio dal naso grosso è morta e, alla fine di gennaio, Griet sarà
la sposa del vecchio. Il prete ha detto che ha combinato tutto
Brechtje».
Lei tacque, tornò a casa, si mise cucire sino alla sera pungen-
dosi a ripetizione le dita.
«Fuggi», disse, di notte, a se stessa e alle pulci che correvano
lungo il pavimento, «scappa via all’alba sul carretto in compa-
gnia dei sacchi di farina, se non vuoi fare la fine di quella pove-
ra fiamminga, madre di quattro figli, stroncata dalle botte d’un
marito gonfio di tanti boccali di birra da coprire il tratto di stra-
da sino ad Anversa».
Doveva fuggire e arrivare nel porto, dove nessuno mai l’a-
vrebbe scoperta.
Sarà come giocare a nascondino, pensò, basta avere una map-
pa del luogo. Cucendo insieme spezzoni di frasi del garzone, se la
costruì e trovò le tane in cui rifugiarsi sino al “liberi tutti”.
Girandosi due o tre volte sopra gli stracci, alzò l’asta del so-
gno mentre, a distanza, dopo tre rintocchi di campane la guar-
dia marina annunciava le condizioni del tempo, del mare e i
cambiamenti improvvisi del livello delle acque.
Alla quarta girata, si rese conto che nessuno di casa l’avrebbe
cercata. E il futuro aveva il vantaggio d’essere in ogni caso di-
verso dall’oggi, in quanto esiste sempre un meglio per il peggio.
A occhi aperti sognò l’incendio del molino: una pioggia furiosa
di farina accesa in un turbine di braci, tremenda e magnifica,
che portava pure la casa di Brechtje dentro la fiamma. Nel dor-
miveglia, vide se stessa salire su una nave ed era felice perché chi
s’imbarca prima o poi arriva a un porto. Così, pacificata, s’ad-
dormentò mentre correva l’anno 1598.

Dicono che il tempo più lungo sia quello passato in attesa


dell’arrivo della gioia. E per Griet le ore non scorrevano mai.

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Provò a consumarle pulendo con slancio il pavimento, schiac-
ciando le pulci, stanando senza odio né schifo i topi. Il dio del
castigo avrebbe perdonato la sua fuga?
«Se sarai brava, ti guadagnerai la gioia», ammoniva il prete.
Dopo i lavori di casa, iniziò a prestare maggiore fiducia alla
scaramanzia che ovunque coglie i segni della buona o della catti-
va sorte. Se scorgeva, per esempio, il matto del borgo con l’orec-
chio appoggiato sulla corteccia del tronco per ascoltarne la voce,
era proprio contenta. Al contrario, l’inattesa visita dell’amica
senza denti di Brechtje portava certamente male per via di quei
fischi sordi che accompagnavano gli sguardi obliqui. Quando
usciva dalla porta, fatti tre passi, tornava indietro per ripeterli
identici; e i lavori di cucito dovevano pendere tutti dalla stessa
parte, quella a sinistra della seggiola. Insomma, nel corso delle
successive tre giornate di quel fatale gennaio non combinò nul-
la. Tanto che Brechtje le scaraventò addosso una ciotola di me-
tallo. Lei parò il colpo. Buon segno!
Poi Jan le disse: «Non credere a tutte ’ste baggianate. Aspet-
tiamo solo il momento buono per la tua fuga e guarda cosa ti ho
portato per tenerti compagnia nel frattempo».
Sul palmo le mostrò un mucchietto di granelli di pepe, sgraf-
fignati dalla tasca d’un marinaio ubriaco che, dentro la locanda,
faceva pendere il suo sacchettino come un invito a prenderlo.
«Una metà l’ho tenuta per me mentre questa è tua».
All’alba del giorno previsto per la fuga, nell’istante in cui
col dito spinse l’uscio, la ragazza allungò l’intero braccio per af-
ferrare un rametto secco dell’alberello di pesco. Lo guardò, per
l’ultima volta.
Al garzone fece un cenno e lui rispose con la testa che la
strada era libera e pronto il pesante panno nero che l’avrebbe
coperta, come un invisibile fantasma, sul carretto. Ma Griet,
d’improvviso, tornò in casa per uscirne in un baleno con il gran-
de specchio coperto da un telo di fiandra. Ci saltò sopra a piedi
giunti per farlo a pezzi.
«Cosa fai? Il rumore sveglierà la parente!», la rimproverava
Jan.
Come non l’avesse udito, lei prese un frammento e se lo
mise davanti agli occhi. Le apparvero… slavati. Cambiò allo-

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ra posizione per osservarli sotto una luce diversa sino a quando
non si rivelarono belli d’un blu intenso come un pigmento da
pittore, usato per colorare una delle medaglie sulla ruota d’un
pavone.
«Adesso sono pronta a vedere il mondo. Dai, che si parte», e
si mise in bocca il primo granello di pepe prima di rannicchiarsi
sotto la copertura.
Poi chiese: «Dove mi porti, Jan?».
«Te lo dirò appena giunti in città».
«Giusto», sentenziò con orgoglio, «se non hai il coraggio di
rischiare, rimarrai per sempre una serva».
Dopo un breve tratto di strada, le ruote si fermarono. Griet
sollevò la testa e, liberando uno spiraglio, riuscì a vedere il
giovane che, lungo il ciglio del campo innevato, sistemava su
un tappetino una grossa pagnotta, un coltello e, accanto, un
libro con al centro una piccola croce in metallo. Passato un
niente, arrivò una giovane donna, coperta alla meglio, rossa
di capelli, che spingeva una vaccherella maculata di bianco e
marroncino. Era la prima cliente dell’improvvisato venditore
ambulante. Poi ne giunsero altre quattro che, una volta tastata
la crosta, tiravano fuori dalle tasche uno stuiver a testa per pas-
sarlo al garzone. Una volta sfiorata devotamente la fetta sulla
fronte, intanto che s’avviavano, la prendevano famelicamente
a morsi.
«Cosa ci fai con tutte ’ste monete?», chiese lei, «le raccogli
per farti bello con una di città?».
«Le consegno a mia madre, io! Non le spreco certo sul ban-
cone di qualche locanda per scolarmi uno o due boccali di birra
a seconda del guadagno».
«Ma che bravo!», lo canzonò Griet. «Però la pagnotta, se po-
tesse parlare, direbbe che è stata rubata, ieri, a qualche signoro-
ne di città incapace di contare per bene le cose sue».
«Cos’hai da dire tu?».
Ma questo inizio di litigio fu subito interrotto dal gesto del-
la ragazza che con l’indice puntò tre teste di giovani, alte dieci
volte i cespugli.
Sbucavano da dietro una radura coi piedi ben saldi su men-
sole di legno. Si divertivano i trampolieri mentre lei, in piedi

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sul carretto, pigliava il vento freddo sulla faccia. A destra, vede-
va un sentiero a serpentina che s’inoltrava tra la fitta boscaglia
per raggiungere una casa. A sinistra, i canali mostravano tante
piccole crepe.
Come il cuore di chi se ne va, pensò la cucitrice.

D’improvviso, un rumore di cavalli allarmò l’udito e di lì a poco


squarciò la vista. Jan, d’un balzo, spinse il corpo infagottato di
Griet sopra i canestri. Lei sentì lo sgraffio del vimine solcarla
dalla fronte al mento. Lui si pose lungo il ciglio della strada con
il libriccino di preghiere in mano.
Arrivarono degli armigeri che roteavano la frustra, con gli
stivali aizzavano i fianchi dei loro cavalli e i berretti neri sopra le
tuniche rosse si stagliavano nell’aria. Passarono a fianco del car-
retto mentre, dallo spiraglio, la ragazza sbirciava quegli uomi-
ni dal viso senza età, freddo e implacabile come l’inverno delle
Fiandre. Per l’impressione affondò la testa tra i sacchi di farina
quando sentì un raspare attorno alle ruote. Attraverso le fessure
della fiancata vide quattro cani all’apparenza feroci, ferocissimi,
forse addestrati per commettere una carneficina non appena un
armigero avesse lanciato l’ordine d’attaccare.
«Jan!», mormorò, e temette per un attimo che i levrieri lo
sbranassero come un cinghiale.
Dalla boscaglia emerse una coppia di cavalli da tiro, di ugua-
le statura e tra loro, in linea orizzontale, trovava spazio una ruo-
ta, stretta da catene su entrambi i lati.
«Mio Dio, aiutalo!», implorò il garzone.
Lei, udita l’invocazione, disse: «Jan, fingi di pregare per non
farti scoprire mentre mi racconti cosa capita».
Il giovane, con la voce rotta, rispose che dentro il cerchione
c’era il corpo mezzo nudo e insanguinato d’un povero cristo.
Lo stavano strascinando verso il centro del campo anche se quel
disgraziato pareva volersi spingere verso la strada come se que-
sta fosse la salvezza. Aveva braccia e mani forti tanto da opporsi
alla direzione imposta dalla ruota. Il suo corpo, deformato dallo
sforzo, continuava a non cedere.
«Non ce la faccio, Griet, a guardare questo supplizio».
«No, Jan, lui è uno della nostra terra. Non lasciarlo solo».

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Il garzone, a fatica, ripigliò a dire che stavano arrivando sette
uomini, apparentemente contadini per via delle vesti, seguiti da
altri sei con tra le mani fasci di paglia secca.
«I primi portano in spalla una lunga asta mentre gli altri al-
zano delle pertiche, appoggiate su quattro forcelle, per fare una
specie di graticola sopra i fuscelli».
«E gli armigeri?», domandò la ragazza.
Gli uomini dalla tunica rossa, scesi da cavallo, parlavano tra
loro in modo tranquillo. Uno si staccò dal gruppo e venne ac-
canto al carretto. Griet temette d’essere scoperta. Ne aveva sen-
tite tante, al borgo, di storie su donne violentate, vecchi e bam-
bini sventrati, presi d’assalto dai soldati come agnelli rifugiati
nei loro ovili. Invece, quello, i cani si mise ad accarezzarli!
Trattano gli uomini peggio delle bestie, gli spagnoli!, pensò
lei.
Poi l’amante degli animali, udito un richiamo da parte degli
altri, si diresse verso di loro.
Il garzone sussurrava che gli armigeri coi movimenti delle
teste facevano capire d’avere deciso il daffare.
«Ma quale, Jan?».
«Non so, appiccare un fuoco sotto la graticola, o…».
Le tuniche, adesso, erano a ridosso dell’uomo dentro il cer-
chione. Ordinarono a due contadini di legargli mani e piedi con
delle cinghie che erano state loro consegnate.
«Stanno issando il palo, Griet!».
«Chi si presta a farlo?».
«Quelli dei nostri villaggi!».
«Oddio!… E gli armigeri stanno lì a guardare?».
Le tuniche rosse, dopo ampi giri, s’allontanarono. Gli zoc-
coli dei cavalli non sollevavano polvere dal suolo umido di neve
intanto che i levrieri, ebbri d’odori, fremevano correndo dietro
i loro padroni. Griet, in piedi sul carretto, vide la pertica al-
zarsi, lenta, tra il sordo cigolio delle pulegge con il corpo che
saliva verso l’alto per l’ultimo pesante volo. La ragazza cacciò
un urlo… ma l’aria non rimandò quel suono che era rimasto,
strozzato, nella gola. Piombò un silenzio dopo poco spezzato
dal grido della donna rossa di capelli, giunta di corsa sul luogo.
Portava ancora stretta al seno la fetta di pane che, ai piedi della

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croce, s’inzuppò di sangue mentre lei abbracciava quel legno.
Una appresso all’altra, arrivarono altre persone.
«Era un uomo dalla mente libera e le mani forti», disse uno
che lo conosceva. «Un fabbro denunciato dal padrone della bot-
tega per avere detto che i cattolici erano ricchi, corrotti, amanti
delle guerre e papalini».
«E i contadini di queste terre», aggiunse un altro, «piegano
la testa come servi vigliacchi davanti agli ordini dei mercenari in
tunica rossa. E, vergogna!, in tredici accettano di presentarsi sul
luogo del martirio, in onore e riverenza del nostro Redentore e
dei dodici apostoli».
Griet avvertì l’impulso di unirsi a loro e stava per scendere
dal carretto.
«Andiamo via», la fermò Jan, «noi non siamo eretici come
quel poveretto».
Intanto che le ruote si muovevano, lei continuava a tenere
il capo rivolto verso il palo, sempre più indistinguibile a filo
dell’orizzonte se non fosse per quella ruota di corvacci attorno
alla sommità. E, quasi sentisse o volesse provare lo strazio delle
unghiate, si toccava e ritoccava il volto segnato dall’intreccio del
vimine. S’accucciò rimanendo in perfetto silenzio, solo turba-
to da un ripetuto gesto meccanico della mano sugli occhi quasi
volesse cancellare l’orrenda visione.
A un tratto, ricordò d’avere con sé i granelli di pepe: li mise
in bocca uno dopo l’altro e, passato un po’ di tempo, avvertì
lungo il corpo un’energia mai conosciuta. Quasi un miracolo,
pensò.

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Il leone d’Anversa

I l viaggio proseguì sino ad Anversa, dopo avere superato il pic-


colo castello di Schoonselhof con attorno la casa colonica del
signore costruita su terre strappate alle paludi e non distante da
un piccolo lago, che entrava nella città.
Griet guardò lo scorrere del fiume Schelda che s’insinuava
tra i quattro porti interni abbastanza profondi, capaci di soste-
nere i vascelli e con uno spazio ristretto nel mezzo, fatto apposta
per le entrate e le uscite. Jan, per darsi l’aria d’essere una buona
guida, con un braccio teso indicava da una parte le acque flu-
viali, che proteggevano la città, e mediante l’altro le grosse mura
lungo le quali scorreva un canale di cinta.
«Vedi come è compatta Anversa!».
Ma lei non guardava più nulla perché, a bocca aperta, si
mangiava l’aria e la neve che cominciò a infiorare la strada. In
piedi sul carretto, sventolava il panno nero quasi volesse con-
quistare nel più largo degli abbracci l’intera città, le botteghe
e le strade percorse da branchi di bestiame, che attraversavano
ponti mobili. Con un ampio gesto salutò le serve che, sospese
sulle scale, lavavano muri e vetri, avvolte dal riflesso argentino
dell’acqua, dal verde degli alberi, dal rosso delle case.
«Antwerpen», gridava per quanto fiato avesse in gola, «final-
mente sono qua!», e non la finiva più di mandare baci all’intorno.
Jan fermò il carretto e con un’espressione più che seria sibi-
lò: «Smettila, esaltata, che figura faccio agli occhi dei passanti!».
La ragazza rideva poi, con le labbra sporgenti, fece udire:
«Perché non sei rimasto qui, garzone, a scrollarti di dosso la fa-
rina e tentare fortuna?».
Il giovane riprese il cammino facendo finta di niente mentre
un sorriso smorto piegava all’ingiù gli angoli della bocca.
In un vicolo dai ciottoli grigi un gruppo di suonatori dalle
scarpe a punta come il berretto avevano le guance turgide per il
troppo soffiare dentro corna di bue.
D’un balzo Griet fu tra loro. Si mise a danzare e gli zoccoli
in legno parevano pianelle mentre lei inventava passi aggraziati
sollevando il bordo della gonna per scoprire le snelle caviglie.
«Sei contenta, vero?», domandò il ragazzo un po’ invidioso
di tanta sfacciataggine che regalava la felicità d’un momento.
«Sento una scossa di gioia, Jan, una scossa che mi corre dal-
la testa ai piedi. E ti giuro che io diventerò una cittadina della
magnifica città d’Anversa e al mio passaggio sventolerà lo sten-
dardo della città con sopra il leone».
«Esagerata… anche qui non sono mica solo rose e fiori»,
mormorava lui prendendo la direzione che conduceva verso il
forno nella piazza del mercato.
«E tu cosa ne sai dei fiori?».
«Li ho visti nei negozi che li vendono».
«Allora portami là che mi piacciono tanto».
«Ascolta, tu sei una cucitrice e puoi solo trovare lavoro nelle
botteghe dei rammendatori orientali lungo il porto. Loro, però,
non dicono una parola nella nostra lingua… tanto a te cosa im-
porta, visto che non parli quasi mai?».
Dopo un lungo silenzio la ragazza rispose con un tono di
voce basso: «Jan non sento più la scossa di gioia».
Poi, d’improvviso, si mise a gridare: «Non voglio tornare tra
le pulci e non vedere la luce. Non voglio, non voglio, voglio
andare tra i fiori», e non smetteva di ripetere la frase, del tutto
incurante dei passanti che la guardavano stupiti.
Jan, spaventato, le mollò due schiaffi in pieno volto.
«Alla terza che combini, giuro che ti scaravento nel canale.
Morirai annegata come tua madre, che era una puttana».

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Le tre campane della chiesa di San Paolo balzarono dai loro
piedistalli in frenetica melodia, gonfie di cielo, sciogliendo
nell’aria il peso delle armonie rosate della chiesa.
«Non è vero, maledetto! Non senti che le campane dicono
che non è vero, maledetto, e che tu sei un bugiardo?».
«Maledetta e bugiarda allora sarà Brechtje che l’ha racconta-
to anche alle pale del molino. Tu sei pazza come tua madre che
andava in giro per il porto ubriaca e ti ha abbandonata».
Lei, scesa dal carretto, s’allontanò. Lui s’era liberato della
pazza.
Per circa un decimo della lunghezza del muro attorno alla
riva del fiume, continuarono a darsi le spalle.
Chi si voltò per primo?
«Sei stato tu, t’ho visto», proclamò la vincitrice mentre sca-
valcava la fiancata del carretto.
«Se m’hai visto, allora sei tu ad esserti girata per prima».
«Io, invece, dico che sei stato fortunato perché ero lì lì per
tornare dai suonatori e unirmi a loro così, almeno, me la spas-
savo un po’».
«Contenta te», replicò Jan.
Poi, con gli occhi bassi e il viso tutto rosso, disse: «Mica sono
vere, sai, le cose brutte che ho detto su tua madre».
Quando il carretto giunse davanti al forno, il garzone scaricò
i sacchi di farina e insieme a Griet si mise ad aspettare il suono
della tromba che annunciava alla gente il pane pronto. Udito
il segnale, mise le pagnotte ancora calde nel cesto ed entrambi
s’avviarono verso il palazzotto del migliore cliente di città, non
distante dalla cattedrale e dagli edifici delle gilde.
Jan toccò il batacchio; lei rimase, nascosta, dietro la colonna
che incorniciava la porta.
Dopo la consegna alla serva che aprì l’uscio, entrambi si di-
ressero al porto e Griet fece il suo ingresso nella bottega d’un
rammendatore orientale. Costui fu ben felice di prendersi una
lavorante per un piatto d’erbe al giorno senza sale e spezie e un
materasso di fortuna collocato nel sudicio retro, dove dormiva-
no altri cinque.
Lei cuciva sino a sera ma, prima di accucciarsi, buttava il
naso fuori. L’odore del porto, tanto sognato, saliva lungo le na-

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rici mescolato di sapori dolci e putridume. Vagava con occhi
curiosi lungo le banchine e le sue mani erano leste nell’arraf-
fare qualcosa dalle borse dei passanti distratti ma, quel dì, un
marinaio la sorprese sul fatto. Spaventata da chi minacciava di
denunciarla, pagò in natura al mascalzone il prezzo del suo si-
lenzio dentro una stanza di locanda.
Intanto che l’uomo stava per andarsene, Griet ricordò un
nome e, con un tono di voce fermo, disse: «Sono a servizio di
Sebastian lo spagnolo. Faccio dei lavoretti per lui e non gli pia-
cerà sapere che tu…».
L’altro s’avvicinò al letto e chiese: «Cosa vuoi per tenere la
bocca cucita?».
La ragazza sorrise mentre rispondeva: «Te la caverai portan-
domi una manciata di pepe… però, non farmi aspettare troppo
e non tenere il palmo stretto».
Una discreta quantità di granelli scivolarono dalle mani del
marinaio in quelle di Griet che, sulla via del ritorno verso la bot-
tega degli orientali, estrasse il primo chicco. Dopo avere inspi-
rato il profumo starnutì per due o tre volte poi uno tirò l’altro.
Considerati gli effetti, dovevano essere d’una diversa e migliore
qualità rispetto al pepe che le diede il garzone del molino. Alla
ragazza sembrò di sentire la testa più lieve e quella stessa sera
divenne saporita e toccata da uno spruzzo d’allegria. Avere un
compagno di tale portata, che se ne restava chiuso in un sac-
chetto, senza occupare spazio o pretendere nulla, era un mira-
colo. E, procurarsi la spezie dai marinai, che la guardavano con
occhi accesi di desiderio, non sarebbe stata un’impresa difficile.
Dopo essere entrata di soppiatto nella bottega, mentre i lavo-
ranti se la dormivano di grosso, prese una manciata d’aghi e fili,
salutò tutti silenziosamente con un cenno e fu sulla strada.

S’accostò alle femmine del porto che si vendevano in cambio


d’una bevuta di birra. E da loro imparò il decalogo della so-
pravvivenza: guardarsi alle spalle; non fidarsi di nessuno; tene-
re la bocca cucita; riconoscere al volo gli appartenenti a fazioni
nemiche; e capire dal colore della pelle la presenza di malattie.
Così sino alla decima regola, ammesso e non concesso, che fosse
questa a chiudere la lista.

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La fatica di badare a se stesse induriva i lineamenti delle don-
ne trasformando ogni volto in altrettanti ghigni come un mar-
chio o un destino. E più d’una, nel tentativo di sciogliersi dalle
catene, finiva con le vesti strappate nelle acque del canale di cin-
ta lungo le mura. Alla mattina, se la disgraziata non era piom-
bata giù con una mola al collo, il corpo galleggiava tra gli scarti
buttati dalle imbarcazioni. Quando il cadavere veniva portato
all’asciutto, a Griet mancava la terra sotto i piedi nel vedere
quelle gambe scolorite, e la massa dei capelli ridotti a filamenti,
e le carni arabescate di sporcizia.
Però il porto manteneva una propria bellezza e nulla era più
attrattivo per lei che stordirsi tra volti, andature, fogge in una
mescolanza di pronunzie e gesti. Per ore se ne stava lì con il naso
in aria sino a quando, un giorno, lo mise dritto e fiutò cosa po-
teva fare. Dopo avere sistemato una cassetta rovesciata con so-
pra ago e filo accanto alla porta dell’osteria più frequentata, si
pose in attesa. Ed ecco che giunse il primo cliente con in mano
un bottone della giubba da riattaccare; poi seguirono altre ri-
chieste di cuciture, sempre eseguite dalla ragazza con precisione.
Fissava le pennette sui cappelli, rammendava strappi e, a seguito
degli sbarchi, le toccò riadattare la cintura delle braghe al giro
vita dei marinai diventati secchi. Tempo di farsi una bevuta al
banco, e l’avventore trovava tutto pronto.
A lavoro concluso le dita di Griet, gonfie per il freddo, af-
ferravano pochi centesimi. Però era libera, vedeva la luce e si
chiedeva quanto dovesse guadagnare per comprarsi un biglietto
d’imbarco. E cosa importava conoscere la rotta o la meta della
nave? Lei si sarebbe spinta sino al punto, dove si trovava la pole-
na, per dare un buffetto sul legno dipinto così d’avere un’amica
nel corso della traversata. Sorrideva all’idea che le teneva com-
pagnia come il masticare granelli di pepe, considerati oramai il
suo porta fortuna a patto d’inghiottirne sempre tre. Se, per caso,
ne avesse mancato uno, quel dì una pioggia violenta o la neve
non le avrebbero permesso di sfamarsi. Di notte, trovava riparo
nello stanzone comune della Schola Caritatis, riservato alle sen-
za tetto della città, e quelle pareti macchiate, sgraffiate, maleo-
doranti ospitavano donne che parevano tutte la stessa donna.
L’aspetto di Griet, però, rimaneva fresco: e, quando Jan la

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scoprì per caso nei pressi della locanda, la guardò con occhi in-
cantati. In seguito prese abitudine di cercarla sempre nel mede-
simo angolo, contrassegnato dalla cassetta apparecchiata della
brava e veloce cucitrice.
«Mi trovo a passare di qui», s’inventava.
E se usassi queste ondate d’ammirazione, si chiese dopo la
decima visita del ragazzo, per prendere l’onda vera e imbarcarmi
andando incontro alla mia felicità?
Scuoteva la testa. Stava solo facendo un bel sogno. Jan era un
poveraccio ma lei non aveva altro. Tutto qui.

Maturò, dunque, un piano all’insaputa del garzone convincen-


dolo ad accettare di venire accompagnato alla dimora dei clienti
più agiati della città: i signori che abitavano il palazzotto grigio,
non distante dalla cattedrale della Carissima Signora.
«Me ne starò nascosta dietro la colonna dell’uscio come l’al-
tra volta», disse prendendo posizione.
Jan toccò il batacchio. Una serva aprì il portale. Dall’interno
uscì una ventata di profumo che subito si perdette lungo la stra-
da, già bianca per la neve.
Ecco una vera casa che sa di cera, di lavanda, di cose buone,
e di cuoio, pensò Griet. Che bello poter vivere qui! e sgattaiolò
dietro le spalle del garzone.
«Toh, oggi siete in due», si meravigliò la servente, «così mi
tocca chiedere ai padroni se l’altra può entrare».
Sorpreso, Jan si girò di scatto. Lei disse: «Pensi, forse, che i
signori mi spalmino sul pane bianco come fossi un pesce salato
insieme all’aceto e ai cipollotti? Ma se mi hai detto che sono cat-
tolici, tanto buoni e lui è il più famoso collezionista d’Anversa».
Isaac van der Voort era il suo nome.
La padrona stava scendendo da una stretta scala interna, pri-
va di corrimano, con accanto all’ultimo gradino un mobile dai
riccioli sporgenti, su cui s’impigliò un lembo della veste.
La ragazza colse l’attimo con queste parole: «Se permettete,
aggiusterò lo strappo alla perfezione. Porto sempre con me ago
e filo della cucitrice perché questo è il mio mestiere».
Un sorriso di sollievo apparve sul viso della donna e la ram-
mendatrice s’accinse all’opera.

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Jan pensò di non aver mai sentito tante parole, e così a
modo, pronunziate da Griet in una volta sola. E non furono
le ultime. Difatti, quando le venne chiesto chi lei fosse, la ri-
sposta fu: «Mi chiamo Greta e sono orfana di madre, gettata da
un soldato con la tunica rossa in un canale e tenuta con la testa
sotto l’acqua sino a quando non le scoppiò il cuore. Ho smesso
di piangere quella santa donna appena misi piede nella meravi-
gliosa città d’Anversa».
Commossa, la signora accarezzò la guancia dell’orfana e, pur
desiderando stringerla al seno, trattenne la tenerezza pietosa.
Intendeva aiutarla con un atto concreto, di cui avrebbe parlato
immediatamente con il marito nella stanza lì accanto.
La ragazza intuì che qualcosa stava per capitarle e accostò
l’orecchio alla porta.
«Ma cosa fai? Se scoprono che li stai spiando, i signori ci cac-
ciano su due piedi», mormorò Jan spaventato.
«Là dentro parlano di me. Non hai visto come mi guardava
la padrona?».
«Sì certo… sino a quando non scoprirà che sei una gran bu-
giarda che inventa di chiamarsi Greta».
«Ma lo vuoi capire che non potevo dare il nome d’una
poveraccia!».
E lo trafisse con uno sguardo di cupa collera, poi d’odio, per
il solo fatto d’essere accanto a lei e di stare distruggendo con la
cruda verità quel momento radioso. Non poteva entrare nel suo
sogno chi le bruciava il sogno di pronunziare anche il nome che
portano le ragazze felici. Ma, nel preciso istante in cui s’aprì la
porta, la rabbia e l’odio svaporarono sul gesto del sinjeur.
Non si possono nutrire in petto cattivi sentimenti in questa
casa, silenziosamente disse o pensò di dire.
Il signor Isaac porgeva le mani alla moglie, di nome Maaike,
che gli infilò nel pollice e nel medio gli anelli. Un atto così devo-
to, Griet, mai se lo sarebbe immaginato ma Greta iniziava a com-
prenderlo dagli occhi. Per l’emozione, prese a tirare su col naso
a ripetizione come fa un somaro malato quando raglia dentro la
stalla. Le vesti di velluto viola del padrone avrebbero atterrito le
pulci dentro la buia bottega del rammendatore orientale mentre,
qui, la luce del vestibolo pareva lisciarne le pieghe.

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Maaike era molto più giovane rispetto a Isaac. Osservati uno
accanto all’altra, la distanza d’età pareva una baruffa tra un rin-
secchito cardo dei campi e le vellutate bocche di leone, ma l’a-
more trionfa sempre sui contrasti anche sulle umidicce sabbie
dei Paesi Bassi.
«Per provvedere al corredo di nostra figlia Catharina, caro
marito, abbiamo nel vestibolo una cucitrice intenzionata a vi-
vere nella nostra magnifica città», così aveva riferito la moglie al
coniuge in privato.
«Ha davvero detto che è magnifica?», chiese il collezionista
mentre usciva dalla stanza.
Osservò la ragazza nell’unico modo in cui da quarant’anni
era solito guardare il mondo figurandosi persone, cose, oggetti
e paesaggi come se dovessero entrare, a forza, in un dipinto. La
giovane, avvolta da un panno nero e con la punta della vestina
rossa che sbucava di fianco, era una perfetta immagine dell’in-
verno fiammingo visto dalla parte dei poveri.
«Potremmo anche tenerla», disse con la voce roboante di chi
inizia ad essere un po’ sordo, «a patto che non inghiotta il moc-
cio davanti agli occhi miei».

E la ragazza di nome Greta, giorno dopo giorno, non s’impe-


gnò solo in questo. Aggiustava il cappello alla padrona prima
che lei uscisse; era attenta nel rinnovare i fiori nei vasi; non
mancò mai di pesare il tempo per concludere un lavoro e fa-
ceva linguacce alla propria immagine lucidando gli specchi.
Nella dimora fiamminga la luce, entrata dalle finestre, galleg-
giava soffusa come un vapore leggero coricandosi sugli ogget-
ti, sopra gli arredi, attorno alle verdure disposte lungo il piano
della cucina. Metteva in risalto, quel chiarore, la materia di
cui erano fatte le cose: il legno dei mobili ricordava la consi-
stenza d’un tronco d’albero della foresta; l’argento del porta
sale, a forma di barchetta, mandava bagliori come un’alba sul
mare; la melanzana irradiava i colori dell’orto lustrati dalla
rugiada.
Il compito speciale, affidato a Greta, riguardava la pulitura
delle cornici dei molti dipinti che coprivano intere pareti sino
a sovrapporsi gli uni sugli altri in un intrico di toni e sfumatu-

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re. Occorrevano mani delicate e dita pulite per eseguire bene e
in tempi brevi la manutenzione girandovi attorno senza stacca-
re le tele. Così, a furia di vedere sfilare sotto gli occhi paesag-
gi, luoghi e persone, la ragazza durante il lavoro si metteva a
chiacchierare con loro storpiando la voce mentre inventava le
risposte delle presenze inanimate. E, una volta, capitò che il col-
lezionista dall’udito confuso pensasse d’avere in casa una coppia
di ladri. Per lo spavento, iniziò a gridare e Greta trovò questo
modo per giustificarsi prima di venire rimproverata: «Signore,
se sapessi scrivere, segnerei i nomi dei pittori in un taccuino per
dormirci insieme e farli entrare nei miei sogni».
Isaac apprezzò il modo con cui la giovane aveva suggerito
una tacita richiesta mediante uno scatto d’intelligenza pura,
quella che arriva in anticipo sulle cose.
«La nostra servente, moglie, m’ha fatto intendere che le duo-
le essere analfabeta», disse.
La signora Maaike, con stampato sulle labbra un sorriso sod-
disfatto, aggiunse che presto il precettore avrebbe insegnato alla
ragazza a leggere e scrivere.
«Quanto ai numeri e a far di conto, caro marito, vedremo».
Gli apprezzamenti dei padroni arrivarono alle orecchie della
cuoca che, mossa dall’invidia, s’impegnò a intrappolare la nuova
venuta come un topo nella tagliola. Con la cotica unse le suole
delle scarpe della rivale allo scopo di metterla fuori uso per qual-
che tempo. Lei fece un capitombolo ma, come un cucciolo sulle
zampette, si rimise in piè alla svelta. Dopo avere fallito il primo
espediente, l’altra cucì nell’orlo della sottana rossa di Greta la
chiave della dispensa, di pertinenza della cuciniera, con l’idea di
far passare la “cocca” di casa per ladra. La cucitrice accorgendosi
che il bordo, a causa del peso dell’oggetto, pendeva lievemente
mandò a mare il piano. E per non farsi mancare la soddisfazione
del trionfo, depose la chiave in bella vista, lucida come un pic-
colo sole, sul tavolo di cucina.
Chi si loda s’imbroda, insegnano nelle terre di Fiandra e non
solo in quelle, e così capitò quando la cuoca sorprese Greta con
l’orecchio dentro la cavità del passavivande, che diffondeva in
cucina i suoni e le voci provenienti dal primo piano.
«Ah, t’ho beccata mentre ascolti i discorsi segreti dei signo-

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ri!», esclamò. «Aspettati di finire cacciata sulla strada non appe-
na lo verranno a sapere!».
«Starai zitta se lavo le pentole al posto tuo senza far parola
alla padrona?», chiese la spiona.
La vecchia accettò e la ragazza non perdette il vizio di ficcare
il naso negli affari di casa.

Giunse il dì in cui donna Maaike la chiamò nello studiolo per


affidarle un incarico, degno della massima fiducia. Ogni tre
giorni doveva recarsi con una cesta carica di viveri nelle capanne
fuori città: una proprietà di famiglia composta da vecchie case
di pescatori, poste in cima a una collina con ai piedi un ruscello.
Lì, all’insaputa del marito, la padrona dava accoglienza agli
eretici calvinisti in fuga dalla città d’Anversa e dalla ferocia per-
secutoria da parte dei mercenari dalla tunica rossa al soldo degli
spagnoli.
I rifugiati restavano nelle capanne sino a quando persone fi-
date, che già vivevano libere di professare la loro religione nelle
libere città del nord, non sarebbero venuti a prenderli, di notte,
con le carrozze per portarli a Rotterdam, all’Aja o in Amsterdam.
«Che gran cuore avete!», disse Greta.
Accettò con entusiasmo il compito, senza troppo riflettere
sui rischi, solo contenta di poter sfoggiare il dono della padrona:
la pettorina in pizzo rosso delle giovani di Frisia.
«Ascolta, ragazza», disse Maaike dandole le prime istruzioni
sulla via da prendere per giungere al sito, «devi mostrarti par-
ticolarmente attenta a non dare nell’occhio e non farti sfuggire
parola con nessuno, meno che mai con il signor Isaac».
«Ho capito e sarò muta come un pesce. Ve lo giuro».
«Bene. Accolgo la tua promessa e, adesso, guarda il quader-
no che ho tra le mie mani», e intanto scorreva le pagine, fitte
di nomi.
«Ma io non so leggere, signora».
«A questo provvederemo a partire da domani stesso. Con-
cedimi solo il tempo di prendere accordi con il nostro precet-
tore. Sai che si chiama Hans Franse, vero? Al presente, però,
impara».
E subito aggiunse: «Ho annotato qui nomi e cognomi di

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cinquanta persone, testa più testa meno, che sono in debito nei
miei confronti. Se tu fai del bene a qualcuno, sappi che ti gua-
dagnerai la riconoscenza del medesimo e pure di tutti i suoi pa-
renti, vita natural durante».
I debitori della signora, tra familiari e amici degli eretici cal-
vinisti, erano quasi una flotta e Greta invidiò a Catharina una
madre-capitano in grado di prevedere tempeste anche sotto il
cielo sereno e di mettere a riparo la barca domestica, per tempo.
E lei, aspettandosi pure qualche ricompensa da parte del
buon Dio, sarebbe stata il mozzo della navicella della carità!
Quella mattina, verso la metà del mese d’agosto, il collezio-
nista, senza il candido ornamento attorno al collo portato dai
suoi pari, aspettava una visita. Fuori, la strada era spenta di vita
come il palazzotto di fianco, già da qualche tempo disabitato.
La cucitrice stava per entrare nella stanza con in mano una
fresca gorgiera quando sentì Isaac dire alla moglie: «Siamo ri-
masti in pochi; scappano in tanti dalla città per trovare rifugio
presso le Sette Repubbliche Unite».
E, dopo avere rivolto uno sguardo fuori dalla finestra, prose-
guì: «Se penso che, un tempo, i nostri viaggiatori a cavallo po-
tevano raggiungere Bruxelles in giornata e Mechelen in mezza!».
Emise un profondo sconsolato respiro prima d’aggiungere:
«Era, quello, un viaggio indimenticabile, condotto senza incon-
trare pericoli e respirare il fetore degli eserciti nemici, dove si
parla lo spagnolo, il francese e l’italiano. Tutte le lingue si odono
nella nostra terra tranne quella della carità cristiana, del buon
senso e della tolleranza».
Maaike annuì sotto il copricapo a larghe falde quadrate.
Il cielo stava per rabbuiarsi e minacciava pioggia quando
quel galantuomo espose alla consorte il desiderio di donare alla
città un arazzo che raccontasse questa guerra e le sofferenze dei
suoi abitanti.
A voce alta, immaginò il disegno del cartone su cui le mani
dei maestri lanieri d’Arras avrebbero intessuto fili dorati, mi-
schiati ai toni del verde, per creare il paesaggio delle Fiandre.
Un’ondulazione di sabbie e argille attorno a stagni e acquitri-
ni, un dedalo di canali, le foreste di pini e il corso del fiume
Schelda, che entra nel mare tra le braccia d’un porto affolla-

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to da bianche vele gonfie di vento e protetto da una barriera
di dighe. Nel centro un’imponente figura, quella del re Filippo
II, inorgoglita dallo stemma del regno di Spagna e dalle inse-
gne della Santa Cattolica Apostolica Chiesa Romana, puntava
il dito, a monito, verso i roghi dei nemici di Cristo. A guardia
del sovrano, eserciti schierati, truppe sparpagliate tra campagne
e villaggi in preda alle fiamme con donne, vecchi e bambini dai
volti dipinti d’orrore. Figure di armigeri a cavallo, i mercenari
dalla tunica rossa con cappello nero e alabarda in pugno, taglia-
vano teste d’uomini con un sol colpo di spada. A fianco, sotto
lo sguardo compiaciuto d’un aristocratico signore, il duca Ales-
sandro Farnese, la cittadella da lui costruita per controllare la
città d’Anversa.
Greta, rimasta ferma sulla porta, aveva gli occhi bagnati di
lacrime; la moglie mostrò un sussulto sotto la pettorina in garza
bianca, ma il lampo dei suoi occhi arrivò prima di quello scari-
cato dal cielo.
«Le tasse imposte dagli spagnoli», disse Maaike, «sono par-
ticolarmente esose. E l’assemblea degli Stati Generali, riunitasi
a Bruxelles, le ha approvate. Mi domando cosa aspettiamo ad
arrotolare tappeti e arazzi, caricare quadri, argenti e il nostro
prezioso reliquario per trasferirci ad Amsterdam».
«Non potete chiedermi questo, mia signora. Io sarò sempre
un cittadino d’Anversa. Noi, che siamo gente del Brabante, ter-
remo testa ai nemici come il nostro antico eroe Silvius Brabo.
E, adesso, vi prego di lasciarmi perché sono in attesa di ricevere
un ospite».

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Nel ventre della balena

F uori, un forte tuono. La pioggia, agitata dal vento, picchiava


sui vetri mentre l’ospite afferrò il batacchio. Nel vestibolo
entrarono una folata, un giovane e una sferzata d’energia. Greta
si mise all’erta come un animaletto all’annuncio della tempesta.
Seguì con lo sguardo il nuovo arrivato: poco più che ventenne,
chiaro di capelli, non particolarmente alto, dall’eleganza distrat-
ta su una corporatura forte. Vide le gambe muscolose guada-
gnare le scale; poi il rumore dei passi dentro gli stivali in cuoio,
così belli come lei mai aveva visto, che si fermarono davanti
all’uscio. Sentì il ticchettio dei tacchi di Maaike mentre usciva e
l’altro fece il suo ingresso nello studiolo.
La via era libera e la cucitrice, saliti i gradini in punta di pie-
di, alternava occhio e orecchio sul buco della serratura. I due
uomini erano uno in fronte all’altro. Il giovane con gesto rapido
liberò da una custodia, portata sotto la giubba, due fogli e l’ulti-
mo estratto scivolò su uno stivale. Pareva un Avviso, come quelli
osservati da Greta nelle mani degli strilloni agli angoli delle vie,
con il titolo stampato a grandi lettere mentre il testo era tutto
un formicolio di segni non distinguibili a distanza. Meno male
che lui cominciò a leggerlo a voce alta: «Gente d’Anversa, ab-
bandonate la strada del peccato e dell’iniquità e percorrete le vie
del Signore prima che Egli stenda la sua mano su di voi per fare
precipitare i peccatori. Che cosa si vede lungo le vie, nelle vostre
case, nel nostro luminoso porto se non ebbrezza, ostentazioni
e ogni dì traffici per vili guadagni? Nell’undicesimo giorno del
mese d’agosto dell’Anno Domini 1598 una balena s’è arenata
sulle secche sabbiose non distante da un villaggio di pescatori ad
ovest d’Anversa. Che cos’è questo se non segno che Dio punirà
i nostri peccati?».
Non appena si concluse la lettura, Isaac sillabando le parole
proruppe: «Ero a conoscenza dell’innaturale evento di cui la cit-
tà parla, ma il tono d’apocalisse del fanatico predicatore cattoli-
co aumenta l’inquietudine del mio animo, che dai vostri lavori
aspetta d’essere rasserenato».
«Questo è il punto, signore», e intanto gli porgeva l’altro
foglio.
Greta aggiustò meglio l’orecchio al buco della serratura per
ascoltare il racconto del pittore.
«Dopo l’arenamento della balena», prese a dire, «il sindaco
della Gilda di San Luca mandò noi di bottega in loco impo-
nendoci di rappresentare il soggetto. Il migliore lavoro avrebbe
vinto un premio».
E gli allievi, schierati i cavalletti in bella fila, si misero all’o-
pera. Gli abiti scuri contro il colore della sabbia e del cielo,
che battezzava l’aria con uno slavato sole, erano già un buon
cromatismo. Di lato, al di là d’una possente diga, svettavano
le cime degli alberi e, all’intorno, s’era già raccolta una discreta
folla. Qualcuno tentava di sfiorare timidamente un punto di
quel corpaccione disteso sulla sabbia, ancora legato alle grosse
corde del trascinamento; altri, nel timore d’avvicinarsi, agita-
vano a distanza le mani come fossero alucce d’angelo appicci-
cate all’altezza delle spalle. I topi ballavano tra i piedi mentre
i cani con il naso all’insù erano presi da un rapimento. Qual-
che nitrito s’alzò nel vuoto, un vuoto dal colore della canapa.
Il capodoglio rantolava contraendo sempre più debolmente
le grosse pinne ai piedi d’un mare possente. E dalla schiuma
biancastra delle onde battenti la riva emergevano, di scorcio,
solo un occhio dell’animale e un unico gigantesco dente, che
faceva immaginare un groviglio di radici e nervi per ancorarlo
all’osso.

36
«Con nella mente quella visione, non dissimile da quelle del
dormiveglia», proseguiva il pittore, «feci ritorno in bottega e
buttai giù lo schizzo che ora, signore, state osservando sul fon-
do del foglio».
Greta non riusciva a vedere niente ma le parole del collezio-
nista avevano un tremolio. Di spavento o d’ammirazione?
«Pare che la balena, uscita dagli abissi marini, stia per tra-
scinarmi dentro un vortice di tratti scuri», commentò Isaac che
s’era posto accanto alla finestra per osservare meglio.
L’altro sorrise con una certa qual fierezza.
«Signore, quando disegno o dipingo non solo voglio rendere
visibile qualcosa agli altri ma anche accompagnare l’invisibile
alla sua incalcolabile destinazione».
Greta di quella frase non capì un’acca.
«Quindi mi state dicendo che nell’arte il visibile cela
l’invisibile».
La ragazza sbuffò. Il suo padrone avrebbe comprato il dise-
gno del giovane, sì o no? Questo era il punto: il rimanente solo
ciance. Nella dimora d’un collezionista un artista spera di uscire
dalla porta con le tasche più pesanti e le mani più leggere, sgra-
vate dal suo disegno.
«Immagino che abbiate già presentato lo schizzo a Otto Va-
enius», disse Isaac.
«Ancora no, signore. Al mio maestro, come sapete, piaccio-
no gli Emblemata, l’antico, la pittura di maniera. Questo, inve-
ce, è per voi».
Che fesso a regalarglielo… se non impara a fare il proprio
interesse, saranno guai per il giovane dagli stivali!, pensò Greta.
Qualche lieve rumore, proveniente dal basso, allarmò la ra-
gazza che stava per allontanarsi dalla postazione per nasconder-
si nella stanzetta vicina quando la voce stentorea del padrone
le fece, involontariamente, il dono del nome e cognome del
pittore.
«Pieter Paul Rubens, ancora non so bene cosa combinere-
te di grandioso nella vita ma, ugualmente, promettetemi di
tornare spesso a trovarmi. Ho bisogno del fuoco della vostra
immaginazione».

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«Si chiama Rubens, si chiama Rubens e mi ha lanciato uno
sguardo intanto che usciva dalla porta di casa», ripeté Greta l’in-
domani nella cucina al garzone del pane.
«Sarà un pittore dei miei stivali», la canzonò Jan, «se ha guar-
dato proprio te!».
«Come fai a sapere che portava gli stivali… consegni il pane
pure a lui?».
«Ma va’. Non l’ho mai visto in compenso vedo che sei diven-
tata bella florida».
«Jan, in questa casa finalmente mangio. Invece, prima che il
molino andasse in fiamme e morisse Brechtje, pativo la fame».
«Ma cosa dici? Sei diventata pazza? Il molino e la tua paren-
te stanno benissimo. Piuttosto racconta cosa ti danno, qui, da
mettere sotto i denti».
La ragazza fu pronta a ribattere che la colazione era da re,
il pranzo da onesto cittadino e la cena come quella d’un men-
dicante anche se lei l’insaporiva con qualche granello di pepe.
«Vorrei proprio sapere dove lo trovi il pepe».
Greta abbassando lo sguardo cambiò discorso: «Allora me lo
sarò sognato quell’incendio», concluse.
A detta del garzone, Brechtje non divenne matta nel cerca-
re la nipote; anzi, non provò neppure un’ombra di dolore per
la sua sparizione, solo l’immensa rabbia di dover d’ora innanzi
stanare, lei, i topi.
Poi Jan rivelò che il vecchio dal naso grosso aveva promesso
di renderlo socio del molino così sua madre s’era messa a fare le
moine alla figlia del maniscalco.
«Chi? Quella dagli occhi uno di qua e l’altro di là».
«Sei invidiosa perché io salirò di grado nell’affare della fa-
rina; Brechtje cucirà la veste della mia sposa; e tu rimarrai una
serva a vita».
All’udire queste parole Greta lo cacciò su due piedi.
Una volta fuori, Jan fu preso dal desiderio di rivederla e con
le nocche bussò al vetro della finestra del guardaroba che dava
sulla strada.
La ragazza apparve. Le loro dita attraverso le grate si sfio-
rarono per un attimo. Lei appoggiò una mano sul cuore qua-
si volesse rallentarne il battito; lui mostrava un volto rigato di

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lacrime che, senza vergogna, scendevano agli angoli della boc-
ca prima d’essere inghiottite da una svelta linguata e trascinate
chissà dove.

Rimasta sola nella stanza, la cucitrice prese un sacchetto di seta


rossa che teneva camuffato tra gli altri contenenti fili di diversi
colori. Ne estrasse una perlina di pepe nero che infilò tra i denti
e lavorò sino a sera quando, a lume di candela, venne alla luce
un capolavoro di camicia, destinata alla prima futura notte di
sposa della rampolla di casa.
Il giorno dopo, Maaike attorno all’ora di pranzo la mostrò al
marito con occhi commossi.
«Vi sta davvero a cuore la nostra servente», e s’interruppe
Isaac un attimo prima che la ragazza entrasse per servirli, dato
che la cuciniera s’era azzoppata durante i lavori in giardino.
Poi il collezionista si sedette a tavola, congiunse le mani in
atto di preghiera e tagliò il pane.
La signora osservava l’abbondanza del cibo in bella mostra
sulla tovaglia ricamata con un’espressione spaventata.
Forse, disse Greta col pensiero, teme di perdere i bei pizzi
di Bruges e vedere confiscati tutti i suoi beni nel caso qualcuno
dovesse accorgersi che sta offrendo aiuto ai calvinisti e la denun-
ciasse come nemica degli spagnoli.
«Moglie, moglie», reclamava attenzione Isaac, «cosa vi pre-
occupa? Sembrate tanto assorta nei vostri pensieri».
«Mi preme confessare che, a vostra insaputa, ho intrapre-
so un piano per mettere in salvo la barca dei perseguitati reli-
giosi. Volete concedermi il tempo d’ascoltare la mia azione di
salvataggio?».
«Il matronage di voi dame della Schola Caritatis m’interessa
pochissimo perché non ha mai dato buoni frutti, anche se non
biasimo il vostro modo di passare il tempo».
Il pranzo proseguì in perfetto silenzio sino a quando il signo-
re chiese alla moglie un parere sulla carpa appena servita.
«Non la trovate un po’ sciapa? Oppure l’insipido fa parte
della dieta dei monaci trappisti imposta dalla mia caritatevole
signora in nome della solidarietà e condivisione con chi sta peg-
gio di noi?».

