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Relazione Peschiera 2010

Angela Nava

Insieme ad un anno dal nostro incontro di Firenze per definire i nostri obiettivi, la progettualità
che metteremo in campo, per fare un bilancio delle attività svolte. Ma credo anche, in un
momento come quello che stiamo vivendo per ri‐orientarci insieme, per ritrovare una bussola
affidabile in un momento di grande incertezza, per uscire insieme dalla solitudine che a volte ci fa
sentire ridotti all’angolo del ring e, perché no, per uscire dalla sindrome di minoranza perdente.
“Riorganizzare la speranza” è stato detto ed io credo che in questo senso il CGD abbia ancora
molto da dire e da fare.
Nel giro di dieci anni la nostra società ha subito profondi processi di trasformazione. Il processo di
individualizzazione che osserviamo sotto i nostri occhi è l’esito di un mutamento profondo delle
condizioni di vita (basti pensare al rapporto inedito tra tempo di lavoro e tempo di vita dei nostri
giorni). I tradizionali legami di appartenenza si sono allentati e questo rende molto più complessa
la lettura dei processi in corso. Sembra di osservare tante storie individuali; forse questa
individualizzazione ha delle potenzialità positive (la ricerca di nuovi legami, di relazioni di senso)
ma nello stesso tempo ha mostrato una forte subalternità alle tendenze del mercato.
Individualizzazione e conformismo riescono a coesistere presentandosi come un panorama
frammentato. La crisi dei legami tradizionali accentua l’incertezza, le paure, logora la fiducia nelle
istituzioni e nella politica. La precarietà è percepita come paura diffusa. Sappiamo di vivere in un
mondo dominato dall’insicurezza, dalla paura: l’ideologia della sicurezza come bene primario da
salvaguardare in uno stato d’emergenza planetario può diventare criterio per giustificare ogni
genere di limitazione dei diritti fondamentali e autorizzare o non suscitare lo sdegno dovuto
rispetto a comportamenti e situazioni rispetto alle quali sembra inutile appellarsi alla legalità e alla
Costituzione. Forse la politica, con grave ritardo, inizia a percepire la gravità di questa lacerazione
e avverte il bisogno di un profondo rinnovamento. A tutto campo. Troppo presto per poter dire se
la risposta sarà all’altezza delle domande espresse ed implicite.
La giornata di domani sarà dedicata all’analisi della riforma della scuola nei suoi vari ordini: se è
però individuabile un filo rosso che tiene insieme un disegno complessivo (non certo una riforma e
tanto meno una riforma che si autodefinisce epocale), questo va rintracciato nella parola d’ordine
: torniamo a prima del ’68! Spartiacque di ogni orrore sinistro. Siamo a volte indifesi rispetto ad
una furia iconoclasta che smantella ogni sapere pedagogico, verrebbe da dire che smantella ogni
forma di buon senso in nome di un ritorno al passato in cui selezione e merito andavano di pari
passo. E non riguarda solo la scuola. Chi di noi ad esempio ha avuto l’opportunità di leggere il
Piano nazionale dell’infanzia, scritto con grande ritardo da questo governo. trova con raccapriccio
(in un grande copia incolla insensato) usare nei confronti delle politiche dell’infanzia la parola
dono che cancella, nella sua apparente neutralità, il lavoro che da trent’anni è stato fatto in
questo paese nell’affermazione che ogni bambino è soggetto di diritti e non di doni.
Non a caso allora si è voluto intitolare questo nostro incontro esercizi di libertà e non solo per
ricordare Rodari come anche a Castiglioncello abbiamo voluto fare nelle nostre tre giornate
dedicate al bambino creattivo. Ma per ridare senso al nostro occuparci di educazione!
Non richiudiamoci solo nella difesa; difesa della scuola pubblica, difesa della laicità, difesa del
governo democratico della scuola e dei suoi organi di rappresentanza! Sacrosanto, ma adatto solo
all’emergenza! Abbiamo il dovere, come Associazione, di contrastare la smemoratezza di questo
paese, ma dobbiamo anche riappropriarci di un “pensiero sulla scuola” fatto di pratiche di ricerca e
sperimentazione sul campo, di formazione e autoformazione in collaborazione con l’associazionismo,
con un più diffuso utilizzo degli strumenti cartacei e informatici volti all’elaborazione culturale e
pedagogica, di una forte valorizzazione dell’autonomia anche in contrasto con dirigenti pavidi, di
parole d’ordine più positive nell’invitare i genitori a partecipare alla nuova tornata elettorale.
E’ ulteriormente curioso che si riappropri del valore del’educazione un ministro come la Gelmini
che ha giustificato i tagli operati in nome di un apprendimento più efficace. Ma l’apprendimento
