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Gualtiero Marchesi

Oltre il fornello

Segreti e consigli
del
re dei cuochi

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Proprietà letteraria riservata
© 1986-2009 RCS Libri S.p.A., Milano
Illustrazioni di Giovanni Giorgi Pierfranceschi

ISBN 978-88-586-1879-0

Prima edizione digitale 2011 da edizione settembre 2009

In copertina:
progetto grafico di Giusy Mauri
fotografia di Michele Bella

www.rizzoli.eu

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Abstract
Vademecum del buongustaio e prontuario del cuoco dilettante, a oltre
vent’anni dalla prima introvabile uscita questa nuova edizione di Oltre il
Fornello – completamente rivista e aggiornata dallo chef più famoso d’Italia
– rivela ciò che cerchereste invano in un comune ricettario, dalle tecniche di
conservazione alla cottura, dalla scelta degli ingredienti all’esaltazione dei
sapori. Attraverso esempi chiari e accessibili Marchesi espone i rudimenti
della grande cucina, svela i trucchi del mestiere e illustra la propria originale
filosofia del gusto.
GUALTIERO MARCHESI nasce a Milano nel 1930 da una famiglia di
ristoratori. Dopo una lunga esperienza a fianco dei più importanti chef
francesi, torna nella città natale dove apre un proprio ristorante, al mitico
indirizzo di Bonvesin de la Riva, che nel 1985 riceve tre stelle Michelin (che
restituirà polemicamente nel 2008). Nel 2008 apre Il Marchesino, in uno
spazio che ha sempre amato: la sede del teatro La Scala di Milano. Rettore di
ALMA, autorevole scuola di cucina, ha ricevuto molti riconoscimenti
internazionali ed è unanimemente considerato come IL MAESTRO della
cucina italiana.

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Oltre il fornello

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Presentazione di Pierre Troisgros
Intorno agli anni Cinquanta Gualtiero Marchesi, attento osservatore delle
trasformazioni allora in atto nella cucina francese, decise di approfondire
la conoscenza di quanto stava accadendo in Francia e venne a Roanne,
nostro ospite, per rendersene conto di persona.
A quell’epoca solo pochi chef francesi, tra cui mio fratello e io, erano in
fermento nel tentativo di trovare il modo migliore per semplificare le
ricette, così da liberare il sapore naturale degli alimenti: come noi due,
Gualtiero voleva rinnovare completamente la cucina tradizionale del suo
Paese, ancora ben salda nelle sue regole rigide.
In Italia gli ostacoli da superare erano grandi e risiedevano
principalmente nei gastronomi, estremamente conservatori e difficili da
persuadere a provare nuove esperienze. Il tempo però ha lavorato per lui:
Gualtiero è ora indiscutibilmente riconosciuto come il padre della «nuova
cucina italiana» e come tale è ritenuto la massima autorità nel suo ambito.
La nostra passione comune ci ha uniti da tempo, rendendoci, in questo
campo, dei veri complici.
Già nel 1907 il nostro grande Maestro, Auguste Escoffier,
nell’introduzione al suo mitico libro Le guide culinaire raccomandava:
«Invece di copiare semplicemente queste opere ammirevoli (le ricette)
dobbiamo, noi stessi, percorrere nuove strade che portino a nuovi metodi di
lavoro, in base al modo di vivere dei nostri tempi». È la stessa forte
passione creativa che, cinquecento anni fa, ha spinto alcuni cuochi italiani
al seguito di Caterina de’ Medici a presentarsi alla corte dei re di Francia
per far conoscere i nuovi sapori delle loro apprezzatissime creazioni.
Era un’altra epoca… ma ancora oggi questa passione creativa resta il
vero motivo che, per me come per Gualtiero, accomuna i cuochi dei nostri
due Paesi.
Con amicizia
Pierre Troisgros

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Prefazione
Negli ultimi mesi del 2008, su gran parte della stampa si è mossa una certa
rivisitazione degli anni Settanta, torturati dalle violente contestazioni
politiche e di costume, che dopo i fremiti universali del Sessantotto scossero,
il più delle volte tenebrosamente, la nostra vita a un ritmo impossibile. Tutte
le contraddizioni vissute e sofferte nei Sessanta, si svelarono, negli anni che
seguirono, a scoppio ritardato, disorientando chi si attendeva che, dopo gli
esasperati movimenti studenteschi del «tutto e subito», sarebbe sorto dalle
ceneri un certo equilibrio, che avrebbe potuto assicurare un periodo
temporaneo di calma. Non fu così. E anzi, fu quasi il contrario.
La gente bene, però, si impegnava, come è suo ingenuo costume, a vivere
una vita il più possibile normale, almeno nelle abitudini di tutti i giorni, al
fine di superare il momento di impasse.
Alla fine di quegli anni, nel 1977, andando sicuramente controcorrente,
aprivo il ristorante che avrebbe cambiato totalmente la cucina universale: il
mio Gualtiero Marchesi in Bonvesin della Riva.

E da allora son passati trent’anni.


L’apertura di questo ristorante era il compendio di tutto il lavoro di
preparazione fatto da quando, negli anni Cinquanta, da ragazzo, aiutavo mio
padre alla tavola calda e fredda dell’Albergo Mercato. La cucina era, allora,
quella di una piccola trattoria, di ottima qualità ma sempre gestita con
semplicità da una minuscola impresa familiare.
Ma come sono riuscito ad arrivare sin lì?
Finiti gli studi in Svizzera, alla scuola alberghiera di Lucerna, mi sentivo
in dovere di aiutare papà, ma ero anche attratto da altre passioni: la musica e
l’arte. Fu un periodo che dedicai a mille attività: per consolidare la mia
cultura gastronomica divoravo, letteralmente, ogni sorta di libro che sapesse
trasmettere al lettore le esperienze culinarie di chi operava direttamente in
cucina, illustrando esempi concreti che stimolassero la creatività che sentivo
bruciare dentro di me. Ogni occasione era buona per parlare di cucina con
chi ne sapesse più di me, ma la musica occupava uno spazio troppo
importante dei miei interessi, per permettere di dedicarmi totalmente alla

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cucina. Mi gettai quindi nello studio del pianoforte e mi immersi a capofitto
nel mondo del melodramma, stimolato dall’esempio di mio padre, che mi
incoraggiava con la sua incredibile cultura delle opere liriche.
Le conosceva tutte, anche le più rare, le meno note, spesso rappresentate
una sola volta, ma fortunatamente registrate sui vecchi dischi a settantotto
giri, che riusciva a scovare negli archivi più impensati, da scambi con
appassionati come lui o, qualche volta per pura fortuna, alla fiera di
Senigallia, la popolare fiera milanese del brocantage.
Tutto questo durò sino a quando, nel 1957, per una naturale evoluzione e
per l’intelligente scelta di mia madre di assumere grandi chef in cucina, la
piccola trattoria si trasformò in un vero ristorante nel quale si professava
l’alta cucina e si offrivano le mie prime ricette, con le quali avevo iniziato la
revisione delle preparazioni classiche, secondo un concetto che introducesse
una maggior semplicità nella scelta dei componenti e nella presentazione. I
miei cuochi, già esperti nella cucina classica, mi seguivano con interesse e
curiosità, e traducevano il mio pensiero in concrete realizzazioni. Il risultato,
poi, era oggetto di discussioni senza limiti e così si riusciva a raggiungere il
massimo apprezzamento da parte della clientela.
Si scatenò così quella che era la passione prevalente e che decise la scelta
definitiva del mio campo d’azione: l’alta cucina. Cercavo in ogni modo di
discutere con questi grandi e famosi cuochi sugli argomenti più particolari, e
tutti si meravigliavano di quello che dimostravo di sapere, frutto delle mie
letture e delle mie piccole esperienze precedenti. Le mie nuove ricette
determinarono l’immediato successo della cucina del ristorante Mercato e
furono l’inizio di una fortunata avventura in un campo che richiedeva una
trasformazione che si adeguasse ai nuovi ritmi della vita moderna e che, in
nuce, contenesse già i presupposti per arrivare alla «Nuova Cucina Italiana».

E da allora son passati cinquant’anni.

Questo libro è il risultato del mio lavoro e uno dei motivi per cui gli anni
non passano mai invano. A distanza di tempo dall’ultima pubblicazione e a
seguito delle numerose richieste di ristamparlo che colleghi (quale libro di
testo per i loro giovani apprendisti), comuni lettori e l’editore mi hanno
rivolto, mi sono dedicato alla cura della nuova edizione.
Le fondamenta della grande cucina restano inalterate, come i modi di

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operare, ma i tempi cambiano e la società richiede che l’arte culinaria si
adegui ai nuovi costumi sottoposti, oggi più che mai, agli intensi ritmi che la
vita odierna richiede. Più l’attività dell’uomo è esasperatamente densa, in
minor grado e minor interesse viene considerata la gastronomia. Ma è solo
allora che la vera grande cucina si inserisce e diviene importante, studiando
il modo di offrire un nutrimento sano, gustoso e facilmente digeribile, adatta
ai tempi brevi a essa dedicati e al modo di pensare del commensale che si
divide tra pranzo e affari.
Di conseguenza anche la scelta dei piatti da offrire «alla carta» deve tener
conto dei tempi di preparazione per essere in grado di accelerare il servizio al
cliente frettoloso. La qualità dei prodotti e la perfezione della preparazione
debbono rientrare nel principio che tutto deve essere assolutamente perfetto.
Ecco allora che, in questa edizione, ho aggiunto alcune considerazioni
sull’importanza che assumono elementi diversi tra loro, che contribuiscono a
creare un’atmosfera in cui tutto è calcolato e trattato per dare una sensazione
di piacevole, calda rilassatezza.
Sono semplici annotazioni: sul territorio, sulla composizione e
organizzazione dei tempi del menu, l’abbinamento vino-cibo, «meglio il
calice o la ciotola?», il rapporto cucina-sala, la cucina della mamma e
l’eterno paragone, a me caro, tra cucina e musica.
Ringrazio chi ha apprezzato l’utilità del mio libro come guida per il
giovane cuoco o per la provetta casalinga, e che mi ha spinto a ristamparlo.
Per avermi inculcato i principi rigorosi della professione e della
perseveranza nel lavoro, che mi hanno portato a raggiungere così alti
obiettivi nella mia lunga vita, ringrazio i miei genitori.
Per aver diviso con me i sacrifici che le mie assenze, per studio e per
lavoro, hanno imposto alla nostra vita familiare, ringrazio mia moglie che mi
ha dato tanto amore e tanta gioia, dando ulteriore slancio alla mia grande
passione per la grande musica.
Spero che questo volume possa contribuire a facilitare la preparazione di
buoni piatti ben cucinati e a spronare chi è del mestiere a svilupparli
seguendo i tempi e le naturali necessità della futura società.
Gualtiero Marchesi
Milano, febbraio 2009

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Introduzione

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Compositore-esecutore
Pensando a come nasce una buona cucina, mi vengono naturali alcune
considerazioni sulla personalità dei protagonisti in gioco. Da una parte il
cliente esigente, sovente buon intenditore, e dall’altra il cuoco esecutore-
interprete della ricetta che sta per realizzare. Il testo dal quale il cuoco ha
attinto le istruzioni per preparare il piatto è sicuramente dettagliato e preciso,
ma l’esecutore lo interpreterà seguendo la sua personalità.
Si distinguono così le due fasi che concorrono a formare quella
determinata portata: la fase compositiva, gestita dall’autore, avvenuta in un
momento d’ispirazione, e la fase esecutiva gestita dal cuoco, che agisce nello
stesso istante in cui il cliente esprime la sua richiesta. Le due fasi
contribuiscono a costituire il risultato finale, che quindi dipende sia
dall’ispirazione concretizzata dal compositore, lontana nel tempo, sia
dall’interpretazione del cuoco, che avviene attualizzata in quello stesso
momento e che quindi può subire delle modifiche spontanee, dovute a una
possibile modernizzazione dello schema originario. Si pensi solamente
all’evoluzione dell’attrezzatura da cucina.
Inoltre, molto probabilmente, non è la prima volta che il cuoco esegue
quella particolare ricetta. È quindi lecito supporre che queste molteplici
ripetizioni abbiano anch’esse affinato l’interpretazione dell’esecutore,
seguendo la sua indole e la sua sensibilità e arrivando a un risultato finale
che sicuramente modifica e forse modernizza la composizione originale.
Nasce spontaneo un confronto «musicale» tra compositore e creatore di
ricette: entrambi, concretizzata la loro ispirazione, raramente avranno
l’occasione o la necessità, di eseguire il pezzo di musica o la ricetta, e quindi
non avranno nessuna ragione di effettuare variazioni al loro «manufatto» già
definito e congedato al giudizio del pubblico. L’esecutore, invece, ogni volta
potrà, dietro un’insindacabile spinta intellettuale, modificare la sua
interpretazione perfezionandola e impreziosendola di nuove emozioni.
Il compositore non sarà «sconfessato», anzi, al contrario, avrà il merito di
essere riuscito a stimolare l’intuizione artistica di un emozionato esecutore.
Il cuoco, grazie alla continua ripetizione di quel piatto, potrà così usare la
sua raffinata sensibilità per divenirne intelligente interprete e aggiungere

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valore al contenuto dell’idea primaria, dando quindi ancora maggior forza
allo «spartito» originale, al di là e al di sopra delle aspettative dello stesso
autore. Arrivando qualche volta a generare, innocentemente, senza malizia
alcuna, l’impressione che l’esecutore sia più bravo del compositore.
Il cliente, da parte sua, difficilmente arriverà ad approfondire questo stato
di cose, e normalmente sceglierà il ristorante che offre piatti di suo
gradimento, cucinati come piacciono a lui.
Anch’io, quando vado al ristorante, per esempio in una piccola trattoria di
Parma celebre per i suoi ravioli di zucca, ci vado solo per mangiare i ravioli
di zucca, che tutti fanno, ma che io trovo unici come li fanno lì. Ed ecco che
subentra l’importanza dell’esecuzione-interpretazione del cuoco! La ricetta
fondamentale è codificata nei libri sacri della gastronomia, ma nel tempo è
stata sicuramente «ritoccata» da una moltitudine di esecutori (ciò accade
sovente nel campo automobilistico dove l’auto costruita negli anni
Cinquanta subisce tutti gli aggiornamenti e i miglioramenti possibili, ma alla
fin fine, la sua idea di base giunge, validissima, sino a noi).
Ci sono però anche i piatti «nuovi», composti da vari autori che sono in
grado di creare ricette nuove guidati da una capacità che non è normale, ma
riservata a pochi, veri, capaci e validi compositori.
Quando il cliente va al ristorante, va alla ricerca di ciò che più gli piace,
ma preferibilmente preparato nello stile, a lui gradito, al quale si ispira
l’esecutore che, quindi, nell’occasione, funge da interprete-mediatore dei
sapori. Alle volte va alla ricerca dei piatti della tradizione e altre volte delle
novità, di cose nuove che possono stimolare la sua fantasia.
Ma è per sfruttare questa tendenza a provare le cose nuove, che sovente il
cliente manifesta, che molti giovani o addirittura giovanissimi cuochi, privi
dell’insostituibile esperienza e della fondamentale conoscenza di base,
offrono sul mercato una cucina «abbagliante», così detta «creativa» che in
realtà è, a dir poco, un pasticcio mal combinato. Il tutto, purtroppo, a totale
detrimento del «buon nome», della buona cucina fatta bene.
A questo proposito mi torna in mente una frase illuminante di Béla Bartók
che dice: «L’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia». Così
come non si può comporre musica senza conoscere le note, come si può far
cucina senza conoscere la materia?
Nasce, di conseguenza, una divisione tra due diversi concetti di cucina:

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quello di cucina d’autore, creata in un momento di ispirazione felice del
compositore, e quello della cucina dell’esecutore che, pur rigoroso,
interpreta la composizione originaria a suo modo, modificandola in tanti
piccoli o grandi particolari e, se ha accumulato sufficiente esperienza, esce
dagli schemi suggeriti, creando un piatto veramente nuovo.
A parte tutto ciò, quando un compositore fissa la sua ispirazione in una
ricetta, si esprime in funzione della sua cultura, essa stessa condizionata e
fortemente influenzata dal microclima del territorio in cui vive e dal bagaglio
di esperienze accumulate nella vita vissuta e nel tipo di professione
esercitata. Stravinsky, in Russia, compose musica modernissima mai
ascoltata a quei tempi. Miró attuò una profonda sprovincializzazione della
tradizionale, rigida, società spagnola. Ma né l’uno né l’altro poterono
nascondere le loro origini inconfondibilmente russe e profondamente
spagnole, pur avendo entrambi temerariamente innovato la cultura musicale
e artistica dell’epoca. Quando la cucina diventa arte, mostra chiaramente
anch’essa le sue origini, perché le sue radici affondano nel territorio in cui
vivono e respirano condizionate dal microclima locale.
Porto questi esempi per dire che tutti noi andiamo al ristorante per
mangiare qualche cosa di preciso, alla ricerca della bontà di quel determinato
piatto, che è già stato digerito da noi, ma che ci aspettiamo sia ancora il
migliore tra quanti ne abbiamo mangiati sino a quel giorno.
A questo punto subentra un’altra riflessione che ci riconduce
all’importanza del valore della materia, non più come scelta del prodotto, ma
come cibo e per poterla correttamente gustare nel momento che diventa
alimento. Non è un segreto, ma non riusciamo mai a pensare, mentre
gustiamo il contenuto del piatto, che è il «modo di mangiare», ossia la
masticazione, che qui gioca la parte più importante.
È infatti solo un’accurata e paziente masticazione a offrire la possibilità di
capire il sapore vero della materia. Da sempre, sicuramente anche da quando
eravamo bimbi, ci hanno raccomandato di mangiare lentamente, per
«digerire bene», si diceva, ma in effetti questa raccomandazione nascondeva,
senza saperlo, una grande verità, che era la maniera migliore di mangiare per
gustare il cibo e raggiungere l’essenza insita nella materia. Si può quindi
senz’altro dire che una buona masticazione non significa «girare il boccone
in bocca», ma ci permette di capire il vero sapore di ciò che stiamo
mangiando.

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Ho pensato e ripensato a questi argomenti, cercando di capire e
approfondire le ragioni che determinano il vero valore, in cucina, di
compositore ed esecutore-interprete. Alla fine sono giunto a una prevedibile
conclusione: entrambi, eccellenti artefici, indispensabili l’uno all’altro,
possono esprimere liberamente la loro validità, e creare quella insostituibile
magia che si chiama «buona cucina».

I segreti del cuoco


A questo punto, cosa s’intende dicendo che questo o quel piatto è stato
preparato «a regola d’arte»? Se è ragionevole supporre che l’arte risieda
nell’abilità personale dell’esecutore, le regole in che cosa consistono? Si
potrebbe rispondere: nell’insieme di indicazioni contenute nella ricetta, il che
è certamente corretto ma incompleto, perché l’autore della ricetta non volle
descrivere l’arcano susseguirsi di magiche alchimie, ma la successione
razionale di un certo numero di «azioni controllate». Nell’arte culinaria, in
effetti, ogni gesto ha una sua intrinseca giustificazione: induce determinate
trasformazioni chimiche e fisiche, obbedisce a precise norme igieniche e
dietetiche e possiede infine una propria logica interna, che ne fissa lo scopo
ed è squisitamente gastronomica. Esiste così un rapporto ben definito tra la
scelta di un certo ingrediente, l’adozione di una determinata tecnica di
cottura, l’impiego di una particolare combinazione aromatica e l’effetto
finale che si vuol conseguire: le cognizioni che il cuoco possiede in
proposito costituiscono allora il fondamento senza il quale la cucina non
potrebbe esser altro che l’inesplicabile risultato di accostamenti fortuiti e
azioni casuali.
L’intento di questo libro è appunto quello di divulgare il bagaglio tecnico
di cui il cuoco fa uso quotidiano e che tuttavia si cercherebbe inutilmente nel
comune ricettario. Di per sé una ricetta si limita infatti a prescrivere una
sequenza di operazioni: quel che ho cercato di chiarire, invece, è ciò che sta
a monte, ossia le ragioni di questi procedimenti.
Così in questo trattatello di tecnologie culinarie non si troveranno ricette
se non descritte per i sommi capi allo scopo di illustrare un procedimento, di
analizzare un metodo, di esemplificare un principio più generale. Si

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troveranno invece notizie e suggerimenti su tutto ciò che può far la
differenza in cucina: come ottenere il meglio da un alimento, come
riconoscerne la qualità e la freschezza, come scegliere con cognizione di
causa, come conciliare le esigenze del gusto e le nostre necessità nutritive.
Se la sua filosofia può esser racchiusa in un motto, questo potrebbe
suonare così: «Dal momento che la natura ci impone di nutrirci, facciamolo
nel migliore dei modi, con criterio e con diletto, osservando tutti quegli
accorgimenti che, per quanto piccoli, conseguono il massimo allettamento
del palato nel rispetto della salute».

Cucina e territorio
La mia cucina ha indubbi aspetti creativi; ciò non toglie che le radici culturali
di molte mie ricette siano legate al territorio. Il mio lavoro consiste spesso
nell’applicare le tecniche dell’alta culinaria a un piatto regionale, con il fine
di valorizzarne il sapore originario. Pertanto in numerose mie preparazioni
faccio ampio uso di prodotti locali cercando di realizzare un insieme
armonico di sapori, profumi e colori. Operando in Lombardia, ed essendo
lombardo, la mia area di riferimento non è solo la Franciacorta, ma l’intera
regione. Così ai pesci d’acqua dolce quali i lucci, agli animali da cortile a
carne bianca e rossa, associo il vitello, carne base della cucina lombarda, il
riso, la pasta all’uovo, gli ortaggi reperibili sui mercati locali. I miei piatti
lombardi preferiti sono il riso e oro, la cotoletta alla milanese nelle sue molte
versioni, la reinterpretazione del filetto alla Rossini utilizzando il vitello, i
timballi di luccio e così via.
In generale la cucina di un determinato luogo si caratterizza per l’impiego
dei prodotti del posto. Pertanto nella zona di Genova, grazie alla varietà di
basilico e all’olio extravergine d’oliva è nato il pesto, impreziosito dei pinoli
di cui la regione è ricca. Più in generale il cuoco, con il paniere di prodotti di
cui dispone, può dar vita a una cucina «ruspante» così come a una di alta
ristorazione. Se ignorasse i prodotti locali la sua cucina perderebbe il senso
della stagionalità e rischierebbe di essere ripetitiva. Cosa distingue la
gastronomia piemontese da quella siciliana, se non la tipicità dei prodotti?
Ma non solo. È importante anche ricercare nella tradizione culinaria locale

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piatti dimenticati che rischiano di andare perduti per sempre, ma che
potrebbero essere «restaurati» alla luce delle attuali tendenze alimentari. In
questo senso la gastronomia si propone come momento culturale, a misura
d’uomo. Di fatto, quando la cucina interrompe la ricerca del passato e smette
di proiettarsi nel futuro, quando non considera i prodotti del territorio e la
loro stagionalità, finisce per assomigliarsi un po’ tutta.
Jacques Lucien Monod, biochimico francese scomparso nel 1976, affermò
che le novità si creano arrangiando in maniera inedita le cose del passato.
Condivido pienamente tale affermazione che applico alla gastronomia.

L’evoluzione culinaria verso la leggerezza


Negli ultimi decenni la ristorazione, in sintonia con le tendenze alimentari dei
consumatori, è andata modificandosi. Alcune mutazioni non sono molto
appariscenti, ma se oggi entrassimo in un ristorante di una volta, le
noteremmo subito. La cucina «saporita», così apprezzata un tempo, era
ridondante, ricca di grassi e di condimenti aggiunti. La cucina, da allora, si è
spogliata togliendosi cappe di cotture estenuanti, di soffritti onnipresenti, di
eccessiva prodigalità di olio e burro, quando non di strutto e lardo.
Ingentilendosi si è elevata di tono, perché è la leggerezza, salvo eccezioni, a
connotare l’alta cucina. Leggerezza che consente di ottenere due risultati: il
gusto del commensale diventa più sensibile e la salute ne guadagna. Una
cucina delicata, realizzata con ingredienti adeguati, è facilmente digeribile,
meglio assimilabile e aiuta a mantenere sano il corpo. Occorre saper
semplificare e ciò richiede indubbie capacità professionali da parte del
cuoco. Mi spiego meglio. La preparazione di una salsa elaborata, per
esempio, quando sembra non riuscire consente l’adozione di vari interventi
correttivi. Si può correggerne il gusto quando è stato dosato male un
ingrediente, salvarla quando è lì lì per impazzire, legarla con qualche
addensante quando non prende la consistenza desiderata e così via. Alla fine,
dopo tocchi e ritocchi, la salsa è servita, carica anche degli errori del cuoco.
Una preparazione semplice, invece, non può essere «corretta»: se si sbaglia,
occorre rifarla. A ciò si aggiunga che una salsa «pesante» può nascondere
altre imperfezioni, come il sapore non più freschissimo del filetto di pesce

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che accompagna, mentre una «leggera» esalta, anziché nascondere, il gusto
degli ingredienti. Quanto detto, per motivare perché l’alta cucina preferisca
esprimersi con gentilezza, evitando le espressioni culinarie pasticcione
proprie della ristorazione meno preparata. Un esempio di cucina semplice ed
elegante è, a mio avviso, quella giapponese, che non è assolutamente tutta
sushi e sashimi (come quella italiana non è tutta pizza e spaghetti), ma molto
di più. Innanzitutto sono praticamente assenti soffritti e rosolature e le
cotture sono rapide, eseguite al momento, tanto che la consistenza della
vivanda assume maggiore valore dell’esaltazione del gusto. Da parte mia
credo in una cucina in cui sapori delicati, consistenze e colori dei cibi
compongono un’unica armonia che consenta di capire la bontà di un piatto
ancor prima di averlo assaggiato.

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1.

Dei fondi di cucina

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Concentrati di sapore ricavati da parti di scarto altrimenti inutilizzabili, i
fondi di cucina ne rivelano le segrete virtù. Si chiamano «fondi» perché
stanno a fondamento di numerose preparazioni che non potrebbero farne a
meno. Pietra angolare delle grandi salse, rappresentano il marchio di
fabbrica dell’alta cucina: i piatti importanti e molto strutturati, che
necessitano di carattere, recano tutti la loro impronta.

Il fondo bruno
Tra i fondi di carne, il fondo di vitello (o fondo bruno), per il suo
caratteristico sapore forte ma non pungente, è il fondo per eccellenza, che
trova impiego in svariate circostanze. Il fondo bruno non è altro che un
brodo a base di ossa di vitello sminuzzate (garretti), fatte precedentemente
tostare in forno, di verdure (cipolle, carote, uno spicchio d’aglio) saltate in
padella, con l’aggiunta di erbe odorose (prezzemolo, timo, lauro) e un po’ di
polpa di pomodoro. Schiumato frequentemente, non salato e mantenuto
sempre a un livello al di sopra delle ossa (con l’eventuale aggiunta di mestoli
d’acqua bollente), il brodo dopo una cottura di almeno sei ore viene filtrato
attraverso il colino fine. Ciò che si ottiene è già un fondo bruno, ma un
risultato incomparabilmente migliore si avrà arricchendone il gusto con della
carne magra di vitello di secondo taglio, preparata a mo’ di spezzatino:
rosolata nel burro, si bagna con un mestolo di fondo e, una volta
consumatosi il liquido, si ripete l’operazione altre due volte. Si aggiunge
quindi la carne al fondo restante, facendola lessare. Quando quella è cotta, il
fondo, nuovamente filtrato, sarà pronto.
Descritta la preparazione di base, veniamo ora a considerare le varianti
«ristrette» del fondo bruno, che s’ottengono lasciandolo pigramente
consumare su una fiamma tenue. Al grado estremo della riduzione
corrisponde l’essenza di carne (glace de viande): di consistenza sciropposa e
gusto molto intenso, essa costituisce una sorta di versione artigianale (e
decisamente superiore) degli estratti di carne prodotti industrialmente; si
adopera per insaporire pietanze e dar tono a salse poco strutturate. A metà
strada tra il fondo e l’essenza sta la demi-glace: a questo stadio il fondo ha

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già raggiunto consistenza (un cucchiaio che vi sia immerso ne uscirà
ricoperto da uno strato lucido e compatto). Per ottenere una salsa finita non
resta che aggiungere una componente aromatica (un vino, per esempio) e, se
è il caso, «legarlo» con burro o altro così da completarne il carattere.
Di solito il fondo di vitello scoraggia il cuoco dilettante: di fronte a una
ricetta che ne prescrive l’impiego, costui rinunzia all’impresa o tenta di
rimediarne una versione semplificata con risultati, ahimè, assai spesso
deludenti. È invece importante padroneggiare questa tecnica perché, così
facendo, se ne indovineranno anche le possibili scorciatoie. Ecco dunque
qualche suggerimento per l’utilizzazione domestica: in primo luogo
preparando una discreta quantità di fondo, sarà possibile congelarlo in
piccole parti o riporlo in contenitori ermetici, sterilizzandoli come si fa per le
conserve di frutta (attenzione, però: una volta che si sarà appreso a usarlo e
ad apprezzarlo, quasi ogni carne lo reclamerà e la scorta finirà più presto di
quanto pensiate. In ogni caso, il fondo migliore resta sempre quello fresco).
Un’altra soluzione consiste nella semplice operazione di sgrassare e
deglassare: una volta cotta, la carne viene estratta dalla casseruola e tenuta al
caldo; nel frattempo si elimina il grasso di cottura e, aggiungendo un liquido,
si sciolgono sul fuoco i depositi albuminosi attaccati sul fondo della
casseruola: utilizzando dell’acqua si ottiene un gusto analogo a quello di un
fondo di carne, ma nulla vieta di accentuarne l’aroma e il sapore,
adoperando del brodo o del vino. Il liquido, filtrato, funge da salsa
d’accompagnamento.

Fagiano a doppio fondo


Esempio significativo dell’utilizzazione dei fondi di cucina è il salmis, salsa
per eccellenza della selvaggina di piuma. Per arrostire un fagiano in forno,
per esempio, è necessaria mediamente una mezz’ora di cottura. Volendolo
preparare in salmis, si estrarrà il volatile dal forno con 6-7 minuti d’anticipo;
si conservano in caldo il petto sfilettato e le cosce, mentre la carcassa viene
sminuzzata e poi tostata in casseruola. Si aggiungono cipolla e carota in
quantità ridotte (dovranno dare alla salsa una semplice nota aromatica) e si
bagna con vino bianco. Lasciato consumare il vino sul fuoco, si copre il

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tutto con un liquido che potrà essere, a seconda delle disponibilità di cucina,
un fumetto di cacciagione (ossia un fondo preparato con ossa e ritagli di
selvaggina), un fondo di vitello, un brodo di carne o semplicemente
dell’acqua: aspettatevi tuttavia risultati in ordine decrescente. Lasciato
cuocere per mezz’ora, il fondo si carica dell’aroma e degli umori del fagiano
e viene quindi filtrato. Si uniscono i pezzi del fagiano e se ne conclude la
cottura nel caldo della salsa, a casseruola coperta e allontanata dal fuoco.
Oltre che alla selvaggina di piuma in genere, il medesimo procedimento è
applicabile anche a piccioni, faraone e quaglie; in questi casi il fondo di
vitello o di pollame è però il più indicato.

Il fumetto di pesce, ovvero l’utilità delle lische


Il fumetto di pesce rappresenta l’esatto corrispondente del fondo bruno in
campo ittico: di aroma deciso ma non aggressivo (tale da non sopraffare il
gusto del pesce cui verrà accompagnato), il fumetto fornisce un sapido
sostegno a salse, zuppe e minestre e viene anche utilizzato nella cottura dei
pesci.
Il metodo di preparazione non differisce per principio da quello dei fondi
di carne, salvo che in questo caso i tempi risultano notevolmente inferiori. Si
procede così: si fanno spurgare in acqua corrente lische e teste (private delle
branchie) di pesce freschissimo, in modo da eliminarne i depositi di sangue
e le altre impurità. In una casseruola unta di burro, delle verdure tritate (per
esempio porri o cipolla) vengono fatte «sudare» (cioè cuocere senza
colorazione su fuoco tenue sino a evaporazione dell’acqua di vegetazione); si
aggiungono quindi le teste e le lische sminuzzate e si lasciano «asciugare»
anch’esse. Il tutto viene bagnato con vino (bianco, a meno che non si
preveda una salsa finale a base di vino rosso) e quindi, quando il vino si è
consumato, ricoperto d’acqua con l’aggiunta di erbe aromatiche (in genere
un bouquet garni: gambi di prezzemolo, un rametto di timo, un frammento
di foglia d’alloro). Lasciato sobbollire per circa mezz’ora e schiumato
frequentemente, si filtra premendo bene sulle carcasse e sulle verdure per far
cacciare loro tutti i succhi.
Il fumetto di pesce, come gli altri fondi di cucina, non va salato

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inizialmente: se è destinato alla preparazione di una salsa, infatti, va
anch’esso fatto restringere fino a consistenza sciropposa ma, mentre il
liquido diminuisce, la quantità di sale resta la stessa. In tal modo una
salagione adeguata al volume iniziale risulterebbe insopportabile a riduzione
avvenuta. Va inoltre tenuto presente che tanto le verdure quanto le erbe
odorose costituiscono una componente aromatica del fumetto, e non la sua
nota dominante: pertanto sarà bene non eccederne la dose (una precauzione
valida anche per i fondi e i brodi di carne).
Infine, come pesci di diversa specie hanno un gusto differente, così pure i
fumetti ottenuti da lische di diversa provenienza. Possiamo suddividere di
conseguenza i pesci in tre categorie. Alla prima appartengono quelli dal
gusto intenso, già determinante ai fini del risultato finale: sono i pesci più
adatti alle zuppe, come scorfani, triglie, tracine, gallinelle. Della seconda
fanno parte i pesci (come la sogliola e il rombo) che forniscono i migliori
fumetti. Della terza i meno adatti allo scopo: i pesci dal sapore delicato
(come il branzino o l’orata), quelli di fondale e d’acqua dolce.

I coulis di crostacei
Il fumetto (o coulis) di crostacei ha un sapore più pronunciato di quello di
pesce e viene impiegato solitamente come base per salse
d’accompagnamento al crostaceo da cui è stato tratto (solo o anche in
combinazione con altri pesci). In particolare astici e gamberi di fiume
forniscono un fumetto d’incomparabile fragranza.
Anche in questo caso più che regole ferree (per tener dietro a tutte le
varianti occorrerebbe scrivere un intero trattato), darò indicazioni di metodo.
Scorticati i crostacei, si utilizzano le corazze per la preparazione del coulis: le
corazze, tritate, vengono fatte tostare in casseruola, poi si aggiungono delle
verdure che si fanno sudare assieme ai gusci. Si bagna quindi con liquidi
diversi, a seconda della destinazione finale del fondo: un classico
procedimento – che darà un coulis dal gusto aggressivo – è quello di
bagnare in un primo tempo con Cognac o Madera, per poi fiammeggiare e
spegnere infine col vino. Lasciato svanire il liquido, si ricopre con acqua o
fumetto di pesce, con l’aggiunta di erbe odorose e polpa di pomodoro. Si

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lascia cuocere dolcemente il fumetto per circa mezz’ora, poi si schiuma, si
filtra e si rimette infine sul fuoco fino a portarlo alla consistenza desiderata.
Gli basterà essere montato al burro (in cui eventualmente si saranno
incorporati i coralli del crostaceo) oppure legato con un filo di panna per
accompagnare i crostacei nel segno dell’eccellenza.

27
2.

Delle salse

28
Antesignani delle salse furono gli intingoli. La salsa non è in effetti che una
versione ripulita ed elaborata, preparata appositamente a misura della
pietanza che accompagnerà. Come negli accoppiamenti del cibo col vino,
anche la salsa deve sottostare alle regole dell’equilibrio: completare il gusto
del piatto facendosene complice e non tiranna.

Il declino della besciamella


Quella del marchese di Béchamel (o di chi a lui volle dedicarla) fu senza
dubbio un’invenzione felice. La salsa che porta il suo nome conobbe
repentinamente il successo e si diffuse ben presto anche in Italia: tanti piatti
della nostra tradizione (che oggi neppure alla lontana potrebbero apparire
forestieri) l’adottarono come proprio ineliminabile ingrediente, tanto che
Artusi volle ribattezzarla italianamente «balsamella». Solo di recente s’è
cominciato a guardare quella salsa di traverso, giudicandola troppo ruvida
per il palato fine e ormai sorpassata, per via di quel suo gusto senza
sfumature, che non promette emozioni.
In molti casi la besciamella è sostituibile, con grande soddisfazione del
gusto, con una riduzione di panna e brodo: sulle lasagne al forno con ragoût
di carne, su un petto di pollo o una mousse calda di pesce. Si uniscono in
una casseruola un buon brodo ristretto (di carne o di pesce a seconda delle
destinazioni), non salato o salato pochissimo, e una quantità pressappoco
uguale di panna. Si lascia ridurre su un fuoco dolce finché il liquido non ha
raggiunto la consistenza desiderata. Si sala e si pepa alla fine, acidulando con
qualche goccia di limone. Volendo gratinare, si legherà la salsa intiepidita
con uno o più tuorli d’uovo, in proporzione alla sua quantità e consistenza.

La maionese con le salse emulsionate all’uovo


Nel linguaggio di cucina con «emulsione» s’intende quel procedimento
grazie a cui due elementi, originariamente non miscibili, lavorati in
condizioni particolari danno vita a un composto omogeneo. La maionese è

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un tipico esempio di salsa ottenuta per emulsione.
Nell’elemento acido di base, aceto di vino o succo di limone, viene sciolto
il sale. Il sale liquefatto aumenta infatti la capacità assimilatrice dei tuorli, che
inseriti nel recipiente vengono sbattuti con la frusta e amalgamati agli altri
ingredienti. La maionese patisce il freddo: così i tuorli vanno utilizzati a
temperatura ambiente (altrimenti non riuscirebbero a legare con l’olio); se
poi si riscalda leggermente l’elemento acido e il recipiente di preparazione
l’emulsione risulterà facilitata. Una volta montati i tuorli si comincerà ad
aggiungere l’olio goccia a goccia, continuando a sbattere con la frusta. Via
via che la salsa prende consistenza, l’olio potrà essere unito a filo. Esaurito
l’olio (in proporzione di 2 decilitri per ogni tuorlo), si potrà assicurare
maggiore stabilità alla salsa, soprattutto se si prevede di conservarla,
incorporandole poco per volta un cucchiaio di acqua calda. Se l’olio è unito
troppo precipitosamente, se ingredienti o utensili sono utilizzati a
temperatura diversa, la salsa rischierà di impazzire. Per ricuperarla si
ricomincia daccapo, incorporando a filo la salsa impazzita a un cucchiaio di
elemento liquido caldo (aceto, succo di limone o acqua).
Ebbene, quella che un tempo fu la regina delle salse fredde oggi è davvero
sul viale del tramonto? In effetti, anche quando sia stata preparata a dovere
(vale a dire adoperando solo uova freschissime e un olio dal sapore
delicato), impregnata com’è di materie grasse, la maionese riesce sempre un
po’ pesante per il gusto attuale e deve perciò essere usata con grande
parsimonia. Una soluzione di compromesso può essere allora quella di
diluirla, stemperandone il gusto e conferendole maggiore fluidità.
Alla maionese s’incorpora a freddo, poco per volta, un elemento liquido:
per esempio, della panna fresca o una riduzione di vino rosso e scalogno, un
buon brodo di carne ristretto, un fumetto di pesce o un coulis di crostacei
concentrato, ma anche un passato di pomodoro o una crema di peperoni
dolci. Chi volesse invece restar fedele al gusto originario della salsa potrà
diluirla semplicemente con acqua, salvo poi completarla con qualche erba
aromatica tritata (come cerfoglio, erba cipollina, prezzemolo o dragoncello).
Al pari dell’originale, la maionese diluita viene servita in accompagnamento
di piatti freddi: eccola perfetta su un cocktail di scampi, su un pesce bollito o
una carne bianca, oppure usata per condire un’insalata di patate o di altre
verdure cotte, e persino un’insalata verde (di cuori di lattuga, per esempio).
Nella cucina creativa è tuttavia consentito servirla anche tiepida: basterà

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diluirla incorporandole poco alla volta un liquido caldo senza smettere mai
di frullarla per evitare che impazzisca.
La maionese è la salsa base dalla quale ne derivano altre quali l’Aïoli,
l’Andalusa, la Chantilly, l’Escoffier, l’Indiana, la Maltese fredda ecc. Vi sono
inoltre salse tipicamente nord-europee che si ottengono emulsionando tuorlo
d’uovo caldo e burro, che può essere chiarificato o no. La prima fase
consiste nel fare uno zabaione (non esiste solo quello dolce) impiegando il
tuorlo e un liquido, generalmente una riduzione d’aceto, tenendo il
recipiente ai margini del fornello. Quando l’uovo, che non dovrà mai
accusare colpi di calore, monta e lavorandolo con la frusta si può vedere il
fondo della padella, si aggiunge a filo il burro chiarificato o solido (a piccoli
pezzi e non freddo di frigorifero), infine, si corregge di sale. La salsa così
ottenuta è particolarmente pastosa perché la cottura ha fatto evaporare le
componenti acquose degli ingredienti. Lo zabaione origina la salsa olandese
dalla quale deriva la salsa Béarnaise. Se a quest’ultima si aggiunge del
passato di pomodoro, essa assume il nome di Choron, mentre se viene
completata con della glassa di carne sciolta, è detta Foyot o Valois.

Dimmi come monti…


Delle varie tecniche per legare una salsa, l’emulsione a caldo con il burro è
caratteristica della cucina moderna. La cucina classica ricorreva alla farina
fatta colorire nel burro, ma questo metodo presenta il doppio inconveniente
di intorpidire le salse e di sottrarre loro sapore. Il burro invece (quand’è
genuino) infonde nella salsa che è chiamato a completare la sua
inconfondibile e fine fragranza, rendendola inoltre liscia e brillante. Che
cosa volere di più?
Ecco dunque come montare una salsa con questo ingrediente: il burro va
utilizzato alla temperatura di frigorifero, tagliato a pezzetti; la salsa va poi
lavorata in una casseruola a bordi bombati, in modo che la frusta possa
raggiungere ogni punto della superficie. Una volta fatta ridurre la salsa sino
alla consistenza desiderata, s’inserisce nella casseruola il burro a fiocchetti, la
si allontana dal fuoco e, imprimendole con una mano un movimento in
avanti e in indietro, tenendo la frusta nell’altra si sbatte energicamente il

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liquido. Se si è impiegata una sufficiente quantità di burro, poco dopo la
salsa si addenserà, raggiungendo una consistenza cremosa: un cucchiaio che
vi sia immerso e quindi estratto ne risulterà allora ricoperto di uno strato
compatto e lucente.
La quantità di burro necessaria per montare una salsa dipende da due
fattori: dal grado di vischiosità della base della salsa e dalle caratteristiche del
burro. Per quanto riguarda il primo fattore, si va dalle riduzioni dei fondi di
cucina (che, essendo assai gelatinose, per montare necessitano di una minore
quantità di burro) agli agenti aromatici come vino, infusi, brodi vegetali o
leggeri che, essendo privi di sostanze addensanti o presentandone tracce
trascurabili, ne richiederanno una quantità maggiore.
Per esempio per montare 5 centilitri di fondo di vitello ridotto a demi-
glace bastano 30 grammi del burro artigianale che utilizzo in ristorante,
mentre nel secondo caso per la stessa quantità di liquido ne sono necessari
circa 80 grammi. Utilizzando invece un burro di buona qualità di quelli che
si trovano comunemente in commercio, la percentuale andrà aumentata di
circa un terzo, ma non è il caso di spaventarsi. Non occorre infatti impiegare
quantità esorbitanti di burro: la salsa, se è stata preparata a regola d’arte, è un
concentrato di sapore, e per condire un piatto ne è sufficiente un cucchiaio
(per principio, il cibo non deve mai navigare nella salsa). Beninteso, per una
questione di sapore, d’equilibrio e di leggerezza, l’impiego di burro di
qualità elevata è sempre consigliabile. In effetti, innanzitutto il sapore del
burro è una componente del gusto della salsa; inoltre più la qualità è elevata
meno burro occorre per montare. Quanto al burro di qualità scadente,
meglio starne alla larga: presentano una percentuale d’umidità in eccesso per
cui non c’è verso di far montare la salsa decentemente. Spesso di gusto
sgradevole o insapore, questo burro è riconoscibile anche dal fatto che, in
padella, si scioglie assai più velocemente degli altri, sfrigolando
rumorosamente, schioppettando e producendo una gran quantità di schiuma
biancastra che tende rapidamente a scomparire.