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La donna masticava con la bocca storta come se fosse sul
punto di vomitare il cibo.
«Mi passereste un granello di pepe per aggiustare il piatto?».
Maaike s’alzò da tavola di scatto. Pose la mano sulla saliera
a barchetta. Greta sorrise immaginando il lancio sulla faccia del
collezionista, costretto a piluccare i granelli. Invece, dopo avere
estratto dalla scollatura una piccola chiave, andò in cucina. Al
ritorno annunciò che il sacchetto delle spezie si stava esaurendo
a vista d’occhio.
«Speriamo che alla Borsa valori di Anversa i prezzi siano
più bassi rispetto alle precedenti contrattazioni, ma con que-
sto subbuglio creato dal ritrovamento della balena, non credo
proprio».
La servente, istintivamente, portò una mano alla bocca. La
padrona, subito attenta, chiese a voce alta se, per caso, soffrisse
di male ai denti.
«Moglie», rispose il marito al posto della ragazza, «pare che il
mozzo di casa abbia preso lo scorbuto alle gengive. Eh… sono i
guasti provocati dall’andar per mare in cerca delle spezie!».
Per la restante parte del giorno, la cucitrice avvertì una
cavità all’altezza dello stomaco che, col trascorrere delle ore,
scavava nel petto un vuoto da spavento. E, quella sera, si mise
ad osservare i propri denti con lo specchietto a mano e sotto
la luce della candela. Erano scuretti all’apice. Cosa era capita-
to? Tentò di placare l’ansia e riuscire a dormire. L’indomani,
una dura giornata l’aspettava. Per questo motivo non aveva
interrotto il vizio di masticare granelli di pepe che davano l’e-
nergia per sobbarcarsi i lavori di casa e, insieme, la pazienza
per tollerarli.
A ripensarci, però, che fatica costò cogliere il momento buo-
no per rubare la chiave del cassetto della dispensa, dove erano
gelosamente custoditi i chicchi, e, una volta sciolta sulla fiamma
la cera d’una candela del doppiere, creare un calco da portare al
chiavaio! La cosa pareva fatta ma, giorno dopo giorno, dovet-
te usare la cantarella per sbiancare i denti che continuavano ad
ingrigirsi. “Attenta, ragazza”, commentò lo speziale nell’atto di
consegnarle la polvere, “si tratta d’un potente veleno!”.

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Durante il mese, nel palazzotto del collezionista arrivarono le
nuove sul ritrovamento della balena. Il precettore di casa, Hans
Franse, ogni nuovo dì non si mostrava avaro di particolari,
ascoltati da Greta nel corso delle lezioni, ora con spavento ora
facendosi delle belle risate.
Ansia e panico per la sensazionale apparizione del capodo-
glio, arenato sulla spiaggia non distante da Anversa, dilagarono
sino ad Amsterdam. Gli abitanti cresciuti nella prosperità sotto
la speciale protezione del Signore, ma esposti a tremendi peri-
coli, dicevano: «Dobbiamo fare qualcosa affinché Dio distolga
il male dalla nostra terra!».
Gli olandesi conoscevano l’animale perché nella colonia di
Smelrenburg, sull’isola di Spitsberger nel mare Artico, da tem-
po si praticava la caccia alle balene. Così nella capitale del libro
a stampa, i torchi si misero in moto per sputare fogli sull’even-
to. Con l’intento di mettere in ginocchio la concorrenza il più
famoso editore d’Anversa, Christoffer Plantjin, decise di pub-
blicare un ricco volume corredato di dotte dissertazioni sul fe-
nomeno e di trenta immagini raffiguranti l’animale. Nel fronte-
spizio appariva un’incisione di Bruegel il vecchio. Sotto un cielo
solcato da strane creature, simili a mosche o rettili volanti, den-
tro il ventre di un’enorme balena pesci grossi mangiavano pesci
piccoli che, a loro volta, ne divoravano altri più piccoli creando
una bizzarra catena di mangia-mangia.
Che i pesci grossi si rifacciano su quelli piccoli è regola da
che mondo è mondo, diceva la gente nelle botteghe con rasse-
gnata pazienza.
Su ordine d’un addetto della tesoreria, finirono all’incanto i
resti del capodoglio: grasso, fanoni e il gigantesco dente.
Ci si accordò perché i diritti d’asta venissero coperti dalla
banca di van der Beurse, una delle più floride del tempo, con
sede madre a Bruges e la principale filiale ad Anversa, destinata
a mandare a compimento un affare stimabile attorno ai 136 gul-
den, o fiorini d’oro.
Nel dodicesimo giorno d’agosto, la carcassa venne traspor-
tata in città e ricoverata in una rimessa del porto, a lato del
macello.
Ovunque, aleggiava il fetore della carne animale in decom-

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posizione. Quella era la puzza dell’opulenza straripata che sta-
gnava nelle sue marcezze: così dicevano i predicatori dall’alto
d’uno sgabello puntando il dito contro i peccatori.
Il dì seguente, la balena sparì dal mattatoio e le previste ven-
dite divennero un miraggio se non si fossero trovati e gli au-
tori del colpo e la refurtiva. Ma chi s’è fatto la balena grassa?,
chiedeva la gente nelle chiese sperando, almeno, nella giustizia
alimentare.
E, quando Hans Franse riferì il commento, Greta rise a
crepapelle.
Uno dopo l’altro furono interrogati i trasportatori, muti come
aringhe in barile, e nessuno dei portuali nel corso della notte vide
agitarsi alcunché di sospetto nei pressi del grande magazzino.
Il dì seguente il borgomastro, in accordo con l’autorità del
porto, emanò un bando secondo cui a chiunque fornisse notizie
utili in merito al furto sarebbe stato dato un premio in fiorini
pari alla consistenza dell’informazione.
Lo stesso precettore si recò nel pianterreno dell’edificio ros-
so, dietro le scalinate del porto, dove si raccoglievano le de-
posizioni. Poi, una volta tornato al palazzotto, prese a vantarsi
d’avere sciorinato la storia dei rubamenti a partire da quello del
fuoco. «E tutti sono rimasti con un palmo di naso nel sentirmi
raccontare», diceva lui.
Il controllo nel mattatoio, alla ricerca d’una qualche trac-
cia lasciata dai colpevoli, condusse alla scoperta d’un occhio di
balena conservato in un vaso colmo d’acquavite, venata di fila-
menti rosso sangue. Indietreggiarono gli scopritori, facendosi il
segno della croce e salmodiando una serie di scongiuri, mentre
l’occhio pareva fissarli. In qualsiasi angolo questi si mettessero,
il bulbo galleggiante li puntava minaccioso in quel luogo dal’a-
ria sinistra.
Per scongiurare ogni maledizione si promise che, una volta
recuperati il dente e i fanoni dell’animale, questi sarebbero stati
donati ed esposti sull’altare della basilica.
Anche ogni anfratto dell’angiporto venne perlustrato ma i
vantoni del posto nulla raccontavano agli investigatori e i cuci-
tori filippini, scalzi accanto a un bacile d’acqua, neppure alzaro-
no la testa dagli orli quando furono interrogati. Dietro le ante

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in legno delle finestre le amiche dei marinai, che sanno tutto an-
che sulle porte dell’inferno, continuarono imperterrite a lisciarsi
la scollatura delle vesti.
Eppure la gente del porto non poteva ignorare il nome, anzi
i nomi, dei ladri, pensavano in molti e alcuni lo dicevano pure
a voce alta e con la faccia tosta.
«Nelle vie più sporche della città nessuno vuole conoscere
l’ebbrezza concessa agli umani dall’atto del tradire», riferiva du-
rante la lezione del pomeriggio Hans Franse a un’ammutolita
Greta che, d’un tratto, ebbe un nome sulle labbra.
E al signor Isaac confidò di sapere qualcosa a riguardo del
ladro della balena.
«Cosa?», e si fece attento, il padrone.
«Si chiama Sebastian lo spagnolo e, nonostante abbia una
mano mutilata di due dita, ne combina di tutti i colori in qual-
siasi città si trovi. Questa storia è lunga e sconveniente per le
vostre orecchie».
Fissava il signore che disse: «Da quanto capisco il soggetto
in questione sarebbe una sorta di brabantino spagnolo come noi
d’Anversa chiamiamo questa razza di furfanti che, passando da
un luogo all’altro, ne combinano di guai».
E, lungo il tragitto che l’avrebbe portato dal borgomastro
per fare la denuncia, tra sé e sé mormorava: «Non ce ne saranno
poi tanti in città, e per di più ladri, con una tale vistosa mutila-
zione… anche se un brabantino spagnolo che si mangi una bale-
na, non s’è mai visto!».
A seguito della segnalazione del collezionista, presero inizio
nuove e mirate ricerche che, finalmente, andarono a buon fine.
In una bottega di passamanerie, affacciata sulle rive del-
la Schelda, ricca di fiocchi complicati come solo i turchi sono
in grado d’ideare, il proprietario confermò il nome fatto dalla
ragazza. Conosceva bene, lui, Sebastian detto lo spagnolo cui
mancavano due dita nella mano sinistra.
«Il più gran ladro del porto, che controlla una manica di le-
stofanti», sentenziò, «sparito da Anversa subito dopo il clamore
suscitato in città dalla notizia del furto».
«Ma dov’è finito?», domandò la guardia che l’interrogava.
«Mah… vallo a sapere dove si sarà ficcato uno partito con il

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sole del nord, alla chetichella… Però, considerata la smodata pas-
sione del soggetto per i mercati del Maghreb, la refurtiva poteva
essere finita proprio là, nel sole del sud».
Conclusione volle, riferì Hans Franse, che non venissero tro-
vati i resti dell’animale e l’autore o gli autori del furto rimasero
uccelli di bosco. Tuttavia, avere il nome d’un conclamato delin-
quente da maledire e sapere che le reliquie del capodoglio erano
volate in Marocco nascoste nella stiva d’una nave, rese la popo-
lazione più tranquilla. Eccetto il furibondo van der Beurse, or-
bato dell’affare e finito a rosicchiare un pezzetto della sua banca
nella pancia della balena.
A Greta toccò una metà del premio, promesso dalla muni-
cipalità, mentre l’altra parte venne consegnata al commerciante
turco a ricompensa del suo coraggio. Si trattava pur sempre d’u-
na bella sommetta, da lei mai vista né tanto meno sognata, con
cui comprò il vino più costoso, un rosso francese, dell’ottimo
formaggio e più d’una bottiglia di birra.
La cuoca, il servo e il precettore rimasero a bocca aperta da-
vanti alla tavola imbandita prima di chiudere le labbra dopo
avere detto Grazie tante: poi addentarono e iniziarono le bevu-
te con il pelandrone che non la smetteva d’andare a garganella.
Tutti felici… meno di lei che tra sé e sé commentava: «Però con-
tinua a portarmi fortuna questo brabantino spagnolo… quanto
mi piace chiamarlo così!».
Durante una cena, gli ospiti dei signori van der Voort disse-
ro come nella città d’Anversa una come Greta potesse salire di
grado e, magari, sposare un notabile. Non sarebbe stato troppo
difficile, se fosse arrivata l’occasione giusta. Lei, mentre stava
origliando, rise all’idea portandosi subito una mano alla bocca
per nascondere quei paletti scurognoli che erano oramai i suoi
denti.

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Gli stivali di Rubens

S ul tetto del palazzotto del collezionista s’accese la luminosa


ora della stella. Un astronomo avrebbe potuto darle il nome
Greta: la migliore servente della città, onesta come la gente
d’Anversa del tempo che fu.
E, in aggiunta, una gran spiona, ridacchiava fra sé e sé lei
udendo il complimento.
«Appena la vidi», si vantava Maaike col marito, «m’ac-
corsi che qualcosa di speciale sarebbe uscito da quella scorza
sdegnosa».
«Non è detto che dai lombi d’un mugnaio non possa nascere
un’artista», confermava Isaac.
«Se il mugnaio fosse pure il padrone del molino, sarebbe an-
cora meglio», sbottò il corniciaio di casa, tanto antipatico quan-
to invidioso.
Tra le pareti domestiche, la cuoca, dalla sera alla mattina,
divenne bonaria, e sostituì al «Brutta spia!» il più innocuo rim-
provero: «Se poi i padroni ti scoprono mentre ascolti dal buco
della serratura». E quel pelandrone del servo andava lui in can-
tina a prendere la legna per i quattro camini e senza farsi prega-
re. Di propria volontà! Sperando in un’altra vincita e in un’altra
bevuta.
Come si vende per poco la gente povera, considerò Greta, io
alzerò la posta e mai m’accontenterò solo d’un pezzo di formag-
gio e un sorso di vino rosso.
La fama della ragazza era in crescita anche presso i vicini se
le tre anziane della dimora in fronte, che trascorrevano tutto il
giorno a spiare dalla finestra, non ritrassero più la testa al suo
passaggio. E lei piegava il capo in segno di reverenza, mandan-
dole mentalmente tra le corna d’un diavolaccio.
Il nuovo garzone, incaricato di consegnare il pane, le fece
troppi complimenti.
«Tutt’altra pasta rispetto a quel contadino di Jan! Finge d’es-
sere gentile per mettermi in cantone e tirarsi giù le braghe. In
campagna ci fu una stalla, al porto i marinai volevano portarmi
nelle stanze delle locande e in città mi toccherà una cucina», di-
ceva davanti allo specchio Greta.
Ci sarà pure una persona a ’sto mondo su cui non devo pi-
sciare in testa?, concludeva tra sé e sé.
Comprese d’avere finito di porsi la domanda sin dalle prime
lezioni di Hans Franse.
«Ti annoierai a morte con quello spilungone, piuttosto bel-
lo, che sputa sempre sentenze per farsi grosso e ha la mania di
fare disegni mentre spiega», le aveva riferito Catharina.
Poi con fare complice proseguì: «Meglio lui, però, di quello
studente dagli occhi spiritati che ti sfinirà a furia di ripetere le
tabelline…Vedrai, vedrai».
La figlia del collezionista non smetteva di pensare a quando
e con chi si sarebbe maritata, mentre la cucitrice doveva im-
parare l’ortografia e sul tavolo, accanto ad aghi e fili, trovava
posto il libro di grammatica pubblicato una quindicina d’anni
prima.
Il precettore, però, raccomandava di prestare orecchio anche
agli idiomi stranieri come ai dialetti delle diverse comunità e le
promise una lista di parole francesi con l’esatta pronunzia scrit-
ta accanto.
«Da sempre», ripeteva, «la Fiandra ha capito l’olandese, il
francese e il tedesco anche se gli umanisti stanno tentando di
costruire una lingua unitaria sul modello di quella latina».
Greta, talvolta, appoggiava sul libro un fiore del giardino che
spesso Hans Franse, preso dalla foga del dire, quasi non s’ac-

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corgeva di mangiucchiare petalo dopo petalo imbrattandosi gli
angoli della bocca. Allora lei era svelta a porgergli un fazzoletto
in tela di fiandra.
«Col fiore e la tela», prendeva il volo lui «siamo già nel cuore
della nostra storia. Vuoi sapere altro?».
E raccontava come, un tempo, la loro terra non facesse gola
a nessuno, compresi gli antichi romani che la lasciarono alla
sparuta tribù tedesca che lì s’era insediata. Che farsene d’un
pantano e d’un mondo grigio e spento, che sembravano la fine
del mondo, a filo di terra e acqua?
Lei faceva la faccia triste, sul punto di compiangersi, ma l’al-
tro la sorprendeva: «Mostrati fiera, Greta, d’essere fiamminga.
Finisce bene la storia, non temere».
E spiegava che, contando sul carattere e l’indefesso lavoro
degli abitanti, era stato dominato l’impeto del mare con le di-
ghe; allineati i corsi dei fiumi mediante i canali; seccato l’aria,
umida di pioggia, facendo volteggiare le pale dei molini che im-
prigionano il vento.
«Così i tuoi avi, ragazza, hanno reso le acque nostre alleate e,
invece d’andare sotto, hanno alzato le teste. E, al presente, sia-
mo noi in Europa a venire considerati i signori del mare».
L’allieva sorrideva rassicurata e pure contenta quando impa-
rava come da quell’umida e sabbiosa terra fossero nati i fiori; e
la passione dei giardinieri della corte di Borgogna, considerata
la più raffinata del tempo; e l’estro dei pittori di velluto. Sboc-
ciavano pure gli arazzi da stendere lungo le pareti delle regge e
le silenziose merlettaie di Bruges facevano parlare i pizzi come
fossero dei racconti.
Ma il precettore, quella volta, aprì la lezione scrivendo su un
foglio otto lettere alfabetiche molto grandi: a-po-te-o-si.
«Potrai ricamarle lungo il polsino della camicia visto che
hai in cura i tuoi abiti e assistere alla festa pronunziando qual-
che parola in francese come fanno le signore di questa città»,
le disse.
«Io non so cosa significa apoteosi, non sono mai stata a una
festa e magari fossi una signora».
«Chi vivrà vedrà. Piuttosto come ti senti, Greta, dopo avere
ottenuto la ricompensa dal borgomastro?»

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«Piuttosto esaltata. Mi pare di toccare il soffitto con un dito».
«Ecco, l’apoteosi è proprio questo anche se l’eroe tocca il cie-
lo non il soffitto. E, adesso, ripeti la parola».
In quel dì, era prevista la lezione di geografia che compor-
tava la conoscenza dell’uso dell’atlante su cui il dito indice di
Hans Franse stava indicando un arabesco di puntini: erano le
isole del Nuovo Mondo. Poi, sul tavolo del cucito appoggiò La
Gazzetta d’Anversa e iniziò a leggere il commento sullo sbarco
nel porto di Amsterdam dei reduci della prima spedizione olan-
dese verso le isole delle spezie.
La notizia riferiva che marinai stanchi, provati, malati ave-
vano scaricato una ben scarsa quantità di merce preziosa. Hans
Franse, dopo avere rivolto gli occhi in alto, disse: «Dopo due
anni gli uomini sono tornati con le pive nel sacco».
«Che sacchi, maestro?»
«Sacchi vuoti, che puzzano d’umido e rancidume in luogo di
spargere la scia odorosa del pepe e delle spezie».
All’udire la parola pepe la ragazza, quasi fosse stata scoperta
con le mani nel cassetto segreto della dispensa, si spaventò e non
fu più in grado di seguire il proseguo della lezione.
«Greta, mi sembri tanto distratta. Hai capito quello che sta-
vo spiegando?».
La testa abbassata dell’allieva fu la risposta.
«Allora mi tocca tornare al punto capovolgendo la clessi-
dra perché il tempo vale oro proprio come i tesori cercati dagli
esploratori».
E riprese a dire come nelle isole attorno al mare di Banda
uno dei tanti vulcani, là esistenti, avesse abitudine d’eruttare
all’arrivo d’ogni flotta straniera: pareva che volesse vomitarla.
Con un tono di voce sempre più alto, che forava la porta,
proseguì: «La montagna lanciò fiamme terribili; una nube sca-
ricò ceneri e immensi vapori che, prima di riversarsi in mare,
distrussero tutti i folti boschi».
Il rumore all’interno della stanza fece entrare Catharina, la
seconda allieva, il servo pelandrone e quella cattivaccia della
cuoca. Con davanti il suo pubblico Hans Franse si mise in piedi
appoggiando le mani sul tavolo mentre raccontava un inferno
venuto giù dal cielo per sconvolgere terra e acque.

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I presenti con la bocca semiaperta in un… Oh… di mera-
viglia e paura, quasi si trovassero anch’essi sulle imbarcazioni,
afferrarono l’uno la mano dell’altro e fecero cordata per creare
una sorta di diga immaginaria contro l’urto delle onde sempre
più grosse. Nella camera, pure loro parevano aspettare, come
quei marinai sulle navi, la morte ritenendola la giusta punizione
inflitta dal cielo alla protervia dei conquistatori.
E tanto s’agitava, il maestro, che finì per rovesciare una sca-
tolina piena d’aghi e, nel raccoglierli, si punse le dita.
«Ma quei lupi di mare», continuava succhiando dai polpa-
strelli feriti un po’ di sangue, «quei lupi di mare, che ne aveva-
no passate tante, mai videro acqua e terra tremare insieme sotto
nubi dal colore del sangue!».
Tacque per un attimo, Hans Franse. Catharina fu pronta a
porgergli il suo fazzoletto; la cuoca andò a prendere un bicchie-
re d’acqua; e il pelandrone se la diede a gambe veloce quanto
un topo, che è sempre il primo a fuggire quando la nave è sul
punto d’affondare.
Dopo la tregua d’un breve indugio, la lezione riprese: «Gli
olandesi ce la fecero con le proprie forze a sopravvivere all’im-
peto della natura o all’ira degli dei del luogo, ma dovettero soc-
combere sotto l’urto dei prezzi delle spezie, vendute nei porti di
Sumatra e Giava».
A questo punto fu Greta a dare spettacolo cadendo al suolo a
peso morto. Le venne spruzzata l’acqua sulla faccia e, una volta
riaperti gli occhi, le sue orecchie seppero che il costo del pepe
era schizzato alle stelle, tanto che neppure l’astronomo di bordo
con le sue squadre riuscì a misurarne il volo.
«E poi cosa capitò, maestro?», domandò la figlia del
collezionista.
«Vinse la fondamentale legge dell’economia secondo cui
quando una merce è così scarsa da non soddisfare più i bisogni
e i desideri della gente, diventa un bene prezioso».
«A me non piace il pepe», disse Catharina.
A me fa impazzire, disse col pensiero Greta.
«Nella dispensa di casa, scarseggia», commentò la cuoca.
Durante l’assenza della cuciniera, Greta aprì il cassetto del
mobile con la chiave in suo possesso e contò i grani rimasti. Si-

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nora aveva sottratto in totale una novantina di granelli: circa la
metà dell’intera scorta. E il sacchetto, che li conteneva, denun-
ciava il dimagrimento senza bisogno di troppa matematica. La
signora Maaike se ne sarebbe di certo accorta e, dato l’alto prez-
zo, raggiunto nella Borsa valori delle spezie, c’era da prevedere
l’arrivo dell’onda grossa.
Come riuscirono a salvare la pelle i marinai olandesi durante
il maremoto?, domandò a se stessa.
Hans Franse le aveva fornito la risposta. Gli uomini, legati
agli alberi con funi per non essere afferrati dalle onde, filarono
le scotte, presero le barre del timone e le sagole di salvataggio
mentre issavano le vele di fortuna. E nella stanza del cucito, la
ragazza afferrò la barra del timone e mantenne i nervi saldi per
non affondare insieme alla barca.
Nessuno avrebbe potuto accusarla: per fortuna, mai venne
scoperta nell’atto di rubare. Solo i suoi denti potevano crea-
re sospetti sino al punto di tradirla a meno che… Così, ogni
notte, acceso un mozzicone di candela davanti a un frammen-
to di specchio, se li sfregava a lungo con la polvere sbiancante
e con un pizzico in più rispetto alla quantità consigliata dallo
speziale.
Lo stomaco reagiva lanciando fitte sempre più pungenti e la
ragazza iniziò pure ad avere forti attacchi di dolore alle gengive.

Non erano trascorsi più di tre o quattro giorni quando l’attenta


Maaike, dopo avere aperto il cassetto segreto del mobile, uscì di
cucina con la faccia scura. Greta, che aveva lasciato socchiuso
l’uscio della stanza del guardaroba per spiare ogni mossa della
signora, fingeva di cucire.
Una volta entrata nella camera, la padrona d’emblée disse:
«Devi controllare il signor Isaac, ogni giorno, durante le ore del
pomeriggio quando si reca presso la gilda di San Luca».
«Signora», rispose, «vi ringrazio per la fiducia ma non pos-
so… e poi non ho capito di che si tratta».
«Mettiamo subito in chiaro che in questa casa tu non sei te-
nuta a capire, ma soltanto ad eseguire gli ordini. E che vuol dire
che non puoi? Dacché sei stata premiata, ti reputi la più grossa
gallina del pollaio che fa le uova quando le pare?».

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«Padrona, io devo tutto a voi e al menheer Isaac. Però già mi
affidaste l’incarico d’andare, senza farmi scoprire, alle capanne.
Il luogo è lontano e…».
«È vero, è vero. Allora come si muovono le faccende nel-
le case-rifugio, da me concesse in spirito di carità agli eretici
perseguitati?».
«Ogni giorno quelle brave persone pregano Dio affinché be-
nedica voi e la vostra famiglia per il bene che fate a chi è in pe-
ricolo e anche a questa città».
«Le loro preci stanno andando storte, ahimè! Sono preoc-
cupata e piena d’ansia e tu sei la mia unica soddisfazione. È
davvero un piacere sentire che hai imparato a parlare come una
signora. Quindi…».
«Quindi, padrona, cosa devo fare?».
«Preparati a pedinare mio marito e riferiscimi ogni suo ge-
sto. Sospetto che il signor Isaac sottragga i granelli di pepe dal
cassetto segreto e tu devi portarmi le prove con chi e dove li
consuma».
«Metterò le ali ai piedi secondo i vostri comandi e non farò
parola con nessuno del servizio che mi avete chiesto di svolgere».
Di contro, fu Maaike a non tenere la lingua cucita con l’a-
mica e Greta, che orecchiava, non riuscì a trattenere le risatine.
«Cos’hai da lamentarti per questa storia dei granelli rubati?»,
replicò la signora in visita, «Così ti godi la sorpresa a letto. Sono
tanti gli uomini non più giovani, come tuo marito, che assumo-
no il pepe nero, visti gli effetti che provoca. È un afrodisiaco,
ma chérie!».
«Allora, questi miracolosi effetti saranno goduti tra le pareti
dello stanzone della gilda di San Luca».
«Adesso non esagerare, mon amie! È risaputo che quella
scuola sia frequentata solo da apprendisti pittori maschi».
«E le modelle… le modelle che sono là… tutte ignude, char-
mantes come ninfe di fonte… e… pronte all’uso!».
Un cigolio proveniente dalla porta fece tacere entrambe e
impaurì la spiona, pronta a fingere di stare attraversando il cor-
ridoio nel caso in cui l’uscio si fosse aperto. Ma non capitò e
Greta si dispose nuovamente all’ascolto.
«Se in accademia le cose fossero tali, sarebbero sulla bocca

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di tutti. Ti viene in mente un secret capace di restare segreto in
Anversa?».
«Non hai torto. Però, qualcosa deve agitarsi in quello stanzo-
ne. E giuro che, tra pochi giorni, lo scoprirò».
«E poi, cara Maaike, il debole dei nostri mariti non sono le
donne, piuttosto la birra e il vino francese, che costa un occhio
della testa. Hai idea di quante siano le locande in Anversa?».
Poco mancò che la cucitrice, rischiando di venire scoperta,
rispondesse: «Più di cento». Così almeno aveva detto una volta
Jan, il garzone del molino.
Dopo sette giorni, la spia di Maaike riferì che il signore, ap-
pena messo piede nello stanzone della gilda, subito spariva alla
vista.
«I miei sospetti trovano conferma negli atti di Isaac, più che
accorto nel non farsi scoprire», disse la padrona, «qualcuna, là
dentro, si sta godendo i vantaggi dei granelli di pepe nero che,
in casa, diminuiscono a vista d’occhio».
Greta sorrise pensando a quanto fosse stata provvida a rifor-
nirsi in previsione della carestia domestica.
«Da questo momento risolvere il vostro problema sarà com-
pito mio. Guarderò ancora e ancora meglio, padrona».
In verità, lei si poneva a lato delle finestre dell’edificio in
mattoni rossi della gilda per rimirare Rubens sporgendo la testa
per una, due, tre volte sino a quando il pittore, accortosi del-
le mosse della ragazza dalla pettorina rossa, un bel giorno uscì.
Con garbo le chiese se fosse una modella in cerca di lavoro per
guadagnarsi uno scialle nuovo.
È il mio momento, è il mio momento, pensò Greta, devo
inventare qualcosa per farmi notare.
Invece, le mancò l’ispirazione. Disse d’essere la cucitrice a
servizio presso il palazzotto del più importante collezionista del-
la città. Per vantarsi aggiunse che era stata lei ad avere fatto il
nome del ladro dei fanoni della balena.
«Che bella gente frequentate!».
«No, signore, non avete inteso. Io la cattiva gente la denun-
cio. E per di più, sono perfettamente capace di farmi uno scialle
con le mie mani».
«Che piglio che avete!».

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«Sarà a causa di ’sto ghiribizzo che vengo a spiare la vostra
persona sperando di riuscire a vedervi all’opera. Però, vi scon-
giuro, non dite al signor Isaac d’avermi scoperta con il naso in-
collato ai vetri».
«Non vi tradirò, ma sappiate che è un vanto per le giovani
bellezze della città fare da modella in accademia… Cosa ne dite
di quest’idea?».
«Domineddio, no», rispose senza riflettere Greta, «mai e poi
mai tradirei i miei padroni».
Poi si ripiegò in se stessa mormorando sconsolata: «Ho perso
un’occasione e la seconda non capiterà».
«Cosa state sussurrando? Entrate con me piuttosto perché
voglio farvi un ritratto».
Dopo avere attraversato uno stanzone, occupato dai caval-
letti degli apprendisti in attesa del giudizio sulle loro tele da
parte del maestro, si posero nell’angolo di lavoro che spettava
a Rubens.
Sul tavolo si trovavano ciotole di pigmenti, macine da co-
lori, molliche per cancellare; sfumini, regoli, squadre, pennelli
pennellini pennelloni.
E una serie di matite vicino a un taglierino mostravano pun-
te in grafite, più o meno sottili. Con cura, Rubens ne scelse
una. La ragazza s’atteggiò. Il pittore, dopo avere preso un foglio,
senza guardarla iniziò lo schizzo. Greta vide la mano di lui che,
priva d’esitazione, dava vita a segni e linee incomprensibili sino
a quando emerse un volto, il suo volto.
«Mi avete fatta a memoria!», esclamò.
Intanto osservava come nel disegno i suoi occhi avesse-
ro qualcosa di diverso rispetto a quelli riflessi dallo specchio
e le labbra piuttosto sporgenti parevano mosse da un curioso
broncio.
Dalla porta più piccola, affacciata sullo stanzone, mise fuori
la testa il signor Isaac e Greta fece appena in tempo a nascon-
dersi sotto il banco.
E così si trovò, a un palmo dal naso, gli stivali in cuoio di
Rubens. Erano robusti, d’un bel colore castagno, e morbide
pieghe s’arrotolavano attorno al polpaccio. Con quelle calza-
ture si poteva andare ovunque… lungo i sentieri di campa-

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gna, nelle sale dei palazzi o delle regge, pestare i ciottoli delle
città, anche passeggiare sulla sabbia. Su quegli stivali un arti-
sta come lui avrebbe conquistato l’Europa, disse col pensiero
Greta.
Intanto il pittore s’era piegato per riuscire a chiedere se il ri-
tratto le piacesse.
«È la mia apoteosi, signore. Anche se sono a terra, grazie a
voi sto in cielo!».
Lui gliene fece dono.
«Ma voi, signore, regalate sempre i vostri dipinti?».
«Solo a chi mi è simpatico ma, se volete, concedo a voi di
venderlo», intanto apponeva in basso la sua firma.
Gli apprendisti alla vista di quei due accucciati o ridevano o
riportavano la scena sulle loro tele.
«Mi garantite, però, che il mio ritratto vale sul mercato come
se l’aveste firmato in piedi e non quasi sdraiato sul pavimento?
E, da ultimo, potreste dirmi se il signor Isaac si trova ancora
sulla porta?».
Il collezionista era sparito dalla vista.
«Sul mio onore dichiaro l’autenticità del disegno di proprie-
tà della qui presente… a proposito, qual è il vostro nome?».
Ora entrambi in piedi si scrutavano.
«Mi chiamo Maria», disse.
«Maria, il nome di mia madre. Allora, addio Maria!».
«State, forse, per partire alla volta delle isole delle spezie, si-
gnore, calzando i vostri meravigliosi stivali?».
Rubens rise di gusto. No, là correvano con foga marinai e
mercanti in cerca di tesori mentre gli artisti si recavano nella ter-
ra dei geni del passato: l’Italia. Non appena fosse giunto il salva-
condotto da parte del municipio d’Anversa, lui sarebbe andato
con cuore trepido e coi piedi nei suoi stivali in cerca di maestri
al di là dei monti, nel nord della penisola. Così raccontò prima
di salutarla per la seconda volta.
La cucitrice non fece in tempo a prendere l’uscio che era di
nuovo in fronte al pittore.
D’un fiato confessò: «Non volevo mancare di rispetto a vo-
stra madre usando il suo nome. Io mi chiamo Greta. E talvolta
mento senza poi arrivare a scusarmi o pentirmi d’averlo fatto».

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Nel palazzotto del collezionista, ogni sera mandata dal buon
dio sulla terra, la signora sottoponeva la sua spia a interrogato-
rio. Del signor Isaac, però, c’era ben poco di nuovo da dire: una
volta entrato nello stanzone della gilda, mostrava interesse solo
per i dipinti sul cavalletto conversando ora con un allievo, ora
con un altro. Mai rivolgeva la parola alle modelle, come se que-
ste non esistessero, e d’altre femmine, in accademia, non c’era
lo strascico d’una veste.
Dopo avere ascoltato il solito resoconto, la gelosia di Maai-
ke, priva del bersaglio da colpire, si sfogava sulle proprie mani
torcendole e mordendo con foga l’anulare della sinistra.
Più confortanti erano le nuove riportate dalla ragazza sulle
cinque capanne, dove regnavano ordine, cautela e l’innato de-
coro domestico delle case fiamminghe: nessuna arditezza o atto
scomposto da parte degli ospiti.
«Non vi sentite fiera di stare mettendo in salvo tanta brava
gente?», le disse Greta durante l’ultimo incontro.
«Certo, certo», rispose lei.
«Anch’io, padrona, volli rallegrare gli esuli durante questi
mesi e mi sono presa cura degli orti davanti alle capanne. Erano
secchi la prima volta che li vidi, mentre adesso sono freschi d’or-
taggi che godono d’essere vicini alle acque del ruscello».
«Certo, certo», ripeteva Maaike pensando ad altro.
Sino a che, la sera stessa, quel maledetto altro scappò fuori
con un bel numero d’accuse rivolte a Isaac e qualche piatto d’ar-
gento scaraventato contro le pareti.
«Moglie, colpite me ma non i quadri!», implorò il collezio-
nista mentre quelli di casa, nel trambusto di voci fuori tono, si
davano di gomito.
Lui venne platealmente accusato d’avere tradito il vincolo
del santo talamo con una o più modelle dai facili costumi e, per
sovrapprezzo, d’essere anche il ladro di pepe. Il nesso, a ben ve-
dere, non risultò subito chiaro alla mente di Isaac. Poi capì. E
prese partito: avrebbe chiamato le guardie municipali acciocché
trovassero chi in casa era il vero predatore di spezie.
Di fronte a tale decisione, la moglie sentì il cuore più leggero.
Batteva forte, invece, quello di Greta mentre, a notte fonda,
seppelliva il piccolo sacchetto in pelle contenente i grani nell’ai-

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uola più preziosa del giardino, dove erano stati interrati a otto-
bre i bulbi di tulipani.
Rimaneva da celare la polvere sbiancante per i denti che ven-
ne nascosta nell’armadiolo dei farmaci dietro le bottigliette del-
lo sciroppo espettorante.
Quando giunsero le guardie per procedere all’ispezione delle
stanze, uno di costoro scoprendo nella camera del recesso la bu-
stina domandò: «E questa cos’è?».
I signori gli stavano alle spalle come l’ombra del corpo quan-
do il sole batte in fronte e, dietro di loro, Greta tremava.
«Servirà per placare i colpi di tosse, visto che si trova accanto
ai balsami», fu pronta a dire la signora.
La guardia, prelevato il reperto, l’aprì: la polvere contenuta
recava in superficie l’impronta d’una recente ditata.
«Si tratta della mia cipria», confermò Maaike con un sorrisetto.
L’altro la guardò. Dopo avere chiesto una ciotola con dentro
un filo d’acqua, vi immerse la polvere che subito assunse un bel
tono verdolino.
«Usate cipria che fa strage di mariti, signora? È cantarella,
questa. Prego, seguitemi che andiamo dal giudice che s’occupa
di veleni».
«Ma mio marito è vivo e vegeto, non vedete?», e questa fu
l’ultima cosa da lei pronunziata.
«Al presente!», chiosò gelidamente la guardia.
Fattosi pallido, il signor Isaac si toccò il petto all’altezza del
cuore. Non poteva neppure pensare che la sua Maaike dagli oc-
chi a mandorla come una madonna bizantina…
Nel palazzotto nessuno conosceva un accidente di quella
polvere tranne Hans Franse che, per giorni, mantenne svegli
tutti con i racconti dei crimini all’arsenico, consumati in casa
Borgia soprattutto dalle femmine.
«Ma noi cosa c’entriamo con le italiane assassine?», gli ven-
ne richiesto.
«I cattivi esempi sono come le erbacce che infestano pure i
campi degli altri e il duca d’Alba, il temutissimo macellaio del-
le Fiandre, aveva la saccoccia piena di cantarella e la metteva a
servizio degli spagnoli al pari d’una truppa annientatrice», spie-
gava lui.

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Intanto la signora Maaike, in attesa del completamento
dell’indagine, fu tenuta in osservazione nell’infermeria del car-
cere sotto l’accusa di presunto appensamento criminale: avrebbe
premeditato di avvelenare il coniuge nel desiderio d’impadro-
nirsi della preziosa quadreria.
Mentre il signor Isaac riferiva la cosa a Greta, ormai diventa-
ta la persona di maggior fiducia nel palazzotto, pareva più mor-
to che vivo. Non poteva immaginare che la sua Maaike fosse
diventata una Lucrezia Borgia del nord Europa!
La presunta avvelenatrice, quasi fosse stata colpita da un ful-
mine, paralizzò la parola: fu la seconda tragica nuova che lasciò
tutti in lacrime.
Nel corso del processo, che si tenne a udienze aperte, il ma-
rito difese la propria sposa come solo un uomo innamorato è in
grado di fare.
«L’attaccamento della presunta vittima alla moglie», teoriz-
zò il magistrato, «mostrava come l’amore rendesse cieco tanto il
povero quanto il ricco, sia il pescatore d’anguille che il cercatore
di perle d’arte».
Quando fu la volta d’ascoltare i testimoni del perpetrarsi
dell’azione criminosa, la cuoca arrivò sfoggiando un’aria da te-
atro. Aveva una testa di capelli per metà grigi e l’altra parte era
del color delle carote avendo sperimentato la tintura consigliata
dallo speziale per fare bella figura. Richiesta del proprio nome,
che era Tia, testimoniò come la padrona fosse buona ma, tal-
volta, l’aveva vista scagliare piatti contro il signor Isaac quando
montava in collera.
Il precettore prese da lontano la faccenda citando, mentre il
giudice sbadigliava, memorabili casi di avvelenamenti a partire
dal medioevo.
Il servo pelandrone fece un giro di mani sul volto come la
scimmietta che non vede, non parla, non ode.
Lo speziale riferì che qualcuna dal volto nascosto sotto il
velo, forse proprio abitante nel palazzotto grigio, era venuta a
cercare cantarella e manco l’aveva pagata.
E Greta benedisse l’impulso che l’aveva indotta a coprirsi la
faccia la volta in cui si recò in farmacia.
Quando venne interrogata, la cucitrice non accusò se stes-

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sa in nome della verità, scagionando in tal modo l’innocente
padrona, ma fece immense lodi della bontà di quella mirabile
signora.
Era salva, lei, ma allo scopo di placare e il senso d’ansia e
quello di colpa, che sempre più la dominavano, portò il con-
sumo quotidiano dei granelli di pepe da quattro a dieci. E, di
notte, le fitte alle gengive erano così forti che pareva volessero
creparle la testa.
Il migliore avvocato della città, chiamato a difendere donna
Maaike, fu degno dell’arte oratoria di Cicerone nell’incipit della
sua prima arringa: «Usque tandem abuteris, signori, della pazien-
za della mia cliente…».
Poi, a sorpresa, chiamò a testimone il signor Isaac.
«Signor giudice, considerate l’hic e il nunc. Non è quest’uo-
mo che deve parlare, piuttosto il colorito del suo viso, l’assenza
di tremito nelle sue mani, la figura eretta e non piegata dagli
spasmi del dolore».
Il giudice, dal volto piuttosto emaciato, convenne in cuor
suo che il collezionista godeva d’una salute di ferro da fare invi-
dia a chiunque. Se fosse stato avvelenato con la cantarella, sta-
rebbe già cantando con gli angeli ab illo tempore! E l’imputazio-
ne di tentato omicidio crollò nell’arco di ventiquattr’ore.
Rimaneva d’abbattere l’accusa del cosiddetto appensamento
criminale, o premeditazione.
E, a conclusione della sua difesa, sostenne: «Signor giudice,
ammesso e non concesso nel caso specifico di chiamare in causa
le intenzioni, queste non sono condannabili, se rimangono tali.
Giustizia, come voi m’insegnate, significa emettere un verdetto
su fatti reali e non basandosi su azzardate fantasie».
Si chiuse pertanto il caso. Maaike, senza avere tuttavia recu-
perato il dono della favella, fece ritorno a casa e il giudice non
seppe dare un volto a chi aveva sottratto il pepe dalla dispensa.

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Gioielli di famiglia

N el palazzotto del collezionista, riprese a scorrere la solita


vita. Solo la cucitrice, giorno dopo giorno, contava i grani
in suo possesso sentendosi mancare e i suoi denti, senza la pol-
vere sbiancante, non le potevano essere d’aiuto per mascherare
il vizio.
Il signor Isaac, considerato il fatto che la moglie non recupe-
rava la parola, dopo averle tentate inutilmente tutte, ma proprio
tutte, non sapeva più a quale santo dovesse o potesse rivolgersi.
Ignorava chi fosse il protettore dei muti. Conosceva, invece, San
Cristoforo. E alla moglie propose di fare, insieme, un viaggio
sotto la tutela del santo dei pellegrini.
Lei, costretta a rispondere per iscritto, si fece portare un qua-
derno, su cui segnò il nome Spa.
Erano, queste, le antiche terme romane non distanti da Liegi
ma il gran buon uomo, dopo averci pensato su e sentendosi da
qualche tempo particolarmente stanco, preferì farle dono d’un
nuovo abito da acquistare negli eleganti negozi di Bruxelles. E
Maaike vergò sul quaderno un bel si!
Venne preparata la carrozza, scegliendo quella adatta ai lun-
ghi percorsi, con una coppia di buone bestie e un guidatore fi-
dato che conosceva le strade di campagna. Lucidata alla meglio
dal servo pelandrone, era comoda, fornita di due spaziose se-
dute, una in fronte all’altra e fasciate di pelliccia, con posti per
sette persone. Vi salì pure la cucitrice in grado di dire la sua su
tessuti e taglio e consigliare la padrona.
Il mio primo viaggio da signora, disse col pensiero Greta in-
tanto che accarezzava la nuova pettorina, uno speciale dono di
Maaike.
Nel corso del tragitto, quasi a metà percorso, il collezio-
nista d’improvviso strinse le mani al petto per un lancinante
dolore alla parte sinistra. Con un ghigno, reclinò il capo sul-
la spalla della consorte. Fermata la carrozza, sia la donna che
il guidatore e la ragazza prestarono i primi soccorsi a chi era
caduto in deliquio. Lentamente si mossero verso la più vici-
na locanda, dopo avere disteso Isaac lungo il sedile. Traspor-
tato nella prima stanza e coricato su un letto, non muoveva
muscolo.
Altre due volte aveva avuto simili mancamenti, da cui era
sempre risuscitato. Il numero tre non portò la medesima fortu-
na e lo specchietto, accostato alle labbra di lui, diede l’annuncio
all’incredula Maaike: Isaac non respirava più. L’urlo della don-
na, uscito dalla finestra, si scontrò contro un pallido raggio di
sole novembrino.
«I suoi occhi non vedranno più la luce!», si mise a gridare,
senza quasi accorgersi d’avere recuperato d’un tratto la voce.
Il trasporto del morto verso Anversa fu accompagnato dalle
scosse della carrozza, quasi volessero dare sussulti di vita al ca-
davere, e dal continuo sporgersi della signora dalla finestrella
dell’abitacolo per raccomandare al guidatore di andare piano,
in rispetto del morto.
Greta, intanto, esortava la padrona a parlare allo scopo di
sollecitarne i sensi evitando uno svenimento. E Maaike ricor-
dava viaggi simili a questo, felici e meno felici, densi, però, di
vita, calore, bronci, nonché delle solite baruffe di coniugi non
più giovani. Lei, a detta del marito, spendeva troppo per cose
vane. Lui investiva eccessivi gulden in quadri che alla signora
non piacevano.
«Il miracolo della luce che li attraversa, moglie, illumina an-
che i miei giorni. Così, Greta, mi diceva sempre», rammentava
Maaike.

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La carrozza, tormentosamente, giunse al palazzotto. La pa-
drona nella propria stanza, accanto a quella del defunto, si ab-
bandonò sul letto col copricapo a sghimbescio.
Ritti sull’uscio, a contemplare lo strazio, c’erano la cuoca,
quel pelandrone del servo, il precettore di casa che teneva per
mano Catharina, e la cucitrice.
«Greta, devi predisporre il drappo nero da appendere alla
finestra centrale della casa», ordinò la fresca vedova senza perde-
re l’innato senso domestico delle brave fiamminghe. Poi diede
ordine che nessuno dei servi entrasse per qualsiasi ragione nella
stanza del morto.
In città, la notizia dell’improvvisa dipartita del collezionista
corse di bocca in bocca e le pie dame della Schola caritatis erano
già lì, di buon’ora, ad agitare il batacchio.
Greta entrò nel panico. Doveva sapere tutto quello che si sa-
rebbero dette le persone in visita. Dopo essersi introdotta nella
cucina, avvicinò l’orecchio dentro il cavo del passavivande, che
rimbombava confusamente le voci. A fatica, ma riusciva a com-
prendere le parole.
Le vedove in visita, scambiando il conforto dell’abbraccio,
sussurravano qualcosa alla signora Maaike che, a risposta, ogni
volta salmodiava: «Tutto è destinato a mutare nella mia vita!».
Greta udì a stento le frasi del medico e poi quelle del notaio,
prontamente chiamato dalla legittima erede del defunto.
Netta, invece, la voce della padrona che ordinava al servo
pelandrone di recarsi presso la gilda di San Luca per dare la fe-
rale notizia al giovane maestro Pieter Paul Rubens, così devoto
al caro estinto.
In tutta fretta arrivò il pittore che, conoscendo la strada, si
portò subito al piano superiore. Poi chiese alla signora di vedere
l’amico, per l’ultima volta. Dalla cucina, Greta riconobbe i loro
passi mentre entravano nella stanza, poi silenzio. Li immaginò
raccolti ai piedi del letto del collezionista che giaceva disteso tra
due grossi ceri, accesi all’altezza del capezzale.
In obbedienza al divieto della padrona, lei non doveva entra-
re nella camera ardente ma neppure poteva continuare a usare
solo la fantasia. Senza troppo riflettere, la ragazza fece un cen-
no al servo pelandrone. Gli promise qualche stuiver dandogli il

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compito di girare la manovella del passavivande, dopo che lei
s’era infilata nella cavità, sino a quando non avesse udito il clic
che annunciava l’arrivo del carico in un angolo appartato della
stanza del morto.
Così, disse tra sé, riesco a godermi un’altra volta Rubens pri-
ma che vada in Italia e renderò pure omaggio al mio padrone.
Il pelandrone, sperando d’avere capito bene, azionò la ma-
novella e Greta salì come l’ultima carpa insaporita di pepe de-
stinata al povero Isaac.
Attraverso le trame in pizzo della tendina, che copriva l’aper-
tura del muro della stanza d’arrivo, riusciva a vedere il pittore
con Maaike. Per l’emozione, non avvertì subito l’odore del cibo
che aveva incrostato le pareti sino a quando il naso iniziò a piz-
zicare. Il passavivande che starnutiva l’avrebbe tradita. Con for-
za, si turò le narici per spegnere l’eccì e così distinse chiaramente
le seguenti parole.
«Signora, la collezione di vostro marito…», stava dicendo il
maestro.
«Domani…, domani, caro Rubens», rispose lei, «controlle-
remo, insieme, i dipinti e voi mi segnalerete quali siano i più
preziosi sul mercato. Intendo sbarazzarmene, sapete, perché
non mi sono mai piaciuti. Così, se foste mai interessato a qual-
che acquisto, avrete il privilegio d’essere il primo della lista e
godere vantaggi sul prezzo».
Lo guardò quasi attendendo un cenno da lui che, però non
giunse.
«Non è questo il momento», continuò allora, «per discutere
tale faccenda, vero Rubens? L’argomento da affrontare adesso è
la sepoltura… pensavo di collocare la salma nella cattedrale del-
la città e aspetto un vostro parere».
«Donna Maaike, nella superba chiesa della Carissima Signora
dormono l’eterno sonno i grandi artisti, non i collezionisti…»,
e concluse il pittore con aria un po’ troppo vaga perché la si ri-
tenesse sincera, «sui quali la Storia sarà chiamata a dare l’ultimo
giudizio».
«Che giudizio, Rubens? Ma di che parlate?», proruppe la si-
gnora che aveva, con buon intuito femminile, capito come il
pittore le stesse celando qualcosa d’importante. E con una de-

62
terminazione, che non consentiva appello, chiese: «C’è qualcosa
che dovrei sapere, Rubens?».
A quel punto il pittore non poté tacere oltre: «Signora, a me
spetta dirvi l’intera verità, come promisi a vostro marito e la
cosa, credete, mi reca cruccio».
Donna Maaike con un volto pallido come una nube bianca-
stra su un cielo grigio lo incitava a parlare.
«I quadri della collezione del signor Isaac sono dei falsi d’au-
tore», riuscì infine a dire il maestro con un certo qual sforzo,
«falsi d’ottima fattura, credete, e perfettamente identici per ide-
azione, colori e composizione a quelli usciti dalla mente e dalle
mani dei veri artisti».
Studiò il volto della vedova per scoprirne la reazione di fron-
te alle ultime parole prima di far udire: «I vero-simili, però, non
sono i capolavori per il cui possesso sovrani, principi, nobili e
mercanti sono disposti a pagare una fortuna pur di farne sfoggio
nelle loro dimore».
Greta sentì un tonfo sordo poi, dopo avere sollevato con un
dito il bordo della tendina di pizzo, intravide Maaike caduta per
un improvviso venir meno addosso al marito morto.
La donna, comunque, fece presto a rialzarsi e domanda-
re: «Rubens, parlate chiaro e fatemi capire… a mo’ d’esempio,
quanto vale sul mercato un antico fiammingo autentico e quan-
to un falso del medesimo?».
«Mille fiorini il primo, cento l’altro. A proposito, voi posse-
dete solo quattro opere autentiche: le tavole a olio di Bruegel il
vecchio, che vostro marito acquistò dall’amministrazione d’An-
versa. Sono i gioielli di famiglia, questi».
La signora udì distintamente solo la prima frase perché finì,
semi svenuta, tra le braccia del prete testé giunto, che spruzzò
pure lei con l’acqua benedetta.
Una volta riavutasi e dopo l’uscita dalla stanza del religioso,
domandò al pittore: «Ditemi come mai mio marito dilapidò
una fortuna pur d’avere una collezione ingannevole».
«Era un autentico raffinato nell’arte della beffa tanto da chie-
dere alla più famosa e sublime falsaria del secolo di trasferirsi da
Venezia ad Anversa con lo scopo di copiare i capolavori antichi».
«Pagò mio marito le spese di viaggio?».