da solo rimanda all’idea di istruzione! Educare non è riempire un secchio! Ma accendere un fuoco!
Da una parte quindi un’idea di scuola , quella che sta via via emergendo da nuovi ordinamenti,
circolari, piani programmatici e dichiarazioni del ministro che ripropone una scuola per i “talentuosi”
(non c’è alcun altro spessore di riflessione dietro la odierna diatriba sul merito) che inchioda ai
blocchi di partenza senza alcuna speranza di mobilità sociale i più.
Una società solidale di liberi, di uguali, di responsabili si fonda sull’intreccio indissolubile tra sapere
e lavoro: lo diceva un italiano europeo come Bruno Trentin: chi sa è libero, chi non sa dipende
dagli altri!
E’ stato approvato al Senato, all’interno del disegno di legge sul lavoro, l’emendamento che
consentirà ai quindicenni, appena l’iter parlamentare sarà concluso (ora deve tornare alla Camera)
di assolvere l’obbligo di istruzione non solo nella formazione professionale, ma anche
nell’apprendistato. L’attuale legge invece dice che per lavorare bisogna avere 16 anni,
coerentemente con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni voluto dal governo Prodi.
L’emendamento del governo riporterebbe a 15 anni l’età lavorativa.
E’ notizia recente quella dell’accordo tra Regione Lombardia, Miur e Ministero del lavoro per
l’applicazione del contratto di apprendistato, in base al quale i ragazzi già a 15 anni possono
assolvere l’obbligo nell’apprendistato.
E così mentre l’Ocse, l’Unione europea, Bankitalia raccomandano di investire in istruzione e
conoscenza, l’attuale maggioranza di governo torna indietro sull’obbligo e pensa di risolvere con la
scorciatoia dell’apprendistato il problema della demotivazione allo studio di tanti quindicenni.
Non è certo questo sapere intrecciato al lavoro che difendiamo!
Il Ministro ha rivelato un’ideologia meno elaborata di quella della Moratti, ma senza dubbio più
pericolosa, perché occhieggia al senso comune e con esso si confonde.
E il senso comune non ha bisogno di grandi elaborazioni culturali: via i pedagogisti (per contro non
si può non rilevare che a parte interventi individuali non ci sia stato alcun manifesto degli
intellettuali italiani che smascherasse l’operazione Gelmini‐Tremonti), via i tavoli di confronto (i
dogmi non hanno bisogno di alcun confronto: sono apodittici), via alle torsioni interpretative di
qualsiasi dato OCSE sull’apprendimento dei ragazzi italiani per dimostrare la bontà del
rinnovamento della scuola italiana, via, ancora all’invettiva sugli insegnanti italiani buonisti e
lassisti, via ad una logica tutta contabile che con semplicità diventa la nuova bussola della
“Riforma”, via ad un singolare “principio pedagogico”, (privo di precedenti almeno nell’area OCSE)
che si può sintetizzare con: “meno scuola per tutti”.
Apprendimento ed insegnamento non vivono di equazioni orarie: lo sanno gli insegnanti, ma lo
sanno da tempo i genitori che la scuola pubblica frequentano e vedono le sue ombre, ma anche le
sue tante luci. Se il nodo sta nella relazione insegnamento – apprendimento, è opportuno
ricordare che il soggetto che viene affidato alla scuola dalla famiglia è un portatore di diritti (non è
un minus): il diritto all’apprendimento, ma anche all’emozione al gioco, alla salute, alla differenza,
ecc. Profitti e perdite si misurano in tempi lunghi e non in bilanci annuali e le uniche perdite di un
sistema di istruzione sono i ragazzi che ci perdiamo per strada (ancora troppi secondo le
statistiche) , né la loro perdita può essere salutata, come è accaduto, da un ministro dell’istruzione
come conferma della bontà di un sistema finalmente rinnovato nel senso della selezione, della
qualità e del merito.
Dobbiamo però con onestà chiederci: crediamo davvero ad una scuola di massa oltre a fare
pronunciamenti retorici sulla scuola di tutte e tutti, dell’inclusione ?
O non serpeggia uno stereotipo (siamo tutti in fondo eredi di Gentile) per cui la scuola di massa
non può che essere mediocre? Oggi gli alunni delle scuole italiane (che consideriamo tutti cittadini
senza distinguere al loro interno i figli di immigrati) sono più di otto milioni e mezzo. Tale dato non
produce alcun cambiamento nel suo impianto? L'aumento (in crescita) della quantità non richiede
misure educative diverse? se non ragioniamo con onestà su questi dati rischiamo di accettare
supinamente che si creino canali paralleli, culturalmente e socialmente ghettizzanti, di diversa
qualità e non solo tipologia.
Rischiamo di contestare, in modo sacrosanto, l’indecente mannaia che si è abbattuta sulla scuola
pubblica, ma non saremo capaci di proporre una scuola di massa e all’altezza della complessità
dell’oggi.