Una salsa all’ultimo sangue


Oltre alle farine, agli amidi, al burro e alla panna, sono molte le sostanze

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utilizzabili per addensare. Per esempio i tuorli d’uovo, usati come legante di
innumerevoli salse e creme, dolci e salate, e anche il sangue, a cui si applica
un’analoga tecnica di manipolazione. Ecco come procedere.
A una riduzione di vino o acquavite si aggiunge un fondo ottenuto da ossa
e ritagli di cacciagione; si lascia ridurre ulteriormente e quindi intiepidire.
Aggiunto il sangue si rimette sul fuoco a calore moderato e si porta la salsa a
consistenza, continuando a mescolare ed evitando accuratamente di far
bollire (in caso contrario la salsa impazzirebbe): quando il liquido accenna a
rapprendere, si allontana dal fuoco mescolando ancora per un minuto. È il
classico civet, salsa bruna legata col sangue. Tradizionale condimento della
lepre (che, essendo uccisa dallo choc prima che dalle ferite prodotte
dall’arma da fuoco, di solito non muore dissanguata), si presta ad
accompagnare egregiamente tutta la cacciagione di carne rossa.
Il sangue regala alla salsa un gusto intenso e caratteristico, che deve perciò
essere ben dosato. Per legare col sangue basteranno uno-due cucchiai di
sangue per ogni decilitro di salsa, proporzioni ideali perché il gusto molto
marcato del sangue si stemperi con quello del fondo di cacciagione: al di
sotto la salsa rischierebbe di non legare, al di sopra il gusto del sangue
caricherebbe di sé la salsa in misura eccessiva. Beninteso, in mancanza del
sangue dell’animale cacciato si potrà ricorrere a quello di maiale o di pollo,
di più facile reperibilità. Non si tratta però della stessa cosa, perché così si
perde l’aroma particolare della selvaggina.
Anche il fegato può venire impiegato per dar corpo e densità a una salsa,
utilizzando una tecnica che si può considerare una variante dei civet: anche
in questo caso, infatti, si sfrutta il sangue come sostanza addensante, mentre
il fegato arricchisce la salsa col suo profumo e la rende più pastosa. Si dovrà
utilizzare esclusivamente del fegato freschissimo e molto morbido (fegato
d’anatra o di pollo, per esempio, ma anche di selvaggina appena cacciata;
inadatti invece i fegati di coniglio, di vitello o di maiale).
Tagliato il fegato a pezzetti, si ricupera il sangue disperso, si inserisce il
tutto nella salsa tiepida, si passa al frullatore e quindi al setaccio fine. Si
riscalda mescolando continuamente e avendo cura di restare sempre al di
sotto del grado di ebollizione. Si ottiene una salsa ricca e cremosa, che si
presta ad accompagnare le carni rosse. Per non appesantirne eccessivamente
il gusto, le proporzioni da rispettare si aggireranno su 10 grammi di fegato

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per ogni decilitro di salsa.
È infine possibile utilizzare anche del foie gras (cotto o crudo): va
incorporato già setacciato alla salsa (non troppo calda), mescolando con la
frusta. In questo caso si può arrivare a 20 grammi di fegato per ogni decilitro
di liquido di base. Oltre alle carni rosse, le salse al foie gras possono
accompagnare gradevolmente carni bianche, uova e verdura.

La bordolese
Arciclassica tra le salse, quella al vino rosso o bordolese non rappresenta
solo l’ideale suggello di un filetto di bue, ma anche una lezione di metodo
sulla lavorazione dei fondi di cucina, base d’ogni grande salsa.
Ecco come prepararla: si fa sudare nel burro dello scalogno tritato. Uniti
nella casseruola gambi di prezzemolo, alloro, grani di pepe pestati, si lascia
insaporire per qualche istante. Si bagna il tutto con vino rosso: non è il caso
di scegliere un grande vino, perché il fuoco ne snatura le proprietà; basterà
procurarsi un buon rosso, purché non troppo tannico (giacché questa
caratteristica, resistendo alla cottura, renderebbe la salsa sgradevole). Si
lascia quindi consumare il liquido sul fuoco tenue finché non si sia ridotto di
almeno tre quarti del volume iniziale. Impregnandosi degli odori, il vino è
pronto a unirsi a un fondo di vitello già portato a consistenza: ne sarà
necessaria una quantità pari a quella del vino. Si lascia ridurre ulteriormente
finché la salsa non abbia assunto una consistenza sciropposa; si uniscono
allora dei fiocchetti di burro ben freddo, e sbattendo con la frusta, si monta
la salsa così completata.
La bordolese non è solo adatta ad accompagnare le carni, ma anche pesci
e verdure. Il procedimento di esecuzione rimane lo stesso, salvo sostituire il
fondo di vitello, a seconda dei casi, con un fumetto di pesce (nella cui
preparazione si avrà l’accortezza di usare del vino rosso al posto del bianco
che s’impiega di regola) o un brodo vegetale ristretto a base di cipolle,
sedano, carote, porri, gambi di prezzemolo, timo e alloro. Anche in questo
frangente si farà sudare nel burro dello scalogno: questa gigliacea, di gusto
più pungente e netto della cipolla (senza tuttavia presentare l’impetuosa
aggressività dell’aglio), è l’aroma che meglio si presta a dare il «tono» a

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questa come a numerosissime altre salse. Si bagna quindi con il vino rosso e
si lascia ridurre fino a un quarto del volume iniziale, si unisce il fondo
prescelto e si lascia consumare ulteriormente il liquido sul fuoco, ottenendo
con ciò quella concentrazione di sapori che è la finalità d’ogni salsa.
L’operazione conclusiva consisterà nel montare la salsa al burro,
emulsionando a fiocchetti con la frusta. È eccellente, per esempio, su filetti
di triglia o di salmone cucinati in padella, o – nella versione vegetariana – su
cipolle, carciofi e porri.

Succo di un pomodoro di mezza estate


Penso soprattutto al pomodoro agostano: carico di sole, quando raggiunge
quella pienezza di gusto e quel grado di maturazione che lo rendono dolce al
palato. Non è un peccato, allora, alterarne in cottura l’originaria fragranza?
Al di là del suo ovvio impiego nelle insalate, esistono molti altri modi per
apprezzarlo da crudo, a cominciare dal tradizionale gazpacho andaluso. Col
pomodoro crudo, inoltre, si possono preparare ottime salse di semplice
esecuzione: tuffato per qualche istante in acqua bollente, il pomodoro va
spellato, aperto e privato dei semi. Passato o frullato, si condirà all’ultimo
momento con olio, sale e pepe, aggiungendo come tocco aromatico qualche
erba fresca (per esempio, dragoncello, basilico ed erba cipollina). Volendo
una salsa più acidula (adatta al pesce), si potrà aggiungere al passato un po’
dell’acqua di vegetazione del pomodoro. Anche un goccio d’aceto
accentuerà gradevolmente il tono acidulo. Condimento eccellente di pesce
lessato, marinato o cotto al vapore, perfetto sulle terrine di verdura e le paste
fredde, le salse crude di pomodoro si prestano anche a condire le insalate
verdi.

La fonduta alla piemontese


Non si tratta propriamente di una salsa. Per quanto possa essere utilizzata
come tale (per esempio per accompagnare un soufflé al formaggio o condire

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una pastasciutta), la tradizione la vuole servita come crema, con la
guarnizione di crostini e tartufi. In ogni caso la fonduta regala alla cucina
italiana uno dei suoi sapori più tipici e più felici.
La sua realizzazione non presenta particolari difficoltà, a patto di
rispettarne scrupolosamente il procedimento. Seguiamone le diverse fasi.
La fontina, tagliata a striscioline, viene dapprima ricoperta di latte e
lasciata macerare per un paio d’ore. La cottura avviene a bagnomaria, vale a
dire inserendo in un recipiente (preferibilmente a fondo sferico) all’interno
d’un altro posto sul fuoco e contenente dell’acqua in ebollizione.
Mescolando con la frusta, il latte e il formaggio vengono fatti sciogliere nel
bagnomaria con qualche fiocchetto di burro. Quando la fontina ha finito di
sciogliere inizia a filare, formando un unico grande gnocco gommoso.
S’incorporano allora uno per volta i tuorli d’uovo (mediamente uno per ogni
etto di fontina), senza mai smettere di mescolare. A un certo punto il
composto improvvisamente «cede», e diventa liquido (se non dovesse farlo,
basterà aggiungere altri tuorli d’uovo). Seguitando a mescolare, le uova
cuociono senza raggrumare, facendo ispessire il liquido sino a portarlo a
consistenza cremosa: la fonduta è così pronta. Nel caso in cui risulti troppo
densa, si potrà diluire con un goccio di latte o di panna. Se invece si presenta
ruvida e granulosa, non c’è purtroppo rimedio di sorta poiché
l’inconveniente è dovuto alla qualità della fontina adoperata.

Profumo di curry
Dell’arte di manipolare le spezie conosciamo a malapena i rudimenti:
macinare pepe, grattugiare noci moscate o aggiungere l’immancabile pizzico
di peperoncino. La cucina indiana ha invece elevato questi gesti a forme di
virtuosismo, così che pestar grani, rimestare polveri e dedicarsi all’alchimia
degli aromi per insaporire pietanze rappresenta laggiù una pratica quotidiana.
L’esempio più significativo è senza dubbio il curry, o meglio i diversi
curry che variano da regione a regione e differiscono notevolmente nella
composizione e nel sapore. L’usanza prescrive che, una volta radunate tutte
le spezie necessarie, la polvere di curry venga preparata al momento. In
effetti, conservandola troppo a lungo – come accade inevitabilmente ai curry

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che si trovano in commercio – l’originaria esuberanza degli aromi si spegne
per far posto ai sapori più acri e pungenti: per questo è sempre preferibile
prepararlo periodicamente in casa in piccoli quantitativi. Scelte le
componenti del curry, si fanno riscaldare dolcemente le spezie sul fuoco, poi
si pestano nel mortaio e solo allora si mescolano le diverse polveri ottenute.
La leggera tostatura e la loro immediata polverizzazione fanno sì che queste
spezie sprigionino l’apice della loro fragranza: basta effettuare il confronto
con un curry preconfezionato perché la differenza balzi subito al naso.
Da quanto ho avuto modo di sperimentare, mi pare che ad alcune spezie
in particolare si possa attribuire il ruolo di protagonista: per esempio, pepe e
peperoncino danno il piccante, il coriandolo la dolcezza, la curcuma il colore
e il retrogusto, il cardamomo l’intensità del profumo (benché non tutti i
curry facciano uso di queste spezie). Altre, come lo zenzero, il cumino o il
macis, intervengono per lo più come comprimarie, conferendo ai curry
sfumature particolari nell’aroma e nel gusto.
Chi volesse cimentarsi nella preparazione domestica del curry potrà
seguire le dosi che indico più avanti a titolo indicativo, salvo poi sbizzarrirsi
a sperimentarne le possibili variazioni a piacimento del gusto. Ecco dunque
le proporzioni per la preparazione d’un curry dolce e profumato, dal gusto
gentile e poco aggressivo (utilizzando spezie in polvere, bisognerà ridurre le
dosi della metà): mezzo cucchiaino di pepe nero in grani, una punta di
peperoncino piccante, mezzo cucchiaino di semi di cardamomo (privati del
baccello), quattro cucchiaini di coriandolo, cinque cucchiai di curcuma, un
cucchiaio di zenzero secco, mezzo cucchiaio di macis, mezzo cucchiaio di
cumino. Le spezie vanno tostate separatamente in un pentolino di ferro a
fuoco molto dolce, lasciate raffreddare e pestate nel mortaio in polvere fine.
La polvere va quindi passata attraverso un setaccio da farina e conservata in
un barattolo a chiusura ermetica. La salsa al curry si prepara incorporando la
polvere a una base così ottenuta: si fa sudare nel burro dello scalogno tritato,
si bagna poi con del vino bianco e si lascia sfumare il liquido sul fuoco.
Aggiunta della panna fresca, si fa quindi addensare leggermente. Alla fine, si
aggiunge un pizzico di polvere di curry e si protrae brevemente la cottura.
La salsa al curry si può abbinare a riso pilaf, pastasciutta, verdure
(soprattutto piselli, zucchine e peperoni), pesci, crostacei e carni bianche. La
polvere può anche essere incorporata direttamente a un risotto durante la
cottura.

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La senape
La sua nota piccante e acidula sgrassa il palato da würstel, hot dog e salsicce
di varia ascendenza. Non per questo disdegna di frequentare le dispense
dell’alta cucina. Anzi, la senape è qui apprezzata proprio per quel suo tocco
semplice e rusticheggiante da cui molti piatti non possono che guadagnare.
Si può intanto utilizzare come spezia, pestandone semplicemente i grani
per incorporarli a una salsa o farli addirittura aderire per esempio a un filetto
di manzo o a un petto d’anatra, come se si trattasse di pepe. La carne rosola
in padella impregnandosi dell’aroma della senape e viene servita tempestata
dai frammenti dei suoi granelli. Va però precisato che questi, utilizzati alla
stregua di una semplice bacca aromatica, presentano un gusto meno
pungente e più amarognolo rispetto alla salsa di senape propriamente detta.
Il sapore piccante che ci è familiare è infatti dovuto a un olio essenziale che
si sviluppa solo quando i granelli, pestati o polverizzati, vengono lasciati
macerare in acqua fredda (perché si sviluppi la reazione è necessario un
buon quarto d’ora). Perciò, volendone sfruttare appieno la piccantezza, i
granelli possono essere trattati nel modo testé descritto, o anche mescolati a
una salsa di senape preconfezionata.
Quanto a queste, si distinguono in tre categorie fondamentali: la senape
bianca o di Digione, dal color giallo canarino, ottenuta da farina di senape,
forte e piccantissima. Quella di Bordeaux, anch’essa in pasta fine, di color
ocra e gusto agrodolce, spiccato ma meno piccante. Infine, la senape di
Meaux o à l’ancienne, che è anche la capostipite delle precedenti: a dispetto
della croccante presenza dei granelli pestati, ha rispetto alle altre un gusto più
dolce e delicato. Le salse di senape vanno utilizzate prevalentemente a
freddo, oppure incorporate a una salsa tiepida preparata in precedenza. In
effetti, la senape s’innesta con grande disinvoltura sulle salse
d’accompagnamento di carni bianche e rosse; come contrappunto aromatico,
riesce altrettanto gradita a un fegato o un rognone di vitello. Può, essere
stemperata altrettanto validamente nelle salse fredde e in una maionese, per
esempio, per accompagnare il pesce o le carni fredde; in una vinaigrette, per
condire un’insalata verde o della carne cruda; in yogurt o panna acida, in
abbinamento a un salmone marinato; in una salsa tartara (maionese guarnita
con capperi, cetrioli e prezzemolo), da servire con le fritture di pesce.

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39
3.

Delle tecniche di cottura

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Nell’arte culinaria esistono procedimenti di cottura applicabili a diversi
generi di alimenti. Si tratta di tecniche generali, spesso conosciute sin dagli
albori della civiltà, codificate e sempre più perfezionate nel tempo, che
costituiscono i rudimenti basilari senza i quali la cucina (per lo meno nella
forma in cui ci è nota) non potrebbe esistere.

L’arte di rosolare
I principi della corretta rosolatura si fondano su rigorosi rapporti. Il primo è
quello che intercorre tra la dimensione dell’alimento e il diametro della
casseruola: se quest’ultimo è eccessivamente ampio, la superficie di grasso
che rimane scoperta tenderà a bruciare; viceversa, se il cibo è troppo
ammassato, si formerà del vapore che lo farà stufare anziché rosolare a
dovere.
Il secondo concerne la quantità di calore richiesta dal tipo di condimento
impiegato: ogni grasso tollera infatti una determinata temperatura oltre la
quale brucia, divenendo indigesto. D’altra parte, al di sotto d’un certo grado
il cibo non rosola. Il terzo, infine, riguarda la proporzione tra l’intensità della
fiamma e lo spessore della casseruola: il giusto spessore è quello che
consente alla casseruola, una volta che essa abbia accumulato il calore
necessario, di mantenerlo quando vi s’inserisca l’alimento. In caso contrario
quest’ultimo provocherebbe un abbassamento della temperatura con la
conseguenza, per esempio, di far sciacquare (ovverossia di rendere
«stopposa») una carne di cui la preparazione corretta avrebbe invece
salvaguardato la tenerezza. Lo scopo della rosolatura è infatti quello di
provocare la formazione di uno strato protettivo che impedisca la fuoriuscita
dei succhi nutritivi contenuti in un alimento.
Da quanto detto, risulterà allora chiaro che – una volta scelta la casseruola
del diametro e dello spessore adeguato e stabilito quale grasso convenga
impiegare – la quantità di calore necessaria per rosolare rimane la stessa
indipendentemente dalla natura dell’alimento da cuocere. In tal modo solo i
tempi di cottura varieranno volendo cucinare, per esempio, un filetto di bue
o una costoletta di vitello.
Per quanto riguarda poi il grado di rosolatura, personalmente ritengo che

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quello consentito dal burro sia sufficiente anche per le carni rosse. Non
condivido infatti la predilezione che taluno accorda alla carne «abbrustolita»,
su cui si è formata una vera e propria crosta superficiale (in tal caso, in
effetti, occorre ricorrere a grassi come l’olio o lo strutto che reggono
temperature elevate). Detto per inciso, anche la cottura sulla griglia,
contrariamente a quel che comunemente si crede, deve scrupolosamente
evitare una smodata quantità di calore: la caratteristica striatura che il ferro
produce sulla carne non deve mai arrivare a diventare nera, perché ciò
significa che l’alimento è stato carbonizzato e le sue fibre sono state distrutte.
In fatto di rosolatura, non v’è dubbio che i migliori risultati si ottengano
utilizzando casseruole di rame stagnato (dello spessore di circa 3,5
millimetri). Il rame è infatti un eccellente conduttore di calore, mentre lo
spessore ragguardevole consente di mantenerne la quantità necessaria. Lo
stagno, per parte sua, non attacca, non altera il sapore dei cibi e, prerogativa
non trascurabile, possiede quel colore «matto» che permette di controllare le
varie fasi della cottura. Tanto per fare un esempio, è così che la schiuma del
burro che svanisce e il color nocciola cui esso tende (cose che lo stagno fa
risaltare perfettamente) ci indicano che è giunto il momento di inserire il
pezzo da dorare. Le casseruole adatte alla rosolatura sono di due tipi.
Entrambe a bordo basso, l’una ha forma cilindrica (sautoir), l’altra a tronco
di cono (sauteuse); quest’ultima va utilizzata quando, a cottura ultimata ed
estratto l’alimento, si dovrà deglassare il fondo (cioè sciogliere con un
liquido i depositi albuminosi rimasti attaccati): per montare la salsa infatti,
occorre raggiungere con la frusta ogni angolo della casseruola. Nel
contempo il colore neutro dello stagno consentirà di controllarne il grado di
lucentezza.

Postilla: come s’impana


II procedimento dell’impanatura si adatta ai tagli teneri delle carni bianche.
Inadatte, invece, le carni rosse per l’eccesso di sangue che contengono che,
inumidendo la panatura mentre cuoce, le impedirebbe di divenire croccante.
Anche i pesci possono essere impanati e in questo caso si può fare a meno
dell’uovo come collante. Come regolarsi nella scelta del pane? È bene

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impiegare solo la mollica di un pane leggermente raffermo.
Crosta e pane secco tendono infatti a indurire eccessivamente durante la
rosolatura. Personalmente prediligo la mollica di pan carré setacciata
(anziché grattugiata) quando è ancora tenera. Il pezzo da cuocere viene
passato nell’uovo sbattuto (tuorlo e albume), poi nel pangrattato, premendo
bene per ottenere la necessaria aderenza, e quindi scrollato per eliminare il
superfluo. Poiché la rosolatura esterna e la cottura interna procedono
simultaneamente, la temperatura del fornello dovrà consentire all’alimento di
cuocere, impedendo tuttavia alla panatura di annerire. Infine, che tipo di
grasso conviene impiegare? Tenendo conto che la panatura tende a
impregnarsi del suo sapore, il burro, per la sua finezza, appare il più adatto,
soprattutto nel caso di carni e pesci dal gusto delicato.

Il riposo dell’arrosto
All’inizio si usava lo spiedo, poi vennero forni e fornelli e gli arrosti si
moltiplicarono. Il principio è unico: sottoporre la carne all’azione del calore
intenso per sigillarne i pori e imprigionarne i succhi all’interno; diminuire
quindi la temperatura per consentire la penetrazione del calore, vale a dire la
cottura.
Tralasciando l’ineguagliato ma poco pratico metodo dello spiedo, la
rosolatura iniziale potrà essere effettuata in casseruola (sul fuoco del
fornello) oppure direttamente in forno (una soluzione più adatta ai pezzi di
grandi dimensioni). In quest’ultimo caso il forno deve essere preriscaldato a
una temperatura elevata (250 °C all’incirca) e il pezzo unto con un grasso
capace di reggerla: il solo burro non va bene perché brucerebbe. Se la
rosolatura iniziale avviene invece sul fornello, il burro può essere impiegato
giacché la cottura proseguirà in forno a una temperatura tollerata da questo
grasso.
Quale che sia la tecnica adottata, a rosolatura eseguita il pezzo cuoce sui
180 °C, irrorato costantemente con il grasso che cola (senza questa
indispensabile operazione lo strato superficiale seccherebbe senza rimedio).
D’altra parte l’arrosto non va nutrito se non di grasso: ogni altro liquido,
infatti, scioglierebbe la crosticina superficiale provocata dalla rosolatura,

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snaturando così le caratteristiche dell’arrosto. Infine, per ottenere una cottura
uniforme sotto la sola azione del calore, è bene cuocere il pezzo appoggiato
direttamente sulla gratella del forno, anziché su una teglia che
provocherebbe la formazione di vapori.
Come si riconosce il momento in cui è giunto il tempo di estrarre l’arrosto
dal forno? Per il pollame il metodo è elementare: s’inclina il volatile e si
controlla il colore del liquido che fuoriesce dall’interno. Se è rosato,
l’arrosto non è ancora pronto; se è limpido e incolore, è giunto a cottura; se,
infine, non esce alcun liquido, l’arrosto è stato cotto troppo a lungo e la
carne risulterà, asciutta e stopposa. Riferendosi al precedente metro di
valutazione, si potrà anche pungere la coscia dell’animale e controllare il
colore del liquido che ne zampilla. Quest’ultimo metodo può venire
applicato a tutti i capi di carne bianca (maiale, vitello, coniglio ecc.). Per le
carni rosse, viceversa, questa tecnica è sconsigliabile perché provocherebbe
una fuoriuscita di sangue. Le carni rosse, infatti, non debbono mai essere
infilzate né durante la cottura, né quando vengono affettate (il forchettone
che tiene fermo il pezzo vi verrà semplicemente appoggiato sopra). Il grado
di cottura si riconosce tastando la carne, che, quand’è cotta, risulta elastica:
se non offre resistenza al tatto è ancora cruda; se ne offre troppa, la cottura è
stata eccessivamente prolungata.
L’ultima ma fondamentale regola da osservare per ottenere un arrosto
perfetto, consiste nel far riposare il pezzo a cottura ultimata per mezz’ora o
più, a seconda delle dimensioni. Durante la cottura, infatti, il calore ha
compresso il sangue e i succhi al centro della massa di carne ed è necessario
dar loro tempo perché possano rifluire verso l’esterno e far sì che l’arrosto
presenti una cottura uniforme. Questa precauzione è tanto più necessaria
quando si tratta di carni rosse: affettando un arrosto «al sangue» subito dopo
l’estrazione dal forno, i succhi e il sangue concentrati all’interno si
perderebbero senza rimedio mentre l’arrosto risulterebbe praticamente crudo
al centro, secco in superficie e per nulla tenero. Viceversa, lasciato riposare,
l’arrosto prenderà una colorazione uniforme (è questo il segreto dei roast-
beef perfettamente rosati), mentre le fibre muscolari hanno il tempo di
rilassarsi, da contratte quali erano, rendendo così tenera la carne. Beninteso,
in questa fase di riposo, il pezzo non va fatto raffreddare: ricoperto con un
foglio d’alluminio o un recipiente, verrà posto su un piatto caldo o in uno
scaldavivande.

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Varietà di fritture
Per ottenere una frittura degna di questo nome la scelta del grasso è
d’importanza capitale. Quello di rognone bovino resta il migliore: ha infatti
un’ottima resistenza alle alte temperature e tra i grassi è sicuramente quello
che meno altera il sapore dei cibi. Dopo aver liberato il rognone della coltre
di grasso che lo ricopre, si fa sciogliere il grasso stesso in una casseruola con
acqua sufficiente a ricoprirlo per metà. Cuocendo, l’acqua evapora e il
grasso diventa limpido; viene allora filtrato per eliminarne i filamenti e le
impurità. Non essendo tuttavia di facile reperibilità, per le fritture si ricorre
più spesso agli oli vegetali.
Ma quale olio conviene impiegare? È bene tener presente che ogni grasso
ha uno specifico grado di tolleranza al calore (il cosiddetto «punto di fumo»)
al di là del quale alcune sue componenti si decompongono e lo rendono
indigesto. Perciò, per friggere in profondità (che vuol dire a temperature
elevate), occorrerà regolarsi di conseguenza: gli oli di soia, di noce e di
vinacciolo, per esempio, sono inadatti allo scopo. Anche gli oli di semi vari
sono da sconsigliare, perché le percentuali d’olio poco resistenti al calore
abbassano il punto di fumo complessivo. L’olio d’oliva di bassa acidità
(extravergine e sopraffino vergine), pur sopportando bene il calore, è
sconsigliabile perché impregna il cibo del suo sapore in misura eccessiva.
L’olio più adatto alla frittura è invece quello d’arachide, che tollera i 200 °C.
Tra le fritture di immersione esiste una distinzione fondamentale: le
fritture a temperatura elevata (180 °C e più, a seconda delle dimensioni dei
pezzi) si applicano a cibi che, richiedendo cotture brevi, necessitano
dell’immediata formazione della rosolatura superficiale: è il caso dei pesci di
piccole dimensioni e dei cibi impanati o avvolti in pastella, il cui involucro
deve solidificare subito per poter risultare croccante e non assorbire materia
grassa. La temperatura elevata si riconosce dal crepitio che il grasso produce
lasciandovi cadere una goccia d’acqua o un oggetto umido.
Una frittura a temperatura media (130-140 °C) è invece adatta alle verdure
e alla frutta di cui è necessario far evaporare l’acqua di vegetazione per
ottenere un fritto croccante (per la stessa ragione si impanano o si avvolgono
nella pastella solo vegetali già cotti). La frittura leggera si applica anche ai
pesci non troppo piccoli o, più in generale, agli alimenti che per cuocere

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richiedono la penetrazione del calore all’interno. A 180 °C, infatti, un pesce
di medie dimensioni brucerebbe all’esterno o rimarrebbe crudo internamente
(maestri delle fritture, i cinesi preferiscono adottare in questo frangente un
metodo diverso: per cuocere un pesce di dimensioni ragguardevoli, ne
incidono obliquamente i filetti fino alla lisca in più punti, tenendo il pesce
per la coda; esso si apre allora a ventaglio e con un mestolo versano l’olio
bollente nelle incisioni fino a cottura). La frittura a media temperatura può
anche costituire un inizio di cottura e proseguire poi a calore più sostenuto:
così si preparano, per esempio, le patate fritte.
Per friggere a temperatura elevata è sempre consigliabile cuocere in
immersione: i pezzi non potrebbero altrimenti risultare perfettamente
croccanti né cuocere uniformemente, ma finirebbero con l’attaccarsi gli uni
agli altri restando molli e imbevuti di materia grassa. Detto per inciso,
quando (per eliminare l’eccedenza di grasso) asciugate una frittura sulla carta
assorbente, evitate di coprirla: si creerebbe infatti dell’umidità,
compromettendo la sua croccantezza.
L’olio di frittura può essere d’altro canto riutilizzato, a condizione di
filtrarlo dopo ogni uso attraverso un colino fine o un telo. L’olio va
sostituito quando presenta un aumento di viscosità, colore scuro, e in cottura
produce un eccesso di schiuma fine e giallastra che tende a debordare dalla
friggitrice. Per rispetto del palato, tuttavia, ci si asterrà dall’impiegare l’olio
in cui si è fritto del pesce per cuocervi alimenti di genere diverso (anzi,
sarebbe bene riservare al pesce anche un recipiente di cottura esclusivo).
Il fritto perfetto non deve risultare scuro, ma di color nocciola, indizio di
una corretta cottura e di un olio pulito. Un’ultima annotazione sul gusto: per
non correre il rischio di appiattirlo, sarebbe sempre opportuno alternare a
una frittura una salsa o un contorno che ne spezzino la monotonia. Non è un
caso se la cucina orientale accompagna i fritti con salse piccanti o agrodolci;
noi possiamo sostituirle con salse al pomodoro o alla crema, oppure con
un’insalata o delle verdure cotte in umido.

Pastelle d’Oriente
In un fritto degno del proprio nome, la pastella deve esser rigonfia o sottile?

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E il cibo all’interno morbido o croccante? Se le fritture nostrane si
arrovellano sull’annoso dilemma, adottando per lo più soluzioni di
compromesso, la cucina orientale ha saputo sciogliere il dualismo
gastronomico in una diplomatica spartizione in zone d’influenza. In effetti,
sposando due cause distinte, Cina e Giappone hanno saputo portarle alle
estreme conseguenze, affinando le tecniche a impensabili livelli di
perfezione. Di fatto, le pastelle da frittura riflettono laggiù due filosofie del
gusto in contrapposizione. Quella confezionata alla cinese – barocca e
mimetizzante – si gonfia in cottura come un bigné o un krapfen per cuocere
l’alimento (sia esso pesce, carne, frutta e verdura) comodamente protetto
all’interno, con una delicatezza paragonabile solo alle cotture in vescica o al
vapore. Al termine si ottiene un piacevolissimo contrasto tra la croccantezza
dell’involucro e la morbidezza del cibo che vi è racchiuso. Per raggiungere
questo risultato è necessario incorporare all’impasto agenti dilatanti quali gli
albumi montati a neve, il bicarbonato o, al posto dell’acqua, la birra.
Nessuno di loro, tuttavia, sortisce effetti altrettanto dirompenti quanto il
lievito di birra.
Diametralmente diverso è lo stile della pastella giapponese, ridotta a un
impalpabile rivestimento protettivo che ha lo scopo di risparmiare al cibo la
violenza del contatto col grasso ad alta temperatura. La crosticina di pastella
che si forma in superficie serve infatti a sostituire quella che, a detrimento
del sapore naturale dell’alimento, si formerebbe immergendolo spoglio nella
frittura. Come un abito pulviscolare, sobrio ed essenziale, a differenza della
sua antagonista la pastella nipponica lascia trasparire la forma e il colore
degli alimenti. Se appare più leggera alla prova del palato, lo è sicuramente
in fase di digestione. Il segreto delle pastelle giapponesi è la lavorazione a
freddo. Vanno preparate così: dopo aver versato un tuorlo d’uovo in una
tazza, riempitela d’acqua ghiacciata e, amalgamatela alla stessa quantità di
farina. Mescolate delicatamente e per breve tempo, quel tanto che basta
affinché gli ingredienti si amalgamino (non importa se si forma qualche
grumo, si scollerà dal fritto durante la cottura). L’ingrediente prescelto,
asciutto e spolverato di fecola, non appena intinto nella pastella si tuffa
nell’olio crepitante. Debbo dire che la pastella riesce altrettanto bene
escludendo il tuorlo. L’essenziale è lavorare gli ingredienti a freddo: a questo
scopo un utile accorgimento è quello di impastarli in una bacinella inserita in
un recipiente pieno di ghiaccio tritato, o addirittura aggiungendo dei cubetti

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di ghiaccio alla pastella stessa.

La controversia tra il brodo e il lesso


I procedimenti di preparazione per ottenere un buon brodo di carne, ovvero
un buon lesso, differiscono per principio. Nel primo caso, infatti, lo scopo è
quello di estrarre dall’alimento tutte le sostanze solubili (e con esse il suo
sapore). Per questa ragione la carne va immersa in acqua fredda e portata
pigramente a una temperatura appena al di sotto del grado di ebollizione; il
liquido viene quindi schiumato e aromatizzato con verdure ed erbe odorose.
Nel secondo caso si tratta invece d’impedire la dispersione dei succhi
nutritivi contenuti nella carne: questa deve essere allora immersa in acqua
bollente, preferibilmente già aromatizzata (si potrà usare un brodo vegetale
o, ancor meglio, un brodo di carne preparato in precedenza). In tal modo si
provoca – secondo un principio analogo a quello della rosolatura – la
formazione di una superficie protettiva che ostacola la fuoriuscita delle
sostanze estrattive: per ridurla al minimo è bene lessare tagli di dimensione
grande o media, mentre per i brodi ci si regolerà altrimenti, scegliendo pezzi
piccoli. Dopo questa scottatura iniziale, la cottura della carne prosegue,
esattamente come nel caso del brodo, alla temperatura di 94-95 °C, quando il
liquido «sobbolle». Per strano che possa sembrare, il segreto per ottenere un
buon bollito consiste proprio nel non farlo bollire.
Così facendo, da una parte si ottiene un brodo perfettamente limpido che
rende superflua la chiarificazione con gli albumi (che, oltre alle impurità,
sottrarrebbe comunque sapore); dall’altra, questa temperatura consente una
penetrazione calibrata del calore nell’alimento, conducendo a una cottura che
allenta, senza tuttavia distruggere, il suo tessuto connettivo: la carne risulta in
tal modo tenera, ma non filacciosa e asciutta.
Un buon lesso non deve infatti essere stracotto. La carne è pronta quando
le sue fibre muscolari sono intenerite (il forchettone vi dovrà penetrare senza
incontrare resistenza). Carni diverse richiederanno pertanto tempi di cottura
differenti: se i tagli più resistenti appaiono quelli che meglio si prestano a
questo tipo di cottura, anche un filetto di manzo, fatto sobbollire in un brodo
ben aromatizzato e tenuto al sangue, dà risultati eccellenti. Venendo ai brodi,

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se è vero che sottraggono sapore alla carne che vi viene fatta cuocere,
quest’ultima è «a fondo perso» solo in senso relativo giacché, pur cedendo
al liquido gran parte delle sue proprietà nutritive e gustative, può tuttavia
essere riutilizzata (per esempio, in umido). Si tratta però di un ripiego e non
ci si debbono aspettare grandi risultati.
Oltre alla temperatura «controllata», altri accorgimenti comuni a entrambe
le tecniche di cottura sono una schiumatura frequente e un uso parsimonioso
del sale. L’eliminazione della schiuma è un’operazione indispensabile che va
effettuata con tempismo: in caso contrario il brodo s’intorbidirebbe e le sue
qualità organolettiche verrebbero compromesse (e con queste, benché in
misura meno accentuata, anche quelle della carne). Il sale va infine
impiegato in quantità modeste perché il lesso è più gustoso, e quindi più
digeribile, se condito con del sale grosso macinato al momento. D’altra parte
a un eccesso di sale nel brodo (per esempio dopo averlo ristretto) non c’è
rimedio, mentre nulla è più facile che aggiungerne quando ciò risulti
necessario.
Gli specialisti di scienza dell’alimentazione hanno decretato l’estrema
povertà nutritiva dei brodi. Vi si potrà comunque rimediare, come insegna la
nostra ricca tradizione di zuppe e minestre. In ogni caso, un buon brodo
ristretto, bevuto caldo senz’altra aggiunta, resta un tonico impareggiabile.

I segreti del vapore


Ci si può cucinare di tutto: verdure, pesci, carni (soprattutto quelle magre); i
cinesi l’adoperano per cuocere i ravioli, i giapponesi persino le uova.
Semplice ed economica, l’esposizione al vapore è tra le tecniche di cottura
quella che meno altera il sapore naturale dei cibi. A differenza della bollitura
(cui resta peraltro strettamente imparentata) essa impedisce infatti la
dispersione nell’elemento liquido delle sostanze nutritive contenute
nell’alimento, che viene così sottoposto all’azione del calore senza dover
sacrificare alcuno dei suoi succhi e umori.
L’elemento liquido può essere neutro (semplice acqua bollente) oppure
aromatizzato. Nel secondo caso l’alimento si impregna dei vapori aromatici
del liquido prescelto (brodo, vino o altro) che concorrono ad arricchirne il

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sapore. Per esempio, volendo cuocere una pollanca si potrà utilizzare il
vapore di un brodo vegetale a base di cipolle, sedano, carota ed erbe
odorose (vale a dire i tradizionali ingredienti aromatici del bollito), così
come un filetto di sogliola o delle code di scampi si prestano altrettanto
felicemente a essere cucinate nel vapore di un fumetto di pesce. Al termine
della cottura il liquido aromatico potrà essere ricuperato come base della
salsa d’accompagnamento.
Per portare correttamente a termine la cottura è necessario che l’alimento
prescelto resti sospeso in modo da evitargli il contatto col liquido in
ebollizione (per la stessa ragione è bene mantener sempre una distanza di
sicurezza). Il mezzo di sostegno (solitamente una gratella metallica) deve
inoltre consentire il passaggio del vapore, mentre un coperchio lo trattiene
all’interno del recipiente in modo che l’alimento ne resti completamente
immerso. Per garantire una cottura regolare si eviterà infine l’ammassamento
del cibo.
A parte i forni a vapore professionali, esistono diversi utensili che,
rispettando queste regole basilari, consentono di ottenere risultati
impeccabili. In commercio si trovano ormai senza difficoltà pentole
appositamente predisposte per questo tipo di cottura (prima dell’acquisto
converrà in ogni caso sincerarsi che siano realmente soddisfatti tutti i
requisiti necessari al buon esito dell’operazione: controllate per esempio che
il recipiente possa contenere liquido a sufficienza anche per cotture
prolungate, come quelle del pollame o delle patate, pur restando al di sotto
del livello di guardia).
Impareggiabili, per praticità ed economia, i cestelli cinesi di bambù: si
possono inserire, immersi nell’acqua per metà altezza, in qualsiasi recipiente
capace di contenerli (i cestelli esistono peraltro di diverso diametro). Si
possono incastonare l’uno sopra l’altro e sono molto resistenti, nonostante le
apparenze. Adoperando un cestello nuovo si avrà l’avvertenza di evitare al
cibo il contatto diretto col bambù, che potrebbe alterarne il sapore (basterà
frapporgli qualche foglia d’insalata o un tovagliolo). Con l’uso, tuttavia, il
bambù non lascerà più odore.
Assai diffusi, anche se non particolarmente efficaci, sono i cestelli
metallici di ampiezza regolabile, dotati di lamelle mobili che si aprono a
petalo: i loro piedini di sostegno non sono infatti quasi mai sufficienti ad
assicurare la distanza utile tra il cibo e il liquido.

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Le cotture in umido
Lo scopo delle cotture in umido è quello di provocare uno «scambio
aromatico» tra il liquido (vino, brodo, sugo di pomodoro o altro) in cui
viene cucinato l’alimento e l’alimento stesso, sia esso vegetale o animale.
Sottoposto a una cottura lenta a fuoco basso in un tegame coperto, il cibo
s’impregna dei vapori che si creano all’interno del recipiente, cedendo nel
contempo i suoi succhi e umori al liquido di cottura, che si trasforma così in
un intingolo sempre più ricco e saporito.
Nella fattispecie brasato e stufato indicano due procedimenti di cottura
simili ma non equivalenti. Sebbene il lessico culinario sia al riguardo
alquanto controverso, almeno in Italia si conviene di riservare il primo
termine alle cotture in umido che prevedono la rosolatura preliminare del
pezzo, il secondo a quelle che la escludono (lo stufato può essere così
definito un «brasato in bianco»). Lo stracotto è invece uno stufato di carne
dalla cottura protratta a lungo: la carne, che ha ormai ceduto al sugo tutto il
suo sapore, risulta allora estremamente tenera e friabile.
Mentre la stufatura conviene in generale ai pesci e agli ortaggi (ne sono un
esempio i guazzetti di pesce in olio e acqua o pomodoro, le stesse zuppe di
pesce e le infinite varietà di verdure in umido), nel caso delle carni la
brasatura fornisce risultati superiori.
La rosolatura rende infatti la carne e il sugo di accompagnamento più
gustosi e saporiti, migliora colore e attrattiva della pietanza e rallenta, grazie
alla formazione della crosticina superficiale, la fuoriuscita dei succhi nutritivi
dando in tal modo alle parti muscolose e ricche di gelatina il tempo di
sciogliersi prima che l’alimento abbia ceduto tutti gli umori all’elemento
liquido in cui viene fatto cuocere. In tal modo al termine della cottura la
carne risulterà morbida ma non sfibrata, ancora ricca di umidità e di sapore.
Effettuata la rosolatura, si uniscono le verdure e si lasciano insaporire
(verdure e odori vanno dosati con parsimonia, tenendo conto che si tratta di
una componente aromatica del piatto e non della sua dominante). Scolata
l’eccedenza di grasso, si bagna con il liquido aromatico prescelto: vino (in
cui si è eventualmente lasciato marinare il pezzo), brodo, fondo di vitello o
salsa di pomodoro. Si lascia sobbollire pigramente con la casseruola coperta
sino a che la carne è divenuta tenera e il piatto, in un paziente e progressivo

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amalgamarsi dei sapori, ha guadagnato corpo e carattere.
Tra le altre precauzioni da osservare per portar felicemente a conclusione
la cottura di un brasato, due sono degne di esser ricordate. Innanzitutto, una
volta che la carne è cotta, si avrà cura di sgrassare il sugo, in caso contrario
questo, riuscendo oltremodo unto e indigesto, guasterebbe l’armonia di
sapori in cui è racchiusa la riuscita del piatto. Basterà allora lasciar affiorare
il grasso in superficie (inclinando leggermente il recipiente di cottura) e
raccoglierlo poco per volta con un cucchiaio. Inoltre, la consuetudine di
ispessire il sugo di accompagnamento con le verdure passate va evitata. A
cottura ultimata le verdure hanno infatti ceduto al sugo tutto ciò che
potevano dargli: incorporandole alla salsa esse non potrebbero che
intorbidirla, nell’aspetto e nel gusto e, se dovesse esser conservata,
finirebbero pure con l’inacidirla. È invece una buona regola sostituire
(quando sia possibile) le verdure brasate insieme alla carne con verdure
fresche fatte stufare all’ultimo momento.
Il ragoût di carne, o «salsa bolognese», è un significativo esempio di
brasato (per questo sostengo che non vada servito col parmigiano: a chi
verrebbe mai in mente di grattugiare del formaggio su uno spezzatino?): si
rosola la carne trita, si unisce un battuto di verdure e si fanno insaporire gli
ingredienti insieme.
Scolato quindi il grasso in eccesso, si aggiunge una spruzzata di vino e,
quando il liquido è consumato, si bagna con un buon brodo di carne
portando dolcemente a cottura con la casseruola coperta (anche in forno, se
si vuole). Verso la conclusione si aggiungerà un po’ di polpa di pomodoro
fresco.

Sotto una coltre di sale


Oltre a essere il più antico e il più diffuso tra i condimenti di cucina e gli
agenti di conservazione dei cibi, il sale è anche utilizzabile come mezzo per
cuocere. Il principio è il medesimo delle cotture in cartoccio o in crosta: il
pezzo da cuocere, avvolto da una coltre di sale marino integrale grosso,
viene infornato a temperatura sostenuta; durante la cottura il sale solidifica
creando un involucro isolante che trattiene succhi e umori (che è dire tutti gli

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aromi) all’interno dell’alimento.
Questo metodo è particolarmente adatto alla cottura del pollame: cosparso
il fondo di una casseruola di uno strato di sale, non resta che disporvi sopra
l’animale e ricoprirlo completamente di sale (leggermente inumidito, per
farlo meglio aderire) per uno spessore di circa due dita. Per un pollo di un
chilo e mezzo calcolate 90 minuti di cottura a 220 °C. Senza alcuna aggiunta
di grassi, alla fine il pollo risulterà dorato come se fosse stato arrostito, le sue
carni straordinariamente tenere e saporite (e pure salate a puntino).
Seguendo il medesimo procedimento è possibile cuocere egregiamente
anche il pesce e la carne (un carré d’agnello o un roast-beef, per esempio).
In quest’ultimo caso, tuttavia, non essendo le carni protette dalla pelle, è
preferibile far precedere la cottura in crosta da una rosolatura iniziale
effettuata in casseruola, in modo da sigillare i pori della carne e
imprigionarne i succhi; il guscio di sale ne impedirà poi la fuoriuscita
durante la cottura (senza questa precauzione, in effetti, sotto il sale la carne
tenderebbe a stufare piuttosto che ad arrostire).
Persino un tartufo nero, in stagione (metà gennaio-fine marzo), può essere
cotto con grande soddisfazione in crosta di sale (per un tartufo di 40
grammi, occorreranno circa 50 minuti): i profumi, racchiusi all’interno, si
sprigioneranno impetuosi al momento del consumo. Gustatelo
accompagnato semplicemente da burro e crostini.

Cottura sottovuoto
Come è noto, l’azione del calore somministrato ai cibi durante la cottura
induce una serie di trasformazioni fisico-chimiche che si identificano nel
passaggio dallo stato «crudo» allo stato «cotto» di un alimento. Queste
trasformazioni (come ad esempio la distruzione della flora microbica, la
trasformazione dei sistemi proteici, la caramellizzazione e l’imbrunimento di
alcuni composti chimici ecc.) determinano, oltre alla conservabilità, quelle
caratteristiche di aspetto, consistenza, profumo e sapore che caratterizzano
ogni preparazione alimentare. Tuttavia, durante la cottura, si verificano, oltre
a quelle sopradescritte, altre trasformazioni meno evidenti, che sono
responsabili della diminuzione o, addirittura, della perdita di alcune sostanze

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preziose presenti in origine nell’alimento crudo.
Come già detto, il responsabile principale delle trasformazioni che
determinano la cottura dei cibi è il calore che gli forniamo. È molto
importante notare che quando un alimento (contenente acqua) viene cotto a
pressione ambiente, la sua temperatura interna non supera mai i 100 °C, sia
che lo si immerga in un grasso di cottura a 130 °C, sia che lo si introduca in
un forno a 200 °C!
Tutto ciò è spiegato da due leggi fisiche: una ci chiarisce che l’acqua
liquida non può avere una temperatura maggiore di quella di ebollizione;
l’altra ne lega inscindibilmente la temperatura di ebollizione alla pressione
(in questo caso, di cottura). Di conseguenza, aumentando la pressione,
aumenta anche la temperatura di ebollizione (pentola a pressione); mentre
abbassando la pressione, si abbasserà anche la temperatura di ebollizione
(chi ha cucinato della pasta in alta montagna avrà constatato che l’acqua
bolle prima, ma la pasta fatica a cuocere).
Il metodo di cottura sottovuoto sfrutta proprio l’effetto di abbassamento
della temperatura di ebollizione (che sarà di circa 60 °C) per cuocere alimenti
particolarmente delicati, rispettandone al massimo i principi nutritivi e
riducendone di molto l’ossidazione.
La cottura sottovuoto può essere condotta in speciali forni nei quali è
possibile variare la pressione di cottura, oppure confezionando sottovuoto
l’alimento crudo e cuocendolo successivamente in un normale forno a
vapore, o immergendolo a bagnomaria. La cottura in busta sigillata è ideale
per la conservazione dell’alimento, in quanto la cottura e la successiva
conservazione avvengono nella stessa confezione, senza che sia necessario
aprirla, evitando quindi ogni contaminazione.
La cottura sottovuoto, pur non essendo utilizzabile o conveniente per tutte
le preparazioni permette di ottenere, dove efficace, risultati difficilmente
realizzabili con altri metodi, specialmente se associata ad altri sistemi capaci
di compensare le mancanze di questo particolare sistema.
Quando si realizza una preparazione da cuocere sottovuoto bisogna tener
presente che, una volta chiuso il forno o sigillata la busta, non si potrà
intervenire sull’alimento durante la sua cottura e, nel caso della busta
sigillata, per tutto il periodo di conservazione. Quindi il cibo dovrà essere
disposto, amalgamato e composto in modo da non richiedere più

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aggiustamenti dopo l’inizio del processo di cottura. Naturalmente, al
momento del consumo o all’apertura della busta sarà possibile intervenire
nuovamente sul prodotto, aggiungendo ingredienti freschi, oppure
riscaldandolo o completando la sua cottura con altri metodi.