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«Non solo quelle, con generosità pure le altre. La sublime pre-
tese l’arredo d’uno studiolo dove poter dipingere e alloggiare».
«Non ci posso credere… mi state, forse, raccontando una
vostra fantasia?», bisbigliò Maaike.
«Cosa avete detto, signora?».
Lei rimase in silenzio. Greta riusciva a mettere a fuoco l’e-
spressione della padrona mentre da un iniziale incredulo stu-
pore, vagante sul suo viso, passava con improvvisa risolutezza a
una concreta presa d’atto della situazione contraendo le labbra
sino a farle sparire dentro la bocca.
«Rubens, al presente, le mie fantasie sono di tal fatta».
E cominciò a sciorinare una fitta serie di domande circa
prezzi e quotazioni di falsi a cui il pittore non seppe rispondere
sino a quando non le arrivò, come colpo finale, un’illuminazio-
ne: «E se vendessi la mia collezione dei falsi come fossero au-
tentici visto che sono così perfetti d’avere ingannato anche la
moglie del famoso Isaac van der Voort?».
«Nella nostra magnifica città», poté finalmente replicare Ru-
bens, «siamo riusciti a camminare sulle acque. Indi, cara Maai-
ke, ogni miracolo è possibile. La Francia ci invidia i nostri pitto-
ri e il paese non è lontano. Questo, però, io non ve l’ho detto».
«E io neppure l’ho ascoltato, signore».
Il rumore dei passi di Rubens e della donna, che si allonta-
navano, poi il cigolio della porta chiusa alle loro spalle, libera-
rono Greta dal nascondiglio. Spinse dabbasso il passavivande e,
di soppiatto, uscì dalla stanza, non prima, però, d’essersi fatta il
segno della croce davanti alla salma del signor Isaac.

In attesa delle esequie, la ragazza venne mandata dalla padrona


alle capanne con l’incarico di serrarle dopo l’avvenuta partenza
degli ospiti di turno. Date le infauste circostanze e il grave lut-
to, che s’erano abbattuti sulla famiglia, le case-rifugio dovevano
restare chiuse… e chissà per quanto tempo.
Per recarsi là, scelse la via più lunga, quella dei merciai, per
fare una prima sosta davanti alle vetrine, dondolando il cesto
che teneva tra le mani. Poi costeggiò il fiume in compagnia d’un
granello di pepe e preferì non passare dalla zona malfamata della
città per seguire i consigli della sua signora. Arrivata nei pressi

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delle mura, dopo avere superato il laghetto che entrava nella cit-
tà, prese il sentiero in direzione delle cinque capanne dei vecchi
pescatori, ai piedi della collina punteggiata di molini. La prima
in mattoni bianchi e rossi era piuttosto isolata rispetto alle altre,
riconoscibile dal profilo del tetto smarrito in mezzo al fogliame
dei pioppi con dietro un bosco scuro di olmi.
Greta osservò attentamente l’orto, tolse qualche erba e infi-
lò nel cesto un cavolo. A novembre, questi erano già cresciuti e
pronti a finire in padella. Poi entrò con la chiave estratta dalla
tasca della pettorina. Controllò ogni finestra sbarrata da una
ringhiera e raccolse la reticella pendente dal balcone, usata per
catturare le anguille del ruscello che si nutrivano con i rifiuti
della cucina.
Stava per passare all’ispezione della seconda capanna, quan-
do volle riservare l’ultima occhiata al seminterrato che serviva
da deposito d’oggetti non più utilizzati. Notò un cassone forni-
to d’una serratura che nessuna chiave riuscì ad aprire. Ricordò,
allora, d’averne una piccola che la signora aveva detto di non
mischiare alle altre cinque. Dopo averla recuperata nel fondo
della cesta, s’accorse che era quella giusta.
Dentro il baule, sotto una distesa di panni smessi, le dita
di Greta sentirono la consistenza d’un involucro dallo spessore
piuttosto ingombrante. Sollevata la tela di fiandra, che lo fascia-
va, scoprì quattro cilindri in cartone, lunghi quanto un braccio
disteso e chiusi da un tappo apribile. Contenevano altrettanti
rotoli, avvolti in una carta rugosa e sigillata nel centro con un
timbro in ceralacca. Ritenne che non fosse opportuno romper-
lo. Sospettò che si trattasse di pagine, larghe come una federa,
su cui il padrone avesse raccontato la lunga, atroce guerra vissu-
ta nella città d’Anversa. Queste carte spiegavano, forse, le scene
dell’arazzo che Isaac, prima di morire, intendeva commissionare
ai mastri lanieri d’Arras?
«Sarà ben contenta di riaverle, sua moglie», disse a voce alta
mettendo nel cesto i quattro cilindri che superavano d’un pal-
mo il bordo.
Sulla via del ritorno, venne fermata presso la dogana.
«Cosa introduci in città?», domandò il preposto indicando
le rotondità sporgenti.

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«Un bel cavolo di niente!», rispose la ragazza.
L’uomo, dopo avere preso a caso un cilindro, sollevò il tappo
in cartone. All’interno scoprì un rotolo sigillato e ruppe la ceralac-
ca per controllare di cosa si trattasse. Tra gli smorti colori dell’au-
tunno apparve una tavola con i lavoratori dei campi tra mucchi di
grano, d’un giallo color olio, alti come una parete di casa.
«E le altre tre sono uguali a questa?», chiese.
Greta, rimasta con la bocca semiaperta per la sorpresa, non
rispose. Sul suo volto apparve un’espressione concentrata come
volesse forzare la propria memoria. Stava ricordando che Ru-
bens, durante il colloquio con donna Maaike al capezzale del
collezionista morto, aveva precisato che solo quattro erano le
opere autentiche in possesso della famiglia: quattro capolavo-
ri d’un antico maestro fiammingo dal valore di mille fiorini
ciascuno.
«Allora, ragazza, non hai sentito la mia domanda?».
E lei, a voce alta, quasi senza rendersene conto, si trovò a ri-
petere le parole conclusive del pittore, quelle che la sua padrona
non aveva potuto udire: «Sono i gioielli di famiglia, questi».
«Ma cosa stai dicendo?», domandò l’altro piuttosto burbero.
Con un sorriso e una strizzatina d’occhio, rivolti alla guar-
dia, rispose: «Questi scarabocchi in famiglia li chiamiamo cavoli
nostri».
Con la massima indifferenza, il gabelliere riavvolse la tavola
che infilò nel cilindro.
Greta riprese il cammino; evitò di voltarsi per non dare
nell’occhio; e respirava, respirava cercando di mantenersi
calma.
Poi, dopo avere percorso un lungo tratto, si guardò all’intor-
no. Non c’era nessuno. Allora sì che gridò: «Ce l’abbiamo fatta
a tenerci stretti quattromila fiorini!», abbracciando la cesta per
scaricare la felicità.
Una volta giunta nei pressi del palazzotto, s’accorse che da-
vanti alla porta sostava un gruppo di persone. Avvicinandosi,
scoprì la signora Maaike, scortata da un addetto del municipio
che tentava di farsi largo tra quella piccola folla.
A Hans Franse, che teneva per mano Caherina, Greta do-
mandò cosa stesse capitando.

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Il precettore le fece cenno di tacere.
La cuciniera piangeva; il pelandrone aveva la schiena appog-
giata al muro; le vecchie della casa di fronte tenevano la testa
tra le mani.
«La portano in prigione sotto accusa d’avere ucciso il marito
con la cantarella», dicevano le cornacchie.
E il povero signor Isaac?, pensò lei mentre saliva di corsa le
scale.
Nella stanza del morto due uomini con la tunica bianca e
le mani inguantate lo stavano sollevando per distenderlo sopra
una lettiga.
«Dove lo portate? Domani è il giorno del funerale», chiese
con impeto quasi sbarrando loro la strada.
«Il giudice ha richiesto l’autopsia, dopo avere sentito il pare-
re del medico. È una morte sospetta. Una gran brutta faccenda!
Facci largo, ragazza!».
In casa del defunto, calò l’atmosfera che sospende il ritmo e
le cadenze d’ogni giorno così Greta prese l’iniziativa di recarsi
dall’avvocato allo scopo di chiedergli d’assumere, per la seconda
volta, la difesa dell’imputata.
Dapprima il legale accampò scuse. Poi fece intendere come
a donna Maaike, al momento, fosse interdetto disporre a pro-
prio piacimento dei beni di famiglia. E lui, con quattro figli che
costavano un occhio all’università Guglielmo d’Orange di Leida,
non poteva aspettare lo scioglimento del divieto per avere un
anticipo sulle proprie competenze.
Intanto dal magistrato dell’assunteria municipale fu ingiun-
to che la figlia del defunto e dell’indegna madre venisse accom-
pagnata dal precettore presso i nonni materni, a Rotterdam.
«E chi coprirà le spese di viaggio?», subito chiese Hans
Franse.
La cucitrice conosceva sia il cassetto della scrivania, dove il
povero Isaac teneva i fiorini per le necessità più urgenti, sia il na-
scondiglio della chiave che l’apriva. Stava per rivelare entrambi
i segreti quando, d’intuito, tacque. Nessuno in questa casa era
ormai degno di fiducia.
Corse, allora, alla gilda di San Luca con i quattro rotoli in
mano. Se Rubens avesse acquistato le preziose tavole per una

67
conveniente somma oppure avesse provveduto a metterle sul
mercato, con i fiorini della vendita la signora avrebbe potuto
essere difesa dal migliore avvocato della città.
Il pittore era già partito, il giorno prima.
«Per l’Italia?» chiese Greta.
«Alla volta di Venezia!», fu risposto.
Fatto ritorno a casa, cercò la città sull’atlante di Hans Fran-
se e poi si mise a dormire ma la notte fu tutta un sussulto. Non
prese certo il coraggio di denunciare se stessa come la ladra del
pepe e, in aggiunta, responsabile morale della tragedia in seno
a quella famiglia che l’aveva accolta e trattata così bene. Non le
passò per la testa di trovare il modo di restituire i preziosi di-
pinti alla giovane Catharina, la legittima erede e l’unica rima-
sta a piede libero. Piuttosto scelse d’agire difendendo la propria
persona, la fortuna che le era piombata tra capo e collo e, nel
contempo, pensò a come tutelare la padrona. Così il cerchio si
sarebbe chiuso e con buona pace di chi era ancora al mondo.
A suo avviso, esisteva un’unica possibilità: affidarsi alla rete
di solidarietà dei calvinisti. Costoro erano tenuti a salvare don-
na Maaike, così come lei aveva messo al sicuro tanti di loro
offrendo vitto e alloggio nelle capanne lungo il ruscello. Era
giunta l’ora per i parenti degli eretici di restituire il favore alla
benefattrice.
Nella stanza della signora cercò e trovò il quaderno con i
nomi di tutti i beneficiati e dei loro famigliari ringraziando
Dio d’avere imparato a leggere. Non risultò difficile entrare in
contatto con chi, d’impronta, si mise all’opera. In meno d’u-
na settimana un collegio, composto da tre avvocati d’Amster-
dam, assunse la difesa della vedova del collezionista senza nulla
pretendere.
Greta fece visita in carcere a donna Maaike, che ormai non
assomigliava più alla signora conosciuta nove mesi prima. Le
disgrazie avevano restituito alla sua figura il peso degli anni… e
anche qualcuno in più. Tra i capelli della passata madonna bi-
zantina s’erano infittite le ciocche grigie, in gara con l’incarnato
spento e in armonia con la vestina da carcerata, che chiudeva il
derelitto quadro.
«I bravi avvocati calvinisti di Amsterdam vi porteranno fuori

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dai guai, mia padrona», disse la ragazza nella stanza dei colloqui,
«così presto potrete rivedere vostra figlia».
La poveretta, però, non ascoltava e ripeteva: «Sono tutti falsi
i quadri… sono tutti falsi… sono tutti falsi».
Greta non sapendo più cosa dire s’avviò in direzione dell’u-
scita, ma quella nenia sussurrata a capo chino fece saltare i nervi
alla ragazza. Dopo essere tornata davanti alla donna con rabbia
gridò: «Se non foste caduta come una pera cotta, avreste saputo
da Rubens che possedete quattro capolavori autentici».
La nenia della donna non si fermava come se lei non fosse
più in grado di comprendere nulla tranne quel lamento.
«Ebbene io, la vostra serva, ho scovato i dipinti e ve li resti-
tuirò a patto che chiudiate quella bocca una volta per tutte!».
Afferrata da un raptus, sentì l’impulso di prendere la padro-
na per i capelli… ma la sorvegliante, allarmata dal tono di voce,
sporse la testa dall’uscio facendo intendere alla visitatrice che era
il momento d’interrompere il colloquio.

Greta se n’andò con un macigno sul petto. Nell’ora dell’im-


brunire faceva ritorno al palazzotto quando, d’improvviso, sentì
un’ondata di freddo avvolgerle il corpo. Nel tentativo di scaldar-
si, accelerò i passi ma il gelo non cessava di friggere gli arti. Sof-
fiò sulle mani e, per scacciare il formicolio dalle gambe, s’agitava
quasi sentisse risuonare una musica. Era strano, però, quel rit-
mo… che fosse suonato dal diavolo? Intanto un diavolo in car-
ne ed ossa nei pressi della piazza del mercato l’afferrò e lei non
riuscì neppure a lanciare un grido perché una mano le chiuse
la bocca. Sferrava calci negli stinchi del malvivente… macché
quel diavolaccio non sentiva i colpi mentre la strascinava ver-
so un portone semiaperto, vuoto, silenzioso con in angolo una
torcia già accesa.
Vedo le fiamme dell’inferno prima di finirci perché sono
una ladra, pensava sentendo le spalle premere contro il muro
dell’androne e sulla faccia l’alito del bruto. Sapeva di vino. A
morsi staccò brandelli di stoffa dalla giubba dell’uomo che fi-
nirono a terra come grumi di vomito. Ma ecco che una corda
stava per uscire dalle tasche del diavolo e arrotolarsi attorno alla
sua gola.

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Mi strangolerà con quel laccio, avrebbe voluto urlare anche
se non usciva più un suono da quella morsa. Allora serrò le pal-
pebre per raccogliere un’immagine che le fosse cara ma non la
trovava. Poi, udito un insolito trambusto, riaprì gli occhi e lun-
go la traiettoria dello sguardo seguì un possente pugno, sferrato
con la destra, che s’abbatteva sull’aggressore finito lungo disteso
al suolo, a faccia in giù, tra sputi ed escrementi d’animali.
Illuminata dalla fiamma della fiaccola, l’altra mano del sal-
vatore emergeva dal buio. Era quella mutilata di Sebastian lo
spagnolo, il ladro dei fanoni della balena, cui mancavano due
dita nella sinistra!
Scappò dall’androne e prese a correre verso la riva della
Schelda in fondo alla strada, voltandosi ripetutamente per mi-
surare la distanza dal presunto inseguitore, sino a quando il pie-
de scivolò lungo il bordo trascinandola nel fiume.
Nel tramontano asciutto del mese di dicembre, nauseabon-
de zaffate risalirono dalle acque del naviglio della magnifica cit-
tà d’Anversa.

Quando Greta riaprì gli occhi, vide una ruota color fiamma
piegata sul proprio volto. La donna che la fissava era bellissima.
Non sono finita all’inferno e quelli sono i capelli d’una fem-
mina viva, pensò.
La rossa, dopo averle sfiorato il viso, la stava salutando:
«Bentornata su questa terra! Te la sei passata male, bimba. Il
medico pensava che non ce l’avresti fatta a sopravvivere alle ge-
lide acque del canale. Tienti cari i polmoni!».
«Dove mi trovo, signora?».
«Chiamami Maria per fare prima», rispose l’altra:
«Maria… come la madre di Rubens».
La donna non comprese ma le raccontò che era stata porta-
ta, fradicia e priva di sensi, nella locanda del Morto pallido, nei
bassi della città, dove ora stava al calduccio.
«Le signore mai scendono in queste parti malfamate», disse lei.
«Oh, bimba, bada di non farmi venire la mosca al naso con
tutte ’ste arie», e intanto, estratto da una custodia lo scatolino
della cipria, s’imbellettava continuando la solfa, «perché sei una
poveraccia né più né meno della sottoscritta».

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«Chi mi salvò dalle acque? Non ricordo nulla e non ho più
con me il sacchetto di pepe. Tu, per caso, lo vedesti?».
La rossa, scuotendo il capo, uscì dalla stanza e Greta sentì
queste parole: «Quella là dentro ha una testa che, per la botta,
ha preso ad andare per conto proprio. Vedi un po’ cosa riesci
a cavarci visto che l’hai menata sulle tue spalle sin qua, caro
Sebastian».
Udito quel nome, la ragazza comprese d’essere caduta dalla
padella nella brace: sfuggita a un’aggressione, ora, era preda del-
lo spagnolo che l’avrebbe mandata al creatore, dopo avere sco-
perto chi lei fosse. Guardò verso la finestra. Ce la faceva a rag-
giungerla e scivolare lungo il cornicione? Si mise in piedi. Per la
debolezza cadde al suolo, priva di sensi, con un gran tonfo che
fece correre dentro quelli di fuori.
Al nuovo risveglio, vide la mano mutilata appoggiata sul
bordo del letto. D’impulso, appoggiata sui gomiti con due lem-
bi del lenzuolo tra le dita, afferrò la questione per le corna: «Sei
tu il brabantino spagnolo, come ti chiamò il mio povero padro-
ne, vero? Sappi allora che ho usato il tuo nome due volte. La
prima per spillare da un marinaio del porto i granelli di pepe
senza i quali non riesco nemmeno a vedere se fuori nevica o c’è
il sole».
«E la seconda?», interruppe lui.
«Ti denunciai come il ladro dei fanoni della balena allo sco-
po d’avere la taglia promessa e farmi bella con i miei padroni».
«Le unghie rotte dicono che sei una serva», notò l’altro.
«No, sono una cucitrice».
«Le spie rischiano di fare una brutta fine, cucitrice».
«Non ne dubito. Ma, ugualmente, ascolta il piano che met-
terà in pace entrambi. Io mi salvo la pelle, tu diventi ricco al
punto da sputare in faccia a tutti i ladri del mondo».
L’altro ascoltò sbalordito anche il seguito del discorso, pro-
nunziato confusamente senza mai prendere fiato. Capì soltanto
di dovere andare nella stanza di cucito d’un palazzotto grigio
oramai disabitato, dove lei aveva lavorato e vissuto, facendo il
nome di Greta alla serva che gli avrebbe aperto la porta.
«Se vuoi, ti posso anche fare una mappa per arrivare alla
casa, so scrivere io. A proposito, sono Greta ma talvolta, per fare

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la santa, mi faccio chiamare Maria come la madre del pittore
Rubens».
«Oh, oh… Greta o Maria, tu sei in delirio e io torno a cer-
care il medico».
Incurante delle parole di lui la ragazza continuava: «Nella
stanza del cucito, al piano terra, apri il secondo cassetto a si-
nistra del tavolo da lavoro e cerca sul fondo. Troverai nascosti
quattro cilindri di cartone con dentro altrettante tavole dipinte
dal valore di mille fiorini l’una. Puoi prenderli e venderli. Allora
accetti?».
La figura dell’uomo dominava l’intera stanza o era l’attesa
della sua decisione a prendersi tutto?
«Dunque, sei una cucitrice ladra, che non ha più una casa e
vuole sbarazzarsi della refurtiva appioppandola a me».
Inaspettatamente si tolse gli stivali. La caduta delle suole sul
pavimento rimbombò lungo la schiena di Greta. Con ancora
addosso la giubba, l’uomo si distese sul letto e, dandole le spalle
senza sfiorarla, sussurrò: «La tua proposta non mi garba. Non
si piazzano dei dipinti rubati, se non sei nel giro dei mercanti
d’arte che non sono il mio genere».
Poi si mise a dormire o finse di farlo mentre la ragazza aveva
un’intera notte per pensare che avrebbe fatto una brutta fine.
La mattina seguente, tutto serio, disse: «Visto che abbiamo
già diviso un letto, ci spartiremo anche altri affari. Sembri una
femmina nata e sputata per fare robe speciali, tu!».
Lei, dopo avere tirato un sospiro di sollievo, provò a fare del-
lo spirito: «Cosa…, te la cavi così senza corteggiarmi?».
La frase non lo fece sorridere. Del tutto indifferente, con-
tinuava a stropicciarsi gli occhi con la mano intatta che aveva
strappato Greta dalle grinfie d’un lercio bestione. Che mi piac-
cia o no, disse col pensiero la ragazza, Sebastian lo spagnolo,
considerato il più gran ladro del porto, è il mio salvatore. Lui
mi tirò fuori dalle acque, mise una mezza morta sotto un tetto
e chiamò un medico per curarmi. Nessuno al mondo al pari di
questo delinquente s’è mai tanto prodigato a mio favore.
Del resto, anch’io mica sono una santerellina e un ladro vero
e una mezza tacca come me… chissà cosa combineranno!
All’idea si fece una sonora risata prima di chiedere: «Quali

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sarebbero le robe speciali, cui accennasti, visto che non siamo in
grado di trafficare con le opere d’arte?».
Lo spagnolo le dava le spalle. S’era posto a ridosso della fine-
stra e, al di là del riquadro, il cielo appariva basso, quasi all’al-
tezza della sua fronte. La luce con punte d’argento pizzicava i
capelli chiari, che l’uomo portava lunghi e stretti in una coda.
«Cos’è ’sta storia del brabantino spagnolo?», domandò giran-
dosi con lentezza verso di lei.
«Giuro che te la racconterò se mi fai salire su una nave, una
qualsiasi… perché, come sai, chi s’imbarca prima o poi arriva a
un porto».
Si sentiva in forze ma, una volta scesa dal letto, le gambe tre-
mavano e fu costretta a sdraiarsi sollevando la testa dal cuscino
solo per sorbire un sostanzioso brodino fumante.

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Nel cuore dell’ambra

D opo aver trascorso quindici giorni nella locanda del Morto


pallido, Greta si recò nel palazzotto del collezionista.
Nulla pareva mutato nel decoro delle stanze tranne i dipin-
ti, staccati dalle pareti e ammonticchiati gli uni sopra gli altri
ai piedi della scala a formare un rialzo che si reggeva sulla base
delle cornici più grandi. La lunga e spessa striscia di carta mar-
roncina, che li avvolgeva, recava la scritta, Laten staan: Non
toccare.
Ebbe paura che anche il suo ritratto, dono di Rubens, fosse
stato messo sotto sequestro.
Fortunatamente, scoprì quasi subito che nel cassetto del ta-
volo da cucito quel mirabile disegno era rimasto in attesa di lei.
E sotto, ben nascosti, c’erano i quattro cilindri che conteneva-
no i rotoli, i gioielli di famiglia ritrovati nel cassone del semin-
terrato della prima capanna. Con estrema cura depose i tesori
nell’ampia sacca di stoffa che s’era prudentemente messa sulle
spalle in vista del trasporto.
Le cose preziose che corrono maggiori rischi durante un tra-
sloco, aveva detto una volta la signora Maaike sono nell’ordine:
vetri ceramiche tavole dipinte. E Hans Franse solennemente as-
sentì citando illustri cambiamenti di residenza.
Basta coi ricordi!, commentò tra sé la ragazza.
Alla cuciniera Tia, l’unica che aveva il permesso di restare
nella casa, chiese dove fosse il precettore.
«A Rotterdam presso i nonni materni di Catharina», fu la
risposta.
Il servo pelandrone, invece, cercava lavoro al porto.
«Forse, allora, lo vedrò», disse Greta annunciando che si sa-
rebbe imbarcata.
«Te ne vai da sola?», domandò Tia.
«Non proprio da sola».
«Sei sempre stata strana, tu. In ogni caso, buona fortuna!
Solo io resterò nel palazzotto sino a quando il giudice non mi
manderà via».
Greta sentì l’impulso d’abbracciarla ma l’altra aveva già vol-
tato le spalle. Fece caso che la servente portava a spasso un sede-
rone da non passare certo inosservato.
Come mai non l’ho notato prima?, fu il suo immediato pen-
siero. E quante altre cose non avrò considerato?
Provò a ricordare il volto, il naso, l’altezza o un qualche gesto
del servo pelandrone. Ma le era proprio antipatico!
Meglio dimenticarlo, disse col pensiero. Sto lasciando la casa
che, una nevicata di tanto tempo fa, m’aprì la porta… e, pure
oggi, poco ci manca che venga giù ben bene.
Lo sguardo corse alla finestra sul giardino.
«Oddio, i bulbi dei tulipani!», esclamò.
Intanto che lo pensava era già fuori, china sulla aiuola più
grande. I cipollotti erano stati interrati dalle sue mani sul finire
del mese di settembre in cassette profonde e ricche di terriccio
misto a fango di fiume. Ora vi aggiunse una copertura di paglia
per assorbire l’umidità del suolo. Nella serra, cercò il sacchetto
in cui dovevano trovarsi altri due bulbi: bruttini e striminziti
non vennero messi a dimora.
Voglia Dio che mi portino fortuna, disse tra sé mentre li col-
locava nella sacca, avvolti in un telo di fiandra, accanto ai rotoli.
Riguardò l’aiuola.
Forse i tre avvocati calvinisti di Amsterdam riusciranno a far
liberare Maaike dal carcere per l’appuntamento con la fioritu-
ra?, pensò e poi, stranamente, a voce alta: «E io, in quel tempo,
chissà…!».

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Lo spagnolo le aveva fatto un nome d’un porto che lui cono-
sceva bene: Tangeri. Ma dove si trovava? D’improvviso si toccò
il capo con un colpetto… sull’atlante di Hans Franse avreb-
be cercato la risposta. La stanza del precettore, completamente
vuota di libri, pareva più grande. Roteò lo sguardo. Sulla scriva-
nia vide una lettera chiusa con la ceralacca che portava scritto in
lettere maiuscole, Per Greta.
Se mi metto a leggerla, non partirò, disse tra sé. Con estre-
ma cura la ripose nella tasca della pettorina in pizzo rosso e,
passando il palmo sopra il foglio, lo stirò perché i margini non
si piegassero.

Salì insieme a Sebastian su un galeone svedese, ancorato in rada,


tenendosi ben stretto il consiglio della rossa Maria che aveva vo-
luto accompagnarli al porto.
«Ficcati in testa, Greta, che nella coppia se uno è saggio,
sono felici in due».
Viaggiavano leggeri, loro, con solo una grossa sacca in stoffa
e Raissa era il nome dell’imbarcazione, scolpito sotto il corpo
del drago che si mostrava sulla prua. Anche da lontano, quella
polena avrebbe fatto a chiunque intendere che era parte della
flotta dominatrice del mar Baltico, costruita da quei mastri d’a-
scia norreni, eredi dei vichinghi, richiesti da tutta Europa per la
loro abilità.
Il comandante, dopo avere radunato i passeggeri sul ponte
per porgere loro i saluti e il benvenuto a bordo, si presentò ami-
chevolmente come il signor Gunnar mentre l’aiutante ritirava
le monete con cui i medesimi pagavano il viaggio. Lo spagnolo
consegnò una bella sommetta in dirham del Marocco.
«Sono il frutto della vendita dei fanoni della balena, vero Se-
bastian?», chiese Greta.
Lui, come risposta, pose l’indice sulle labbra di lei.
Intanto che la ragazza si guardava all’intorno, i marinai sor-
ridevano per trasmettere fiducia ai presenti. Pur restando muti,
quegli omoni parlavano con la forza delle loro corporature: in
caso d’attacco da parte dei pirati avrebbero buttato a mare con
una spallata i nemici.
Nel corso d’una tempesta, pensò Greta, ci si poteva attac-

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care ai loro capelli lunghi sino alla cintola come fossero vele di
salvataggio.
Il piagnucolio d’un bambino che, tra le braccia della madre,
con il dito indicava il suo babbo, la distolse dall’estatica ammi-
razione come dalle fantasie.
Dopo aver toccato il gomito di Sebastian gli sussurrò: «Ho
tanto sognato e immaginato d’andare per mare che nulla mi
sorprenderà».
«Aspetta a dirlo», rispose lui.
Il comandante invitò i passeggeri a prendere confidenza con
la nave sotto la sua guida. Era un tarchiatello di media età, ben
fasciato dalla giubba color turchino con doppia fila di bottoni
dorati. Osservandolo a Greta sfuggì una risatina.
La natura, pensò, s’è distratta per un momento e, al posto
d’un vichingo intero, ne è uscito uno a metà!
Intanto il signor Gunnar, seguito dagli ospiti, mostrava le
parti dell’imbarcazione. Non si trattenne dal raccontare, gon-
fiando il petto per l’orgoglio, che, prima della partenza dal por-
to di Stoccolma verso le rotte dell’Europa del sud, le fiancate del
galeone erano ornate di statue mobili in legno colorato, di cui
si potevano vedere copie di piccole dimensioni collocate negli
spazi interni.
Greta mormorò nell’orecchio dello spagnolo: «Mi sta salen-
do il ghiribizzo di srotolare sotto gli occhi di quel presuntuoso
le mie tavole fiamminghe… alla faccia delle sue statuine!».
Intanto l’altro blaterava: «Raissa, signori e signore, sarà la
vostra abitazione nel corso di questo viaggio. E adesso visitere-
mo le dieci tughe approntate per voi».
«Speriamo che tenga il mare», diceva scettico Sebastian. «È
talmente stretta per un carico che deve navigare per quattro set-
timane al largo di Francia e Spagna!».
Quindi tastò il pesante legno di rovere, esaminò ben bene
le vele, i tre alberi su in coperta, il ponte inferiore dotato d’una
ventina di cannoni con accanto le amache dei marinai che, di
notte, venivano srotolate per un sonno a cielo aperto.
Le monete del Marocco aprirono per loro le porte d’u-
na buona cameretta a prua: un viaggio da quasi signori, anzi
da gran signori perché Greta vi sistemò subito, in bella vista,

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il suo ritratto e sulla mensola i cilindri con dentro i preziosi
rotoli.
La loro tuga, sufficientemente grande, offriva il lusso di non
costringerli a pestarsi i piedi e una parete divisoria l’escludeva
da altre due, occupate dalle mogli dei marinai. A detta di Seba-
stian, le vikingen con le spalle larghe e dal carattere altrettanto
robusto erano donne gelosissime. Avevano preso partito d’im-
barcarsi con i figli nel timore che i mariti, una volta a terra e da
soli, facessero cadere il velo a una qualche turchessa, ben dispo-
sta a tradire financo Allah pure d’avere un nordico tutto per sé.
«Pure tu mi tradirai, mio brabantino spagnolo?» chiese,
istintivamente, Greta.
«Tu non sei mia moglie né un’amante, ma socia in affari».
Sì, ma quali affari?, disse la ragazza col pensiero.
Ogniqualvolta faceva domande in merito, le risposte arriva-
vano vaghe. A lei toccava quindi rimanere corrucciata e in si-
lenzio. E quella frase sembri una femmina nata e sputata per fare
robe speciali… come la rimuginava senza mai riuscire a venirne
a capo!
Ancor più, però, l’offendeva il comportamento dell’uomo.
Dopo qualche notte passata insieme nella locanda del Morto
pallido quando, di mattina, chiudeva la porta della loro stanza,
s’irritava nel non vedere le lenzuola sconvolte come il campo di
battaglia di due amanti.
A tal proposito, s’era rivolta alla rossa Maria che, prima, sor-
rise all’idea d’una quiete a lei del tutto ignota e poi, sollecitata
dalle voglie di Greta, rivelò ben articolate tecniche amatorie.
Ma, appresa la teoria, nessuno la cercava per la pratica e nel-
la mente della ragazza s’insinuò il dubbio che da Sebastian non
avrebbe ricevuto proprio niente. Ma questa è l’esca che cattura
il desiderio, sosteneva l’esperta, sospettare che nulla verrà con-
cesso pur continuando a sperare il verificarsi del contrario.
«Hai capito il gioco, bimba?», ripeteva.
Forse sono questi miei denti scuri a disgustare lo spagnolo,
diceva con la mente.
Hans Franse, una volta, aveva raccontato come gli Ingle-
si, prima di sposare una fanciulla, la costringessero ad aprire la
bocca, come si fa coi cavalli, per controllare l’arcata dentaria.

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Lei già sentiva il problema e ci rimase proprio male… ma non
tanto da smettere con il pepe che, accortamente, s’era portata
appresso in un sacchetto di tela scarlatta.
Quando il galeone entrò nel canale della Manica il mal di
mare, sino a quel momento sopito nelle viscere di Greta, esplo-
se. Nei rari momenti di tregua dal dolore odiava se stessa, col-
pevole d’avere accettato quel viaggio tanto sognato che, a prima
vista, prometteva bene a patto di non conoscere le tribolazioni
inflitte dalle onde a tutto il corpo.
Giunti a far scalo nel porto di Brest, fu tentata di scendere
a terra alle calcagna d’un marinaio, chiamato dall’equipaggio
l’artista perché su un quaderno disegnava senza tregua grandi
figure di grifoni.
Posare i piedi sulla terraferma, considerava, forse m’allenta
questo tormento.
Un momento dopo, però, era già convinta che non valesse
la pena di buttare a mare il sogno d’un viaggio a causa di strette
alla pancia. Doveva forzare il proprio corpo a reggere il beccheg-
gio. Doveva restare a bordo. E ci rimase. Sul ponte, avvolta in
un panno e accovacciata a lato d’una lancia, ritenne d’essere già
morta, pronta per l’estremo tuffo poiché anche i granelli di pepe
non sembravano arrecare alcun giovamento.
Intanto Sebastian, tutto solo, camminava lungo l’addiaccio
del ponte principale con un’andatura elastica e, a un tempo, vi-
vace e ondeggiante come una vela mentre sale su per l’albero del
bastimento per dispiegarsi al vento. Osservando Greta venne
avvolta da un sudore freddo.
Sto per svenire, pensò.
L’uomo guardava con occhi distanti, sorpreso dalla stranez-
za di trovarsi lì, tra comuni passeggeri. Con l’aria del padrone,
altissimo, pareva lui, non il fisicamente modesto Gunnar, il co-
mandante del galeone.
Non ho visto mai un maschio così bello, disse col pensiero
la ragazza.
Lui continuava a muoversi lungo il ponte quasi fosse l’erede
dei pirati del nord, pronto a lanciarsi con l’intera massa dei suoi
muscoli contro gli orsi polari tra le acque infestate dai ghiacci
dell’Artico.

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Vorrei essere l’orsa che si sgela tra le sue zampe, s’augurava
Greta tra uno spasimo e l’altro al ventre.
Mise in bocca due granelli di pepe che le andarono di traver-
so. Tentò di sputarli in mare sporgendo mezzo busto fuori dal
parapetto quando sentì sopra il proprio corpo quello dello spa-
gnolo, e il vigore e la potenza di quei muscoli, tutti, dalla nuca
al polpaccio.
Ti desidero pensò la ragazza, mentre la donna diceva: «Ti
desidero Sebastian».

Si precipitarono nella loro tuga. La branda, piuttosto stretta, con-


sentiva lo scivolamento contro le spalle dell’uomo che, vent’an-
ni più di lei, avrebbe potuto essere suo padre visto che, proprio
come un padre, l’aveva protetta da una caduta fatale. D’istinto,
accarezzò le due righe di sporco che correvano tra le pieghe della
nuca dello spagnolo. Lui si volse. La mano di Greta s’insinuò tra
le falde della giubba di lana, raggiunse le coste del torace. Tra le
sue dita s’impigliarono dei morbidi peli arricciati mentre percor-
reva il ventre teso sino ad afferrare la parte esterna del membro,
rigida ma dalla consistenza vellutata sotto un manto di pelliccia.
Il membro passava da una mano all’altra. Il sudore, più d’una
volta, lo fece scappare dalla stretta e occorreva riprenderlo. En-
trambi erano ancora vestiti. In ginocchio sulla branda, lei si tolse
ogni indumento che cadde placido sulle doghe di rovere. Anche
Sebastian si denudò sollevando metà busto… così diede una so-
lenne zuccata contro il soffitto. La svedese, alloggiata accanto nel
tentativo di placare il male di mare rimanendo sdraiata, batté un
fiero colpo sulla parete divisoria per farsi intendere. Era sola per-
ché il marito con una gamba steccata giaceva steso su un’amaca,
proprio sotto l’albero da cui era scivolato.
La donna, realizzò Greta, doveva avere l’età di sua madre,
se fosse stata ancora al mondo. All’idea, le convulsioni iniziaro-
no ad attraversarle il corpo, simili a scosse, in un lampo di luce
bianca. Poi una sensazione di freddo metallo prese a correre lun-
go le ossa. Dopo l’ondata di ghiaccio, avvertì una vampata di
calore, quasi fosse troppo vicina a un fuoco che, però, non scot-
tava. Dalle fessure lungo la prua, entrava l’odore del sale, della
corda impeciata e della cucina di bordo: zaffate ben diverse dai

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puzzori degli animali e dalla fragranza del pane nella stalla del
molino… tanto che «Jan!» sussurrò d’impeto e più volte.
Sebastian rispondeva con furiosi movimenti in un crescendo
di respiri mossi dall’affanno. Dallo sfiatatoio circolare della ca-
meretta, ora, entrava un chiarore di luna. I marinai e i passegge-
ri, data l’ora, dovevano già essere risaliti a bordo.
Greta, agguantato il sacchetto del pepe, depose i chicchi lun-
go il corpo dello spagnolo costruendo una sorta di rotta, chiu-
sa da un unico grosso grano. Un chicco dopo l’altro, leccò la
via delle spezie piluccandosi l’intera drogheria sino a inghiottire
l’ultimo, una volta toccato il porto. Poi, finalmente soddisfatta,
gli strinse le guance tra i polpastrelli: le impastava, quasi fossero
cera, per fantasticare una bellissima curvatura di labbra, zigomi
alti, una fronte spaziosa. Lavorava la pelle come il marinaio fa
con i nodi, lo scultore con la cera, il pittore con i colori.
E, quasi in balia del deliquio, «Rubens!», esclamò.
Dove si trovava lei adesso? La tuga, come uno scrigno, fa-
voriva ogni possibile immaginazione. Greta navigava in mezzo
al mare e, a poco a poco, si scioglieva in un perfetto equilibrio
di membra, ombre e luci. Stava abbracciando il corpo di Seba-
stian, che l’accettava e la voleva, finalmente suo. Dove sarebbe
andata? Su quale punto dell’atlante avrebbe appoggiato l’indice
se fosse stata a terra?
«Hans Franse!», esclamò.
La svedese, con le nocche battenti sul legno del divisorio, re-
clamava un po’ di quiete.
E Greta l’accontentò moderando gli ansimi.
Poi s’udirono ripetuti e cadenzati colpi di reni, pari a quelli
delle onde grosse contro la polena, che fecero traballare gli sti-
petti sino a quando, sull’ultimo colpo, s’apersero tutti sputac-
chiando gli oggetti rinchiusi.
«Siamo stati in compagnia di altri maschi, questa notte», dis-
se Sebastian, la mattina dopo. «Ne ho contati tre».
«Dovevo dire addio a tutti», replicò lei. «Ora sono pronta, e
tutta, per te, mio brabantino spagnolo».
Lui la guardò a lungo con un’espressione tra il serio e il di-
vertito poi, inaspettatamente, disse: «Non sono io chi ha rubato
i fanoni della balena».

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«Cosa? Allora spiegami perché hai aspettato solo ora per dir-
melo… non mi giudichi degna di fiducia?».
L’uomo rimase zitto.
La ragazza non si contenne: «Così Greta diventa la più gran
ladra d’Anversa perché le tavole fiamminghe le ha rubate per
davvero, lei».
Poi, pur con tutto l’amore che già sentiva nei confronti di
Sebastian, pensò di fargliela pagare compiendo qualcosa di si-
gnificativo nel corso della traversata… allo scopo di sorprendere
lo spagnolo? Anche, ma soprattutto per dare credito a se stessa.

La navigazione rallentò lungo le coste francesi perché cadde il


vento e furono ammainate le vele.
La fiamminga compensava l’ignoranza della lingua svedese
mediante gli occhi, che erano sempre pronti a cogliere i segni
come fossero parole. Uno sguardo leale, un sorriso, un lampo di
cattiveria o di feroce stizza da parte dei marinai e delle donne e
dalla mente della ragazza ne usciva un ritratto, che subito rac-
contava nei minimi particolari allo spagnolo. Una cinquantina
di esseri umani da osservare facevano scorrere abbastanza velo-
cemente le ore mentre Sebastian, beato lui!, riusciva a comu-
nicare con facilità per mezzo del linguaggio dei marinai, fatto
d’ampi gesti e manovre condivise.
Tra costoro Greta aveva notato uno, arrogante, perennemen-
te in cerca di risse e sempre pronto davanti al comandante ad
attribuire la responsabilità agli altri. Portava la camicia sbracata,
nonostante il signor Gunnar tenesse in grande considerazione
l’ordine della persona imponendo all’equipaggio il cambio della
veste ogni settimana. E gli occhi venati di rosso inducevano a
credere che s’ubriacasse sovente, viste le ripetute uscite ed entra-
te dal cassero, dove si trovava la dispensa.
Pure Sebastian lo considerava un maestro nelle peggiori
scienze marinare: bestemmiare, bere, rubare, fare a botte, men-
tire e calunniare. E, quella volta, la bravata finì con una coltella-
ta alla gola d’un mozzo. Il comandante, avvisato del grave fatto
di sangue, insieme al suo vice condusse l’aggressore sul ponte
trascinandolo per la collottola. Davanti al personale e ai pas-
seggeri, sia maschi che femmine, lesse ad alta voce le regole del

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codice di bordo secondo le quali per un tale reato era prevista la
massima punizione.
Poi suonò l’ordine: «Preparatevi, marinai, per il giro di chi-
glia più lungo. Questa canaglia deve imparare la lezione».
Non passò molto tempo prima che gli uomini avessero ulti-
mato di preparare le corde, due per ogni fiancata del galeone. Il
colpevole, coi polsi e le caviglie legati, venne condotto a prua.
Greta vide sul volto di qualche marinaio un’aspettativa gioiosa
come se la pena fosse un’interruzione della noia del viaggio, di-
vertente quanto un’impiccagione eseguita su una pubblica piaz-
za. Altri, invece, parevano preoccupati.
Forse si stanno mettendo nei suoi panni, disse col pensiero.
Il feritore, strascinato per le gambe lungo la chiglia da prua
a poppa, stava per essere buttato a mare. Greta chiuse gli occhi
per non vedere i rematori che, su entrambi i lati, tiravano la cor-
da sempre più stretta mentre la nave si muoveva e portava con sé
il corpo del colpevole tranciandogli di netto la testa.
«I marinai delinquenti», proclamò il comandante nel silen-
zio generale, «durano poco sulla mia nave».
Quella sera, la ragazza se ne stava con gli occhi bassi sforzando-
si di non permettere alle palpebre o ai lati della bocca d’assumere
una piega tragica. Il supplizio inflitto all’uomo l’aveva sconvolta.
Per non mostrare allo spagnolo d’avere lo stomaco d’una
femminuccia reagì con queste parole:
«Sebastian, muoio di noia. O mi getto dal ponte così tutti
parlano di me o mi metto a fare qualcosa».
«Per un solo giorno parleranno di te», replicò lui.
«Impiega il tempo mettendoti a cucire… c’è una vela con
uno strappo».
«No, lavorare d’ago anche per mare… l’ho fatto tanto quan-
do avevo i piedi per terra. E poi mi faresti cominciare dal basso?
Io, se proprio dovessi, fossi costretta, almeno vorrei aggiustare
l’asola della giubba azzurra del comandante, che s’è allargata».
Iniziò dalla vela che rattoppò usando un ago grosso dalla
punta piatta, capace di forare anche il cuoio. Poi vennero a galla
gli aghi sottili e i fili colorati per aggiustare braghe, giubboni,
mantelli con cappuccio e camicie, sia da donna che da bambino.
«A bordo s’è creata la prima bottega di cucito nella storia

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della marineria svedese», proclamò con soddisfazione lo spa-
gnolo davanti a una sbuffante Greta. Per trovare conforto, la
cucitrice di ritorno, non volendo mandare storta la faccenda,
talvolta pensava alla stanza del guardaroba di mevroiuw Maaike.

E quella volta, proprio mentre rifletteva sulla sorte della sua po-
vera padrona, una svedese venuta per una riparazione passò sul-
le gengive del piagnucolone, che teneva in braccio, un fram-
mento d’ambra. Le lacrime del piccolo, dopo un breve lasso di
tempo, sparirono. Greta chiese di vedere l’ambra; la coricò sul
palmo; avvertì un delizioso calore correre sino al polso dove, su
una fascetta, teneva appuntati gli aghi. E il frammento d’ambra
lì attirò a sé, tutti, come una calamita.
Che Raissa portasse nel suo ventre un miracoloso quanto
magico carico di bellezza?
Chiese: «Ma che cos’è l’ambra, Sebastian?».
«Una resina prodotta dalle cortecce di antichissime foreste
d’alberi di pino», rispose lui con l’aria di chi sa, «viene chiamato
l’oro del Baltico e gli svedesi lo scambiano, insieme al legname,
con l’oro vero delle miniere di Ceuta. Mica per avere in cambio
datteri e spezie! E noi, nella tuga, dormiamo sopra quei preziosi
sacchi ammucchiati in stiva».
«Ne avessi una anche piccola, piccola», supplicò la ragazza,
«forse potrei placare gli spasmi che mi divorano lo stomaco e le
fitte di dolore attorno ai denti».
«Ti conviene sognarla», la canzonò Sebastian. E poi aggiun-
se, sornione: «Oppure, perché non la baratti con una delle tavo-
le, da te gelosamente custodite?».
Greta gli rispose con una linguaccia. Ma, quella notte, trovò
il dono sotto il cuscino.
Una volta strofinata la gemma sulla parte dolente dell’addo-
me e poi sull’arcata dentaria, provò un lieve lenimento. Allora
volle scaldarla alla fiamma d’una candela. E la macchia, che ap-
pariva nel cuore dell’ambra, assunse ancora più nitidamente la
forma della testa d’una formica. In ognuna delle altre preziose
resine in possesso delle donne a bordo la fiamminga scoprì ora
un occhio, ora una zampa, a volte un’antenna di qualche strano,
piccolo, remoto animale.

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Simile a una reliquia rinchiusa in un diadema dorato, l’am-
bra aveva il potere di smorzare il dolore. Ma la virtù d’attrarre
l’ago era legata alla scossa di calore che la scheggia strofinata
regalava? Oppure il sollievo nasceva dall’effetto del colore con i
suoi toni mescolati: dal dorato al rosso, al marrone sino a sfio-
rare il nero?
Greta, nella tuga, non cessava d’esporre le sue considerazioni
allo spagnolo sino a che lui sbottò: «Ma chi t’ha raccontato tutte
’ste cose? Non possono certo essere uscite dalla tua testa! Piutto-
sto, dimmi cosa intendi combinare».
La risposta di Greta fu grave e tutta compresa: «Ho parlato
con il botanico che conosce la nostra lingua come, del resto, il
comandante della nave».
«Ah, adesso ti metti a fare amicizia anche con gli estranei!
Che bello dev’essere stare a bocca aperta ad ingoiare le fantasie
di chi… di chi?».
«D’un botanico!», rispose lei.
«Piuttosto tu sai, Greta, che con una pietruzza potresti com-
prare più di duecento casse d’aringhe?».
«E smetti di pensare solo a mangiare! Non inghiotti abba-
stanza aringhe a bordo? Gli svedesi ci stanno propinando sino
alla nausea quelle bestie dalla pelle crostosa, con le code secche
e le scaglie rosse che sembrano braci. Ci vorrebbe un pittore per
renderle belle… un Rubens, a dir poco!».
«Non resisti a lungo senza pronunciare il nome del tuo ama-
to pittore… allora, mica è vero che gli hai dato l’addio se…»,
ma non fece in tempo a finire la frase. Un’ondata di traverso
causò la caduta dal mobile del sasso di fiume, appoggiato lì per
tenere fermo il mirabile ritratto della ragazza, che, dopo un ae-
reo volteggiare, finì sul pavimento.
Una seconda ondata portò l’una nelle braccia dell’altro. E
la ragazza lo baciò sulla bocca appassionatamente. Poi riprese a
spiegare come, pestando nel mortaio frammenti d’ambra, più
o meno tre sassetti, si sarebbe ottenuta una quantità di polvere
sufficiente da amalgamare con il grasso di balena.
«E a quale scopo, di grazia?» domandò sornione lui.
Dalla stanzetta accanto provenivano i gemiti di dolore della
svedese che pativa il mal di mare. Tutti, tranne i marinai, soffri-

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vano: i bambini non facevano che vomitare e le donne avevano
la faccia gialla.
«Lo scopo, Sebastian, è quello di creare un balsamo con cui
fare un massaggio lenitivo e, forse, guaritore sulle parti doloran-
ti del corpo».
«Greta, hai idea di cosa significhi comperare tre pietre da ri-
durre in sabbia?».
«E chi ha detto che bisogna comperare?».
«Ma come farai, bella mia, visto che ti trovi a bordo d’una
nave che difende il carico d’ambra dall’assalto dei corsari con
venti cannoni?».
Intanto, da fuori, giungevano dei concitati rumori e loro
s’affacciarono. I passeggeri erano già sul ponte superiore per reg-
gere meglio le onde, sempre più insolenti e alte. Nessuno era
più in grado di reggersi in piedi, nonostante s’aggrappasse alle
cime, a causa del pavimento scivoloso di vomito e delle folate di
vento che piegavano il fianco del galeone. Il comandante, con
in testa una piccola parrucca in pelle d’agnello, manteneva la
voce forzatamente calma nel tentativo di trasmettere sicurezza.
Greta, seguita da Sebastian, s’avvicinò a lui e disse: «Signore,
potrei avere un colloquio a quattr’occhi con voi?».
«Ma vi pare, questo, il momento per una tale richiesta?»,
venne risposto.
«Signore, invece è davvero il momento. Conosco il modo
per rimettere sulle loro gambe i viaggiatori. L’ho provato sulla
mia persona e funziona», e, detto fatto, s’esibì in un’acrobatica
piroetta.
«Allora venite domani nei miei appartamenti verso la metà
della mattina. Ora, però, lasciatemi soccorrere i passeggeri».
Lo spagnolo, rimasto strabiliato da tanta sicumera, fece un
inchino e cenno di mano come a dire che rischiasse pure di farsi
scaraventare fuori a calci dalla sala di comando… lui non voleva
entrarci per niente.
Il dì seguente Greta, dopo avere assunto due chicchi di pe-
per, fu pronta ad affrontare il signor Gunnar.
Venne introdotta dallo scrivano nell’alloggio del comandan-
te che l’accolse in piedi compensando la statura con l’orgoglio
suggerito dall’alta carica. Dopo i dovuti convenevoli nei con-

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fronti della passeggera pagante, le mostrò due stanzette dove
non si muoveva un passo senza inciampare in bussole, astrolabi,
sestanti, taniche d’acqua buona, contenitori d’ogni genere. E,
lungo il tavolo di comando, una distesa di mappe, carte, porto-
lani e strumenti di navigazione e manuali di salvataggio d’ogni
sorta.
Greta, meccanicamente, ne sfiorò uno e il gesto servì da pre-
testo perché lui dicesse: «Mejoffere, sapete cosa affermiamo noi
svedesi? C’è un solo modo per un capitano di finire all’inferno:
sopravvivere al naufragio della propria nave!».
Poi iniziò a lamentarsi del ridotto spazio di manovra a sua
disposizione in quanto sia il botanico che l’astronomo di bor-
do avevano imbarcato anche il loro ingombrante amore per la
scienza.
«Ma per loro fortuna», aggiunse, «sono un uomo aperto al
nuovo! Le scatole si riempiranno di radici, semi di piante e spe-
zie del Maghreb mentre le stelle che avremo modo di scoprire ci
faranno buona compagnia lungo il viaggio di ritorno».
«Signore…», attaccò un po’ timidamente Greta un collo-
quio che, inaspettatamente per lei, si protrasse sino a quando
s’udì un tocco alla porta della sala di comando.
Qualcuno aveva assoluta necessità di conferire con il
comandante.
Mentre usciva la ragazza s’imbatté in Sebastian. Lui fingeva
d’esser lì per caso ma non si trattenne dal voler sapere subito
l’esito dell’incontro.
«M’ha chiamata signora, mica contadina. Sapessi quanto
quel boerinne mi perseguitò in Anversa. Basta cambiare aria che
le cose mutano».
Intanto entravano nella tuga.
«Allora come è andata la cosa?» reclamò, impaziente.
«Domani, mi consegnerà quattro pezzi d’ambra».
«Ah!».
«E mortai di cucina e olio di balena, a volontà, sono già a
mia disposizione: è un uomo aperto al nuovo, il nostro coman-
dante. Ce l’ho fatta a convincerlo, Sebastian!».
Lo spagnolo l’osservava con occhi nuovi e poi, con un tono
mai da lei udito prima, sottovoce disse: «Greta, non sarà che

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con l’ambra riuscirai a fare ricrescere le mie…», e con lo sguardo
indicava la mano mutilata.
«Perché al mio brabantino spagnolo forse manca qualcosa?
Non me n’ero mai accorta».
Intanto considerava come la sua dolce vendetta nei con-
fronti di chi aveva mostrato di non nutrire fiducia in lei si
stava consumando. Con grande soddisfazione da parte della
fiamminga.