La domanda di fondo è in realtà il come si apprende come grande terreno di cerniera.


L’apprendere nelle sue diverse forme. Nel mondo, nelle comunità di riferimento, nella società e
nella vita individuale. Attraversando la scuola che è luogo decisivo di apprendimento ma sempre
meno esclusivo.
Se viene fatta questa rivoluzione culturale e questo investimento sulla categoria
dell’apprendimento, cambia la prospettiva entro la quale si sono fin qui convenzionalmente
collocate sia le esperienze considerate esterne alla scuola che quelle considerate interne.
Deve diventare coscienza diffusa che l’apprendere:
- è un processo che riguarda, insieme, la scuola e le comunità, i luoghi della formazione
esterni alla famiglia nella loro variegata articolazione e la famiglia stessa, i luoghi del
benessere, dello sport, degli apprendimenti offerti formalmente e informalmente nel
territorio, degli apprendimenti professionali e tecnici nel lavoro e entro il passaggio
scuola‐lavoro‐nuova formazione;
- è un processo sociale che riguarda tutte le età della vita;
- è, tuttavia, fortemente facilitato da una solida base ben strutturata di saperi, procedure e
competenze di base acquisiti durante l’infanzia e la prima adolescenza;
- è fortemente facilitato e sostenuto dalla relazione educativa;
- unisce corpo e mente, fare e pensare, progettare e realizzare;
- si riferisce a contenuti del sapere, a abilità e a competenze;
- ha come teatro il mondo tutto intero, compreso quello portato a noi dallo sviluppo delle
tecnologie;
- si nutre di emozioni e sentimenti e dei suoi naturali scenari e componenti: avventura,
sfida, competizione, collaborazione, sorpresa, scoperta;
- chiama a superare la rigidità e la fissità dell’organizzazione standard e uguale per tutti,
che costituiscono un limite grave alla necessità di venire incontro ai bisogni sempre più
differenziati delle persone e alla costruzione di effettive capacità/capabilities;
- si misura con le diverse forme dell’intelligenza umana secondo patterns complessi e
perciò secondo tempi, ritmi, modi diversi e attraverso processi auspicati, attesi, inattesi
prevedibili e non;
- procede attraverso passaggi che comunque insegnano a imparare, abituano al metodo e
alla fatica e alla frustrazione e, al contempo, alla sfida e alla conquista;
‐ha forti sovrapposizioni – eppure non coincide completamente ‐ con l’educare e con il
promuovere cittadinanza, empowerment e partecipazione;