Cottura a microonde
Le onde elettromagnetiche sono l’espressione di un fenomeno fisico,
apparentemente lontano e ignoto, ma invece a noi molto familiare: fanno
parte dello spettro elettromagnetico (l’insieme di tutte queste onde): la luce
visibile, i raggi ultravioletti, le onde radio, i raggi X ecc. Ciò che differenzia
questi fenomeni gli uni dagli altri, è la quantità di energia trasportata (e
quindi la loro lunghezza d’onda e la loro frequenza).
Le onde elettromagnetiche che troviamo in cucina (oltre a quelle della
luce, della radio e dei telefonini!) sono le microonde: una «famiglia» di onde
elettromagnetiche con frequenza pari a 2.450 MHz. Queste onde hanno la
capacità di interagire con le molecole d’acqua facendole vibrare fortemente e
quindi determinandone il riscaldamento istantaneo. Questa è la differenza
rispetto ai sistemi di cottura tradizionali dove i cibi sono cotti fornendo loro
energia sotto forma di calore, somministrato attraverso differenti metodi di
propagazione, che spesso vengono anche combinati tra loro. Esempi di
metodi di propagazione del calore sono: la trasmissione, nella cottura ai ferri;
la convezione, nella bollitura; l’irraggiamento, per la gratinatura.
Il vantaggio principale della cottura con microonde è la grande velocità
con cui si possono riscaldare i cibi, caratteristica che trova come
applicazione ideale lo scongelamento e il riscaldamento di alimenti (che può
avere luogo anche direttamente nel piatto di portata).
Nell’usare i sistemi a microonde bisogna tener conto di alcune loro
peculiarità e, di conseguenza, osservare alcune elementari precauzioni. Ad
esempio, dato che il riscaldamento dell’alimento avviene dall’interno verso
l’esterno, può capitare che un piatto già porzionato (come ad esempio le
olive all’ascolana, le patatine novelle, o altro), possa presentare la superficie
esterna tiepida, ma essere molto caldo all’interno.

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Un’altra peculiarità dei forni a microonde è legata al fatto che, per poter
realizzare una cottura uniforme, il fondo del sistema è costituito da un piatto
rotante (più raramente non è il piatto a ruotare, ma il dispositivo che genera
le microonde). Bisogna quindi, quando possibile, porre i cibi in una
posizione non centrale.
In linea generale non è possibile introdurre oggetti metallici nei forni a
microoonde, anche se esistono in commercio delle confezioni di surgelati
costituite anche da un foglio metallico, studiate per l’uso in questo tipo di
forno.
Gli svantaggi principali di questo metodo di cottura sono costituiti dalla
scarsa capacità di penetrazione delle microonde (circa 2 centimetri), che
causa complicazioni nella cottura di alimenti a pezzature medio-grande, e la
durata limitata nel tempo del dispositivo che genera le microonde.
La cottura dei cibi mediante microonde è spesso completata con altri
sistemi di cottura nei forni combinati.

56
4.

Delle carni

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Il tessuto muscolare dell’animale ucciso si irrigidisce e ha bisogno di qualche
tempo per rilassarsi: solo allora le carni riusciranno tenere (le frattaglie, al
contrario, vanno consumate di prima freschezza).
Tuttavia, una frollatura protratta eccessivamente o effettuata senza le
precauzioni necessarie produce un odore acre e disgustoso che,
contrassegnando l’inizio della putrefazione, ripugna all’igiene e al buon
gusto. Per esser degna della tavola, infatti, la carne deve sempre sprigionare
il franco profumo della freschezza, e pure la selvaggina, contrariamente a
quel che si crede, non fa eccezione a questa regola.
Probabilmente tutti riteniamo di saper cuocere una bistecca e, a dire il
vero, si tratta di una preparazione molto semplice, eppure non sempre il
risultato è soddisfacente: talvolta «incolpiamo» il macellaio, ma in realtà
molto spesso è la tecnica di cottura adottata che rivela qualche pecca. Vi
sono infatti alcuni accorgimenti che non andrebbero ignorati, pena la
modesta riuscita del piatto. Innanzi tutto la carne va tolta dal frigorifero con
largo anticipo, almeno trenta minuti prima di cucinarla, in modo che quando
si dà luogo alla cottura non sia più fredda. Infatti se lo fosse ancora,
entrando in contatto con la padella calda formerebbe umidità che finirebbe
per «sciacquarla». Inoltre occorre osservare una corretta proporzionalità tra
superficie della padella e dimensione della carne. Infatti se la prima è troppo
ampia il condimento che rimane scoperto tenderà a bruciare. Ma oltre alla
giusta ampiezza il recipiente di cottura deve essere dotato di un fondo
spesso, tale da poter assorbire e mantenere il calore anche quando la carne
verrà messa a cuocere. Un recipiente sottile, infatti, subirebbe un
abbassamento di temperatura tale da rendere sciacquosa, e quindi stopposa,
la carne. In base allo spessore bisogna regolare la fiamma che deve rimanere
costante. Consideriamo una cottura statica, che non richieda cioè che la
padella venga rimossa: se questa viene spesso tolta dal fuoco per non far
bruciare il condimento ciò significa che è dotata di fondo troppo sottile o
che la fiamma è troppo alta. Possiamo capire se una cottura avviene
correttamente proprio da questo particolare rivelatore; infatti se la padella
non viene mai spostata e il cibo cuoce senza bruciare significa che è stato
trovato il giusto equilibrio tra spessore del fondo del recipiente e intensità
della fiamma e che, quindi, la cottura sarà perfetta. Un ingrediente
importante è il sale. Salare la carne con morigeratezza e appena prima della
cottura; se venisse servita con una salsa dovrà essere questa a completarne la

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salatura; nel caso non fosse prevista correggere la carne di sale prima di
servirla. Inoltre, occorre far riposare la carne 2 o 3 minuti appena dopo la
cottura perché i succhi, concentrati dal calore nella parte più interna,
rifluiscano verso l’esterno conferendo alla carne un gusto più completo.
Quale padella usare? Non cediamo al fascino delle padelle di rame stagnato e
scegliamola, senza esitazioni, d’acciaio.

Le milanesi
Della classica costoletta alla milanese esistono due varianti fondamentali che
rispecchiano diverse concezioni del gusto. La differenza concerne la sola
preparazione iniziale e consiste nel battere la costoletta col pestacarne prima
d’impanarla (ottenendo la cosiddetta «orecchia d’elefante»), oppure
nell’utilizzarla così com’è, nel suo spessore originario. La preparazione
prosegue poi in modo identico: si passa la costoletta nell’uovo sbattuto, poi
nel pangrattato, per farla infine rosolare nel burro da ambo le parti,
girandola una sola volta.
A seconda del trattamento iniziale i risultati saranno diversi. Battendo la
costoletta la carne si sfibra e perde sapore; a cottura avvenuta il suo gusto
sarà sovrastato da quello della panatura rosolata. La costoletta risulta allora
croccante e appetitosa anche per chi non ami particolarmente il gusto della
carne. Se la costoletta è stata invece impanata per lo spessore naturale, dopo
una cottura di 7-8 minuti per parte conserverà i suoi succhi (prolungando
eccessivamente la cottura si provocherebbe, con l’evaporazione dei succhi,
anche la scollatura della crosta superficiale). Si ottiene così un gradevole
equilibrio tra il gusto della costoletta e quello della panatura croccante: chi
ama la carne prediligerà senza dubbio questa seconda soluzione.

La giusta cottura dei volatili


Non tutti i volatili vanno cucinati allo stesso modo. Un pollo, per esempio,
non andrà cotto come un’anatra. Occorre infatti operare una distinzione circa

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la natura delle loro carni. Bisogna infatti precisare che vi sono volatili a
carne bianca e a carne rossa. I primi, come per esempio il pollo e il tacchino,
richiedono una cottura più profonda di un’anatra o di un piccione adulto,
entrambi a carne rossa. Ma la giusta cottura delle carni bianche, vale a dire
quella al punto, presuppone che queste siano ancora ricche di succhi,
internamente rosate. Volendo fare un parallelo con un altro alimento mi
viene da pensare alla pasta la cui cottura «al dente» presuppone che anche la
farina della sezione più interna sia cotta, ma non stracotta. Un petto di pollo
lasciato sul fuoco più del dovuto, diventerà asciutto, tiglioso così come degli
spaghetti «dimenticati» anche un minuto di troppo saranno opachi, molli,
sfibrati. La stessa regola vale per l’oca e la faraona che vorrei definire a
carne scura. Le carni rosse, invece, richiedono che il petto, vale a dire la
parte più tenera del volatile, sia preparato al sangue ne più ne meno di come
si servirebbe una costata di manzo. Merita una nota il piccione. Quando è
novello è dotato di notevole tenerezza ed essendo di fatto una carne scura
viene sottoposto a una cottura in profondità. Da adulto, invece, quando cioè
pesa attorno ai 600 grammi e la carne si è ormai formata, è invece proprio
quella al sangue l’unica cottura a mantenere la tenerezza delle carni. Per tutti
i volatili, inoltre, vale la regola che i petti e le cosce vengano sottoposti a
cotture differenziate. E ciò perché le cosce hanno masse muscolari più
compatte ed esigono cotture più intense. Occorre per questo smontare e
dividere i petti dalle cosce e prolungare la cottura di queste ultime di 6-7
minuti. Nel caso si volesse cucinare il volatile intero, durante la rosolatura si
avrà cura di reclinarlo su un lato in modo che la coscia sia a pieno contatto
con il fondo del recipiente: dopo 5-6 minuti si ripeterà l’operazione
insistendo sull’altra coscia, mentre non si indugerà più del necessario sul
petto. Si proseguirà quindi con la cottura desiderata tenendo il petto rivolto
verso l’alto.
Volatile venerato dai buongustai forse più d’ogni altro, l’anatra va cucinata
con criterio, e al riguardo è bene distinguerne in via preliminare le diverse
specie. Tra le anatre da cortile, l’anatra muta ha carne rossa e petto ben
fornito, mentre la nostrana ha in genere carne più chiara e in minor
abbondanza. L’anatra muta è inoltre riconoscibile dall’escrescenza di carne
rossa attorno agli occhi e dal piumaggio bianco e nero o grigio. La differente
distribuzione e natura delle carni diversifica in partenza i tipi di cottura delle
due specie.

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La preparazione dell’anatra nostrana non presenta problemi particolari: è
gustosa sia arrosto, sia in umido e, sacrificando la pelle, è deliziosa anche
bollita o cucinata al vapore. Se le stesse cotture convengono all’anatra muta,
occorre tener presente che essa (al pari dell’anatra selvatica, meno grassa ma
pure di carne rossa) dà il meglio di sé quando viene cotta al sangue. Più
precisamente al petto, che ha una carne estremamente delicata e morbida, si
addice una cottura breve (cuocendolo oltre misura riuscirebbe infatti asciutto
e insapore). Viceversa le cosce, avendo un tessuto nervoso, necessitano di
una cottura più prolungata per poter risultare tenere. Per questo, volendola
arrostire in forno, l’anatra a carne rossa andrà cucinata in due tempi, tenendo
il petto al sangue per proseguire la cottura delle sole cosce, separate dal resto
della carcassa.
Esaminato più nel dettaglio, il procedimento si presenta in questi termini:
dopo aver salato e pepato l’anatra internamente ed esternamente e aver
eseguito la rosolatura iniziale, si prosegue la cottura in forno a calore medio-
alto. Dopo una ventina di minuti all’incirca l’anatra dovrà essere estratta dal
forno e smontata. Si rimettono le cosce in forno per altri 10-15 minuti in
modo da completarne la cottura (alla fine dovranno risultare ben cotte). Nel
frattempo il volatile, amputato ma non ancora sfilettato, verrà tenuto in caldo
(avvolto, per esempio, in un foglio d’alluminio) fuori dal forno, in modo da
consentire ai succhi e al sangue – concentrati all’interno – di rifluire verso
l’esterno così da provocare una cottura uniforme. Una volta che le cosce
siano cotte, si affetta sottilmente il petto, che dovrà risultare rosato come la
carne di un roast-beef.
È anche possibile adottare una soluzione più drastica. Sfilettando l’anatra
prima di cuocerla, le due metà del petto, con ancora attaccata la pelle,
potranno essere cucinate direttamente in padella, come comuni bistecche di
manzo, mentre le cosce verranno destinate ad altre preparazioni (cucinate per
esempio in umido, brasate, o utilizzate per terrine e pâtés).

Agnellini e agnelloni
Agnellini e agnelloni non differiscono solo per l’età (fino a tre mesi di vita i
primi, a un anno i secondi), per l’alimentazione (latte materno ed erba di

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pascolo rispettivamente) o per la destinazione culinaria (carne bianca contro
carne rossa). Quando se ne ricerchi l’eccellenza, infatti, si tratterà
propriamente di razze distinte.
Per quanto riguarda gli agnelloni (che sono in realtà giovani montoni) il
primato spetta al pré-salé, razza da carne selezionata che viene allevata sulla
costa bretone. Rispetto all’agnello nostrano ha carne più abbondante e una
differente struttura corporea, con un posteriore dalle rotondità veramente
provocanti. Bruca su terreni inondati periodicamente dal mare, da cui il
nome («pascolo salato»): l’erba di cui si nutre, intrisa di salsedine e di aromi
marini, regala alla sua carne una fragranza tutta particolare.
La migliore espressione della produzione nazionale sono invece gli
agnellini non svezzati, soprattutto quelli allevati nella zona della Garfagnana.
Hanno una carne tenera e fine, ancora impregnata dei dolci profumi del latte.
Che si tratti di agnellini o agnelloni, al gusto perentorio e inconfondibile
della carne ovina convengono odori altrettanto risoluti e precisi. Se timo,
aglio e rosmarino vanno così annoverati tra le sue affinità aromatiche, anche
la menta (quando sia dosata con criterio) si presta a completarne felicemente
il sapore, come testimonia la tradizione gastronomica inglese.

Le carni del coniglio


Chi mai penserebbe di ammassare in un’unica pignatta un carré di vitello, la
testina e uno stinco? O d’un maiale indifferentemente il cosciotto, l’arista e il
piedino? Ebbene, seppure in scala ridotta, anche il coniglio possiede una
struttura morfologica ben precisa che discrimina la destinazione
gastronomica delle sue carni. Queste, tuttavia, spesso e volentieri vengono
cucinate alla rinfusa, con la conseguenza che, quando un boccone è cotto a
puntino, l’altro risulterà duro o passerà di cottura. Cerchiamo dunque di
distinguere le prerogative dei diversi tagli.

COME SCALCARE UNA SELLA DI CONIGLIO

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Dopo aver liberato i rognoni e i filettini dalla parte inferiore, incidere la
sella superiormente costeggiando la spina dorsale

Proseguire il taglio eliminando lombi e fasce ventrali della carcassa

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Aiutandosi con il coltello strappare la pellicina nervosa che ricopre il
lombi, separandoli così dalle fasce ventrali

Dopo averle rifilate, liberandole dai residui nervosi e dalle cartilagini, si


potranno tagliare le fasce ventrali a striscioline

Le cosce e le spalle, le parti più tenaci e saporite, sono quelle che meglio si
prestano alle cotture in umido, accompagnate da sapidi intingoli. Sono pure
gli ingredienti ideali per le preparazioni in terrina o i pâtés di coniglio. Per i
lombi invece è più conveniente una cottura in forno o in padella, appropriata
ai tagli teneri. Il gusto fine e delicato di questa carne dovrà inoltre essere
condiviso da quello della salsa d’accompagnamento, evitando i sapori
troppo accesi.
La sella del coniglio è la parte del dorso dove sono alloggiati i lombi: va
dall’attaccatura delle cosce a metà torace. Oltre i lombi, le parti commestibili
della sella sono le strisce di carne della pancia e i rognoni (più due minuscoli
filettini che non presentano però grande interesse gastronomico): piccola
disquisizione anatomica per dire che queste parti richiedono differenti tipi o
tempi di cottura. Esiste tuttavia un metodo per conciliarli e cucinare la sella
intera.
La carne della pancia, salata e pepata internamente, va richiusa su se stessa
e, se si vuole, legata con uno spago da cucina in modo che durante la cottura
protegga i rognoni, che si lasceranno avvolti nel loro grasso. Si incide poi la
sella leggermente lungo i due lati della spina dorsale per evitare che durante
la cottura si «imbarchi». Salata e pepata anche all’esterno, si fa quindi
imbiondire in casseruola sul dorso. Rivoltata, si rosola sulla pancia a fuoco
vivace. La cottura prosegue in forno preriscaldato a 180 °C, mantenendo la
pancia a contatto con la casseruola, in modo che mentre i lombi arrostiscono
questa seguiti a rosolare. Nel contempo si bagna frequentemente la parte

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superiore con il grasso di cottura, impedendole così di asciugare. Se la
cottura è stata condotta a termine correttamente, i lombi (liberati dalla
pellicina nervosa che li avvolge) risulteranno alla fine morbidi e succosi, i
rognoni teneri e rosati, la carne della pancia piacevolmente croccante.
Trattandosi di carne bianca, il coniglio non va mai tenuto al sangue. Ciò non
significa però che sia lecito stracuocerlo: una cottura protratta
eccessivamente renderebbe infatti le sue carni asciutte e insapori, soprattutto
quella dei lombi che è magrissima.

La regal polpetta
Tra le polpette, questo genere così rustico e indefinibile (con le sue
innumerevoli varianti), tutto potremmo aspettarci d’incontrare fuorché i
precetti dell’alta cucina. Eppure anche in questo frangente essa ha qualcosa
da insegnarci e da suggerire. Esiste infatti una polpetta degna del palato più
fine: si chiama Pojarski, e si prepara con carne magra di vitello tritata
finemente, più un quarto del suo peso di burro e un altro quarto di mollica
di pan carré setacciata, ammollata nel latte e quindi strizzata, sale, pepe e un
pizzico di noce moscata. Le polpette possono essere a piacere impanate o
fatte dorare direttamente in padella in burro chiarificato. Se la carne è stata
ricavata da una costoletta, volendo si potrà ricostruirne la forma originaria,
attaccando l’osso all’impasto prima della cottura. Delicatissima, questa
polpetta veramente «regale» si può preparare sostituendo il vitello con carne
di pollo e persino con polpa di pesce.
Il fatto di unire all’impasto delle polpette di carne della mollica di pane
ammollata nel latte (o, in alternativa, delle patate lesse sbriciolate) è sempre
consigliabile: tali ingredienti stemperano infatti il gusto della carne e
conferiscono morbidezza. Ciò che bisogna invece evitare è d’inserire
nell’impasto dell’aglio tritato: non avendo il tempo di cuocere
completamente, esso riuscirebbe indigesto lasciando l’alito cattivo. Chi ama
il profumo d’aglio, ne farà invece dorare qualche spicchio (vestito) nel burro
in cui verranno in seguito cucinate le polpette.

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Rognone à la coque
Taluni non riescono proprio a sopportarlo e storcono il naso pensando allo
sgradevole caratteristico odore di questa frattaglia. È vero che al puzzo
nauseabondo che emana un esemplare vizzo non v’è rimedio, ma è
altrettanto vero che un rognone di prima freschezza non esala odori di sorta.
Si tratta dunque di saperlo riconoscere: se è fresco, oltre a essere inodore,
il rognone si presenta turgido e lucente (tutte caratteristiche che perderà col
passare del tempo); se poi è ricoperto di grasso, questo dovrà risultare di un
bianco candido con sfumature rosate; perdendo freschezza, tenderà invece a
ingiallire. Detto per inciso, se acquistate un rognone ancora ricoperto dal suo
grasso, non gettatelo: potrete lasciarne uno strato attaccato al pezzo (servirà
per proteggerlo durante la cottura), ricuperare il rimanente e farlo fondere in
una casseruola con un po’ d’acqua; si conserva come un normale grasso ed è
il più indicato per le fritture. Infine, benché ciò non dipenda dalla freschezza
del pezzo, quanto più la carne si presenta chiara, tanto più il rognone è
pregiato. Un’ultima annotazione sulla pulizia: poiché è buona educazione
offrire al palato solo quello che si può deglutire, quale che sia il metodo di
cottura prescelto si avrà cura di eliminare dal rognone il tessuto interno
nervoso che non fonde durante la cottura.
Tra i diversi metodi di cottura del rognone, uno in particolare che mi pare
superiore perché, più d’ogni altro, rende la carne tenera e ne esalta la
freschezza, è quello che i francesi chiamano à la coque: il rognone, lasciato
ricoperto da uno strato del suo grasso (per uno spessore di circa mezzo
centimetro), viene cotto intero nel forno. In precedenza si avrà avuto cura di
privarlo della parte nervosa interna, evitando di rompere la carne e di
eliminare troppo grasso in superficie: il punto in cui andare a cercare la parte
nervosa sotto la coltre di grasso si riconosce dalla venuzza che ne fuoriesce.
Salato e pepato esternamente e internamente il pezzo, si scioglie una noce di
burro in una casseruola, vi si inserisce il rognone e si pone il tutto in forno
preriscaldato a 180 °C; dopo 7-8 minuti si gira il pezzo su se stesso e si
prosegue la cottura. La sua durata complessiva dipenderà dalle dimensioni
del pezzo e dalla quantità di grasso che gli è stato lasciato attaccato; il
rognone è cotto quando, infilzato con un ago, ne fuoriesce un liquido di
colore rosa pallido. Si estrae quindi dal forno e si tiene in caldo per una

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decina di minuti prima di affettarlo: risulterà allora uniformemente rosato.

La doppia vocazione delle animelle


Si tratta di una delle parti più apprezzate del vitello, sicuramente la più
delicata: deteriorandosi rapidamente, le animelle vanno infatti consumate
freschissime. La garanzia di freschezza non è tuttavia sufficiente per poterle
apprezzare appieno; occorre infatti saperle impiegare nel modo appropriato.
Ciò significa innanzitutto distinguere le due varietà: quelle attaccate
all’esofago, meno pregiate, si presentano a grappoli dalla forma allungata;
viceversa, quelle che si trovano vicino al cuore del vitello si riconoscono per
la maggiore morbidezza e la forma arrotondata e compatta.
In pratica, è la differente consistenza del tessuto connettivo interno (più
tenero e meno fibroso nelle animelle del cuore) che diversifica le
destinazioni culinarie delle due varietà: mentre le animelle del cuore possono
essere preparate nei più svariati modi (cucinate intere, tagliate a bocconcini o
in scaloppe), quelle dell’esofago hanno un impiego più limitato, dovendo
essere liberate dalle aderenze nervose interne, gommose e oltremodo
sgradevoli. Per questo, dopo essere state lessate, vanno «sbriciolate»: in altre
parole si sgranano i pezzetti che compongono l’animella (grandi come fagioli
e dalla forma irregolare), privandoli della pellicola nervosa che li tiene uniti.
Viceversa, per entrambe le varietà le operazioni preliminari coincidono: il
pezzo va fatto spurgare in acqua corrente per 5-6 ore, e poi privato dalle
pellicine nervose e grasse che lo ricoprono. A questo punto, le animelle del
cuore vengono sbollentate per una decina di minuti e quindi lasciate
raffreddare sotto pressione (per esempio sotto un piatto capovolto su cui è
stato appoggiato un peso), in modo da farle spurgare ulteriormente. Si
terminerà la loro cottura nel modo desiderato: impanate o lardellate, saltate
in padella o cucinate in forno, e pure al vapore, avvolte in una foglia di
lattuga.
Le animelle dell’esofago vanno invece lessate sino a cottura completa, con
partenza da freddo. Raffreddate, vanno sgranate come descritto in
precedenza. Le animelle sbriciolate vengono utilizzate di solito nelle
finanziere, o assieme al rognone. Sono tuttavia ottime anche come

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complemento di un’insalata di legumi oppure (passate semplicemente nel
burro e accompagnate da una salsa) come contorno di tagli teneri di vitello.

I fegatini di pollo
Materia prima tanto economica quanto gustosa, i fegatini di pollo
meriterebbero di essere più apprezzati dai buongustai di quanto abitualmente
non siano.
Dopo aver privato i fegatini del fiele, delle tracce verdastre che questo ha
eventualmente lasciato e delle parti nervose o grasse, salati e pepati, si fanno
dorare in padella nel burro a calore non troppo sostenuto. Essendo una
carne rossa, a cottura ultimata i fegatini dovranno restare rosa internamente.
In effetti, anche se appartiene a un altro animale (come il vitello o il
coniglio), un fegato cotto completamente diviene asciutto e granuloso,
perdendo tutta la sua originaria fragranza.
I fegatini di pollo potranno essere accompagnati da peperoni scottati in
padella, oppure serviti su un letto di porri cotti nel burro, o anche su uno
strato di cipolle dorate a parte, in modo da tenerle bionde e farle incontrare,
anziché confondere, con il gusto dei fegatini. Ancora tiepidi, essi potranno
anche guarnire un’insalata verde, a base di foglie di spinaci crude, per
esempio. Infine, lasciati raffreddare, passati per il setaccio fine e poi
incorporando un quarto del loro peso in burro e profumando il composto
con un goccio di Marsala si può ottenere un eccellente pâté di semplicissima
esecuzione. Potendolo fare, preferite i fegatini chiari a quelli di colore
violaceo: sono i migliori.

Scaloppine di foie gras


Acquistando del foie gras fresco è possibile non solo preparare
ineguagliabili pâtés e terrine, ma anche farne scaloppe da cucinare in
padella: posso assicurare che ne vale la pena. Tagliato a fettine alte mezzo
centimetro e pulito come per cucinarlo in terrina, salato e leggermente

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pepato, il foie gras viene cotto senza alcun condimento in una padella
antiaderente fatta in precedenza scaldare sul fuoco. È sufficiente pochissimo
tempo: quanto basta a che si formi sui due lati una crosticina superficiale:
internamente le scaloppe dovranno restare rosa.
Le scaloppe di foie gras vanno accompagnate con qualcosa che possa
compensare l’eccesso di grasso contenuto nel fegato: per esempio
un’insalata ben acidulata, oppure mele verdi dal gusto agretto saltate in
padella. Quanto alle possibili salse d’accompagnamento, premesso che non
sono indispensabili, dovranno essere salse di carattere per poter tenere il
passo col gusto del foie gras: ideale, in questo senso, la classica
périgourdine a base di Madera e tartufi neri. In alternativa, una volta cotte le
scaloppe, si elimini il grasso dalla padella e si deglassi con un vino liquoroso
(Porto, Marsala o Sauternes, per esempio); lasciato sfumare il liquido, si
aggiungerà una cucchiaiata di fondo di vitello, montando infine la salsa con
qualche fiocchetto di burro. Più semplicemente, si potrà deglassare con un
buon aceto di vino che, lasciato consumare, verrà cosparso sulle scaloppe
come salsa.

Rane e lumache
Poiché se ne mangiano solo le cosce private della pelle, di solito è proprio
così, scosciate e spellate, che le rane si trovano in commercio. La sola
tradizione italiana le annovera in mille salse e preparazioni diverse, dalla
frittura alla cottura in umido con salsa di pomodoro. Tuttavia un intingolo
eccessivamente saporito o la frittura finiscono col mascherare quel loro
sapore delicato e indefinibile, quasi a metà strada tra una carne bianca e un
pesce di lago. Sicché il miglior modo per farne risaltare la garbata fragranza
e la tenera consistenza sembra proprio quello di disossarne le cosce,
cuocerne la polpa a parte (per esempio saltandola in padella con un po’ di
burro e una punta di scalogno) per unirla in seguito a piatti dal gusto
semplice: eccole così servite in zuppa o in insalata con crescione di fonte, cui
sono legate da un’affinità naturale, oppure utilizzate per farcire un’omelette,
per accompagnare dei gamberi di fiume, o come guarnizione di un risotto o
di una pastasciutta. Con le ossicine delle cosce e del dorso si potrà preparare

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(facendole sobbollire in un fondo di pollame o in un fumetto di pesce) un
brodo da impiegare come base della zuppa o nella preparazione di un risotto.
Ridotto, lo stesso potrà servire come fondo della salsa d’accompagnamento.
Come le ostriche, le rane vanno mangiate da settembre ad aprile, i mesi con
la erre secondo il vocabolario francese.
L’inverno è invece il periodo propizio per andare a caccia di lumache.
Nella stagione fredda, infatti, le lumache cadono in letargo e il loro
metabolismo rallenta. La carne risulta allora incomparabilmente più tenera,
senza contare che, dovendo utilizzare la secrezione vischiosa come materiale
isolante per proteggersi dal freddo, le lumache si spurgano (almeno
parzialmente) da sole. Fuori stagione il mollusco necessita di una dieta
forzata e di una pulizia ancor più laboriosa di quella ordinaria, già di per sé
sufficientemente impegnativa. Fatta eccezione per il metodo di cottura più
rustico e sbrigativo consistente nel cuocere le lumache direttamente sotto la
cenere (affumicandole praticamente da vive, il che è peraltro estremamente
efficace), per la toilette della lumaca invernale si procederà in questo modo.
Stappato l’opercolo, cioè la pellicola calcarea che sigilla il guscio (è
sufficiente la pressione di un coltellino), i molluschi vanno fatti spurgare per
un paio d’ore in sale grosso, aceto e una presa di farina, in modo da
provocare la secrezione della «bava» (qualcuno preferisce farle spurgare
nella crusca o nella segatura, ma il risultato è lo stesso). Le lumache vengono
quindi lavate in acqua corrente e fatte sbollentare per qualche minuto.
Scolate, si estraggono dal guscio aiutandosi con un ago da cucina e si
asporta la «cloaca» (cioè l’intestino) che si trova all’estremità inferiore del
mollusco. Le lumache vanno poi passate nuovamente sotto l’acqua corrente
per eliminare i residui d’impurità; quindi, coperte d’acqua e di vino bianco, e
aggiunti in pentola ortaggi e odori da brodo, si lascia sobbollire il tutto per
un paio d’ore o più, a seconda della grandezza degli esemplari, schiumando
di tanto in tanto. Dopo aver filtrato il liquido di cottura, vi si reimmergono le
lumache lasciandole raffreddare. Di qui in avanti sono pronte per la
degustazione e le possibili soluzioni al riguardo sono parecchie.
Possono essere servite fredde su un’insalata verde, meglio ancora se
guarnita con gherigli di noce o profumata con qualche foglia di crescione di
fonte, due sapori che rivelano un’innata affinità con il gusto particolare della
lumaca. In alternativa, si potranno accompagnare con una salsa al vino
rosso, ottenuta da una riduzione di vino e scalogno allungata con una parte

70
del fondo di cottura o con brodo di pollame per essere infine emulsionata
con qualche fiocco di burro.
Nella classica ricetta «alla borgognona» le lumache (preparate come
descritto in precedenza) vengono sigillate nel loro guscio con burro
amalgamato ad aglio, scalogno, prezzemolo, un goccio di limone, sale e
pepe. Riscaldandole in forno, si avrà cura che il burro si sciolga
semplicemente, senza friggere (infatti friggendo risulterebbe meno digeribile
e, alterando gli aromi e chiarificando, perderebbe fragranza e cremosità).
Nulla vieta però di utilizzare lo stesso burro aromatizzato in modo diverso:
per esempio, per condire un piccolo ragoût di lumache e carciofi stufati a
parte, o per mantecare un risotto guarnito con le lumache stesse. L’idea di
ridurre le lumache in pâté mi sembra invece infelice: così si perde quella
consistenza caratteristica che ricerchiamo, magari senz’accorgercene, tra le
loro maggiori attrattive (a patto che siano cotte a puntino). Il pâté rischia
inoltre di acquistare quel gusto «sabbioso» che è tipico delle lumache
cucinate in modo scorretto.

71
5.

Dei pesci

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Da che cosa si riconosce la freschezza del pesce? Numerosi indizi possono
rivelarla. Il colore delle branchie, per esempio, che dev’essere scarlatto vivo
e che, col passar del tempo, tenderà dapprima al rosso mattone, poi al grigio.
Anche l’occhio è un particolare importante: mentre quello del pesce fresco
appare terso e vivido, quello del pesce invecchiato si presenta opaco e
velato. Purtroppo esistono metodi di sofisticazione che, alterando queste
caratteristiche, dissimulano la mancanza di freschezza. Nondimeno, altri
fattori possono venirci in soccorso. Oltre a essere terso, infatti, l’occhio del
pesce fresco è sporgente; la mancanza di freschezza è viceversa rivelata
dall’affossamento dell’occhio nell’orbita. Infine, la compattezza della carne
fornisce un ulteriore elemento di giudizio: se il pesce è fresco essa risulta
elastica e, tolta la pressione, l’impronta del dito scompare. Se invece il pesce
è vizzo, la carne non offre resistenza al tatto e la pressione del dito lascia un
piccolo avvallamento; durante la cottura la carne avrà allora tendenza a
sfaldarsi, risultando insipida al gusto e sgradevole all’olfatto.

Qualche buon motivo per sfilettare


Cuocendo il pesce, preventivamente liberato dalla testa e dalle lische,
sicuramente parte del suo sapore va perso (ma può sempre essere
recuperato, attraverso il fumetto che si ricava dagli scarti, sotto forma di
salsa). Tuttavia, sfilettando il pesce da crudo, si semplifica alquanto la vita a
chi cucina (è infatti assai più facile controllare le varie fasi e il giusto grado
di cottura) e soprattutto a chi mangia (liberato dal compito, così fastidioso e
inelegante, di spinare il pesce per proprio conto e sputacchiarne le lische che
per imperizia, fretta o disattenzione avesse tralasciato di eliminare).
Altra inveterata abitudine è quella di prolungare la cottura del pesce oltre
il dovuto: con ciò la polpa si sfalda, perdendo – con il gusto e la consistenza
– ogni reale attrattiva. Tutto ciò è tanto più vero quando si tratti di pesci già
sfilettati, che richiedono cotture brevissime. Un filetto di sogliola, per
esempio, per essere dorato in padella non richiederà più di mezzo minuto
per lato (a dir tanto) o un paio di minuti complessivi per essere cotto al
vapore.
Ogni pesce esige d’essere cucinato al momento: la sua pulizia preliminare

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(che può essere viceversa effettuata con largo anticipo) consente anche al
più frettoloso dei cuochi di ottemperare a questa regola.

I pesci piatti
I pesci piatti (rombi, sogliole, passere, suacie) hanno una carne magra, ferma
e delicata, che si presta bene per tutti gli usi. Con le loro teste e lische si
preparano fumetti insuperabili; inoltre, diliscandoli da crudi è più agevole
cucinarli e, soprattutto, mangiarli: sono ragioni sufficienti per imparare a
sfilettarli. In verità non è particolarmente laborioso né difficile, basta
procedere con metodo.
Il pesce piatto presenta da un lato la pelle ruvida e scura, dall’altro liscia e
chiara. Per sfilettarlo, si pratica dalla parte scura una leggera incisione
all’altezza della coda in modo da liberare un lembo di pelle da prendere poi
tra le dita (aiutandosi magari con un tovagliolo per migliorare la presa). Si
strappa quindi la pelle scura (viene via senza lacerare minimamente la
polpa). Si incide poi il pesce seguendo la lisca laterale e, entrando a piatto
con il coltello lungo la lisca centrale, si libera uno dei quattro filetti che si
ottengono dal pesce; se al filetto dovessero restare attaccate le piccole lische
terminali che lo costeggiano lungo un lato, basterà rifilarlo con il coltello
(non essendo più trattenute dalla pelle, quelle verranno via senza difficoltà).
Si ripete l’operazione asportando, sullo stesso lato, il secondo filetto. A
questo punto si rivolta il pesce sul lato della pelle liscia e si ricavano i due
filetti (ancora ricoperti dalla pelle) procedendo esattamente come per i
precedenti. Per spellarli si farà scorrere un coltello a lama flessibile tra la
pelle e la polpa sino a separarle completamente.

Il branzino
Da adulto, abbandona i branchi per divenire vorace predatore solitario. Solo
allora impara a battere le foci dei fiumi, a caccia delle piccole anguille di cui
è ghiottissimo, e a perlustrare i moli alla ricerca di seppioline e gamberetti.

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Stiamo parlando del «lupo dei mari» – come è conosciuto in Sicilia, in
Francia e nei Paesi del Nord – ossia il branzino o la spigola che dir si voglia:
il pesce più pregiato, più caro e prediletto dai buongustai. Non si sa bene
perché, oggi va di moda di taglia ridotta. Eppure, è come confrontare la
carne di vitello con quella di manzo: quanto la prima è tenera e delicata,
tanto l’altra è ricca di nerbo e di sapore. Così una bella spigola da un chilo in
su, ha carni sicuramente più sode e sviluppate e nel pieno vigore del gusto
rispetto a quelle di un branzinetto in erba che pesi appena cinque o sei etti.
In effetti, eccezion fatta per il periodo di muta (tra aprile e maggio) in cui
perde consistenza, proprio il tessuto compatto e muscoloso delle carni
rappresenta – accanto all’ineguagliabile finezza del gusto – uno dei suoi
pregi esclusivi. I due aspetti sono invero inscindibili: se, per difetto di
freschezza o, a cottura avvenuta, per imperizia del cuoco, la polpa del
branzino risulta molle e si sfalda sotto la pressione della forchetta, allora
bisogna rassegnarsi a dire addio anche all’attrattiva del gusto. È dunque
d’importanza capitale, oltre che sincerarsi della freschezza dell’esemplare,
aver cura di cuocerlo rigorosamente a puntino: al pari d’una carne tenera e
pregiata, affinché non ceda i suoi succhi e umori, la sua polpa non va cotta
un minuto più del necessario.
Per quanto riguarda le possibili tecniche di preparazione, va detto intanto
che da aristocratico sovrano dei mari, il branzino preferisce non esser
mescolato ad altri pesci. In effetti, confonderlo con scorfani, tracine o triglie
in una rustica zuppa o in una poco raccomandabile grigliata mista
equivarrebbe in certo modo a disconoscerne i quarti di nobiltà. Il nostro
lupo solitario pretende invece di assurgere a protagonista esclusivo, e a buon
diritto, considerato che dai piatti più semplici a quelli maggiormente
sofisticati non manca mai d’incantarci, purché sia trattato col riguardo che gli
è dovuto. Detto altrimenti, alla delicatezza delle carni dovrà sempre
corrispondere quella degli ingredienti e delle salse che l’accompagnano:
condimenti troppo grassi o aggressivi finiscono col mascherarne il gusto
(soprattutto, evitate scrupolosamente di seppellirlo nella maionese). Si sposa
invece meravigliosamente coi profumi campestri e gentili, come il finocchio
selvatico (potrete arrostirlo o cuocerlo in umido sopra un letto di barba di
finocchio sparpagliata sul fondo della pesciera). È squisito anche cucinato in
forno o al vapore e condito con una semplice vinaigrette d’olio, acqua,
limone, origano e prezzemolo tritati fini aggiunta a crudo al momento di

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servire.
Una classica preparazione è poi la cottura à la coque in crosta di sale:
sparpagliate su una teglia da forno uno strato di sale grosso (preferibilmente
sale marino non raffinato), stendetevi sopra il branzino intero, privato di
branchie e interiora, ma non delle squame, ricopritelo con un altro strato di
sale alto un centimetro e infornate (per un branzino da un chilo e mezzo,
calcolate 25 minuti a 220 °C). Durante la cottura il sale cristallizza formando
una crosta croccante che trattiene al suo interno i succhi e i profumi del
pesce: spaccatela direttamente a tavola, sfilettate e servite.

COME DILISCARE UN PESCE PIATTO

Incidere il pesce liberando un lembo di pelle in modo da assicurarsi la


presa necessaria

Strappare la pelle aiutandosi con un tovagliolo

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Incidere il filetto lungo la lisca laterale

Liberare il filetto entrando a piatto e costeggiando la lisca centrale

Il branzino è, tra l’altro, uno dei pesci che vale veramente la pena di
provare crudo: servitelo come antipasto o stuzzichino, tagliandone a fettine
sottili il filetto spinato per condirlo con olio, sale, pepe e senape in grani e
avvolto in foglie snervate di spinaci.
Quanto alle preparazioni più elaborate, anch’esse gli convengono
perfettamente, purché siano eseguite con mano leggera: si può, per esempio,
accompagnare un branzino con una sontuosa salsa ai ricci di mare. Infornate
il pesce, già sfilettato, spinato e spellato, salato e pepato in una teglia
imburrata. Bagnate con un cucchiaio di vino bianco. Una volta cotto,
ricuperate il liquido di cottura, filtratelo, aggiungete della panna e fate
addensare sul fuoco. Incorporate un cucchiaio di acqua dei ricci, un goccio
di succo di limone, qualche uovo di riccio passato per il setaccio e le uova
intere. Terminate la cottura della salsa a fuoco dolce per un minuto senza
lasciarle mai levare il bollore.

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Il salmone
Deve la sua fama al modo in cui si offre, da crudo, al palato: in effetti, nelle
preparazioni in cui viene maggiormente apprezzato, vale a dire affumicato, il
salmone non viene cotto (cioè esposto al calore), ma semplicemente
marinato sotto l’azione del sale e dello zucchero. Del resto, proprio per la
sua straordinaria morbidezza il salmone è tra tutti i pesci quello che, secondo
l’uso giapponese, meglio si presta a esser gustato da crudo anche fresco,
come dire allo stato naturale (val la pena di provarlo semplicemente tagliato
a fettine sottili e condito al momento con un pizzico di sale, un goccio di
limone e qualche foglia di dragoncello fresco o un pizzico d’erba cipollina
tritata).
Quando invece viene cotto, troppo spesso una metamorfosi ingrata ce ne
restituisce una polpa irriconoscibile, asciutta e stopposa come quella di un
tonno in scatola di poco pregio: triste sorte per un pesce che fu nobile sino a
qualche minuto prima. Non c’è dunque alcun modo di cucinarlo senza fargli
perdere le sue attrattive migliori?
Bisogna tener conto che il salmone è un pesce costituzionalmente grasso e
una cottura troppo prolungata ne sacrifica inevitabilmente la vellutata
consistenza delle carni, con il che si dissolve, ahimè, anche buona parte del
sapore. Sicché un rimedio esiste, e anche il più facile da attuare: è infatti
sufficiente arrestarne la cottura quando la polpa è ancora morbida e succosa
all’interno, esattamente come una carne al sangue. Affettata, presenta allora
lo strato superficiale più chiaro e lattiginoso, ben cotto, mentre quello
centrale è di un rosato-aranciato dai riflessi serici. Sia che il salmone venga
arrostito in forno o rosolato in padella, cotto al vapore o in umido, si potrà
verificarne il grado di cottura premendo leggermente sulla polpa, che dovrà
risultare soffice ed elastica. Se invece riesce dura o friabile è segno che la
cottura è stata protratta oltre il dovuto.

La beccaccia del mare


Pesce prelibato ma sottovalutato, la triglia gode cattiva fama per via delle

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lische minute e fitte che spesso ne rendono la degustazione oltremodo
faticosa. Basterebbe però spinarla prima di cuocerla e ogni fastidio sarebbe
eliminato.
Ecco dunque cosa prescrive la semplice arte di sfilettare: una volta
desquamato, si mette il pesce su un tagliere e, con un coltello affilato e
flessibile, vi si pratica un’incisione parallelamente alla fessura branchiale, in
modo da separare il filetto dalla pinna pettorale e dalla testa. Partendo poi
dalla pinna dorsale, si pratica una seconda incisione nel senso della
lunghezza, penetrando nella carne così da costeggiare la lisca centrale. Si è
così ottenuto il primo filetto. Per ricavare il secondo il pesce viene
capovolto: tenendolo fermo con una mano, con l’altra si incide la carne
partendo dalla coda e facendo aderire la lama alla lisca centrale. Ciò fatto, i
filetti verranno ripuliti dalle tracce di sangue e dalle impurità. Tuttavia, come
si può constatare facendovi scorrer sopra il polpastrello, la parte centrale dei
filetti è ancora punteggiata per tutta la lunghezza dai residui delle lische
laterali recise in precedenza. Anche queste ultime spine vanno eliminate (è
del resto la sola operazione che richieda un minimo di tempo): non resta che
armarsi di una buona pinzetta e di un po’ di pazienza.
Potrà apparire singolare che, dopo aver descritto minuziosamente le fasi
della loro sfilettatura, suggerisca ora di cuocere le triglie senza averle
neppure sventrate. Eppure, essendo privo di fiele, questo pesce presenta la
particolarità di avere le interiora integralmente commestibili e anzi, se si
tratta di un esemplare pescato in giornata, di un gusto assolutamente
delizioso. Per questa ragione la triglia è soprannominata «la beccaccia del
mare». Desquamate e private delle branchie, le triglie non eviscerate vanno
cotte sulla griglia o rosolate in padella. Tali sono infatti le tecniche di cottura
più appropriate a farne risaltare il sapore, franco ed elegante. Inadatte,
invece, le cotture in umido e a vapore. Una volta cotte, le triglie vanno
liberate della testa e delle lische, mentre le interiora (amalgamate a burro
maneggiato, succo di limone, sale e pepe) formeranno una crema con cui
condire i filetti del pesce. All’impasto potranno essere aggiunti anche
prezzemolo, cerfoglio, dragoncello ed erba cipollina tritati finemente.
Delle due varietà di triglie che abitano i nostri mari (la triglia di fango e
quella di scoglio), la seconda è la più pregiata e si riconosce dalle striature
presenti sulla pinna dorsale.