La navigazione riprese con il vento in poppa come l’impresa


della guaritrice delle Fiandre. Ora, sulla porta della tuga della
coppia d’Anversa, appariva un cartoncino con su scritto il nome
della stanza dei miracoli. Sebastian ne aveva tentato dapprima
vari: tutti respinti da Greta che, schioccando le dita, quel dì dis-
se: «La chiameremo come quel luogo di tiepide acque vicino alla
città di Liegi, dove mevroiuw Maaike voleva andare per conso-
larsi d’avere perduto la favella!».
«Spa», chiarì lui che conosceva la geografia.
«Proprio così. Le signore d’Anversa ci tenevano tanto a visi-
tare la cittadina, magari per fingere d’avere incontrato, mentre
passavano le acque, la regina di Francia o qualche principessa
d’Europa!».
Così il galeone Raissa ospitò la sua SPA galleggiante, ovve-
ro Salute Per Acque, in lingua olandese suonava: Gezondheid en
Wellness; in lingua svedese, Halsa och Valbefinnande.
La stanzetta di Greta e dello spagnolo era dotata d’uno sfia-
tatoio circolare e godeva d’una buona ventilazione, d’una luce
diffusa, della sferzante brezza del mare. Vennero portate anche
tre taniche d’acqua da bere. Per accedervi occorreva scrivere il
proprio nome e cognome su un apposito registro mentre l’ora
e il turno del trattamento venivano, giudiziosamente, assegnati
dalla sanatrice a seconda del tempo d’arrivo.
Quasi tutti gli Svedesi sapevano leggere e scrivere. «È tutto
merito della loro religione», le chiarì lo spagnolo, «che li spinge
a capire bene le parole della Bibbia… altro che guardare con il
naso all’insù i soffitti dipinti delle chiese».
Sopra un telo disteso lungo il letto, s’adagiavano i dolenti.
Greta spargeva il balsamo, contenuto in ciotole, lungo i suoi

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palmi per poi massaggiare con leggeri tocchi di polpastrello i
punti del corpo infiammati dalle contratture. Se i sofferenti ave-
vano una complessione fisica buona a soddisfare gli occhi era
più contenta; però, dava del suo meglio anche alle membra mal-
conce dei più provati.
Dannata vita di mare… questi vecchi lupi meritavano dav-
vero un trattamento nella mia Spa!, pensava alla vista di cicatrici
espanse, segni di bruciature e menomazioni repellenti mentre la
clessidra faceva colare regolarmente i granelli di sabbia.
La pelle delle donne, invece, era bianca come i loro denti e
così lucente da riflettere il raggio entrato dall’apertura circola-
re a benedire quell’incarnato. Per contrastare lo stomachevole
odore dell’essenza a base d’olio di balena, una candela bruciava
un granello di pepe aromatizzando l’aria. Intanto, nel castello
di prua occupato dalla cucina, le svedesi di buona volontà pe-
stavano l’ambra dal colore dell’oro e il mortaio lavorava di fino.
Sarebbe bastato un soffio o un mezzo respiro d’amarezza a fare
pigliare il volo alla polvere!
A bordo, dopo una settimana di cura, non si scivolava più
sul vomito dei bambini lungo il ponte superiore; cessarono i
dolori al ventre in grado di prosciugare i corpi delle donne to-
gliendo lo stimolo del cibo. E svanì il persistente male al capo
dei marinai, causa di allucinazioni dense di uomini volanti sulle
acque. Il marito della svedese dalla gamba rotta, trasportato in
amaca nella tuga, principiò a non sentire più lo strappo del mu-
scolo all’altezza del polpaccio; anche altre più lievi infermità si
dissolsero sotto le mani della guaritrice.
Il noorman Gunnar, che faceva regolarmente visita per via
della nuca dolorante, era fiero nel vedere come il sorriso fosse ri-
tornato sui volti del suo equipaggio grazie alle virtù del balsamo
di Santa Brigida, come lui chiamava il portentoso miscuglio.
«Chi è Brigida?» chiese, una volta, Greta mentre gli lavorava
la cervice.
«La nostra santa preferita… ed è anche il nome di quella
santa di mia moglie, che aspetta quieta il ritorno del suo Ulisse
dall’isola delle sirene».
Gli effluvi d’ambra diffondevano ovunque una sorta d’appa-
gata tranquillità e lo stesso comandante confidò, pieno d’aspet-

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tative, a Greta che la polvere, mista all’oppio, avrebbe portato
un mare di ricchezze. E, loro, i norreni, potevano prendere il
posto dei Cavalieri Templari, quelli che per primi avevano con-
trollato il commercio dell’ambra!
La ragazza taceva, intimidita da tanta prosopopea, e il co-
mandante, scambiato il silenzio per preoccupazioni di possibili
effetti conseguenti, disse che, prima d’ogni decisione o avven-
tura, avrebbe consultato il medico di bordo, depositario delle
certezze scientifiche.
Subito interpellato, l’esimio scrollò le spalle davanti alla cu-
ratrice e al comandante con tale violenza da fargli sbalzare dalla
punta paonazza del naso le tondi lenti che saldamente inforca-
va. Poi, senza dire una parola, voltò le terga. Alquanto stizzito.
«Il suo silenzio ha fatto chiaramente intendere che a me non
affiderebbe neppure il bavero scucito della sua camicia», confidò
Greta allo spagnolo.
«Cara mia, cosa pretendi? Gli hai fatto le scarpe e ora non sa
cosa riferire all’accademia svedese dei dottori da cui, a conclu-
sione del viaggio, s’aspettava di ricevere un riconoscimento per
le cure prestate all’equipaggio».
«Il premio lo dovrebbero dare a me», replicava lei.
«Piuttosto tu sai chi erano i templari, Ulisse e dove si trova
l’isola delle sirene?».
«Che? Ma che sciocchezze ti saltano in mente?».

Per la seconda volta, passati tre o quattro giorni, cadde il vento e


il galeone, rimasto in balia della bonaccia, dilatò i tempi previsti
di navigazione… ma a bordo nessuno fu scontento.
L’intesa tra Greta e Sebastian, carezzata dalle onde dell’o-
ceano e dalla presenza del musico che di sera intratteneva l’e-
quipaggio, era dolce. E ogni notte, prima di augurarsi la buena
suerte, se la spassavano inventando d’avere punti dolenti del cor-
po per eccitarsi coi sollievi.
«Ma quando ti decidi a raccontarmi la storia del brabantino
spagnolo?», chiese quella volta l’uomo.
«Aspetto di sapere da te come andò la faccenda dei fanoni
della balena che tu non rubasti. Adesso ti puoi fidare di me, o
no?», rispose con baldanza.

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Lui non si fece pregare e spiegò come i resti della balena fos-
sero stati sottratti da alcuni ladri, giunti nottetempo da Amster-
dam, su incarico di banchieri rivali di der Beurse intenzionati a
mandare a picco l’affare del concorrente.
«Che mascalzoni… a confronto, il brabantino spagnolo è uno
stinco di santo!», commentò lei.
E raccontò che, secondo quanto le aveva detto il suo povero
padrone, si trattava d’un uomo ridotto in povertà, un profugo
di nome Jerolimo, costretto dal proprio desiderio di condurre
una vita da signore a cambiare di continuo città facendosi beffe
dei creditori.
Sebastian tacque mentre osservava, cupo, la mano mutilata.
Forse, disse col pensiero Greta, con questa storia ho solleci-
tato qualche cattivo ricordo… ma, d’improvviso, smise del tut-
to di scervellarsi dietro a cose tristi. Era il mese d’aprile e il mese
d’aprile fece sbocciare la ragazza che sulla nave veniva apprezza-
ta da tutti, aveva accanto l’uomo più bello della terra e stava in
compagnia dei granelli di pepe. Quale era, allora, il punto che
oscurava l’aspetto d’una ragazza quasi felice? I denti neri. Esau-
rita la pericolosa cantarella, non trovava rimedio per sbiancarli
anche se aveva imparato a nasconderli dietro sapienti volteggi
della mano, ben studiati davanti allo specchio. I furenti dolori
delle gengive, invece, le concedevano solo brevi tregue.
Con l’arrivo della stagione mite si verificò anche una lunga
serie di piogge con folate di vento improvvise e rabbiose. E un
giorno il galeone, spinto da una forte corrente d’aria, prese l’ab-
brivio quando una violenta raffica di traverso lo fece inclinare
prima da un lato e poi, calata la spinta, anche dal lato opposto.
Sebastian era accanto al timoniere che recuperò la dritta rot-
ta ma la seconda raffica, più intensa, produsse una successiva
pendenza. E l’acqua prese a entrare dai portelli dei cannoni, ri-
masti per incuria aperti, sino ad allagare il ponte inferiore. La
nave era troppo carica rispetto alla sua lunghezza e larghezza.
I passeggeri corsero sul ponte. Per ultima, Greta, con dentro
la sacca le sue preziose tavole. Il comandante stava impartendo
precisi quanto deboli ordini di salvataggio.
«Niente paura. Rendiamo piuttosto grazia alla nostra protet-
trice Santa Brigida ché siamo vicini al golfo di Biscaglia, dove

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potremo ricoverare la Raissa in un cantiere attrezzato alla biso-
gna. Coraggio, un ultimo sforzo!».
Arrivarono così al porto della città di Santander. Intanto che
s’accingevano a sbarcare Greta vide il cartoncino con su scritto
Spa galleggiare, indifeso, attorno allo scafo.
Il galeone venne ricoverato nel bacino di carenaggio per rad-
dobbare i danni subiti: tempo previsto, circa due settimane.
Sebastian volle visitare il luogo e Greta s’accodò. Scheletri
di navi spuntavano dietro le palizzate dei cantieri navali, poi si
fecero sempre più intensi i rumori di martelli e seghe e l’odore
della pece, del bruciato, della corda bagnata. All’interno s’alza-
vano vapori provenienti dalle grandi vasche, dove il legno veni-
va immerso per essere ammorbidito e reso docile alle piegature.
Appena fuori, le botteghe davano il pane agli artigiani della cit-
tà: ogni genere di mestieri, velieri, attrezzatori, cordai, fabbri,
cucitori e tagliatori, viveva sull’universo delle navi e sulla riserva
di prede che qui giungevano.
«Che spettacolo!», disse la ragazza stringendosi allo spagno-
lo, «se non fosse stato per te, io… ma questo tu lo sai… sarei
morta senza avere visto niente o quasi».
Quel brav’uomo del comandante anticipò ai marinai il sala-
rio del mese di maggio perché potessero alloggiare nelle vicine
locande e stabilì precisi turni per il controllo, in arsenale, del
prezioso carico d’ambra.
Greta e Sebastian, essendo passeggeri esclusi dal trattamen-
to di favore, preferirono alla locanda una casa dove passare il
lasso di tempo richiesto. E si misero alla ricerca come una vera
coppia.
Alla ragazza delle Fiandre le costruzioni spagnole piacquero.
Parevano cesellate dal bulino degli orefici: complicate com’e-
rano da decorazioni così fitte da non lasciare muri e colonne
sguarnite d’ornamenti. Molte erano in legno. Ne affittarono
una, appena fuori dalla città, con un giardino florido mante-
nuto nel disordine d’una natura libera, che accostava ai gigli
le nascenti violette, il bocciolo delle fragole e le fragranze delle
erbe dei semplici.
E se proponessi a Sebastian un commercio di piante e fiori?,
disse tra sé tutta fiera.

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Per lei, le giornate scorrevano lente con lo spagnolo mai in
casa, attratto dalla mercanteria del porto in cui passava le ore. Con
le monete del Marocco certo conducevano una buona vita: non
finivano mai quei dirham, frutto di qualche misterioso traffico.
Quale nuovo affare intendeva mettere in piedi, il brabanti-
no, una volta giunto nel porto di Tangeri? Quando gli chiedeva
qualcosa a questo proposito, lui si mostrava disinteressato alla
questione. E poi non la guardava mai negli occhi e borbottava
qualcosa di vago e pressoché incomprensibile. Certi suoi sguar-
di parevano raggi rivolti verso un’ignota destinazione e le paro-
le, mescolate di vari accenti, emettevano suoni di diversa, oscu-
ra provenienza. Era nato in Spagna? Sebastian diceva che aveva
vissuto da queste parti, e non precisava dove, sino ai dodici, tre-
dici anni. E che poi, da grande, s’era imbarcato su diverse navi
e approdato in diversi luoghi. Mistero fitto anche attorno a un
tale amico olandese, rimasto ad aspettarlo a Tangeri. E il pen-
siero di quella ignota città si risvegliava, ogni mattina, insieme
a Greta mentre apriva le finestre della loro stanza. Quella volta,
però, la ragazza avvertì uno strano odore che sembrava traspor-
tato dalle folate di vento in crescita. Si respirava come un’aria
priva d’aria, un impiccio che chiudeva la gola.
Chiamò lo spagnolo. Dall’esterno, provenivano dei rumori
concitati e delle voci che precipitose gridavano: «La città è col-
pita dalle saette di Dio!».
Due fulmini, fiondati sul tetto lucente d’altrettante case in
legno, avevano scatenato un incendio. Complici il sonno degli
abitanti e le forti correnti d’aria, le fiamme guadagnarono tem-
po, modo e agio per mangiarsi quelle e altre costruzioni vicine.
Greta e Sebastian, correndo in senso contrario alla direzione
dei fuggiaschi, giunsero nella città e videro lo sfacelo. Bruciavano
le cataste di tronchi nei fienili; mucchi di paglia nelle stalle aizza-
vano le lingue rosse contro i balconi; le carrozze all’esterno della
case erano roghi. L’aria era oramai solo fumo che, penetrato nelle
chiese, con il favore delle tante candele accese fece delle case del
Signore la dimora del diavolo. In tutta Santander si respirava l’in-
ferno. Solo il porto e le sue rimesse furono risparmiati.
La ragazza chiese allo spagnolo i nomi delle locande dove
alloggiavano i cinquanta marinai di Raissa e le loro famiglie. Si

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precipitarono là e, tra i gemiti degli ustionati, le grida dei bam-
bini, la disperazione delle madri, non tentarono, per paura di
conoscere l’esatto numero dei periti, nemmeno di contare i so-
pravvissuti. Tra questi, non videro il comandante.
«E se fosse morto nell’incendio, quale sarà la sorte del viag-
gio?», era la muta domanda che i due si rivolgevano con lo
sguardo!
Anche l’ospedale aveva subito danni, in particolare le letti-
ghe, sostenute da aste di legno, davano l’impressione d’orrende
pire. Portantine, fatte in furia con i letti degli ambulatori, so-
stenute a fatica dalle spalle dei medici, correvano in lungo e in
largo caricando carni scuoiate, senza più difesa.
Greta e Sebastian, in cerca di noorman Gunnar, sollevarono
il telo dal volto dei feriti: vedevano ogni volta solo maschere ver-
miglie senza naso e occhi.
Continuarono a prestare soccorso dentro il salone dei ri-
coveri dove i pochi medici, rimasti a disposizione, alzavano lo
sguardo al soffitto. Disperati.
I malati che riuscivano a stare in piedi, l’uno con le mani
strette in quelle dell’altro, formavano una catena addossata alla
parete ma quella di Gunnar non afferrava alcuna maglia.
Appena fuori, fuocherelli tenaci lungo i bordi delle vie ammo-
nivano che si sarebbero divertiti scatenandosi ancora per un po’.
Secchiate d’acqua buttate sui falò alimentavano il fumo da
rendere l’aria completamente irrespirabile. Così furono calate
dalle finestre le coperte per affogare fiammate, braci, tizzoni e
faville che, spinte dal vento, accecavano i soccorritori.
I cattolicissimi spagnoli, in ginocchio al centro delle strade,
stavano invocando in coro la misericordia di tutti i santi, quando
Greta, su un lato della via, notò uno strano albero. Rispondeva al
fuoco con la forza e l’energia della propria natura: la corteccia già
schiariva il suo nero trasformandosi nel colore grigio della cenere,
ma un unico fiore rosso, come forgiato dal fuoco e risvegliato dal
calore, miracolosamente fioriva su un ramo spoglio.
Non riusciva a staccarsi da quell’apparizione sino a che lo
spagnolo non la tirò via. Dovevano aiutare la gente che abitava
nella casa di fronte: da lì proveniva il pianto d’un bambino…
forse, un neonato.

95
Una volta entrati, tra la nebbia che bruciava le pupille scor-
sero due uomini: uno con un piccolo forziere in mano, l’altro,
di schiena, intento a frugare dentro un cassone. Dopo avere af-
ferrato un pezzo di legno dall’estremità aguzza, Sebastian li col-
pì entrambi mirando agli stinchi e quelli se la dettero a gambe:
zoppi, maledetti corvacci giunti per razziare.
Nella seconda stanza, sopra il letto matrimoniale, giaceva
una grossa trave piombata dal soffitto. Aveva squarciato il viso
del marito e, di sbieco, trapassava il bacino della donna. L’uo-
mo era oramai spirato. La moglie guardò supplichevole Greta,
quindi, con grande sforzo, mosse gli occhi a indicare un angolo
della stanza. Là, c’era un bambino che sembrava essere venuto
alla luce proprio tra le fiamme, tanto tiepido e molle era ancora
il suo fragile corpo.
La madre sorrise debolmente nel vedere la creatura tra le
braccia della salvatrice e, con le dita, mandò un ultimo segno di
benedizione prima di spirare.
Greta sentì l’amore, un amore triste come tutti quelli che
lei conosceva, uscire dal petto ansimando in un singhiozzo: un
borborigmo di pianto e gemito simile al sordo rimbombo della
paura sulla superficie d’un pozzo.
Consegnò il bimbo a Sebastian mentre massaggiava con en-
trambe le mani il collo per sciogliere quel groppo.
«Potrai ancora vivere, piccolino», riuscì appena a sussurrare.
E, all’improvviso, le venne in mente d’aver visto tra le donne
superstiti una svedese che, durante la navigazione, allattava due
gemelli maschi.
Così sarete in tre ad attaccarvi ai suoi capezzoli!, si disse
speranzosa.
Raggiunse la futura balia in una stanza adiacente alle cantine
della locanda e, senza dire una parola, le affidò il neonato.
Intanto che s’accingeva a correre via, la svedese pronunciò a
voce alta la parola Kvinnlig!
Greta fece due passi indietro e s’accorse che la creaturina,
dono della notte del fuoco, mostrava, tutta nuda com’era, il suo
essere femmina.
Intanto Sebastian non riusciva a trovare il comandante.
Nessuno dei marinai l’aveva più rivisto dal giorno precedente,

96
né al porto, durante la consueta ispezione dei lavori in corso,
né lungo le vie, né in qualche taverna a bersi un goccio per la
disperazione.
Oramai, tutti pensavano al peggio e la ragazza piangeva
pure… quando il signore smontò da una carrozza davanti alla
locanda. E non era solo: accanto a lui sfavillava una señorita dai
denti candidi, alta mezzo braccio più di lui.
«Che Santa Brigida aiuti le sirene!», esclamò Greta.
L’uomo, capita l’allusione, non seppe reprimere un risolino.
La tenace disperazione degli abitanti di Santander stava ri-
mettendo in piedi la città. Il galeone Raissa aveva impeciato le
sue falle così la navigazione poté riprendere, malgrado la scom-
parsa nell’incendio di cinque marinai: cosa che ammorbò l’at-
mosfera a bordo.
Superato lo stretto di Gibilterra, giunse il momento degli
addii. Il comandante, a riconoscenza del lavoro svolto, fece
omaggio alla signora della Spa d’un sasso d’ambra. Lei lamentò
che quello bastava, a mala pena, per ricavare un solo zoccoletto
e il noorman si vide costretto a provvederla almeno d’un paio.
Erano sul punto di scendere dal galeone quando Greta, d’un
tratto, impallidì cadendo al suolo svenuta. Riavutasi piuttosto
in fretta, vide la svedese con in braccio la bambina che le faceva
l’occhiolino. Lei non sembrava capire. Allora l’altra consegnò
la piccola a Sebastian e, dopo aver avvolto in tondo un telo, si
creò, sorridendo, un bel pancione.
Lo spagnolo e la fiamminga si guardarono sorpresi. Non ap-
pena ebbero messo piede a terra, lui indicando la minuscola
testa, che sporgeva dalle fasce, disse: «In attesa che tu metta al
mondo il nostro secondo figlio come chiamiamo la piccina?».
All’udire la frase, Greta smarrì la nozione del tempo e del
luogo ma non volle manifestare l’onda felice che l’avvolse, tutta,
dalla testa ai piedi.
«In che mese siamo?», domandò.
«In Abril», rispose l’uomo in lingua spagnola.
E Abril fu il nome della bambina.

97
Tangeri ... Tangeri!

I l porto di Tangeri accolse Greta d’Anversa che portava tra le


braccia un’orfana spagnola, dentro una sacca quattro tavole
d’un maestro fiammingo, un mirabile ritratto di Rubens, e due
pezzi d’ambra da far invidia a una regina d’Europa.
La luce intensa, le case di bianca calce e il sole limpido re-
galavano alla città un’aria da domenica. Invece, era solo un
mercoledì.
Per l’emozione la ragazza disse a voce alta: «Tutto questo è
troppo per me».
E la sua attenzione s’accese svelta come un legno secco su un
fuoco mangiando con gli occhi quanto le stava attorno: tranne
il cielo d’un azzurro mai visto prima. Lungo l’aria correva un
invito indecifrabile per le sue orecchie mentre le schiene degli
arabi si prostravano sui loro tappeti sino a formare un’onda che
s’alzava e si ritraeva.
Chiese a Sebastian se anche lei si sarebbe dovuta piegare nel-
lo stesso modo per salutare Tangeri. L’altro sorrise. Si trattava
della preghiera dei fedeli, assicurò.
Poi si mise a parlottare con uno straniero tutto vestito di
bianco in una lingua forestiera.
Sono tagliata fuori, pensò Greta che con la mano si parava la
fronte per difendersi dal sole. Tirò giù la cuffietta d’Abril sino a
coprirle gli occhi e, nel frattempo, guardava le donne dal capo
velato e dalle tuniche fruscianti. Non sarebbe stato difficile per
una cucitrice farne una uguale: bastavano due tagli sghembi per
le maniche e uno circolare per la testa. Lo spagnolo fu di nuovo
accanto a lei.
«Sebastian», esclamò, «C’è tanto bianco attorno!».
L’uomo con il dito indice fece segno in direzione d’un edifi-
cio: era la Grande Moschea e la torre accanto si chiamava mina-
reto. Meno male che le tegole erano verdi.
Intanto la bambina aveva iniziato a frignare e non distante
si trovava un parasole. Con noi nordici i raggi non scherzano…
che caldo e siamo solo in aprile!, e si faceva vento la mammina
sotto la copertura con accanto la sacca da viaggio.
Lo spagnolo batteva i piedi, voleva muoversi e qual miglio-
re scusa trovare se non attribuire i lamenti d’Abril alla mancata
poppata. Nella casa degli ospiti, a patto d’arrivarci, loro avreb-
bero trovato frescura, una balia, acqua da bere e una padrona di
casa mirabile.
«Una mirabile di quanti anni?», domandò la giovane. L’altro
non rispose. S’avviarono con il maschio che marciava davanti e
la femmina alle sue spalle.
Così Greta, per distrazione o incantagione, si mise dietro a
due calcagni tinti d’un rosa civettuolo che chissà mai dove era-
no diretti. Seguendo la donna, si trovò inanzi a un arabo con le
gambe incrociate su una stuoia che, per attirare gente, ripeteva:
«Kan ma kan».
Doveva essere una favola visto il rapimento dei presenti
come confermò Sebastian con aria spazientita, dopo essere ri-
uscito a rintracciarla. E le parole dello spagnolo avrebbero con-
vinto anche un sasso visto che proprio a due sassi d’ambra alluse
e pure a quattro tavole e a un ritratto…
«Nel caso tu abbia in mente d’andar per i fatti tuoi e ti smar-
risca lungo il porto o ti succeda qualcosa, questi preziosi beni
diventeranno di mia, personale proprietà… Inteso?».
Lei intese accodandosi, buona buona, come una cagnetta.
Presero una salita in direzione della kasba sino ad arrivare
davanti a un Dar, tradizionale dimora marocchina, tutta bianca
come un osso, con una porta in legno dipinta d’un blu color di

100
cielo. Anche i rami fioriti della pianta, che uscivano dal muro
di cinta, parevano una nuvola azzurra. Qui abitavano Nicolaes
e Gamila.
«Chi sono?», chiese lei.
Sebastian rispose che l’uomo era il suo amico, nonché socio,
olandese e l’araba la padrona della casa.

Aprì la porta Nicolaes. I due s’abbracciarono, felici di rivedersi,


ma il pianto della bambina fece sì che Sebastian dicesse subito:
«La piccola deve poppare e Greta non è la sua mamma. Abbia-
mo urgente necessità d’una balia».
«Siete fortunati. Hamda, una servente araba, ha da poco
partorito un maschietto e provvederà anche a questa», rispose
l’olandese.
«Le fanciulle, che sono con me», proseguì l’altro, «ti ringra-
ziano di vero cuore. Presto saprai ogni cosa su di loro, piuttosto
è in casa Gamila? Vorrei presentarle...».
La ragazza, però, era già sparita.
«Nicolaes, aiutami tu… mi è già scappata due volte dacché
siamo sbarcati».
«Sebastian, non mi vedi?», e intanto Greta si sbracciava esa-
geratamente, «sono la bagnante più felice di Tangeri! E pure
Abril per la contentezza non piange più».
Lui girò gli occhi in direzione della voce e, tra la vegetazio-
ne, scoprì la ragazza con i piedi dentro alla vasca del giardino.
Teneva sollevata la bambina e le sue pianelle erano allineate con
ordine sul bordo della piscina.
Intanto la padrona stava attraversando il patio a piedi nudi.
Portava un lungo candido velo che faceva intravedere un folto
disordinato ciuffo di capelli grigi poi, con un ricco volteggio,
cingeva il collo e ricadeva sul dorso. L’andatura era intralciata da
un calzone in stoffa leggerissima con sopra una tunica ricamata
secondo il motivo dell’albero della vita. C’è qualcosa d’esage-
rato in lei, pensò la fiamminga e la fissava mentre lo spagnolo
stringeva a sé l’amica e quell’abbraccio era troppo lungo.
Gamila, invece, non guardava verso la ragazza quasi fosse
ignara della sua presenza. Allora Greta, tutta gocciolante, si fece
avanti per offrire il conveniente saluto alla signora.

101
«Brava! Hai già fatto le abluzioni perché oggi è il primo gior-
no del Ramadan».
Poi si volse verso Abril, le strinse il lobo e solennemente pro-
nunciò: «Mashallah!».
Ramadan e Mashallah …frullavano questi suoni nella
mente dell’ospite, piuttosto nervosa perché non capiva cosa
significassero.
Nel frattempo era giunta la balia Hamda, donna bellissima,
inconfondibile, e fuori dall’ordinario che portava una sciarpa ri-
camata a coprire metà volto, dall’orecchio destro alla gola. Sulle
spalle teneva Radouane, racchiuso in una striscia di seta allac-
ciata sul petto.
«Sembra… non so dire chi sembri con tutto questo velame
dalla testa in giù», commentò Greta.
«Assomiglia a un’antica regina dell’Egitto», mise i punti su-
gli i Gamila.
I nuovi arrivati interrogarono con lo sguardo l’olandese che
rispose come Hamda avesse ricevuto un bacio da un pesce tanto
vorace da lasciarle, a ricordo, l’impronta dei suoi denti.
Vorrei tanto vedere quel morso, disse Greta non osando dirlo.
Intanto la balia, dopo avere preso Abril, in disparte offrì il
seno per la prima poppata araba della piccola spagnola.
Il giardino, ombreggiato da tettoie in vimine, con aiuole fio-
rite, un prato tenuto a sabbia e la grande fontana al centro,
ospitava un paio di padiglioni in pietra, uno di fronte all’altro,
con le finestre che davano sul patio: sembravano in attesa d’ac-
cogliere due coppie amiche, nel rispetto, però, d’una opportuna
riservata distanza.
«Che bel posto!», esclamò la fiamminga, «È simile a quelli
che ho visto nella città di Santander», e apprezzava il luogo tan-
to per fare sentire la sua voce e affermare che esisteva pure lei.
Gamila si produsse nel gesto sconsolato di chi sa nei con-
fronti di chi non sa impartendo la sua brava lezioncina sull’arte
araba all’ignorantona. La signora, invero, di cose ne sapeva ma
era il come le snocciolava a dare fastidio alla ragazza. Il tono da
sapientona, quelle gambe incrociate sul tappeto per accoglie-
re gli ospiti, steso all’aperto… s’atteggiava come una regina sul
trono, invece, poggiava pure lei le zampe sulla sabbia.

102
Se davvero fosse la regina del deserto, almeno ci offrirebbe
del cibo e dell’acqua fresca, disse col pensiero Greta.
Quasi le avesse letto nella mente Gamila… toh, è pure un’in-
dovina la sovrana del deserto!… annunciò che durante il mese
del Ramadan in quella casa, a partire dal levare del sole sino
all’apparire della prima stella, non si toccavano né cibo né acqua
per ricordare le sofferenze dei fratelli meno fortunati.
«Amen. E neanche il sale fa eccezione?», e l’ospite ne mise
un granello in bocca, dopo averlo afferrato da una ciotola che
pareva messa lì per invogliare la presa.
Lo spagnolo spiegò che Greta, in quanto cattolica e in attesa
d’un figlio, era esentata dall’osservare questi precetti.
«Del resto, anch’io, in passato, non sempre li ho rispettati…
vero, Gamila?».
La padrona di casa annuiva muovendo la bocca quasi doves-
se inghiottire, per intero, un rametto d’uva.
Il suo viso era chiaro ma macchiato di scuro all’altezza degli
zigomi: pareva il colore delle mandorle pelate e messe in vetrina
da un confettiere a pigliare il grigio della polvere. Però, gli occhi
lustri e tinti lanciarono allo spagnolo lo sguardo più intenso che
Greta avesse mai visto.
Per nulla al mondo questa sarà mia amica, comprese la ra-
gazza perché tra lei e Sebastian, in passato, c’è stato del tenero…
Sono forse gelosa? Neanche per sogno…, ma d’ora innanzi mi
converrà stare all’erta.
Intanto lo spagnolo diceva: «Nella città di Santander le fiam-
me d’un incendio hanno risvegliato in Greta e nella mia perso-
na il desiderio di fare da genitori a un’orfana, venuta al mondo
proprio nel mese d’Aprile».
Ma come parla bene il mio brabantino di fronte all’araba,
commentò col pensiero lei, forse nella biblioteca del galeone ha
trovato modo di rispolverare le regole della grammatica per fare
bella figura!?
Su invito della padrona, la visita della casa cominciò
dall’anticamera del laboratorio di Gamila, che godeva, sussur-
rò Sebastian alla ragazza, della fama di speziale più rinomata
della città.
Il lungo piano di lavoro in pietra era tale che un farmacista

103
d’Anversa non avrebbe avuto nulla da eccepire, tranne certo in-
vidiare i vasetti dipinti di verde dalle più svariate dimensioni, e
un orafo perdere la testa per il raggio viola sparso tutt’intorno
da una grossa pietra d’ametista.
Al centro del tavolo era posto un grande vaso a due manici:
il colore della creta sfumava lungo i bordi delle iridescenze pun-
teggiate da frammenti di vetro con i toni del bosco autunnale.
L’olandese spiegò che queste varietà nascevano dopo il terzo
passaggio nel forno sempre più rovente: «È una tecnica araba…
se qualcuno l’introducesse in Olanda diventerebbe più che ricco».
«Allora perché non ci occupiamo noi della faccenda?», chie-
se, d’impronta, Greta.
«Ehi, ehi, non fare un altro volo!», intervenne Sebastian, «io
e Nicolaes abbiamo le idee chiare sul commercio che intendia-
mo intraprendere».
Poi, sorridendo, accennò all’impulsività della giovane fiam-
minga che l’aveva portata a volare dentro la Schelda in pieno
inverno.
«Nelle nostre terre si sta attenti a dove mettere i piedi», disse
Nicolaes.
«Fui aggredita da un bruto e Sebastian mi salvò dalle acque».
«Allora», s’intromise l’araba con una punta di malizia nel
tono di voce, «lunga vita alla coppia felice!».
«L’augurio fa pensare a quando saremo già vecchi», replicò
Greta fissandola con un’aria di sfida, «e non al nostro primo in-
contro avventuroso e indimenticabile».
«Cari amici», s’affrettò a dire lo spagnolo nel timore di sentire
qualche altra parola di troppo da parte della ragazza, «io non mi
staccherei dalla vostra compagnia, ma devo ancora finire d’asciu-
gare la mia bagnante… quindi, potete mostrarci il nostro nido?»

Il padiglione riservato agli ospiti era ripartito in tre vani. Greta


attraversò la stanza gialla, poi quella rosa e vide taniche d’ac-
qua fresca in cucina. Appena fuori dall’abitazione, dopo aver
superato un arco in muratura, entrò in un vasto spazio con al
centro delle vasche di ceramica colorata, collegate mediante un
impianto di tubicini alla fontana esterna. Nella bocca del forno
vide delle braci.

104
«Peccato che mi sono già lavata i piedi», disse guardando
Sebastian.
«Questo luogo», spiegò lui, «si chiama hamman e in una casa
araba avere un bagno privato è roba da ricchi. Considerati for-
tunata, ragazza mia!».
«Però in quelli pubblici per donne mi divertirei di più a guar-
dare se i capezzoli delle altre sono all’insù come i miei. Piuttosto
dimmi se credi che un morso di pesce abbia sfregiato il volto
della balia. Mi pare una storia così inverosimile».
Lui, a quel punto, le chiuse le labbra baciandola con passione.
Il giorno dopo, Gamila si presentò nel padiglione con una
tunica verde per l’ospite chiarendo come per i musulmani quel
colore fosse l’emblema della salvezza.
«Grazie per il dono ma io sono già salva».
E, per ripicca, avrebbe voluto mostrarle le tavole e le gemme
d’ambra e già aveva tra le mani il suo ritratto. Ma l’altra, dopo
avere lanciato uno sguardo sprezzante, voltò le spalle e, intanto
che usciva dalla stanza, venne accompagnata dal chiacchierio
dei ninnoli d’argento pendenti dal polso.
Appena fuori dalla porta, la donna s’imbatté in Sebastian e la
ragazza udì distintamente questa frase: «Mi hai portato in casa
un’arrogante. Riuscirai a farti perdonare da me?».
Attraverso la persiana semichiusa vide che, insieme, s’allon-
tanavano e, nel medesimo tempo, s’accorse d’essere strana e in-
quieta dopo la visita della speziale. Si rimirò in uno specchio
dalla cornice in stoffa ricamata con due larghi fiocchi che scen-
devano ai lati.
Cosa c’è che non va?, chiese alla sua immagine.
Poi, sollevata Abril dall’amaca, la strinse tra le braccia per un
tempo lunghissimo, segnato da un’intimità complice, quasi sa-
cra, provando un senso di pace, profondo e completo, dal cuore
alla mente, ma…
Ma… sento d’essere veramente a mio agio in questo allog-
gio o sono solo un’ospite sopportata? E Sebastian perché non
torna? Quante cose cattive gli starà dicendo l’araba nei miei
confronti? E di me lui cosa racconterà? Che ho fatto la serva
in un palazzotto d’Anversa; che non so neppure il nome di
mia madre; che, se mi trovo qui, lo devo al suo spirito di cari-

105
tà. Domande a cui non sapeva dare mentalmente una risposta
ma, coi gesti, provvide a sistemare lungo la parete della stanza
rosata le quattro tavole. Osservò a lungo i dipinti per impri-
merseli nella mente e, in basso, sulla parte sinistra d’ognuno
lesse Bruegel.
Sono io la proprietaria di questi capolavori!
Distese su un piccolo tavolo il ritratto che le fece Rubens.
Sono tutte opere con tanto di firma, pensò con orgoglio, e
nessuno mai riuscirà a strapparmi le uniche cose materiali che
io possiedo.
Poiché dello spagnolo non si vedeva l’ombra, uscì dalla stan-
za con la bambina in braccio per andarlo a cercare. Ma sia lui
che Gamila erano spariti. Chiese a Nicolaes dove si trovassero.
All’olandese sfuggì un gesto che indicava un punto del giardino.
Greta non vide nulla tranne una parete dalla vegetazione folta.
Si mosse verso quella direzione e, una volta raggiunta, tastò il
muro per il lungo e per il largo sino a quando sentì qualcosa
dalla consistenza del legno. Scostò il fogliame, vide una porta
solo accostata e dalla serratura pendeva una lunga chiave corro-
sa dalla ruggine.
L’olandese fece udire la sua voce. La ragazza si voltò. A gesti,
l’uomo stava significando che lei non doveva entrare. Greta die-
de un calcio all’uscio socchiuso anche se, con l’arrivo della balia
già pronta per la poppata, le mancò il tempo d’uno sguardo. E
se Hamda sapesse qualcosa del luogo? Nella stanza rosa, agitò
un mazzo di chiavi davanti agli occhi dell’araba; spinse la porta
mentre indicava la parete esterna del patio, soffocata dal verde;
tentò altri modi per significare la sua richiesta. In risposta, rice-
vette solo dei luminosi sorrisi.
Lo spagnolo finalmente rientrò. Rimase in silenzio. Come
era cambiata l’atmosfera tra loro! Durante la traversata erano
felici e anche nella casa di Santander lo furono. Adesso, invece,
a lui non cavavi fuori una parola nemmeno per grazia ricevuta
e i suoi baci erano freddi. Però, si rintanava con la speziale die-
tro una porta dall’accesso vietato… a meno che qualcuno, dopo
avere trovato la chiave, vi s’introducesse, magari di notte, per
scoprire quel mistero.
Durante l’intera settimana controllò i movimenti di Seba-

106
stian che, immancabilmente, con Gamila oltrepassava la spessa
parete di foglie per entrare in quella porta.
Disgustata dall’atto di spiare, che ricordava il suo passato,
finalmente risolvette d’agire: avrebbe chiesto alla drusa a viso
aperto cosa celasse quel luogo.

Quel dì, Greta, con la bambina nel porta infante di seta pen-
dente sul petto secondo le usanze maghrebine, si recò nel
laboratorio.
L’occasione, però, fece la ragazza ladra.
All’entrata Gamila le dava le spalle mentre il mobile strava-
gante, alto quanto l’intera parete, dal pavimento al soffitto, la
invitava a tirare quei cassetti che superavano il doppio centi-
naio. Silenziosamente ne aprì uno posto all’altezza della presa:
era pieno all’inverosimile d’ammennicoli in argento con sopra
il volto di mostri o di draghi. In fretta, lo richiuse per tentarne
un altro. Scoprì pezzettini di zampe e d’ali di insetti mescolati a
una polverina di gusci triturati, di foglioline di menta e di fram-
menti di marzapane.
E questo tiretto lungo e sottile, che taglia il mobile in due,
sembra il più segreto di tutti, disse tra sé. Difatti non s’apriva.
Doveva esserci una molla nascosta per farlo scattare, ma non la
trovò. Allora, mediante una forcina, che si tolse dai capelli, for-
zò gli angoli e questo rispose mostrando una fila di pani com-
patti, resinosi, d’aspetto polverulento e dai diversi colori: rosso,
marrone, giallo. Rimase male. S’aspettava di trovare la vecchia
chiave arrugginita perché questo tiretto prometteva bene. Ma
cosa saranno questi panetti? La tacita domanda rimbalzò nell’a-
ria, impregnata dai fumi d’incenso, esalati dai bracieri su cui, se-
parati da una graticola, s’appoggiavano recipienti colmi di vege-
tali. Erano in atto le bolliture e Gamila in piedi, accanto a quei
piccoli forni, sembrava nuotare in quello spesso vapore come un
cuscino fatto di nuvole.
Con gesti lenti stava scremando gli olii galleggianti sulla su-
perficie per farvi macerare le erbe e pareva borbottare qualcosa
come chi pensa d’essere solo. Quando s’accorse della presenza
della ragazza, nascose il fastidio sotto un sorriso sin troppo con-
tratto da venire smascherato dalla visitatrice al primo sguardo.

107
«Così ti spiego», annunciò la speziale, «il modo in cui lavo-
ro lasciando riposare per giorni le bolliture nei loro alambicchi
trasparenti; poi devono seccarsi a contatto coi raggi del sole; in-
fine vengono pestate nel mortaio dopo una spruzzata di polveri
minerali».
Mentre parlava, il viso si scioglieva riflettendo una grazia in-
fantile con le labbra divenute d’improvviso molli, simili a quelle
d’Abril: parevano già pronte a rispondere alle domande dell’o-
spite. Ma Greta, compresa la tacita richiesta, non volle darle
soddisfazione.
«Tu e Nicolaes dormite insieme?», chiese d’amblée.
L’altra accennò di sì col capo.
«E fate penetrare i semi e le radici delle piante nelle aiuole
dell’orto?».
«Quasi tutte le erbe che io tratto», spiegò l’esperta, «sono
rare e tuttora sconosciute tranne la citronella e la vaniglia. E le
polveri hanno alle spalle un sapere antico quanto il mondo».
«Ah…, la vaniglia la conosco! Gli speziali di Liegi dicono
che metta le ali al desiderio perché la forma del frutto è simile
alla vagina!».
Gamila sbottò: «Beh… invece di girarci attorno con frasi
allusive perché non dici con franchezza cosa vuoi conoscere di
me? T’incuriosisce come passo le notti con un uomo tanto più
giovane?».
E, senza aspettare la risposta, raccontò d’essere una donna dal-
la mente libera e sempre aperta a nuove esperienze. Era nata in un
villaggio della Galilea, chiamato Pek’in e, in quanto figlia d’una
drusa, di diritto, faceva parte dell’etnia delle montagne dalla sto-
ria tanto misteriosa quanto tribolata di persecuzioni da parte dei
musulmani più fanatici. Fu sua madre a insegnarle il mestiere di
speziale che lei praticò con devozione e fantasia creando una spe-
ciale miscela di quindici erbe segrete da usare in gocce.
«I miei flaconcini sono molto richiesti per la loro straordina-
ria efficacia e il successo di vendite consente le agiatezze di cui
anche tu, in questo momento, stai godendo».
La fiamminga non seppe cosa replicare e, con il fagottino di
bimba sul petto, prese la porta. Gamila la seguì e, sull’uscio, di-
segnò un ricciolo rosato d’hanna sulla guancia sinistra di Abril.

108
«Difenderà tua figlia dal malocchio», disse con un tono dol-
ce mentre alla ragazza rivolgeva un’occhiata da malaugurio.
Una volta ritornata nell’appartamento degli ospiti, Greta si
distese sul letto e a voce alta esclamò: «Tutto sarebbe quasi per-
fetto se non ci fosse quella fattucchiera. Perché al mondo le cose
non possono mai essere del tutto perfette?!».
«Perché siamo umani», intervenne Sebastian che era entrato
a piedi scalzi.
«Potresti inventare qualcosa di spiritoso invece di parlare
come un prete».
«E cosa?», domandò lui.
«Per esempio, iniziare a tenere la lista delle stanze o delle case
anche dei luoghi improbabili, dove ti sei sentito particolarmen-
te bene. Così, pure io, conoscerei la mappa della tua vita. A te,
la scelta!».
Lui fece per abbracciarla ma lei gli sferrò un calcetto, d’un
pelo scansato. Con un balzo d’una certa qual eleganza, conven-
ne Greta.
«Oppure dirmi…
«Cosa vuoi sapere, ragazza?».
Stava per chiedergli dove Gamila tenesse quella chiave, ma
si fermò in tempo.
«Mi piacerebbe tanto sentire recitare una favola», inventò
emettendo un respiro di puro, falso desiderio.
L’uomo la guardò strabiliato. Cosa ho mai detto?, pensò lei
quasi avesse domandato d’avere la luna.
La spiegazione la comprese da lì a poco.

109
L’erba del gatto

D urante il mese del Ramadan, alla sera, dopo l’apparire del-


la prima stella, nella casa iniziava la festa del cibo con una
lunga veglia.
Il luogo conveniente per sedersi alla ricca tavola era il secon-
do giardino di Gamila. Per tradizione, veniva riservato alle don-
ne e fu costruito sul tetto piatto dell’appartamento della drusa.
Vi si accedeva dopo avere sfiorato il palmo sinistro sulle im-
pronte ben auguranti delle mani di Fatima in color indaco, po-
ste ai lati della porta.
Per la fiamminga l’augurio andò subito a segno. E che di-
vertimento fu infilarsi nella vasta tenda rettangolare in pelo di
cammello, posta al centro della terrazza con le stelle che pare-
vano ad altezza di braccio! Anche la balia Hamda non si fece ri-
petere l’invito di portare dentro i bambini per rotolarsi insieme
sui morbidi cuscini.
Con tutti questi salti, pensava Greta, la sciarpa dovrà pur
muoversi e mostrarmi il morso del pesce… vorrei contare i se-
gni lasciati da quei denti. Ma la robusta banderuola di seta ri-
maneva ferma, quasi fosse un sigillo.
La speziale, nel corso del giorno, aveva alluso a una sorpre-
sa e i presenti capirono che questa stava per arrivare nel preciso
istante in cui lei invitò tutti al silenzio. Il ticchettio d’un bastone
di canna lungo i gradini della scala esterna annunciava qualcu-
no: ed ecco comparire Faris, famoso cantastorie cieco itinerante,
accompagnato dalla sua guida.
«Noi», disse la drusa, «resteremo in sua compagnia sino a
quando il tamburino non avrà concluso la sua ronda: prima
delle preghiere dell’alba, dell’ultimo boccone, dell’ultimo sorso
d’acqua, appena prima dell’inizio del digiuno della nuova gior-
nata. Quindi, Greta e Hamda, uscite subito dalla tenda!».
Dopo la cena, si trasferirono dentro la casa di pelo nei posti
contrassegnati con i loro nomi mentre la servente portava piatti-
ni in ceramica verde su cui erano appoggiati datteri, montagno-
le di sale, e semi di melone arrostiti mischiati a granelli di pepe.
Numerose candele doravano l’aria e l’incenso la profumava.
D’improvviso, Greta fece un balzo. Baciò sulla bocca Seba-
stian, poi gli ripassò l’orecchio con un’interminabile linguata,
così, di fronte a tutti i presenti, che rimasero allibiti… tranne il
cantastorie privo del dono della vista.
Al vecchio, che non capiva il perché di quel silenzio innatu-
rale, Gamila spiegò che all’ospite di casa, venuta dalle terre fred-
de, bastava un pelo di cammello per prendere fuoco.
E Faris, rapido, pescò nella memoria un antico racconto in-
titolato: L’ultima cammella dell’emiro Hamid.
«Kan ma kan…», principiò lui, «C’era una volta un
principe…».
Le parole del recitante volavano come avessero l’ali e raccon-
tavano la meravigliosa storia d’un uomo generoso al punto da
sacrificare l’unica sua cammella. Così Allah, a ricompensa, gli
fece scoprire una caverna con sette giare di terracotta: ognuna
piena sino all’orlo di monete d’oro con cui poté comprarsi capre
e cavalli e pecore e tanti cammelli.
«La favola, Greta, vuole essere un omaggio del cantastorie
al senso d’ospitalità della padrona di casa», sussurrò Nicolaes,
«lui e la sua guida per tre giorni avranno vitto e alloggio: un bel
costo davvero!».
Ma la ragazza non lo badò perché non vedeva l’ora di rive-
lare a Sebastian che, nonostante avesse davanti una ciotola con
dentro granelli di pepe, non sentiva più il desiderio d’allungare
la mano per afferrarne anche uno solo.