Sono quotidiane le esperienze di apprendimento durante le quali bambini e ragazzi delle diverse
età (ma anche adulti) hanno potuto/saputo mettere in contatto mani, mente, comportamenti
concreti e emozioni e misurarsi con obiettivi cognitivi, costruzione di sapere e di competenze
definite e, al contempo, con realizzazioni ed operatività. Sono dunque spazi di apprendimento a
pieno titolo che, per questo, assumono finalmente uguale dignità rispetto alla scuola.
Oggi la scuola riesce ad essere innovativa e produttrice di pratiche formative positive quando è in
grado di lavorare sul confine; vale a dire, ad esempio, sul confine tra scuola ed extrascuola:
associazioni, enti locali, istituzioni formative, fino agli stessi genitori); quando, inoltre, le nuove
tematiche non si aggiungono semplicemente alle tante materie che si insegnano, ma divengono
per l’istituzione scolastica lo stimolo per interpretare in termini innovativi la propria missione, un
modo nuovo di pensarsi e di riorganizzarsi.
La consapevolezza di essere collocati in un contesto di frontiera, di lavorare sul confine, apre
all’influenza dell’alterità e induce a rivedere le cornici della propria identità. Da qui dobbiamo
ripartire

C’è rischio di stemperare le asprezze dei problemi nella routine della gestione, di trasformare
un’indignazione condivisa e matrice potenziale di azioni organizzate in una frustrazione da
elaborare privatamente, nel recinto della singola scuola, della singola classe. E’ proprio questo che
si vorrebbe, e proprio per questo non deve succedere.
Bisogna riconquistare la capacità di esercitare un’egemonia culturale. I processi populistici e
regressivi della destra (si pensi alla grottesca ed inquietante vicenda della scuola di Adro) si
contrastano solo se siamo in grado di proporre visioni credibili ed in sintonia con le speranze di
coloro a cui ci rivolgiamo.
Essere in grado, cioè, di parlare e di convincere, poiché si è in grado di ascoltare. Un’egemonia
culturale non consiste nel rassicurarci tra noi che siamo i più colti, i più belli, i più giusti: richiede
che riusciamo a collocarci dentro il tempo che ci troviamo a vivere, cogliere le domande che ci
pone e creare le condizioni per cambiare l’ordine delle cose .
Siamo in grado di farlo: 64 associazioni locali , + di 2000 iscritti per il 2009 diffusi in Italia possono
creare una rete, sono forza e non debolezza; la nostra presenza nel CNU, nel Comitato Tv e minori;
nelle commissioni di revisione cinematografica ci rende protagonisti e non osservatori stanchi! Per
questo dobbiamo affrontare in modo meno timido la nostra campagna di tesseramento.
Certo ragioneremo insieme su come rendere più efficace la e visibile la nostra associazione senza
seguire però la sirena della modernità fine a se stessa, ma forti della capacità aggregante della
nostra identità.
Facciamo in modo che i nostri figli non debbano dire come la protagonista di “Margherita
Dolcevita” di Stefano Benni: “Sentendo che non dormivo ancora, è arrivata la mamma. Deve aver
capito che ero inquieta, perché ha detto: stai tranquilla, andrà tutto bene. Sono stata zitta. Cosa
potevo risponderle? Quando i bambini crescono e diventano adulti, capiscono subito che quello
che gli avevano detto da bambini non è vero, eppure riciclano ai loro figli l’antica bugia. E cioè
che tutti vogliono consegnare ai bambini un mondo migliore, è un passaparola che dura da
secoli, e il risultato è questa Terra, questa vescichetta d’odio.
Perciò io che sono una bambina in scadenza, penso:
a) che i grandi non hanno più nulla da insegnarci;
b) che sarebbe meglio se noi prendessimo le decisioni, e i temi scolastici contro la guerra li
scrivessero loro;
c) che dovrebbero smettere di fare i film dove la giustizia trionfa e farla trionfare subito
all’uscita del cinema.”
Buon lavoro!

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