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La rana pescatrice
La rana pescatrice (ovvero, quando decapitata, la coda di rospo: due nomi
pittoreschi per un pesce dalle raccapriccianti fattezze) non sempre viene
apprezzata come meriterebbe. La sua carne, soda e compatta, è squisita e
ricorda nella consistenza quella dell’aragosta. Per sincerarsi della freschezza
di un esemplare occorre guardare soprattutto alla trasparenza e al colore
rosato della carne; col passar del tempo, essa tende infatti a diventare
lattiginosa e opaca.
Come in molti altri casi, la pulizia preliminare del pesce risulta
determinante ai fini della preparazione. Nel caso della pescatrice, che viene
di solito venduta già decapitata e privata della pelle esterna, si avrà cura
(radendola con la lama del coltello) di liberare la polpa anche dalla pellicola
superficiale che l’avvolge e che, se non venisse rimossa, una volta cotta
risulterebbe gommosa e grigiastra, con uno sgradevole effetto per il palato e
per l’occhio. Eliminata la fastidiosa pellicina, si costeggia con il coltello la
spina centrale, ricavando così i filetti che si prestano a svariate possibilità
d’impiego: tagliati a bocconcini e cucinati in umido o uniti a una zuppa;
tagliati a medaglioni e rosolati in padella; arrostiti in forno oppure lessati o
cotti al vapore, accompagnati da una salsa o no.

COME DILISCARE UN PESCE ROTONDO

Tenendo la pinna pettorale tra le dita, praticare un’incisione obliqua

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parallelamente all’apertura branchiale

Liberare il primo filetto facendo scorrere la lama lungo la lisca centrale

Dopo aver capovolto il pesce, ripetere l’operazione partendo questa


volta dalla coda

Eliminare i residui delle spine aiutandosi con una pinzetta

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Nero di seppia
Anche i calamari, i polipi e i totani contengono un liquido scuro che
secernono come una cortina fumogena per proteggersi la fuga. Ma
paragonarlo a quello della seppia sarebbe come pretendere che un fegato di
pollo avesse la stessa fragranza di un fegato d’oca.
Ecco allora l’itinerario più semplice per giungere all’eccelso tra gli
inchiostri marini. Staccata la testa (che finirete di pulire eliminando il becco
e gli occhi con la semplice pressione delle dita), si incide il dorso della
seppia e si estrae l’osso; tagliando la membrana che lo avvolgeva, si
scoprono le interiora. La vescichetta contenente l’inchiostro si riconosce dal
color nero cupo striato da venature argentee. Il liquido è più copioso durante
la stagione calda e negli esemplari adulti.
Aggiunto a una preparazione, oltre a tingerla di nero, le infonde una fresca
fragranza di mare, in cui riecheggiano sentori di muschio. Ben inteso, la
seppia deve essere di prima pesca, perché l’inchiostro tende ad acquistare
rapidamente un gusto acre e sgradevole. La conservazione del prezioso
liquido può essere facilitata emulsionandolo con qualche goccio di vino
bianco.
Gli altri visceri non hanno impiego gastronomico, fatta eccezione della
tasca giallo ocra contenente una sostanza densa che qualcuno adopera come
agente di sapidità, mescolata all’inchiostro o anche in sua sostituzione: ha un
sapore di pesce, intenso e caratteristico, che ricorda l’interno del polpo;
insaporisce e dà consistenza a salse e intingoli. È più pastoso e carico
dell’inchiostro, non ha però un gusto altrettanto fine e personalmente
preferisco non mischiarvelo.
Per quel che riguarda la manipolazione dell’inchiostro, ciò che più conta è
tenerlo costantemente al di sotto del grado di ebollizione. Infatti, cuocendo il
nero coagula e si sgrana, perdendo così gran parte dell’attrattiva estetica che
possedeva come fluida macchia di colore. Che venga unito a preparazioni in
umido, adoperato come condimento per la pastasciutta o nella mantecatura
di risotti, il nero va preferibilmente aggiunto soltanto alla fine (ancor meglio
se diluito in un po’ d’acqua tiepida) in modo da evitargli spiacevoli
«scottature». Delle ricette che ho menzionato esistono infinite versioni più o
meno complicate. È tuttavia con la massima semplicità che, secondo il mio

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gusto, si ottengono i risultati migliori.
Pulita, la seppia si cuoce a parte in un court-bouillon (brodo vegetale
aromatizzato con vino bianco) o anche in semplice acqua salata. La sua
carne, assai meno coriacea di quella del polpo o del calamaro, raggiunge in
cottura una dolce consistenza. Nel frattempo l’inchiostro, diluito con un po’
d’acqua, viene emulsionato a caldo con la frusta assieme a qualche
fiocchetto di burro.
L’estrema pulizia della preparazione corrisponde a quella della
presentazione e del gusto. Al termine delle rispettive cotture la salsa,
cosparsa a macchia sul fondo del piatto, e la seppia, depositata sopra, si
ricongiungono nell’equilibrio ecologico di un piatto dai sapori
incontaminati.

I crostacei, istruzioni per l’uso


Per poter gustare degnamente aragoste, astici, granchi e gamberi di fiume,
non c’è altro metodo che procurarsi esemplari vivi e «sacrificarli» al
momento della cottura. Non è una cattiveria gratuita: astici e aragoste lasciati
morire fuor d’acqua (e persino mantenuti in vita troppo a lungo in un
vivaio) si consumano lentamente, perdendo peso mentre la loro polpa si
sfalda e resta priva di consistenza e sapore. Quanto ai gamberi di fiume, essi
si decompongono assai rapidamente, emanando un fetore di intensità tale da
sconsigliare ogni loro impiego gastronomico.
Se si intende lessarli, i crostacei verranno tuffati vivi in acqua bollente o
in un court-bouillon e ivi cucinati, tenendo la pentola coperta. Se si
vogliono invece preparare in un altro modo, prima di staccarne la coda si
potranno preventivamente anestetizzare immergendone la testa in acqua
bollente. Si tratta comunque di una brutalità? Può fare impressione, è vero,
sentire un astice dibattersi nell’acqua bollente. Ma allora, tanto varrebbe far
morire di fame un pollo per evitare di tirargli il collo. Se invece ci
aspettiamo il meglio da un pennuto in carne, ben pasciuto e in ottima salute,
perché dovremmo regolarci altrimenti a proposito di un gambero o
un’aragosta?

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Infine, al pari degli altri abitanti del mare, anche i crostacei non fanno
eccezione: prima di essere mangiati vanno liberati dell’intestino. Tutto ciò
parrebbe sin troppo ovvio (l’intestino, contenendo lo sterco del crostaceo,
non risulta propriamente gradevole al gusto), eppure pochi si prendono la
briga di effettuare l’operazione. Ecco come procedere, caso per caso.
I gamberi di mare (fatta eccezione per i gamberetti grigi) e gli scampi,
avendo difficoltà a sopravvivere fuor d’acqua, raramente si riescono a
trovare vivi dal pescivendolo; in compenso, le loro carni hanno una buona
resistenza. A causa dei numerosi espedienti che s’impiegano per
mascherarne la mancanza di freschezza essi restano tuttavia i crostacei più
difficili da scegliere al momento dell’acquisto. Non resta che affidarsi al
proprio naso: l’olfatto è in questo caso il giudice più attendibile. Per bollire o
cuocere al vapore scampi e gamberi, è preferibile sgusciarli prima della
cottura: è infinitamente più pratico e permette di eliminare l’intestino con
grande facilità, incidendo semplicemente la coda sul dorso fino a scoprire il
filamento grigio-nero e asportarlo. Volendoli invece cucinare sulla griglia, si
taglieranno in due nel senso della lunghezza per privarli quindi dell’intestino,
che appare a vista.
Per quanto concerne i crostacei che debbono essere invece cucinati vivi,
una volta bolliti si sgusciano e l’intestino si estrae sfilandolo dalla parte
terminale della coda. Per ciò che riguarda i gamberi di fiume, i cuochi – che
in questi casi non vanno tanto per il sottile – spesso adottano un metodo
diverso: al gambero ancor vivo piegano la scaglia centrale della pinna
caudale sino a spezzarla. Tirandola, viene via pure l’intestino (in gergo
gastronomico è ciò che si dice «castrare il gambero», povera bestia).

Zafferano e pesce
Lo zafferano è una di quelle spezie dall’aroma generoso e prorompente, che
trasmette alla pietanza che l’accoglie la sua impronta inconfondibile e
dominante. In Italia si adopera quasi esclusivamente nel risotto alla milanese,
ed è un peccato perché questa spezia è assai più versatile di quanto
comunemente non si supponga. La cucina spagnola lo utilizza nella paella e
sul pollame, la marocchina sul montone, la polacca sulla trippa, ma è

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specialmente col pesce che lo zafferano rivela un’affinità sottile, come
stanno a dimostrare numerose ricette tradizionali, dalla provenzale
bouillabaisse (con la sapida complicità di pomodoro, aglio, anice e
finocchio) alla siciliana pasta con le sarde (che ne suggerisce la dolce
sintonia con pinoli, uvette e finocchietto selvatico).
Per parte mia posso raccomandarne l’impiego, con pomodoro, olio e
prezzemolo, su un piatto di triglie in guazzetto; altrettanto gradevolmente la
delicatezza di un branzino o di una sogliola si presterà a riceverne il gusto
(purché dosato con garbo), stemperandolo in una salsa bianca a base di
panna o di burro.
Allo zafferano in polvere sono da preferire gli stigmi essiccati, minuscoli
filamenti color ruggine con sfumature dorate che si stemperano in cottura al
pari della polvere. Solo così, infatti, si è certi della purezza degli ingredienti,
mentre l’aroma risulta più intenso (come accade un po’ a tutte le spezie,
quando lo zafferano viene frantumato anche il suo profumo tende ad
affievolirsi).

Marinati e crudi
Di semplicissima esecuzione, il pesce crudo marinato costituisce un’allettante
proposta di piatto freddo, sia servito come antipasto, sia come vera e propria
portata di pesce (condito per esempio con una salsa cruda di pomodoro e
accompagnato da un’insalata verde). Requisito indispensabile per la sua
buona riuscita (è il caso di precisarlo?): il pesce deve essere freschissimo.
Sfilettato e privato generalmente della pelle, il pesce può essere gustato da
crudo fondamentalmente in due modi: alla maniera giapponese, ossia
tagliato a fettine sottili e condito al momento con olio e limone (o altri agenti
aromatici), in modo che la polpa resti completamente cruda; oppure facendo
marinare i filetti in modo che la polpa s’insaporisca e venga «scottata»
superficialmente dal condimento, senza tuttavia impregnarsene.
La durata della marinatura varia di solito dai 20 ai 30 minuti. L’importante
è che il pesce non «cuocia» completamente sotto l’effetto del limone; lo
scopo dell’operazione è infatti quello di esaltare (cioè d’arricchire senza
sopraffare) il gusto naturale del pesce.

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Tanto fumo e niente arrosto
Al cuoco dilettante, solo che ne abbia voglia, nulla è precluso, o quasi: senza
neppure troppe difficoltà e con risultati di tutto rispetto potrà preparare da sé
persino del pesce affumicato. Ecco come dovrà procedere.
Il pesce prescelto, sfilettato e spinato a dovere, viene preventivamente
lasciato marinare in un ambiente fresco e aerato sotto l’azione di una miscela
di sale e zucchero (sparpagliata sopra come se si dovesse salare il pesce due
volte). Dopo 24 ore il pesce sarà quasi completamente disidratato: si scola
del liquido che ha cacciato ed è pronto per essere affumicato. In una padella
(da destinare a questa unica utilizzazione) s’inseriscono dei trucioli di legno
non resinoso. Si mette sul fuoco e si lascia bruciare finché i trucioli non
iniziano a fumare. A questo punto si buttano i trucioli nel recipiente di
affumicazione, che potrà essere semplicemente una pentola dotata di
coperchio e di dimensioni capaci di accogliere una griglietta di sospensione
che impedisca il contatto tra il pesce e i trucioli fumanti.
L’esposizione al fumo non ha infatti lo scopo di cuocere (la vera «cottura»
viene effettuata dal sale), ma deve soltanto impregnare l’alimento degli
aromi del fumo, senza sottoporlo all’azione del calore. Collocato il pesce
sulla griglietta, si copre il recipiente e si lascia aromatizzare l’alimento per un
tempo che varia, ad arbitrio dei gusti, dalla mezz’ora (affumicatura leggera)
alle due ore o anche alla ripetizione dell’operazione. Si unge infine il pesce
con un filo d’olio d’oliva, si appende per la coda e si lascia «maturare» per
48 ore in luogo fresco e aerato: il sale può così terminare di disidratare il
pesce mentre l’aroma del fumo penetra nelle sue carni. Il pesce così
affumicato si conserva senza problemi in frigorifero per una settimana.

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6.

Delle uova

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Ogni tecnica di cottura delle uova presuppone la freschezza dei suoi
ingredienti, ma alcune in particolare, essendo destinate a esaltare la naturale
fragranza dell’alimento, lo richiedono di primissima freschezza (è il caso, per
esempio, delle uova strapazzate). Si rende così necessario disporre di un
metodo affidabile per riconoscere l’età di un uovo.
Ebbene, poiché la superficie del guscio è porosa, l’acqua che vi è
contenuta tende a evaporare col passar dei giorni e la freschezza
dell’alimento risulta proporzionale al suo peso specifico. Immergendo così
un uovo in un recipiente colmo d’acqua salata (in ragione di un cucchiaino
da tè per litro) se ne riescono a dedurre i giorni di vita dalla posizione che
esso assume nel recipiente: l’uovo di giornata rimane sul fondo; quello di
due giorni resta sospeso; quello di quattro affiora leggermente in superficie;
quello invecchiato galleggia senza ritegno assumendo una posizione
orizzontale.
Esiste un altro metodo d’accertamento della freschezza delle uova, più
grossolano ma attendibile. Si tratta di scuotere l’uovo: quello fresco, pesante
e pieno, non produrrà alcun rumore; nel caso di un uovo non più fresco, in
cui si è formata una bolla d’aria per l’evaporazione dell’acqua, si sentirà un
leggero sciacquio.

Strapazzatele, ma con arte

Benché tutti siano convinti di saperle preparare come si deve, è raro, nella
cucina familiare, vedere delle uova strapazzate cucinate a regola d’arte. E ciò
non tanto perché la loro corretta esecuzione sia oltremodo difficoltosa,
quanto perché, ai più, essa rimane cosa del tutto ignota.
Ecco dunque come procedere: sbattute leggermente (ossia quanto basta
perché tuorlo e albume siano mischiati), salate e pepate, le uova vanno fatte
cuocere a calore dolcissimo in una casseruola imburrata, mescolando
costantemente con un cucchiaio di legno. Si impedisce in tal modo la
formazione dei grumi, che sono il peccato capitale di questa ricetta: in effetti,
a cottura ultimata, le uova dovranno avere l’aspetto di una crema densa e
perfettamente omogenea. Per ottenere questo risultato occorre dar loro il
tempo di raggiungere la giusta consistenza senza forzare mai il calore (perché
ciò le farebbe «impazzire»); per maggior sicurezza si possono anche cuocere

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a bagnomaria, seguendo le medesime precauzioni. A consistenza ottenuta, si
allontana la casseruola dal fuoco, incorporandovi un po’ di panna liquida o
qualche fiocchetto di burro: si arresta così la cottura e la preparazione
guadagna morbidezza.
Servite in cocottine individuali o in fondine: le uova strapazzate (che
meglio sarebbe chiamare a questo punto «rimestate») si possono guarnire
con numerosi ingredienti come pancetta, tartufi, gamberi d’acqua dolce, ricci
di mare, punte d’asparagi e via dicendo.

La frittata del pedante

Come si prepara un’omelette degna di questo nome? Rompo le uova, le


sbatto o, meglio, le mescolo quel tanto che basta perché tuorlo e albume
risultino amalgamati (sbattendole eccessivamente, le uova infatti si sfibrano
e non gonfiano a dovere durante la cottura). Quindi salo; dose
approssimativa su cui regolarsi: una presa di sale per uovo. Infine incorporo
qualche fiocchetto di burro che renderà la frittata più morbida. Volendo, si
potranno aggiungere anche erbe aromatiche: la più classica delle
composizioni (le cosiddette «erbe fini») prevede dragoncello, cerfoglio,
prezzemolo ed erba cipollina tritati finemente.
Faccio quindi sfrigolare il burro in padella (ma che sia un’autentica
padella, con tanto di manico e di bordo bombato: si tratta, come vedremo, di
particolari essenziali), vi verso le uova (tre, come minimo) e, proseguendo la
cottura su un fuoco vivace, le mescolo continuamente con una forchetta
mentre con l’altra mano, impugnando il manico, imprimo alla padella un
movimento regolare in avanti e indietro, in modo da ottenere una cottura
omogenea. Quando l’omelette ha raggiunto la consistenza desiderata, la
faccio scivolare fin sul bordo bombato (ecco a che cosa serve) mentre con la
forchetta alzo il lembo rimasto al centro e lo ripiego su se stesso. Concludo
l’arrotolamento dell’omelette rovesciandola sul piatto. Non è difficile, basta
farci la mano.
Un’omelette ben riuscita si riconosce anche dal colore: non esistono
deroghe, deve risultare bionda, non imbrunita né tantomeno bruciacchiata
qua e là. Il grado di cottura della parte interna va lasciato all’inclinazione
personale del gusto; c’è chi la gradisce ben cotta, chi la preferisce più

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cremosa (o baveuse, come dicono i francesi). Volendola farcita, si
aggiungerà la guarnizione prima d’avvoltolarla su se stessa. Per alcune
guarnizioni (come gamberi, funghetti, punte d’asparagi) è tuttavia
consigliabile un metodo differente. Si prepara l’omelette nel modo consueto,
arrotolandola alla fine: dopo averla disposta sul piatto, si pratica una
incisione nel senso della lunghezza, ricavando in tal modo un solco dove
poter collocare («in bella vista», come si dice in gergo) la guarnizione
prescelta.
Fin qui l’omelette arrotolata. Ma che dire dell’umile, onesta frittatina
piatta? Premesso che in francese si chiama sempre omelette (omelette plate),
la tradizionale frittata si prepara seguendo lo stesso procedimento
dell’omelette arrotolata, salvo farla saltare su se stessa, anziché arrotolarla,
alla fine. Capovolta, basterà qualche istante per completarne la cottura.

L’uovo sodo, questo sconosciuto

Come si cucinano le uova sode? Il procedimento solitamente adottato


consiste nel farle bollire finché il tuorlo non sia rassodato. Tuttavia basta
superare di poco il tempo necessario perché la temperatura elevata a cui
l’uovo è sottoposto durante la bollitura provochi nel tuorlo una
trasformazione chimica responsabile dell’odore sgradevole che spesso
presenta alla fine, colorandosi di sfumature verdognole nient’affatto
invitanti. L’uovo sodo risulta allora di difficile digeribilità e se la cottura si è
protratta eccessivamente diviene addirittura tossico.
Eppure, esiste un metodo semplicissimo che consente di rassodare le uova
evitando tutti questi inconvenienti. Si immergono le uova in una casseruola
riempita d’acqua in modo che il liquido le ricopra di almeno tre dita. A
fuoco basso si porta lentamente l’acqua a bollore, dopodiché si spegne: una
volta estratte le uova risulteranno à la coque. Lasciandole invece immerse in
casseruola, il calore ha il tempo di penetrare progressivamente all’interno,
rassodando completamente il tuorlo senza però alterarne la fragranza. Dopo
circa mezz’ora le uova vanno estratte e fatte raffreddare rapidamente in
acqua ghiacciata. L’uovo sodo presenta allora un tuorlo dal bel colore
acceso, risulta gradevole all’olfatto e perfettamente digeribile.

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La ricetta più semplice del mondo

Sembrerebbe, di primo acchito, la ricetta più semplice del mondo: quasi un


affronto alla grande cucina, dove sbagliare è impossibile. Eppure, anche nel
banale uovo al tegamino esiste un più e un meno in fatto di riuscita, e alcune
regole debbono esser tenute presenti. Ma cominciamo dalla conclusione,
ovvero dal risultato ideale: l’albume non ha preso colore benché sia
completamente rassodato, mentre il tuorlo risulta liquido e lucente, tiepido
ma non cotto. Come arrivarci? In una padella che conterrà l’uovo (o le
uova) di misura, si farà sciogliere (ma non sfrigolare) la conveniente
quantità di burro, si unirà l’uovo che verrà quindi condotto a cottura su un
fuoco dolcissimo, salando il solo albume a cottura ultimata.
Il grande Ferdinand Point, proprietario del celebre ristorante La Piramide,
a Vienne, adottava una tecnica differente: scorporato il tuorlo dall’albume,
cucinava quest’ultimo seguendo il procedimento ordinario, come se si
trattasse di un uovo intero. Quand’era quasi giunto a cottura, allontanava la
padella dal fuoco e, al centro dell’albume, ricavava un piccolo solco;
nell’avvallamento adagiava il tuorlo crudo, passando poi il tutto in forno a
temperatura sostenuta, giusto il tempo di dare quel colpo di calore che è
sufficiente a far sì che il tuorlo intiepidisca e l’albume finisca di cuocere.
Otteneva in tal modo un risultato di assoluta perfezione tecnica.

I soufflé

I soufflé sono di certo l’espressione più soffice ed elegante dei metodi di


preparazione delle uova, e i bocconi si dissolvono letteralmente in bocca.
Tecnicamente restano un virtuosismo: la loro preparazione consiste in
sostanza nell’unire a una crema densa a base di tuorli d’uovo (che è la
sostanza legante del soufflé) un sapore, solitamente sotto forma di purea
dell’ingrediente prescelto (la varietà è praticamente infinita: solo per citare i
più famosi ecco, dall’antipasto al dessert, gamberi di mare o d’acqua dolce,
foie gras, tartufi, asparagi, patate, funghi, spinaci, formaggio, vaniglia, cacao
e frutta candita). Il composto viene quindi incorporato ad albumi montati a
neve (la sostanza «lievitante» del soufflé) e cucinato in forno.
Quanto alla crema di sostegno potrà essere a base di farina (o fecola), latte

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e tuorli oppure uno zabaione caldo montato al burro. L’impiego della farina
appiattisce un po’ tutti i sapori; lo zabaione invece li arricchisce: ne viene un
soufflé più ricco e corposo, ma sicuramente anche più grasso.
Un altro procedimento esclude sia la farina che i tuorli, utilizzando come
legante (oltre agli albumi montati a neve) un semplice sciroppo di zucchero
amalgamato a una purea di frutta oppure dei biscotti sbriciolati imbevuti di
liquore o di succo di frutta. Questo metodo dà dei soufflé più leggeri e
profumati, senza dubbio più adatti alla stagione calda.
Passiamo ora in rassegna tutti i trucchi del mestiere che consentono di
ottenere un soufflé veramente impeccabile. Innanzitutto gli albumi: devono
essere sbattuti solo quanto basta (montati all’eccesso, anche se
apparentemente più fermi, finiscono per sfibrarsi, perdendo la forza che
serve a far «lievitare» il soufflé durante la cottura). È inoltre necessario
amalgamare delicatamente il composto di base agli albumi montati: si
comincerà col diluirlo con una parte degli albumi per poi incorporarvelo
completamente ruotando la frusta con delicatezza dall’alto verso il basso, in
modo da conservare agli albumi tutta la loro spumosità. Bisogna poi
imburrare generosamente gli stampini, evitando con cura di lasciarvi delle
ditate all’interno o sul bordo. Infatti il burro, lubrificando le pareti dello
stampino, permette al soufflé in fase di crescita di scorrervi senza difficoltà
viceversa le ditate, eliminando lo strato di grasso, rischiano di far attaccare il
soufflé al punto rimasto scoperto, impedendogli così di innalzarsi a dovere (e
di essere in seguito rovesciato sul piatto dove la salsa d’accompagnamento lo
attende). Un altro utile accorgimento è di non aprire mai il forno durante la
cottura per evitare al soufflé spiacevoli colpi di freddo che ne potrebbero
ostacolare la crescita.
Infine, per scodellare il soufflé sul piatto, lo stampino non andrà
capovolto, ma inclinato orizzontalmente in modo da lasciar entrare l’aria tra
le pareti e liberare così il soufflé.
Andrà servito con estrema sollecitudine, avendo la tendenza a sgonfiarsi
rapidamente.

Le crespelle

Un vecchio dizionario gastronomico sostiene che crêpe sia una voce invisa

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ai puristi, perché traducendola (si fa per dire) alla lettera, crepa non
suonerebbe propriamente beneaugurante; d’altra parte, ribattezzata frittella
dolce, risulterebbe per lo meno equivoca, dal momento che ne esistono di
salate. Invero, se fagottino è ancora ambiguo (non essendo che uno dei
possibili modi di presentarla) basterebbe tradurre il termine crespella per
rispettarne a un tempo etimologia e versatilità culinaria.
Riservate originariamente al periodo della Quaresima, oggi le crespelle
sono apprezzate in ogni stagione e soprattutto per ogni occasione, potendo
recitare indifferentemente la parte di raffinato dessert e quella di rustico
spuntino.
Ecco tutti gli accorgimenti per prepararle all’altezza della loro fama.
Poiché i loro nemici giurati sono i grumi, durante la preparazione si avrà
cura di setacciare a dovere la farina, d’incorporarvi le uova una alla volta,
lavorando bene l’impasto, e di diluirvi il latte a poco a poco, ripassando alla
fine il tutto per il setaccio a maglia fitta. È anche utile aggiungere un po’ di
burro fuso per rendere l’impasto più morbido e untuoso e ridurre al minimo
la quantità di grasso necessaria in cottura. Le dosi consigliate sono 35
grammi di farina, 10 di burro più 100 millilitri di latte per ogni uovo.
Ottenuta la pastella, è necessario lasciarla riposare almeno un paio d’ore:
con ciò si produrrà un inizio di fermentazione che, assicurando una migliore
coesione tra gli ingredienti, rende il composto più liscio ed elastico.
Per quanto riguarda la cottura, si scalda sul fuoco una padella di ferro,
preferibilmente a bordo svasato e appena unta di burro, vi si versa sopra un
mestolino di pastella, distribuendola velocemente sulla superficie aiutandosi
con una spatola in modo da farne aderire alla pentola solo un sottilissimo
velo (tutte queste operazioni vanno effettuate con grande tempismo). Una
volta dorata, si rigira la crespella sull’altro lato, completandone la cottura.
Una tradizione della cucina bretone consiglia di utilizzare nella
preparazione delle crespelle salate la farina di grano saraceno al posto di
quella di frumento, che si preferisce riservare alle crespelle dolci. In effetti,
mentre la farina bianca resta per la sua finezza la più adatta alle lavorazioni
di pasticceria, il grano saraceno regala alle crespelle salate un tocco
piacevolmente rustico, suggerendoci nel contempo un modo per utilizzare un
prodotto che, seppur coltivato anche nell’Italia settentrionale, ha ancora una
diffusione assai limitata.

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Per quanto riguarda i ripieni, oltre ai più collaudati (come fonduta con
tartufi bianchi o groviera grattugiato) e alle tradizionali farce per i cannelloni
di pasta (per esempio un ragoût di carne o ricotta mascarponata con spinaci,
tutti perfettamente adattabili alle crespelle), se ne possono escogitare
moltissimi altri.
Ecco qualche suggerimento: una finanziera di creste e rognoni di gallo e
animelle di vitello legate con la panna, una julienne di verdure novelle
(sedani, carote, cipolle e punte d’asparagi) cotte al burro. Ancora, un piccolo
ragoût di pollo al curry o della polpa mista di pesce (gamberi, capesante,
branzino o salmone fresco), tagliata a dadini e saltata in padella, condita con
una salsa ricavata dal coulis dei crostacei o, più semplicemente, aromatizzata
alle erbe fini.

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7.

Degli ortaggi & della frutta

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La cucina vegetariana è a torto considerata accessoria (d’altra parte, se pure
lo fosse, è proprio nella cura dei particolari che si misura la differenza in
cucina). Invero, se condotta con garbo e con i dovuti accorgimenti, gli
ortaggi e la frutta sono in grado di esibire straordinarie raffinatezze e
regalarci insospettati piaceri.

L’importanza di cuocere al dente

Questa italianissima espressione (che le lingue straniere invano tenterebbero


di tradurre) indica il preciso momento in cui la cottura di un alimento ha
concluso il suo corso, l’istante in cui si compie il passaggio dal crudo al
cotto e al di là del quale il cibo perde quella caratteristica consistenza che
siamo in grado di riconoscere attraverso la masticazione. «Al dente»,
dunque, non significa crudo o semicrudo, ma cotto esattamente al punto
giusto. Ebbene, questo principio fondamentale non conviene soltanto alla
pasta o al riso, ma pure alle verdure e ai legumi.
Non si tratta, d’altra parte, di una semplice questione di gusto. Prendiamo
il caso degli spinaci: facendoli «scuocere» come si fa di solito (cioè in acqua
bollente), essi perdono non solo sapore e colore, ma ogni loro proprietà
nutritiva. Vitamine e sali minerali, infatti, si disperdono nell’acqua di cottura,
mentre la poltiglia che rimane è costituita da fibre vegetali, in altre parole da
semplice cellulosa che, non essendo assimilabile dall’organismo, non ha
alcun valore nutritivo. Com’è possibile allora far quadrare i conti del gusto e
delle esigenze nutrizionali?
Anziché lessarli, preparate gli spinaci in questo modo: dopo averli lavati a
lungo, asciugateli e privateli dei gambi e della nervatura centrale, utilizzando
la sola parte tenera delle foglie. Fate sciogliere in una casseruola un po’ di
burro (lo stretto necessario per il condimento degli spinaci), aggiungete le
foglie mondate, salatele e, volendo, pepatele. Fatele quindi cuocere senz’altra
aggiunta: l’acqua di vegetazione sarà sufficiente. Tenendo gli spinaci al
dente, basteranno pochi secondi. Così facendo la fuoriuscita di sali minerali
e di vitamine sarà ridotta al minimo e, in ogni caso, recuperata come
condimento. Se si preferisce, si può anche fare a meno del burro, cuocendo
gli spinaci secondo lo stesso procedimento e con la casseruola coperta; il
tempo di cottura resta invariato.

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La stessa tecnica di preparazione può essere adottata per verdure con
elevata percentuale d’acqua e dalle foglie tenere, come la lattuga o
l’acetosella. Nel primo caso scegliete le foglie esterne, più colorate e saporite.
Nel secondo evitate i tegami d’alluminio o di ferro, che darebbero
all’alimento uno sgradevole sapore metallico e ne altererebbero il colore:
rame stagnato, acciaio inossidabile e superfici smaltate ne prenderanno il
posto.

Colore è sapore

Nonostante la moderna scienza dell’alimentazione ci insegni che far bollire le


verdure in grandi quantità d’acqua non è il miglior metodo per conservarne
le proprietà nutritive, talvolta proprio questo sistema di cottura sembra
ancora quello preferibile. È il caso dei fagiolini: a chi non è toccata in sorte
la sventura di vederseli offrire irrimediabilmente guastati da un avvilente
color grigiastro? Ebbene, il metodo per mantenerli di quel verde acceso che
è proprio dei fagiolini freschi consiste nel farli cuocere in acqua abbondante
e generosamente salata a forte ebollizione per pochi minuti con la pentola
scoperta. Quest’ultimo è un particolare essenziale: così facendo, infatti, gli
acidi presenti nell’alimento e responsabili dell’alterazione del colore si
volatilizzano prima di poter attaccare la clorofilla. Infine, riscopriamo
l’importanza della cottura al dente: è grazie a essa che la perdita delle
vitamine e dei sali minerali (ovverosia del gusto) viene ridotta al minimo. Se
i fagiolini debbono essere preparati in insalata, a cottura ultimata tuffateli per
qualche istante in acqua ghiacciata. Se si vogliono invece consumare caldi,
passateli nel burro sino a renderli lucenti e servite subito.
La stessa tecnica di cottura può venire adottata con successo nel caso di
numerose altre verdure: asparagi, broccoletti, pisellini e piselli «mangiatutto»
(o taccole: quelli, cioè, di cui si cuoce e si mangia l’intero baccello). Fatti
cuocere in abbondante acqua bollente salata con la pentola scoperta e per il
tempo strettamente necessario, tutti questi ortaggi assumono un vivido color
verde che lusinga l’occhio e solletica il palato. Beninteso, le verdure
debbono essere fresche perché in caso contrario non c’è trucco in grado di
riportare in vita il loro colore originario. A proposito degli asparagi, anziché
cuocerli interi per poi mangiarne le sole punte, ecco un semplicissimo
metodo per utilizzarli completamente: tenendone ferma la punta tra le dita,

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con un coltellino pelaverdure si scortica la parte bianca eliminando la scorza
esterna come si fa con i gambi dei carciofi. Si fanno quindi cuocere come ho
spiegato e si gustano finalmente per intero.
In materia di colore (e di accorgimenti per salvaguardarlo) non si possono
dimenticare i carciofi. Si sa, per esperienza comune, che questi ortaggi, una
volta mondati, anneriscono se esposti all’aria: per questa ragione si
immergono in acqua acidulata con limone, in modo da farli restare chiari.
Tuttavia questa precauzione è inutile se durante la cottura non ne viene
adottata una analoga. Si procede così: si stemperano un paio di cucchiai di
farina in un po’ d’acqua, si passa il tutto al colino fine e si diluisce in un litro
d’acqua fredda, salando leggermente e aggiungendo due noci di burro o,
alternativamente, un paio di cucchiai d’olio d’oliva (il grasso ha il compito
di creare una pellicola isolante che impedisca il contatto tra i carciofi e
l’aria). Si porta il liquido a ebollizione e vi si cuociono i carciofi
(preventivamente mondati). Lo stesso metodo si applica a tutte le verdure
che tendono ad annerire facilmente (cardi, bietole ecc.): adottandolo, i
carciofi conserveranno tutte quelle sfumature di colore (dal paglierino al
violetto o al verde smeraldo), che ne fanno uno dei vegetali più suggestivi
alla vista.
In conclusione, in questo come negli altri casi il colore vivo e brillante
non rappresenta un semplice capriccio decorativo: l’attrattiva estetica di una
pietanza stimola infatti la secrezione dei succhi gastrici e appare pertanto
un’esigenza naturale del gusto.

La ratatouille

Piatto solare, dai colori e dai sapori squisitamente estivi, la ratatouille


racchiude in sé tutta la levità e l’eleganza della cucina vegetariana.
Sebbene tradotta alla lettera potrebbe suonare come «intruglio di
verdure», ciò che in una sua preparazione eseguita con criterio occorre
massimamente evitare è proprio di «pasticciare» ingredienti e sapori. Questi
debbono arrivare al palato franchi e puliti, in modo da comunicargli
tutt’intera la loro fresca fragranza. È mantenendo ciascuna la propria
individualità che le verdure potranno, infatti, concertare una delicata
armonia d’insieme.

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Qual è dunque il segreto per un’esecuzione impeccabile? Cuocere le
verdure nella quantità di grasso e per il tempo strettamente necessario e,
soprattutto, cuocerle separatamente. Per attenerci alle componenti
tradizionali (ma le variazioni sul tema sono infinite), si faranno cuocere i
peperoni (con un battuto di cipolla) e le zucchine in padelle distinte e in
poco olio, tenendo le verdure rigorosamente «al dente». Nel contempo le
melanzane verranno scottate «a secco» (cioè senza grassi), in una padella
antiaderente, in modo da provocare la formazione di una crosticina
superficiale che impedisca loro d’imbeversi troppo d’olio; aggiunto quindi
l’olio (con parsimonia) si termineranno di cuocere. Dopo essere state scolate
(per eliminare il grasso in eccesso), le verdure verranno infine riunite in
padella con un po’ di pomodoro fresco, tagliato a cubetti e precedentemente
saltato con una punta d’olio. Lasciamo insaporire e serviamo.

I funghi

Delicati e preziosi, i funghi vanno trattati con riguardo, se si vuole


salvaguardare la loro fine fragranza. Ecco dunque alcune precauzioni da
osservare al riguardo, a cominciare dal momento dell’acquisto. Si
sceglieranno sempre gli esemplari migliori (turgidi e integri), perché mai
come in questo caso la bellezza è garanzia di freschezza. Per quanto riguarda
la pulizia, con un coltellino si raschierà il gambo, eliminando i sedimenti
terrosi, mentre la cappella va spolverata con un panno asciutto.
Se è il caso, il fungo verrà passato brevemente sotto l’acqua corrente, ma
soltanto al momento del suo impiego e senza lasciarlo inumidire. Le
spugnole (a causa della loro cappella alveolata e spugnosa) e i gallinacci (per
l’ampiezza delle lamelle) vanno invece lavati accuratamente. Può infine
capitare che la parte spugnosa sottostante la cappella del porcino risulti molle
e umida; in tal caso va eliminata, raschiandola via, perché altrimenti il fungo
sciacquerebbe durante la cottura, risultando sgradevolmente «bavoso».
Tra le varietà più diffuse in Italia, l’eccellenza spetta agli ovoli e ai porcini.
Gli ovoli si gustano crudi in insalata: si scelgano gli esemplari non ancora
dischiusi, sono i migliori, e si condiscano con pochissimo limone e un olio
dal gusto delicato, che lasci risaltare il sapore del fungo (lo stesso discorso
vale anche per i porcini, parimenti preparabili crudi in insalata).

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I gallinacci (o finferli) vanno sempre consumati cotti. Dal sapore delicato,
ben s’accompagnano al pesce e al pollame e, una volta fatti raffreddare,
possono anche guarnire un’insalata.
Anche i chiodini vanno sempre consumati cotti. Si adopera solo la parte
superiore, eliminando il pezzo iniziale del gambo, che è legnoso. Possono
accompagnare una pastasciutta o un risotto, ma anche la piccola cacciagione
di piuma. Buoni anche in insalata o in zuppa.
Infine, i porcini. Crudi, possono esser serviti in insalata. Nel classico
risotto con i porcini, evitate invece il formaggio e preparate i funghi a parte,
facendoli saltare nel burro a fuoco vivace; si uniscono al riso soltanto a
cottura ultimata, durante la mantecatura. Affettati sottilmente e cotti col
pesce, a vapore, ne costituiscono una guarnizione eccellente.

Le patate

Stampe settecentesche ritraggono soldati prussiani che, brandendo la spada,


intimano a contadini riluttanti di coltivar patate e di nutrirsene. Di lì a poco
l’ascesa della patata in Europa sarebbe stata irresistibile; eppure
quell’originaria diffidenza nei suoi confronti non era del tutto infondata: la
pianta della patata è infatti velenosa, al pari delle parti del tubero verdi o
germogliate (è per questa ragione che le patate vanno tenute al riparo dalla
luce). Le patate germogliate vanno dunque scartate o, per lo meno, sbucciate
piuttosto a fondo in prossimità dei germogli e delle chiazze verdi, e poi
sciacquate.
Quanto all’impiego culinario, le patate si dividono in due grandi famiglie:
quelle farinose (utilizzabili in pratica soltanto per purée o gnocchi) e quelle a
pasta soda, più resistenti alla cottura. Tra queste va citata la Bintje, regina
delle patate: coltivata in Olanda, in Francia e in Svizzera (dove si produce la
migliore in assoluto). Dalla buccia gialla e lucida, la pasta fine di colore
giallo chiaro, la Bintje è ideale per ogni preparazione; specialmente fritta è
insuperabile. Varietà eccellente è anche la Désirée, dalla buccia rossa e dalla
pasta giallo chiaro: coltivata anche in Italia, si presta bene per tutti gli usi.
Altre varietà di produzione nazionale e di buona qualità sono la primaverile
Spunta, coltivata in Sicilia, e la Primura, patata estiva di produzione veneta,
trentina e altoatesina.

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Per ottenere patate fritte veramente impeccabili occorre sceglierne una
qualità adatta (Bintje e Désirée sono le più indicate), tagliarle a uno spessore
rigorosamente uniforme (un centimetro quello ideale; utilizzate al proposito
l’apposito trinciaverdure), lavarle in acqua fredda, scolarle, asciugarle per
bene in un panno e procedere quindi a una doppia frittura in olio profondo.
La prima immersione deve avvenire a temperatura media (140 °C all’incirca)
in modo da consentire alla patata di cuocere e alla sua acqua di vegetazione
di evaporare. Quando le patate sono giunte a cottura (rivelata dalla loro
morbidezza), si scolano e si porta la temperatura dell’olio a 180 °C. Vi si
rituffano quindi le patate, che hanno così modo di colorire e divenire
croccanti. Sgocciolate, si asciugano sopra un foglio di carta assorbente, si
cospargono con una presa di sale e si servono immediatamente. Se
desiderate preparare patatine fritte tagliate a fiammifero o a rondelle sottili,
sarà invece sufficiente un’unica cottura, ad alta temperatura.
Quale che sia il loro spessore, le patate fritte non debbono essere mai
ricoperte né fatte attendere dopo la cottura, perché in entrambi i casi
perderebbero croccantezza.
Dalle elvetiche Rösti alle statunitensi Hashed and Browned Potatoes, i
tortini di patate esistono sotto svariati nomi e in varianti più o meno
complicate. I risultati migliori si ottengono tuttavia seguendo la strada più
semplice: sbucciate le patate, tagliatele a fiammifero (o grattugiatele),
conditele con sale e pepe. In una padella antiaderente, fate poi sfrigolare una
noce di burro, aggiungetevi le patate e, con il dorso della forchetta,
schiacciatele distribuendole regolarmente sulla superficie della padella.
Fatele rosolare a calore medio, finché il bordo non diventa croccante,
assumendo un color nocciola: è segno che il lato esposto alla cottura ha
rosolato a dovere. Rivoltate allora il tortino (come se si trattasse di una
frittata) e proseguite la cottura sull’altro lato. Una volta cotto, il tortino va
servito immediatamente.
Il segreto per un risultato impeccabile è quello di non lavare le patate
dopo averle sbucciate. Mentre le patate da friggere, dopo essere state tagliate
a bastoncino, vengono passate in acqua per eliminare l’amido superficiale e
consentire la completa evaporazione dell’acqua di vegetazione durante la
cottura (in modo da ottenerle perfettamente croccanti), nel nostro caso è
viceversa proprio l’amido che, sfruttato come legante, dovrà tenere insieme
il tortino.

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Infine, è tempo di sfatare il pregiudizio assai diffuso secondo cui le patate
fanno ingrassare e richiedono una digestione laboriosa. L’incolpevole tubero
è in verità ben povero di grassi, mentre la percentuale d’amido che contiene
certo non basta a renderlo un cibo ingrassante. È dunque solo la tecnica di
cottura prescelta che può aumentare l’apporto calorico della patata.
Lessate o cotte al vapore (come meglio s’addice alle novelle), cucinate in
forno, avvolte da carta stagnola o sotto la brace, le patate possono dunque
rivelarsi preziose alleate nelle diete: basterà eliminarne il condimento o
ridurlo al minimo. Per quanto semplici e leggere, non si tratta di cotture
prive di attrattive gastronomiche: oltre a essere indispensabile contorno dei
bolliti di carne, la patata lessa o cotta sotto la brace, farcita con un filo di
panna fresca, un po’ d’erba cipollina tritata e una generosa cucchiaiata di
caviale diviene una pietanza che renderebbe felice il gourmet più esigente.
A proposito delle patate lesse, la loro preparazione richiede alcune
attenzioni che non tutti hanno cura di osservare. Si sceglierà innanzitutto la
qualità adatta: una patata a pasta ferma (anche in questo caso Bintje e Désirée
sono le migliori). Lavate ma non sbucciate (la buccia trattiene il sapore
durante la cottura), le patate vanno immerse in acqua fredda che viene poi
portata a ebollizione; la cottura prosegue a fuoco moderato. Le patate sono
cotte quando, infilzandole con una forchetta, non offrono resistenza tanto in
superficie quanto all’interno. Non basta tuttavia cuocerle a puntino per farne
perfette patate «in camicia», le quali non debbono presentare umidità
all’interno. Per questo, a cottura ultimata, le patate verranno fatte
«asciugare» per qualche minuto in forno a calore dolce, o nello stesso
recipiente di cottura, scolato, rimesso sul fuoco (tenue) e scosso di tanto in
tanto, fino a provocare l’evaporazione completa dell’umidità.

Gli asparagi

Per quel loro gusto, erbaceo, campestre, inconfondibile, così irruento da


renderne problematica la convivenza con i vini; per la loro polpa carnosa,
che assicura una tenuta «al dente», davvero sorprendente per una verdura;
per il maestoso aspetto esteriore e la suggestiva intensità di colore, superbi,
altezzosi, aristocratici ortaggi, nelle ricette che li contemplano gli asparagi
diventano subito protagonisti.