112
«I miei denti torneranno candidi e avranno fine gli attacchi
di male alle gengive! Che questa gravidanza sia una benedizione
d’Allah?», disse allo spagnolo nella loro stanza mentre si rannic-
chiava sotto la coperta di lana a riquadri colorati.
Questo pensiero le procurò tanta di quell’agitazione che non
riusciva ad addormentarsi. Decise quindi di prendere una boc-
cata d’aria nel patio e, già che c’era, tentare di scalzare i battenti
della porta segreta con un ferretto appena preso dalla cesta in
vimine degli attrezzi.

Sul finire di maggio le notti erano ancora piuttosto fredde e lei,


pur intabarrata nella veste araba, camminando avvertiva qual-
che brivido. Le piante, ingrigite dal chiarore della luna, pare-
vano uccelli in attesa di volare da qualche parte e l’albero blu
una creatura uscita, ancora gocciolante, da un bagno nella pece.
Strana visione.
D’un tratto, si fermò. Aveva visto brillare e, insieme, muo-
versi un puntino rosso, più piccolo d’una capocchia di ditale.
Qualcuno con la schiena appoggiata al tronco si fumava una
cartina d’erbe secche: così facevano i marinai svedesi, al chiaro
di luna, sul ponte superiore del galeone. Udì strani rumori…
erano voci? Forse la guida del cieco si godeva la notte chiedendo
alle stelle di far luce sul nascondiglio delle giare colme di mo-
nete d’oro?
Fasciata dal buio, rimase a dovuta distanza per non farsi sco-
prire. Però l’invocazione, se mai fosse tale, non pareva una pre-
ghiera recitata in arabo.
Quante lingue conosceva l’accompagnatore del cieco?, pro-
vò a chiedersi intanto che s’avvicinava alla fonte sonora.
Le frasi, che ora stava confusamente udendo, rimanevano
sospese in un mormorio indecifrabile poi, d’improvviso, ripren-
devano su un tono di voce più alto e netto sino a quando i suoni
giunsero familiari alla fiamminga. Si trattava d’una parlata delle
sue terre: era olandese. E l’uomo che fumava con la schiena ap-
poggiata al tronco portava il nome di Nicolaes.
Provò ad accostarsi a lui e, con qualche difficoltà, riuscì a
udire il soliloquio del marinaio.

113
Le navi erano quattro e la mia si chiamava Amsterdam. Hihh… la
perdemmo dopo che fu danneggiata dagli abitanti dell’isola durante
un attacco. Quanto la piansi e tanto pregai il fabbro di bordo perché
l’aggiustasse almeno un po’ per farla restare ancora con noi! Hihh…
cosa t’importa il destino d’una nave, dicevano gli altri marinai, visto
che abbiamo perduto tutto e finiremo gettati in mare. A me, però, im-
portava perché volevo bene alla mia nave… Hihh… così m’attaccai a
bottiglie di tastie, che prendemmo in grande quantità a Sumatra, e da
mattina a sera ero fradicio di quel succo di palma… ma, chissà come,
Hihh… riuscivo lo stesso a far le manovre.

Dai balbettamenti, intervallati da quelle risatine sempre uguali,


Greta dedusse che l’olandese aveva partecipato alla prima spe-
dizione alla volta delle isole delle spezie durante la quale andò
perduta una delle quattro navi partite dal porto d’Amsterdam.
Ma non era, questo, il punto perché Nicolaes parlava farne-
ticando come fosse ubriaco anche se sulla tavola della drusa non
compariva certo il vino, secondo il divieto del Corano.
Greta non esitò a toccargli una spalla. L’uomo, girato il
capo, per nulla sorpreso d’essere stato scoperto, le fece cenno
di sedersi.
La donna rimase immobile per un tempo, forse lungo forse
breve, dilatato, poi spezzato da frasi a cui lei cercava, vanamen-
te, di dare un senso. Anche le espressioni più semplici avevano
un suono bizzarro e nuovo, pronunziate da una voce profonda,
di gola, da vecchio. L’intera persona, poi, era mutata come ca-
pita davanti a uno specchio che deforma l’immagine pur conce-
dendole d’essere riconoscibile.
E quel ridere e quell’allegria, di volta in volta, languidi o
straziati, impaurivano per gli accostamenti strani, impossibili
a prevedersi, usciti fuori da una mente non più padrona di sé.
Poi Nicolaes iniziò a essere attraversato da brividi, non giu-
stificati dal freddo. Per scaldarsi le mani prese quelle di Greta:
lei sentì che erano inerti. Lui la guardava con le pupille dilatate
da un’espressione di totale benessere; subito dopo le sue labbra
si strinsero nel gesto tenero del bambino indispettito o in quello
doloroso di chi è gravato da uno sforzo eccessivo. Era un uomo
fragile come un vetro che, durante il trasloco, rischia per primo
di cadere a pezzi.

114
Greta gli fece una carezza sul capo.
L’altro riuscì a pronunziare: «Grazie. Mi sento meglio».
E la ragazza, fece ritorno nella propria stanza, dove Sebastian
dormiva di grosso.

Con ancora negli occhi l’immagine dell’olandese lo guardò. I


due uomini, diversi l’uno dall’altro come una roccia non è la pa-
lude o una dura pietra la fradicia terra, pur tuttavia erano amici
per la pelle. Quale il legame che li univa? Forse un’esperienza,
vissuta insieme, li aveva resi fratelli?
Il giorno seguente, Nicolaes pareva non avere alcuna memo-
ria precisa del loro incontro, ma insinuava nel tono di voce uno
strascinamento, quasi un’eco di quanto era capitato nel corso
della notte.
Greta osservò con maggiore attenzione quell’olandese dalla
bella faccia, forse di dieci anni più giovane dello spagnolo. E lui,
sentendosi sotto il fuoco d’uno sguardo indagatore, subito pre-
se a dire: «Sono stato un marinaio tanto tempo fa ma, ora, non
avendo una nave su cui salire, non so più dove andare».
E quelle parole parevano sorreggere i piedi dell’uomo, il cor-
po muscoloso, la testa incorniciata di capelli marroni come la
scorza d’una castagna. Intanto Nicolaes proseguiva: «E nel cor-
so del lungo viaggio verso le isole delle spezie sentii agitarsi nel
mio petto i sentimenti che prova chi s’accinge a scoprire il nuo-
vo mondo».
«Quali sentimenti?», chiese lei.
L’olandese più che a parole raccontò coi gesti l’abbraccio
dell’oceano perfetto e vuoto; le preghiere dei marinai; gli sguar-
di di tutti rivolti a un punto che era una macchia, poi divenne
una forma, infine fu un’isola.
«E solo allora mi concessi di credere ai miei occhi intanto
che dalle labbra usciva una sola parola, Terra. Era la vita, la ri-
nascita, la risurrezione. E l’avventura, sorta dalla vastità, stava in
fronte a me che volevo stringerla tra le dita».
Greta guardò le mani dell’uomo. Attorno alle unghie dell’in-
dice e dell’anulare della destra appariva una lieve coloritura
arancione mentre sul dorso fiorivano piccole, fitte macchie.
Mani da vecchio su un corpo giovane.

115
Mani da far paura, Greta, quelle dei marinai…, così aveva
detto Jan nella stalla del molino.
«Perché non portasti i guanti durante la navigazione?».
Lui sorrise toccandosi il cuore poi disse: «È una lunga storia
che, se vuoi, ti racconterò un’altra volta».
«Questa notte, allora, sotto l’albero blu», confermò lei.
Silenzio. Poi un’espressione sorpresa sul volto dell’uomo che
disse: «Ti aspetterò là».
Nel cuore della notte, aspirando il fumo della cartina diste-
so sotto l’albero, Nicolaes, quasi fosse ancora su una nave senza
pilota, faticava a ricondurre il discorso al suo centro. Rincorreva
una ventata di pensieri, suggeriti da ricordi, in una processione
di parole disordinate, framezzate a risate, sospiri e languori che
confondevano la donna come le nebbie delle Fiandre nascon-
dono le cose.
Dopo avere inspirato una lunga boccata, fu preso da una leg-
gera agitazione lungo il corpo e, ancora, sospiri e risate distorte.
Infine si rialzò, rimase diritto con la mano appoggiata sul petto,
quasi sul punto di giurare il proprio onore di marinaio davanti
a Greta che lo guardava con occhi sbarrati.
Dalla tasca estrasse un’altra cartina per accenderla con quella
che stava finendo.
Aspirò lungamente e, ancora, a lungo prima d’iniziare a dire.

Una volta sbarcati nel porto di Bantam, non potemmo comprare le


spezie perchè il prezzo era salito… Hihh… saremmo tornati in patria
a mani vuote… Hihh… il sogno di diventare ricco del nostro coman-
dante Houtmann svanì e lui si fece pazzo… Hihh… noi gli andammo
dietro e, quando ordinò, di bombardare… Hihh… sì che eravamo
armati, la spedizione costò una fortuna… armi comprate dagli in-
glesi per ammazzare i giavanesi… Hihh… Hihh… come fa ridere la
rima! Tra le onde una piccola flotta avanzava verso la nostra nave…
Hihh… con al centro un barcone su cui c’era il re, un ragazzo di sedici
anni, sorridente e seduto su un trono… Hihh… aprimmo il fuoco…
Hihh… poi io raccolsi il corpo morto del re… Hihh… provai a to-
gliere dalle sue dita gli anelli… Hihh… non si staccavano… Hihh…
gli staccai le dita… Hihh… scaraventai le dita tra le onde… Hihh,
Hihh, Hihh…

116
Il crescendo delle risate e le parole impressionarono Greta che
sentì l’ombra del cielo, della terra, dell’albero entrare e fissarsi
nei suoi occhi.
Non posso concepire che lui si sia abbandonato a un atto
così tremendo su un innocente, disse tra sé mentre stringeva al-
cune erbe secche, appena colte, tra le dita.
Sentì che una di queste era spessa e lanuginosa, lievemente
grassa. D’improvviso, fu colta da una memoria: quell’erba cre-
sceva sulle tombe dei pescatori olandesi, morti da tempo.
Era vicina sino a sfiorargli il viso quando sussurrò: «Hai no-
stalgia della tua terra?».
Lui con un’espressione ridente: «Margaretha», disse in un
soffio.
Greta si convinse che stesse facendo un sogno, davvero brutto,
ma pur sempre un sogno. E quelle frasi smozzicate, come le risate
malsane, erano il cattivo scherzo d’un folletto chiacchierone che
intendeva punirlo per non essere rimasto a casa, tra i suoi boschi.
Non erano parole reali, si voleva convincere, e Nicolaes mi
dirà che il male assoluto, inflitto al corpo del giovane re d’orien-
te, l’ha visto compiere da un altro marinaio.
Lo scosse, gli massaggiò le tempie, provava a riscaldargli le
mani ma la risata di gioia malsana riprese con maggiore intensi-
tà. Allora corse verso il laboratorio della drusa; diede un sonoro
calcio alla porta che s’aprì; accese una grossa candela; cominciò
a frugare nei cassetti: cercava l’olio di geranio che placa i deliri
della mente.
Sull’uscio apparve Gamila. Greta fece un cenno verso l’ester-
no indicando l’albero blu, dove il farneticante era rimasto.
La drusa, intanto che la fissava, disse: «È sotto l’effetto d’u-
na miscela d’erbe e hascisc, tagliata con la polvere d’hanna, ma,
domani, avrà scordato tutto».
«E tu sei la maga che prepara l’incantesimo che, di notte, lui
si fuma», obiettò con riprovazione.
L’altra, senza replicare, condusse Greta in giardino davanti
alla porta coperta da una vegetazione così folta da farla sparire
alla vista. Dopo avere estratto la chiave, che teneva nascosta in
seno, l’infilò nella toppa e fece entrare la fiamminga nell’orto
dei segreti.

117
«Finalmente vedo la chiave!», si liberò la ragazza.
Gamila non colse l’esclamazione perché con orgoglio stava
dicendo: «Questo è nato quasi per caso e l’ho chiamato il giar-
dino dell’oblio, dove io coltivo le erbe proibite».
Raccontò che, un tempo, qui si trovavano solo verdure com-
mestibili ma il suo gatto…
«Cosa c’entra il gatto in questa storia?».
Con pacatezza la drusa spiegò che fu proprio l’ebbrezza del
gatto e quella sua danza gioiosa, una volta inghiottita una par-
ticolare erbetta, a farle comprendere come in quella porzio-
ne d’orto potessero crescere vegetali tali da appagare desideri
diversi.
«Perché non le chiami con il nome che meritano, illustre
speziale? Sono piante allucinogene».
La luna illividiva il luogo. Le lingue di fiamma della candela,
tenuta sollevata, con il loro movimento arabescavano un albero
creando punti di luce simili a lettere dell’alfabeto arabo; poi si
spostarono in direzione d’una grotta scavata lungo una parete;
e infine s’appoggiarono sulle macchie scure del volto di Gamila.
In che luogo sono capitata? si chiese col pensiero Greta.
«A chi vendi, speziale, l’hascisc… perché lo vendi, vero?…
e tieni nascosti nel cassetto segreto del tuo laboratorio i panetti
marroni, rossi e gialli».
«Maledetta impicciona! Ma Allah punisce sempre l’ospite
ingrata! Certo che vendo l’hascisc… in particolare ai mistici per
aprire le loro menti a nuove visioni e conoscenze. Io, al pari di
loro, rischio sfidando le regole del Corano che puniscono con
la morte chi le consuma, chi le coltiva e chi non denuncia i
colpevoli».
La maledizione e quell’ultima minaccia stavano per averla
vinta su Greta ma lei reagì. In quel giardino lugubre, tra quelle
ombre, una fiamminga non doveva avere paura neanche delle
proprie paure. E, dopo avere recuperato un tono di voce calmo
quanto fermo, disse: «Peccato che le tue piante proibite siano
orrende e forforose. Nella mia terra i pittori dal pennello vellu-
tato mai si sognerebbero di dipingere tale bruttezza. Amiamo il
bello dalle nostre parti».

118
La polvere d’ hennè

N el corso dei giorni successivi Greta, accusando dolori al


ventre, non si staccò dal proprio letto mentre Sebastian,
come di solito, si recava al porto. E da solo…
La ragazza, sempre più concentrata nel porsi domande, riu-
scì a formulare una serie d’argomenti tali da convincerla d’avere
compreso i segreti di questa dimora.
Lo spagnolo, in combutta con l’olandese, doveva avere mes-
so in piedi un contrabbando d’erba, anche piuttosto florido
data l’esuberanza del giardino di Gamila. Ogni giorno visitava
la sua mecca in compagnia della drusa per rendersi conto dello
stato di salute del vivaio. Ma chi si sporcava le mani lungo le
banchine, al momento della consegna dei panetti pressati d’ha-
scisc, era solo Sebastian, non quel drogato di Nicolaes o la stessa
Gamila dalle inclinazioni mistiche. Lui aveva la scorza più dura
e correva i maggiori rischi.
Se lo spagnolo fosse stato scoperto nell’atto di spacciare e
una perlustrazione del luogo avesse rivelato l’esistenza d’una
piantagione proibita nel cuore della medina e non distante dal-
la Grande Moschea, lei sarebbe stata considerata complice di
quello sporco affare. E nessuno avrebbe creduto all’innocenza
d’una povera fiamminga, giunta incautamente a Tangeri, insie-
me al padre della creatura che portava in seno! Le risposte che
la ragazza sapeva darsi suonavano così tanto pericolose da farla
quasi impazzire. Quando la balia era assente, s’alzava dal letto
e pigliava ad agitarsi nella stanza frugando dentro i tiretti sen-
za cercarvi nulla. Stringeva a sé la piccola davanti alle tavole di
Bruegel, poi strofinava sulla propria fronte una gemma d’ambra
e intanto ripeteva: «Sono una donna ricca e posso andare via da
questa maledetta casa quando voglio, come ogni persona fornita
di mezzi sono in grado di partire… Ma per dove?» finiva sempre
col chiedere all’aria.
Per la rabbia, un dì, diede, casualmente, un calcio alla borsa
del viaggio confinata in un angolo accanto alla porta. Il piede
non la sentì molle: qualcosa doveva essere rimasto tra le pieghe
del tessuto. All’interno della sacca, la mano riconobbe la con-
sistenza del grosso pizzo della pettorina rossa; e le dita, infilate
nella tasca, sfiorarono la resina della ceralacca. Estrasse la lettera
su cui era scritto: Per Greta. Forse Hans Franse aveva segnato
su questo foglio l’indirizzo della casa dei nonni di Catharina
a Rotterdam perché lei, in caso di bisogno, sapesse a chi rivol-
gersi? Intravide la possibilità ma, contemporaneamente, volle
negarsela. E ripose la lettera chiusa al suo posto. Se la sarebbe
cavata facendo affidamento solo sulle proprie iniziative per sal-
vare Abril, il futuro bambino e se stessa. La decisione fornì il
vigore necessario per rimettersi in piedi e mandare al diavolo
l’inerte abbandono in cui era fiondata. Si portò in giardino. Da
una particolare posizione del patio, riusciva a vedere un tratto
di mare. Non riuscì a distinguervi alcuna nave. Eppure, giurò a
se stessa che ne avrebbe trovata una con destinazione Anversa a
costo di vendere le due gemme d’ambra a un orafo del souk per
poter pagare il biglietto anche ad Hamda. Una traversata di ri-
torno dopo l’andata, avvenuta poco tempo prima, l’avrebbe resa
la viaggiatrice più assidua della rotta. Difatti, quale persona, che
non fosse un uomo di mare, macinava viaggi a tale ritmo?, pro-
vò a domandarsi. La possibile risposta la sconvolse perché solo
un corriere con l’incarico di scortare della merce sotto controllo
si sarebbe sobbarcato una tale fatica. Si riprese quasi subito. Che
merce… quale controllo… cosa le saltava in mente, adesso? Fi-
gurarsi se la storia del corriere riguardava lei! E mise da parte
l’idea con la stessa rapidità con cui, lungo un sentiero di cam-

120
pagna, si scarta il piede davanti a un rettile dal corpo cosparso
da una catena di macchie per segnalarne la pericolosità del mor-
so. Se la natura avesse marchiato così anche i serpenti forniti di
mani e gambe!, concluse tra sé e sé sconsolatamente.
Sollevò lo sguardo, alla sua sinistra, verso l’alto. Le tegole
della Grande Moschea erano simili a lampi verdi sotto il sole…
verdi come la speranza… e, in un baleno, decise di denuncia-
re il terzetto di casa all’autorità religiosa musulmana. Le regole
del Corano punivano con la morte i detentori di erbe proibite
nelle persone di chi le consuma, di chi le coltiva, e di chi non
denuncia i colpevoli. E lei puntando il dito verso i peccatori, si
sarebbe salvata. Però tradire Sebastian, il padre del figlio che
portava in seno? Che cosa brutta! Ma se, proprio a causa dello
spagnolo, lei stava correndo il rischio di perdere tutto, anche i
suoi figli? Dalla sua, aveva ogni buona ragione per incolparlo,
diversamente… Si vide incarcerata, processata, sbrigativamente
messa a morte e Abril sarebbe stata orfana per la seconda vol-
ta e l’altro piccolo non avrebbe mai visto la luce. La tremenda
decisione parve calmarla ma, considerando la questione da una
diversa prospettiva, s’avvide d’un ostacolo insormontabile. Non
parlava la lingua araba e il linguaggio è la sostanza delle cose,
così le aveva insegnato il suo precettore. Avrebbe blaterato pa-
role incomprensibili, miste di suoni strani, che potevano venire
scambiati solo per i vaneggiamenti d’una pazza. Come finivano
i folli di Tangeri? Li imbarcavano, come si faceva nel suo paese,
su una nave qualsiasi tanto loro, in preda al delirio, prima o poi
si sarebbero buttati dal ponte?
Al culmine della disperazione le arrivò in gola il grido muto,
poi il rantolo che non riusciva a espellere e, con le mani attorno
al collo, si distese sul letto mantenendo gli occhi chiusi.
Una volta riavutasi, vide Hamda accanto a lei che appoggia-
va un sacchetto di polvere d’hanna sul suo ventre per farla stare
meglio. Le due donne erano ancora abbracciate quando, dopo
un tocco alla porta, entrò Gamila.
Rimasero entrambe in silenzio. Dopo lo scontro nel giardi-
no proibito non s’erano più rivolte la parola ma la convivenza
tra ospiti comportava obblighi formali, di circostanza, anche
tra due che sentivano d’essere nemiche. Così la drusa chiese a

121
Greta se fosse abbastanza in forze per scendere, il giorno dopo,
nell’ospedale della città.
«Sono tanto grave… sto forse per morire?».
«Niente affatto», rispose la speziale, «i tuoi dolori sono natu-
rali in chi aspetta un figlio».
E spiegò lo scopo della visita al lazzaretto. Il medico del luo-
go, mediante un’inserviente, le aveva appena comunicato che
alcune lavandaie berbere, che là lavoravano e vivevano, s’erano
gravemente ammalate.
«Secondo il Corano, possono essere visitate e curate solo da
una donna: e io devo portare loro la mia pozione».

Il dì seguente, con addosso la jellaba verde e il capo velato Greta


poteva essere scambiata per la figlia di Gamila oppure per una
praticante nell’officina della speziale. Allo scopo di migliorare
il travestimento, si cosparse volto e mani con il rosso-arancio
d’hanna.
«Sei bellissima come una sposa del Maghreb nel giorno del-
le nozze», la complimentò con enfasi la drusa con uno scoperto
intento di pacificazione.
Ho fatto un lungo hamman a base d’hanna per difendermi
contro voi, disse col pensiero la fiamminga.
Mentre attraversavano il souk, la ragazza contò almeno cin-
que botteghe d’orafi e in una volle entrare chiedendo sbrigati-
vamente a Gamila di farle da interprete. Era questo l’unico mo-
tivo, il segreto piano che l’avevano convinta ad accompagnare
la speziale.
Intanto che fingeva di scegliere un regalo prezioso per Seba-
stian, mostrò all’artigiano la sua gemma d’ambra con la richie-
sta, tradotta dall’altra, di fare un cambio. L’uomo strabuzzò gli
occhi e non credeva alle sue orecchie. E l’interprete riferì che
con quel trancio del Baltico il commerciante le avrebbe potuto
cedere l’intera bottega e pure la barchetta della domenica, anco-
rata presso il porto dei pescatori. Però, l’affare comportava una
più che seria valutazione.
Lei si mostrò contenta a sentirsi così ricca, ma con gar-
bo fece capire di dovere ancora riflettere prima di scegliere il
dono.

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All’uscita, la drusa ebbe un’esplosione di pura meraviglia
compiendo il secondo tentativo per ammorbidire i loro rapporti.
«Lo devi amare sino all’inverosimile per privarti d’una tale
fortuna!».
«Lo amerò sino all’ultimo dei suoi giorni e anche da morto»,
disse Greta risoluta.
Una volta entrate nel cortile dell’ospedale, non distante
dal porto, Gamila le indicò la grande fontana, posta al centro,
orientata verso la Mecca.
«Nelle acque della midha, Greta, sino a non molto tempo fa,
i fedeli facevano le abluzioni richieste dal Corano prima delle
preghiere. Poi la moschea venne trasformata dagli spagnoli in
lazzaretto».
La ragazza guardò la torre del minareto che gettava sul vasto
spazio la sua ombra, sotto la quale alcuni ricoverati passeggiava-
no chiacchierando mentre i portatori d’acqua si facevano strada
con taniche ora vuote, ora piene. Erano uomini altissimi, dallo
sguardo fiero, alcuni dalla pelle chiara.
«Sono di razza berbera», precisò la speziale. «Qui puoi tro-
vare, indifferentemente, cristiani, ebrei e musulmani: siamo un
mondo in questo ospedale», concluse con fierezza.
Dove, al pari di te, hanno accesso anche i delinquenti, pensò
la ragazza facendosi sfuggire a voce alta l’ultima parola.
La drusa sobbalzò: «Furono davvero delinquenti quelli che
conciarono lo spagnolo per le feste. Mi fa piacere sapere che lui
non ti abbia taciuto l’agguato di cui fu vittima. Non ama farne
il benché minimo cenno ad alcuno, sai».
Greta, fingendo di conoscere la verità, s’impose di farla par-
lare per potere comprendere a cosa alludesse.
«Eh, sì… fu un affare serio, quello!», rispose con il tono di
chi sa.
«Altro che affare, ragazza!… Chiamiamola, invece, una gran
brutta storia di vendetta tra bande rivali».
E, trascinata dal ricordo, raccontò come lo spagnolo fosse
stato trasportato in ospedale da alcuni soccorritori che lo aveva-
no scoperto, nel cuore della notte, in una viuzza della medina,
dentro un lago di sangue con l’anulare e il medio della mano
sinistra tagliati di netto.

123
«La mattina seguente, però, muoveva le rimanenti dita come
un musicista sul proprio strumento», e sorrideva la drusa.
Greta provò un autentico capogiro e, per non piombare a
terra, si strinse a una parete.
La speziale chiese come si sentisse.
«Per colpa di quei dipinti stavo per avere un mancamento»,
si giustificò l’altra indicando i colorati ghirigori che, in vorti-
cosa salita lungo i muri della sala, facevano davvero girare la
testa.
«Quelle sono le parole dell’idam, la nostra preghiera», disse
Gamila.
Poi, presa per mano la fiamminga, la condusse verso il fon-
do della sala.
Si fermò davanti a un letto, appoggiato alla parete, vuoto.
«Era ricoverato qui?», domandò Greta.
«Sì, due anni or sono, giaceva proprio qui», fu risposto.
«Tangeri è un luogo denso di pericoli!».
La ragazza sentì un brivido correre lungo la schiena e, girati
gli occhi all’intorno, li fermò sul pulpito, simile a un trono, che
dominava la sala. Era preceduto da una scala.
«Da lì, ogni venerdì a mezzogiorno, un fedele predica la
khutba», disse la drusa che aveva seguito il suo sguardo. «Ricor-
do la volta in cui Nicolaes voleva salirvi e tenere, lui, una predi-
ca nella sua lingua».
«Cosa? Anche l’olandese è finito in questo ospedale!».
«Per tre giorni, Greta, rimase tra la vita e la morte… invece
ce l’ha poi fatta a sopravvivere per la seconda volta».
E la prima fu un naufragio. Difatti quando la flotta olande-
se, al ritorno dalle isole delle spezie, fece scalo per i rifornimenti
d’acqua a São Miguel, nelle Azzorre, Nicolaes non risalì a bor-
do. Disertò! Dopo qualche tempo fu accolto da una nave diretta
all’isola di Malta con un carico di schiavi, comprati nei mercati
della Mauretania. Una tempesta, all’altezza dello stretto di Gi-
bilterra, portò sul fondo i marinai, gli uomini incatenati nella
stiva e tutte le altre cose mentre l’olandese fu scaraventato sulla
spiaggia di Tangeri.
«Come si conobbero i due?», chiese Greta.
«Sebastian, a quel tempo, viveva con me. Quando seppe che

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un naufrago del nord Europa era ricoverato nel lazzaretto, volle
incontrarlo e nacque tra loro una sincera amicizia».
Non devo farmi impietosire dalla triste storia dei due so-
pravvissuti, diventati amici per la pelle, che ora intendono rifar-
si sulla mia di pelle, promise a se stessa la fiamminga.
E s’avviò spedita mentre l’altra le stava dietro a distanza.
Nella vasta sala stavano rientrando i ricoverati dopo la sosta
d’aria nel cortile. Secondo Gamila, per metà erano prigionieri
provenienti da diversi paesi o forse spie cadute nella mani degli
spagnoli e dei portoghesi, che controllavano la città.
«Oramai», proseguì con aria sconsolata, «questa parte d’Afri-
ca è diventata Occidente e noi non abbiamo più nulla in mano
nostra».
Ma sia a te e che ai tuoi due amici rimane la piantagione
d’hascisc, disse col pensiero la ragazza, E, d’un tratto, tutto fu
chiaro nella sua mente secondo logica e intuizione. Sebastian
era rimasto a Tangeri, forse allo scopo di vendicarsi di chi l’a-
veva mutilato; due anni dopo incontrò Nicolaes, diventarono
amici e, insieme, nella bella casa di Gamila scoprirono una
florida piantagione d’hascisc. Da questa potevano ricavare una
fortuna contrabbandandone buona parte nello scalo di Tan-
geri mentre la rimanente avrebbe preso la via del mare. Ma
chi era in grado di scortare un traffico illecito verso i porti del
nord Europa? Lo spagnolo in Anversa godeva della reputazio-
ne del ladro; e il marinaio disertore, se mai avesse messo piede
in un porto d’Olanda, sarebbe finito nel carcere dell’Aja dove
il pane d’un prigioniero costa meno. E Gamila? Essendo ara-
ba, poteva creare diffidenza nel corso d’una traversata di per sé
insidiosa. Restava un’unica possibilità trovare un corriere che
fosse al di là d’ogni ragionevole sospetto. Sebastian si mise una
sacca sulle spalle, giunse in gran segreto ad Anversa, scovò per
caso, ma guarda che caso!, una femmina nata e sputata per fare
robe speciali. Era una boerinne delle Fiandre la prescelta, quel-
la che avrebbe portato l’hascisc sino a destinazione. Doveva
essere lei il corriere. La percezione, che sfiorò la sua coscienza
facendole intravedere la possibilità d’essere usata a tale scopo,
non era, dunque, errata. Ancora prima di sapere aveva colto,
d’intuito, la verità.

125
Ma non sarebbe stata lei la docile ingenua preda dello
spagnolo.
A conclusione del silenzioso ragionamento, la sua faccia era
così sconvolta da preoccupare la drusa che cominciò a tempe-
starla di domande.
Greta disse solo: «Ma tu non dovevi visitare le lavandaie ber-
bere invece di starmi appresso?».

Nella guardiola il medico, che controllava l’intero ospedale, ac-


colse entrambe con estrema gentilezza e mostrò d’essere ben
contento nel fare la conoscenza dell’ospite forestiera della spe-
ziale. Poi le accompagnò in una zona bassa dell’edificio, confi-
nante con le cucine, raggiungibile scendendo una scaletta buia
che fece inciampare la ragazza.
«Attenta», disse il medico, «questo cunicolo può essere peri-
coloso… se penso al numero di gambe rotte degli studenti che
si recavano nelle loro stanze all’interno della scuola coranica…»,
e intanto indicava gli alloggi della vecchia medersa.
«E non prendevano mai una boccata d’aria?», chiese lei.
L’altro sorrise e con un timido inchino svelò il capo calvo,
solcato da sporgenze e livellato da zone piatte. A Greta parve
una pagina vista nell’atlante per via di quelle montagnole, se-
guite da avvallamenti e grossi cordoni di vene a fare da con-
trafforti. L’immagine che usciva dalla sommità della sua fronte,
ricordava il profilo d’un paese o di un’isola.
Lui disse d’essere nativo di Cipro e di chiamarsi Costantino.
Nella sua terra aveva frequentato l’università e ancora adesso
nutriva nostalgia per le strade di Nicosia e il porto di Famago-
sta, con quel mescolamento di lingua greca e turca tra i dialetti
veneziani e genovesi, che lo spinse a intraprendere lunghi viaggi
per conoscere il mondo.
Intanto Gamila era entrata in una delle camere per far scola-
re sulla lingua delle malate le gocce d’un intero flaconcino della
sua miracolosa pozione.
«Santa donna, vero?!», esclamò lui.
Greta rimase zitta.
Una volta giunti nella guardiola, si sedettero uno di fronte
all’altra, separati da un tavolo carico di libri dai titoli in diversi

126
idiomi. Costantino parlava sei lingue e, considerata la perfetta
padronanza del fiammingo, meritava davvero ogni complimento.
Sulla parete, dietro alle sue spalle, un bel numero d’incisioni
con immagini di piante, anche insolite, incuriosì la ragazza che
era già sul punto d’alzarsi per osservarle da vicino, ma si tratten-
ne compostamente seduta.
«Siete l’unico signore in questa città, io credo, a godere di
questo giardinetto dipinto, degno d’un collezionista?».
Lui rivelò d’essere in contatto con un botanico famoso, Ca-
rolus Clusius, conosciuto a Vienna.
«Fu l’illustre a farmi dono, anni or sono, di questo mirabi-
le erbario che continua a rallegrare il mio cuore. Spero che il
reputato signore mantenga la promessa di raggiungere Tangeri
quando sarà chiamato nella Spagna del sud».
Dietro la porta a vetro, apparve la drusa con sul viso l’an-
nuncio d’una cattiva nuova: una delle lavandaie era sul punto di
morire e le sue sofferenze apparivano indicibili.
Il medico e Gamila si scambiarono uno sguardo d’intesa in
merito a ciò che occorreva fare.
Poi la speziale disse che sarebbe tornata al più presto, il tem-
po d’andare e tornare da casa. Greta poteva aspettarla qui per
risparmiarsi la fatica d’una corsa.
Senza attendere risposta, era già uscita con una foga capace
di rendere agile quel corpo denso di rotoli attorno alla vita e ai
fianchi, come un paesaggio punteggiato di troppe colline.
«A casi estremi, estremi rimedi, vero, mejoffere?».
«Sui primi mi trovo d’accordo, circa i secondi ditemi voi»,
rispose lei.
«Capisco. Anch’io, a suo tempo, ho nutrito parecchie per-
plessità sul metodo praticato da Gamila che cura con le erbe
allucinogene, condannate dalla religione islamica».
E continuò a fissarla con una garbata discrezione mentre ag-
giungeva: «Però, dopo avere constatato gli straordinari benefici
dell’hascisc sui malati giunti al termine della vita tra inaudite
sofferenze, ogni volta mi ritrovo a benedire chi ha il coraggio di
sfidare, a proprio rischio e pericolo, le convenzioni».
Rimasero entrambi in silenzio sino a quando il medico chie-
se alla fiamminga di raccontargli qualcosa su Anversa.

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La ragazza, senza quasi rendersene conto, iniziò a svelare
a un uomo quasi sconosciuto l’intera verità: il carretto su cui
scappò, il palazzotto grigio del collezionista, le lezioni di Hans
Franse, l’incredibile furto della balena dal mattatoio. E l’im-
magine del porto tanto sognato, quasi fosse l’unico luogo che
custodiva una felicità a misura di lei, colorava le sue parole. An-
che lungo la rotta per Tangeri quel ricordo, dove si mescolava-
no odori, sapori, merci e gente di ogni razza, insisteva nella sua
mente come il lavorio dell’onda lungo lo scafo.
«E ora sono, qui, sotto il sole del mediterraneo che sta pro-
vocando sulla mia pelle qualche bruciatura», concluse.
Di fronte a un tal candore, il medico era sul punto di com-
muoversi quando la drusa fece ritorno. Nella stanza della mo-
rente, questa volta, entrarono anche Greta e Costantino.
Dietro un lenzuolo buttato alla meglio per nascondere un
divisorio mobile, la lavandaia berbera dagli occhi fuori dalle or-
bite, con un respiro a squassarle il petto, era già una misera
spoglia di donna ma rispettosa dell’attimo finale. Non volen-
do gridare per il dolore, teneva premuto sulla bocca un cencio.
Gamila s’avvicinò, estrasse dalla sua tasca una cartina arrotolata
che accese in punta con la fiamma d’una candela. La morente,
guidata dalla drusa, sciolse la mano che stringeva lo straccio e
inspirò una, poi due, poi tre boccate. Le sue labbra si distesero,
gli occhi tornarono al loro posto mentre lei inghiottiva il fumo.
Intanto una giovane, forse la figlia, le carezzava la fronte e Ga-
mila arrotolava altre cartine quando la donna, con un sorriso
riconoscente verso la propria soccorritrice e dopo uno stanco
cenno della mano, volò nel mondo di chi più non respira.
Greta distolse lo sguardo. Nella stanza entrò una vampata di
luce, quasi un taglio riflesso da uno specchio, anche se c’era solo
una bassa finestra aperta, attraversata da ringhiere, che d’una
persona permetteva di vedere solo i polpacci e i piedi.
Prima d’uscire, udì uno scalpiccio proveniente da questa
apertura e intravide la punta d’una scarpa di cuoio giallo, che si
dileguava sparendo dal riquadro.
Durante il tragitto di ritorno, le due donne non scambiaro-
no una parola sino a quando, dopo una curva, all’imbocco d’u-
na via in discesa, la ragazza chiese di fermarsi su uno zoccolo in

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muratura. Con la coda dell’occhio, colse un’immagine: il lembo
di una jellaba e la punta gialla d’una scarpa che si ritraevano die-
tro il gomito della strada.
«Qualcuno ci sta spiando», mormorò nell’orecchio della
drusa.
L’altra, con un’alzata di spalle, le disse di non preoccuparsi.
Era abituata a essere seguita anche solo per curiosità.

Quando giunsero a casa, Greta chiese a Gamila di poter andare


da sola nel giardino segreto. L’ispezionò con estrema cura. Le
aiuole non avevano certo un aspetto attraente, ricoperte com’e-
rano dalla barba delle infiorescenze, e, quando le portò al naso,
scoprì che alcune puzzavano anche. Nessuno, però, avrebbe po-
tuto negare che il luogo possedesse una propria esuberanza, of-
ferta dal vigore e dalla tenacia delle piante selvatiche, funghi,
campanule, viole tra cui crescevano formando una cascata rigo-
gliosa i vegetali allucinogeni.
Rivide il volto della berbera morente, l’espressione di lei
mentre scioglieva il dolore in un pacato oblio. Poi riguardò
l’intero vivaio, raccolto in cespugli dai tronchi grossi come un
avambraccio, alti e dal colore verde smeraldo del tetto della mo-
schea. Forse l’araba sul punto di finire aveva recitato la sua ulti-
ma preghiera tra gli anelli di fumo d’una cartina d’hascisc.
Greta si sedette su un rialzo in pietra, dove si appoggiavano
i vasi, e tenne il capo stretto tra le mani.
Da qui io non voglio più uscire perché ho perduto la faccia
davanti a tutti, realizzò.
Gamila è considerata una santa da Costantino; lo spagnolo
la stima; Nicolaes vede in lei chi lo aiuta a sostenere ansie ed ab-
bandoni; malati e morenti s’affidano, fiduciosi, alle sue mani; il
giardino proibito è nato da un sentimento di pietà e compassio-
ne per chi soffre mentre io… Io la chiamavo strega, fattucchie-
ra, maledetta imbrogliona e, quando ero in buona, sapientona
insopportabile.
Dopo essersi battuta il petto, non avendo la cenere da versa-
re sulla testa, promise di far uso d’un maggiore giudizio e d’una
saggia cautela nei confronti delle persone per non dover ripete-
re, in futuro, una vana sfilza di mea culpa.

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E la promessa riguardava anche la possibilità di ricredersi in
merito al comportamento di Sebastian.
Sfiorò il proprio ventre. Sentì, fortissimo, il desiderio di
stringere Abril tra le braccia e di trovare il modo appropriato
per farsi perdonare dalla stessa Gamila.
«Beh…, prima o poi mi verrà la frase giusta».
Intanto che richiudeva la porta segreta, si girò verso la
piantagione.
Un guizzo le fece dire sorridendo: «Però…, che il brabantino
si rechi ogni giorno al porto con una cesta di semi digestivi di
finocchio… questo poi non lo crederò mai!».
Una volta entrata nell’alloggio, guardò l’arredo che lì aveva
sistemato. Per la prima volta ebbe sensazione di trovarsi a casa
propria rallegrandosi di godere questo decoro in assoluta natu-
ralezza. Chissà se il suo destino avrebbe appoggiato l’ala su Tan-
geri… ma che suono aveva in arabo la parola destino? Doveva
chiedere a Gamila d’insegnarle l’esatta pronunzia.

130
Mercatanti di Genova

N el cuore della mattina del giorno successivo, nella casa


della drusa giunse la figlia della berbera che Gamila ave-
va aiutato a morire. Carica d’angoscia, riferì che il medico
cipriota era stato portato via, all’alba, da alcuni arabi giunti
in compagnia d’emissari spagnoli. Ignorava dove fosse stato
condotto.
La speziale, divenuta d’improvviso del colore della cera,
guardò Greta.
Chi le aveva spiate e seguite non scherzava, pensarono
entrambe.
«Se quel buon uomo verrà torturato allo scopo d’estorcere la
verità sulla recente morte avvenuta nell’ospedale», disse Gamila,
«non credo sia in grado di tacere il mio nome e l’esistenza della
piantagione proibita. Quindi m’aspetto di venire carcerata in-
sieme a voi, miei ospiti e complici».
Greta fissò Sebastian poi Nicolaes.
Gli occhi dell’olandese assomigliavano al fondo melmoso
della fontana del patio e il corpo, così ben fornito di muscoli,
pareva sul punto di annichilirsi senza alcuna reazione.
«Sarà gonfio d’hascisc», disse alla drusa, «e noi dobbiamo
proteggerlo come fosse un bambino. Non siamo ancora stati
scoperti. Animo, che ce la faremo! Piuttosto rimettiamo in
piedi questo fanciullo imbottendolo di latte per spurgarlo dai
veleni».
L’altra, accennando col capo, chiese: «E poi?».
«E poi… fuori le zappe e i rastrelli! Dobbiamo abbattere
le piante del giardino proibito prima che arrivi l’ispezione. Se
verrà trovato un terreno spianato, di cosa potranno accusarci?».
Si diressero verso la grotta che ospitava gli attrezzi e ciascuno
prese il suo.
Sotto l’azione del latte, Nicolaes cacciava fuori il tossico
mentre strappava erbe e radici che, aggrovigliandosi con dolcez-
za ai suoi piedi, languivano prima di finire tra gli scarti. Aveva,
però, gli occhi pieni di lagrime.
«L’hascisc possiede l’energia più forte quando è in fiore, e
Nicolaes non rivedrà più quegli apici fioriti», confidò Gamila
a Greta.
«E tu vedi di gettare anche i panetti d’erba che hai già pronti
nel laboratorio», intimò l’altra.
L’olandese non cessava d’avere sussulti e la ragazza, vicina a
lui, riconobbe quello stesso stato d’ansia che, sino a poco tem-
po prima, l’afferrava alla sola idea di restare priva dell’unica
tra le spezie, capace d’elargirle l’estro invincibile per spadro-
neggiare sui giorni: il pepe! Nell’officina della speziale, den-
tro il primo cassetto, sotto il piano di lavoro, se ne trovava in
quantità.
«Cosa poi rischio se ne mastico un grano per darmi forza?»,
si chiese col respiro affannato per la corsa e dopo avere aperto
quel tiretto.
Indugiò… tese la mano… la ritrasse. Non lo prese e tornò
tra gli zappatori.
La giornata era già molto calda e Greta, non abituata al sole
dei paesi del sud, continuava a smaniare al punto da doversi ar-
rotolare un lembo della tunica alla vita.
Oramai la piantagione era distrutta e la terra, come quando
si dissotterrano i morti, appariva nera con le buche cave sparse
qua e là.
L’atmosfera da cimitero invaderà le nostre menti, disse tra sé
la ragazza mentre si dirigeva verso la propria stanza. Dopo ave-
re frugato nella sacca, prese i tre bulbi di tulipani recuperati nel

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giardino della signora Maaike, e, tenendoli sollevati come un
trofeo, li presentò solennemente agli zappatori.
«Il terreno conserverà questi cipollotti grigi per regalare in
primavera tre steli alti, tra quattro foglie verdi, dritte e lisce
come punte di lancia e altrettanti fiori d’un magnifico colore».
Quasi d’improvviso avvertì d’essere stanca. Molto stanca. La
sua mente pareva dissolversi come le erbe che, ammucchiate in
un angolo del giardino, stavano per essere avvolte dalle lingue
di fiamma dei falò. La prima balla già bruciava, poi sarebbe toc-
cato alle altre due allo scopo di non lasciare tracce che potessero
far risalire all’identificazione delle piante d’hascisc.
«Devo mantenermi lucida», disse a voce alta muovendosi in
direzione del laboratorio della drusa, «non si possono in questa
circostanza commettere errori e voglio festeggiare la nascita del-
la mia piantagione di tulipani nella città di Tangeri».
E inghiottì il primo granello dopo avere fatto scendere l’in-
tera scorta, conservata nel tiretto, nel lembo arrotolato della
tunica.
Fatto ritorno nel giardino segreto, fermò i lavori nel preciso
istante in cui il terzo sacco correva il rischio di finire in cenere.
«Salviamo almeno una porzione di foglie d’hascisc che
tu, Gamila, potrai di nuovo utilizzare coi morenti», dichiarò
risoluta.
Dopo la parziale bruciatura dei vegetali, sul terreno rimase-
ro le braci. Nonostante venissero coperte con terra fresca, non
cessavano di sprigionare un denso fumo che stordiva. Per non
respirare l’aria corrotta, la ragazza si mise sul volto un fazzoletto
di lino di fiandra lasciando scoperti solo gli occhi. Sia lo spa-
gnolo che la drusa e l’olandese, invece, ne ispirarono a volontà.
Poi, conclusi i lavori, si distesero sui tappeti del patio, inerti con
sul volto un’espressione mescolata di malessere e gioia. Accanto,
giaceva la balla d’erba salvata dal fuoco.
L’hascisc, considerava Greta nell’osservarli, offre una minore
energia rispetto al pepe. Basta vedere come si sono ridotti quei
tre… io, invece, ho tanto di quel vigore che potrei sgobbare sino
a notte fonda.
Poi, salutati tutti con un cenno della mano, la ragazza andò
nel proprio appartamento. Accanto al letto, Abril, raccolta

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nell’amaca, dormiva con un sorrisetto felice a schiuderle le lab-
bra. Pareva un soffice gattino.
«Mio Dio s’è fumata l’erba pure la mia micietta!» esclamò ri-
pensando alla storia del gatto di Gamila e alla danza della gioia.

Nel nuovo giorno, quando il sole era già alto, si presentò a


casa di Gamila il medico. Con il consueto sorriso stampato sul
volto spiegò il motivo del suo arresto: gli arabi e gli emissa-
ri spagnoli gli avevano solo richiesto notizie a proposito d’un
ricoverato, da loro considerato una spia al soldo degli ingle-
si. Tutto qui. Poi l’avevano lasciato libero di fare ritorno in
ospedale.
«E noi che per timore abbiamo distrutto le piante d’ha-
scisc!», esclamò Gamila mentre Sebastian batteva i pugni sul
tavolo facendo traballare i vasetti e Nicolaes mostrava un volto
sempre più costernato al punto che preferì andarsene.
Per sciogliere la tensione creatasi, la drusa invitò Costantino
a visitare l’alloggio degli ospiti insieme alla giovane fiamminga,
che già conosceva. Lei aveva intenzione di restare nel laborato-
rio per fare ordine nella sua mente a seguito delle emozioni, che
l’avevano squassata.
Nella stanza dalle pareti rosa, il medico restò incantato alla
vista delle quattro tavole che raccontavano i lavori degli uomini
nel corso dei Mesi.
E, riconoscendo l’inconfondibile stile, in un sussurro pro-
nunziò: «Bruegel!», mentre non staccava gli occhi dal Ritorno
della mandria e dal bianco nevoso Paesaggio invernale.
Intanto Greta gli stava dicendo come sullo sfondo del pri-
mo dipinto, dedicato all’autunno, apparissero delle rocce aguz-
ze che non esistono nella terra delle Fiandre.
«Il pittore», rispose l’altro, «ha tratto ispirazione dai capola-
vori dei maestri italiani durante il viaggio in quel paese».
Lei rimase in silenzio.
«Questo è quanto si legge nei libri, mia signora. Io credo,
invece, che in ogni cuore d’artista si trovi un paesaggio, un giar-
dino, una pianta, anche solo la memoria d’un semplice fiore. E
voi quale tra queste presenze vi portate dentro?».
«Non sono un’artista, io».

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«Non eludete la domanda piuttosto riflettete e, quando sare-
te pronta, se mai lo vorrete, mi potrete dare la risposta».
La ragazza rigirava tra le mani il proprio ritratto perché l’al-
tro l’ammirasse, lasciandole il grande piacere che provava sem-
pre nel pronunziare per intero: «Pieter Paul Rubens».
Costantino non mosse muscolo e dichiarò di non conoscere
affatto quell’artista.
Rubens è ancora un pittore troppo giovane, ma presto il suo
nome sarà sulla bocca di tutti, disse col pensiero lei.
Grande meraviglia, invece, riscossero i due pezzi d’ambra.
Dopo averli soppesati, il medico, con uno sguardo carico d’in-
teresse, escalmò: «Davvero straordinario come la natura lavori la
resina di pino! E complimenti a una donna sorprendentemente
molto ricca vista la giovane età!».
«Gli eventi della vita hanno sorpreso pure me come credo
d’avervi già raccontato», replicò Greta.
«Ritengo che voi abbiate saputo coglierli con intelligenza e
carattere. Quindi vi chiedo se sareste disposta a prendere in con-
siderazione una trattativa circa la vendita dei pezzi d’ambra in
vostro possesso».
«Guardate che sono stati valutati una fortuna», rispose deci-
sa la fiamminga.
E lui, col viso sempre più vicino a quello della donna, riprese
a dire: «Devo dedurre che non avete intenzione di vendere… o
volete alzare la posta?».
Greta stava per obiettare qualcosa che non offendesse il me-
dico quando, a salvarla, entrò la balia con in braccio Abril.
«Signore», prese al balzo l’occasione, «ho destinato le due
gemme come dote nuziale di questa bambina… nel caso, da
grandicella, si ritrovi un naso troppo grosso o storto… con tale
garanzia un marito potrà sempre trovarlo!».
Lui annuì poi, rivolto alla piccola, disse: «Forse, però, a te
non spiacerebbe diventare la principessina dei coralli e magari
sposare un sovrano, no?», e guardò la mamma con l’aria di chi
non intende affatto scherzare.
«Avete detto… coralli, signore?», domandò incuriosita la
ragazza.
«Ne possiedo alcuni di valore comparabile a quello delle vo-

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stre ambre. Nel caso non accettiate la vendita, potreste forse
prendere in considerazione l’idea d’uno scambio: un pezzo del
vostro oro baltico per un ramo del mio oro rosso».
«Signore, prima di ogni decisione in merito, perché non ci
raccontiamo come siamo entrati in possesso dei nostri rispettivi
tesori per allontanare ogni illecito sospetto sulla loro provenien-
za? Inizio io, se siete d’accordo».
Le sue parole vibravano mentre descriveva, omettendo una
porzione di verità, il modo con cui aveva scoperto casualmen-
te le tavole fiamminghe in un cassone del seminterrato d’una
capanna. Poi la felice avventura nel corso del viaggio sul gale-
one svedese alla volta di Tangeri che le fece meritare, quale ri-
compensa, i due pezzi d’ambra. Infine si dispose ad ascoltare il
cipriota.
Costantino spiegò che, dopo aver sottratto alla morte un
giovane appartenente alla famiglia Lomellini, gli fu concesso
dagli imprenditori genovesi d’entrare nel commercio dei rami
di corallo mediante una compartecipazione agli utili della loro
società, con base nell’isola di Tabraca in Tunisia.
«Così ora possiedo una barchetta che pesca coralli per me. E,
dacché ho a mio servizio un uomo di fiducia per il controllo in
loco dell’attività, io me ne resto qui tranquillo… e nel frattem-
po la mia fortuna cresce».
Greta lo guardava ammirata.
«Allora, signora», riprese lui, «ritenete ora d’avere sufficien-
ti garanzie per acconsentire al baratto? Vi siete convinta che le
mie parole non escono da un otre pieno di vento, bensì da una
discreta profondità marina?».
«Nel mio paese, miijnheer, non si fanno scambi a occhi
chiusi!».
«La mia casa è sempre aperta per voi e Gamila. Vi attendo
per mostravi i miei preziosi. Al presente, Goede morgen».
«Grazie per l’ospitalità che non mancheremo d’accettare…
magari fra qualche tempo…», concluse il colloquio Greta.