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Oltre ai matrimoni celebri consacrati dalla tradizione (burro spumante e
una spolverata di parmigiano, uova in tegame, omelette, riso e paste varie),
gli asparagi legano magnificamente anche col pesce, sia per vivificare una
carne delicata, come quella di un branzino e di una pescatrice, sia per
rivaleggiare con la sapidità di un crostaceo.
Il miglior modo di prepararli resta quello di sacrificarne l’estremità
inferiore più dura e legnosa, pelarne la scorza bianca e cucinarli come la
pastasciutta, nell’acqua in ebollizione.
Del resto, come la pasta, anche gli asparagi vanno cotti al dente: lasciati
passare di cottura, perdono infatti quella croccante tenacia in cui risiede una
delle loro maggiori attrattive (per questa affinità, riesce spesso gradevole
servirli insieme alla pasta: beninteso, cucinandoli in acque separate per
rispettare i diversi tempi di cottura).
Se le doti di tenuta «al dente», risaltano al meglio negli esemplari di
grande stazza, che sono i più pregiati, esistono numerose specie e sottospecie
in miniatura, a cominciare dall’asparago selvatico (o «asparagina»), dal fusto
allungato e sottile, di colore viola, molto ricercato per la sua pronunziata
vena aromatica. Il pungitopo è il germoglio di un’altra liliacea spontanea:
simile a un piccolo asparago, ha un gusto amaro con piacevoli sfumature
aromatiche. Anche i giovani germogli di luppolo, più dolci e delicati ma
meno saporiti, si possono annoverare (anche se abusivamente da un punto
di vista botanico) tra le varietà di asparagi a scala ridotta.
Per tornare a taglie più robuste, oltre alle specie più diffuse, dalla punta
color verde o violetto (tra i più rinomati in Italia ricordo gli asparagi di
Altedo), esistono anche asparagi bianchi, che in Italia sono coltivati
principalmente nella zona di Bassano del Grappa e Cilavegna. Hanno un
gusto aspretto-amarognolo, piuttosto particolare, sono molto carnosi e
godono di grande reputazione nei paesi nordici (dove invece quelli verdi,
inspiegabilmente, non sono tenuti in alcun conto o quasi). Personalmente, io
trovo questi asparagi scoloriti un po’ tristi, se non altro dal punto di vista
scenografico.
Tuttavia, venendo alle utilizzazioni culinarie degli asparagi, le differenze di
gusto tra le diverse varietà non sono tali da discriminare le destinazioni
gastronomiche. Piuttosto, si tratterà di scegliere gli accostamenti di maggior
effetto. Per esempio, mi piace molto servire gli asparagi selvatici (affusolati e

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flessibili), in un’insalata fredda di spaghetti condita con panna acida.
Le punte di asparagi più grandi, sezionate obliquamente (a «becco di
flauto»), preferisco abbinarle con un altro formato di pasta, le penne, che
sono loro simili nella forma del taglio, nella stazza e nella consistenza.
Quanto agli asparagi giganti, una ricetta in particolare mi sembra
assecondare degnamente la loro predilezione per il protagonismo,
riproponendo, in una variante della salsa olandese, il loro classico connubio
con le uova: sono gli «asparagi in salsa d’asparagi». A uno zabaione,
preparato semplicemente con acqua e tuorli d’uovo e montato a bagnomaria,
s’incorpora una purea d’asparagi (si potranno scegliere gli esemplari meno
belli del mazzetto). Qualche cucchiaio di panna montata renderà più soffice e
leggera la salsa, che si cosparge calda sugli asparagi cucinati separatamente
in acqua bollente salata a pentola scoperta.

I peperoni

Con le colture in serra i peperoni ci si rendono oggi disponibili durante tutto


l’arco dell’anno. Tuttavia, per vocazione intrinseca e consolidata tradizione,
essi esprimono un’irresistibile propensione per la solarità e l’immediatezza
tipiche della cucina estiva. Purché, ovviamente, si scelgano tassativamente
esemplari giunti a completa maturazione, ossia soltanto quelli dal colore
rosso o giallo acceso (il verde non costituisce una varietà a parte: indica
semplicemente l’acerbezza). Resta pur vero che la tradizione ci tramanda a
loro scapito certi refusi del gusto che ne corrompono la naturale, squisita
dolcezza. Quando, per esempio, per poterli spellare si fanno cucinare in
forno, spesso e volentieri la pelle si carbonizza, comunicando alla polpa una
nota d’amaro: manifesto caso di corruzione. Oppure quando, per
accentuarne il sapore, si finisce col seppellirne il gusto sotto una tempesta di
spezie e di aromi.
Quanto al primo inconveniente, premesso che, con i sepimenti interni e i
semi, la pelle ne rappresenta la parte meno digeribile, il peperone va spellato
preferibilmente da crudo, adoperando un comune pelapatate: è solo così
mondato, per inciso, che andrebbe servito in insalata (in effetti, anche alla
pura percezione tattile senza pelle riesce infinitamente più gentile).
Per scongiurare il secondo fattore di disturbo, si tratterà semplicemente di

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selezionare e dosare con garbo i suoi accostamenti naturali. Tra le affinità
aromatiche del peperone vanno sicuramente annoverati cipolla e aglio,
purché quest’ultimo gli infonda una semplice sfumatura senza mai
raggiungere quegli eccessi acri e pungenti di tanti rustici manicaretti. Delle
erbe odorose, il basilico e la cipollina sono le più indicate.
Quanto alle preparazioni, stufato con cipolla, pomodoro e un profumo
d’aglio, frullato, passato per il setaccio e diluito con un po’ di panna fresca,
il peperone ridotto così a crema diviene un’impeccabile salsa
d’accompagnamento per pesci e soprattutto crostacei, dei quali condivide la
dolce inclinazione del gusto. Figura magnificamente pure nelle mille varianti
della ratatouille di verdure, saltato semplicemente in padella senza fargli
prendere colore (solo così potrà sviluppare appieno la propria dolcezza): per
esempio, in compagnia di pomodoro e cipolla, oppure unito a sedani,
zucchine o melanzane, tutti cucinati separatamente. La ratatouille di
peperoni potrà fungere di volta in volta da piatto di mezzo autosufficiente,
contorno di pesci, crostacei o carni bianche, condimento di una pastasciutta,
insalata fredda condita con un goccio d’aceto e profumata con qualche foglia
di basilico.

Le melanzane

Nel galateo culinario, il biglietto da visita della melanzana presenta sempre


indelebili tracce d’unto. Ma sono davvero indelebili? Non esiste proprio
qualche accorgimento che ci risparmi la rassegnazione di mangiarle intrise di
grasso?
Cominciamo col dire che, se le melanzane sono fresche e turgide, la
pratica di disidratarle, cospargendole di sale grosso, non solo è inutile, ma
dannosa. Infatti sotto l’azione del sale la consistenza del vegetale cede, la
polpa si affloscia e, in cottura, ha una tendenza ancor più accentuata a
imbeversi d’olio; dunque è sempre preferibile lavorare la materia fresca. Un
utile accorgimento è semmai quello di lavare in una bacinella d’acqua le fette
o i tocchetti di melanzana appena tagliati, scolarli e asciugarli bene.
Per quanto riguarda i tipi di cottura, sono numerose le tecniche che
riescono a salvaguardare contemporaneamente gusto e digeribilità della
preparazione. Anzi, il sapore dolce-piccante della melanzana può risaltare

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appieno solo in questo caso: invero, un eccesso di grasso fritto assorbito in
cottura, lungi dall’esaltarlo, lo deturpa. Per evitare l’inconveniente, un
metodo di facile attuazione consiste nello scottare a secco le fette di
melanzana in una padella antiaderente, senza aggiungere nessun condimento.
A contatto con la superficie rovente, sulla melanzana si forma una
pellicola protettiva che, proseguendo la cottura in una padella appena unta
d’olio, rallenta la penetrazione del grasso, mentre le fette si insaporiscono e
terminano di rosolare.
Adottando questo sistema, si può per esempio preparare una
«parmigiana» di inconsueta leggerezza: è sufficiente alternare delle rondelle
di melanzana preparate come descritto a un sottile strato di salsa di
pomodoro, spolverizzata di parmigiano. L’ultima fetta si ricopre di
parmigiano, pangrattato, basilico e prezzemolo, facendo gratinare
brevemente.
Un altro metodo consiste nel tagliare la melanzana a metà, rigandola col
coltello in superficie. Si fa quindi cuocere in forno senza grassi con il taglio
rivolto verso l’alto. Quando è ammorbidita, se ne trita la polpa a cubetti e si
termina la cottura in padella (si può per esempio preparare trifolata con
aglio, olio e prezzemolo). Anche in questo caso la cottura iniziale, a secco,
ostacola l’assorbimento del grasso all’interno della polpa.

I carciofi

Le lotte titaniche con le foglie più coriacee e fibrose del carciofo sono la
conclusione incresciosa ma frequente di tanti rustici manicaretti.
Fortunatamente, le tecniche escogitate dall’alta cucina ci risparmiano queste
fatiche da ruminanti: difatti il fondo, il gambo e la cima del carciofo devono
concludere contemporaneamente la cottura. Il carciofo viene sottoposto a
una meticolosa toilette, per questo si ha la tendenza a tagliarne le foglie corte
o addirittura a utilizzarne soltanto il fondo.
Non sempre è necessario sacrificare il gambo e le foglie: per esempio, per
preparare degli impeccabili carciofi «alla giudìa» si strappano le foglie
esterne, si spuntano le altre e si svuota l’interno con uno scavino; i gambi
vanno tagliati a metà e pelati con un coltellino; si sbollentano quindi i
carciofi in acqua acidulata. Una volta sgocciolati, si premono con la testa

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rivolta verso il basso, così da far schiudere le foglie a ventaglio. Si
immergono infine a metà altezza in olio caldo, sempre con il gambo all’insù:
le foglie friggendo perdono la loro consistenza dura, per divenire croccanti e
friabili, mentre il fondo, che affiora per metà in superficie, ha giusto il
tempo di concludere la cottura.
Anche quando sono preparati in umido (per esempio in un guazzetto
d’olio e acqua, con uno spicchio d’aglio), i carciofi vanno cucinati «gambi
all’aria»: solo le foglie cuociono immerse nel liquido, alle parti più tenere (il
fondo e i gambi torniti, se ci sono) bastano i vapori che si formano
all’interno della casseruola.
Fanno eccezione solo i carciofi farciti, che non possono essere capovolti
per ovvie ragioni. In questo caso si torniscono a forma conica,
temperandone la cima come si fa con le matite da disegno; poi si svuotano
all’interno e si farciscono.
Si può invero adottare la tecnica precedente, cucinando i carciofi a testa
ingiù: i gambi, pelati e tagliati a tocchetti, si aggiungono al guazzetto solo a
metà cottura. Alla fine i carciofi si riempiono con i pezzetti di gambo,
cosparsi col guazzetto di cottura e una spolverata di prezzemolo tritato o di
mentuccia.
Quanto alle varietà italiane più pregiate, la Puglia ci regala gli esemplari
più precoci, a partire da fine settembre per proseguire sino a febbraio
inoltrato. Sono mammole o violette, senza spine, con un gusto dolce e i
colori suggestivi. I carciofi liguri, spinosi e di taglia maestosa, si raccolgono
invece dalla fine di dicembre alla fine di marzo. Hanno un gusto delicato e
sono i migliori da mangiar crudi. Le mammole romane, dalla pittoresca
forma tondeggiante e il caratteristico colore rosato, crescono da fine febbraio
a fine marzo. La brevità del periodo di raccolta li rende molto ricercati:
molto saporiti, sono particolarmente indicati per la frittura e le cotture in
umido. A stagione inoltrata (aprile e maggio) le ultime fioriture avvengono
nella laguna veneziana: sono le «castraùre», carciofi piccoli e rari,
amarognoli, delicati e tenerissimi.
Una curiosità: quale che ne sia la varietà, la barba del carciofo cresce solo
al termine della stagione di raccolta (variabile da regione a regione). Da
giovane, il carciofo è sempre imberbe e presenta di conseguenza uno scarto
minore (anche se quelli di avanzata maturazione sono i più saporiti).

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Il fascino discreto dei pelati

Il pomodoro fresco condotto a maturazione tardiva, carico di sole e dal


gusto esuberante con le sue sfumature zuccherine nel gusto, è il protagonista
indiscusso della cucina estiva. L’importante è spellarlo (basta tuffarlo per un
istante in acqua bollente) e privarlo dei semi: così facendo il riscontro tattile
sul palato è differente, incomparabilmente più gentile, e anche il gusto
cambia, poiché (come accade nel caso dei peperoni) con la buccia e i semi si
elimina la componente più acida e pure la meno digeribile.
La polpa così predisposta può intervenire in infinite preparazioni: tagliata
a dadini, per essere utilizzata come guarnizione o condimento, frullata per
preparare fresche salse, crude o appena scottate, ma soprattutto adoperata
così com’è, come ingrediente d’insalate a cui regalerà un’ineguagliabile
finezza.
Infine, spellati e decappottati (la calotta superiore servirà da coperchio),
svuotati all’interno (aiutandosi per esempio con uno scavino da verdura), i
pomodori possono venir utilizzati interi come suggestivi contenitori di
preparazioni miniaturizzate, semplici e leggere, squisitamente intonate alla
stagione estiva.
Beninteso, questi pomodori «a sorpresa» dovranno preludere a
un’estrema gentilezza del gusto, escludendo categoricamente le farce grevi e
un po’ melanconiche che traboccano senza pudore dai tipici pomodori
ripieni della tradizione rustica.
Un primo esempio è fornito dal pomodoro-gazpacho, farcito con verdure
crude tagliate a dadini minuscoli (cipolla, cetrioli, pomodori e peperoni
spellati), condite con una vinaigrette d’olio e aceto. Anche la sola polpa di
pomodoro tagliata a dadini, condita con un pesto leggero, può costituire una
stuzzicante alternativa.
Una ratatouille o una semplice peperonata potranno venir impiegate nello
stesso modo: le verdure (zucchine, peperoni spellati, melanzane e cipolla),
tagliate a cubetti e cucinate separatamente, al vapore o in padella, farciscono
il pomodoro raffreddate o servite ancora tiepide, riscaldando in tal caso
anche il pomodoro, senza cuocerlo (basterà lasciarlo qualche istante in
forno).
Volendo, si potrà insaporire il pomodoro-contenitore lasciandolo marinare

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leggermente in una vinaigrette, per sgocciolarlo in seguito e farcirlo. Se poi i
pomodori sono di piccola stazza, vi si potrà alloggiare un bocconcino di
mozzarella fresca, o anche stendervi delle foglie di spinaci snervate, stufate
in padella e tenute al dente.
Un formaggio fresco e cremoso è un altro splendido ingrediente per il
ripieno: per esempio un caprino fresco, condito con olio, sale e pepe e
aromatizzato con erbe fini, oppure amalgamato alla polpa di pomodoro
estratta dall’interno, passata, e a una punta di cipollotto novello tritato fine.
Pure la freschezza del pesce troverà nel morbido involucro vegetale una
collocazione più che confortevole: in questo caso si prediligeranno i pesci in
miniatura, sicuramente più preziosi e seducenti, alla vista come al palato, di
quelli di stazza ordinaria tagliati a pezzi, che darebbero un ripieno più
grossolano e banale.
Ecco qualche semplice suggerimento: un’insalata di canestrelli e cubetti di
zucchina, un’insalata di calamaretti e moscardini conditi con olio, limone e
prezzemolo, oppure dei gamberetti grigi, tuffati per un minuto in acqua
bollente salata, raffreddati rapidamente sotto l’acqua corrente, sgusciati e
intinti in una salsa fredda, ottenuta addizionando a freddo a panna doppia un
coulis ristretto ricavato dai carapaci dei crostacei secondo il classico
procedimento.

La zucca

Perché possa sprigionare tutta la sua caratteristica dolcezza il primo requisito


è di sceglierne un esemplare perfettamente maturo (la zucca riesce altrimenti
dura e insapore). Poiché la grana della polpa e il suo gusto cambiano
considerevolmente a seconda delle varietà, è quindi importante scegliere
quella giusta.
La zucca marina di Chioggia, dal tipico colore grigio-verde, la scorza
rugosa e bitorzoluta con solchi a spicchio assai profondi e dalla polpa soda e
compatta di color giallo intenso, è tradizionalmente la più adatta alle
preparazioni della cucina lombarda.
Tuttavia in Italia vengono oggi coltivate anche selezioni d’origine esotica
di qualità superiore. La migliore è la Delica tonda, proveniente dal
Giappone. Pesa meno di 2 chili, ha poco seme e polpa a pasta uniforme,

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dolce e profumata, e la scorza liscia verde scura, screziata di bianco quand’è
matura. Le dimensioni contenute ne facilitano l’impiego in cucina, specie in
ambito familiare (la conservazione di una zucca aperta è sempre
sconsigliabile). Ottima, anche se meno pratica, l’americana Butternut, grossa
zucca dal sedere bombato, di color arancione chiaro e pelle liscia.
Quanto alle utilizzazioni culinarie, solitamente si procede così. La polpa,
sbucciata e tagliata a pezzi, va cotta in forno sino ad ammorbidirne le fibre
(basta far asciugare l’acqua di vegetazione). Una cottura dolce raggiunge lo
scopo senza alterare le qualità organolettiche della polpa: si può per esempio
inserirla nel forno caldo a fuoco spento e lasciarvela fino a raffreddamento
avvenuto (a una temperatura troppo elevata, invece, la polpa arrostisce e
acquista un gusto biscottato, gradevole ma non appropriato a tutti gli usi). La
polpa è pronta quando cede alla semplice pressione della forchetta: può
essere allora utilizzata come farcia per tortelli o per preparare una crema
(tritata nel passaverdure, diluita con brodo e panna liquida e guarnita con
amaretti sbriciolati).
Le fette, cucinate in forno o direttamente in padella, lasciate a bagno
nell’aceto per una mezza giornata si possono anche preparare in carpione:
sfruttandone la naturale dolcezza, la componente acidula ne fa uno
stuzzicante contorno agrodolce.
Nei risotti la polpa può essere utilizzata cruda, tagliata a pezzetti e fatta
sudare con la cipolla. Unito il riso in casseruola, si porta a cottura
aggiungendo a poco a poco del brodo bollente. Mentre il riso s’impregna del
suo gusto, la zucca si sfibra divenendo cremosa, anche se è piacevole
riconoscerne, durante la masticazione, i pochi frammenti rimasti interi.
La polpa cucinata direttamente nella zucca (l’involucro esterno fungerà da
recipiente di servizio di sicuro effetto spettacolare), si prepara invece
eliminando i semi, scavandola, tritandola e rimestandola con un po’ di panna
o di brodo, ricoprendo con la parte finale del guscio tagliata
precedentemente e cuocendo la zucca in forno. I migliori risultati si
conseguono evitando complicazioni inutili.
Tutte queste ricette sfruttano la dolcezza della zucca in un suggestivo
equilibrio dolce-salato o agrodolce. Supremo effetto è conseguito dai classici
tortelli, tipica ricetta lombarda d’origine rinascimentale eppure attualissima.
La farcia amalgama alla polpa di zucca mostarda di Cremona (di mele),

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amaretti sbriciolati e parmigiano grattugiato. Per chi volesse cimentarsi nella
preparazione, ecco le dosi consigliate: per 350 grammi di polpa di zucca
calcolare 50 grammi di mostarda, 25 grammi di parmigiano, 30 grammi di
amaretti, un uovo intero, un pizzico di noce moscata, sale e pepe.

Pannocchie imburrate

Povero granoturco, mescolato alla rinfusa in mille variopinte insalate miste,


quando non è sparpagliato addirittura sulla pizza, quasi dovesse infonderle
un tocco d’esotismo. Del resto, non sarà solo un caso se, dopo cinque secoli
di coltivazione del mais in Italia, nella nostra tradizione gastronomica non
troviamo alcuna ricetta che possa somigliare, sia pure alla lontana, agli
accostamenti bizzarri che ci vengono propinati oggi, sicuramente poco
consoni al nostro gusto. Eppoi perché cercare inutili complicazioni quando
nulla potrebbe eguagliare la schietta attrattiva e la rustica semplicità della
pannocchia lessata o rosolata sulla fiamma?
Per poterla assaporare degnamente, tuttavia, è indispensabile sceglierla
fresca: il mais conservato in scatola, infatti, è quasi sempre stracotto, floscio
e insapore, mentre i chicchi delle pannocchie surgelate una volta lessati
presentano la buccia grinzosa e l’interno molle. La pannocchia fresca,
invece, conserva da cotta una gradevolissima tenuta «al dente».
Infilzata su uno spiedo e abbrustolita sul fuoco, oppure fatta
semplicemente bollire in acqua salata (sgranata o intera), la pannocchia trova
il proprio condimento d’elezione nel burro salato.
È solo a questo punto che, a mio parere, la cucina «acculturata» può
intervenire, con il suo tocco discreto, badando soprattutto di non snaturare
l’impronta frugale e naïve di questo piatto «povero». Ebbene, secondo il mio
gusto la singolare dolcezza del mais viene piacevolmente riequilibrata da una
presenza acidula (aceto o vino bianco). D’altra parte, il dragoncello fresco,
per il suo profumo agro e il sapore delicatamente piccante, è tra le erbe
aromatiche quella che forse più gli si addice.
Stabilite così le affinità naturali ecco, in concreto, qualche indicazione sul
modo di procedere.
La pannocchia arrostita sulla fiamma si potrà intingere in una salsa al
burro o alla crema: in una casseruola si lascia consumare sul fuoco

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dell’aceto o del vino bianco, quando il liquido è ridotto quasi completamente
si aggiungono fiocchetti di burro a temperatura di frigorifero e si emulsiona
con la frusta.
In conclusione si sala leggermente la salsa sparpagliandovi sopra il
dragoncello tritato. Come variante si potranno far ridurre insieme aceto (o
vino bianco) e panna, portandoli a consistenza e aggiungendo alla fine un
pizzico di sale e di dragoncello.
Se il mais è invece stato fatto bollire sgranato, una volta sgocciolati i
chicchi si potranno far saltare direttamente in padella (nel burro o in una
riduzione di panna), aggiungendo successivamente l’aceto, lasciando
rapprendere e terminando infine col dragoncello tritato.

La cucina delle mele

Le mele più ricercate sono le Delicious (la Golden ha buccia gialla, polpa
soda e profumata, la Stark è rossa, saporita e sugosa), la Granny Smith (mela
verde dall’inconfondibile sapore agretto), la renetta (di forma irregolare, con
la buccia rugosa e un caratteristico gusto dolce-acidulo, gradevolissimo) e la
rosa di Caldaro (di sottile vena aromatica, forma schiacciata, rossa con
sfumature giallo-verdi, è deliziosa ma difficile da reperire).
Per quanto riguarda i loro impieghi culinari, oltre a essere l’unico
autentico frutto da fine pasto (non provoca fermentazioni intestinali anche se
ingerito dopo cibi impegnativi), le mele mostrano grande versatilità anche al
di fuori delle preparazioni pasticciere.
Per esempio, una comune insalata verde viene piacevolmente arricchita
dalla presenza di qualche fettina di mela dal gusto acidulo, come la Granny,
uvette e gherigli di noce (potrete condirla con una vinaigrette all’aceto di
mele). Analogamente dei cubetti di Golden Delicious sparpagliati in
un’insalata di riso e verdure apportano un contrappunto di gusto che, se
dosato con criterio, può riuscire estremamente stuzzicante. Anche un riso al
curry può essere impreziosito dall’aroma di una mela come la rosa di
Caldaro (aggiunta grattugiata alla fine, lasciata appena intiepidire senza
cuocere, in modo che il piatto tragga beneficio dalla freschezza dei suoi
profumi).
Tuttavia, per la sua polpa ferma che regge ottimamente la cottura,

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protagonista della cucina delle mele è la renetta. Per esempio, le sue fette
dorate nel burro rappresentano l’ideale complemento di scaloppe di foie
gras fresco saltate in padella: il gusto acidulo delle mele riequilibra
armoniosamente l’elemento grasso del piatto. In accompagnamento
all’anatra, all’oca o alla selvaggina di piuma, anche una purea di mele renette
è un eccellente contorno (le mele possono essere cucinate direttamente in
forno, oppure stufate in casseruola con acqua, una noce di burro, sale e noce
moscata, poi tritate nel passaverdura).
In pasticceria, poi, le loro utilizzazioni sono infinite: dai classici dessert
come lo strudel o la tarte tatin (torta rovesciata in cui la pasta ricopre la
teglia dove in precedenza si sono caramellate le mele), fino all’altrettanto
classica mela cotta in forno con la buccia (e una noce di burro inserita al
posto del torsolo per nutrire la polpa).
Un utile precauzione da adottare affinché la mela sbucciata non annerisca,
è irrorarne le fette con il succo di limone: ne conserverà il colore intatto e ne
esalterà il gusto.

L’uva

Per la manipolazione culinaria dell’uva, ecco delle semplici istruzioni d’uso:


adoperando uno spelucchino ben affilato, pelate a vivo gli acini, sezionateli a
metà ed eliminate i vinaccioli.
Da qui in avanti, è sufficiente astenersi dal sottoporre il chicco a cottura,
dove perderebbe fatalmente nerbo e profumi. Se l’uva si accompagna a un
piatto caldo, i chicchi, mondati nel modo testé descritto, si aggiungeranno
solo all’ultimo momento alla preparazione o alla salsa, eseguite a parte e
prudentemente allontanate dal fuoco.
La presenza dell’uva sposta il registro aromatico del piatto sull’agrodolce.
Un accostamento indovinato è per esempio quello con il foie gras cucinato
in padella: l’acidità della frutta compensa l’eccedenza di grasso contenuta nel
fegato. Il foie gras fresco, tagliato a scaloppine, salato e pepato va fatto
rosolare sui due lati in una padella di ferro senza necessità di aggiungere
nessun condimento. A cottura avvenuta, dopo aver scolato il grasso dalla
padella, se ne deglasserà il fondo con un goccio di Madera o di Sauternes
per amalgamarvi quindi qualche cucchiaio di fondo di vitello. I chicchi

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d’uva sbucciati vanno incorporati alla salsa e cosparsi insieme a quella sulle
fettine di foie gras.
Anche un comunissimo fegato di vitello saltato in padella o brasato potrà
degnamente accompagnarsi all’uva: in questo caso, è la salinità amarognola
del fegato che viene riequilibrata dalla dolcezza della frutta.
Tradizionalmente l’uva guarnisce la cacciagione di piuma, soprattutto
quella a carne bianca. In effetti, il gusto di selvatico si accosta
armoniosamente a quello della frutta ma, mentre alla selvaggina di pelo
convengono i frutti dal gusto più intenso, come il ribes o i mirtilli, gli uccelli
dal sapore più delicato prediligono frutti dall’impatto meno aggressivo,
come è appunto il caso dell’uva. In questo frangente preferirete un’uva
aromatica, come la moscata.
Per esempio, questa si accompagna magnificamente a un tegame di
quaglie arrostite in forno: i chicchi d’uva mondati si uniscono loro al
termine della cottura, quel tanto che basta affinché intiepidiscano senza
cuocere.
Un’altra classica ricetta prevede la cottura del fagiano, bardato di lardo e
avvolto in un telo, in succo d’uva e gherigli di noce. Il liquido di cottura,
filtrato e ristretto, fungerà da salsa d’accompagnamento. Dei chicchi freschi
pelati a vivo e snocciolati potranno in questo caso essere aggiunti alla fine,
come guarnizione del piatto, unitamente ai gherigli di noce impiegati in
cottura.
Per restare all’uva, la selvaggina a carne rossa preferisce di norma quella
passita, tradizionalmente assortita ai pinoli: per esempio le fettine di una sella
di lepre arrosto possono essere condite con un goccio di vinaigrette all’aceto
balsamico e accompagnate da pinoli, uvette e chicchi di melagrana.
Per quanto riguarda infine le elaborazioni di pasticceria, il principio di
conservare al chicco d’uva la consistenza e l’aroma originari mantiene
evidentemente tutto il suo valore. Così, sulle crostate o sulla piccola
pasticceria il chicco è rigorosamente crudo, come s’adopera del resto
volendolo rivestire di zucchero caramellato o cioccolato fondente.
Tuttavia, la delicatezza del frutto per me è rispettata al meglio quando si
adattano le preparazioni più leggere e pulite al gusto, le gelatine in
particolare.

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115
8.

Pasta & Riso

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Per l’universale, immediata seduzione che riescono a suscitare, i primi piatti
hanno decretato la fortuna della cucina italiana. Si tratta tuttavia di un
territorio gastronomico sterminato, basti pensare che la sola pasta copre tutti
i generi di cucina, dalla rustica alla raffinata, dalla tradizionale alla nuova. È
dunque impossibile essere esaurienti. Non resta che limitarsi a qualche
divagazione sul tema.

Le ragioni del dente e quelle della pasta

De gustibus non est disputandum, sentenzia un antico detto: ma sarà proprio


vero?
La cottura della pasta (su cui sembra regnare l’estrema disparità di vedute
e predilezioni) può forse offrire qualche lume al riguardo: c’è chi gradisce la
pasta ben cotta, chi la preferisce cotta a puntino, c’è chi l’ama al dente e chi
invece la vuole «in piedi» (vale a dire semicruda). In verità la cottura
corretta è una sola, quella al dente o a puntino, che designano poi la stessa
cosa: il preciso momento in cui l’alimento giunge a cottura, conservando
quella fugace resistenza alla masticazione che stuzzica il palato ma che solo
pochi istanti di cottura in più guasterebbero irrimediabilmente. Infatti la
cottura interrotta anzitempo lascia la pasta cruda all’interno (si riconosce
dalla parte bianca e dura che presenta in sezione) e la rende in tal modo
indigesta. Quando invece passa di cottura, la pasta diventa molle e perde la
sua piacevole consistenza che, stimolando la masticazione, rende l’alimento,
cotto correttamente, assai più appetitoso e ne favorisce pertanto la
digestione. La cottura al dente, evitando gli inconvenienti di bolliture troppo
lunghe o troppo brevi, ma conservandone nel contempo le giuste
prerogative, si presenta dunque come il naturale «stato di grazia» della
pastasciutta: la pasta di qualità è quella che lo protrae più a lungo.
D’altra parte cuocere al dente non è soltanto una questione di tempismo
(saper riconoscere il momento in cui arrestare la cottura), perché vari errori
in fase preliminare possono infatti compromettere il risultato finale. Il rituale
di gesti racchiusi nella corretta preparazione della pasta contiene al riguardo
un insieme di accorgimenti precisi: così, per esempio, la temperatura elevata
dell’acqua consente una cottura uniforme e con ciò anche la tenuta «al
dente» (il calore deve infatti poter raggiungere l’interno della pasta nel più
breve tempo possibile). Allo stesso scopo concorre pure l’impiego di

117
un’abbondante quantità d’acqua: l’immersione della pasta produce infatti
una caduta di temperatura dell’acqua, che sarà tanto più breve quanto più
acqua si è messa in pentola (è sempre per far riprendere più rapidamente il
bollore che, dopo l’inserimento della pasta, si deve coprire il recipiente con
un coperchio). Cucinata in poca acqua, la pasta diverrebbe inoltre viscida e
collosa: più acqua si adopera, più quella giungerà «pulita» alla bocca. La
consuetudine di aggiungere in pentola un bicchiere d’acqua fredda, al
termine della cottura, non produce invece risultati apprezzabili: spegne, è
vero, la grande ebollizione, ma non abbassa la temperatura tanto da arrestare
realmente la cottura (cosa che, in effetti, si potrebbe ottenere soltanto al
prezzo di far raffreddare la pasta). Infine, purché la pasta cuocia in acqua
salata, il momento in cui si aggiunge il sale (all’inizio o dopo l’ebollizione)
non influisce minimamente sul buon esito della cottura (beninteso, l’acqua
dolce richiede un tempo considerevolmente inferiore per raggiungere
l’ebollizione).
Per quanto riguarda il riso, a esso si applicano i medesimi principi della
pasta: il chicco tenuto al dente, pur restando sodo alla masticazione, presenta
una cottura uniforme (l’interno dev’essere completamente cotto). Anche in
questo caso imprecisioni nella preparazione possono pregiudicare la buona
riuscita: così un risotto non riuscirà mai al dente se non si effettua la
rosolatura iniziale (che, provocando la caramellazione dell’amido
superficiale, protegge il chicco durante la cottura) e neppure quando venga
rimestato in continuazione (così facendo i chicchi rischierebbero infatti di
rompersi). Il brodo va poi aggiunto bollente per le stesse ragioni per cui la
pasta viene cotta nell’acqua in ebollizione.
Venendo infine alla pasta all’uovo fatta in casa, a meno che non sia stata
lavorata molto a lungo (per intenderci, fino a quando l’impasto «schiocca»
per le bolle d’aria che si creano all’interno), essa non potrà mai risultare
soda come la pasta secca. È quindi inutile cercare di tenerla «al dente» al pari
di quella (si finirebbe col lasciarla cruda all’interno). D’altronde,
specialmente quando la sfoglia è tirata molto sottile, nella pasta fresca il
palato non cerca tanto la consistenza, quanto la morbida, delicata fragranza.

I risotti

Gran vanto della cucina lombarda, la tradizione del risotto annovera

118
un’estrema varietà di ingredienti e di sapori; ma, al di là delle innumerevoli
varianti, è possibile riconoscere un procedimento comune o, detto altrimenti,
a quale tecnica di cottura deve essere sottoposto il riso affinché possa
fregiarsi del nome di risotto?
Cominciamo dalla cipolla, la tradizionale componente aromatica: essa
deve essere tritata finemente perché, quando la cottura sarà conclusa, il dente
non dovrà riconoscerla, ma confonderla tra i chicchi di riso a cui avrà
ceduto il sapore. Inoltre, va fatta «sudare» nel burro, cioè cuocere fino a
evaporazione dell’acqua di vegetazione senza che la verdura prenda colore e,
solo a questo punto, si aggiunge il riso e insieme si fanno imbiondire,
mescolando di continuo affinché ogni chicco si impregni del grasso di
cottura e non s’attacchi al fondo della casseruola. La «tostatura» del riso è in
effetti una delle prerogative fondamentali del risotto: se non venisse
effettuata, al termine della cottura i chicchi finirebbero col somigliare, per
consistenza e sapore, a quelli del semplice riso bollito.
Facendogli prendere colore «a secco» (ossia nel burro) invece, l’amido
superficiale subisce una trasformazione chimica che ne aumenta l’aroma e
per così dire lo tempra in vista della successiva cottura nel brodo. La
quantità di burro da impiegare nell’operazione dev’essere quella strettamente
necessaria per imbiondire riso e cipolla (in caso contrario il risotto
risulterebbe eccessivamente untuoso). Anche nelle dosi della cipolla non si
deve esagerare, giacché la sua funzione è quella di aromatizzare il riso, non
d’imporgli il proprio sapore. In conclusione, le proporzioni ottimali sono: un
decimo del peso complessivo del riso per la cipolla, un quinto per il burro.
Se si vuole impiegare del midollo (che va aggiunto tritato alla cipolla), sarà
sufficiente una minore quantità di burro. Il midollo, in ogni caso, non
rappresenta una regola, ma è l’ingrediente di ricette particolari, come il
celebre risotto alla milanese.
L’operazione successiva alla tostatura consiste nel bagnare il riso col vino,
lasciarlo consumare e aggiungere il brodo. Il vino fornisce al risotto un
tocco d’acidità che gli dà nerbo e ne completa il gusto. Chi non lo gradisse,
potrà tranquillamente farne a meno, perché esso non influisce sul buon esito
della cottura. Bianco o rosso? In generale bianco; rosso, ovviamente, nei
risotti a base di vino rosso (Barolo, Barbera) e anche dove gli altri
ingredienti lo reclamano, come nel risotto con la salsiccia o con i fagioli. Che
tipo di brodo converrà quindi usare? Di regola e per tradizione un buon

119
brodo di carne. Esistono tuttavia delle eccezioni. L’una ovvia: per risotti a
base di pesce o frutti di mare s’impiegherà un brodo di pesce. L’altra meno
vincolante ma parimenti consigliabile: se il risotto viene guarnito con
ortaggi, il brodo di carne non è il più indicato per farne risaltare il gusto e
sarà meglio sostituirlo con un brodo vegetale.
Di qualunque genere sia il brodo, se è salato al punto giusto, cuocerà il
riso senza che sia necessario aggiungervi sale. Tuttavia, se si prevede una
mantecatura finale col parmigiano, sarà bene tenere il brodo dolce di sale (si
sarà sempre in tempo ad aggiungerne al riso in seguito). È preferibile
aggiungere il brodo mestolo dopo mestolo o tutto in una volta? Entrambi i
metodi sono validi; l’importante è che si arrivi alla conclusione della cottura
senza avere liquido in eccesso. Il brodo deve essere in ogni caso bollente,
perché altrimenti provocherebbe una caduta di temperatura nel riso,
facendogli così perdere la consistenza caratteristica. Al riguardo dovrà essere
adottata un’ulteriore precauzione, quella di rimestare il risotto quel tanto che
basta per non farlo attaccare alla casseruola e consentire una cottura
omogenea. Mescolandolo continuamente, infatti, i chicchi tenderebbero a
sfaldarsi.
Prima di portare a termine la cottura del risotto, occorre decidere quale
debba essere il suo carattere finale, materia che spetta per intero all’arbitrio
dei gusti: chi lo ama asciutto avrà cura di portare il riso al grado di cottura
desiderato mentre il brodo si prosciuga completamente, in modo da ottenere
un riso piuttosto fermo. Chi predilige, invece, il risotto «all’onda», ne
arresterà la cottura quand’esso è ancora leggermente brodoso; aggiungerà
quindi burro e parmigiano, lasciando riposare un attimo per poi mescolare
energicamente il tutto finché il burro e il formaggio, unendosi al brodo in
eccesso, non siano emulsionati, dando vita a una vera e propria crema: si
tratta della classica mantecatura. La medesima operazione, dove il formaggio
stoni, può essere effettuata col solo burro.
Ultime precisazioni: la cottura del risotto comincia a fuoco tenue (stufatura
della cipolla), prosegue a fuoco medio (tostatura del riso) e si conclude a
fuoco vivace, mantenuto costante a partire dalla prima aggiunta di brodo. Le
migliori qualità di riso per risotti sono il Vialone nano, l’Arborio e il
Maratelli. Quanto al recipiente di cottura, nulla di meglio dell’impareggiabile
casseruola di rame stagnato.

120
La mantecatura riveduta e corretta

Se si è convenuto di ribattezzare «cucina creativa», quella che un tempo era


semplicemente «nuova», non è perché essa sia contraddistinta da una
sequela d’invenzioni estemporanee, bensì perché fornisce un metodo di
lavoro anziché una raccolta di ricette preconfezionate. Non a caso, un tipico
procedimento della cucina creativa è quello d’interpolare la tradizione e
l’innovazione, innestando delle tecniche proprie dell’alta cucina nei gesti e
nei sapori della tradizione rustica.
Talvolta, il processo di reinterpretazione somiglia a un intervento di
restauro: non di rado, infatti, la tradizione ci tramanda consuetudini che, a
fronte dell’affinamento delle tecniche e dei gusti, ci appaiono espedienti
approssimativi, tipici della cucina naïve.
Il risotto ne è un esempio significativo. Nel suo classico procedimento di
preparazione, la fase iniziale costituisce sempre una soluzione di
compromesso. A rigore, è infatti impossibile stufare la cipolla e rosolare
contemporaneamente il riso. Fatalmente, l’uno deve essere sacrificato alle
esigenze dell’altro: per mantenere la cipolla bianca, il riso potrà soltanto
stufare; se volessimo rosolarlo a dovere, allora la cipolla prenderebbe colore,
assumendo di conseguenza un gusto tostato e greve. Mi sono lungamente
arrovellato su questo paradosso culinario. Per scioglierlo, la soluzione
consiste nel disaccoppiare la cottura dei contendenti.
Il riso viene fatto rosolare direttamente nel burro, portato a temperatura
conveniente. In seguito, si bagna con un mestolo di brodo bollente e, fatto
asciugare il liquido, si aggiunge dell’altro brodo proseguendo la cottura
come prescrive la tradizione.
Nel frattempo, la cipolla viene cucinata a parte: si fa sudare in pochissimo
burro dentro una casseruola, si bagna con il vino bianco e si lascia sfumare
il liquido sul fuoco. Alla fine si incorporano dei fiocchetti di burro ben
freddo, emulsionando con la frusta sino a ottenere una crema omogenea.
Volendo accentuare il grado di acidità, si potrà aggiungere alla fine un goccio
d’aceto. È ciò che in gergo gastronomico si chiama «burro bianco» (o
«burro nantese»). Normalmente s’adopera come salsa d’accompagnamento
per pesci e verdure. Nulla vieta di adoperarlo per mantecare il risotto:
quando questo è giunto a cottura, a fiamma spenta s’incorpora il burro
emulsionato e, quando la ricetta lo richieda, il parmigiano grattugiato.

121
Il burro bianco conferisce al riso la morbidezza di una classica
mantecatura e gli restituisce l’aromatico contributo di una cipolla stufata
finalmente a dovere. Il vino aggiunto alla fine fornisce al riso un carattere
più spiccato, assicurandogli un supporto d’acidità che esalta i sapori e i
profumi del piatto.
Ha senso obiettare che l’interpretazione è infedele? Non credo. La verità di
una ricetta non è mai qualcosa di stabilito una volta per tutte. Se ne migliora
il rendimento, anche una deliberata violazione delle consuetudini è ammessa.

Riso e spaghetti «al salto»

Si crede comunemente che il riso al salto sia un metodo escogitato per


ricuperare il risotto avanzato; forse lo era in origine, ma certo non lo è se si
vuole un’esecuzione impeccabile di questa stuzzicante pietanza.
Infatti il risotto, che ne costituisce la base, non deve essere giunto a
cottura, perché spetta alla rosolatura finale portarla a compimento. Si
preparerà dunque un risotto secondo i canoni della tradizione arrestandone
la cottura dopo 10-12 minuti, senza mantecarlo. Dopo aver spianato e fatto
intiepidire il risotto, in una padella antiaderente si fa sfrigolare una noce di
burro e si unisce il risotto distribuendolo uniformemente sulla superficie del
tegame per uno spessore di circa un centimetro, facendolo quindi rosolare
da ambo le parti a temperatura media finché non sia divenuto d’un bel color
nocciola. Per rivoltare il tortino di riso sull’altro lato, i virtuosi, con un colpo
deciso del polso, lo fanno volteggiare in aria come se si trattasse di una
frittata (in verità non è poi tanto difficile nemmeno per il principiante). Se
tuttavia non ne siete capaci potrete ricorrere all’elementare metodo del piatto
(ovvero del coperchio), rovesciandovi il tortino per farlo poi scivolare in
padella e terminare la cottura.
Anche gli spaghetti possono servire a preparare un tortino, potendo essere
cucinati «al salto» al pari del celebre risotto. Scolate ben al dente degli
spaghettini (o, ancor meglio, dei capelli d’angelo) e subito dopo – in modo
da non far perdere loro l’amido, che costituirà il legante del tortino – fateli
cuocere in una padella antiaderente, con olio o burro, senza più rimestare (in
precedenza potrete anche aver insaporito l’olio con uno spicchio d’aglio).
Rosolate il tortino sui due lati, finché gli spaghetti non siano divenuti

122
croccanti assumendo un color nocciola intenso.
I tortini di riso o di pasta vanno preparati al momento: facendoli aspettare
perderebbero croccantezza. Possono essere serviti come primi piatti,
accompagnati, se si vuole, anche da una guarnizione che possa far da
contrappunto: una semplice salsa a base di panna ed erbe, per esempio,
oppure dei finferli legati con un filo di panna. Ma possono pure servire da
contorno. Preparati in porzioni individuali in tegamini del diametro di 10
centimetri, potranno accompagnare degnamente una finanziera o un ragoût
di pollo al curry, tanto per citare solo due delle numerose utilizzazioni
concepibili. Alla fantasia del lettore la ricerca di nuovi solleticanti
accostamenti.

Fredda, ma non ghiacciata

Perché il riso e non la pasta? Mentre il riso bollito raffreddato è la base


d’innumerevoli preparazioni in insalata, si dimentica che anche la pasta può
essere destinata allo stesso impiego con risultati eccellenti. A patto,
beninteso, che si prepari con criterio: la pasta (secca, perché quella fresca è
inadatta allo scopo) va cotta al momento come una comune pastasciutta.
Scolata, va fatta raffreddare rapidamente sotto acqua corrente e poi condita
con quel tanto d’olio che basta a impedire che si incolli. Si accompagna
infine a salse fredde e, particolare della massima importanza, si serve
immediatamente: al pari della pasta calda non va fatta aspettare.
Qualche suggerimento sui possibili condimenti: una salsa cruda di
pomodoro, una crema semiliquida di fagioli, uova di ricci di mare, bottarga
grattugiata, erba cipollina e caviale, salmone marinato e asparagi selvatici,
tonno e acciughe con cipolla novella, tutti quegli ingredienti, insomma, che
si prestano a essere gustati freddi (dove per «freddo» s’intende qui «a
temperatura ambiente», e non freddo di frigorifero).

Ravioli vegetariani

Per renderli più accattivanti non è il caso di farcirli d’aragosta (che relegata a
ripieno risulterebbe comunque sprecata): i ravioli sono infatti una pietanza
d’umili origini, che proprio nella semplicità degli ingredienti e dei sapori

123
trova la sua attrattiva più vera. Allora, sarebbe difficile immaginare qualcosa
di più invitante e immediato dei profumi dell’orto. La fragranza della pasta
fresca e la delicatezza delle verdure di stagione formano in effetti un
connubio d’elezione, celebrato sin dai tempi della cucina rinascimentale.
Eccone un paio d’esempi, all’insegna della massima semplicità.

RAVIOLI DI MELANZANE: tagliate a metà e cotte in forno, le melanzane


vengono svuotate dalla polpa che, finemente tritata, è unita in pentola a un
battuto di cipolla. Si finiscono di cuocere fino a farle «asciugare». Passato
per il setaccio, il composto viene utilizzato come farcia dei ravioli che
potranno essere conditi con una salsa leggera di pomodoro e basilico.

RAVIOLI ALLA PUREA DI FAGIOLI: il ripieno è costituito da un passato di


fagioli freschi bolliti con aggiunta di sale, pepe e un filo d’olio d’oliva.
Potranno essere serviti conditi con burro profumato con un rametto di
santoreggia.