Mentre erano soli, nel corso della cena, la ragazza riferì a Seba-
stian l’invito di Costantino mettendo sul piatto l’idea che anche
loro avrebbero potuto entrare nel commercio dei coralli visto

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che, al momento, erano disoccupati. Lo spagnolo non sembrò
prendere a cuore la faccenda: «Si tratta di roba grossa… e non
fa per noi. Il commercio dei coralli è nelle mani dei genovesi,
considerati i più abili mercanti-banchieri d’Europa».
E, su insistenza di Greta, precisava i costi per attrezzare una
barca speciale; i dettagli della tecnica piscatoria nel Mediterra-
neo; l’abilità dei corallari; il pregio dei monili intarsiati dagli
orafi del sud Italia; il commercio delle pietre con i paesi d’Eu-
ropa e l’India.
«Una catena che partendo dal prodotto grezzo arriva a quel-
lo lavorato, di cui noi mai riusciremo a diventare un anello»,
concluse.
Però… ne sa di cose il brabantino spagnolo! pensò lei.
«Costantino, però, ce l’ha fatta, pur avendo, credimi, mino-
ri conoscenze tecniche rispetto alle tue», replicò decisa prima
d’alzarsi da tavola ed entrare nella loro stanza da letto. Sdraiata
tra i cuscini rifletteva. Nel caso che questo nuovo commercio
andasse in porto, poteva restare a Tangeri, mettere al mondo un
figlio e crescere Abril. Insomma farsi una famiglia come tutti,
come tanti, come le brave persone di ’sto mondo. Non era for-
se questo il sogno d’ogni ragazza per bene? E l’idea di lei e del
brabantino diventati persone per bene si portò dietro una gran
bella risata da parte di Greta.

Quando i pescatori del porto fecero arrivare nella dimora di


Gamila, tramite i portatori, una grossa cesta di saraghi, sogliole,
triglie e ricciole ancora guizzanti, le femmine di casa decisero
che fosse giunta l’ora di far visita al medico portandogli un po’
di quel ben di dio.
L’alloggio del cipriota, all’interno dell’antica medersa, palesa-
va la vita d’un uomo parco e alieno dai lussi, se non per l’incre-
dibile numero di volumi che occupava ogni angolo della casa.
Ma gli piacerà il pesce? si chiese Greta nel preciso momento
in cui Costantino apparve trascinando su un carrello portafar-
maci un cassone in legno policromo. Prima d’aprirlo intratten-
ne a lungo le signore quasi volesse creare un’attesa ad hoc. Così,
al momento della rivelazione, entrambe erano già talmente fiac-
cate dalle chiacchiere inesauste di lui che s’accingevano a salu-

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tarlo, ringraziare per quel niente che il medico aveva loro offerto
e via dicendo. Delle due Greta, già in piedi, teneva un fazzoletto
di fiandra sul naso per non cascare al suolo, sopraffatta dall’odo-
re proveniente dalla cesta ricolma.
Invece, una volta aperti sia il cassone che le scatole lì conte-
nute, la ragazza fece un balzo.
Due superbi rami di corallo con tentacoli dal colore della
fiamma la inabissarono nei fondali tra una verzura ondeggiante
nel silenzio. Lei tese la mano per sfiorare quei fiori cresciuti nelle
acque salate e anche l’odore della triglia dall’occhiolino langui-
do divenne il profumo del mare.
Un ramo lo sentì come suo: occorreva sapere il modo in cui
sarebbe venuto in possesso dell’idolo rosso.
«Spero che la sua bellezza, mevroiuw, vi induca ad accon-
sentire al baratto con la vostra ambra», cominciò la trattativa
Costantino.
Lei stava per cedere quando le balenò un’idea e, di rimando,
disse: «Accetterò se voi terrete fede a un patto».
«Quale?», s’incuriosì l’altro.
«Sono interessata ad attrezzare a mie spese una barca per la
pesca dei coralli, simile alla vostra, e voi dovreste raccomandar-
mi ai vostri amici commercianti garantendo loro che sono una
donna ricca e affidabile».
«Signora, non credo proprio di potervi essere d’aiuto».
«Allora salta il nostro scambio! E io mi consolerò con i miei
due pezzi d’ambra».
Intervenne Gamila che, in forza della propria competenza
e autorità in materia, precisò quanto fosse deliziosa la sensazio-
ne di calore regalata alla pelle dall’ambra dopo un lieve strofi-
nio. Per questo motivo era prezioso e bramato quel piccolo sole,
giunto dalle foreste del nord, che racchiudeva un’ala d’insetto o
una formica.
Il medico volgeva lo sguardo ora sull’una ora sull’altra men-
tre la ragazza insisteva: «Signore, non vi pare dunque giusto al
fine di rendere conforme il baratto di dovermi concedere qual-
cosa in più traghettando i miei interessi in direzione dei vostri
contatti con i genovesi di Tabraca?».
Costantino chiese d’avere due o tre settimane prima d’arri-

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vare a una decisione, ma la fiamminga mise in campo la volu-
bilità delle donne ricche che, passando da un affare all’altro, si
trastullavano come se fossero capricci.
«Un giorno ci afferra la fantasia d’entrare in un commercio
ma il dì dopo… il frullo è bell’e passato a favore d’un altro»,
concluse.
«Allora vedrò di darvi una risposta in merito impiegando un
po’ d’ingenio per arrivare allo scopo».
«Siete già sulla buona strada, signore. Difatti, viene chiama-
to proprio ingenio l’attrezzo inventato dagli arabi per la pesca
dei coralli. Mi sono già documentata: si tratta di due travi di
legno legate in forma di croce di Sant’Andrea…».
Gamila, dopo avere notato l’espressione del cipriota, pensò
bene d’interrompere il discorso dell’altra facendo udire nuova-
mente la sua voce per inondare con sperticati elogi Greta, una
cittadina d’Anversa che dei mari conosceva ogni segreto.
«Anche quelli su come si cucina il pesce?», chiese l’altro per
pigliare respiro.
«Come no!», finse di risentirsi l’interessata, «la mia sogliola
al pepe ha fatto perdere la testa a più d’uno nelle Fiandre. Volete
forse ascoltare una dettagliata cronaca dei fatti?».
«No, no», tentava di salvarsi Costantino, «non stento a cre-
dervi sulla parola».

I racconti delle donne, riferiti all’incontro, divertirono tutti


compresa Hamda che se li fece tradurre in arabo.
Poi si passò ad esaminare cose più serie. Lo spagnolo, dopo
aver valutato con maggiore attenzione la possibilità di condurre
l’affare, mostrava ora d’essere molto, molto interessato. Nel por-
to, infatti, correva voce che i francesi intendessero accaparrarsi
la stazione corallina di Tabraca e i liguri, per mantenerla in loro
possesso, avevano in progetto di creare una cordata d’investitori
con lo scopo d’attrezzare un buon numero di barche da pesca.
Anche sul far della sera, attorno al tavolo della speziale, non
si cessò di discutere alla presenza di Gamila e di Nicolaes, che
fumava la cartina d’hascisc procuratagli dalla drusa.
A giudizio di Sebastian, la possibilità d’entrare in trattative
con i ricchissimi mercatanti genovesi era un’impresa da tentare,

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quasi fosse un’occasione irripetibile. E citava la Casa delle com-
pere e dei banchi di San Giorgio, il cuore dell’economia euro-
pea, nutrita da tante vene: monete d’oro, scudi d’argento, reali
spagnoli. I liguri accettavano ogni genere di depositi o giri di
partite e, in aggiunta, erano disponibili a imprestare a breve o a
lungo termine.
«Un prestito», intervenne Greta, «farebbe gola a una fiam-
minga di buona volontà come me».
«Tu puoi vendere i pezzi d’ambra, quindi non ti occorre al-
tro», rettificò lo spagnolo.
«Se vendi, la roba non è più tua: così, Sebastian, dicono nelle
Fiandre ma anche, credo, da altre parti. Vedi, il mio problema è
quello d’essere ricca di beni preziosi sulla carta senza avere mo-
nete d’oro in saccoccia!», diceva lei.
A questo punto Nicolaes, dopo avere acceso il doppiere, fece
sentire la sua voce: «I genovesi sono gli inventori degli affari su
carta: la cambiale-tratta è danaro sonante nelle fiere merci di
Lione e, nel periodo d’oro d’Anversa, si tenevano ben quattro
fiere nel corso dell’anno attorno al porto, in occasione delle fe-
ste religiose».
«Ma che accidente è una cambiale-tratta?», chiese Greta.
«Si tratta d’una promessa di pagamento creata allo scopo
di concedere prestiti a interesse, aggirando il divieto canonico
dell’usura», rispose mentre spegneva la cartina.
«Mi sento confusa anche se con la cambiale-tratta io ci dor-
mirei pure», e intanto rideva la ragazza.
Ma Sebastian, tutto infervorato, ribadiva come i nomi dei
genovesi Doria, Grimaldi, Lomellini fossero sulla bocca di tutti
coloro che operavano nei porti.
«Sono costoro, la nobiltà commerciale padrona di navi, ad
essere talmente facoltosi», aggiunse l’olandese, «da potersi per-
mettere ogni ben di dio per rendere sempre più ricche le loro
case con mobili, oggetti, sculture e pitture…».
«Anche beni provenienti dalle nostre terre, Nicolaes?».
«Soprattutto! Eh… i genovesi vanno pazzi per la pittura
fiamminga che pagano in chili d’oro».
Gli occhi della ragazza s’illuminarono al punto da contrasta-
re lo sfavillio delle candele.

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Lo spagnolo, accortosi del mutamento, sorrise: «Ora dob-
biamo occuparci del commercio dei coralli, non di quello delle
opere d’arte».
Lei accennò col capo e il pensiero andò a Rubens. Chissà se
le tele del pittore sarebbero mai arrivate nei palazzi dei merca-
tanti di Genova?

Non passò un lungo lasso di tempo che il medico cipriota si


fece vivo.
Dopo essersi messo in contatto con il rappresentante dei
Lomellini, controllore della filiale di Tabraca, poté tranquilla-
mente garantire la disponibilità del medesimo a incontrare l’in-
teressata o chi, eventualmente, la rappresentasse, allo scopo di
prendere in esame la trattativa d’entrare nel commercio dei rami
di corallo.
«E io sono in grado di discutere con i genovesi nella loro lin-
gua», dichiarò Costantino durante la cena offerta da Gamila per
celebrare la buona nuova.
«Arriveremo noi prima dei loro nemici francesi», proclamò
Sebastian.
Di contro, l’invito da parte dello spagnolo a Nicolaes perché
l’accompagnasse nell’isola cadde nel vuoto e la festa si chiuse sul
volto scuro dell’olandese.
«Nonostante tu, a mia insaputa, gli abbia proposto di par-
tecipare all’affare», diceva Greta a Sebastian mentre s’aggiustava
i capelli davanti allo specchio della loro stanza, «il tuo socio fa
orecchie da mercante. Sei d’accordo che il suo modo di fare è
una vera e propria mola ai nostri piedi?».
L’altro, dopo averla fissata con severità, rispose di non ricor-
dare una sola volta in cui lei avesse sollevato un pannicello da
terra, o in qualche altro modo offerto un aiuto in casa a Gamila,
ospite generosa e incapace di tenere i conti della serva.
«E circa la mola, ragazza, ora ti mostro a cosa realmente
serve».
Dopo aver estratto un foglio da un fascicolo con sopra scrit-
to Tabraca, fece uno schizzo a matita d’un corallo grezzo infilato
in un filo di ferro che veniva sgrassato, con estrema delicatezza,
su una mola di pietra arenaria.

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Frena l’impulsività dei tuoi giudizi, disse a se stessa Greta.
Qualcosa di buono sarebbe uscito anche dall’olandese, a patto
d’usare con lui la mano leggera.

Intanto che Sebastian approntava con puntiglioso metodo il


suo viaggio alla volta delle coste tunisine, giunse la nuova che, a
soli nove mesi di distanza dalla precedente, era partita la secon-
da spedizione olandese per l’isola delle spezie.
Di certo le navi non avrebbero fatto scalo a Tangeri per non
finire in bocca dei nemici spagnoli e portoghesi, che già aveva-
no chiuso ai rifornimenti di viveri e acqua i porti di Cadice e
Lisbona.
Tuttavia Greta, oltremodo eccitata, non vedeva l’ora d’ave-
re da qualche marinaio straniero di passaggio notizie della sua
terra. Con in tasca un buon numero di granelli di pepe, insie-
me allo spagnolo, si dispose lungo la banchina quando… tra gli
ultimi che scendevano da una nave inglese vide un volto che le
sembrò conosciuto. Strinse le palpebre e non ebbe più dubbi.
Era lui: il servo pelandrone del palazzotto del collezionista!
«O Greta», gridò il ragazzo, «cosa ci fai qui vestita come
un’araba?».
«Lascia perdere… piuttosto dimmi di te».
Non avendo trovato lavoro in Anversa, spiegò il ragazzo, s’e-
ra messo a gironzolare per il porto chiedendo a destra e a man-
ca d’imbarcarsi per cercar fortuna. Un vecchio marinaio, dopo
avergli offerto dei boccali di birra, fece intendere che stavano
cercando degli uomini con buoni muscoli per dar la caccia ai pi-
rati del Mediterraneo. Così, senza quasi accorgersene, si trovò a
passare la visita medica prevista prima dell’arruolamento: «Sono
sano e per questo m’hanno preso, anche se non so nuotare», rac-
contava tutto orgoglioso.
E precisava l’ammontare del salario mensile che gli sarebbe
stato corrisposto, nonché le mansioni da svolgere.
Sebastian per finirla con queste chiacchiere diede di gomito
a Greta e lei chiese a Jan se avesse notizie della signora Maaike.
«È andata in consunzione», rispose il ragazzo.
«Chi te l’ha detto?».
«Le vecchie della casa di fronte… ti ricordi come le chiama-

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vi? Le cornacchie! Hanno comprato all’asta il palazzotto con
dentro i mobili e i quadri e poi anche le capanne dei vecchi
pescatori».
«Maledette! Si sono fiondate come corvacci!», esclamò lei.
«E mi hanno riferito che la padrona, dopo avere piantato lì
di mangiare e bere per giorni e giorni, è poi morta. E, adesso,
tutto è nelle mani dell’avvocato di famiglia».
Greta fu sul punto di cadere a terra, oppressa dal più pro-
fondo dei dolori e da un inesorabile quanto invincibile senso di
colpa. Una fossa si stava aprendo dentro il suo corpo, dove pre-
cipitarono la moglie del collezionista, le case svendute, Catha-
rina affidata ai nonni. E l’avido legale di famiglia, quello con i
figli da mantenere all’università di Leida, sarebbe stato il tutore
del patrimonio della ragazza sino al raggiungimento della di lei
maggiore età!
«In quali mani», esclamò, «è finito il denaro della svendi-
ta del palazzotto e delle altre proprietà! La legittima erede non
vedrà un fiorino; adesso è un’orfana pure lei. Se penso che sua
madre teneva tanto che facesse un buon matrimonio!».
Poi chiese al pelandrone della cuciniera Tia. Seppe che era
passata a fare i brodini alle cornacchie.
«Irriconoscente e venduta per quattro briciole», la bollò
Greta.
E, senza dire nulla di sé, dopo avere augurato buona fortuna
al mozzo, se ne andò.
Sebastian subito disse: «Poveraccio, non s’è accorto che,
dopo averlo fatto ubriacare, quel vecchio lupo di mare l’ha ba-
rattato come un galeotto. Che inferno vedrà, legato al banco dei
remi d’una nave da corsa!».
La ragazza pianse sino a casa, mentre sentiva dentro di sé una
pietra aguzza che, passo dopo passo, s’insinuava sempre più pro-
fondamente tra le viscere, scavandole con indicibile tormento.

Nella propria stanza non riuscì a guardare Abril poi, quasi affer-
rata da un impulso irrefrenabile, disse a Sebastian di voler par-
lare con Nicolaes.
Lui, non comprendendo la richiesta, tentava di placarla:
«Non sarebbe più opportuno chiamare in tuo aiuto Gamila?».

143
«No, no», s’agitava lei.
Lo spagnolo, nel timore che uscisse di testa più di quanto già
manifestava, pur a malincuore, volle accontentarla.
Non appena lui uscì alla stanza, Greta realizzò il motivo per
cui solo all’olandese avrebbe potuto confessare l’intera verità.
Nicolaes aveva una coscienza che, ogni notte, gli ricordava tra
gli anelli di fumo d’hascisc d’aver ucciso e derubato un inno-
cente mentre il giovane gli sorrideva con occhi miti. Il rimorso
rendeva entrambi fratello e sorella.
Seduto ai piedi del letto, l’amico ascoltò la donna senza mai
interrompere una parola del concitato racconto. Strinse gli oc-
chi quando seppe che la cucitrice di casa per nascondere il fur-
to dei granelli di pepe aveva sconvolto e portato a rovina la più
buona e generosa tra le famiglie d’Anversa.
A conclusione, le disse: «Ti resta un’unica possibilità. Devi
restituire le tavole alla figlia del collezionista perché lei possa
aspirare a un futuro migliore».
«Ma, Nicolaes, io oramai vivo qui e sono incinta. Come
potrei?».
«Sei giovane e in buona salute, quindi imbarcati per Anver-
sa, trova il modo di consegnare personalmente o far pervenire i
dipinti ai nonni della ragazza. E, al ritorno, la più affascinante
signora dei coralli del Mediterraneo, finalmente in pace con se
stessa, metterà al mondo un figlio».
Greta lo guardò come un cattolico mira l’ostia prima d’in-
ghiottire il corpo del Salvatore; emise un profondo respiro; poi
strinse gli occhi, attraversata da un improvviso pensiero.
«E se consegnassi una sola tavola? Non è mica la quantità ad
avere valore ma lo spirito del gesto… vero Nicolaes?».
«Sei candida, oltraggiosa e irresistibile. Decidi tu oppure
chiedi consiglio a Sebastian».
«No a lui no», disse quasi bisbigliando, «taglia le cose con
l’accetta, il brabantino, invece tu…».
E avrebbe voluto alzarsi per abbracciarlo ma, nel frattempo,
il marinaio era già uscito dalla stanza.

144
Il dente d’avorio

I niziarono i preparativi per i viaggi via mare di Sebastian e di


Greta, dopo che lei impose con forza la propria volontà di
fare ritorno ad Anversa. Lo spagnolo, che non condivideva la
decisione della donna di partire da sola, tenne il muso per qual-
che giorno.
Al contrario, Gamila non solo apprezzò la scelta ma la be-
nedisse pure. La speziale fu altresì sollecita nell’offrire la mone-
ta corrente perché la ragazza, il cui ventre era già prominente,
potesse godere di qualche comodo nel corso d’una navigazione
destinata a protrarsi almeno per quattro settimane.
«Sulla nave», consigliava la drusa, «non devi mostrare d’es-
sere fornita di mercanzie tali da dare nell’occhio e provocare,
quindi, i ladri a fare il loro mestiere».
«Anche se», aggiunse Nicolaes, «trattandosi di un’imbarca-
zione commerciale spagnola con un equipaggio di varia nazio-
nalità, qualche robetta da dare in cambio io la porterei… a bor-
do queste valgono più delle monete».
Sebastian, da parte sua, fu più drastico nel pretendere che la
balia accompagnasse Greta: si sarebbero imbarcati così in quat-
tro, poppanti compresi.
Mostrando allo spagnolo gli abiti da viaggio cuciti con
le proprie mani, Greta disse che sarebbe sbarcata nel porto
d’Anversa come una vera signora con servente marocchina al
fianco.
«Se mai mi capiterà d’incontrare qualche vecchia conoscen-
za, voglio fargli intendere di stare molto, molto bene. E poi in
città più d’una visita occuperà il mio tempo», e, tanto per van-
tarsi, segnalò due persone che, di necessità, era tenuta a rivedere.
«E la terza?», chiese con spavalderia lui, sicuro di colpire nel
segno.
«E come sai che ce ne sarà un’altra?».
«Costantino durante un nostro colloquio mi fece un nome…
mi pare… Carolos Closius…».
«Carolus Clusius!», corresse la ragazza, «è stato appena no-
minato docente di botanica all’Università di Leida».
Quindi riferì che il medico cipriota le stava preparando
una lettera di presentazione da consegnare personalmente nelle
mani dell’illustre studioso, suo grande amico. Fortuna voleva
che costui, sino alla fine del mese di dicembre, fosse ad Anver-
sa allo scopo d’ultimare l’allestimento del giardino privato de-
gli eredi dell’editore Christoffer Plantijn. E lei sarebbe andata
a scuola da Clusius, a costo di zappare le aiuole pur di vederlo
lavorare e apprendere da lui ogni segreto del mondo vegetale.
«Questo, Sebastian, sarà il mio futuro commercio a Tangeri:
piantare e vendere fiori», diceva tutta infervorata, «mentre tu
controllerai quello dei coralli. Diventeremo delle brave persone
e degli onesti genitori di due bambini. Dimmi che l’idea ti va
a genio».
E, guardandolo intensamente, concluse con enfasi: «Insieme
saremo ricchi nel nome della bellezza che cresce sia sulla terra
che nel profondo del mare».
«Quindi Costantino è diventato il tuo ultimo ammiratore»,
cambiò discorso l’altro.
«Un mio estimatore, non ammiratore», rispose Greta. «A
proposito, verrà a breve da noi per prendere gli ultimi accordi
per il vostro viaggio all’isola di Tabraca».
Mancavano pochi giorni alla partenza per Anversa quando
la ragazza, recatasi all’ospedale per ritirare la lettera promessa
per Carolus Clusius, non trovò Costantino. Decise allora di fare
ritorno a casa. Lungo la via in discesa, che dall’abitazione di

146
Gamila conduceva alla medina, vide scendere la balia con sulle
spalle Radouane e tra le braccia April. Si fermò per attenderli.
Osservata dal fondo della strada, l’andatura di Hamda, lenta,
studiata, elegante pareva quella d’una regina dal volto parzial-
mente coperto che si reca ad assistere a una cerimonia in suo
onore.
Intanto l’araba l’aveva raggiunta e la fiamminga s’accorse che
portava sul capo una serie di drappi colorati, ripiegati uno so-
pra l’altro quasi fossero cuscini. Quella regalità era tutta una
questione d’equilibrio per non fare cadere la torretta variopinta.
La donna disse d’aver ricevuto dalla padrona l’ordine di por-
tare a spasso i bambini. A Greta la cosa suonò un po’ insolita e,
una volta entrata in casa, non mancò di notare che la porta del
laboratorio era chiusa.
Strano, pensò, Gamila la tiene sempre spalancata per disper-
dere gli effluvi delle bolliture… forse sta trattando con un com-
merciante e non intende essere disturbata.
Ma, curiosa com’era, si mise a girellare nel patio in attesa di
vedere uscire il visitatore.
Lungo il bordo della fontana, vide le pianelle della speziale e,
a pochi passi di distanza, giaceva al suolo il candido velo.
Stava per andarsene… quando si rese conto che dagli stipiti
della porta socchiusa dell’hamman filtrava un tremolio di luce.
S’avvicinò. Mise l’occhio sul battente e… le apparve il corpo
nudo di Gamila, disteso di sbieco sul bordo della vasca. Sem-
brava guardare qualcosa che Greta dalla stretta feritoia non riu-
sciva a scorgere. Provò a dilatare l’apertura dell’uscio, spingendo
la porta con estrema delicatezza per evitare il cigolio del legno e
vide Nicolaes e Sebastian, senza vesti.
Lo spagnolo stava riempiendo col suo sesso la bocca del-
la donna mentre il marinaio s’accingeva a penetrarla da dietro.
Lei, per eccitare i due maschi, muoveva il corpo, inondato dai
lunghi capelli grigio-bianchi, con abbagliante audacia, solleci-
tando i favori e dell’uno e dell’altro.
La fiamma delle numerose candele sparse sul pavimento cre-
avano all’intorno un complice paesaggio notturno che spinse la
ragazza alla vendetta.
Nel casotto degli attrezzi prese una grossa balla di paglia fre-

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sca; la portò sino all’hammam; spalancò l’uscio; scaraventò le
stoppie sulle candele; il fuoco prese vigore. Lei, velocemente,
si ritrasse.
Dall’interno giunsero il grido della donna, le voci dei due
maschi, il rumore dell’acqua versata dalle taniche per spegnere
l’inizio d’incendio.
I tre, sguaiatamente nudi, uscirono alla svelta. La luce natu-
rale non fu clemente sul corpo sfatto della drusa, sul volto ter-
reo dello spagnolo, sul tremito convulso del busto dell’olandese.
Intanto il fumo, che usciva dalla porta, come incenso sem-
brava glorificare il gesto piromane.
Greta fece ritorno nell’appartamento degli ospiti con il cuo-
re che batteva all’impazzata. Dopo un breve lasso di tempo nella
stanza entrò Sebastian che si mise in ginocchio ai piedi della don-
na. Il silenzio tra loro era spesso e lei come una sposa davanti al
cadavere del suo uomo, che presto sarebbe stato chiuso nella bara,
avvertì una paura fortissima e un tremito correre lungo il corpo.
Agitava le mani vuote, quasi volesse farsi consolare dall’aria, con il
volto bagnato di lacrime: stava rivolgendo l’ultimo sguardo, quel-
lo del congedo per sempre, allo spagnolo già morto nel suo cuore.
Poi scoppiò in singhiozzi altissimi e in grida dentro la solitudi-
ne d’una camera dove, nell’indifferenza del crepuscolo, tutto era
contagiato dall’inganno e dalla falsità tranne quel pianto.

All’alba del giorno dopo si mosse da casa per raggiungere l’o-


spedale, ritirare la lettera da recapitare ad Anversa e parlare con
Costantino. Portava con sé la sacca di stoffa con dentro tre cilin-
dri di cartone per custodire le tavole fiamminghe e i due pezzi
d’ambra, racchiusi nelle rispettive scatole. Nella tasca della tu-
nica, una manciata di granelli di pepe.
Tangeri le apparve allegra nell’ora mattutina. I raggi del sole
nascente scacciavano le ombre della notte, danzavano sulle fine-
stre, sfavillavano negli sguardi dei rari passanti, ancora immersi
nei loro sogni. Qualche gatto era indeciso se partire all’avventu-
ra fuori di casa o restare lì, sull’uscio, al calduccio. Anche le gab-
biette degli uccellini, portate dalle donne all’aperto, colmavano
l’aria con il loro cinguettio.
L’atmosfera la distrasse e, senza quasi rendersene conto,

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d’improvviso si trovò in un quartiere che pareva disabitato. Le
case erano così sbilenche che la prima folata rabbiosa di vento le
avrebbe fatte volteggiare come stracci.
«La povertà ti sta sempre davanti anche quando credi d’aver-
la buttata alle spalle», disse a voce alta inghiottendo un grano
di pepe.
Dopo un breve tratto, imboccò una via laterale immersa in
una quiete morta e solenne. La città stava per svanire dando
inizio a un’estensione priva d’un ciuffo d’erba, disseminata di
tende racchiuse in un avvallamento del terreno pieno di fosse
fangose e così larghe da ospitare un cadavere.
Nella sabbia erano distesi bimbi pallidi, simili a morticini,
sotto gli occhi di madri e padri disfatti nelle vesti e negli sguar-
di, quasi assistessero al funerale dei figli. Mentre scendeva in
questo accampamento, uomini e donne di razza berbera non
distoglievano gli occhi dalla sua sacca.
«Con una borsa così gonfia, eccito i desideri di questi di-
sperati. E, se mi prendessi una coltellata… come quella che
Hamda…».
La balia, realizzò d’improvviso Greta, non venne morsicata
da un pesce misterioso… che storia è mai quella… l’araba, qui,
era stata aggredita e violentata… in qualche modo giunse o fu
portata nell’ospedale non lontano… quella buon’anima di Ga-
mila, dopo averle insufflato le goccioline del miracolo, l’ha con-
dotta nel sancta sanctorum dei derelitti… e Radouane è il frutto
della violenza consumata sul corpo di lei.
Dominata dall’allucinazione, avrebbe voluto gridare: «Aiu-
tatemi!», come gridò Hamda o, forse, sentire solo la propria
voce per capire se era ancora viva. Nessun suono, però, usciva
dalla gola stretta nella morsa del terrore. Meccanicamente con-
tinuò a camminare, senza riuscire a vedere più nulla, passo dopo
passo, poi una folata d’odori… di legno vecchio e marcio, di
carcasse di cambusa, di timoni arrugginiti, delle aste di fiocco e
dei pezzi di cime, fradice di salsedine.
Agganciata malamente alle sbarre d’un cancello sgangherato
d’una capanna, una polena stendeva su un orto un’ala dipinta
d’un verde maculato e scolorito, simile a torsoli di cavoli rico-
perti lungo le coste di funghi e chiocciole.

149
La visione riportò Greta alla realtà: «Sorella», disse ponendo-
si davanti al rottame, «dopo avere solcato il mare, baldanzose,
eccoci entrambe giunte nel vallone delle cose umiliate: tu senza
un’ala e io col cuore spezzato».
Una berbera, che doveva aver udito il mormorio, si mise
sull’uscio e la ragazza salutò con un cenno della mano. In cam-
bio, ricevette una gran brutta occhiata.
Stava smarrendo la strada che doveva condurla alla meta e
si mosse spinta dal caso come cercasse… Già, cosa cercava? Si
rispose che voleva solo arrivare all’ospedale. Del tutto inaspet-
tatamente, a una svolta, fu colpita da un paesaggio arioso, pun-
teggiato di case con giardini dalle larghe aiuole, intersecate da
stretti sentieri. E, dopo una curva a gomito, ecco la meta!
Costantino, che aveva appena terminato il giro di visita nel-
lo stanzone dei ricoveri, fu pronto a consegnarle la lettera di
presentazione per Carolus Clusius.
Lei, dopo avere estratto dalla scatola uno dei due pezzi d’am-
bra, lo posò sul tavolo: «Ora vi appartiene», disse.
Poi collocato nell’involucro il ramo di corallo, che il cipriota
secondo il loro patto le aveva appena consegnato, chiese al me-
dico il favore d’accompagnarla presso un notaio di fiducia. In-
tendeva, infatti, mettere nero su bianco le disposizioni relative
ai propri beni.
Costantino spinse in avanti il mento con l’aria di chi formu-
la una tacita domanda ma la risposta dell’altra apparve talmente
vaga da consentirgli, pur con infinito garbo, d’insistere.
Greta, allora, provò ad inventarsi qualcosa di più plausibile
come i rischi del viaggio e la personale inclinazione nei confron-
ti del… chissà mai cosa può capitare.
«Anche al cospetto dei pirati del Mediterraneo», replicò l’al-
tro, «una fiamminga di razza, quale voi siete, non si perderebbe
d’animo. Ma la cosa non succederà perché nella vostra persona
portate il segno, che è dei fortunati e dei vincenti».
La ragazza scosse la testa e disse solo: «Considero le vostre
parole un buon augurio».

L’abitazione del notaio nella strada del grande souk si trovava


porta a porta con una bottega d’anticaglie, fornita d’una vetrina

150
che, per gelosia o diffidenza nei confronti dei passanti, mante-
neva segreti i suoi impolverati tesori.
«Curiosare in quest’emporio», disse il cipriota, «da anni mi
tiene compagnia. Volete dare un’occhiata?».
E Greta, timidamente, mise i piedi su pietre logore e lustre
per il logorio dei tanti passi che il proprietario e i clienti nel corso
di lunghi anni vi avevano impresso. Un odore d’animali avvolge-
va il tutto. Proveniva da una collezione di pelli seccate di saluki,
i velocissimi levrieri del deserto usati per le più sontuose cacce,
su cui s’adagiavano varie raccolte di statuette con le sembianze di
demoni. C’erano i rapitori di donne, gli aratori delle campagne
e, nell’ultima fila, mostri favolosi come il ghoul, temibile tessitore
d’agguati per i viaggiatori incauti di cui divorava la carne.
In un angolo, dentro una ciotola, vide alcuni denti sagomati
con l’avorio delle zanne d’elefante.
Ne afferrò uno. Che fortuna avere in bocca un canino così
robusto, e intanto pensava al suo che sembrava un confetto bal-
lerino e faceva pure male. E se avesse chiesto consiglio a un bra-
vo medico come Costantino? Non era però, questa, la giusta
circostanza e neppure il tormento alle gengive risultava essere il
maggior assillo, se confrontato con la decisione che s’accingeva
a prendere.
Il cipriota, con la mano sulla maniglia della porta del nego-
zio, con estrema discrezione faceva intendere d’aspettarla. Lei
gli sorrise, comprò il dente d’avorio, finse di voler acquistare
qualcosa d’altro poi decise per una grossa sacca in cuoio utile a
chi viaggia.
Intanto che uscivano, la mano di Greta sfiorò casualmente
quella di Costantino e lui la ritrasse arrossendo come un giovin-
cello di primo pelo.
Pare che l’universo dei maschi non faccia per me, disse col
pensiero la fiamminga, se incontro solo dei delinquenti o dei
timidi come….
«Mammolette», pronunziò forte.
Il medico non comprese subito. Ma, ricordando d’averla in-
vitata a riflettere durante il precedente incontro su quale paesag-
gio o giardino oppure fiore portasse nel cuore, considerò d’avere
ricevuto una tardiva nonché adeguata risposta.

151
Una volta fuori dall’emporio, vennero cortesemente intro-
dotti da un servente nello studio del notaio arredato con mobili
dello stesso colore del sangue-nero che lustra i pavimenti dei
mattatoi.
Il legale sorrise all’amico e alla giovane donna mentre, con un
gesto cortese e deciso, si toglieva dal capo il fez facendo aggra-
ziatamente volteggiare il cordino nero sul rosso del copricapo.
Greta appoggiò sulla scrivania i cilindri che custodivano le
tre tavole dipinte ed estrasse dalla scatola l’unico taglio d’ambra,
rimasto in suo possesso, lasciandovi il ramo di corallo appena
ricevuto da Costantino.
Lo scriba, sotto dettatura del notaio, redasse la carta del-
le donazioni secondo le volontà e le precise segnalazioni della
cliente, puntualmente tradotte dal medico cipriota che accom-
pagnava ogni frase con un vistoso soprassalto della sua persona.
In attesa che venisse consegnata alla signora una copia dell’at-
to conforme all’originale, debitamente firmato da Greta, i beni
della fiamminga vennero rinchiusi nel forziere dello studio. Nel
frattempo i due uomini continuavano a conversare in arabo e
Greta scoprì, con triste soddisfazione, d’essere oramai in grado
di capire il senso di qualche frase.
Sulla via del ritorno, Costantino, leggendo a voce alta il do-
cumento, si fermava ad ogni paragrafo per guardare la ragazza
negli occhi.
A conclusione disse: «Vi sono grato per la fiducia nutrita nei
miei confronti ma, parimente, mi sento confuso e intendo chie-
dervi per quale ragione…».
Finse di voler prendere fiato allo scopo di concedere a lei di
proseguire.
«Volete conoscere il motivo per cui ho designato voi quale
unico e legittimo erede delle mie fortune conservate nello scri-
gno notarile?».
«Ebbene sì, signora, questo ragionevolmente vi domando».
«Allora sappiate che nella casa di quella santa donna di Ga-
mila, come voi la giudicate, vive un terzetto di viziosi che hanno
tradito la mia fiducia e Sebastian m’ha pure spezzato il cuore».
«L’essere umano tende a riprodurre schemi costanti», e con
l’indice il medico disegnava nel vuoto la figura del triangolo.

152
Lei non comprese, respirò profondamente e disse: «E voi, in
rispetto alle mie volontà, dovete convincere i genovesi a consi-
derare lo spagnolo alla stregua d’un salariato a loro servizio e
non in veste di compartecipe nell’affare dei coralli, che resta sti-
pulato tra me e i Lomellini e di cui i miei beni a deposito sono
garanzia».
L’altro assentì e Greta gli consegnò una lettera, scritta di
suo pugno, a conferma del proprio ruolo in vista della futura
società.
«Io», proseguì con tono fermo, «ho deciso di partire e non so
ancora per quanto tempo starò lontana».
«Signora, mica farete lo scherzo di mettere al mondo un fi-
glio senza che il vostro amico medico sia la prima persona a ve-
derlo uscire dal ventre!».
Erano giunti di fronte all’entrata dell’ospedale e la donna gli
sorrise con una vena di tristezza mentre lo salutava. S’impose di
non voltarsi pur sentendo come lo sguardo di Costantino non
si staccasse dalla sua figura che s’allontanava.
A passo sicuro si diresse verso la bottega dell’orafo, dove era
entrata in compagnia della drusa. Senza badare ai preamboli,
pose sul bancone il ramo di corallo e, a gesti, fece intendere
d’essere intenzionata a venderlo.
Il mercante la riconobbe e, come la prima volta, strabuzzò
gli occhi. Poi su un foglietto scrisse la sua offerta aspettandosi
d’entrare in trattativa con la cliente.
Ma la forestiera accettò d’impronta e con un bel sacchetto di
dirham prese la porta privando l’altro del suo piacere perché per
l’arabo alzare e abbassare il prezzo è come giocare.
Nel giorno della partenza, Gamila salutò Greta con la mano
all’altezza del cuore. Lei non mosse un muscolo del viso mentre
restituiva le monete, che l’araba le aveva prestato, facendole ca-
dere sul tavolo. La faccia dell’altra scolorì come i panni sporchi
quando vengono immersi nel vetriolo.
Poi guardò Nicolaes appoggiato alla parete, che tentava e ri-
tentava di fare un passo verso di lei sino a quando l’espressione
sprezzante della ragazza lo convinse a rimanere distante, al suo
posto.
Insieme a Sebastian, carico della nuova sacca di cuoio e della

153
borsa in stoffa, che conteneva il cilindro con dentro una tavola
di Bruegel, scese al porto, seguita dalla balia e dai due bambi-
ni. Durante il cammino lo spagnolo provò ad aprire bocca ma,
ogni volta, fu invitato con estrema cortesia a tacere.
Solo prima d’imbarcarsi lei concesse al portabagagli un geli-
do addio. E per sempre!

I passeggeri paganti si raccolsero sul ponte mentre il comandan-


te blaterava le consuete regole di bordo, da Greta già udite nel
corso del viaggio d’andata. Questo sarebbe stato senza ritorno.
Infilò una mano nella tasca dell’abito per assicurarsi della pre-
senza del sacchetto gonfio di granelli di pepe. Accanto, un’ara-
ba con una ricca veste e accompagnata da una servente sorrise
scoprendo in primo piano due incisivi incapsulati d’oro che la
facevano assomigliare a un’antica divinità.
Sistemati i bagagli nell’alloggio a loro riservato, Greta fece
un cenno a Hamda e uscì. Intanto che la nave s’avviava, si mos-
se in direzione della prua, dove una linea bianca indicava ai
passeggeri e ai marinai il divieto di superarla senza un esplicito
permesso da parte del capitano.
Folate di vento, raccolte nell’insenatura del porto, colpivano
il viso d’una donna umiliata che si lasciava alle spalle Tangeri,
una casa, l’uomo che ancora amava ma non riusciva a perdo-
nare, un olandese considerato amico e un’araba caritatevole ma
dal corpo osceno. Una sorta di strana famiglia. Adesso, lei era
sola. Se avesse superato la linea dopo pochi passi avrebbe tocca-
to l’estrema punta dell’imbarcazione. Scivolava verso il pericolo
attratta, come chiamata da quel vuoto, dove ancora un piccolo
passo poi un salto e tutto sarebbe finito. Alle sue spalle, udì un
vociare confuso. Lentamente si girò: lungo il ponte alcuni pas-
seggeri, tra cui Hamda con i bambini al collo, a gesti le faceva-
no cenno di arretrare. Sopraggiunsero alcuni marinai e, subito
dopo, anche il comandante che con un lungo tubo in cartone
sulla bocca faceva risuonare il nome Greta. E lei, docilmente,
uscì dalla linea bianca pensando al modo di farsi perdonare da
tutti.

154
La vanità della polena

E rano passate circa quattro settimane quando la nave, pro-


veniente da Tangeri, giunse nel porto d’Anversa. E fu uno
sbarco spettacolare quello delle due donne: Hamda sembrava
una sorta di tenda coperta di lane a ricordo di quelle dei bedu-
ini. Pur così intabarrata e con la sciarpa di seta a coprire metà
volto, batteva i denti per il freddo pungente con Abril e Radou-
ane, ugualmente infagottati tra le sue braccia. Greta, invece, te-
neva in seno, tra l’abito e la mantella, Harriet: la bimba nata,
quindici giorni prima, che portava, in segno di riconoscenza, lo
stesso nome della figlia del medico di bordo. Fu lui, infatti, chi
compì la difficile impresa di mantenere in vita una prematura,
venuta alla luce in circostanze d’estrema difficoltà.
In una locanda, non distante dal porto e di buona reputa-
zione, che accettava monete del Marocco, le donne e i bambini
trovarono due stanze comunicanti e la possibilità di consumarvi
i pasti. Nell’alloggio di Greta, a causa del gelo, non veniva mai
aperta la finestra, cosicché l’aria fece presto a impregnarsi di
odori. I bagagli esalavano la rancida umidità raccolta durante
la traversata; sui piatti i resti del cibo alimentavano i conati di
vomito; e l’odore dolciastro delle poppate parevano rallegrare
solo la neonata.
Dopo una serie di giorni trascorsi tra quattro pareti, Greta
ebbe nostalgia d’udire i suoni della sua lingua visto che Hamda
riusciva solo a pronunziare un’unica parola, mama, e quei mu-
soni della locanda, a malapena dicevano Goede morgen.
Il silenzio correva tra le due donne come un filo su cui s’ap-
poggiavano solo i loro gesti quando intendevano comunicarsi le
primarie necessità.
Le avrebbe giovato respirare l’aria della sua Anversa e
compiere l’atto dovuto nei confronti della figlia del povero
collezionista.
Dalla sacca estrasse il cilindro con dentro la tavola di Brue-
gel, il quadernetto della defunta signora Maaike e con un pugno
di dirham in saccoccia prese la porta.
Da circa un anno non vedeva la città. In un angolo di strada
comprò la Gazzetta e, anche senza leggere le notizie, dall’imma-
gine posta sulla prima pagina capì lo stato delle cose: la figu-
ra d’una donna stava versando il corno della prosperità mentre
un uccellaccio era appollaiato sulla sua testa. Dietro, compariva
Anversa e, a margine, poche righe raccontavano come il com-
mercio fosse crollato da quando le grandi navi non arrivavano
più nel porto.
Provò a guardare i volti dei passanti e i loro sguardi tradiva-
no ancora abissi di doppiezza e malvagità, nonostante la tempo-
ranea sospensione delle persecuzioni religiose contro gli eretici.
Da dietro i vetri delle finestre, le persone sparivano non ap-
pena si fossero accorte che qualcuno lungo la strada, casualmen-
te, sollevava gli occhi verso di loro.
Forse l’odio verso il mondo dei vivi avrebbe finito per divo-
rare pure il mio cuore, diceva tra sé scoprendosi fiera di quanto
aveva in animo di fare. La restituzione della tavola di Bruegel
rappresentava per Greta l’addio al losco mondo scoperto a Tan-
geri e ne suggellava l’assoluto distacco.
Per non gravare con un secondo incarico la famiglia che s’era
data premura di cercare il collegio di difesa di donna Maaike,
pensò bene di rivolgersi al secondo nome della lista stilata dalla
signora.
La dimora di chi intendeva interpellare si trovava non di-
stante dal Mercato delle carni. Era una casa dignitosa e una ser-
vente piuttosto anziana aprì la porta mentre dietro a lei si sta-

156
gliava la figura del padrone, che si chiamava Carel. Dopo avere
squadrato da capo a piedi l’inattesa visitatrice, che educatamen-
te si presentò, il signore ascoltava l’articolato discorso di Greta
non cessando di girare gli occhi quasi cercasse conforto negli
oggetti del vestibolo: bastoni, ombrelli, mantelli per la pioggia.
Una volta che ebbe compreso quanto gli veniva richiesto, fred-
damente assunse l’incarico di recapitare la tavola a Rotterdam
nonostante l’impegno comportasse la difficoltà di trovare l’indi-
rizzo dei nonni della giovane Catharina van der Vort.
«Concedetemi tempo per portare in porto la faccenda senza
fare il vostro nome, così voi richiedete… vero? Anche se l’obbli-
go di riconoscenza andrebbe assolto dalla famiglia di mia mo-
glie… ma i debiti sono debiti e vanno onorati», concluse mo-
strando fretta di chiudere la faccenda e nel congedare chi ancora
si trovava a filo d’uscio.
Intanto, dalla stanza vicina, usciva il buon odore delle case
fiamminghe e lo sguardo di Greta colse che tutto era corretto
come doveva essere.
«Signor Carel, non mi concedereste di guardare per l’ultima
volta la tavola dei Mietitori in vostra compagnia?», domandò
timidamente.
Il tono suonava come una preghiera anche da parte di quel
mondo dipinto dove, in una calda giornata d’estate dal cielo
limpido, tra muri di spighe, gli uomini erano raffigurati inten-
ti al lavoro e allo svago d’un pasto sotto un albero di pero; in
lontananza, case dai tetti di paglia, una chiesa con la copertura
colore turchese e, sullo sfondo, la città affacciata su un mare sol-
cato da qualche nave.
«Ma non l’avete rimirata a sufficienza quando era in vostro
possesso?».
«L’ultimo sguardo, signore…», ma le parole si chiusero sulle
labbra della donatrice come il sole chiude una giornata di lavo-
ro sui campi.
Greta uscì e la porta venne chiusa con un colpo secco.
Fuori, continuava a sentire lo sguardo dell’uomo trafiggere
la sua figura che spandeva disperazione, incuria, abbandono.
Non era bastato per riscattarla il fatto d’aver consegnato una ta-
vola di grande valore… e se la spregevole persona avesse tenuto

157
per sé l’opera? Anche a chi non porta dentro il cuore alcun pae-
saggio mica spiace ficcare mille fiorini in saccoccia.
Con vigore agitò il batacchio. La porta si chiuse e, gli occhi
di Carel, attraverso lo spigolo, apparvero sfuggenti. La donna
fece intendere a chiare lettere come, se non avesse ricevuto con-
ferma dell’avvenuta consegna nell’arco di quindici giorni me-
diante una ricevuta debitamente firmata da parte dei destinatari
e depositata presso la gilda di San Luca, si sarebbe rivolta al no-
taio, di cui lesse il nome nel taccuino di donna Maaike.
E, a schiena dritta, se n’andò.
Fece ritorno alla locanda prendendo vie secondarie per evita-
re qualsiasi incontro casuale e, di nuovo nella sua stanza, afferrò
l’unico frammento di specchio che le era rimasto. Cercò di scru-
tare il proprio viso: lo sguardo aveva affossato il blu dell’iride in
una zona dal colore del fango, calpestato da troppi piedi. Uno
sguardo che pareva ubbidire alle ingiunzioni d’un cuore maciul-
lato. E per la rabbia, con la forza che trovava nelle suole delle
scarpe, frantumò lo specchio.
La punizione fu quella di raccoglierne le schegge per far cessare
lo sfregolio sotto i piedi ogniqualvolta si camminava per la camera.
La nuova bimba, al momento dell’allattamento, le stringeva
i capezzoli sì da consumarle ogni energia. Però, a detta del me-
dico che la visitava ogni settimana, cresceva bene.
«Piuttosto», continuò il dottore guardando, preoccupato, il
disordine dell’ambiente e il viso della mamma, «i vostri denti
appaiono indeboliti, diradati e troppo scuri. Per una ragazza
giovane quanto voi possono essere indizio di malattia».
«Nella mia famiglia, signor Frederik, questo danno l’ho veduto
sia in bocca a mia madre che in quella di mio padre. Però entram-
bi hanno continuato a vivere in buona salute e a ridere lo stesso».
Raccontare fandonie per non farsi sopraffare dalla pietà al-
trui e, insieme, piangere, quando era da sola, non bastavano.
Neppure l’idea di sbiancare l’arcata superiore con la cantarella
convinse Greta: il veleno avrebbe infettato il latte. Tuttavia non
riusciva a staccarsi dal masticare granelli di pepe che si procu-
rava dai marinai nelle taverne dell’angiporto, non lontane dai
bacini di carenaggio.

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E fu lì, in un giorno coperto di neve, che rivide la polena dai
grossi capezzoli. La madonna del porto, così la chiamavano tut-
ti, era investita da fiocchi gelati battenti che, come punte di
biacca, la macchiavano qua e là mascherando i colori originari
mentre il legno in alcune parti appariva già marcio. Però la scul-
tura era superbamente bella e, con la grazia concessa da un refo-
lo, scrollava le unghiate dell’inverno per mostrare il suo antico
verde simile a quello delle foglie a primavera.
Greta le disse: «Regalami un po’ della tua vanità, polena, che
ne ho tanto bisogno!».