Oltre che come primo piatto d’invidiabile finezza, i ravioli farciti di verdura
possono essere utilizzati come accompagnamento di una carne o di un pesce
per completare il gusto della pietanza (al pari del consueto contorno di
verdure) o farne un «piatto unico». Mi piace, per esempio, servire i ravioli
alla purea di fagioli come guarnizione di un’anatra brasata, conditi con la sua
stessa salsa d’accompagnamento. Trovo invece che la dolcezza dei piselli
freschi (anch’essi semplicemente lessati, passati al setaccio e conditi con
sale, pepe e un goccio d’olio d’oliva) s’intoni al gusto dei crostacei, tanto più
se accompagnati da una sapida salsa ricavata da una riduzione dei loro
coulis.
In conclusione, sono molte le guarnizioni di verdura che possono venir
incorporate in un raviolo e accompagnare il piatto cui erano originariamente
destinate. Tanto per restare sui piselli, eccone una versione un po’ più
elaborata, ottenuta reinterpretando in forma di raviolo la classica ricetta «alla
francese»: fatti stufare i piselli con foglie di lattuga e cipolline novelle,
profumati con timo e santoreggia, al composto ridotto in purea si unisce alla
fine del prosciutto crudo tagliato a dadini e saltato in una padella a parte.
Fortunato il raviolo che l’avrà come farcia.

124
Granaglie

La loro coltura risale agli albori della civiltà: l’agricoltura è nata


presumibilmente con la coltivazione dei cereali, ma ancor prima di aver
appreso a seminarli, l’uomo se ne cibava raccogliendoli allo stato spontaneo.
Le graminacee si diffusero assecondando la situazione climatica a loro più
favorevole: frumento e orzo nel clima caldo-secco, tipicamente quello
mediterraneo, avena, segale e saraceno in quelli più rigidi, il riso in quello
caldo-umido. La facilità di conservazione, la semplicità della cottura, la
versatilità d’impiego e l’elevato potere nutritivo ne fecero per millenni il
nostro alimento ancestrale.
Eppure su tutte le granaglie non sfarinate il riso, che arriva in Europa in
un’epoca relativamente recente, attorno al XIV secolo, prende rapidamente il
sopravvento. Ciò solleva un enigma antropologico e gastronomico: perché a
un dato momento della storia culinaria, il chicco di riso sbaraglia la
concorrenza, lasciandola sopravvivere solo in ambiti regionali? Quali che
possano esserne le giustificazioni plausibili, esistono almeno due fattori che
ci sospingono oggi a riscoprirle.
Da una parte, la dieta mediterranea ha riportato in evidenza l’importanza
dei cereali (tanto di più completi, cioè non raffinati) nell’economia
dell’equilibrio nutrizionale. Dall’altra, sono congeniali alla vocazione
«ecologica» della nuova cucina e alla sua capacità di riscoprire e
reinterpretare i sapori e i prodotti naturali.
Tuttavia, nelle ricette tradizionali, i cereali finiscono col limitarsi a
ispessire zuppe e minestre, venendo per lo più sacrificati in inenarrabili
pastoni. Si tratta dunque di riabilitarne il significato gastronomico, di
riposizionarle a livello del gusto. Eccone un inventario ragionato.
L’orzo era assai diffuso nell’antichità. Come farinaceo venne
successivamente sostituito dal frumento, più adatto alla panificazione. I grani
d’orzo perlato si prestano invece a tutte le preparazioni del riso, compreso lo
stesso risotto: anche se l’amido che l’orzo trasuda in cottura lo addensa forse
eccessivamente, la rosolatura iniziale nel burro lo rende più saporito e ne
migliora la tenuta. Rispetto al riso, l’orzo presenta un gusto più dolce e una
consistenza più soffice: una volta cotto, il chicco «palleggia» in bocca come
riso soffiato.

125
Si presta benissimo a essere servito in brodo. Si può accompagnare per
esempio a una zuppa di finferli (per la gran quantità d’amido che caccia
durante la bollitura è preferibile lessarlo a parte, in abbondante acqua salata).
Nel frattempo i finferli, puliti e tagliati, si fanno saltare in padella con una
nocetta di burro e si uniscono all’orzo in un consommé di carne chiarificato
con gli scarti ricavati dalla mondatura dei funghi.
L’avena e la segale presentano chicchi affusolati. Hanno un gusto
caratteristico e sono eccellenti servite come contorno o primo piatto. Si
possono cucinare come il riso pilaf, facendole lessare a fuoco basso e
casseruola coperta, finché abbiano assorbito tutto il liquido che le ricopre
(brodo o acqua salata). Anche se non è indispensabile, mettendole in
ammollo la sera prima migliora la tenuta del chicco in cottura. Si possono
condire semplicemente con olio o burro, ancor meglio se profumate con
erbe odorose dall’aroma spiccato come il timo o la santoreggia.
Il farro era la varietà di frumento più diffusa e apprezzata in epoca
romana. Oggi è ridotto a produzioni esigue. Ha un gusto più forte di quello
del comune frumento, che può in effetti sostituire nella tradizionale
«mesciua», la zuppa a base di ceci e fagioli.
Può anch’esso essere servito come contorno, come la segale e l’avena, in
accompagnamento a carne, pesce o pollame. Ma è soprattutto eccellente
servito in brodo. Si può per esempio far cuocere in un brodo vegetale
(insieme con una carota, una cipolla, un porro, un rametto di timo, mezza
foglia d’alloro e qualche gambo di prezzemolo). A cottura avvenuta si
eliminano le verdure e gli aromi, che hanno ormai ceduto al brodo tutto il
loro sapore, per sostituirle con verdure fresche tagliate finemente (carote e
cipolle a rondelle, porri in julienne) terminando con un goccio d’olio
d’oliva. Il farro può essere sparpagliato, anche insieme ad altri cereali, come
l’orzo o il grano saraceno, in una polenta, mantenuta leggermente fluida e
condita con burro profumato all’aglio.
Infine, occorre far menzione di una granaglia esotica, che tra tutte è pure
la più ambita e preziosa: il riso selvaggio, o «zizania acquatica». Si tratta di
una graminacea che cresce solo allo stato spontaneo sulle sponde dei grandi
laghi del Nordamerica: le difficoltà di raccolta e la scarsità della produzione
ne fanno il cereale sicuramente più caro al mondo. Ha un gusto spiccato e
inconfondibile, ricco di suggestioni campestri con un sottofondo di noce. Va
anch’esso cucinato come un riso pilaf, lasciandogli assorbire a fuoco basso

126
un liquido (di preferenza un buon brodo di carne) pari a cinque volte il suo
volume. La cottura richiede all’incirca tre quarti d’ora: il riso è cotto quando
il chicco si schiude all’estremità. Se però il riso è stato messo a bagno in
acqua per un paio d’ore, il tempo di cottura si riduce a 30 minuti: i chicchi
assorbono in tal caso una maggiore quantità d’acqua guadagnando una
consistenza più elastica.
Si serve principalmente come contorno: ama accompagnare i volatili che
condividono il suo habitat (fagiani, pernici, anitre selvatiche), ma s’intona
anche alle carni bianche (come il pollo e il coniglio), recando loro un
gradevolissimo contrappunto aromatico.

127
9.

Alcune semplici preparazioni in terrina

128
Da ricette di recupero degli avanzi (quali indubbiamente erano ai loro
esordi), le preparazioni in terrina sono state portate dall’evoluzione della
cucina a un grado di estrema raffinatezza. Oltre alle classiche ricette
altamente elaborate e di realizzazione assai impegnativa, ne esistono molte
che, a dispetto della semplicità dell’esecuzione, forniscono risultati
eccellenti. Eccone una scelta ragionata, esemplificativa di procedimenti
diversi.

Le terrine gelatinate

Sono le terrine più semplici a prepararsi e senz’altro quelle più adatte al


periodo estivo. La tecnica ordinaria consiste nell’adoperare un brodo
gelatinato e molto saporito come legante degli altri ingredienti della terrina.
Prendiamo il caso di una terrina di verdure: in un brodo vegetale, limpido
e profumato, si sciolgono dei fogli di colla di pesce nella proporzione di
dieci per litro. S’immerge poi la terrina (o il recipiente prescelto) nel
ghiaccio, e si versa al suo interno un primo strato di brodo che, sotto
l’azione del freddo, solidificherà rapidamente. Vengono quindi aggiunte le
verdure, fatte in precedenza cuocere «al dente» nel brodo stesso e tagliate a
dadini (per una composizione a mosaico), oppure lasciate intere. Si bagna
ancora col brodo, si lascia rapprendere e si ripete l’operazione sino a
riempimento. Alla fantasia dell’esecutore la più efficace combinazione di
colori e sapori.
Esiste un diverso metodo di preparazione, particolarmente indicato per le
terrine di pesce, che utilizza gli ingredienti crudi ed esclude l’impiego del
brodo: si tratta semplicemente di alternare nella terrina i filetti del pesce
(preventivamente salati e pepati) a fogli di colla di pesce fatti ammorbidire in
acqua. Si cuoce la terrina in forno a bagnomaria (un quarto d’ora
all’incirca), si lascia raffreddare e si ripone quindi in frigorifero per farla
solidificare.
Per quanto riguarda poi le carni, i migliori risultati si ottengono facendo
brasare la carne e utilizzando il liquido di cottura come base della gelatina. Si
procede così: disossato l’animale o il pezzo prescelto, con le carcasse si
prepara un fondo. La polpa può essere lasciata nel frattempo marinare nel
vino (bianco per le carni bianche, rosso per le rosse); tagliata a pezzetti andrà

129
quindi passata nel burro a fuoco dolce, senza che prenda colore. Si elimina il
condimento dalla casseruola; si bagna con vino (parte di quello servito per la
marinatura, se la carne è stata marinata) e si prosegue la cottura della carne a
calore moderato e con la casseruola coperta. A cottura ultimata si
aggiungono i fogli di colla di pesce: per uno stampo della capacita di un litro
ne basteranno tre. Si confeziona infine la terrina, guarnendola se si vuole
con prosciutto a dadini, pistacchi o tartufi. Andrà fatta raffreddare sotto
l’azione di un peso che comprima la carne in modo che, una volta
solidificata, la gelatina si limiti a riempire gli interstizi, senza che i pezzi vi
galleggino. Al taglio, le fette presenteranno allora un effetto «marmorizzato»,
tipico di questa preparazione.

Le mousse di pesce

La tecnica di preparazione delle terrine di pesce, se scrupolosamente seguita,


fornisce risultati eccellenti.
Ridotta in poltiglia nel frullatore la polpa del pesce, vi si incorporano le
uova. La quantità di uova da impiegare (in media un uovo intero più un
albume per mezzo chilogrammo di pesce) cambia da varietà a varietà e pure
in ragione della freschezza degli esemplari: per esempio, una trota viva, ricca
di albumine, ne richiederà una quantità inferiore rispetto a un nasello che ne
è carente. Una volta salato e pepato, si passa il tutto per il setaccio fine. Per
restituire consistenza alla polpa sfibrata, si ripone quindi il composto in
frigorifero per un paio d’ore. Quando il composto è rassodato, in un
recipiente capace, riempito per metà di ghiaccio tritato, s’inserisce quello
contenente l’impasto di uova e di pesce (va lavorato a freddo, perché in caso
contrario potrebbe cedere). S’incorpora la panna poco per volta, in quantità
pari al peso della polpa del pesce, fino a ottenere un composto omogeneo,
con cui si riempirà la terrina imburrata (o anche stampini individuali,
parimenti imburrati) facendo attenzione a non lasciare interstizi vuoti. La
mousse va cotta a bagnomaria, in forno preriscaldato a 180-200 °C, con la
terrina coperta o gli stampini ricoperti con carta stagnola. Un’utile
precauzione al fine di garantire la cottura uniforme della terrina consiste nel
creare uno strato isolante (per esempio con alcuni fogli di giornale) tra la
placchetta del bagnomaria e la terrina (o gli stampini). Il tempo di cottura
dipende dalle dimensioni della terrina: la mousse è cotta quando,

130
infilzandola con un ago metallico, questo (estratto dopo qualche secondo)
presenta la punta calda.
Le variazioni sul tema sono parecchie. Innanzitutto la terrina potrà venire
guarnita aggiungendo al composto di base della verdura già cotta (per
esempio pisellini e carote tagliate a cubetti), oppure erbe aromatiche (come
erba cipollina tritata), o anche tartufi neri, tutti ingredienti che forniscono
alla mousse piacevoli contrappunti di colore e di gusto. Si possono pure
inserire nella terrina dei filetti di pesce, leggermente salati e pepati,
alternandoli a strati di farcia, o della polpa di pesce tagliata a cubetti (per
esempio dadini di salmone sparpagliati in una farcia di trota): il pesce
cuocerà assieme alla farcia.
Per quanto riguarda i pesci che meglio si prestano a essere preparati in
terrina, essi son quelli dal gusto tenue, privo di sfumature (come trote,
naselli, lucci) che, dall’esser ridotti in farcia possono guadagnare nel gusto.
Del tutto inadatti, invece, i pesci nobili (rombo, salmone, branzino, aragosta
ecc.), con la parziale eccezione della sogliola. Ridotta in poltiglia, la polpa di
questi pesci, infatti, in ogni caso è sprecata, mentre integra (anche quando
sia tagliata a fettine o a cubetti, purché non sfibrata) dà sempre il meglio di
sé. Per la stessa ragione non mi entusiasmano certi «preziosismi» come i
ravioli di branzino o d’aragosta.

Foie gras au naturel

Tra le diverse preparazioni del foie gras in terrina, quella incontestabilmente


superiore alle altre è pure la più semplice e prevede l’impiego del solo foie
gras, nudo e crudo. Il gourmet che non rinuncia al piacere di prepararselo
personalmente procederà così: il foie gras viene dapprima immerso in acqua
a temperatura corporea fin quando, ammorbidendosi, non abbia assunto la
consistenza di un comune fegato (occorrerà circa mezz’ora). Va poi asciugato
e privato della pellicina che lo ricopre; anche le eventuali tracce verdastre
lasciate dal fiele debbono essere eliminate. Si dividono quindi i lobi e in
ciascuno di essi si pratica un’incisione nel senso della lunghezza fino a
scoprire la vena centrale che li attraversa e che va asportata. Fin dove è
possibile, vengono eliminate anche le sue diramazioni laterali (soprattutto
quelle che presentano depositi di sangue), evitando di rompere i lobi. Salato
e pepato con parsimonia, il foie gras va quindi ricomposto in una terrina che

131
lo contenga di misura. Si fa cuocere la terrina (scoperta) a bagnomaria in
forno preriscaldato a 140 °C per 35 minuti o più, a seconda della qualità del
fegato. Il foie gras è cotto se, infilzandolo con un ago metallico, questo
(estratto dopo qualche secondo) presenta la punta calda. Lasciato raffreddare
in terrina e riposto quindi in frigorifero, va servito il giorno successivo.
Oltre alla cottura in terrina, esiste un altro metodo per la preparazione del
foie gras «al naturale». Esso è, in un certo senso, l’erede dell’antica tecnica
del telo in cui un tempo il foie gras veniva avvoltolato prima di venire cotto
in un fumetto aromatizzato con Porto e tartufi neri. Ebbene, grazie agli
apparecchi per confezionare sottovuoto (ne esistono in commercio anche per
uso domestico), può esser riproposto qualcosa d’analogo. Il foie gras, pulito
secondo il procedimento precedentemente descritto, salato e pepato con
mano leggera e insaccato sottovuoto, viene fatto cuocere in acqua alla
temperatura costante di 75 °C (è assolutamente indispensabile tenerla al di
sotto dell’ebollizione). Per un fegato di 500-600 grammi sarà sufficiente una
dozzina di minuti; per un fegato di un chilo, calcolatene 18. La cottura può
venire controllata attraverso il sacchetto di plastica trasparente: il fegato è
cotto quando qualche goccia di sangue affiora in superficie (il medesimo
criterio vale anche per la cottura in terrina). Quanto al fumetto aromatizzato,
esso potrà essere sostituito da una marinatura a base di Porto, Cognac o
Armagnac a cui sottoporre il fegato prima della cottura. Personalmente lo
preferisco «al naturale», o tutt’al più tartufato (i frammenti di tartufo nero
vanno inseriti all’interno del fegato, prima di ricomporlo e insaccarlo).
Delle due tecniche di preparazione, la sobbollitura del foie gras sottovuoto
è più semplice e più sicura. È dunque consigliabile al cuoco dilettante
(purché, ovviamente, disponga dell’attrezzatura necessaria). In effetti è più
facile controllare la temperatura dell’acqua che non quella di un forno
(soprattutto di un forno non professionale) in cui si corre sempre il rischio
che, per il calore eccessivo, il grasso del fegato fonda troppo in fretta: in tal
caso a fine cottura il foie gras risulterebbe piccolo, asciutto e granuloso,
perdendo la sua caratteristica pastosità.
Qualunque sia la tecnica adottata, il fegato si conserverà in frigorifero per
una settimana all’incirca.
Servitelo su pan brioche tostato, anche se qualche amatore raccomanda
esclusivamente fette di pane casereccio abbrustolite. Accompagnatelo con un

132
vino dolce liquoroso (per esempio un Sauternes o un Torcolato), oppure con
un rosso morbido e profumato non troppo impegnativo, come un Beaujolais
o un Valpolicella. Benché l’Ungheria sia oggi in grado di offrire prodotti di
eccellente qualità, la Francia resta la produttrice dei migliori foie gras: i più
conosciuti sono quelli di Strasburgo, i più rinomati quelli delle Lande.

133
10.

Due parole sulla pasticceria

134
Nella geografia culinaria la pasticceria costituisce una regione a sé, con
regole e sapori esclusivi, e persino propri speciali utensili.
Forse qui più che altrove è la semplicità che mi seduce: un dessert
improntato a toni aggraziati e leggeri resta per me la conclusione che meglio
si addice a un pasto importante. Eccone qualche esempio.

I sorbetti

Più dei gelati, sono i sorbetti il dolce estivo per eccellenza. Freschi e leggeri,
essi traggono dall’aroma della frutta matura tutte le saporose virtù. Il segreto
di un sorbetto riuscito sta nell’equilibrio tra il dolce e il pastoso: infatti
un’insufficiente quantità di zucchero non consentirebbe al composto di
«montare» a dovere e il sorbetto riuscirebbe simile a una granita; d’altro
canto un’eccessiva dose di zucchero lo renderebbe stucchevole, guastando il
gusto sottile della frutta. La percentuale di zucchero cambia a seconda della
varietà della frutta; si può indicare la dose standard in 400 grammi di
zucchero per un litro di composto (in generale metà acqua, metà tra succo e
polpa passata di frutta). Riuniti gli ingredienti, si lasciano macerare per circa
quattro ore prima di montarli nella gelatiera. I sorbetti di melone o anguria
non richiedono l’aggiunta d’acqua: s’impiega solo il succo e la polpa del
frutto (per rinforzare il gusto un po’ tenue dell’anguria si può aumentare la
quantità di zucchero a 450 grammi per un litro di succo). Nel caso di frutti
come fragole, more, lamponi, kiwi e mango (che danno sorbetti molto
morbidi) la percentuale di zucchero può invece esser ridotta a 300-350
grammi. Grazie all’accentuata pastosità dei frutti, questi sorbetti riescono
bene anche senza gelatiera: si ripone il composto in freezer e, quando tende a
indurire, si mescola, ripetendo l’operazione a intervalli di 10-15 minuti per
sei, sette volte.

Mousse di frutta

Sono semplici da preparare, di gradevole effetto e delizioso sapore: cosa


volere di più? Ecco come prepararle: si fanno bollire in un decilitro d’acqua
150 grammi di zucchero. Ottenuto lo sciroppo si allontana dal fuoco e vi si
fanno sciogliere quattro fogli di colla di pesce. Uniti 250 grammi di frutta

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fresca ridotta in purea, si passa al colino fine e si lascia raffreddare. Infine,
s’incorpora delicatamente mezzo litro di panna montata. Versato il composto
negli stampini, si ripone in frigorifero per un paio d’ore.
Il gusto della frutta matura si stempera nella morbida finezza della panna
montata e non è difficile immaginare la delicata fragranza dell’amalgama. Il
metodo è applicabile indifferentemente a tutte le varietà di frutta, fatta
eccezione per l’ananas e il limone: l’acidità in essi contenuta, infatti,
finirebbe col separare il composto. Volendo una mousse a base di questi
ingredienti basterà adottare l’accorgimento di far cuocere il succo di frutta
assieme allo sciroppo, anziché unirvelo crudo in un secondo tempo. Le
mousse di frutta possono essere accompagnate dalla semplicissima salsa che
s’ottiene facendo frullare della polpa passata del frutto stesso con un po’ di
zucchero.

Salse in forma di rosa

Tra le salse di pasticceria, quella alla vaniglia o «crema inglese» è


sicuramente la più elegante e la più versatile. Ecco tutte le regole da
osservare per ottenere un risultato impeccabile.
Con un coltello si incide la stecca di vaniglia in modo da liberarne i semi.
Il tutto viene quindi fatto bollire nel latte. Nel frattempo in un recipiente
(non di alluminio e preferibilmente a fondo sferico) si sbattono con la frusta
lo zucchero e i tuorli d’uovo sino a ottenere un composto omogeneo, chiaro
e spumoso. Vi si versa sopra il latte bollente, si mescola con un cucchiaio di
legno e si fa cuocere a fuoco basso, continuando costantemente a mescolare.
Tutta la difficoltà consiste nel far addensare la salsa senza far raggrumare le
uova, arrestando la cottura al momento giusto. Per far ciò bisogna in primo
luogo mescolare senz’interruzione e in ogni angolo del recipiente. Il
momento in cui si deve allontanare la salsa dal fuoco è poi riconoscibile da
vari fattori. Innanzitutto il liquido si fa cremoso, guadagnando consistenza: il
cucchiaio immersovi ne resta ricoperto di uno strato liscio e compatto.
Inoltre, quando la salsa addensa, la schiuma che appare in superficie tende a
scomparire. In verità i pasticcieri sono soliti adottare al riguardo un criterio
differente: in effetti soffiando sul dorso del cucchiaio di legno, la salsa
(quando è giunta a cottura) si espande liberando una superficie dal contorno
frastagliato in cui è riconoscibile la forma di una rosa. Poiché la superficie è

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tanto più ampia quanto maggiore è la densità della salsa, ci si potrà regolare
di conseguenza per condurla alla densità desiderata (cotture «alla piccola e
alla grande rosa»). La salsa viene infine filtrata attraverso il colino fine in un
altro recipiente, mescolata ancora per un paio di minuti e lasciata quindi
raffreddare. Queste le dosi consigliate: 3 tuorli d’uovo e 80 grammi di
zucchero (più mezza stecca di vaniglia) per ogni quarto di litro di latte.
La medesima tecnica di preparazione è applicabile a numerose altre salse
di pasticceria, introducendo semplicemente piccole solleticanti variazioni
negli ingredienti e nei sapori. La base è sempre costituita da tuorli d’uovo,
latte e zucchero, ma l’aroma di vaniglia è sostituibile, per esempio, con
quello del limone o di caramello. Nel primo caso si sostituirà il baccello di
vaniglia con la scorza di un limone, facendola bollire nel latte e, prima di
versarvi sopra il latte bollente, si aggiungerà del succo di limone alle uova
montate con lo zucchero. Alla fine, dopo avere filtrato la salsa, si potrà unire
dell’altra scorza di limone tagliata in julienne finissima. Nel secondo caso si
divide la dose di zucchero in tre parti: due serviranno a montare le uova
come di regola, mentre la terza, inumidita, viene fatta caramellare a parte e,
diluita con un goccio di latte, si incorpora alla salsa ancora calda (preparata
esattamente come la crema inglese con la sola esclusione della vaniglia).
Un’ultima variante al pistacchio, caldamente raccomandata: i pistacchi,
sbollentati, sbucciati e tritati, si lasciano macerare nel latte per circa mezz’ora
e vi vengono in seguito fatti bollire, insieme con una stecca di vaniglia. La
preparazione procede come per la crema inglese. Alla fine si elimina la
stecca di vaniglia e si passa la salsa per il setaccio fine.
La crema inglese e le sue varianti hanno svariate possibilità d’impiego.
Tradizionale complemento delle torte secche, dei semifreddi e dei gelati,
s’accompagnano felicemente alla fragranza delle paste lievitate, regalando
loro una morbida nota di dolcezza. Persino sui fritti, cui oppongono un
armonico contrasto, riescono estremamente gradevoli.

A qualcuno piace calda

Tradizionalmente la pasticceria è sempre stata considerata la specializzazione


culinaria che può più massicciamente ricorrere a presentazioni monumentali
e arzigogolate. Sono precisamente i tempi di realizzazione e di conservazione

137
che lo consentono.
Soufflé a parte (a proposito dei quali già Carême sosteneva che occorreva
sacrificare l’eleganza della presentazione a beneficio della rapidità del
servizio), la pasticceria è per tradizione plurisecolare la parte più
ornamentale, immaginifica e barocca della cucina. Non è un caso che, a tutti
i livelli di consumo e di cerimoniale, la torta nuziale incarni l’apoteosi del
kitsch culinario.
Sia pure a piccoli passi, la nuova cucina ha introdotto alcune innovazioni
anche in quella che sembrava destinata a rimanere la roccaforte della
classicità. Le preparazioni effettuate al momento, in grado di far risaltare la
freschezza dei sapori e dei profumi, vi hanno fatto capolino, soprattutto nei
piatti caldi, eseguiti «in tempo reale», come se si trattasse di una qualsiasi
altra ordinazione di cucina: i soufflé e le crespelle ne rappresentano solo gli
antesignani. La novità è piuttosto la miniaturizzazione ad personam dei dolci
più tradizionali: torte, crostate, tartellette e sfoglie vengono oggi confezionate
«espresse», per destinazione singola.
Nelle torte di frutta il supporto di pasta è ridotto allo spessore di un’ostia,
in modo che la frutta (tipicamente mele e pere) sia cotta quel tanto che basta
per la fragranza del gusto e la consistenza della polpa. Quanto alla pasta, la
sfoglia è quella che più si presta a questo impiego, anche se in realtà nulla
vieta di impiegarne di meno grasse, come per esempio la pasta da strudel. Se
si decide di adoperarla, si avrà tuttavia l’accortezza di evitare di avvolgerla a
spirale come si fa di solito (in tal caso la parte interna non risulta croccante e
non può neppure cuocere decentemente). È invece molto più opportuno
impiegare la pasta come involucro esterno, confezionando lo strudel a forma
di cannolo.
Un altro esempio di pasticceria calda, in cui scelte di questo genere non
s’impongono, sono le creme e gli zabaioni gratinati. Distribuita la crema in
piatti fondi, vi si incorpora della frutta fresca (per esempio, pesche o frutti di
sottobosco), si spolvera di zucchero a velo e si passa il piatto sotto la
salamandra o nel forno con grill preriscaldato ad alta temperatura, facendolo
dorare leggermente in superficie.

La frutta cotta

138
Sembra che l’uomo sia nato frugivoro e che solo una lunga evoluzione,
insegnandogli a manipolare e cuocere i cibi, ne abbia fatto un onnivoro,
trasformandolo in animale gastronomico.
La frutta resta tuttavia il prototipo dell’alimentazione spontanea, del cibo
che ci si offre allo stato naturale senz’aver bisogno di alcuna preparazione,
vantando in più un’attrattiva di gusto che non ha forse eguali in natura.
Eppure, interveniamo sulla frutta, la cuciniamo ed escogitiamo mille modi
diversi per alterarne la grazia originaria.
Una motivazione è ovvia: la pasticceria è un’arte di trasformazione e
affinché la frutta possa accedere al rango di dessert è necessario approntarne
l’intervento, scenografico e culinario.
Una ragione meno evidente è legata al mutamento stagionale e ai riflessi
che esso induce sugli appetiti e le emozioni del gusto. In effetti, se è vero che
anche la frutta estiva viene spesso cucinata, la cottura di fichi, pesche,
ciliegie e albicocche proviene originariamente da tecniche di conserva,
concepite per riproporre il gusto del frutto durante la stagione fredda. Queste
ricette si sono poi evolute in elaborazioni pasticcere che, quantunque
raffinate, sembrano sempre forzare l’inclinazione naturale del frutto.
D’estate, mentre la cucina predilige istintivamente le preparazioni più
semplici e leggere (carni crude o grigliate, pesce lesso o al vapore, verdure in
pinzimonio o in insalata), la frutta andrebbe colta nella sua immediatezza,
nella piena maturazione dei sapori, quando invoglia irresistibilmente a essere
mangiata fuori pasto.
Solo nella stagione fredda la cottura della frutta si accorda invece con
un’intima propensione del gusto: col sopravvenire dell’autunno e l’irrigidirsi
del clima tutta la cucina si fa a mano a mano più riflessiva, abbandonando la
spontaneità dei sapori per arricchire i gusti di sfumature ricche e complesse.
La pasticceria non fa eccezione.
In effetti, una volta cotta la frutta cambia registro tattile, potendo intanto
esser servita calda e perdendo soprattutto la consistenza caratteristica della
polpa cruda. Il gusto, pur prescindendo dall’impiego di agenti aromatici e
dolcificanti, acquista tonalità zuccherine che non hanno riscontro a crudo, in
una metamorfosi che viene ulteriormente accentuata dall’impiego di salse,
sciroppi, spezie (tipicamente chiodi di garofano, vaniglia e cannella), vini o
liquori.

139
Quanto alle indicazioni di metodo, si riassumono nella regola aurea della
cucina di rispettare le leggi dell’equilibrio. Detto altrimenti, occorre far
risaltare le vocazioni intrinseche del frutto senza snaturarne la fragranza:
come alle carni rosse e alle bianche non possono convenire le stesse salse,
anche per la frutta si tratterà di scoprire armonie riposte. Così, al gusto
intenso delle prugne e dei datteri s’intonano vini liquorosi di gran
temperamento, un Porto per esempio. La pera, non altrettanto aggressiva,
scende invece di un tono nella scala del gusto, benché la sua spiccata
fragranza le consenta di reggere magnificamente la cottura in un vino rosso.
Con la mela ci si deve invece limitare ai vini bianchi o agli sciroppi (le si
addicono soprattutto quelli aromatizzati con vaniglia, cannella, scorza
d’arancia o di limone). È squisita anche cotta semplicemente in forno,
spolverizzata di zucchero (mentre la polpa cuoce, la buccia caramella
leggermente sotto l’effetto del calore).
Una cattiva abitudine porta a prolungare la cottura della frutta oltre il
dovuto: va invece ricordato che, esattamente al pari della verdura, anche la
frutta va cotta senza che la polpa si sfaldi (a tal fine è preferibile adoperare
mele e pere dalla polpa soda e compatta, poco sugose).
Va infine segnalata la singolare sintonia che sussiste tra frutta cotta e frutta
secca: in effetti, anche l’essiccazione sviluppa un’evoluzione del gusto che
ne esalta «il tenore zuccherino».

140
11.

Dei menu

141
Dal contrasto sgorga una bellissima armonia
Eraclito

Della straordinaria molteplicità di ingredienti e di sapori esistenti in natura gli


uomini hanno saputo fare tesoro per moltiplicarli in un’infinità di tecniche
culinarie e di combinazioni aromatiche, e ricavarne – oltre al sostentamento
dell’organismo – il massimo diletto per il palato. Non è un caso che il
buongustaio sia, per temperamento, infedele: non s’intestardisce mai su un
piatto particolare, né su un ristretto novero di essi ma è sempre all’insaziabile
ricerca di nuovi sapori ed emozioni. Non è un caso se la scienza
dell’alimentazione ci insegna che la dieta equilibrata (cioè corretta) deve
attingere alla massima varietà di ingredienti. Il piacere della varietà appare
infatti connaturale in ciascuno di noi: volubile per istinto, il nostro gusto ne
nutre l’irresistibile appetito.

Ebbene, comporre un menu significa assecondare l’originaria vocazione


del gusto per la diversità nei sapori e negli aromi: disporre, cioè, le differenti
portate del pasto in una successione armoniosa e stimolante, in modo da
solleticare senza sosta il palato.
Taluno si ostina ancora a chiamare impropriamente menu la lista delle
vivande (la carte dei francesi), che come menu risulterebbe invero alquanto
impegnativo. Menu è, invece, la sequenza delle pietanze che compongono un
pranzo.
Ciò significa innanzitutto evitare le ripetizioni: ripetizioni nella scelta degli
ingredienti, nelle tecniche di cottura, nelle salse d’accompagnamento e nei
contorni (con la sola eccezione di funghi e tartufi, per i quali la replica è
consentita).
Così, in un menu particolarmente ricco, si potranno far succedere diverse
portate di carne e di pesce, purché si differenzino tra loro: avremo così, da
una parte, una carne rossa e una carne bianca (ed eventualmente anche delle
frattaglie), dall’altra un pesce e un crostaceo (con la possibile aggiunta di
molluschi).
La portata principale di carne costituisce il «piatto forte», il centro attorno
a cui gravita l’intero menu: a esso spetta di diritto il vino più importante tra
quelli secchi che accompagnano il pasto. Prima di giungere a questo

142
momento solenne, il susseguirsi delle portate non obbedisce a una regola
fissa, ma solo a qualche considerazione di convenienza: per esempio, per
quanto concerne i primi piatti, zuppe, paste asciutte e risotti si escludono
vicendevolmente; tuttavia, se il riso o la pasta compaiono come contorno di
una portata successiva, potranno convivere con una zuppa che non ne
contenga.
In un menu ben congegnato, la successione delle portate è scandita da
contrappunti: l’armonia dell’insieme scaturisce infatti dall’alternarsi di piatti
dalle caratteristiche contrastanti, così da tener sempre desta la curiosità del
palato. Beninteso, nell’ordine della successione occorre saper piazzare una
pietanza nel posto che meglio le conviene, tenendo conto che non sempre i
sapori debbono seguirsi in un crescendo. Così, se sono previste due portate
di pesce, la delicatezza di un branzino al vapore o lessato risalterà meglio se
il pesce è fatto precedere (anziché seguire) da un crostaceo accompagnato da
una salsa dai toni accesi. Allo stesso modo, dopo una sella di lepre in salsa
civet, piatto impegnativo e sontuoso, potrà seguire una piccata di vitello e
prosciutto su un letto di insalata oppure delle animelle dorate al burro, piatti
semplici che «riposano» il palato.
Per l’antipasto, l’essenziale è che si tratti di un piatto gagliardo, dotato di
carattere, perché la prima impressione è fondamentale e dà l’impronta
all’intero pasto.
La successione finale obbedirà poi a un ordine preciso: formaggi, dessert
e frutta. Per quanto riguarda i formaggi, essi potranno essere sostituiti da un
soufflé al formaggio o, secondo me, da qualsiasi altra ricetta a base dello
stesso ingrediente, compreso dunque (anche se qualcuno griderà allo
scandalo) un piatto di tagliatelle fresche con fonduta e tartufi.
Per quanto riguarda invece il dessert, l’etichetta vuole che le torte siano
riservate alle ricorrenze e alle cerimonie. Negli altri casi si potranno sostituire
con un assortimento di piccola pasticceria, secca (friandises) o farcita (petits
fours), in accompagnamento di un dolce al cucchiaio, preferibilmente a base
di frutta e non troppo impegnativo, come una mousse, un soufflé o un gelato
guarnito. Volendo, si potrà far seguire il dessert da frutta di stagione. Alla
fine, con il caffè, cioccolatini e frutta candita.

Cucina e musica

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Mia figlia Paola è da sempre attivamente impegnata con diverse forme
d’arte: la pittura, la scultura, la letteratura, la musica. Tutte sentite
profondamente e vissute alla ricerca delle loro radici originarie. L’obbiettivo
che sempre vuole raggiungere è la scoperta dell’essenzialità nascosta dalla
forma nella quale si esprime l’opera: la materia per la scultura, l’immagine
per la pittura, la profondità del concetto per la letteratura e la modalità nella
musica antica. In questo momento il suo interesse è rivolto alla musica
modale. Mi parla appassionatamente dell’attrazione che prova per questo
genere da quando si è nuovamente immersa nel mondo musicale per
affrontare un impegnativo esame di composizione. Questa antica tecnica
d’esecuzione si basa sull’organizzazione degli intervalli, base della musica
colta occidentale. In me, naturalmente si è riproposta l’analogia con la
cucina, dove uno degli elementi fondamentali nella compilazione di un menu
è l’organizzazione dei tempi intercorrenti tra una portata e l’altra, per riuscire
a formare un insieme coerente di profumi e di sapori, aggregati in modo da
valorizzare ognuna delle singole portate. Per ottenere questo risultato in
cucina, secondo la mia filosofia, che ha dato nella realizzazione pratica più
che eccellenti risultati, ho sempre scelto la semplicità e l’essenzialità negli
elementi che formano la composizione finale del piatto: i prodotti, gli
accostamenti, anche dei colori, la presentazione – che dipende dalla
raffinatezza del servizio – l’adeguatezza della preparazione del tavolo e
l’eliminazione di qualsiasi elemento che possa distrarre l’attenzione del
cliente dal piatto offerto. È appurato, infatti, che il comportamento del
cliente all’arrivo del piatto è dedicato esclusivamente all’attenta verifica
visiva del contenuto. La dimostrazione è facile: osservate le persone sedute
al tavolo quando arriva il cameriere con il cibo: tutti i commensali, senza
eccezioni, rivolgono lo sguardo al contenuto del piatto, pur continuando, a
volte, a parlare con il vicino o a occuparsi di qualsiasi altra cosa stiano
facendo in quel momento. Un istante che possiamo, esagerando, dire
«magico» essendo provocato da abitudini ancestrali, che si perdono nel
tempo, legate alla necessità di assicurarsi che il nutrimento, frutto della
caccia o di quanto raccolto in natura, fosse ai primordi commestibile,
successivamente appetibile.

Intensità di sapori e gusti

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Ero in Spagna, a San Sebastián. Mentre gironzolavo come turista per le
strade della città, fui attratto dalla vetrina di un negozio dove troneggiava
una pubblicità del celebre prosciutto spagnolo, il Jamón Serrano, definito
enfaticamente el mejor del mundo.
Mi stupisco sempre che la gente debba in ogni occasione, fare, a proposito
o a sproposito, dei paragoni tra cose dello stesso genere. Sopratutto quando
arriva a definire presuntuosamente qualcosa come la migliore del mondo.
Tutti sappiamo che il prosciutto spagnolo ha un sapore molto intenso, che
ricorda quello dei nostri prosciutti del Centro Italia, completamente diverso
dal raffinato sapore, fine e delicato, del prosciutto di Parma. La differenza è
tale che persino il modo di tagliarli è completamente diverso: lo spagnolo a
mano, al coltello; il Parma a fette ben sottili; proprio perché, per la sua
finezza, esige di essere tagliato fine. L’errore che si può commettere, nel
quale ero caduto anch’io da ragazzo, è di attribuire alla raffinatezza del
sapore, un taglio robusto che lo caratterizzi ancora di più: ebbene, nulla di
più sbagliato. È nella sottigliezza del taglio che il Parma libera tutto il suo
inimitabile gusto. Trovo che sia del tutto inutile la mania di paragonare tutto
a tutti. Si finisce per non apprezzare più la singolarità di una cosa, qualunque
essa sia così com’è.
Come nella musica! Perché ridursi sempre al paragone tra un interprete e
un altro, tra un’esecuzione e un’altra, o in cucina, tra un piatto e l’altro che,
alla fin fine, possono essere parimenti buoni. L’interpretazione di una ricetta
o di un pezzo di musica, può essere naturalmente diversa a seconda
dell’esecutore, a causa dell’emozione che lui vive nell’eseguirla.
Non è poi vero che «non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace»,
è bello ciò che è bello! Ciò che piace si rivela una scelta e niente più. È lo
stesso che accade in cucina, dove non è vero che «non è buono ciò che è
buono, ma è buono ciò che piace», ciò che è buono è buono! E chi stabilisce
che è buono? Il gusto, ancora il gusto.
In cucina si scoprono molti sapori intensi, che appartengono
esclusivamente ai prodotti stessi, ma alle volte si mettono insieme prodotti
diversi tra loro e di conseguenza il piatto viene sovraccaricato dall’intensità
dei loro sapori, riducendo l’insieme a una preparazione di stupida volgarità.
Nel mio libro, Il Codice Marchesi, definisco questi piatti «pornografici», una
netta congiura per distruggere la preziosità e la purezza della materia prima,

145
che accetta con naturalezza una quantità sorprendente di abbinamenti, ma
non tutti insieme.
L’esagerazione diviene così autodistruttiva. Volendo nobilitare la materia
di base con appropriate aggiunte, sia in accordo che in ragionato contrasto,
si finisce per soffocarla con la sovrapposizione di troppi sapori, di nature
incompatibili tra loro. Il risultato finale non è altro che un grosso, sgradevole
pasticcio.
Non si può confondere l’intensità di un gorgonzola con la finezza di un
formaggio di capra o l’intensità di un bagoss, ma ognuno di questi formaggi
ha un suo sapore che la materia, se trattata bene, sa difendere altrettanto
bene. Se esaminiamo un bagoss dall’intenso sapore rustico e un parmigiano
dalla sottile, nobile raffinatezza, dobbiamo ammettere la superba validità di
entrambi nella loro esclusiva originalità. Per non parlare di un pecorino,
tratto dal latte di animali allevati in Centro Italia immersi in un microclima
dai forti profumi e sapori: la loro individualità ne risulta più marcata.
Tornando al Jamón Serrano, anche in questo caso le sue caratteristiche si
rivelano facilmente dal microclima e dal nutrimento dei maiali, allevati a
ghiande. È logico che la carne abbia un sapore marcato da questi elementi
climatici e nutritivi. Un caso analogo, che rientra in questa linea di
considerazioni, è quello da me vissuto in famiglia, dove, quando ero
ragazzo, mio padre faceva allevare dei tacchini che poi nutriva con delle
noci, iniziando quindici o venti giorni prima del Natale. Cominciava il
trattamento mettendogli nel becco una noce, che faceva poi discendere nello
stomaco, tirandola giù per il collo. Iniziava con una noce il primo giorno,
per arrivare a una decina nei giorni seguenti e ritornare a una al termine
dell’ingozzamento. È evidente che la carne del tacchino prendeva un sapore
particolare, più carico e gustoso, molto ricercato e apprezzato dai golosi
intenditori. Ma anche qui non si devono fare paragoni con il normale
tacchino nostrano che quando è buono, è indiscutibilmente buono.
Credo che si debba gustare la finezza insita nelle cose e apprezzarne la
leggerezza: una donna elegante non deve essere obbligatoriamente carica di
gioielli per mostrare la sua classe. Ricordo che chiedendo a una mia bella
amica perché non portasse nessun anello, lei mi mostrò le sue splendide
mani e mi chiese se le avessi guardate bene. Capii che ogni aggiunta sarebbe
stata superflua, qualsiasi presunto arricchimento sarebbe stato del tutto fuori
posto.

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Il più delle volte il tentativo di arricchimento maschera la vera bellezza,
come in cucina il tentativo di arricchire i sapori, speso naufraga nel totale
insuccesso.

Cucinare per i bimbi, a casa e al ristorante

Parlare di cucina sembra facile, ma non è così. L’enorme varietà delle


materie prime a disposizione, di qualsiasi natura esse siano, e il modo di
cucinarle, sono uno stimolo enorme e appagante, perché la verifica della
qualità del risultato è immediata e si gusta nell’istante stesso che la creazione
del «capolavoro» è terminata. Le grandi possibilità di esprimersi, che il «far
cucina» offre a chi gli si dedica con passione, costituiscono quindi il fascino
segreto che attira allo stesso modo principianti golosi e professionisti
impegnati
Il cuoco è stato definito da un raffinato intenditore (il signor Enrico Illy,
della famosa casa «Illy Caffè»), un «chimico dell’intuizione», perché dalla
combinazione tra le sue percezioni e un chiaro supporto culturale, fa nascere
il miracolo di infiniti piatti, raffinati e salutari.
In cucina ho sempre avuto l’obiettivo di creare cibi salutari, tanto da dare
corpo a uno stile che recentemente ho ribattezzato «meno cucina» proprio
perché il suo scopo è di esaltare i sapori naturali del cibo cucinato con
minime aggiunte di grassi, necessarie per effettuare una buona, sempre
attenta e calibrata cottura.
Seguendo chiaramente un concetto minimalista imposto dal microclima
del territorio, l’attenzione richiesta da questo stile nutrizionale si esaspera
quando, ben lontano dal pensare a preparazioni per gaudenti, amanti dei
sapori forti ed elaborati, si cucina per i bambini seguendo i principi salutari e
tenendo d’occhio contemporaneamente la scelta di prodotti genuini, che
aiutino a proteggere l’organismo dall’attacco di forme tumorali, spesso legate
a una disfunzione molto grave: l’obesità.
Da questo punto di vista, è essenziale l’educazione costante che la famiglia
può dare ai bambini per abituarli a scegliere saggiamente cibi che, non
superando il livello glicemico ottimale, possano incrementare le difese
naturali contro l’obesità, che interferisce sinistramente e in modo pesante,
aumentando il rischio di una possibile aggressione tumorale.

147
Sarà quindi saggia la scelta preferenziale di cibi integrali, naturali, che
saziano velocemente per merito delle proteine in essi contenute, come il riso
integrale, i cereali e i legumi, i fagioli: niente pasta fresca e dolci,
possibilmente niente merendine preconfezionate, per il loro contenuto di
farina, zucchero e conservanti industriali. Anche il grasso contenuto nelle
carni bovine e nel latte, può venire inquinato pericolosamente da qualche
ingrediente non igienico, facente parte della miscela dei mangimi degli
animali di allevamento. Con questo non si dice che si debbano eliminare
queste vivande, ma solamente scegliere quelle di origine conosciuta e
controllata.
Ma un’alimentazione semplice e naturale (costituita quindi preferibilmente
da prodotti biologici certificati), equilibrata e salutare, ai bambini non basta:
ci vuole sorpresa, gioco, divertimento. Bisogna insegnare ai nostri bambini,
subito, quando sono ancora aperti a tutto, come ci si debba nutrire
giustamente e dividere quotidianamente il piacere delle buone, semplici cose,
vissute nella convivialità della famiglia o degli amici.
Il piacere di cucinare il piatto preferito, con le proprie mani, seguendo le
pazienti istruzioni date dalla mamma è sempre invitante per il bambino,
come vivere un momento di intimità profonda con «l’amica mamma» e
l’orgoglio di riuscire a fare qualcosa di buono, mangiarlo e in più ricevere i
complimenti, che sicuramente arriveranno, per la sua bravura (anche fossero
solo di incoraggiamento).
Le mie figlie hanno sempre «giocato» con la cucina, per merito
dell’insegnamento ricevuto da mia moglie e anche oggi, con i propri figli, il
momento di cucinare rimane un intervallo gioioso della giornata
La cucina, vissuta nelle sue espressioni più vere è, quindi, malgrado il suo
carattere frivolo, un affare terribilmente serio, la cui esecuzione impone il
rispetto assoluto di alcune regole, basilari per preparare cibi buoni e sani.
La cura che richiede, specialmente quando è destinata ai bambini, deve
essere il risultato di una serie di elementi studiati e pesati appositamente per
ogni preparazione, che tenga conto di valori nutritivi, sapori e igiene
alimentare, nel rispetto dei gusti e della salute di ogni bambino.
Deve essere pertanto una cucina formulata attentamente, con il pensiero
volto all’ottenimento del risultato migliore e pertanto una «cucina di
pensiero» che esprima l’arte, insita nell’opera gastronomica, raggiunta dal

148
suo esecutore: «il Cuoco».

149
12.

Codice del buongustaio,


ovvero del piacere di sottilizzare

150
Esiste in ciascuno di noi un certo numero di principi che regolano la nostra
vita gastronomica e che osserviamo per inclinazione o per semplice
abitudine. A un primo livello essi non esprimono che i veti istintivi del gusto
(non bere un Barolo sulle ostriche, non grattugiare parmigiano sugli
spaghetti con le vongole ecc.). Palesando meri controsensi gastronomici,
nessuno che non sia totalmente sprovveduto in materia trova difficoltà a
recepirli e condividerli. Ma ne esiste un livello più riposto: si tratta di
convinzioni che una paziente educazione del gusto ha maturato e dalle quali
– una volta che ne sia stata colta la verità – è difficile tornare indietro.
Spesso sono distinzioni sottili, minuzie che al profano possono apparire
inutili capricci, ma sulle quali il palato fine non transige.
Eppoi, storcere il naso laddove i più ingurgitano beati e persino lasciarsi
morire d’inedia piuttosto che assaggiare ciò che il codice del buon gusto,
senza possibilità d’appello, gli vieta, non è forse la prerogativa, che dico, la
ragione stessa d’esistenza del buongustaio?
Ecco dunque una breve scelta di queste dilettevoli pedanterie.

Sapore di sale

Con il dolce, l’amaro e l’acido, il salato è uno dei sapori elementari.


Se il suo consumo risponde a un’esigenza primordiale dell’organismo e
del palato, l’abuso (che può provocare gravi disturbi) di sicuro non è amico
della buona tavola. La salagione esagerata spesso tende a mascherare la
mancanza di gusto di materie prime grame e insipide.
Si deve invece imparare a lasciare ai cibi il loro sapore (per lo meno
quando ne hanno). II compito del sale è allora semplicemente quello di
bilanciarlo e renderlo più allettante senza arrivare però ad adulterarlo. Altre
volte l’eccesso di sale può dipendere dalla qualità impiegata. Sale marino e
salgemma, per esempio, salano in maniera diversa: il salgemma è meno
efficace e perché giunga al palato ne è necessaria una dose relativamente
maggiore che finisce per snaturare i sapori cui si accompagna e irritare il
palato.
II sale prediletto dal buongustaio è invece il sale marino integrale (sale
grigio): è un ingrediente naturale contenente, seppure in tracce, numerose
sostanze utili all’organismo che rendono il suo gusto ricco e intenso.

151
Il sale marino raffinato, proprio per la mancanza di queste sostanze,
presenta al confronto un gusto piatto e incolore e ciò induce spesso a un
consumo eccessivo.

Olio ligure e olio toscano

Così come sarebbe sconveniente accompagnare a casaccio un buon vino a


una pietanza piuttosto che a un’altra, allo stesso modo un olio d’oliva, sia
pure di qualità eccellente, non può essere impiegato per condire
indistintamente ogni insalata o verdura.
I più noti oli d’oliva italiani sono quelli di provenienza ligure e umbro-
toscana. I primi hanno un gusto delicato (in cui talvolta si riconosce il
pinolo): sono perfetti per il condimento di insalate verdi e per la cottura dei
pesci in forno con partenza da freddo. I secondi presentano invece un gusto
più aggressivo, talvolta un profumo erbaceo o di carciofo e un colore più
intenso. Vanno preferiti sui peperoni, i pomodori e, in genere, sulle verdure
e le insalate dal sapore più marcato (penso per esempio alla classica insalata
meridionale a base di olive e sedani o anche a certe zuppe estremamente
saporite, come quella di cavolo nero).
Per le minestre non è tuttavia possibile assegnare regole precise. Tutto
dipende dalla mano del cuoco: così una pasta e fagioli, come pure un pesto,
possono essere impostati secondo l’inclinazione del gusto su toni delicati
oppure più pronunziati. La regola basilare a cui attenersi resta quella di
rispettare l’equilibrio dei diversi sapori.

Tartufi bianchi e tartufi neri

È ozioso volerne stabilire la graduatoria: troppo diversi per esser posti in


competizione, il tartufo bianco e quello nero sono simili, è vero, per natura,
ma la gastronomia ne ha distinto le funzioni assecondando le loro differenti
caratteristiche. In effetti, mentre il tartufo bianco ci inebria col suo profumo
agliaceo, inconfondibile e incontenibile, e una volta portato alla bocca quasi
vi si scioglie, il tartufo nero ha un profumo più tenue e libera il suo gusto
sottile (erbaceo e piccante) durante la masticazione, cui offre dolce resistenza
(detto altrimenti, risulta «al dente»).

152
Il tartufo bianco ha la precipua funzione di condimento: come gli aromi
più intensi (quali lo zafferano o il curry) sovrasta ogni altro sapore e pervade
di sé l’intero piatto. Il tartufo nero funge invece da accompagnamento o
guarnizione: meno prepotente del bianco, sta sulle sue, convive con gli altri
sapori e lascia che essi esprimano la loro individualità; alla pietanza di cui è
chiamato a far parte regala il suo gusto elegante, che la completa e la
nobilita. A differenza del tartufo bianco, quello nero può inoltre essere cotto
senza che le sue caratteristiche organolettiche risultino compromesse.
Chiarito che il tartufo nero non è il parente povero di quello bianco, ma
ha tutt’altre mansioni gastronomiche, si tratta ora di esemplificare in
concreto questa diversità. A riprova del fatto che il tartufo bianco sia un
condimento basta considerare i piatti che, per elezione, gli sono congeniali:
risotto, fonduta, pastasciutta, uova in tegamino. Tutti sapori semplici, privi
di sfumature, in cui il tartufo ha modo di sprigionare il proprio aroma
aggressivo senza incontrare resistenza, come su uno sfondo neutro. Dove c’e
complessità, infatti, il tartufo bianco non è di casa: su un fagiano in
casseruola, un pâté di selvaggina o un civet eccolo così fuori posto, perché
finisce col soverchiare e appiattire gli altri sapori. I pâtés sono invece una
destinazione naturale del tartufo nero, che è pure un’eccellente guarnizione
nelle insalate verdi, sulla carne cruda e sulla pasta: «asciutto», saltato
semplicemente nel burro (provatelo così con penne e punte d’asparagi) o
come arricchimento di una salsa. Perfino in ciò che parrebbe il regno
incontrastato del tartufo bianco, il risotto, quello nero dice la sua: provatelo
tagliato a dadini, in modo da far risaltare la sua piacevole consistenza, e
saltato nel burro che s’impiegherà per mantecare il riso.
Bianco o nero che sia, al momento dell’acquisto è necessario sincerarsi
della sua freschezza. Il profumo si spegne col passare del tempo, ma anche
la consistenza è un indizio importante: invecchiando, infatti, il tartufo (a
causa dell’umidità che vi penetra) diventa molliccio e acquista un sentore di
muffa che diverrà via via più pronunziato. Il problema della sua
conservazione è proprio la protezione dall’umidità. Se il tartufo presenta in
superficie sedimenti terrosi seccati, si lascerà così com’è sino al momento
dell’impiego, avvolto da carta assorbente (che si avrà cura di cambiare
giornalmente) e conservato in un barattolo a chiusura ermetica. Giunto il
momento dell’utilizzazione, il tartufo va spazzolato e, per eliminare le tracce
di terra, passato velocemente sotto acqua corrente, prontamente asciugato e

153
consumato subito dopo. Se invece la terra che ricopre il tartufo è umidiccia,
meglio eliminarla al più presto, anticipando le operazioni di pulizia appena
descritte. Accuratamente asciugato, andrà conservato come s’è già detto, con
frequente ricambio della carta.

Uso e abuso dei funghi secchi

Sembrerebbe evidente che la preparazione dei funghi secchi debba aver


come scopo la restituzione, nei limiti del possibile, della fragranza originaria
dell’alimento. Eppure, spesso e volentieri, dei funghi secchi si fa un uso
dissennato con risultati che, col sapore del fungo fresco, non hanno la più
vaga rassomiglianza. Per riportarlo in vita basta invece attenersi a queste
elementari precauzioni: i funghi vanno messi a bagno in acqua tiepida,
avendo l’accortezza di cambiarla un paio di volte. Quando si sono inteneriti,
si asciugano e sono pronti per la cottura. Contrariamente a quello che
qualche sedicente gourmet ritiene, il liquido in cui si son fatti rinvenire i
funghi si getta.
Nero come l’inchiostro, maleodorante con un retrogusto terroso che
nessun filtraggio, per quanto accurato, saprebbe cancellare, questo liquido,
se impiegato in cottura, sopraffarebbe senza rimedio il sapore redivivo del
fungo. L’idea di farne un fumetto per altre preparazioni mi sembra
ugualmente bizzarra: prerogativa d’ogni fumetto degno di questo nome è
infatti quella d’essere profumato e di poter ricevere integrazioni aromatiche
che lo completino, due virtù sconosciute all’acqua d’ammollo del porcino.
D’altra parte esiste un fungo di facile reperibilità che fornisce un fumetto
eccellente: è il comune prataiolo, detto altrimenti champignon.

Il giardino degli aromi

Nella bella stagione, la prodigalità della natura, l’accessibilità spesso


immediata della materia prima e l’inclinazione della cucina verso i sapori
freschi invogliano irresistibilmente il palato a vagabondare nel giardino degli
aromi: occasione propizia per conoscere più da vicino quelle erbe che, non
potendo essere essiccate né cucinate, ma solo sparpagliate crude sui piatti,
racchiudono in sé tutto il profumo della freschezza.

154
Cominciando dalle classiche erbe della grande cucina, ecco la cipollina,
dai caratteristici steli aghiformi e cavi: ha un sapore simile a quello della
cipolla, anche se più delicato e fresco. Si presta benissimo a esser mescolata
a un’insalata verde (di lattuga per esempio); tagliata a bastoncini apporta un
suggestivo contributo di colore e di gusto a salse bianche (cui andrà aggiunta
solo alla fine) in accompagnamento a pesci o pollame.
Simile al prezzemolo, il cerfoglio è troppo spesso relegato al ruolo di
semplice elemento decorativo, quasi fosse insapore. Delicatamente piccante,
sviluppa un aroma delicato e molto elegante, che stempera il gusto di
prezzemolo attraverso sentori d’anice e liquirizia. Neppure il cerfoglio ama
essere cucinato.
Poco conosciuto in Italia, il dragoncello ha un aroma fine e penetrante,
assai particolare. Lasciato insaporire (ma non cuocere) in una salsa alla
crema si presta ad accompagnare pollame o vitello; tritato, può aromatizzare
uova e omelette. È uno degli ingredienti fondamentali della classica salsa
Bearnese.
Dragoncello, cerfoglio, prezzemolo ed erba cipollina compongono le
cosiddette «erbe fini» che, mescolate assieme danno vita a un soave bouquet
capace di esaltare tutta la grazia delle sue componenti in un’armonica
coesione. Le erbe fini vengono utilizzate per aromatizzare pietanze delicate
(si possono per esempio unire a un risotto al momento della mantecatura).
Per venire a odori più nostrani, come dimenticare quello che è forse il più
inebriante aroma mediterraneo? Anche l’aulentissimo basilico deve essere
infatti impiegato crudo, come testimonia la preparazione del pesto. Frullato il
basilico insieme a pochi gherigli di noce e pinoli, un po’ d’olio d’oliva e
pochissimo formaggio grattugiato (l’aglio non è per nulla obbligatorio),
potrete ottenere una salsa più fine e cremosa passandola per il setaccio. Salsa
cruda, a rigore il pesto non andrebbe neppure scaldato: in effetti, vale la
pena di provarlo freddo su una pasta fredda o un’insalata di pomodori,
patate o fagiolini. Unito da crudo alla fine, può insaporire anche una
minestra di verdura o un risotto.
Oltre al pesto, per condire le pastasciutte e mantecare risotti si può
preparare un burro al basilico: a una riduzione di scalogno e vino bianco
emulsionata col burro si unisce il basilico tritato molto fine, lasciando
insaporire a fuoco spento. La salsa va servita immediatamente per evitare

155
che il basilico, cuocendo, si ossidi e perda profumo.
Pure l’origano, altro aroma tipicamente mediterraneo, ricco e piccante, dà
il meglio di sé da crudo (cucinato perde profumo, essiccato diventa acre e
sgradevole). D’elezione sulle preparazioni a base di pomodori, si presta ad
aromatizzare anche melanzane, fagioli e guazzetti di pesce a base d’olio e
limone.
Quanto alle profumate foglioline di menta, esse non debbono essere
necessariamente confinate alle preparazioni dolci. È ben vero che la loro
vena aromatica tanto pronunziata consiglia al cuoco la massima prudenza.
Sono tuttavia numerose (e spesso estremamente raffinate) le possibili
utilizzazioni della menta sui piatti salati.
Poiché la sua nota dominante è la sensazione di freschezza che comunica
al palato, è intanto molto intonata sulle carni grasse e saporose, in particolare
agnellone, montone e castrato. La sua fresca fragranza riequilibra l’eccesso
di grasso di queste carni, mentre la vivacità dell’aroma regge bene la loro
sapida irruenza. Per le stesse ragioni, anche con l’anatra e il piccione si
accorda magnificamente.
La classica salsa di menta della cucina inglese si prepara amalgamando a
freddo menta tritata, aceto, zucchero, sale e pepe. Viene tradizionalmente
accompagnata agli arrosti di carne ovina, caldi o freddi. La componente
agrodolce non è però obbligatoria: si può profumare una salsa bruna,
ricavata per esempio dal fondo di cottura sgrassato, incorporandovi qualche
foglia di menta sminuzzata senza dovervi aggiungere né zucchero né aceto.
Anche sulle carni bianche e delicate la menta può riuscire gradita, purché
venga dosata con mano leggera. Nello stesso spirito, valida è anche la sua
utilizzazione sulle uova: la frittata all’erba di san Pietro, che è per l’appunto
una varietà di menta, è un classico piatto della cucina milanese. Con molte
verdure convive poi in perfetta armonia, soprattutto con quelle dai sapori
dolci e delicati, come i piselli, le fave fresche, le zucchine o le patate novelle,
che ne ricevono volentieri l’odoroso contributo: sarà sufficiente
sparpagliarvi sopra, a conclusione della cottura, un pizzico di menta tritata.
Un accostamento all’insegna di una comune freschezza di gusto, è pure
quello con i cetrioli in insalata, conditi con yogurt o panna acida.
Sulle verdure dal gusto più aggressivo, come i funghi, le melanzane, i
fagioli o le lenticchie è invece preferibile adoperare la nepitella (detta anche

156
calaminta o mentuccia). Pur somigliandogli, il suo aroma è meno spiccato e
indubbiamente meno elegante di quello della menta. Il suo impatto agreste e
il piacevole gusto erbaceo (da cui trapela un vago sentore di maggiorana) la
rendono tuttavia più adatta a unirsi – in una sorta di matrimonio rusticano –
con quelle verdure dai sapori schietti e decisi.

I colori del pepe

Pepe nero, pepe bianco: qual è la differenza? Pur provenendo entrambi dalla
stessa pianta, il primo è ottenuto da bacche ancora acerbe essiccate al sole, il
secondo da bacche giunte a maturazione, lasciate macerare, private della
buccia e infine essiccate. Benché non si tratti propriamente di pepe bianco,
sotto questo nome vengono venduti anche grani di pepe nero privati
semplicemente dell’involucro esterno per mezzo di apposite macchine. In
entrambi i casi, il pepe bianco presenta un profumo meno pronunziato e un
gusto meno pungente rispetto a quello nero, che solitamente sostituisce per
ragioni d’ordine estetico: per pepare una salsa bianca, per esempio, evitando
in tal modo di macchiarne il candore con un pulviscolo nerastro che
potrebbe riuscire poco gradevole.
Sia esso bianco o nero, il pepe si adopera ridotto in polvere o pestato,
purché al momento: l’aroma del pepe, che si sprigiona durante la
maturazione, tende infatti ad affievolirsi col trascorrere del tempo, mentre il
suo gusto piccante permane. Sicché alla volatilizzazione dell’aroma non si
potrebbe porre rimedio usando una maggiore quantità di pepe: da ciò
l’importanza capitale di condire con pepe macinato al momento.
Oltre al pepe propriamente detto, ottenuto per essiccazione, si trovano in
commercio altre bacche piccanti che portano lo stesso nome: sono il pepe
verde e il pepe rosa. Il primo non è altro che pepe nero non essiccato,
conservato fresco in salamoia o, sottovuoto, a grappoli; il secondo proviene
invece da una pianta diversa. Assai meno pungenti del pepe autentico,
queste bacche vengono impiegate intere, frantumate durante la masticazione:
il palato ne tollera infatti il sapore piccante senza pericolo di ustionarsi.
Tra le numerose utilizzazioni del pepe verde, classica è quella che lo
prevede nella salsa d’accompagnamento del filetto di manzo: dopo aver
cotto la carne nel burro, si elimina il grasso dalla casseruola, la si deglassa

157
con vino o Cognac, si aggiunge qualche cucchiaiata di fondo bruno e si
lascia ridurre; si lega quindi la salsa con burro o panna, aggiungendo alla
fine i grani di pepe verde interi.
Il pepe rosa ha un gusto e un profumo più intenso del pepe verde, per
quanto la scelta tra i due dipende per lo più da valutazioni d’ordine estetico.
Per esempio, io adopero il pepe rosa in un’insalata di animelle e fagiolini
verdi condita con una crema alle erbe fini. Unito a questi sapori e colori
delicati, il pepe rosa conferisce al piatto un piacevole contrappunto
cromatico e gustativo.

Il galateo dei formaggi

Come il vino, il formaggio è un alimento vivo. Il freddo eccessivo e


prolungato del frigorifero, congelandone gli aromi, li spegne e a poco a poco
li uccide (lo stesso accade anche ai vini, che andrebbero raffreddati al
momento nel secchiello del ghiaccio). D’altra parte, a temperatura ambiente
il formaggio soffre, «suda» e, se è a pasta molle, si squaglia. Il caldo ne
snatura inoltre il sapore (che viene esageratamente caricato sino a riuscire
sgradevole) e ne accelera il processo di deterioramento.

Formaggi a forma quadrata a pasta molle

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Porzioni di bleus

Porzioni di bleus

Formaggi cilindrici di notevoli dimensioni a pasta sostenuta

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Formaggette caprine

Caprini a forma di piramide

Provolone

La conservazione ottimale si ottiene invece alla temperatura di cantina (10-


12 °C); prima del consumo (temperatura ideale sui 14 °C) basterà attendere
una decina di minuti. A eccezione delle forme dure, i formaggi vanno tenuti
al riparo dall’aria ricoprendoli possibilmente con uno straccio inumidito
(evitando tuttavia il contatto diretto: si può creare un’intercapedine di paglia,

160
per esempio), in modo da garantire il necessario grado di umidità. Per far
tutto ciò occorre avere a disposizione una cantina o un apposito frigorifero,
sicché per uso domestico si dovrà inevitabilmente ricorrere a compromessi:
si acquisteranno i formaggi in piccole quantità, così da ridurre al minimo il
periodo di conservazione, e si riporranno in frigorifero, racchiusi nella loro
scatola o avvolti in carta pergamena, nel reparto delle verdure, dove il
freddo è meno intenso. Ne verranno estratti mezz’ora prima del consumo.
Le fette di formaggio, per innocue che possano sembrare, esprimono una
geometria rigorosa in cui è racchiuso un principio gastronomico. Se il
formaggio è a pasta uniforme, il tipo di taglio è indifferente e ci si attiene a
un salomonico criterio di simmetria. Se invece il formaggio presenta una
consistenza disomogenea e una distribuzione dei grassi diversa dall’esterno
rispetto all’interno, si avrà cura di tagliare la forma in modo da
salvaguardare l’armonia complessiva del gusto con tutte le sue sottili
sfumature.
Infine, la crosta. Annosa questione: quando va mangiata, quando no? La
risposta, in fondo, è semplice e univoca: si potrà mangiare purché piaccia e
sia in armonia con il gusto del formaggio. Così si scartano subito le croste
dei formaggi del tipo fontina o gruyère, perché troppo dure, quelle dei
formaggi blu (come il gorgonzola) perché disarmoniche rispetto alla pasta,
oltre ovviamente alle croste di cenere e di cera, non commestibili. I formaggi
lavati (tipo taleggio o munster) hanno una crosta sabbiosa che tuttavia, se
abbastanza fine, è possibile grattare in superficie anzichè eliminare
completamente. Quella dei formaggi a crosta fiorita (come il camembert e il
brie), invece, è generalmente in sintonia con il gusto del formaggio, che
spesso completano piacevolmente (esistono però alcune eccezioni, come il
Brillat-Savarin, la cui crosta, molto fiorita e amara, mal s’accorda col gusto
dolce della pasta). I formaggi di capra, infine, per il loro gusto così potente,
possono sopportare bene l’accoppiamento con la crosta.

Prontuario vegetariano

Soprattutto nella stagione estiva, la spontanea esigenza di una cucina più


semplice e più leggera unita alla seduzione dei sapori maturi ci porta
irresistibilmente verso i piaceri dell’orto. Eppure anche nel regno delle
crudités si commettono errori e strafalcioni: vediamo allora come districarsi

161
nel sottile galateo degli ortaggi.
Come l’insalata russa, le macedonie di frutta, i minestroni e tutte le ricette
spazza-frigorifero in cui si mangia di tutto senza sentire il sapore di niente,
pure le insalate miste gridano vendetta al buon gusto: è infatti del tutto
pacifico che in un’accozzaglia di sapori qualche ingrediente risulti fuor di
posto (soverchiato da un altro, opprimendolo o entrando con lui in aperta
discordia), per tacere poi dei condimenti, che andrebbero anch’essi calibrati
volta per volta al gusto delle verdure che debbono accompagnare.
Per questo alla caotica insalata mista il palato fine preferirà essere
stuzzicato dagli assaggi di insalate diverse, composte ciascuna di pochi
ingredienti sicuri e servite separate, disposte magari sullo stesso piatto come
tanti piccoli bouquet.
Si privilegeranno i matrimoni felici celebrati dalla tradizione (pomodori e
mozzarella, sedani e olive, carote e lattuga, capperi e peperoni, patate e
cornetti), senza dimenticare gli assolo, d’obbligo per ortaggi dal gusto
dominante come i finocchi o i cetrioli, sicuramente poco portati per la
compagnia.
In compenso raramente si sbaglia mescolando tra loro insalate novelle a
foglia, legate da una comune grazia e freschezza di gusto. Le insalate verdi
possono poi essere vivacizzate aggiungendo, con la dovuta parsimonia,
un’erba aromatica (come dragoncello fresco, rucola, crescione, cerfoglio o
qualche foglia di sedano) che regali loro una nota particolare di gusto.
Per quanto riguarda pomodori e peperoni, seppure indubbiamente
piacevoli in abbinamento con determinati altri ingredienti (per esempio
cornetti e patate, oppure olive e sedani, rispettivamente), essi danno sempre
il meglio di sé gustati da soli, conditi con mano leggera. Inoltre, per una
questione di finezza e digeribilità, è sempre consigliabile mangiarli privati dei
semi e della pelle (mentre i pomodori, come tutti sanno, vanno scottati in
acqua bollente, i peperoni si spellano con un coltellino pelapatate).
Altro classico ingrediente da insalata sono le uova sode, che, eccellenti
sulle insalate verdi e i pomodori, riescono decisamente stucchevoli sulle
carote (anche se è proprio così che s’incontrano di regola).
Anche le verdure cotte esigono determinate attenzioni e, in primo luogo, il
titolo della freschezza. In un ortaggio non fresco si sono ormai volatilizzate

162
le vitamine, così come il colore, il sapore e la consistenza originali. Per
esempio, una zucchina appena colta, turgida e croccante, invoglia a essere
mangiata persino cruda (provatela, affettata sottilmente, potrete adoperare un
affetta tartufi, con un goccio d’olio, sale e pepe: vale l’assaggio); invece
appassendola nell’acqua di vegetazione, si fa amara e una volta cotta appare
grinzosa fuori e molliccia dentro, perdendo la consistenza che le consentiva,
da fresca, di essere cucinata «al dente». Ma è soprattutto alla prova del gusto
che la zucchina avvizzita delude, mancando di quella caratteristica dolcezza
che è propria degli esemplari freschi e in cui risiede la sua maggior attrattiva.
Tra le angherie ricorrenti a cui vengono quotidianamente sottoposti gli
ortaggi, un’usanza diffusa è quella di disidratare i cetrioli sotto l’azione del
sale. Ma con l’acqua di vegetazione (che in un esemplare fresco non è per
nulla amara) anche parte del sapore va via, mentre la polpa diventa flaccida,
da croccante qual era. Anche le melanzane, se sono fresche, si possono
adoperare senza doverle preliminarmente disidratare sotto sale, tanto più che
solo così alcune preparazioni riescono possibili (bollirle per esempio intere,
condite poi con olio e aceto). Invece, se disidratata, la polpa della melanzana
diventa molle e, oltre a prestarsi più facilmente a imbeversi d’olio, perde
parte del suo piacevole gusto piccante.

Etica ed estetica dei ravioli

Vennero originariamente concepiti come ricetta di ricupero di avanzi, ritagli e


scampoli d’altre pietanze: in effetti, è proprio nella semplicità di ingredienti e
sapori che i ravioli esercitano la loro suprema fascinazione.
Il rigore professionale dell’alta cucina, la sua lezione di stile le
impediscono ovviamente di ricorrere alle astuzie tipiche di quella familiare:
tutto dev’essere incondizionatamente fresco e destinato espressamente al suo
scopo. Tuttavia, nello sgrossare le rustiche paste ripiene per farne un piatto
elegante, anche la grande cucina deve interrogarsi su che cosa convenga
adoperare come farcia e cosa no.
Per molto tempo si è creduto fosse sufficiente sostituire gli ingredienti
delle tradizioni regionali con materie prime in odore di rarità per far accedere
i ravioli ai deschi della cucina raffinata. Invece, proprio l’ambizione di
ricercare preziosismi a ogni costo sortisce spesso macroscopici errori di

163
proporzione e di gusto. È forse nelle farce di pesce che questi si rivelano nel
modo più appariscente.
A mio modo di vedere la cucina deve sempre seguire una logica che ne
fissa gli scopi e ne regola i gesti, senza ridursi mai a palcoscenico
dell’improvvisazione e dei facili effetti. Se è impegnata nell’invenzione, non
più sorretta dalla misura e dalla saggezza della tradizione, la cucina deve a
maggior ragione mantenere ben chiari questi criteri. Tra i quali c’è
l’imperativo «morale» di non corrompere la materia prima, per adoperarla
sempre in modo che possa dare il meglio di sé. Per questo, ravioli farciti
d’aragosta o di branzino rappresentano ai miei occhi l’espressione di una
cucina leziosa, che ha smarrito la coerenza e lo stile. Riducendo in farcia la
polpa d’un pesce nobile, se ne sfibra infatti il tessuto muscolare,
sacrificandone la consistenza in cui risiede gran parte dell’attrattiva.
Altra trovata oziosa è poi quella di sigillare nella pasta dei molluschi interi
(capesante, ostriche o cozze). Il raviolo domanda una farcia vera e non vi è
dubbio che i frutti di mare trovano la loro collocazione ottimale (sia culinaria
che coreografica) quando vengono sparpagliati sulla pasta fresca, anziché
esserne imprigionati all’interno.
Semmai, si potranno impiegare pesci dal gusto semplice, che giustifichino
la lavorazione in farcia come intervento utile per rinforzarne il sapore:
esempi tipici sono la trota, il nasello e il luccio. Oppure i pesci che
obbligherebbero a una spinatura laboriosa: in tal caso si risparmiano al
commensale le fatiche della pulizia. Per esempio la razza, la cui struttura
ossea particolare costringe a separarne le carni dalle cartilagini solo a cottura
avvenuta, può venir invece comodamente porzionata da cruda a misura di
raviolo, senza che ne venga lacerata la polpa, cucinandola all’interno
dell’involucro di pasta come avverrebbe nelle cotture a chiusura ermetica, in
cartoccio o in vescica.

Zuppe, minestre, pappe e brodini

Delle infinite zuppe e minestre di cui trabocca la tradizione regionale italiana,


quante saprebbero intonarsi al gusto e allo stile della cucina contemporanea?
Ovvero, come conciliare l’esigenza delle cotture brevi e disaccoppiate con
ciò che spesso si riduce a un guazzabuglio d’ingredienti e di sapori?

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Capostipite di queste polifonie mal riuscite fu senza dubbio il venerando
minestrone di verdure, in cui ogni ingrediente finisce col saper di tutt’altro
fuorché di se stesso. Ebbene, è forse concepibile una sua qualche versione
dirozzata, che sappia solleticare le voglie dei palati fini. Vediamo: oltre alla
precisione nella scelta e nel dosaggio degli ingredienti (in modo che i diversi
gusti concertino infine un armonioso insieme), occorrerebbe avere la
pazienza di cuocere le verdure in acque separate, ciascuna per proprio conto
e per il tempo strettamente necessario. Alla fine si potrebbero riunire in un
brodo aromatizzato da erbe odorose che facesse da legante: forse, varrebbe
davvero la pena di tentare. In ogni caso, altre sono le minestre che recano da
sempre il perentorio suggello dell’eleganza.
Tra queste, citerei sicuramente quelle «monotematiche» come le creme
(per esempio d’asparagi o di porri, ed eventualmente anche fredde, di
pomodoro o cetrioli). In questo caso c’è un solo gusto dominante, che le
altre componenti aromatiche assecondano e arricchiscono.
Ci sono poi i brodi guarniti, cioè le zuppe propriamente dette. Qui un
ingrediente solido trova nell’elemento liquido (che è di solito un consommé
chiarificato) il proprio compimento aromatico, esattamente come se
l’accogliesse una salsa. Ecco qualche esempio concreto.
La zuppa di finocchi e branzino propone il connubio tra ingredienti
tradizionalmente apparentati (i rametti di finocchio vengono usati per
arrostire il branzino sulla brace): perché conservi consistenza e sapore, la
polpa del pesce è cruda e viene soltanto scottata dalla zuppa di finocchi che
le viene versata sopra bollente.
Mi piace servire anche una zuppa di rane, riso e crescione, elementi legati
da un’affinità naturale (condividono lo stesso habitat). Spolpate le rane, con
le ossa si prepara un brodo; a parte si fanno bollire il riso e sbollentare le
foglie di crescione. La polpa delle rane viene frattanto saltata nel burro in
padella con una punta di scalogno tritato. Solo alla fine i vari ingredienti
verranno riuniti al centro del piatto, versandovi sopra un mestolo di brodo.
Per preparare invece una zuppa di funghi (per esempio porcini), si
procederà analogamente: chiarifico un buon brodo di carne con albumi
d’uovo e scarti dei funghi ricavati dalla loro mondatura, in modo da
rinforzare il gusto; a parte, faccio saltare i funghi nel burro in padella e li
aggiungo alla zuppa soltanto alla fine, decorando con un pizzico di

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prezzemolo tritato.
Restano da citare quelle che sono l’inimitabile ouverture delle cene
festive, vale a dire le minestre fredde.
L’abbassamento della temperatura di servizio influisce sulla percezione del
gusto, portato a ricercare istintivamente la massima leggerezza e delicatezza
dei sapori. In una zuppa fredda, infatti, il palato non sopporta l’untuosità in
eccesso, né tanto meno i grassi cotti e successivamente raffreddati: è dunque
consigliabile condire a crudo e in ogni caso con ragionata parsimonia. Da
evitare sono poi le minestre troppo gravose che, una volta raffreddate
diverrebbero ancor meno digeribili, riuscendo di conseguenza poco
gradevoli.
Anche una banale pasta e fagioli, solo che sia eseguita con un minimo di
garbo, rivela – a dispetto delle sue origini rusticane, una sorprendente
gentilezza di gusto. È sufficiente lessare i fagioli freschi in acqua salata con
un pezzetto di lardo e gli odori, farli raffreddare, frullarli e diluirli con una
parte dell’acqua di cottura. Con questa crema si condisce una pasta fredda,
aggiungendo un filo d’olio d’oliva, qualche tenera foglia di sedano e del
pepe nero macinato al momento.
Anche le creme di verdura giungono graditissime al palato. Leggere e
semplici, come il gazpacho andaluso, classica zuppa di verdure crude,
preparata tritando a cubetti minuti peperoni spellati, cetrioli, cipolle e un po’
di polpa di pomodoro. Si diluisce con passata di pomodoro crudo e acqua
ghiacciata, si aggiungono olio e aceto e si lascia marinare la zuppa in
frigorifero, profumando, se vi piace, con qualche spicchio d’aglio che verrà
eliminato al momento di servire.
Delicata e sommamente rinfrescante è pure la crema di cetrioli.
L’esecuzione è elementare: basta sbollentare dei cetrioli sbucciati
(un’operazione che potrete anche evitare; scottati, però, i cetrioli guadagnano
dolcezza), liberarli dei semi, lasciarli raffreddare e frullarli finemente. Si
diluisce la purea con yogurt oppure con panna acidulata con un goccio di
limone, sale e pepe, guarnendo con foglioline di menta.
Anche da un passato di peperoni si ottiene un’eccellente minestra fredda.
Preparate una peperonata leggera facendo stufare i peperoni con cipolla e
pomodoro. Al termine della cottura frullate le verdure e passatele attraverso
un setaccio fine che le separerà dalla buccia poco digeribile (se la crema

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riesce troppo spessa, si potrà diluire con brodo o panna liquida). La crema di
peperoni può essere servita da sola, decorata semplicemente con una foglia
di basilico, oppure arricchita con code di gamberi o altri crostacei lessati o
cucinati al vapore.
Un’altra arciclassica e intramontabile zuppa fredda, o meglio ghiacciata, è
la vichyssoise. Si fanno stufare dolcemente porri e patate, si lascia
raffreddare e si frulla finemente. Al momento di servire si diluisce con un
po’ di panna fresca guarnendo con erba cipollina tagliata a tronchetti, che
renderà il piatto più vivace e invitante, alla vista come al palato. Volendo, si
potrà ulteriormente impreziosire sparpagliando dei tartufi neri tagliati a
bastoncino e aromatizzando la zuppa con un cucchiaino della loro acqua di
governo.

L’autentico fegato alla veneziana

Al pari delle frattaglie, anche il fegato di vitello può esprimere appieno le sue
attrattive gastronomiche solo se consumato di prima freschezza. Da che cosa
possiamo riconoscerla?
Il fegato fresco è turgido ed elastico (premendovi sopra un dito, questo
non lascia nessun’impronta), ha un colore rosato che tende al nocciola, si
presenta lucido alla vista ed è completamente inodore. Col passar del tempo
il colore volge al rosso mattone, il tessuto perde elasticità, la carne diventa
opaca e il fegato si carica di odori sgradevoli.
Speciale attenzione si dovrà prestare anche alla consistenza della carne,
che non dovrà essere troppo nervosa: un indizio, questo, del cattivo
allevamento a cui è stato sottoposto il vitello.
Una volta che gli sia stata strappata di dosso la pellicina superficiale che lo
riveste, il fegato è pronto all’uso. Oltre alle classiche preparazioni in
scaloppe, ne sono possibili infinite altre. Si potrà per esempio cucinare in
forno il fegato intero, dopo averlo rosolato per bene da tutte le parti e
procedendo come se si trattasse di un comune arrosto di carne: irrorato
costantemente col grasso di cottura, una volta cotto il pezzo andrà fatto
riposare al caldo, in modo da far rifluire il sangue dall’interno verso
l’esterno e avere così fette uniformemente rosate, come conviene a ogni
fegato che si rispetti.

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Sempre tenuto rosa all’interno (un fegato troppo cotto riesce
inevitabilmente asciutto e tiglioso), potrà anche venir lessato (mantenendo la
temperatura dell’acqua costantemente al di sotto del grado d’ebollizione)
oppure cucinato al vapore.
La più popolare delle sue preparazioni resta tuttavia il classico fegato alla
veneziana con cipolle. Devo premettere al riguardo che la «vera»
preparazione di una pietanza per me non è la ricetta riportata sulle pagine
sdrucite di un antico manuale, bensì quell’interpretazione che, sfruttando al
meglio le risorse tecniche di una cucina sempre più perfezionata, è in grado
di far risaltare appieno la schietta attrattiva dei sapori in gioco. Così,
l’«autentico» fegato alla veneziana a mio modo di vedere è quello che evita
che i due ingredienti primari s’impregnino uno degli umori dell’altro, in
modo che ciascuno di loro possa apportare al piatto il proprio nitido
contributo aromatico, con il fegato che sappia di fegato, la cipolla di cipolla.
Per tenere i sapori puliti e distinti occorrerà pertanto cuocere fegato e cipolla
separatamente. Così facendo si potranno anche adottare tecniche e tempi di
cottura differenti, in modo da rispettare le diverse caratteristiche degli
ingredienti.
Il fegato, tagliato in scaloppine di uguale spessore, salato e pepato, verrà
rosolato nel burro e mantenuto rosa all’interno, così da risultare morbido e
saporito. La cipolla, invece, stufata delicatamente – non rosolata – in un
guazzetto di vino bianco e di burro (che non friggendo formerà alla fine un
fondo bianco e cremoso), gli si accompagnerà morbida e candida. Nel
particolare contrappunto di sapori e di colori della piccata di fegato distesa
sul letto di cipolle fondenti si potranno così scoprire la semplicità e la grazia
dissimulate da una preparazione approssimativa.

Vizi e virtù del formaggio grana

Il formaggio grana (in special modo il suo rappresentante più illustre, il


parmigiano-reggiano) è un vanto della nostra tradizione gastronomica.
Rinomato sin dal Trecento esso è, oltre che un superbo formaggio da tavola,
il formaggio da grattugiare per antonomasia. La sua pasta granulosa, che gli
dà il nome, ha infatti la peculiarità altamente apprezzabile di non «filare»
sciogliendosi. Tuttavia, il peggior servigio che possiamo rendere a questa
nostra gloria nazionale è di farne un uso indiscriminato. Innanzitutto è bene

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ricordare che l’abuso provoca assuefazione: così un piatto di tagliatelle
fresche condite con burro e parmigiano che, nella sua semplicità, resta per
me straordinario, finisce col sembrare un ripiego, in mancanza di qualcosa di
più stuzzicante. In secondo luogo dosi esagerate mascherano i sapori che il
formaggio dovrebbe invece completare. Per rendersene conto basterà
condire una pasta con un buon ragoût di carne o mantecare un risotto di
verdure astenendosi, per una volta, dall’aggiungere l’immancabile
parmigiano: si riscopriranno sapori dimenticati. In generale il formaggio
grana, proprio per il suo gusto così pronunziato, non s’intona con i
condimenti a base di verdura (benché alcuni casi facciano eccezione: per
esempio una salsa di pomodoro di cottura prolungata e legata alla fine con il
burro). Devo aggiungere che con i piatti a base di pesce e di funghi il grana
fa a pugni?

Il bon ton del caviale

Il cerimoniale di degustazione assimila il caviale alle ostriche. Nei due casi,


infatti, identica è la temperatura di servizio (ostriche e caviale vanno
entrambi consumati freddi), identici i gesti (scoperchiati la conchiglia o il
barattolo, non si interviene ulteriormente sull’alimento se non per spruzzargli
sopra qualche goccia di limone), identiche le precauzioni: infatti, proprio
come le ostriche, anche il caviale perde, se cucinato, la propria originaria,
divina fragranza.
Questo è, del resto, il concetto direttivo attorno a cui ruotano le possibilità
d’impiego culinario del caviale che siano appena più elaborate del classico,
impeccabile rituale, familiare a ogni buongustaio: dall’apposita coppetta
munita d’intercapedine per ospitarvi del ghiaccio tritato, prelevare il caviale
con un cucchiaino d’osso (il metallo altera il gusto delle uova) e depositarlo
senza spalmarlo (le uova devono restare perfettamente integre) su fette
tostate di pane in cassetta.
Per il resto, occorrerà accompagnargli sempre e comunque sapori semplici
e «dolci», che non frappongano ostacoli al suo gusto elegante e risoluto, ma
sappiano in qualche modo stemperarne la componente salata. Ecco così il
caviale sui blinis (soffici frittelle di grano saraceno, avvoltolate come
fagottini e farcite con caviale e panna acidulata), oppure su una patata lessa o
cucinata sotto la cenere, condita con un filo di panna ed erba cipollina.

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Alla stessa idea corrisponde pure la mia insalata fredda di spaghetti al
caviale: scolati al dente degli spaghetti fini, li faccio raffreddare sotto l’acqua
corrente. Li condisco leggermente con un goccio d’olio d’oliva (oppure, se
si preferisce, ancora con panna acida) e li distribuisco sui piatti. Cospargo
sopra il caviale e guarnisco con una punta di scalogno tritato e un pizzico
d’erba cipollina, anch’essa tritata. Mantenendo sempre le giuste proporzioni
tra pasta e caviale (tre parti di spaghetti per una di caviale), a seconda delle
dosi questa ricetta può fungere da stuzzichino, antipasto o primo piatto.
Un’altra mia ricetta, in contraddizione solo apparente con i principi
gastronomici appena esposti, rappresenta, suppongo, la sublimazione di
questo cibo prelibato.
Nella chiarificazione del brodo, infatti, il caviale cede al liquido tutto il
suo saporito contributo, scomparendo come entità fisica per farsi eterea
essenza aromatica e conferire al consommé un gusto molto particolare (il
Sevruga, caviale dai grani minuti ma profumatissimi, è quello che meglio si
presta per questa preparazione). Qualche pescetto fritto viene servito in
accompagnamento: dal gioco delle opposizioni culinarie (solido/liquido,
povero/pregiato, materiale/immateriale) scaturisce una singolare armonia.
La costa meridionale del Mar Caspio, coi suoi fondali profondi, le correnti
continue e il clima temperato, offre allo storione un habitat ideale. La
leggenda del caviale non è nata per caso proprio in questi luoghi e gli stessi
russi, che ne sono da sempre i più voraci estimatori, hanno preferito di gran
lunga il caviale persiano a quello proveniente dalle loro coste.
Nel Mar Caspio le specie di storioni da cui si ricava il caviale sono il
Beluga, l’Asetra e il Sevruga.
Il Beluga, la varietà con gli esemplari di stazza superiore (raggiungono
fino a 4 metri di lunghezza per un peso di 1000 chili), dà un caviale dai
grandi grani di color chiaro, estremamente pregiato.
L’Asetra si presenta in una gamma di colori che vanno dal grigio scuro
all’oro. Il gusto particolare dell’Asetra, che rivela sentori di noce, rende
questa varietà di caviale molto apprezzata. L’Asetra dorato (Royal Caviar) è
in assoluto il caviale più raro e più ambito dai buongustai. Il Sevruga, dai
grani minuti di color grigio scuro, è ricercato soprattutto per il suo finissimo
aroma.
Tutte le specie vivono allo stato brado: dopo la pesca, le uova degli

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storioni vengono passate attraverso un setaccio a maglia grossa in modo da
separare le integre da quelle rotte e dai residui. Si procede quindi alla
delicata operazione della salatura.
Il caviale viene in seguito conservato in barili di legno impermeabilizzati:
quello ricavato dalla pesca primaverile resisterà sino alla stagione autunnale.
Tuttavia, dal momento in cui viene travasato nei barattoli a pareti isolanti,
se si vuol gustarlo nelle condizioni ottimali, il caviale dovrà essere
consumato entro un mese. A barattolo aperto il tempo si riduce invece a
circa una settimana.
Il Malossol (letteralmente, «poco sale») è invece il caviale pastorizzato,
che non necessita del sale come agente di conservazione. La pastorizzazione
assicura una conservazione prolungata, ma altera le qualità organolettiche
delle uova, il che rende il Malossol infinitamente meno pregiato del caviale
fresco.
Con le uova già rotte nel ventre del pesce o danneggiate in fase di
lavorazione si confeziona infine il caviale pressato, spalmabile.