Le forti e incessanti nevicate dissuasero la ragazza dal recarsi


nel giardino degli eredi del tipografo Christoffer Plantijn dove
il botanico Carolus Clusius, insieme ai progettisti, avrebbe do-
vuto trovarsi per i lavori di sistemazione della tenuta. Le tem-
peste del cielo s’abbatterono per la durata d’un intero mese e i
marinai, che stazionavano nelle locande dell’angiporto, raccon-
tavano come tutti i paesi d’Europa fossero sotto un manto già
battezzato come la nevicata del secolo.
Allo scopo di sconfiggere la lungaggine delle ore, Greta deci-
se d’interrompere i passi perennemente uguali che misuravano
il perimetro delle due stanzette della locanda: sarebbero usciti,
tutti e cinque, per mostrarsi al mondo.
Nel tragitto verso la strada dei negozi eleganti, s’accorse che
i passanti ammiravano l’araba. E Hamda, lusingata, sorrideva.
Con il medesimo sorriso mostrava riconoscenza per le attenzio-
ni del venditore che la complimentava. Era sin troppo premu-
roso nell’aggiustarle attorno al collo una soffice mantelletta di
pelliccia dopo averla tolta sbrigativamente dalle spalle di Greta,
che per prima la stava provando. Allora lei, che aveva in saccoc-
cia le monete per pagare l’ornamento, tentò di darsi un tono
discorrendo a vanvera sulla qualità del pelo, anche se nessuno
pareva curarsi della sua persona.
Si ribellò all’indifferenza del venditore e, storta la bocca in
un ghigno, mandò bellamente all’aria l’acquisto ormai giunto a
conclusione.
A inizio gennaio, il soggiorno in locanda non fu più tollera-
bile per la ragazza che usciva dopo la prima poppata e vi faceva

159
ritorno solo al tempo della successiva. Per il resto, vagava lungo
le vie della città senza mai azzardarsi ad arrivare al palazzotto del
collezionista pur bramando di farlo.
Ma un giorno di pioggia, quasi meccanicamente, i passi la
stavano conducendo verso quella direzione.
Prima o poi mi toccherà rivedere la casa, disse col pensiero
scegliendo di seguire la rotta del desiderio.
L’aria già imbruniva, ma le nuove proprietarie non avevano
ancora impartito l’ordine d’accendere le candele. Anche il ba-
tacchio si presentava in cattivo arnese e poco lustro perché la
servente era evidentemente più pelandrona di quel pelandrone
d’un tempo, che ora veleggiava sui mari, e le vecchie mai ne
avrebbero assunta un’altra.
S’avvicinò alla bifora per spiare la stanza dove lei cuciva e
vide una montagnola di stoffe buttata desolatamente sopra il ta-
volo. L’intero palazzotto spandeva attorno a sé l’aria di cose non
amate, un attimo prima di finire in rovina.
Le lacrime allagarono il bavero della mantella di Greta come
le chiuse fanno precipitare le acque da un salto per inondare il
bacino.
Premette il pollice sul vetro umido della finestra sino a la-
sciarvi due segni piuttosto distanziati: il primo per indicare la
catapecchia di Brechtje, il secondo per la dimora di Gamila.
«In entrambe ho abitato», mormorò.
Poi nello spazio interposto disegnò un piccolo cerchio:
«Questa, invece, è stata la mia unica e vera casa!». E promi-
se di restituire alla vita il palazzotto della famiglia che aveva
danneggiato.
Mentre si allontanava, dalla porta della dimora di fronte uscì
una giovane serva con un grosso cesto tra le mani. Lei la seguì
con gli occhi rivedendosi mentre andava alle capanne per porta-
re agli eretici calvinisti il cibo.
D’un colpo, ricordò che nel sacchetto degli oggetti perso-
nali ancora conservava la chiave della prima capanna, l’unica
delle quattro che non aveva mai restituito. Spinta da un deside-
rio così intenso da renderlo quasi fisico, prese a correre verso la
piazza del mercato soffocando a stento la brama di gridare: «Le
capanne sono lì solo per me. Voglio rivederle adesso!».

160
Salì su una carrozza e arrivò alla meta secondo le indicazioni
impartite al conducente. Non decise, però, di scendere. Dall’a-
bitacolo, strizzando le palpebre, poteva intravedere le pietre del-
la strada avvolta dal buio denso, quasi un vasto manto dove
perdersi o nascondersi. Nessuna fiammella proveniva dalle case
rustiche a suggerire un qualche segno di vita.
«Sono disabitate», urlò al conducente sporgendo la testa.
«Signora, siete sicura di sentirvi bene?».
«Chi io? Ma se ho una gran fame! Svelto, svelto che si ritor-
na in città».
Sull’uscio della locanda, sentì il pianto disperato di Harriet,
affamata per aver dovuto saltare la poppata.
Greta la guardò tra le braccia di Hamda e, colma di gioia,
disse a entrambe: «Stai buona, piccolina, che mamma ha trova-
to casa. E tu, araba dagli occhi lucenti, raccogli le nostre robe
che, domani, si farà trasloco. Andremo in campagna nelle ca-
panne vuote e saremo felici».
Hamda capì solo che tra le puzze della stanza era entrata
un’aria nuova. E pareva buona.
L’agitazione mantenne aperti gli occhi di Greta sino all’al-
ba. Rigirandosi nel letto pensava come il gesto d’occupare una
casa solo perché ne possedeva la chiave avesse un fascino ribel-
le… Ma poi? Una denuncia da parte delle legittime proprietarie
avrebbe buttato fuori l’ardimentosa usurpatrice, un’araba spau-
rita e tre bambini piangenti per l’improvviso sconquasso.
L’alternativa di chiedere la capanna in affitto incontrava,
però, un ostacolo insormontabile per lei che, sapendola lunga
sull’indole delle vecchie, le disprezzava dal profondo del cuore.
Mai si sarebbe presentata alle cornacchie con il sorriso di circo-
stanza, proprio di chi chiede o è costretto a farlo.
Allora cosa posso mettere in atto?, si domandò.
Le prime luci filtravano dalla finestra quando ricordò il
nome del notaio citato per inchiodare il signor Carel alle pro-
prie responsabilità. Di fronte alle garanzie fornite dal legale le
proprietarie avrebbero in un battito di ciglia consegnato la ca-
panna a una signora economicamente affidabile, madre di due
creature e fornita d’una decorosa servente.
La risoluzione pareva perfetta ma la toppa venne fuori intanto

161
che la cucitrice si guardava allo specchio. S’accorse che durante la
notte, dopo gli spasimi del male di denti, ne aveva perduto uno
che recuperò fra le coltri del letto. Mentre lo rigirava tra le dita
provò vergogna alla sola idea di presentarsi a un notaio con quella
bocca guasta. A suo giudizio, nessuno avrebbe dato fiducia a una
poveraccia tradita dal proprio canino.
In quel preciso istante Hamda, senza bussare alla porta, si pre-
cipitò nella stanza con Abril tra le braccia per mostrarle, piena
d’orgoglio, una puntina bianca in uscita dalle rosee gengive della
bimba. Travolta dalla gioia, la balia s’era dimenticata di coprire
metà volto con la sciarpa ricamata. Greta rimase a bocca aperta. La
pelle era tesa e perfetta: nessun morso, nessun taglio la sfiguravano.
Intanto Hamda, sopraffatta dalla vergogna, fuggiva dalla
stanza.
Lei scoppiò in una fragorosa risata poi a voce alta: «Anversa
sei in vendita? Un’invincibile sdentata e la più infingarda di tut-
te le maghrebine sono qui per comprarti».

Si era già sul finire di gennaio quando, in un giorno di pallidis-


simo sole, le due donne con i tre bimbetti tra le braccia passeg-
giavano davanti alla locanda in cui erano alloggiate.
Intanto, lungo la strada, passò una vistosa signora che porta-
va con orgoglio una rossa chioma, ribelle nei confronti di qual-
siasi cappello. Greta riconobbe quella Maria incontrata nella
taverna del Morto Pallido e l’avvicinò. L’altra mostrava di non
riconoscerla e, solo dopo avere fatto il nome di Sebastian lo spa-
gnolo, ricordò chi lei fosse.
«Sapessi quante volte ti ho pensata», disse Greta.
«Beh, questa è poi bella… pensare a me!».
Poi, senza preamboli, aggiunse: «Ma cosa è capitato, bimba,
che sembra siano piombati vent’anni sulla tua capoccia? Però
vedo che ti sei data da fare lo stesso in quanto a figliolanza».
Intanto fissava Hamda quasi volesse significare, Che magni-
fica creatura!
Greta abbassò gli occhi senza rispondere.
Maria allora, un po’ pentita, le chiese l’età.
«Sono entrata nel diciassettesimo», fece sapere l’altra mante-
nendo lo sguardo a terra.

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«Allora riuscirò ad aggiustarti con poca fatica mostrandoti le
mie abilità nel resuscitare anche le morte», e rise per non spa-
ventare ancor di più la poveretta.
Intanto che le due donne salivano in fretta le scale della lo-
canda e Hamda coi bambini le seguiva a dovuta distanza, la ra-
gazza a voce bassa raccontò come la balia avesse ingannato tutti
facendo credere d’avere il volto tanto deturpato da costringerla
a portare una sciarpa. E lei, Greta, quanto aveva arzigogolato su
quello sgorbio che non c’era!
«Perché l’abbia fatto, non riesco ad immaginarlo e, neppure
posso domandarne la ragione, visto che non parliamo la stessa
lingua».
La donna del porto pareva divertita poi, diventata seria, dis-
se: «Avrà voluto impietosire la sua precedente padrona per avere
da lei maggiori riguardi e lavorare meno fingendo d’essere una
derelitta che neppure riusciva a guardarsi nello specchio. Sono
strategie di sopravvivenza, bimba!».
«Allora è proprio un’infingarda!», sussurrò l’altra.
«La chiamerei una fulgida infingarda», precisò con il medesi-
mo tono di voce Maria dopo essersi voltata verso l’araba.
Una volta giunte nella stanza, la rossa aprì un sacchettino in
pelle e iniziò a tirare fuori cipria e belletto stendendo con dita
abili la polvere di riso per illuminare gli occhi, cerchiati di blu,
e sfumando un po’ del colore della buona salute sulle guance di
Greta. Finito il trucco, ora lo specchio mostrava un volto diver-
so che spianò un sorriso sulle labbra della ragazza.
Ma la lastra, senza pietà, rifletté pure un vuoto al posto del
canino, lì sulla destra.
Maria lo vide e, contristata, affermò: «Non posso fare nulla
per nascondere quel birichino che se n’è andato per i fatti suoi».
La giovane scoppiò in un pianto inarrestabile che deva-
stò il trucco rendendolo un mascherone, chiazzato d’osceni
sbrodolamenti.
«Aspetta», la tranquillizzò l’altra, «che forse m’è giunta l’idea
giusta. Alzati che dobbiamo tornare di nuovo fuori!».
Dopo avere lasciato nella locanda la fulgida infingarda e i
bambini, a passi sostenuti le due donne giunsero davanti alla
taverna detta del Cigno.

163
«Adesso, Greta, entrerò da sola e, tu, dammi fiducia».
Così lei, buona buona, si mise ad osservare dai vetri il collo-
quio della rossa con un uomo sulla quarantina, che si esprimeva
con il linguaggio dei muti.
«Però, ne sa più di quelli che hanno la parola. Muoviti che si
fa tardi!», disse Maria all’uscita.
A colpo sicuro, arrivarono a una casa affacciata sul canale del
burro. Sospinto il cancello e saliti tre o quattro gradini, furono
davanti all’uscio che un lieve tocco spalancò: era, infatti, solo
accostato, come se un ladro nella foga di darsela a gambe si fosse
scordato di chiuderlo.
«Qui abitava una pittrice veneziana che si nutriva con pa-
netti di burro profumatamente pagati da un signore d’Anver-
sa», precisò la rossa guardandosi intorno con circospezione, «ma
dopo la morte del suo benefattore, se n’andò in fretta e furia».
Greta ebbe un sussulto: «La falsaria del signor Isaac!», escla-
mò con i palmi sulla bocca.
«Vedi che al solo nominare una femmina dalla tempra av-
venturosa pigli colore anche senza trucco?».
Una volta superato il vestibolo, Maria tirò la maniglia del pri-
mo cassetto del mobile della sala. Una distesa di ventarole aspet-
tavano d’essere aperte dalla mano d’una gentildonna che le faces-
se scorrere lungo le labbra per consumare un pettegolezzo.
«Così, ragazza, devi muovere ’sto arnese», e simulava le mos-
se delle dame veneziane le cui bocche restavano un segreto, sia
che fossero ricche di candide perline oppure irrimediabilmente
sdentate. L’altra trovò la forza di sorridere; poi si salutarono con
un abbraccio e sull’onda d’una Buena suerte, pronunziata dalla
rossa con una strizzatina d’occhio.

I ripetuti volteggi del polso per manovrare la ventarola senza


stecche che, aperta, aveva forma circolare, provocarono un gon-
fiore alla mano destra di Greta. Per forza, non la smetteva da
mane a sera d’esercitarsi davanti allo specchio allo scopo di im-
parare i giusti movimenti! E, quando decise di recarsi dal nota-
io, il medesimo fu lieto di rappresentare presso le proprietarie
del palazzotto una mevroiuw capace d’esprimersi con una grazia
pari all’eleganza dei suoi gesti.

164
Il canone d’affitto prevedeva un pagamento mensile dalle
pretese piuttosto contenute e le anziane locatrici potevano ri-
scuotere la pigione recandosi di persona presso l’abitazione del
legale, oppure ricevendo la somma da un messo appositamente
inviato per assolvere l’incombenza.
Il trasloco venne fatto in fretta e senza badare a spese.
Nel mese di marzo, felicemente accomodata, con i bambini
tutti allegri e la fulgida infingarda più che contenta della nuova
sistemazione aperta, ariosa, affacciata sulle acque del ruscello,
Greta decise che era giunto il tempo d’incontrare Carolus Clu-
sius. Per l’occasione scelse un paio di scarpe dal tacco tinto di
rosso che il venditore assicurò essere la moda delle dame delle
corti di Francia. Poi s’avviò verso la meta.
Nel grande parco degli eredi di Plantijn, le opere di sistema-
zione delle fabbriche erano già state ultimate e il famoso bota-
nico s’accingeva a collocare le colture: al presente, piantava al-
berelli di limoni in grandi vasi.
Greta si presentò nelle dovute maniere mentre gli passava la
lettera da parte del dottor Costantino. L’altro leggeva tenendo
una mano all’altezza dei lombi per la fitta provata nel rialzarsi
dalla scomoda posizione. Non era troppo alto. In piedi la don-
na lo sopravanzava d’una testa. La chioma candida e fluente di
Clusius scendeva lungo il bavero d’una giubba frusta e piuttosto
larga per un fisico ossuto, all’apparenza fragile.
Senza guardarla negli occhi, le disse: «Su quelle scarpette,
con il ventaglio tra le mani e il viso truccato si va a teatro, non
in giardino per lavorare la terra».
«Signore», rispose d’impronta, «questo luogo non merita
forse lo stesso rispetto e le medesime eleganze che si riservano
a un teatro?».
L’altro rimase a fissarla senza alcuna apparente emozione.
La ragazza, agitando nervosamente il ventaglio, proseguì:
«D’istinto so che in un giardino non può mai capitare nulla
di male, e nel caso voi non possiate o non abbiate l’intenzione
d’accogliermi, ne cercherò un altro più adatto a me».
L’illustre uomo di scienza tornò a concentrarsi sugli agrumi,
poi a voce alta pronunziò un nome: «Piet».
In un baleno giunse un ragazzo dal berretto a sghimbescio.

165
Un tipo ordinario, pensò Greta che colse in lui qualche tratto
dei lineamenti di Jan, il garzone del molino. E, ricordando un’e-
spressione latina che il precettore Hans Franse le aveva ficcato in
testa dopo avergliela ben spiegata e fatta scrivere sul quaderno,
pronunziò: «Genius loci».
«E voi cosa sapete del Genius loci riferito alla botanica?»,
chiese con un tono aspro Carolus.
«Signore, ne so quanto basta. Il vostro amico Costantino
una volta a Tangeri mi chiese quale paesaggio, giardino o pianta
oppure fiore io avessi nel mio cuore».
«E allora?», sbottò l’altro senza interrompere il suo lavoro.
«Adesso conosco la risposta».
Carolus Clusius ora la fissava.
«Mi porto dentro uno striminzito albero di pesco, che si tro-
vava davanti alla casupola del borgo, da cui scappai. Da quel
malconcio tronco, da quella costola è nata la passione per le
piante della mia terra e il desiderio di diventare un giorno una
giardiniera magari con il vostro aiuto. Ma, visto che non sono
gradita, vi saluto».
Intanto che s’allontanava venne rincorsa da Piet. Il garzone
riferì che gli stivali con cui iniziare da subito a lavorare con il
maestro si trovavano nella veranda chiusa da vetrate. Poi si pre-
murò di dire che, oggi, il botanico era intrattabile.
«Perché?», chiese Greta.
Venne così a sapere che i proprietari del giardino, che ama-
vano le sfide, avevano imposto a un reticente Clusius di piantare
i freddolosi limoni nonostante il clima delle Fiandre fosse incle-
mente per questo genere di coltura. E col dito il giovane indicava
la zona della piantagione in vaso, posta a sud, accanto alla tiepida
veranda.
Lei entrò nell’edificio e, dopo avere appoggiato il ventaglio
sulla panca ed essersi seduta per togliersi le scarpe, stava infi-
landosi faticosamente un pesante stivale quando, senza bussare,
entrò un uomo.
Sorpresa dall’improvvisa apparizione, Greta rimase con il
gambale a mezz’aria che l’altro le calzò senza sforzo.
E la ragazza sorrise mostrando, inavvertitamente, la bocca
cava.

166
Il nome di lui era Augustin Morin: aiuto botanico di Carolus
Clusius, docente dell’università di Leida Guglielmo d’Orange.

Il professor Clusius, chiamato in cattedra dal rettore, era una


leggenda vivente. Conosceva a memoria il nome di cinquecen-
toventidue specie di vegetali e di tutti, o quasi, ricordava la sto-
ria, la parentela, l’indole e il comportamento a seconda dei di-
versi tipi di terreno, dell’umidità e del clima in cui si trovavano
a crescere. La sua biblioteca conservava un tesoro di volumi e
schede che, diligentemente annotate, venivano consultate dai
sedicenti clusiani, studiosi provenienti da tutta Europa. Così
raccontò alla ragazza Morin mentre a lei faceva girare la testa
l’ebbrezza d’avere accanto in carne e ossa tale monumento al
sapere botanico. Conclusa una giornata di lavoro, mentre la ful-
gida infingarda le massaggiava i piedi, Greta ripeteva a voce alta
quanto quel dì aveva appreso allo scopo di fissarlo nella mente
con la necessaria e dovuta lentezza.
«Le piante, a differenza degli uomini», era solito dire Caro-
lus, «non hanno fretta, anzi la temono; esse insegnano ai giardi-
nieri l’attesa, la vittoria e, a volte, anche la sconfitta. Una gran
bella lezione per la vita di noi uomini!».
Aveva preso confidenza, lo scorbutico scienziato, con la di-
scepola tanto da rivelare, lamentandosi, che i colleghi accademi-
ci aspettavano solo il momento buono per mandare in pensione
lui, considerato un solitario Matusalemme nato ad Arras.
«Eh, Greta, se la prendono anche con la mia cittadina e mi
vogliono rispedire nella patria degli arazzi!».
«Mica sarà un’offesa», rispondeva lei, «essere nati là… per
chi poi come voi è stato in giro per tutta Europa».
E un bel dì alla donna, dopo avere udito l’ennesimo bronto-
lio, venne un’idea.
Propose a Carolus l’allestimento d’una aiuola che sagomas-
se, realizzandole con fiori, le figure disegnate sul cartone d’un
arazzo.
«Così tutti quegli invidiosi capiranno cosa sa fare chi ebbe
l’onore d’essere chiamato a curare i giardini imperiali di Vienna».
Clusius scosse la testa e se n’andò senza dire una parola o de-
gnarla d’uno sguardo riconoscente.

167
Lei, piuttosto avvilita, andò nella serra per sfogarsi con Au-
gustin Morin raccontando lo sgarbo ricevuto e la sua intuizione,
gettata alle ortiche dal maestro.
«E ancora ti meravigli? Fa sempre così davanti alle novità…
prima d’abbracciarle con entusiasmo», replicò l’altro.
Poi la baciò. Da qualche tempo Augustin aveva fatto strada
salendo dai polpacci sino alle labbra di Greta e la serra era stata
testimone della di lui progressiva conquista.

168
La bottega della meraviglia

D opo nove mesi dall’inizio dei lavori, venne alla luce il par-
co degli eredi Plantijn. E tutta Anversa corse a vederlo:
chi dalle cancellate e chi riversandosi tra siepi e boschetti. Gli
eccellenti ospiti, passeggiarono lungo il viale d’accesso trovando
alla loro sinistra una piantagione di girasoli nani giunti dal Perù
illuminati dai raggi del sole calante, gialli come l’oro trovato
nelle miniere di quelle terre. Dall’altro lato, si stendeva un’aiuo-
la rettangolare, simile a un tappeto, con lungo i bordi gli stessi
vegetali che i pittori collocavano sul fondo delle loro tele a in-
confondibile firma della scuola fiamminga.
L’arazzo floreale piacque al punto che altri signori vollero ve-
dere disteso davanti alle proprie dimore quel meraviglioso ben-
venuto intessuto di petali veri.
Clusius, nell’impossibilità d’esaudire ogni richiesta, affidò a
Greta più d’una commessa che lei portò a compimento con la
consulenza d’Augustin e la supervisione del maestro. I lavori
fruttavano bene perché lei mica faceva prezzi bassi e a chi insi-
steva nel domandare sconti replicava con spavalderia dietro al
ventaglio: «Se volete la perfezione, la dovrete pagare bene».
Morin le insegnò a tenere a freno la lingua ma non le pre-
tese. E Greta era sempre la prima a trovarsi sul luogo dei lavori
e l’ultima ad andare via proprio come conviene a chi è il capo.
Giungeva elegante su scarpe dal tacco rosso e più d’un ventaglio
dentro una grossa borsa di zigrino e finiva per uscire dai parchi
scarmigliata e con le unghie nere di terra.
La città parlava di lei e la vanitosa commentava così la pro-
pria notorietà: «Sono io ad essere di moda o lo sono, invece, i
miei giardini?», e talvolta aggiungeva: «Anche se allestissi un
vero disastro, nessuno di sicuro se n’accorgerebbe».
Ma la cura, l’attenzione, lo scrupolo la tenevano distante da-
gli errori. Prima di licenziare un progetto, chiedeva il parere
di Clusius, restando nell’orto botanico di Leida per giorni o,
all’occorrenza, anche settimane. I due discutevano, litigavano:
lui, nelle scelte, manteneva un atteggiamento prudente; lei non
ometteva d’inventare sempre qualcosa di nuovo.
«Greta», le disse quella volta Carolus mentre insieme ibrida-
vano, «mi sembri nata per fare cose speciali».
La donna sobbalzò prima di rispondere: «Avevo sedici anni
quando un brabantino spagnolo mi disse all’incirca la stessa
frase».
«Ci vedeva lungo, l’amico. Poi come finì tra voi?».
«A lui la roba, cioè la mia persona, scivolò dalla mano forse
perché aveva due dita in meno».
«Così si fece scappare anche la perla rara», commentò il
botanico.
La giardiniera sorrise continuando a lavorare un concime di
sua invenzione, preparato con gusci di legumi tritati, da mettere
su d’una aiuola di terra mista a fango di fiume.
Sia il maestro che l’allieva avevano notato come i fiori, pro-
venienti dal Nuovo mondo, una volta cresciuti nei giardini delle
Fiandre, gradualmente perdessero la loro fragranza assorbita dai
granelli di sabbia presenti nella terra.
«Se mai dovessimo riuscire a restituire al tulipano il suo na-
turale profumo d’oriente», diceva Clusius, «questa sì che sareb-
be vera gloria da lasciare con un palmo di naso quelli della So-
cietà d’Orticoltura di Harleem!».
«Che forse ci darebbe pure un premio in fiorini», conclude-
va lei.
Nella serra dell’orto botanico tra fasci di etichette, diste-
se per terra, schedari, cassette a scomparti e griglie di ferro

170
per permettere il cambio d’aria, se non si stava attenti c’era
il rischio d’infilarsi in una delle trappole per topi. Ma la vera
trappola per Greta e il maestro era lo scrupolo con cui cata-
logavano i bulbi di tulipani, introdotti nel paese da Clusius
e già ricercati come la nuova meraviglia vegetale. Quei fiori,
coccolati nel morbido letto dei cassetti, non dovevano patire
il freddo prima d’essere coricati nell’essiccatoio, il vero sancta
sanctorum del luogo. Il sogno di Carolus prevedeva il verifi-
carsi d’un miracolo nel cuore d’un giardino dove, in sintesi
geniale, avrebbero trovato accordo tutti gli elementi della na-
tura: il fuoco del sole, la purezza dell’acqua, i succhi della terra
e i soffi del vento.
«Io aggiungerei anche la mia pazienza e le mie unghie rotte»,
diceva la giardiniera prestando solo un orecchio agli argomenti
filosofici del maestro e di Augustin Morin, che veniva costante-
mente consultato.
Quando a Greta giunse l’incarico di creare un parco per il
facoltoso ispettore delle dighe di Anversa, fu lo stesso Augustin
a metterla in guardia. Non lo convinceva questo signore che,
d’improvviso, aveva scoperto la devozione per erbe e fiori. E
con tanto d’esempi spiegava come sin da epoche remote uomini
potenti, che si vantavano d’essere solo degli innocui appassio-
nati giardinieri, fossero in realtà coinvolti in affari ben sospetti.
La donna lo ascoltava rapita. I racconti di Morin comunica-
vano un’emozione sprigionata dal potere di oggetti, ai quali un
tempo s’attribuiva addirittura un culto, quali piante, fiori, me-
talli e umori. E Greta entrava nella favola sino a immergersi in
quelle evocazioni di porpora, oro, corone, armi, autunno, ven-
to, chimere, marinai e pioggia.
Era innamorata di Augustin che pareva non curarsi della
bocca sgraziata della sua amante. Lei stava scoprendo un diver-
so modo d’amare: sul galeone Raissa o a Tangeri avrebbe dato
la vita per Sebastian. Adesso, invece, sorrideva mentre imparava
che agli antichi eroi o alle eroine del desiderio era riservata la
sorte di trasformarsi in piante.
«Lasciami almeno la soddisfazione di sbagliare da sola», disse
Greta ad Augustin. E, tutta contenta, iniziò i lavori commissio-
nati da Pieter Nainggolan, padrone di una tenuta non distante

171
dalla città, dotata di buona luce e di terra un po’ sabbiosa, più
umida che secca.
Non passava giorno, però, senza che l’ispettore non solleci-
tasse la conclusione delle opere sino a quella mattina in cui si
presentarono le guardie. E fu scoperto il motivo di tanta pre-
mura da parte del signore, che aveva assoluta necessità di sciac-
quare i suoi gulden nella fontana del parco prima che venisse a
galla l’imbroglio su una licenza d’appalto, elargita con troppa
facilità e ben compensata. L’inchiesta della magistratura spedì a
casa operai e giardinieri, congelò le finanze dell’ispettore e mise
sotto sequestro il terreno cintandolo mediante una distesa di
fili spinati. Dentro quella gabbia, fiori e piante, abbandonati a
se stessi, marcirono e gli ornamenti vennero addirittura rubati.
Greta, che aveva anticipato i fiorini necessari per l’avvio
dell’allestimento, subì una consistente perdita pecuniaria. Allo
scopo di verificare l’effettivo ammanco, si recò nell’edificio ros-
so, sito nella piazza del mercato. Ogni volta che metteva il tacco
nella banca di van der Beurse, i contabili s’alzavano staccando gli
occhi dai fogli o dal cliente che era di fronte a loro. Il respon-
sabile, subito avvisato dell’arrivo della signora, uscì dalla stanza
con le braccia allargate in segno di resa mentre dalle labbra sue
usciva: «A seguito della confisca dei beni Nainggolan è scappa-
to». Poi, fortunatamente, dopo averla fatta accomodare, il solerte
signore mostrò i resoconti relativi al florido commercio dei rami
di coralli della società genovese dei Lomellini, di cui Greta posse-
deva una quota depositata presso il Banco di San Giorgio.

Allo scopo di rimpolpare gli ammanchi, nel corso dell’inver-


no mentre i lavori nei parchi dormivano, la giardiniera si dedi-
cò agli ornamenti floreali. In quel periodo erano di gran moda
le ghirlande, apparati fastosi quanto effimeri, che s’esponevano
nelle sale dei palazzi durante le feste aristocratiche.
Greta iniziò a confezionarne quasi per gioco ma, in brevissi-
mo tempo, fioccarono richieste su richieste e si dovette trovare
uno spazio in cui collocare mazzi di fiori, cesti, cesoie, nastri
e fiocchi, vari tipi di colla e scheletri in vimine a sostegno dei
trionfi vegetali.
Augustin consigliò di prendere in affitto un salone che si tro-

172
vava non distante dalla gilda di San Luca e Greta accolse con en-
tusiasmo l’idea a cui, però, volle aggiungere una propria iniziativa.
«Quando le ghirlande, finite le feste, faranno ritorno nel la-
boratorio un po’ smunte e provate, troveranno i giovani pittori
dell’accademia, pronti a dare loro nuova vita sulle tele».
«E se costoro non fossero d’accordo?», obiettò Morin.
Lei, poco elegantemente, agitò un sacchetto di fiorini dicen-
do che con quelli si convinceva sempre tutti.
«Perché, vedi, io penso di vendere all’asta nella seconda do-
menica d’ogni mese le opere, messe in bella vista lungo gli spazi
espositivi, e i medesimi pittori faranno da banditori».
Le Domeniche della gilda di San Luca divennero sirene che
richiamarono anche dall’estero, mercanti, aristocratici, ban-
chieri, attratti dai prezzi concorrenziali. E alle giornate dedi-
cate al libero mercato la Gazzetta d’Anversa dedicò fiorite re-
censioni e tali da indurre all’acquisto in previsione d’un felice
investimento.
Nei primi tempi, la fiorista sbrigava ogni commessa da sola,
masticando freneticamente granelli di pepe, poi arrivarono gli
apprendisti. E sulla vetrina della bottega apparve la scritta: Me-
raviglia, vergata a grossi caratteri, dipinti di bianco, dal più bra-
vo calligrafo dell’accademia.
Carolus diede la sua benedizione all’avventura, Morin in-
tratteneva i clienti con narrazioni dal sapore antico e Greta di-
venne la donna delle ghirlande più acclamata e imitata nelle
terre di Fiandra.
Le composizioni privilegiavano fiori sorprendenti per for-
me, colori, e inattesa bellezza. Una volta riprodotte sulla tela
dai pennelli vellutati dei pittori, racchiudevano nella mandorla
una scena religiosa oppure il ritratto d’un personaggio potente.
Raffigurati con il volto severo sotto la parrucca, l’abito scuro
e la bavarina in pizzo chiusa da due fiocchi penduli, i signori
d’Olanda apparivano inghirlandati in un trionfo di amaranti,
narcisi, iris di Siberia, tulipani turchi, peonie d’Oriente, girasoli
e anemoni incoronati.
Non erano un ornamento le ghirlande di Greta, piuttosto
un viaggio alla scoperta del nuovo mondo in tutta la sua gloria
naturale.

173
Per poter avere i semi della flora esotica da piantare nella
tenuta attorno alla capanna, Greta, per il tramite di Clusius,
si mise in contatto con Adriaen Pauw, uno dei diciassette si-
gnori che gestivano la Compagnia olandese delle Indie orientali,
fondata nel 1602 con un capitale di sei milioni di fiorini, sotto-
scritto dalle sei camere olandesi e assistito dal governo interes-
sato ma privo del monopolio. In società con cinque fioristi del-
le Libere Province Unite del Nord lei, l’unica d’Anversa, entrò
a far parte della rosa dei finanziatori delle spedizioni, sobbar-
candosi i rischi di naufragi come la rovina di semi e dei reper-
ti, marciti per corruzione nell’umidità delle stive. Ma i profit-
ti furono superiori ai disavanzi e la fortuna dell’imprenditrice
crebbe a dismisura.
Oramai la sua fama volava sull’onda di sempre nuove inven-
zioni perché a lei bastava guardare un fiore che sentiva la scossa
d’una idea. E quella del tulipano fu la più geniale. E valida per
tutte le tasche. Ai clienti meno abbienti d’Anversa proponeva
un biglietto, scritto di loro pugno, racchiuso nel calice del fiore
reciso come una graziosa sorpresa; per i facoltosi signori di Am-
sterdam e dell’Aja pensò, invece, a un gioiello accarezzato dai
petali del tulipano.
Così molti compleanni, anniversari e ricorrenze, che cadeva-
no in primavera, conobbero il gridolino di gioia da parte delle
dame graziosamente oppure riccamente festeggiate.
La bottega, però, doveva vendere fiori per tutto l’arco dell’an-
no e nella vetrina della Meraviglia apparvero anche i Calendari
amorosi con le quattro stagioni dei fiori e dell’amore, seguiti da-
gli Orologi floreali per fissare in forma di bouquet gli appunta-
menti più teneri.
Mi sento come la sorella minore del re Mida, confessava solo a
se stessa Greta, anche se in bocca mi restano pochi denti per masti-
care e, presto, finirò col sorbire brodini spruzzati di polvere d’oro.
Un giorno di fine marzo, mentre si trovava nella stanza più
accogliente della sua capanna, lei, succhiando l’ennesimo chicco
di pepe, disse ad Augustin, che le era accanto: «Se non trovo il
tempo di sposarti tra la messa a punto d’una ghirlanda e la mes-
sa a dimora d’un bulbo, finirò zitella».
Lui si mise le mani nelle chiome scure e fittamente arriccia-

174
te, gli occhi vividi fingevano terrore come se si trovasse d’im-
provviso davanti all’apparizione d’un fantasma. Le labbra, dol-
cemente incurvate, prima si ritrassero, poi s’allargarono nel più
splendido, candido e perfetto dei sorrisi. Una volta in piedi, alla
donna, che era rimasta seduta, apparve alto, bello, simile a un
antico dio, possente, altero e destinato a divenire il suo sposo.
Per la festa di nozze, vennero affittate tutte e cinque le ca-
panne per far godere agli ospiti un pezzo di campagna al natu-
rale, inondata di papaveri che crescevano spontanei nei luoghi
arenosi marini.
Così l’invitato eccellente, Carolus Clusius, poté passare un
intero pomeriggio strologando il modo per cambiare il vivido
colore dei fiori in un impeccabile bianco, candida rappresenta-
zione dell’elemento umido.
La sposa, che sfoggiava un buon numero di ventagli a secon-
da delle ore, intrattenne gli ospiti che non erano mai contenti:
tutti parlavano; nessuno ascoltava; e, per emulazione, molti cer-
cavano moglie o marito come sempre capita nelle feste nuziali.
Quella volta, però, fu il tempo a mettere d’accordo gli in-
vitati mandando giù uno scroscio che spedì tutti dentro le ca-
panne. Tranne un notabile d’Anversa che, dopo troppi brindisi
e più d’un fallito agguato nei confronti della fulgida infingar-
da, s’addormentò sotto un albero di fico e, lì, rischiò di finire
annegato.
La sposa, finalmente libera dagli abbracci, si mise accanto a
Carolus per ricevere gli auguri.
«Sei la migliore, Greta, e non farti mai abbattere dall’invi-
dia dei mediocri. Non avere fretta di vivere e porta avanti con
giudizio quanto io ho iniziato, perché sei tu la mia vera, unica
figlia ed erede».
«Signore», rispose lei mandando indietro lacrime di commo-
zione, «questo significa che io nel medesimo giorno ho trovato
padre e marito».
E lo scorbutico si sciolse nel più tenero degli abbracci, come
fanno tutti i padri delle spose di ’sto mondo.

Non era passato un mese dal dì delle nozze che Augustin, con
una faccia da funerale, disse a Greta di dover intraprendere un

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viaggio sino a Marsiglia, adducendo l’inderogabile necessità di
sistemare vecchie beghe di famiglia.
«Cosa?», s’indignò lei, «invece della luna di miele me ne re-
gali una di fiele se penso che, solo soletto, te n’andrai in quel
porto affollato di donne dal volto dipinto. Confessa che ti sei
già stancato di me!».
E non bastarono carezze, moine e altri amorosi giochi a fare
cambiare idea al marito.
In verità Greta, da tempo, lamentava di non potersi godere
le tre tavole di Bruegel che dormivano nella cassaforte del no-
taio di Tangeri in compagnia d’un consistente taglio d’ambra.
Aveva intenzione di donarle alle figlie in occasione delle loro
nozze.
E Augustin là voleva andare in gran segreto con lo scopo di
farglieli, inaspettatamente, riavere.
In attesa del ritorno del suo sposo, Greta nel tempo libe-
ro saliva, ogni tanto, su d’una imbarcazione per raggiungere
Leida e tenere compagnia a Clusius. Anche quel dì era in pro-
cinto di partire quando attraverso un messo giunse la convo-
cazione di recarsi nella banca di der Beurse e la cosa aveva una
sua urgenza.
La persona, che l’aveva cercata, andò subito al punto mo-
strandole lo statuto con l’elenco dei finanziatori facenti parte
della società genovese dei Lomellini. Il nome di Greta appariva
nell’ultima riga sotto quello di Costantino, che aveva accanto
una croce.
La donna, divenuta pallida come un cencio dopo essere
passato nella cenere, ascoltava l’uomo della banca mentre co-
stui le proponeva d’acquistare la partecipazione societaria del
deceduto.
«Di chi state parlando?», chiese quasi volesse, attraverso l’in-
dugio, ritardare la scoperta della crudele verità.
«Signora, dicevo che il socio di Tangeri è mancato l’anno
scorso, d’improvviso, durante l’autunno».
Negli occhi di Greta passò un’ombra, infittita dal buio dove
Costantino era sprofondato e insieme a lui la gentilezza d’ani-
mo, grande come la terra, del vecchio amico.
Quando lui svaniva, io cosa facevo?, provò a chiedere tra sé

176
e sé in cerca di un’ideale corrispondenza tra la sua persona e gli
ultimi momenti di vita del medico.
Piantavo viole, fu la risposta che silenziosamente si diede.
Infine, trattenendo a stento le lacrime, disse ad alta voce a
chi le stava di fronte: «Forse domani potrei darvi una risposta, o
il dì dopo», e con un rapido cenno di congedo se n’andò.
Nel tragitto in carrozza che la riportava alla capanna, decise
che avrebbe rilevato la quota di Costantino per trattenere negli
occhi l’immagine di lui ogni qualvolta il suo sguardo avesse in-
cocciato un ramo di corallo.
Dopo due mesi, Augustin fece ritorno. Gli sposi ammira-
rono le tavole del maestro fiammingo che evocavano la luce, il
calore, i raggi del sole.
«Tutte parole che si usano anche per raccontare l’amore»,
disse Morin alla sua donna.
Lei s’intenerì, versò due lacrime ma fermamente disse d’ave-
re deciso di far dono dei dipinti alla Schola Caritatis d’Anversa.
«Hai cambiato idea, allora?» chiese, deluso, il marito.
«Le mie figlie erediteranno, ugualmente, una fortuna men-
tre la vendita di questi capolavori aiuterà le ragazze senza tetto
della città. Ho intenzione di suggerire alle pie dame l’amplia-
mento del salone di ricovero e la tinteggiatura delle pareti con il
colore della speranza, che è il verde».
Sulla porta d’ingresso della nuova sala, per volontà della me-
cenate, doveva apparire la scritta: In memoria di Maaike van der
Voort.
Morin taceva.
«Riconosco», convenne Greta, «che le persone vanno rispet-
tate in vita, quando il loro corpo è caldo, non dopo essere di-
ventate polvere».
Il marito le pose una mano sulla spalla.
«A quel tempo, Augustin, io da poco avevo smesso di par-
lare con le galline e, come un animaletto, vivevo ignara d’ogni
regola morale. Trova il modo di perdonarmi almeno tu perché
io, confesso, ancora non ci riesco».

Nel 1607, alcuni fioristi francesi pagarono profumatamente la


concessione di riprodurre il modello del Calendario amoroso per

177
scopi commerciali mentre gli inglesi ottennero quella dell’Oro-
logio floreale.
Un’unica festa celebrò il nuovo successo della bottega delle
meraviglie insieme alla nascita di Carola, la terza femmina di
Greta, figlia di Augustin.
Oramai la capanna non poteva ospitare una famiglia tanto
numerosa e vennero prese in affitto anche le rimanenti quattro.
Nonostante la floridezza economica permettesse l’acqui-
sto d’una grande dimora nel cuore della città d’Anversa, Greta
aspettava l’unica casa che riusciva a concepire come sua: il palaz-
zotto del signor Isaac e della povera donna Maaike.
«Sono certa che prima o poi ci trasferiremo tutti là, perché
anche il palazzotto non vede l’ora d’incontrarci», ripeteva sem-
pre ai suoi cari.
Quando si recò nell’orto botanico di Liegi per mostrare a
Carolus la bimba, trovò lo scienziato molto stanco e carico di
livore nei confronti dei colleghi. Rivelò d’aver saputo d’un com-
plotto, ordito dai docenti, per mandarlo via in anticipo sulla
pensione adducendo problemi di salute che, forse, sarebbero
stati accolti come ragionevoli da parte del rettore.
«Avranno i loro buoni motivi se mi considerano tanto vec-
chio», diceva sconsolato.
«Macché vecchio e vecchio», proruppe lei, «non vedete che
in bocca avete ancora tutti i vostri denti mentre io… Ma non vi
siete accorto che al posto del suono delle parole ormai mi esco-
no solo dei sibili?». E si coprì, piena di vergogna, le labbra con
il ventaglio. Poi scoppiò in lacrime.
Carolus che, sin dal primo incontro, aveva capito come tut-
te quelle ventarole non fossero un vezzo bensì una difesa, non
interruppe il pianto. Poi disse: «Le dame sdentate della corte di
Vienna si recavano a Dieppe, in Normandia. Si trovano là gli
specialisti in grado d’impiantare faccette d’avorio al posto dei
denti naturali e, invece del loro colorito vero, ne fabbricano
uno con qualche sostanza estranea, che ha le sfumature dei per-
ces -neige nivéoles».
«Cosa sono i percs…?», sibilò lei.
«Noi li chiamiamo bucaneve. Dovresti imparare un po’ di
francese prima di partire per Dieppe».

178
La donna sorrise, quasi liberata dal peso che da anni si por-
tava dentro.

Nel gennaio del 1609 la temperatura scese al di sotto del previsto


e nel giardino degli eredi del grande Plantijn le trenta piante di
limoni in vaso stavano correndo grossi rischi. Clusius, convocato
d’urgenza, si recò in loco insieme a Greta, Augustin e altri giardi-
nieri. Avevano appena iniziato i lavori attorno alle radici quando
Carolus cadde al suolo. Non riusciva a respirare. Subito soccorso,
venne adagiato su una lettiga mentre Greta gli scaldava le mani.
In un soffio lui riuscì a dire: «Continua a proteggere le pian-
te, altrimenti finiranno pure loro».
Lei ubbidì. Coprì le radici con uno strato di paglia, poi di le-
tame, poi ancora paglia e letame senza staccare gli occhi dai vetri
della veranda dove Augustin aveva portato il suo maestro. Vide
uscire di corsa Piet e, poco dopo, ritornare con un signore. Im-
maginò si trattasse del medico. Intanto continuava ad avvolgere i
vasi con teli e, mediante l’aiuto delle stecche del ventaglio tenute
premute coi palmi, ce la faceva a pigiare la paglia su cui colava
l’umore nero del liquame, subito assorbito dal tessuto. Le dita,
strizzate dal gelo, erano rigide e le unghie come denti di rastrelli
raspavano. Faticando ad afferrare sputava sopra le mani per scal-
darle con la saliva. Il suo sguardo, però, era sempre fisso su quella
porta e le labbra giuravano che, se Dio o i santi le avessero fatto la
grazia di rivedere Carolus vivo, avrebbe donato tutti i suoi beni.
Sulla soglia apparvero Augustin, il medico e Piet che si fe-
cero il segno della croce. Lei vide il gesto e cadde al suolo sulle
gambe e sulle braccia come fossero zampe.
Morin corse verso la moglie che non era più una donna, ma
solo uno strazio. La disperata, mentre si rimetteva in piedi, gli
fece cenno d’andarsene e, insieme ai due uomini, lui rientrò
nella veranda per raccogliersi in preghiera accanto al morto.
Greta urlava e, senza smettere di rattoppare la terra attorno
alle radici, continuò a gridare il nome di Carolus sino a che non
ebbe finito d’insabbiare i trenta vasi di limoni. E ancora lo invo-
cava quando, a sera inoltrata, quasi sul far della notte, il marito
la prese in braccio per riportarla a casa.

179
Quattro mesi dopo, la giardiniera-fiorista più famosa d’Anversa
in compagnia della fulgida infingarda e della figlia più piccola
prese una nave che avrebbe fatto scalo nel porto di Dieppe. Una
volta sbarcate, lei buttò a mare gli astucci con dentro i suoi dieci
ventagli dicendo: «Non mi servirete più».
Poi s’incamminò verso lo studio del medico che restituiva il
sorriso alle signore d’Europa.

180
Nell’anno del Signore 1637

A quel tempo, la ricchissima mercante Greta viveva sola dac-


ché le sue tre figlie s’erano sposate e Augustin Morin, nel
fiore degli anni e senza poter dire addio a chi amava, fu sco-
perto senza vita nello studiolo di casa, chino sul foglio, intento
fino all’ultimo al dovere. L’espressione mite nel volto del marito
morto provocò in lei quel grido muto, strozzato nella gola, da
anni quasi dimenticato.
A quel tempo, già abitava non distante dalla cattedrale d’An-
versa, nel palazzotto che fu del compianto signor Isaac e della
povera donna Maaike.
Alla morte delle vecchie cornacchie, la dimora e le cinque
capanne dei pescatori furono messe all’asta. E Greta acquistò
l’intero lotto di cui, già, aveva in affitto i rustici. In seguito, di-
venne proprietaria anche delle case vicine, tutte dotate d’un va-
sto giardino, e ora possedeva un grande campo coltivato a grano
insieme a una distesa di terreno tenuta a frutteto.
«Le mie figlie», era solita raccontare agli ospiti durante la
visita dell’abitazione «dicono che ho prosciugato un bel lago
di gulden per il piacere di vedere in un parco di città le spighe
d’estate e mangiare pesche. Non so dare loro torto ma chi nasce
boerinne lo rimane vita naturale durante».
«Macché contadina e contadina… la verità, signori, è un’al-
tra», interveniva Harriet, «e, se intendete conoscerla, domanda-
te a mia madre del soggiorno a Parigi di tanti anni fa, del 1630
mi pare… sì fu proprio il 1630… l’anno della peste in Europa».
«Mia figlia Harriet dice il vero, in materia d’arredo ho col-
to spunti dalla sublime marchesa Catherine Vivonne de Ram-
bouillet… eh, sì sono stata davvero una copiona nel mio campo
di grano!».
Abbattuti i muri interni, le stanze ora respiravano, gli anti-
chi mobili vennero sostituiti con quelli alla moda e i pavimenti
alternavano lastre di marmo nero indigeno e quello bianco, pro-
veniente dalle cave della Toscana e commerciato dai lucchesi,
che erano in rapporto con le Fiandre.
S’accedeva nello studiolo, dipinto di blu, dalla sala e sem-
brava d’attraversare una piazza ammirando lungo le pareti una
collezione di quadri di scuola fiamminga e il ritratto di Greta,
signorilmente incorniciato.
Il mobile d’apparato più prezioso era un autentico pezzo
unico in profumato legno di tiglio e ebano decorato con diciot-
to piccole pitture di soggetto campestre create da Rubens.
«Se il buon vento dovesse mai cambiare», considerava lei
senza alcun pudore, «mettendo in vendita solo questo, torno
in piedi e ricomincio da capo. Ma ora, cari ospiti, passiamo nel
regno del mio cuoco».
Nella cucina, una batteria di pentole e suppellettili in rame
si trovava alle spalle di mon cher ami Jean, parato ad accoglie-
re i signori sollevando, reverente, l’arricciaburro che teneva in
mano.

Greta aveva incontrato Jan, l’antico garzone del molino, la vol-


ta in cui dovette ritornare nel luogo dove passò l’infanzia. Alla
morte di Brechtje, era lei l’unica erede e il vecchio ragazzo, bian-
co dalla testa ai piedi, lavorava ancora all’ombra delle pale. Il
nuovo padrone, però, non vedeva l’ora di sbarazzarsi d’un uomo
stanco, vedovo, carico di debiti presso l’oste e perennemente
lamentoso.
Greta saldò le pendenze in locanda, fece dono al prete della
casupola e si portò a casa il poveraccio.
«Tu sei l’unica che ce l’ha fatta a uscire dagli stracci, Griet,

182
e sei tanto buona con me», borbottò Jan mentre la carrozza li
conduceva ad Anversa.
Griet, disse lei col pensiero, non è una donna generosa, piut-
tosto una mercante implacabile nell’esigere crediti e pagare i
propri debiti.
E con gli interessi maturati nel tempo andava ricompensato
chi, per primo, le offrì in dono una mezza manciata di granelli
di pepe e, poi, l’introdusse nel palazzotto del collezionista.
Fissò il vecchio amico e disse: «Se t’azzardi a pronunciare an-
che solo un’altra volta il nome di Griet, giuro che mi vendico»,
e intanto gli spolverava il bavero spruzzato di farina.
In verità, lui continuò a chiamarla Griet mentre lei lo battez-
zò come mon cher ami Jean.
Per meritarsi il giro di parole forestiere, quel contadino, in
un soprassalto d’orgoglio, mostrò tanto impegno sino a diven-
tare il più reputato cuoco d’Anversa: l’unico capace di darla da
bere a tutti, anzi, da mangiare secondo il gusto francese.
In aggiunta risultava molto simpatico alle figlie di Greta, che
gli chiedevano sempre come fosse la loro madre da giovane.
«Visto che siete tanto curiose», interveniva lei, «allora fare-
ste meglio a interrogare Hans Franse. Fu lui a inculcare nella
testa d’una povera cucitrice la volontà di diventare una fiera
fiamminga».

Greta aveva incontrato, tempo prima, il suo mai dimenticato


maestro in una bottega d’antiquariato della città. La signora do-
veva scegliere un mobile, lo studioso sfogliava le pagine d’un
libro di viaggi. E lui dopo un abbraccio, quasi si fossero visti
solo ieri sera, iniziò a decantare le meraviglie di quel testo. De
regimine omnium iter agentium di Guglielmo Grataroli era un’e-
dizione cinquecentesca pubblicata a Basilea, corredata di belle
illustrazioni su quaranta percorsi europei e dettagliati consigli
attorno a cosa si deve mangiare e come bere per restare sani e
vigili durante le tappe. Mai, però, Hans Franse avrebbe imma-
ginato d’uscire dal negozio con tra le mani lo splendido volume,
ricevuto in dono da quella sua antica allieva. Insieme s’avviaro-
no verso il palazzotto.
Il precettore raccontò come dopo il matrimonio della figlio-

183
la di donna Maaike, favorito da una cospicua dote grazie alla
vendita d’un quadro di valore, lui se ne fosse andato da Rotter-
dam e, al presente, se la passava piuttosto male.
Mentre parlava, Greta estrasse dalla borsa la lettera sigillata,
che portava sempre con sé da quando
l’aveva trovata sul tavolo della stanza da cucito con sopra
scritto in lettere maiuscole il suo nome.
«Se non l’ho mai aperta vincendo più volte nel corso della
vita la tentazione di farlo, ci deve essere una buona ragione. For-
se aspettavo che tu fossi davanti alla mia persona».
Ruppe la ceralacca. Sul foglio apparve un disegno a matita
che, in pochi tratti, delineava una figuretta di ragazza con alla
cintola un sacchettino: lungo il margine inferiore una frase suo-
nava come titolo.
Guardò Hans Franse negli occhi prima di leggere a voce alta:
Il pepe di Griet.
A vent’anni di distanza, realizzò che il precettore sapeva chi
era la ladra di casa ed aveva pure intuito quale fosse il suo vero
nome. La donna non chiese il motivo dell’una e dell’altra cosa:
lui sorrise.
«Sai, Greta, dovrei trovare un’altra famiglia con qualche par-
gola da educare», disse lui per spezzare il muro di silenzio cadu-
to tra loro.
«L’hai già scovata. È mia figlia», confermò la mamma di Ca-
rola, che era appena entrata nel decimo anno, «così mi potrai
pure sollevare dalle pratiche di scrittura… sono ancora una so-
mara nelle lettere, sai!».
E con il ritorno di Jan e di Hans Franse nel palazzotto, la map-
pa delle antiche memorie iniziò a sventolare sopra il tetto, a guar-
dia della dimora, su cui il tempo volò.

«Mi sento come una strana tartaruga», considerava talvolta Gre-


ta, «che deve muoversi più che svelta perché tiene sul guscio tre
figlie, un vecchio amico, un dotto signore con gli occhiali sul
naso e una fulgida infingarda con il suo Radouane».
«Mama», chiese una volta Carola, «perché chiami così Hamda?».
La madre spiegò che tra loro correva un antico patto secon-
do il quale, finché l’araba non si fosse tolta quella infingarda

184
sciarpetta per mostrare a tutti quanto fosse naturalmente bello
il suo volto anche privo del tocco di mistero, sarebbe rimasta,
tout court, la fulgida infingarda.
Hamda rideva e, in risposta, si comprava un’altra bande-
ruola di seta ricamata da aggiungere alla nutrita collezione che
possedeva.
«Carola», proseguiva la madre, «in questa casa noi siamo una
flotta invincibile in cerca di tesori, che spazia dai mari dell’Eu-
ropa alle coste d’Africa».
Di fatti, le fortune commerciali della mercantessa cresceva-
no mentre il segretario, al quale erano affidate le chiavi dei cas-
setti più riservati della casa, curava la corrispondenza anche con
le agenzie di Genova e Dieppe.
Passarono le stagioni e Greta, ancora piuttosto bella, veniva
richiesta in moglie da più d’un cittadino d’Anversa. Lei ci scher-
zava su e, con malizia, diceva al bramoso: «La mia nave ha già
un buon carico di persone e cose, resta un solo pertugio nella
stiva. Non fa certo per voi, signore, venire alloggiato in compa-
gnia dei topi».
Così il pretendente se la dava a gambe e lei poteva garantire
alla famiglia: «Resterete voi le mie uniche eredi… avete capito
bene?».
Solo, quella volta, un soggetto la spiazzò.
«Ricordo che, dopo avere ascoltato il consueto ritornello,
chiese quale parte della mia nave io fossi».
«Ma la polena», risposi mentre squarciavo la pettorina dell’a-
bito. «Ecco i capezzoli della Madonna del porto d’Anversa!».
Due delle figlie si fecero della matte risate anche se non cre-
devano che le cose fossero davvero andate così: solo la minore
rimase muta, quasi stizzita.
Greta sapeva di venire giudicata dalle sue ragazze perché non
aveva abbandonato la cattiva abitudine d’origliare alla porta quan-
do loro si trovavano, insieme, nella stanza della sorella maggiore.
Per Harriet, la più entusiasta della vita, la mama era:
«Unicaaa! L’unica in questa città a non avere peli sulla
lingua».
Abril, la taciturna, lanciava alla madre occhiate d’ammira-
zione lunghe come un’onda.

185
Mentre Carola, nel tentativo di contrastare l’esuberanza di
Greta, sembrava una diga quando s’abbassano le chiuse.
«Racconta episodi intimi», lamentava, «che nessuna signora
della sua età oserebbe rivelare neppure al proprio confessore. E
poi tutto quel pepe che mastica… sembra trovare soddisfazione
nel mostrarsi davanti a tutti sopra le righe!».
Non ha torto la ragazza, conveniva tra sé e sé la genitrice,
sono rimasta una comare di campagna.
Eh sì… la mia Carola sembra una svenevole, adorata pari-
sienne. Ma la colpa è solo mia perché, da giovinetta, l’ho condot-
ta tra i lussi dei salotti francesi e, mentre io sgobbavo, lei si face-
va incantare dalle dame preziose e, tuttora, non cessa d’imitarle.
Nel palazzotto la vita domestica scorreva quasi si trovasse
sotto un tetto di neve così clemente da proteggerlo spegnendo i
rumori in attesa della primavera.
Chissà? Forse, passato l’inverno, dal cuore di Greta, come
dalla terra, sarebbe uscito qualche nuovo e inatteso germoglio?
Evitava di darsi la risposta.
Da qualche tempo, però, Harriet, moglie di Corneille Galle,
erede della gloriosa tipografia cinquecentesca di Christoffer Plan-
tijn, le proponeva di scrivere un libro che raccontasse la sua vita.
«Figurarsi…», rispondeva lei, «io sono solo capace di fare bene i
conti, mica di scrivere! Dopo avere riempito mezzo foglio di paro-
le, mi sento già esausta. Quindi, toglietevi dalla testa il progetto!».
L’altra però, ben conoscendo la madre, le mostrava tre di-
verse liste di prezzi relativi ai costi d’una possibile pubblicazio-
ne, ben curata, in caratteri romani, corredata d’immagini e col
marchio del compasso d’oro sopra la scritta Constantia et labore.
«Mama», tentava di convincerla,«io davvero non so chi più
di te possa gloriarsi d’aver messo in atto le due parole del mot-
to, visto che a chiunque servirebbero quattro vite per compiere
quello che tu hai fatto in una sola».
«Vedi allora che non è poi un grosso affare pubblicare quat-
tro tomi con quel che al giorno d’oggi costa la stampa», rispon-
deva lei per farla finita con quelle sirene.
E la conversazione si chiudeva sempre con un abbraccio e
nulla di deciso sino a quel venerdì 12 giugno 1637.

186
Nelle prime ore del pomeriggio, Harriet giunse con tra le mani
il giornale stampato ad Amsterdam, che riportava le notizie
commerciali di tutta Europa. Quel giorno aveva un allegato
fuori serie!
Con gesti rapidi sfogliò le pagine del fascicolo, dalla prima
all’ultima, di fronte alla madre che, inforcate le lenti, ci buttò
un occhio. Ogni singolo foglio era dedicato al crollo della borsa
cittadina a seguito della speculazione sui bulbi di tulipano.
Che cosa era capitato?, si chiedeva l’articolo di fondo pren-
dendo in esame la gravissima situazione a partire dal lontano
1623. Fu a quel tempo infatti, stava leggendo Harriet, che s’arri-
vò a pagare per un bulbo di tulipano anche 1000 fiorini mentre
con 100 si poteva comprare una tonnellata di burro e otto ma-
iali grassi ne costavano 240.
«Ma nel paese erano anni d’euforia, quelli», commentò subi-
to Greta afferrando l’opuscolo per appoggiarlo in grembo. «C’e-
ra gente che, al solo udire la parola bulbo, si precipitava anche
su un cipollotto marcio di ranuncolo».
E ricordava come artigiani, insegnanti, avvocati, contadini,
sino al giorno prima persone oneste, morigerate, laboriose, co-
minciassero a dare segni di follia pur d’avere un solo bulbo. Ci
fu chi mise in vendita le proprie case e chi fece ipoteche sui mo-
lini. E chi investì il futuro nel proprio campo adatto alla colti-
vazione dei tulipani scordando come da quello stesso, tenuto a
grano o segale, avesse mantenuto sino ad allora una famiglia di
quattro o cinque persone.
Nella foga del dire l’opuscolo scivolò a terra e Harriet fu
svelta a farlo suo.
Nel comunicato di sintesi sull’immane speculazione, letto
ad alta voce dalla figlia, veniva raccontato come coloro che non
possedevano liquidità si fossero impegnati con un profluvio di
cambiali. Nel frattempo, i prezzi crescevano inesorabilmente, di
giorno in giorno, di mese in mese, da un anno all’altro. I ripe-
tuti divieti governativi contro gli insani aumenti erano aria pura
dentro quel vortice di mercato del vento. Gli speculatori vendeva-
no sulla carta la promessa d’un futuro tulipano, che chissà mai se
sarebbe fiorito, ricevendo in cambio dai compratori un pagherò,
che chissà se sarebbe stato mai onorato.

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Sotto il cielo delle terre basse si sono fatti affari su carta – scri-
veva l’articolista a grossi caratteri – Gente d’Olanda, la vostra
avidità scatenò l’inferno e ora lungo le strade di Amsterdam schie-
re di diavoli agitano sui loro forconi le vostre saccocce colme ormai
solo di vento.
Mentre ascoltava la voce di Harriet, Greta fremeva d’impa-
zienza sfiorando l’allegato quasi volesse una conferma da parte
dei propri occhi. E la figlia, dopo uno sbuffo, le passò il testo
che a chiusa riportava queste parole:
A tutt’oggi, viene da dire che gli speculatori ce l’hanno fatta in
parte a salvare le loro borse ma, intanto, i contadini sono finiti in
rovina, i commercianti tengono chiuse le botteghe e sia i borghesi
che gli aristocratici si trovano, rispettivamente, più poveri e meno
ricchi. Così la smodata avidità e la paura hanno guastato la florida
economia del nostro paese.
«E la cosa non poteva che andare così» concluse Greta, «basti
pensare che nel giro del mese di febbraio di quest’anno un Gheel
ende Root van Leyden a strisce rosse e gialle è balzato da 46 a 515
fiorini e un bulbo di Switsers giallo piumato di rosso è lievitato
da 60 a 1800 fiorini».
Madre e figlia alzarono gli occhi al soffitto allargando le
braccia intanto che i servi chiudevano le finestre per zittire un
insolito vociare proveniente dalla strada. Greta s’alzò per recu-
perare uno scialle e mentre sulla porta salutava la ragazza trovò
modo di dire: «Non per vantarmi, Harriet, ma tu devi compli-
mentarti con me che, per fiuto o istinto, mai ho voluto entrare
in quel dannato affare dei tulipani nonostante potessi mettere
sul mercato bulbi a volontà, grazie alle mie colture».

Il dì seguente, come ogni sabato, Greta era solita dedicare le


prime ore della mattina ai colloqui con i suoi collaboratori nella
sala affacciata su una porzione di giardino. In successione, per
prima riceveva la fiorista della bottega Meraviglia che con un bel
sorriso mostrava un carico di ghirlande e ornamenti ideati nel
corso della settimana.
«Ma sono identici a quelli di vent’anni fa», diceva quasi sem-
pre lei, «mentre i clienti reclamano di vedere cose nuove».
Così l’altra se n’andava con il grugno.

188
Verso la metà della mattina arrivavano i giovani architetti
con progetti di giardini per avere il parere dell’esperta e, magari,
una dichiarazione scritta che li agevolasse presso i committenti.
«Ah…», commentava lei guardando i disegni, «i maestri
francesi hanno in mente di costruire, nei parchi, fontane con
giochi d’acqua per segnalare attraverso il gorgoglio, più o meno
intenso, la distanza tra un luogo e l’altro. Loro sorprenderanno
tutti, non certamente noi se resteremo attaccati a vecchi schemi
compositivi».
Verso il mezzodì incontrava i contabili, che avevano il compi-
to di riferire le variazioni dei prezzi borsistici su coralli e avorio,
di cui Greta possedeva le licenze d’esportazione in tutta Europa.
E coi resoconti della banca in mano relazionavano anche sulle
quotazioni degli investimenti da lei effettuati. Infine, prima del
pranzo, ecco che arrivava l’ora di leggere la Gazzetta d’Anversa,
consegnata dalla fulgida infingarda. E l’araba, puntualmente, co-
glieva l’occasione di versare due lagrime pronunziando il nome di
suo figlio Radouane e della di lui moglie Abril.
«Entrambi se la passano benissimo in Italia», rispondeva re-
golarmente Greta, «perché i genovesi sono rissosi ma coi geno-
vini aggiustano poi tutto. E la mia agenzia, grazie al commercio
dei coralli, ne frutta di quelle monete!».
Poi, dopo averla fatta accomodare accanto a sé, ogni volta ri-
peteva come fosse raro trovare sulla terra un uomo e una donna
simili a Abril e Radouane. Avevano succhiato il medesimo latte
e vissuto insieme sino a scoprire, meravigliosamente, d’essere
fatti l’una per l’altro, ricevendo così il più prezioso dei doni da
parte del destino.
«La bellissima Abril», concludeva, «è la più armoniosa del-
le mie figlie». Intanto pensava che Harriet, dai capelli ramati,
doveva lottare costantemente per mantenersi in salute, e Caro-
la, sottile come un giunco, manifestava atteggiamenti sempre
scontenti nei confronti della propria vita e… di sua madre.
La fulgida, sentendosi rassicurata, iniziava lunghi discorsi
in una lingua mista di fiammingo e arabo, ben più croccante
quanto a suoni dei sapori delle false ricette di mon cher ami Jean.
Poi se n’andava lasciando Greta finalmente sola nella sala.
Ma la Gazzetta di quel dì 13 giugno aspettava d’essere letta

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dalla signora quasi per il gusto d’infliggere un colpo al cuore
della commerciante. In prima pagina, un articolo stampato a
grandi caratteri riportava commentando favorevolmente il con-
tenuto di anonimi libelli ingiuriosi, appena pubblicati, i cui ti-
toli erano:
La caduta della gran sgualdrina del giardino; ovvero la dea
contadina Flora; Il berretto del pazzo di Flora, o scene dell’anno
eccellente 1637 – quando un pazzo complottò con un altro; Il ricco
ozioso perse la sua fortuna e il saggio perse i sensi; Accusa contro i
bulbi di tulipano, pagani e turchi, commerciati da Greta d’Anver-
sa, la più ricca mercantessa della città.
Dopo avere visto nero su bianco il proprio nome, come una
furia, si diresse verso lo studiolo e spalancò la porta.
Hans Franse, sollevati gli occhi dalla pagina e deposta la
penna d’oca, fissava la furia che schiaffeggiava l’aria con la pa-
gina fresca di stampa e gridava: «Leggi, leggi, cosa osano que-
sti scribacchini che m’accusano d’essere responsabile della follia
scatenata dagli speculatori dei bulbi di tulipani!».
E invocava la censura, la chiusura dell’ignobile giornale, la
testa del compilatore, dello stampatore, del gazzettiere, minac-
ciando querele e reclamando giustizia per diffamazione.
«Da vent’anni, Hans Franse, in questa città io faccio giar-
dini, creo ghirlande e festoni e commercio solo semi di fiori…
anzi, facevo, visto che ora sono a riposo e controllo solo la schie-
ra dei miei noiosi dipendenti».
Il segretario, intanto, esaminava l’articolo e, nel tentativo di
calmarla, diceva che attorno alla dea Flora erano sorte, già in
epoca romana, leggende secondo cui, nei giorni di primavera a
lei dedicati, uomini e donne si concedevano licenze sessuali…
innominabili!
«Innominabile è l’autore di questa infamia», sbraitava lei,
«ma non finirà qui!».
E giurò che nel prossimo numero della Gazzetta avrebbe ri-
sposto per le rime alle accuse e al dileggio, raccontando come
s’era davvero scatenato l’inferno degli acquisti.
Poi, raggiunta la finestra, rimase in silenzio dentro un vol-
teggio d’aria, carico di granelli di crusca che lievemente s’appog-
giavano sui suoi capelli mischiandosi ai fili d’argento.

190
Dopo un lasso di tempo, disse al segretario: «E tu scrive-
rai l’articolo a mia difesa spiegando tutto questo, vero Hans
Franse?».
Verso la metà pomeriggio, arrivarono nel palazzotto Harriet
in compagnia del marito Corneille Galle, con un seguito di fab-
bri e un carico di ferri collocati su un carretto. Senza neanche
chiedere il permesso alla padrona di casa, diedero ordine agli
artigiani di sbarrare le finestre.
Greta, avvertiti dei rumori, scese dalla propria stanza da letto
e, visto quel tal bailamme di lavori, esclamò: «Mi state metten-
do in prigione? Cos’ho mai fatto per meritarmi…».
Non riuscì a terminare la frase ché il vetro della bifora, cen-
trato da un sasso, colpì in pieno volto un chiodaiolo mentre gli
altri, corsi sulla strada, vennero alle mani con un gruppo di uo-
mini inferociti. S’udirono insulti rivolti alla commerciante dei
fiori pagani e turchi, che venne messa alla berlina simulando le
mosse sguaiate delle donne di malaffare.
La folla come un sol uomo a gran voce minacciava: «Trova il
coraggio di mostrarti, maledetta, che noi della tua faccia faremo
una bella ghirlanda».
La signora, senza muovere un muscolo del viso, diede ordine
ai servi di correre nella dispensa e mettere fuori dalla porta una
fila di fiaschi di vino e birra in quantità, ad uso della bella com-
pagnia. Poi si sedette in attesa che quei poveracci vendessero la
loro rabbia in cambio d’una bevuta. Nella casa si cominciarono
a udire un vociare diverso e un diverso rumore di passi mentre
gli artigiani, una volta rientrati, riferirono come bottiglie e fia-
schi avessero preso il volo in men che non si dica.
Corneille Galle avvolse con il braccio le spalle di Greta che
osservava i servi spauriti, le mani della fulgida infingarda raccol-
te sul viso e mon cher ami Jean che stringeva un coltello, pronto
a tutto.
Nella grande sala vibrava la tensione accentuata dai mar-
tellamenti dei fabbri attorno agli stipiti delle finestre che, rim-
bombando da un muro all’altro, crearono uno scompenso in
Harriet. Cadde al suolo, in preda a convulsioni che squassavano
il corpo mentre la madre le rimetteva a posto la lingua, arroto-
latasi all’interno della bocca, perché potesse respirare.

191
«Si tratta della malattia di cui soffriva anche il sommo Ce-
sare», diagnosticava poco opportunamente Hans Franse, subito
fulminato dallo sguardo di Greta.
Durante la restante parte del giorno nessuno tra i presenti
abbandonò la casa nel timore di un nuovo assalto. Corneille
Galle sull’imbrunire decise di recarsi dal borgomastro per chie-
dere che il palazzotto venisse sorvegliato dalle guardie. Dopo
avere ricevuto una piena rassicurazione, con estrema cautela si
rimise in strada.
Madre e figlia si coricarono insieme e, per darsi conforto, alla
luce delle candele del doppiere pescarono i più dolci dei loro ri-
cordi che, come un drappo di soffice lana, scaldavano il cuore.
D’improvviso Harriet, sollevato il busto, sedette sul letto e
chiese: «Perché nel corso di questi lunghi anni non mi hai mai
parlato di Sebastian lo spagnolo? Mia sorella Abril è figlia del
fuoco, Carola piange tuo marito Augustin, mentre io mi sveglio
di soprassalto pronunciando il nome d’un padre fantasma, che
tu non hai mai più incontrato».
Greta alzò lentamente la mano destra e, avvicinando l’indice
al naso, fece ben capire che non era il momento di dare la spie-
gazione richiesta. Harriet, contrariata ma ubbidiente, non insi-
stette… e si rimise sdraiata sul letto voltando ostentatamente le
spalle alla madre.
Dalla sala salivano, sopiti, i rumori delle secchiate d’acqua
gettate dai servi per lavare il pavimento: era lo stesso ciaf che
faceva l’onda contro il fianco della nave la notte lontana in cui
Harriet volle venire al mondo prima del tempo.

Sulla rotta che, trentasette anni fa, da Tangeri portava Greta ad


Anversa, alla gravida s’aprirono le acque e nelle mani di Hamda,
pronte ad accoglierlo, scivolò il corpicino della creatura. Il me-
dico di bordo, dopo avere visto una settimina tanto minuscola,
scosse la testa e la mamma si rese conto che il destino le avrebbe
solo concesso, una volta sbarcata, di seppellire un niente d’ossa
e pelle. Invece, durante il viaggio, le gambette della piccola, due
stecchi di vimine, non cessarono di muoversi assecondando il
rollio della nave come fosse una ninna nanna cantata dalle onde
in onore della sopravvissuta.

192
Con dolcezza, la madre sfiorò il corpo di Harriet. L’altra ac-
colse il tocco volgendo il viso, zebrato dalla luce delle cande-
le che parvero infastidire i suoi occhi al punto da costringerla
ad alzarsi per soffiare sul doppiere. La stanza venne avvolta dal
buio. E Greta rivide la tuga del galeone Raissa e Sebastian co-
ricato accanto a lei, svegliato dalla luce entrata dallo sfiatatoio.
Con la mano intatta si parava le palpebre, quasi sorpreso di tro-
varsi in alto mare, ancora ignaro d’avere dato la vita al sangue
del suo sangue.
Padre e figlia s’assomigliavano come due fiori della notte,
che concedono i loro misteri solo a chi ama le ombre: entrambi
fieri della propria bellezza e della propria stranezza. Della sua
strana malattia, ignota ai luminari dell’arte medica, Harriet ave-
va fatto un punto di forza. Altro che soccombere alle crisi, al
tremito, a quel temporaneo abbandono delle normali funzio-
ni del corpo e della mente! Così come il brabantino spagnolo
riusciva a far dimenticare le proprie dita perdute e imputridite
chissà mai dove.
E, con uno slancio improvviso, Greta strinse a sé il capo del-
la più coraggiosa e fragile delle sue ragazze allagandolo di baci
come l’acqua inonda la terra quando non incontra le dighe.
Poi nell’oscurità: «Tu sei figlia della notte e dell’oceano»,
sussurrò.

Il giorno seguente, di domenica, le guardie municipali agitaro-


no il batacchio del palazzotto sventolando il mandato d’arresto
immediato della cittadina d’Anversa ivi residente, con regolare
firma del giudice in calce all’atto.
«La speculazione della sopraddetta mercante», recitava l’impu-
tazione, «ha concorso a creare nell’arco del tempo un abnorme ap-
prezzamento dei bulbi di tulipani deliberandone poi con frode il
crollo, destinato a sovvertire l’ordine e la disciplina di mercato, che
da sempre governano il commercio delle Province Unite».
La donna chiese tempo per raccogliere le robe da portare in
cella, mentre quelli di casa restavano increduli e sgomenti nel
silenzio più totale. Il primo a rompere quel mortorio fu Hans
Franse. Con lucidità degna d’un retore da tribunale, conside-
rava Greta vittima di una macchinazione, un complotto ordito

193
da mercanti, carichi d’invidia per le sue fortune. Il borgoma-
stro d’Anversa, secondo lui, nell’intento di mostrare che nella
sua città non esistevano cittadini privilegiati di fronte alla legge,
aveva individuato in lei il capro espiatorio da offrire in pasto al
popolo inferocito.
«O tempora, o mores!», salmodiava, «sotto questa spada di
Damocle corre ben il rischio di finire deportata oltre oceano
nell’isolotto della Nieuw Amsterdam, se non si interpellano su-
bito i migliori avvocati della città».
All’uscita della propria dimora, la commerciante vide una
folla di uomini insultanti mentre le donne scagliavano gambi di
fiori marci, manciate di terra e sputi, che imbrattarono la candi-
da pettorina dell’abito vedovile.
Il buon nome e la fama della famiglia Galle-Plantijn furono
solo in grado di consentire a Greta d’essere messa da sola in una
cella. Poteva altresì ricevere, fuori dagli orari previsti, sia gli av-
vocati incaricati della sua difesa nel processo preannunciato in
tempi più che rapidi sia i familiari.
La figlia, che le faceva visita ogni giorno, sempre chiedeva se
fosse disposta a raccontare la propria vita: «Vuoi scommettere,
mama, che anche questo libro diventerà un successo come le al-
tre imprese della tua straordinaria esistenza?».
La madre, però, rimaneva sulle sue, senza dare risposta sino
a quando, a sorpresa, un giorno disse: «Ora basta! Se tu e tuo
marito volete cacciare all’aria dei bei fiorini, saranno poi fatti
vostri! Chiedi a Hans Franse di venire domani in carcere con
carta e penna che s’inizia a lavorare. Mi annoio a morte qua
dentro!».
Quindi Harriet la vide ridere e fu quella la prima volta dac-
ché venne chiusa nella prigione.
Qualche settimana dopo un distinto quanto attempato si-
gnore, introdotto dal direttore, fece il suo ingresso nella cella
della reclusa più famosa d’Anversa.
Era il dottor Adriaen Pauw, il più famoso collezionista di
tulipani, nonché uno dei signori della Compagnia olandese delle
Indie orientali.
«Stento a credere ai miei occhi! Voi che m’onorate d’una vi-
sita!», esclamò Greta.

194
Si strinsero la mano con calore e, uno di fronte all’altra, ne
avevano dei comuni ricordi da rinverdire! Tra parole, sorrisi e
qualche lacrima da parte della donna, celebrarono colui che in-
trodusse nelle terre basse il tulipano: il botanico Carolus Clu-
sius ritornò a essere vivo e vegeto tra le pareti d’una galera.
«La prima volta che vidi Carolus nel giardino degli eredi
dell’editore Christoffer Plantijn», diceva lei, «pensai fosse uno
zappatore vecchio e stanco, tanto appariva dimesso».
«E lui come v’accolse?», domandò il dottore.
Con il ricordo che sfumava in un sorriso all’angolo delle lab-
bra, Greta raccontò che la trattò malissimo e pretese di vederla
con un paio di stivali al posto dei sublimi tacchi rossi con cui
s’era presentata per fare bella figura.
«Però imparaste presto a riconoscere quel tulipano bianco
con fiammate ininterrotte rosso carminio sul fondo azzurro fino
all’apice».
«Il Semper Augustus!», e alzò gli occhi al soffitto la giardinie-
ra, «Carolus lo riteneva il fiore più bello del mondo».
Parve inseguire un’immagine e concluse: «Mi basta pronun-
ziare quel nome così solenne che mi sento felice anche se mi
trovo carcerata».
Lo stesso Pauw, sotto la guida di Carolus, divenne, nel tem-
po libero, un appassionato coltivatore di tulipani. Nella sua pro-
prietà di Heemstede, vicino a Haarlem, Greta vide l’unica doz-
zina di esemplari esistenti del re delle aiuole.
«Ora, signore, posso anche confessarvi la verità. Quando
ammirai la fioritura dei vostri tulipani, moltiplicati per l’effetto
del gazebo di specchi, m’afferrò l’impulso di rubarveli, di notte,
e davvero tutti».
L’altro sorrise. Poi ricordò il saggio Clusius mentre ai vivai-
sti, rimasti senza fiato di fronte al Semper Augustus, raccoman-
dava di emettere profondi respiri per non consentire alla mente
d’annullarsi in quelle fiammate di colori. Pareva che la mano
ferma del pittore le avesse disegnate con un pennello sottile
su un corpo vegetale all’apparenza fragile, in realtà robusto al
tatto.
«Dottor Pauw, quali sono, a vostro giudizio, i motivi che
hanno fatto toccare a un Semper Augustus la quotazione di

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120.000 fiorini? Come ha potuto un tulipano scatenare nella
nostra terra questa febbre?».
Lui indicò le tre cause segnalate dal grande Clusius, su cui
insieme ragionarono, profetizzando l’avvenire del fiore. La no-
vità del vegetale, venuto dall’Asia e particolarmente amato dai
califfi di Baghdad e dai sovrani turchi, che profumava di ser-
raglio e di fantasie esotiche. La bellezza dei suoi colori, saturi,
brillanti, più intensi di qualsiasi altro, che con forza colpirono
l’immaginazione di gente abituata a cieli grigi, panorami spenti
tra terra e acque, e alle vesti dalla tinta uniforme. Infine, la sua
inutilità. Né gli erboristi, né i farmacisti e nemmeno i cuochi,
nonostante ogni loro sforzo, riuscirono mai a cavare da quel
bulbo un olio, un’essenza o un qualcosa da consumare sulle ta-
vole. Il tulipano era la pura, algida bellezza che ogni amante di
giardini voleva rimirare nelle sue aiuole!
«Il lusso di possedere il fiore», convenne Pauw, «fu più attrat-
tivo di qualsiasi guadagno e il signor, mijnheer Tulip, divenne
il calvinista di maggior successo dell’intero paese perché tutti,
ogni tanto, amano avere qualcosa d’unico per sentirsi famosi».
Intanto nel vestibolo del carcere, accanto alla guardia, il
povero Hans Franse batteva i piedi per l’impazienza. Giunto,
come ogni dì, puntuale all’incontro con la donna dalle cui me-
morie doveva prendere forma la storia della sua vita, dopo una
troppo lunga attesa si rassegnò a tornare a casa.
Greta e Adriaen continuarono a parlare per l’intera mattina
sino a toccare il commercio dell’avorio gestito dalla mercante,
che si teneva nel porto di Dieppe.
«Andai là per sottopormi a una cura dentistica», raccontò lei
innanzi a un più che attento Pauw.
E sorrideva ricordando quella lontana avventura durante un
soggiorno che la vide, per mesi, un giorno seduta a bocca aperta
davanti a un medico e quello dopo a trattare affari con i mer-
canti d’avorio, proveniente dalla Guinea, senza mai poter par-
lare ma solo scrivere su un foglio di carta i propri intendimenti.
Alla carcerata, verso il mezzodì, fu portata una zuppa di le-
gumi dentro la ciotola di latta in uso nella prigione. Lei la la-
sciò raffreddare mentre precisava che solo anni dopo riuscì a
diventare l’unica titolare del commercio di faccette d’avorio, sa-

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gomate dagli specialisti di Dieppe con l’unico scopo della rico-
struzione dei denti. Così vide la luce la sua filiale francese che,
al presente, era controllata in sito dalla figlia Carola insieme al
marito Aurelien.
Inghiottì un cucchiaio di brodo, poi, cambiando radical-
mente argomento, disse: «Per tornare alle ingiuste accuse rivolte
alla mia persona, tengo a dire a voi, soprattutto a voi, che non
sono mai entrata nel commercio del vento, della carta straccia o di
quei dannati pagherò. Io ho venduto solo semi di fiori, ghirlande
e allestimenti di giardini seguendo un’unica regola: denaro con-
tante per merce vera».
Dopo un silenzio meditabondo il dottor Pauw confessò di
sentirsi colpevole d’aver scatenato, quasi senza rendersene con-
to, la corsa che diede origine alla follia speculativa. Tempestato
d’offerte sempre più esorbitanti per i suoi rari esemplari Adria-
en, intenzionato a non vendere, ci giocò sopra come un padro-
ne che scherza con il suo cucciolo alzando un pezzo di carne
sino a quando l’animale per agguantarlo si spezza le gambe. E
centinaia di arti umani si ruppero nel retro delle locande at-
torno a Harleem. Lì, ogni giovedì, si teneva l’asta dei bulbi. Il
banditore, incaricato di stabilire il prezzo, veniva nominato da-
gli speculatori e agli interessati all’acquisto era data una piccola
lavagna su cui dovevano segnare l’offerta con un gesso. Così s’a-
priva la gara al rialzo sotto una pioggia di foglietti di pagherò e
in quel carnevale, tra bottiglie vuote di birra e vino, il più matto
era eletto re della serata.
«Dopo essere uscito dalla vostra cella, signora», promise
Pauw già in piedi, «andrò dal borgomastro e mi spenderò a vo-
stro favore».
Mentre era sull’uscio Greta volle aggiungere:
«Signore, dopo avere meditato sulla follia degli uomini in
generale, arrivo a pensare che il desiderio più grande delle per-
sone sia quello di venire ingannate… ingannate dalla religione,
dall’amore, dalla speranza e… perché no?… pure da un bulbo
di tulipano».
L’altro rimase perplesso.
Nel corso della settimana successiva, gli avvocati mostraro-
no al giudice i libri contabili della mercante relativi all’attività

197
svolta nell’arco degli ultimi vent’anni nella città. Tutti tenuti in
perfetto ordine, non registravano alcuna voce che riguardasse
la compravendita di bulbi, ma soltanto un regolare commercio
di semi di piante e fiori esotici. Di conseguenza, venne ema-
nata una sentenza di piena assoluzione che comportò l’imme-
diata uscita dal carcere della reclusa. A conclusione del dettato,
apparve una nota di merito nei confronti della suddetta Greta
d’Anversa che lei né volle leggere né ascoltare.

198
Giochi di specchio

N el palazzotto ripresero la vita ordinaria e gli incontri quo-


tidiani tra Greta e il segretario-scriba: lei a occhi chiusi,
distesa su un divano della sala, masticando granelli di pepe sol-
levava ricordi che lui raccoglieva in forma di frasi.
Ma in quel giorno di pallido sole, una folata di vento bat-
té i vetri della finestra intanto che un servente annunciava alla
padrona la visita d’un signore svedese presentatosi come il ca-
pitano Gunnar.
Allora è ancora al mondo, disse col pensiero lei correndo da-
vanti alla specchiera vicino al camino per aggiustarsi i capelli e
controllare l’intera persona. Dietro le sue spalle, la lastra riflet-
teva Hamda con le mani sulla testa, quasi volesse avvertirla di
qualcosa. Troppo tardi. L’araba era sparita e lo specchio riman-
dò i passi e il viso del brabantino spagnolo, che s’arrendeva ai
lineamenti dell’uomo già vecchio.
«Cosa ci fai qui, Sebastian?», gli domandò senza voltarsi.
«Ho saputo che hai fatto fortuna. E, quando sei stata carce-
rata e rischiavi una grave condanna, pensai di rivederti… ero a
conoscenza di come trovare la nostra figlia e lei…
Quell’intrigante di Harriet!, pensò Greta.
«Invece, mi trovi viva e vegeta dentro casa mia. Forse, sei tu
quello che necessita di soccorso. Dimmi che vuoi!».
L’uomo incespicava sulle parole come si trovasse su un ter-
reno infido. Lei seguiva un fiotto di luce riflesso, entrato dal-
la finestra, che scherzava tra i capelli dello spagnolo: piuttosto
lunghi, scoloriti dal sole e con ciocche bianche che ricordavano
il colore della cresta dell’onda prima d’infrangersi sulla sabbia.
Lui ebbe un indugio prima di rivelare che Gamila pagò con
la vita il prezzo d’appartenere al popolo druso; l’olandese, inve-
ce, venne trovato con un cappio al collo, appeso all’albero blu e
la seggiola, sotto, era ribaltata.
Sono tutti spariti, sospirò Greta. Chissà se l’aria da dome-
nica che, trentasette anni fa, vibrava su Tangeri continuasse a
spandere allegria?!
Lo spagnolo, intanto, lentamente s’avvicinava alle spalle del-
la donna e, fatti altri piccoli passi, si trovò a una distanza tale da
permettergli di sfiorarne la veste e, quasi la stava toccando, se non
che ritrasse la mano. Emise un respiro così profondo che appannò
un angolo del vetro mentre raccontava d’essere entrato in svaria-
ti commerci ora in un porto, ora in un altro. E stava per riferire
d’un buon affare relativo alla licenza d’esportazione dei semi di
cacao, provenienti dal Venezuela, quando Greta lo interruppe.
«Sebastian, mi stai chiedendo un posto di lavoro nelle mie
aziende dopo avere girovagato vanamente lungo i porti a racco-
gliere chiacchiere?».
«Il brabantino vaga di luogo in luogo, me lo raccontasti tu
sul galeone svedese…, ricordi?».
«Non m’incanti, è roba vecchia la tua commedia. Sveglia,
spagnolo, che il mondo gira e tu resti fermo! Le Fiandre e il
Brabante non fanno più storia. Questo è il secolo d’oro dell’O-
landa. Anversa è morta e il porto d’Amsterdam tocca le stelle».
E lo colpì con uno sguardo drizzato d’odio, di superiorità
e di spregio mentre l’indice, riflesso dalla specchiera, indicava
la porta. Lui sollevò il braccio a difesa. I gesti d’entrambi si so-
prapposero nella lastra e l’uomo si confuse. In quell’istante, nel-
la sala entrò la fulgida infingarda che in lingua araba gli intimò
d’andare via.
La donna franò sul divano esausta.
«Hamda, ora ascolterai i sentimenti che ho provato per lo
spagnolo nel corso della mia vita», disse.

200
L’altra sorrise. Gli anni avevano guastato ogni bellezza del
suo viso. Solo la sciarpa ricamata anzi le sue trenta banderuole,
una per ogni giorno del mese, mantenevano una loro ostinata
grazia.
Nella mente di Greta correvano parole quali paura, attra-
zione, desiderio, fascinazione, passione, e stupore e sgomento e
pietà. Tutti questi moti del cuore aveva risvegliato in lei Seba-
stian a partire dal primo sino all’ultimo dei loro incontri.
«Farei prima a dire amore, che li comprende tutti», concluse
a voce alta.
In casa, nessuno nei giorni successivi accennò a quell’incon-
tro… come se mai fosse avvenuto. Anche la garrula Harriet, di
sicuro informata del fatto, si mantenne muta.

Nei primi giorni d’agosto, la mercante continuava a svegliarsi


con un pensiero fisso.
Da alcuni mesi non aveva notizie di Pieter Paul Rubens, a
parte due biglietti. Nel primo, ricevuto nei giorni di prigionia,
il pittore esprimeva il suo rammarico e piena solidarietà chie-
dendole in che cosa potesse favorirla. Nel secondo, si dichiara-
va felice d’avere appreso la completa risoluzione dell’incresciosa
vicenda a lei capitata.
Così risolvette di fargli visita, visto che la cosa non compor-
tava alcuna difficoltà e, tanto meno, alcun preliminare di cor-
tesia. Si fece carina scegliendo il cappello con le piume grigie,
che le donava particolarmente, e indossò gli orecchini di dia-
manti, tagliati dal migliore artigiano della città prima che co-
stui, al pari di molti altri colleghi, trasferisse la propria attività
in Amsterdam.
La dimora del pittore, una piccola reggia nel cuore d’Anver-
sa, era stata pensata, progettata e allestita nel corso degli anni.
Pareva d’entrare in un tempio che accoglieva il visitatore con le
statue di Minerva e Mercurio, poste sopra il portico d’ingres-
so. L’interno dell’edificio celebrava il gusto europeo nella grazia
sontuosa degli arredi francesi e quella solidità dei muri dentro
cui i popoli germanici si sentono a proprio agio.
Il giardino dall’impianto geometrico, che ora Greta stava at-
traversando, era nato dalle sue proprie mani. Le venne commis-

201
sionatole da Rubens quando era l’artista di corte degli arciduchi
Alberto e Isabella, governatori dei Paesi Bassi, e ricopriva il ruo-
lo d’ambasciatore europeo.
Dapprima lei pensò di realizzare una sorta di cupa foresta,
un tratto di natura selvaggia, primitiva e magica, dove s’imma-
ginava che gli animali visti nelle tele di Rubens potessero libe-
ramente circolare. Ma la prima moglie dell’artista si oppose al
progetto con ferma dolcezza.
«Vedrai che con la pergola di rose, sostenuta da sileni e ninfe,
accontento la signora», disse tra sé, un po’ delusa, la giardiniera
sognatrice.
Nelle aiuole tra ornamenti rustici, intervallati da gazebi, semi-
nò una profusione di gerani, tulipani monocolori, crochi e l’ama-
ranto viola tra cui passeggiavano i pavoni, predatori di fiori.
E poi pensò all’arancio amaro e al paesaggio italiano…

In Italia, nella terra dove crescono gli agrumi, aveva rivisto Ru-
bens molti anni prima. Entrambi si trovavano a Genova. Il pit-
tore era stato chiamato dal marchese Niccolò Pallavicino, che
gli aveva commissionato una pala d’altare per farne dono alla
chiesa di Sant’Ambrogio. La mercante era in loco per incontra-
re i Lomellini, con cui spartiva gli utili derivati dalla pesca dei
coralli dell’isola di Tabraca.
Fu lei a presentarsi al giovane artista nel corso d’un ricevi-
mento proprio a casa Lomellini, sita nella strada dei palazzi rossi
e bianchi della città. E Rubens si ricordò di quella Maria d’An-
versa, che invece si chiamava Greta.
Nel corso del soggiorno in onore degli ospiti stranieri ven-
ne offerta dai signori Doria una visita all’abbazia di San Frut-
tuoso, possesso della famiglia genovese sin dal 1200. Agli occhi
della fiamminga s’aprirono le meraviglie del chiostro che ospi-
tava le tombe dei Doria. In preda alla commozione, Rubens
toccava la pietra di Genova, l’ardesia, e il marmo di Pisa che
con strisce nere e bianche rivestivano le arche. Come se le due
città, un tempo acerrime rivali, avessero trovato nel sonno infi-
nito dei valorosi uomini di mare un’eterna pace. Sottili colonne
consolidavano le volte del chiostro con capitelli rovesciati, posti
alla base dei leggeri pilastri, di cui uno era a forma di polena. I

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materiali, le bellissime trifore, i manufatti decorati con misteri
orientali e bizantini rendevano il luogo, cui si giungeva solo via
mare, il fulcro della Storia del Mediterraneo.
In attesa di risalire sull’imbarcazione che avrebbe riportato
la degna compagnia in città, venne concesso ai signori in visita
una passeggiata in assoluta libertà. La compagnia del pittore era
contesa da tutti i presenti ma lui, con qualche garbata parola,
s’avviò con Greta. Sostarono nei pressi d’una lingua di spiaggia
e lei, ricordando spavaldamente con le figlie quei momenti, tal-
volta diceva che Rubens le aveva sfiorato la mano, talvolta che
si erano baciati all’interno d’una grotta e accanto a una fragile
barca, talvolta negava tutto affermando che era stato solo un so-
gno o, magari, un desiderio.

Il valletto che la introdusse nel vestibolo della dimora disse che


il maestro era convalescente a seguito di acuti e ripetuti attacchi
di gotta. Ma ugualmente l’artista la ricevette.
Coricato nel letto, sotto il baldacchino, appariva pallido e
provato. Provò a sollevare il dorso dai cuscini e a tendere verso
di lei una mano, che stancamente ricadde su un drappo in vel-
luto rosso.
«La malattia mi sta aggredendo», disse.
La donna ebbe un brivido ma sviò l’emozione consigliando-
gli una infusione a base di colchico, che gli avrebbe spento le
infiammazioni ai reni.
L’altro sorrise.
Greta, colta da sgomento, rivolse lo sguardo verso i quadri ap-
pesi lungo la parete per cercare conforto nel mondo degli affetti
raccontato da Rubens. Accanto alla finestra, la tela che mostrava
il pittore e la giovanissima moglie Isabelle Brant, nel giorno del
loro matrimonio: entrambi seduti sotto la chioma del caprifoglio
con la mano di lei appoggiata a quella di lui. Sembrava che nella
stanza il profumo della pianta e di quel dì persistessero insieme al
sapore dolce rilasciato sul palato dal fiore, dopo averlo succhiato.
Invece, erano i flaconcini ben allineati di essenze medicamentose
che impregnavano l’aria d’aromi a ricordare la vita, la malattia e
la morte. La perdita in giovane età di Clara Serena, la figlia ama-
tissima, che ancora sorrideva dal suo piccolo ritratto.

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Sulla parete, alla sinistra del letto, l’immagine della seconda
moglie, Hélène Fourment, raffigurata nella ricca veste da sposa,
che osservava il suo signore ora adagiato sui drappi. E, non di-
stante, il cavalletto su cui stava appoggiato l’ultimo Autoritratto
con la veste e il cappello neri e una candida, vaporosa gorgiera.
Dal dipinto usciva uno sguardo severo, quasi distaccato, e la
mano destra era fasciata da un guanto.
«Maestro», provò a dirgli, «in questa dimora avete cento ar-
tisti pronti ad afferrare i pennelli e il vostro segretario Deodatus
van den Berg è un uomo devoto. La vostra bottega non si ferma».
«Sì», e il tono di voce s’affievolì mentre lui si poneva in dia-
gonale lungo il letto per sopire, forse, un dolore al fianco me-
diante un lento cambio di posizione.
«I giovani sono già all’opera per dipingere le scene mitologi-
che da inviare nel castello della caccia del sovrano di Spagna, a
Torre della Parada».
Greta ripensò alla forza delle opere in cui Rubens afferrava
i corpi degli eroi e dei santi per dare vita a bellezze turbinose e
a nudi di donne, glorificati nella loro realtà carnale e sublime,
colti nell’intensità dei movimenti, in un sottile gioco di luci e
colori tra lo splendore delle corazze, delle vesti e delle carni. Poi
con lentezza avvicinò il capo a quello del pittore, riverso come
un Sansone privo di possanza su un drappo rosso, per riferire gli
omaggi da parte di sua figlia Harriet. E l’artista, prima d’asso-
pirsi, chiese se fosse ancora così bella come la ragazza dai riccioli
biondi scompigliati che gli fece da modella per il volto dell’an-
gelo dell’Annunciazione dipinta vent’anni prima. Convinta che
non potesse udirla bisbigliò: «Signore, voi siete immenso. Io vi
ho sognato a distanza e quando mi sono avvicinata alla vostra
persona ho fatto un passo indietro, piena di spavento, come
Maria davanti all’Angelo annunciatore».
Senza far rumore, se ne stava andando quando un soffio di
voce le portò all’orecchio: «A San Fruttuoso…».
Di nuovo accanto al letto colse il completamento della frase:
«Era il tempo dei nostri ghiribizzi… ricordate?».
Lei di quel giorno rammentava il sapore di melagrana sulle
proprie labbra.

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Quella sera, al tempo in cui le giornate erano meno luminose
e già calava il freddo, Hans Franse depose la penna d’oca con
cui aveva scritto il racconto della vita di Greta. Mentre scorre-
va i fogli, si pentì di non avere usato un calamo con le piume
di corvo che avrebbero rilasciato sulla carta un segno più sottile
e raffinato. Andò a dormire con questo cruccio ma, la mattina
seguente, fu contento d’avere vergato quei tratti energici al pari
della protagonista.
Harriet propose alla madre varie incisioni per ornare la co-
pertina ma tutte lasciavano insoddisfatta l’interessata e vennero
scartate.
Perché mia figlia, disse col pensiero, non ci prova con un
disegno di Rubens per sentirsi finalmente dire un bel sì? Devo
sempre suggerire tutto io in questa casa!
Propose che il testo fosse letto in bozze davanti alla famiglia
riunita e si dovettero aspettare due mesi per consentire a Abril e
Radouane il ritorno da Genova e a Carola e Aurelien da Dieppe.
Verso la metà di dicembre nelle prime ore d’un sabato po-
meriggio, erano tutti raccolti nella sala.
A sorpresa, mon cher ami Jean portò un bricco fumante di
cioccolata da versare nelle tazze di ceramica blu di Delft. Fu
allora che Greta, rivolgendo un lungo sguardo verso Harriet,
annunciò che sarebbe entrata nel mercato dei semi di cacao,
provenienti dal Venezuela, e aperto una nuova agenzia commer-
ciale ad Amsterdam.
«Dove tutto diventa oro nel secolo dell’oro olandese», disse
tendendo, di scatto, il braccio verso il vuoto con la mano aper-
ta per poi riportarla a sé lentamente con il pugno chiuso quasi
avesse agguantato la sala, gli oggetti, le persone e, per intero, il
porto di Amsterdam.
Il gesto da animale rapace, scaturito d’istinto, fu ripreso di
squincio dalla specchiera che ne duplicò la forza facendo correre
un brivido nel corpo dei presenti tanto che Carola balzò in piedi
come se fosse stata punta da un insetto.
Calmati!, le fece intendere la madre con un cenno prima
di dire: «Qui siamo a casa mia, non all’hôtel de Rambouil-
let». Guardando Abril aggiunse: «M’accingo a fare una cosa
nuova, anzi vecchia in quanto, ricordate, quello del mercante

205
è il mestiere più antico del mondo e, insieme, sempre il più
giovane».
Poi, girato il capo verso la teca in vetro che ospitava un ramo
di corallo a ricordo di Costantino, si rivolse a tutti. Promise di
onorare il suo grande amico chiamando le Costantine quelle pra-
line di cacao, spruzzate con la polvere d’ambra grigia, che presto
sarebbero venute alla luce.
L’emozione le stringeva la gola come un groppo ma, prima
d’arrendersi a quell’onda, riuscì a pronunciare: «Adesso starò
zitta, diversamente sembra che anch’io m’accinga a raggiungere
i miei cari defunti oppure stia per fare testamento».
S’accomodò sul divano, senza scordare di porre accanto a sé
una ciotola di granelli di pepe, che prese a inghiottire con foga
uno dopo l’altro.
Appariva tesa con le labbra lievemente contratte per la pau-
ra di non farcela ad ascoltare sino alla fine il racconto di cin-
quant’anni della propria vita.
Memorie, amore, passioni; fortuna e sventure; la povertà e
nuovi denti per masticare la ricchezza; le persone da lei salvate
o mandate in rovina: la verità nuda e cruda sarebbe uscita dalle
pagine, senza il velo del pudore, come se fosse scritta, nero su
bianco, sopra un lenzuolo steso al sole.
Intanto al centro della sala l’antico precettore reclamava l’at-
tenzione da parte dei presenti.
E la specchiera rifletteva Hans Franse che con tutti i fogli
nella mano sinistra, agguantò con due dita della destra il primo
e nel silenzio generale cominciò la lettura:
Verso la mezza mattina d’un giorno di settembre del 1583, in un
borgo delle Fiandre, una vecchia dal corpo enorme schiuse la porta.
«Siete voi Brechtje Jansdochter, la cucitrice?».

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2014
presso Global Print (Gorgonzola - Milano)

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