Galateo gastronomico

La cucina del caviale è una cucina di allestimento più che di trasformazione,


giacché la cottura altera irrimediabilmente la meravigliosa fragranza del
caviale. Sicché, oltre al più classico dei suoi impieghi, servito su fette tostate
e imburrate di pane in cassetta, le altre ricette a base di caviale cercano
combinazioni con ingredienti che, pur relegati al rango di comprimari,
facciano risaltare al meglio le sue prerogative aromatiche. Nel far ciò si
privilegeranno i sapori semplici e dolci, capaci di riequilibrare la
componente salata del caviale: tali sono gli accoppiamenti tradizionali con il
pane non lievitato, le patate, i blinis e le uova. In accompagnamento al
caviale, in funzione sgrassante e rinfrescante, giungono graditi al palato
anche la panna acida e gli aromi gentili delle liliacee (cipollotto novello, erba
cipollina e scalogno).
Gli stessi criteri convengono pure alle meno pregiate ma altrettanto
gustose uova di salmone.
Per quanto concerne la scelta dei vini, classico è l’accostamento con lo

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Champagne. In effetti, uno Champagne millesimato, morbido e maturo,
stempera il gusto salino del caviale, mentre l’effervescenza deterge il palato
dalla patina untuosa che ricopre le uova (pure una Vodka ghiacciata, con il
suo gusto neutro e l’alto grado alcolico, può assolvere egregiamente le
medesime funzioni). Tenuto anche conto del lignaggio del vino, si può
dunque affermare che lo Champagne risulta effettivamente l’abbinamento
perfetto.
Tuttavia, se l’impatto salato e grasso del caviale è già stemperato dalla
presenza di altri ingredienti, come i blinis o la patata, sia lo Champagne sia la
Vodka risultano in genere eccessivamente impegnativi rispetto al tenore del
piatto. Si potranno allora sostituire con vini bianchi di estrema morbidezza
ed eleganza, come i grandi Borgogna o gli Chardonnay maturati in barrique.

Rituale della degustazione

La regola aurea cui attenersi nella degustazione è di evitare per quanto a


possibile il contatto del caviale col metallo. Questa è la ragione del
rivestimento interno isolante (in vetro o porcellana, mai di metallo) del
classico recipiente destinato al servizio del caviale: la cupola rovesciata
circondata da un’intercapedine adibita all’alloggiamento del ghiaccio.
Sicché, per scongiurare la benché minima alterazione del gusto e degli
aromi, si dovranno utilizzare i caratteristici cucchiaini da caviale in vetro e
porcellana, o ancor meglio i più preziosi cucchiaini di madreperla, tartaruga
o corno che assicurano al rito conviviale una componente coreografica
all’altezza della situazione.
Secondo l’antica usanza persiana, un unico cucchiaio di corno era
sufficiente per tutti i commensali. Questi non dovevano infatti portarlo
direttamente alla bocca (in tal caso si riteneva che i germi trasmessi dalla
saliva alla posata avrebbero irrimediabilmente compromesso la purezza delle
uova prima che queste potessero giungere al palato); trasportando invece il
caviale dal cucchiaio comune nell’incavo tra il pollice e l’indice, il convitato
poteva finalmente assaporarlo.

Abbinamenti vino-cibo

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L’abbinamento vino-cibo è spesso a favore del secondo. O meglio, il vino,
essendo alcolico, condiziona notevolmente le papille gustative e pertanto se
viene assunto prima del cibo, non permetterà di degustarlo. Questo per dire
che al ristorante, che dovrebbe essere il tempio del cibo, il sommelier fa
assaggiare il vino al cliente prima che il piatto sia a tavola. Inoltre dovrebbe
essere il sommelier ad assaggiarlo, proprio per evitare di portare in tavola
una bottiglia difettosa.
Ai tavoli del mio ristorante i riflettori si accendono più per il piatto che
per il bicchiere. Ma pensiamo a una degustazione di vini. Il sommelier tra un
assaggio e l’altro si delizia con manicaretti perdendosi nella loro bontà? O
piuttosto tra un vino e l’altro non mangia nulla, se non un pezzetto di pane
secco. E allora dovendo degustare cibi, non si possono inframmezzare
anziché nettari bacchici, sorsi d’acqua? Certo al ristorante non si va per
degustare, ma neanche per non mangiare. Ogni piatto che esce dalla cucina
del ristorante è il frutto di un lavoro di gruppo, è il risultato di riflessioni,
intelligenza, esperienza, intraprendenza. Il piatto è protagonista, e
rappresenta la bontà del ristorante stesso, il metro di misura per valutarlo.
Pertanto va rispettato, osservato, odorato, assaporato con attenzione. Con
questo non voglio ridimensionare l’importante ruolo che svolge il vino.
L’abbinamento correttamente eseguito permette di valorizzare il cibo così
come la bottiglia. Al tempo stesso però non bisogna impazzire a cercare
abbinamenti a tutti. Sul mio «bianco di branzino», così come sulla «zuppa di
branzino», entrambi al finocchio, propongo acqua, perché la gentilezza del
piatto non richiede vini, anche se so benissimo che questi non mancano.
Bisogna avere il coraggio anche di proporre l’acqua quando l’abbinamento
con il vino finisce per essere una forzatura.
Il cliente non sempre sceglie un vino perché ritiene sia il più adatto ad
accompagnare un piatto. Spesso, invece, si orienta su un’etichetta non solo e
non tanto in funzione del cibo, ma in base ai suoi gusti: se non ama i vini
rossi corposi sceglierà un rosso poco impegnativo anche con la selvaggina in
umido, e se ama quelli bianchi barricati li ordinerà pure con la sogliola al
vapore. L’abbinamento, in questo caso, diventa un fatto secondario. Il
ristoratore, il sommelier, possono suggerire abbinamenti più consoni, ma
non possono obbligare il cliente a fare determinate scelte. Per questo motivo
invece di cimentarsi in accostamenti difficili, che richiedono vini
impegnativi da cambiare a ogni portata e un cliente disponibile ad accettarli,

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perché non scegliere un vino da tutto pasto immediato, dignitoso, ma non
necessariamente blasonato e, pertanto, anche meno caro, come per esempio
un Bardolino, un Chianti di governo o un altro vino fresco e immediato?
Non è forse un modo per cominciare a educare il cliente verso
l’abbinamento lasciandolo a proprio agio? Quando suggerisco un vino tutto
pasto per accompagnare un menu ricco di portate, lo faccio con questo
spirito. Se il cliente apprezza cibo e vino, se acquisisce fiducia, sarà sempre
più propenso a provare nuovi accostamenti, magari più impegnativi, ma
gradualmente, senza forzature. Il ristorante, in altre parole è un momento di
piacere; può educare il gusto, ma non deve essere una scuola, anche perché a
scuola non tutti vanno volentieri. Vorrei che la gente andasse al ristorante per
ritrovare in ogni boccone il sapore originario dell’ingrediente che ha dato
vita al piatto. Solo così potrà meglio capire il vino quale importante
compagno del cibo. E imparerà ad apprezzarlo.
Citiamo pure Béla Bartók, «l’improvvisazione presuppone la conoscenza
della materia». La conoscenza della materia richiede una predisposizione
naturale, anche se, come dice mia figlia Paola, la sua parte esterna
rappresenta fedelmente la parte interna. Se si prende in mano un pezzo di
granito, tutto quello che si vede fuori è l’espressione di quello che c’è
dentro. Se si prende un legno di un certo tipo, quello che ci appare è il
contenuto. Se si sa leggere queste apparenze esterne, si può scoprire cosa c’è
dentro. Brillat-Savarin, e forse qualcun altro prima di lui, diceva che bisogna
ridare alle cose il valore che hanno.
Ed è il mio stesso parere al proposito, perché trovo sempre troppa
artificialità nella nostra vita di oggi, vissuta sovente in modo del tutto
impersonale, malgrado gli stimolanti messaggi culturali presenti nell’attuale
società italiana, creati dalla presenza di tante genti, di ogni Paese, che
trasmettono segnali espliciti delle loro antiche dottrine e profonde culture,
che dovremmo non solo rispettare, ma intelligentemente considerarle per la
possibilità di acquisirle, come materia di riflessione e arricchimento della
nostra cultura e della nostra personalità.
I giapponesi, ad esempio, esprimono un’ingenua, istintiva purezza nel
culto della materia che trattano; e la sanno veramente trattare in maniera
eccelsa con consumata, elegante gestualità. Io li definisco dei puri
materialisti.
È il valore che io do alla materia nelle sue infinite manifestazioni, che mi

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ha sempre spinto a cercare in ogni suo aspetto, il suo significato vero. La
ricerca dell’abbinamento cibo-vino tramite l’accordo tra l’intensità dei colori
del cibo e del vino, dà risultati e verifiche sorprendenti.
Amo inoltre portare la bottiglia alla giusta temperatura, tenendola
nell’ambiente, se è troppo fredda e raffreddandola se è troppo calda, per poi
portarla in tavola in una glacette.
Tornando al bianco di branzino, è possibile che io voglia cucinarlo
accompagnato con una salsa al vino rosso, il che va benissimo, perché se
sono lontano dal mare non ho i sapori salmastri dell’aria di mare. Qui la
presenza della salsa gioca già la parte del vino nell’abbinamento-contrasto
con il pesce, per cui, cercando di accompagnarlo con un altro vino, otterrei
probabilmente un conflitto tra due vini, quello nella salsa e l’altro nel
bicchiere. Se, malgrado tutto, volessi comunque decidere di bere del vino,
dovrei riferirmi, nella ricerca, al sapore deciso della salsa, che è la
componente dal gusto più rilevante in quel piatto: drasticamente, o la salsa o
il vino.
Il branzino, nel caso esaminato, costituisce simbolicamente la materia, il
prodotto vero, ed è quindi in accordo con la sua materia vera, che si usi o
meno un vino, e creare così volutamente una simbiosi o un contrasto.
Altre considerazioni, per rimanere in tema, nascono analizzando ancora il
destino del povero branzino. Come cucineremmo un branzino in una città di
mare? Sicuramente non con la salsa al vino. Mi stupii, infatti, quando, in
quel di Borgogna, vidi il grande Alain Chappelle preparare un’orata con la
salsa al vino rosso. Ne fui letteralmente scandalizzato, perché non ero ancora
preparato a queste evoluzioni gastronomiche, ma Alain abitava da sempre in
Borgogna e a lui mancava totalmente la sensazione fisica della presenza del
mare. L’assenza di questa condizione e l’immersione nel microclima del suo
Paese, gli imponevano la scelta di questo tipo di cucina da lui «sentita»,
amata, e creata. Al mare sarebbe stato del tutto logico se quell’orata fosse
stata trattata in guazzetto con salmoriglio, prezzemolo, limone e olio, ma
anche la salsa che preparava, veniva distribuita sul pesce saggiamente, come
una semplice pioggerellina e non certamente come un temporale. Il valore
del gioco stava, naturalmente, nella realizzazione di un ragionevole contrasto
e non nella distruzione di uno dei due elementi.

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Le bevande, i bicchieri

Per i vini il bicchiere ideale è un calice trasparente, privo di sfaccettature, di


spigoli, di fregi e d’incisioni. Il colore altera infatti, oltre alla percezione
cromatica, anche quella gustativa, e lo stesso si dica per i motivi ornamentali:
meno il bicchiere è lavorato, più il vino giungerà sincero al palato.
L’impugnatura distanziata dalla coppa evita alterazioni di temperatura e di
aroma dovute al calore e agli odori (tabacco, profumo, sapone) trasmessi
dall’epidermide.
Per i vini importanti è d’obbligo il cristallo: la trasparenza e la lucentezza
consentono di cogliere fedelmente i colori e le loro sfumature. D’altra parte
lo spessore sottile comunica alla bocca una sensazione di finezza che,
preludendo all’assaggio del vino, deve intonarsi alla sua eleganza.
Lasciando da parte il bicchiere da degustazione (a forma di pera troncata
con imboccatura stretta per raccogliere i profumi e centellinare il liquido,
uno strumento «professionale» che sarebbe fuor di posto sulla tavola
imbandita), per ogni vino esiste una forma d’elezione che, adattandosi alla
sua «taglia» specifica, gli consente d’esprimere al meglio le sue qualità
organolettiche. Spesso si tratta di differenze sottili, ma tanto meno
trascurabili quanto più i vini sono preziosi.
Per esempio i grandi vini di Borgogna, di alta gradazione, fruttati, con
avvolgenti profumi di sottobosco, hanno necessariamente bisogno di un
grande bicchiere: ben panciuto, con superficie ampia e bocca che si
restringe, una volta riempito al livello della sua massima ampiezza e roteato,
libererà al proprio interno, raccolti come in uno scrigno, tutti gli inebrianti
profumi del vino.
Ai grandi Bordeaux, vini di gradazione inferiore, più eleganti e dai fini
profumi, converranno invece bicchieri meno ampi che, se ancora si
restringono leggermente all’imboccatura, si elevano più decisi in altezza per
meglio convogliare gli effluvi profumati del vino.
In generale più il vino è ampio e importante, maggiore sarà la superficie
necessaria a far risaltare profumi e aromi. Viceversa, un vino non troppo
impegnativo, dai toni gentili e delicati (per esempio un bianco dai profumi
sottili e penetranti) in un grande bicchiere si perderebbe: per coglierne
appieno gli aromi, più discreti e raccolti di quelli di un grande vino, verrà

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più opportunamente mesciuto in piccoli bicchieri, preferibilmente a stelo
lungo se il vino va servito freddo.
Lo Champagne va invece bevuto in una flûte: il suo profilo affusolato e il
fondo a forma di cuspide la rendono il bicchiere più idoneo a raccogliere i
profumi sottili ed eleganti dello Champagne e ad animarne la fontanella di
bollicine in tutta la sua vivacità. Inadatta invece la coppa, che disperde i
profumi e non favorisce lo svilupparsi del perlage: andrà piuttosto usata per
vini bianchi di elevato tenore aromatico, come un moscato spumante.
Ai vini dolci da fine pasto si addicono o il bicchiere da sherry o, più
elegante e ricercato, il bicchiere «alsaziano» dal lungo stelo e dalla coppa
minuta e raccolta.
Per servire l’acqua invece, a un grande calice è senza dubbio preferibile il
tumbler, classico bicchiere cilindrico senza piede e a fondo piatto, che
«stacca» visivamente rispetto a tutti gli altri, in modo da sottolineare la
differente funzione della bevanda che accoglie (l’acqua, infatti, non va
degustata ma serve semplicemente a dissetare e a detergere il palato).
Infine, per bere liquori, distillati e aperitivi evitando di ricorrere a forme
bizzarre di enigmatico impiego, ecco un equipaggiamento più che completo:
1. calice a forma di tulipano con imboccatura che si restringe e fondo
appuntito per aperitivi (vini e Champagne compresi);
2. bicchierino da liquore dolce (necessariamente piccolo perché il liquore
va servito a piccole dosi);
3. ballon (per Cognac, Bas Armagnac, Calvados e altri grandi distillati da
invecchiamento);
4. copita da Sherry (o analogo bicchiere meno affusolato) per vini
liquorosi e dolci, come Sherry, Porto, Madera, Marsala, vermouth;
5. bicchiere a calice conico con stelo più o meno lungo per cocktail;
6. tumbler basso per whisky;
7. tumbler alto per acqua, bibite e cocktail allungati;
8. grande calice per long-drinks.

Non stappiamoli soltanto per brindare

177
Benché non presentino, a differenza dei vini, una vera e propria diversità di
sapori, gli Champagne compongono una variegata gamma di sfumature che,
pur essendo variazioni su un unico tema, esigono giudiziosi accoppiamenti
coi cibi. Anzi, a voler essere ricercati, se ne potrebbe determinare persino un
ideale successione che accompagni un menu completo (senza la pretesa,
beninteso, di esser rigorosi negli abbinamenti come se avessimo a
disposizione l’intero assortimento dei vini rossi, rosati e bianchi).
In questo elenco riservo un posto a parte allo Champagne che prediligo, il
Crémant: a bassa pressione (3,5 atmosfere al posto delle usuali 6) è lo
Champagne «sottile» per eccellenza che, non gonfiando lo stomaco, regge
meglio d’ogni altro la durata di un intero pranzo.
Per quanto riguarda gli altri Champagne, quelli «non dosati», molto
secchi, sono eccellenti aperitivi e si prestano magnificamente
all’accompagnamento dei frutti di mare crudi. Gli Champagne ottenuti da
uve bianche (blancs de blancs) si sposano bene con i pesci e le minestre,
mentre quelli della Vallée de la Marne, ottenuti da uve rosse e bianche e
vinificati in bianco, sono più adatti ai pesci accompagnati da salse
impegnative e alle carni bianche. Più strutturati, gli Champagne della
Montagna di Reims (ottenuti vinificando in bianco uve rosse), potranno
accompagnare carni rosse, purché cotte in modo semplice e servite senza
salse. Arriviamo in questa sequenza in crescendo, a un grande rosé d’annata
millesimato, che potrà esser bevuto con soddisfazione su carni rosse
importanti (un filetto di manzo alla bordolese, per esempio), sui formaggi e
persino sulla selvaggina. Eccoci così giunti a fine pasto, il momento a cui
solitamente si riserva il consumo dello Champagne: in verità il solo demi-
sec, immeritatamente e troppo spesso sottovalutato, si addice ai dolci e alla
pasticceria.

Calici o ciotole?

Quando si parla di vini non si mette in discussione che il calice debba essere
di cristallo, o al limite di vetro, ma in ogni caso incolore. Solo in questo
modo, infatti, si ritiene che si possano ammirare al meglio i riflessi del vino
che ospita. Per coglierne tutte le sfumature, però, non si deve guardare il
vino frapponendolo a una fonte di luce, quanto piuttosto osservarlo davanti
a un foglio bianco. Come dire che forse la luminosità che lascia trasparire il

178
cristallo o il vetro non permettono di cogliere compiutamente il vino. Ciò
perché non è vero che la luce possa permettere di vedere meglio gli oggetti, i
particolari che ci circondano. Anzi, un suo eccesso abbaglia provocando una
momentanea cecità, come il buio più profondo. Apprezziamo tutto ciò che
luccica così da preferire lo scintillante colore dell’argenteria nuova a quella
vissuta, che è nobilmente brunita dal tempo. Guardando un calice di vino mi
accorgo che se lo proteggo dalla luce, posso cogliere sfumature inaspettate.
Il sommelier sa che nel suo taste-vin il vino si dichiara, esprime tutte le sue
sfumature, mostra la propria consistenza. Anche al buio della cantina, là
dove un calice, in assenza di luce, diventa cieco. Proprio per «vedere» la
consistenza, l’esprit del vino, le sfumature cromatiche, ho voluto realizzare
calici di porcellana che non si lasciano infilzare dalla luce, quando piuttosto
l’assorbono per poterla poi restituire allo sguardo riflettendola attraverso il
vino così da illuminarlo, ma in modo pacato, senza cioè che l’occhio si
offenda.

Temperature e glacette

Ancora un confronto tra cibo e vino. Si chieda a un sommelier a che


temperatura si serve il vino e questi per ogni varietà proporrà una
temperatura esatta, neppure arrotondata, ossia 8 °C, non 10, 14 non 15. E i
cibi? A che temperatura servirli? In questo caso ci si limita a distinguere tra il
caldo e il freddo. Dovremmo essere più precisi perché la temperatura
dell’ostrica, che si serve fredda, non è la stessa del roast-beef all’inglese, che
si consuma «meno» freddo. La temperatura svolge un ruolo fondamentale
per poter apprezzare un cibo. La bassa temperatura permette di meglio
sentire i sapori di una vivanda, mentre il calore ruba spazio al sapore e
influisce sull’olfatto in quanto la temperatura elevata evidenzia gli odori.
Pertanto la corretta temperatura di servizio si stabilisce in base alla natura del
cibo, della salsa che lo accompagna, del tipo di cottura cui è stato sottoposto.
Perché è importante approfondire il rapporto tra sapori che giungono in
bocca e profumi che colpiscono l’olfatto e che quindi portano a diverse
valutazioni del gusto del cibo.
La temperatura, quindi, agisce con determinatezza per accentuare o
soffocare i sapori, esaltati (o mutati) da una temperatura troppo alta, ed
esclusi (o raffinati) da una temperatura troppo bassa. Stavo per aggiungere

179
che essendo che in medio stat virtus sembrerebbe congeniale con i risultati
di questa disanima che il meglio è servire una cucina «tiepida» o solo un
pochino più che tiepida per difendere i gusti e i sapori di ogni piatto.
Venendo al vino, per quanto teoricamente le temperature di servizio esitano,
i vini in Italia vengono serviti o troppo caldi, i rossi, o troppo freddi i
bianchi. Le etichette delle bottiglie riportano spesso le indicazioni circa la
temperatura ottimale alla quale debbono essere serviti, ma queste indicazioni
vengono disattese. D’altro canto, anche se la bottiglia viene portata al tavolo
alla temperatura giusta, lentamente il suo contenuto assume la stessa
dell’ambiente.
Dato che non è possibile aumentare la temperatura del vino, se la bottiglia
è più fredda di quanto debba, si può solamente attendere il raggiungimento
della temperatura ambiente; se invece si vuole abbassare la temperatura, si
può operare solo con un raffreddamento, per cui l’unica possibilità che oggi
si offre per tale operazione è il secchiello del ghiaccio; con tutti i problemi
inerenti al fatto che la bottiglia, lasciata immersa nel ghiaccio, subisce un
continuo maltrattamento termico dato dal raffreddamento in un primo tempo
e un successivo riscaldamento a ghiaccio sciolto. Se il fenomeno, in inverno,
si esaurisce in tempi brevi, si pensi quanto è accelerato in estate. Una
soluzione ci sarebbe, se non infrangesse delle regole estetiche, e sarebbe
l’uso della glacette, esteticamente, appunto, poco entusiasmante e difficile
da posizionare al tavolo. A meno di ritornare ai supporti classici del vecchio
secchiello, posato su un supporto accanto al tavolo, oppure fissato
direttamente al tavolo con un gancio meccanico, stabile grazie al peso del
secchiello e della glacette quando la bottiglia è inserita. La glacette, anche
con la bottiglia, è leggera. Sarebbe preferibile, tra le due soluzioni, la più
elegante, il supporto a piede, purché la base fosse sufficientemente pesante
da spostare più in basso possibile il baricentro dell’oggetto piede-bottiglia
glacette ed evitare rovinosi rovesciamenti.
Perché, quindi, la glacette? Se la bottiglia è servita alla temperatura giusta,
il riscaldamento dal momento che è inserita nella glacette è talmente lento da
non essere praticamente avvertito nel tempo del pranzo, risparmiando così
sofferenze al vino.

Cucina e sala

180
Chi ha mai pensato di fare una zuppa di pesce come viene servita nel mio
ristorante? Del pesce crudo, leggermente salato viene adagiato in una culla
cilindrica fatta di sottilissima pasta-fillo a due strati. Si chiude l’apertura
inserendo un tubicino perché l’interno possa respirare e si mette in forno per
cinque o sei minuti, in modo che la pasta diventi croccante. Nel contempo si
sarà preparata la zuppa utilizzando le carcasse di tutti i pesci. Si porta in
tavola il piatto fondo, sul quale si sarà adagiata la «culla» di pasta-fillo
contenente i pesci, si toglie il tubicino e si versa la zuppa calda nell’apertura.
Andrà mangiata subito, per apprezzarne la gradevole commistione della
pasta croccante con la zuppa e il pesce. La gestualità nel servire questo piatto
ha una funzione «spettacolare», che dimostra l’importanza dell’affiatamento
tra sala e cucina, costituendo l’anello di congiunzione tra le due. Un buon
piatto ha sempre bisogno di una buona presentazione per essere apprezzato
interamente.
Per raggiungere buoni risultati è dunque necessario insegnare l’importanza
della collaborazione tra cuoco e maître, perché il loro lavoro sia esaltato
quando giunge in sala. Ogni piccolissimo particolare va precisato e ben
spiegato a entrambi, in modo che non si verifichi la purché minima
disattenzione. Come si usava nei ristoranti di un tempo, quando si tranciava,
in sala l’attenzione degli ospiti era vivissima e la gestualità del maître era
giudicata l’espressione massima dell’accordo tra le due colonne della
gastronomia: la sala e la cucina.
Tutti i miei piatti «storici» hanno almeno venticinque anni e se ne parla
come fossero stati inventati ieri, ma da almeno cinquant’anni uso prodotti
allora praticamente sconosciuti in Italia, come ad esempio il riso «Patna» che
importavo direttamente dalla Svizzera per il pilaw e l’insalata, e il «Carolina»
che ho curiosamente ritrovato in Spagna qualche anno fa. Erano prodotti
sconosciuti, e io ho potuto reperirli grazie a uno chef, si chiamava Salice;
aveva lavorato lungamente in Giamaica e aveva affrontato un mercato
completamente diverso dal nostro. Con lui reinventai il «pollo alla Kiev»,
ossia farcito di foie gras e fritto, che raccolse un enorme successo e fu
tenuto in menu per anni.
Chi non l’apprezzò molto furono i clienti russi, abituati a una cucina più
ricca di grassi, più pesante, suggerita dal clima freddo del loro Paese. Mentre
io adagiavo il pollo, servito in un cestino, su un cuscino di patate fritte, in
Russia lo accompagnavano alla frutta, per creare un maggior contrasto,

181
richiesto dalla maggior «forza» dei condimenti usati. Malgrado tutto, però,
ogni volta che venivano a Milano passavano a gustare il celebre pollo, come
loro dicevano, «alla Marchesi». Spiegai che dovevano immedesimarsi nella
impossibilità di mangiare in Italia alla maniera russa esattamente come noi
italiani non avremmo potuto mangiare correttamente all’italiana quando
fossimo stati a Mosca.
A questo proposito dobbiamo dunque considerare che anche la nostra
cucina subisce contaminazioni dalle altre cucine dovendo adeguarsi al gusto
dei consumatori che cambia, influenzato dalle esperienze vissute in altri
Paesi durante le vacanze o nei viaggi d’affari. Cambia così il gusto della
clientela e per non perderla occorre interpretare le nuove tendenze, senza
rinunciare ai nostri principi, trovare nuove soluzioni intelligenti. In fondo
non è altro che un fenomeno di costume e se influenzerà positivamente la
nostra vita… ben venga.

La cucina della mamma

Diverso è invece l’approccio con il cliente che vuole confrontare il piatto che
ha ordinato con lo stesso che mangiava ai tempi in cui la mamma cucinava.
La mente umana, si sa, deforma ogni cosa, uniformandosi non solo alla
situazione realmente avvenuta, ma anche a quella che inconsciamente
avrebbe voluto che fosse accaduta. Da queste premesse nasce un’obiettiva
impossibilità a trovare l’esatta «copia» del ricordo. Lo stesso piatto che gli si
offre ora può essere anche meglio eseguito, più aderente alla ricetta
originale, ma, se alla fine «non piace», non c’è nulla da fare.
Nella degustazione di ogni piatto si dovrebbe dimenticare il proprio gusto
e giudicare solo in funzione dei sapori che formano l’oggetto della
degustazione stessa. Ma il gusto, al momento che ci si accinge a consumare il
cibo, sovrasta ogni altra sensazione e determina il giudizio soggettivo sulla
«bontà» o meno di quanto si sta mangiando. All’irriducibile cliente non resta
altra naturale soluzione che quella di cercare il ristorante il cui stile in cucina
si approssimi di più al suo gusto personale.
La differenza tra i ricordi gastronomici e l’attualità è esasperata anche dalla
mutazione lenta ma continua della cucina, influenzata da quelle di altri Paesi,
dalla mutazione dei prodotti dovuta al sistema di distribuzione, e pure dagli

182
attrezzi usati, evoluti tecnicamente. Si pensi solo al forno a microonde,
all’abbattitore di temperatura, all’uso dell’azoto nella trasformazione del cibo
per comprendere come possono essere diversi i sapori degli alimenti cucinati
oggi, se confrontati con quelli di cinquant’anni fa.
Collateralmente a questi cambiamenti in cucina, anche i clienti oggi sono
cambiati e di riflesso anche i maître in sala. Il discorso è aggrovigliato
perché il risultato è frutto di influenze intrecciatesi tra loro. Un tempo il
cliente che ricercava una gastronomia raffinata, frequentava i grandi
ristoranti in genere dei grandi alberghi, dove imperava una cucina classica,
ricca, pesante, presentata da maître che agivano quali sofisticati cerimonieri
e più che servitori erano psicologi da come sapevano capire le tendenze del
cliente esigente e i suoi umori. Oggi la cucina tende in genere a semplificare
e comunque è lasciata alle ore serali, a causa del cambiamento dei ritmi di
lavoro, che costringono a mezzogiorno a rapidi pasti. Un termine molto
aderente alle nuove abitudini è l’espressione che in Francia si usa per lo
spuntino: casse-croûte.

183
Conclusioni

184
Consigli ai giovani cuochi

Questi miei consigli sono diretti a quei giovani cuochi che, appassionati di
questo mestiere, desiderano raffinare le loro capacità professionali. Sono
quelli che, spronati da una forte carica interiore, vogliono saperne sempre di
più, per approfondire la conoscenza delle basi sulle quali si fonda l’alta
cucina professionale, che permetterà loro di fare meglio quello che già fanno
bene, ma vogliono soprattutto fare qualche cosa di nuovo che esprima la
loro personalità, tramite nuove invenzioni alle quali l’arte culinaria offre
infinite possibilità, a chi ha voglia di impegnarsi.
Il consiglio che do a questi futuri artisti gastronomi è di interessarsi di
ogni cosa che possa arricchire il proprio sapere. È il contenuto della nostra
memoria che ci insegna a reagire agli stimoli esterni, creandone di nuovi,
dando forma alle nostre opinioni. Ed è proprio nel periodo di
apprendimento quando dentro di noi, quasi a nostra insaputa, si sta
formando il nostro bagaglio culturale che giunge il momento nel quale
bisogna prendere l’indirizzo giusto, che nel nostro caso sarà di studiare i
sacri testi dei grandi cuochi che hanno dettato le basi della cucina e imparare
a leggere le loro ricette, sviscerarle in tutto il loro significato, discuterle,
analizzarle, per poter capire qual è il dettaglio che determina l’originalità di
una nuova idea. La ricetta che si vuol studiare va quindi letta e riletta, perché
pur riletta mille volte, ci sarà sempre qualcosa di nuovo da capire che forse
stimolerà la ricerca di un’altra via per sperimentare un nuovo modo di
realizzarla o per creare qualcosa di diverso e più raffinato.
Malgrado ciò, è pur vero che, quando si è giovani, non si sono ancora
sperimentati tutti i sapori, i profumi, i gusti che si formeranno dentro di noi
con l’esperienza e la pratica.
Ma, come nella musica, non è indispensabile che tutti siano dei buoni
compositori per fare della buona musica; bastano degli ottimi esecutori per
raggiungere risultati finali del tutto apprezzabili. È comunque essenziale che
il bagaglio delle proprie conoscenze venga costantemente arricchito dal
continuo interesse per tutto quello che è vita. L’acquisizione della cultura è
paragonabile al fiume che si forma in montagna come piccolo ruscello e
s’ingrossa per merito degli affluenti nella sua corsa verso il mare. Così la
storia, la filosofia, l’arte, la geografia e non importa quale altra fonte che
porti il suo contributo alla cultura (come gli affluenti al fiume), fa sì che la

185
nostra personalità si formi e si esprima liberamente, definendo
compiutamente il nostro modo di vivere.
Se tutto questo crea la personalità dell’individuo, è pur vero che un
grande imprinting viene dato dal territorio e dal suo microclima. Entrambi
plasmano il carattere di ognuno di noi, a seconda della posizione geografica
nella quale siamo nati. Io sono lombardo e mi nutro del microclima della
mia regione. La stessa parola «microclima», che esprime tutta una serie di
condizioni ambientali, è stata da me creata per definire con una sola
espressione un insieme metereologicamente definito che lega tra loro
temperatura, umidità, variazioni stagionali, esposizioni solari, ventosità e
quant’altro caratterizzato dalla posizione geografica del luogo. La riprova di
tutto questo è il caso, che tutti avremo sperimentato, della bottiglia di buon
vino portata a casa da una regione o una nazione lontana che, ottima
all’origine, diventa irriconoscibile quando viene aperta, lontano dal suo
territorio e in un altro microclima. Non è che il vino cambi nel breve tempo
che la bottiglia viene aperta, ma è il nostro rapporto tra il microclima del
nuovo territorio e quello del territorio dove è nato il vino, che causa in noi
una diversa percezione del suo immutato gusto.
E, ancora un consiglio: non soffermatevi a guardare la foto del piatto
pronto da mettere in tavola, per cercare di copiarlo, perché realizzereste
probabilmente la sua brutta copia. La visione vi condizionerà, mentre la
lettura attenta della ricetta originale libererà la vostra creatività e
inconsciamente vi presenterà mille altre varianti, se vi sarete fidati della
vostra immaginazione. Imparare non è una rete nella quale impigliarsi, ma è
l’apprendimento del meccanismo interiore che libera la fantasia, scatena le
idee, crea le novità e mette a disposizione il patrimonio che avrete
accumulato leggendo e riflettendo, concretizzando così l’espressione delle
vostre maturate capacità.
Amo paragonare questo modo di affrontare il mondo delle ricette, a
quanto accade assistendo a uno spettacolo televisivo o ascoltando un
programma radiofonico. Nel primo caso, lo spettacolo, l’immagine in
movimento si accaparra totalmente l’attenzione dello spettatore; l’ambiente è
lì da vedere, gli attori, con le loro espressioni, pure, il movimento, l’azione,
non lasciano alcuno spazio all’immaginazione. Non c’è nulla da immaginare,
è tutto lì. Altra cosa è la radio. Sull’onda delle parole, delle voci, della
bravura del lettore che interpreta il testo, si liberano le ali della fantasia, ed

186
ecco che nella mente si affollano visioni suggerite dalla propria
immaginazione, costruite inconsciamente da quelle vissute nella vita reale,
selezionate a costituire un insieme di visioni esclusive che ci appartengono
gelosamente.
È così che l’artista tradurrà queste visioni virtuali nelle sue opere ed è così
che nella mente del giovane cuoco nascerà la ricetta «aurea», di cui andrà
fiero.

Passaggio del testimone

Spesso mi soffermo a considerare che nel nostro Paese (non conosco che
superficialmente la situazione nelle altre nazioni), manca totalmente il
«passaggio del testimone» dalle generazioni più anziane di cuochi a quelle
dei giovani. Inoltre abbiamo investito insegnanti non ancora preparati,
ventenni o quasi, alla formazione professionale delle nuove legioni di
aspiranti cuochi. Cosa può saperne di cucina chi non possiede l’esperienza
che i veri Maestri hanno acquisito, a costo di sacrifici e buona volontà, in
lunghi anni di lavoro passati sui fornelli?
Chi è riuscito a emergere è solo chi ha potuto lavorare costruttivamente
nella «bottega» di uno o più maestri di grande, provata esperienza e totale
padronanza del sapere in cucina. La dimostrazione di tutto ciò sta nella
considerazione che la sottile compagine dei cuochi oggi emergenti, ha
formato la sua esperienza lavorando nel mio ristorante come in quelli
condotti da altri miei colleghi di chiara fama, accumulando e arricchendo
così la propria cultura di preziose nozioni pratiche apprese direttamente sul
campo di lavoro.
Solo così, «girando» in varie cucine dove si rispetta l’alta qualità del
«prodotto», hanno potuto conseguire, essi stessi, un alto grado di esperienze
e divenire i nuovi simboli di una cucina moderna e inventiva. Alla ricerca
della qualità, è il cuoco che deve insegnare al cliente come si mangia.
In Francia, probabilmente, la situazione è un po’ migliore da questo punto
di vista, perché la loro cultura del cibo si è saldamente formata per opera dei
più famosi cuochi che nei grandi alberghi francesi, professavano, quasi
religiosamente, la grande cucina classica.
La professionalità si formava, e tuttora si forma, fondamentalmente in

187
questi ambienti ricchi di esperienza, indipendentemente dal genere di cucina
seguito, ma sempre in regime di altissima qualità. È da lì che poi si separa
chi, sicuro ormai delle proprie capacità e forte delle esperienze maturate,
prova la strada dell’indipendenza, e apre il suo ristorante per esprimere il
suo stile personale.
La nuova generazione di grandi cuochi francesi si è dunque formata alla
scuola dei grandi alberghi, ma molti di loro erano nati in una famiglia già
dedita alla ristorazione: come nel caso di Paul Bocuse che ripercorre l’attività
del papà e dello zio; i fratelli Troisgros, anch’essi continuatori di zio e papà.
Ed è proprio questa famiglia che amo portare come esempio di continuità
nella tradizione, modernizzando senza soste la sua attività. Michel, figlio di
Pierre Troisgros, ha saputo assimilare la grande esperienza di suo padre e
dello zio Jean, che già portavano naturalmente dentro di loro tutta l’arte
appresa, a loro volta, dall’anziano capostipite, per formare la base che gli ha
permesso di evolvere magistralmente una cucina già perfetta. Anche il locale
del ristorante è stato più volte ammodernato da Michel, come avevano già
fatto i famigliari che l’avevano preceduto, per adeguarlo alle esigenze del
momento, in eterno mutamento.
Ma in cucina si è dedicato a seguire la grande tradizione, che porta dietro
di sé, scegliendo soluzioni che non siano in contrasto con la tradizione, ma
che siano adatte al ritmo della vita moderna, come diceva Escoffier nel 1902.
Da noi non ci sono state molte storie analoghe. I migliori sono sovente
autodidatti, perché non esiste in Italia una scuola «Top» per formare i più
bravi. I «più bravi» restano così i soli «più bravi», senza possibilità alcuna di
formarne di nuovi. Ma così, non si crea nulla per far crescere un Paese
professionalmente.
Se qui non si pensa a creare una base dalla quale possano nascere cuochi
di alto livello, la situazione sarà sempre lasciata alla sorte, quando
compariranno stelle, brillanti di luce propria. Per ora la tradizione in cucina è
lasciata a pochi Maestri e alle loro celebri «botteghe».
In Spagna, Ferran Adrià ha letteralmente stravolto la cucina spagnola, ma
non ha creato una cucina nuova, ha «inventato», di bel nuovo, una cucina
«chimica», basata strutturalmente e unicamente su nuovi metodi di
trattamento della materia, che ha molto sorpreso, ma a causa della sua
estraneità alla vera cucina, ha già esaurito il suo compito culturale e rimane

188
solo una «vecchia» novità.
Completamente all’opposto si trova invece, parlando di chimica, la
simpatica definizione del cuoco, rilasciata dal grande Ernesto Illy, che lo
promuoveva «chimico dell’intuizione». È infatti grazie a questa «chimica
intuitiva», che può evitare di bruciar padelle e stracuocere carni. Il cuoco
professionista è quello che sa fare le cose in maniera corretta, attraverso
l’intelligenza.
In quest’ottica, la cucina è andata sempre più alleggerendosi, alla ricerca
della semplicità, per mettere in evidenza la qualità della materia. Le tecniche
del sottovuoto e della cottura a bassa temperatura, entrambe recenti, sono
state scelte proprio per poter raggiungere questo obiettivo. In effetti la prima
volta che ho sentito parlare della cottura a bassa temperatura, sono rimasto
meravigliato, ma poi, riflettendo, ho capito che questo metodo equivaleva
sostanzialmente alla frollatura. Quando un prodotto rimane otto-dieci-dodici
ore in cottura, si può senz’altro considerare che sia stato sottoposto a un
trattamento validamente sostitutivo della frollatura, dato che garantisce lo
stesso risultato.
Questa «nuova filosofia» in cucina, ci ha condotto sempre più vicino
all’arte e alla verità. È un’osservazione che, in definitiva, significa che l’arte
è il mezzo per arrivare alla verità. E quando parlo della purezza di un
prodotto, parlo della mia «Meno Cucina», con la quale ho voluto
raggiungere l’obiettivo di trattare la grande qualità del prodotto con la giusta
preparazione e la valorizzazione della presentazione.
Per la storia: quando ho considerato la possibilità di creare una linea di
surgelati, non pensavo sicuramente di fare una cucina «chimica». Erano le
mie ricette tradizionali, studiate da me, eseguite da Surgela e sempre da me
tenute sotto stretto controllo. Sentivo che era mio dovere assicurare
l’acquirente che il mio scopo era di riuscire a far mangiare «bene», pur
offrendo soluzioni moderne, pratiche, utili nella vita di tutti i giorni,
caratterizzata dai nuovi ritmi sociali. Io sono stato un creativo, un
compositore, non un asettico ricercatore da laboratorio.
Se guardo il mio libro di ricette, andato in stampa nel 1980, con ricette
concepite tra il 1978 e il 1979, trent’anni fa, vedo che i piatti da me creati e
considerati allora spregiudicati, non erano affatto piatti di fantasia, ma
preparazioni legate alla tradizione: non facevo altro che operare un

189
rinnovamento sostanziale della composizione, della cottura e della
presentazione, per non dire degli abbinamenti e delle sequenze nei menu. E
soprattutto introducevo il nuovo, esclusivo concetto del contrasto, che si è
poi rivelato una verità da seguire e sviluppare.
Ma è pur tanto difficile trasferire questi concetti a chi non ha vissuto,
come me, tutto il cammino che mi ha condotto sino a lì. I francesi si erano
lanciati sull’artificiosità delle salse («magico» elemento con il quale si poteva
«ringiovanire» una moltitudine di alimenti), quando in cucina non c’era tutta
la tecnologia di conservazione che c’è ora. Un banchetto in un grande
albergo esigeva che tutto fosse preparato all’ultimo momento, qualunque
fosse stato il numero degli invitati! Oggi, organizzazioni specializzate nel
banqueting, anche di ottima qualità, preparano tutto prima, con largo
anticipo, contando sui mezzi estremamente tecnici, e indubbiamente di
massima sicurezza, che i nuovi sistemi di conservazione permettono di
utilizzare. Così si possono realizzare, quasi dall’oggi al domani, banchetti per
mille o duemila persone, senza affanno, né problemi.
Alla fine, la considerazione da fare è che questo passaggio così rapido
dalla grande cucina di una volta a quella attualmente richiesta dal cliente,
non ha consentito ai giovani di partecipare e approfittare dell’esperienza
degli anziani, che avevano invece vissuto tutte le fasi di lenta evoluzione
della cucina e del conseguente adeguamento al modo di nutrirsi della nuova
società in continua trasformazione esistenziale. Ma se qualche giovane o
meno giovane è riuscito a vivere diverse esperienze «girando» tra qualcuna
delle più grandi cucine condotte ancora oggi da grandi Maestri e ha potuto e
saputo approfittare di queste preziose opportunità, avrà sicuramente
guadagnato tutti i meriti per potersi annoverare tra i futuri grandi cuochi.

190
Indice
Abstract
Gualtiero Marchesi
Frontespizio
Copyright
Prefazione
Introduzione
Compositore-esecutore
I segreti del cuoco
Cucina e territorio
L’evoluzione culinaria verso la leggerezza
1. Dei fondi di cucina
Il fondo bruno
Fagiano a doppio fondo
Il fumetto di pesce, ovvero l’utilità delle lische
I coulis di crostacei
2. Delle salse
Il declino della besciamella
La maionese con le salse emulsionate all’uovo
Dimmi come monti…
Una salsa all’ultimo sangue
La bordolese
Succo di un pomodoro di mezza estate
La fonduta alla piemontese
Profumo di curry
La senape
3. Delle tecniche di cottura
L’arte di rosolare
Postilla: come s’impana
Il riposo dell’arrosto
Varietà di fritture
Pastelle d’Oriente
La controversia tra il brodo e il lesso
I segreti del vapore
Le cotture in umido

191
Sotto una coltre di sale
Cottura sottovuoto
Cottura a microonde
4. Delle carni
Le milanesi
La giusta cottura dei volatili
Agnellini e agnelloni
Le carni del coniglio
La regal polpetta
Rognone à la coque
La doppia vocazione delle animelle
I fegatini di pollo
Scaloppine di foie gras
Rane e lumache
5. Dei pesci
Qualche buon motivo per sfilettare
I pesci piatti
Il branzino
Il salmone
La beccaccia del mare
La rana pescatrice
Nero di seppia
I crostacei, istruzioni per l’uso
Zafferano e pesce
Marinati e crudi
Tanto fumo e niente arrosto
6. Delle uova
Strapazzatele, ma con arte
La frittata del pedante
L’uovo sodo, questo sconosciuto
La ricetta più semplice del mondo
I soufflé
Le crespelle
7. Degli ortaggi e della frutta
L’importanza di cuocere al dente
Colore è sapore
La ratatouille

192
I funghi
Le patate
Gli asparagi
I peperoni
Le melanzane
I carciofi
Il fascino discreto dei pelati
La zucca
Pannocchie imburrate
La cucina delle mele
L’uva
8. Pasta e Riso
Le ragioni del dente e quelle della pasta
I risotti
La mantecatura riveduta e corretta
Riso e spaghetti «al salto»
Fredda, ma non ghiacciata
Ravioli vegetariani
Granaglie
9. Alcune semplici preparazioni in terrina
Le terrine gelatinate
Le mousse di pesce
Foie gras au naturel
10. Due parole sulla pasticceria
I sorbetti
Mousse di frutta
Salse in forma di rosa
A qualcuno piace calda
La frutta cotta
11. Dei menu
Cucina e musica
Intensità di sapori e gusti
Cucinare per i bimbi, a casa e al ristorante
12. Codice del buongustaio, ovvero del piacere di sottilizzare
Sapore di sale
Olio ligure e olio toscano
Tartufi bianchi e tartufi neri

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Uso e abuso dei funghi secchi
Il giardino degli aromi
I colori del pepe
Il galateo dei formaggi
Prontuario vegetariano
Etica ed estetica dei ravioli
Zuppe, minestre, pappe e brodini
L’autentico fegato alla veneziana
Vizi e virtù del formaggio grana
Il bon ton del caviale
Galateo gastronomico
Rituale della degustazione
Abbinamenti vino-cibo
Le bevande, i bicchieri
Non stappiamoli soltanto per brindare
Calici o ciotole?
Temperature e glacette
Cucina e sala
La cucina della mamma

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