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walkaboutitalia
l'italia a piedi, senza soldi,
raccogliendo sogni
a Marco e alla mia Mamma
che hanno camminato con me.
* È la forma femminile di Dario, derivante dal persiano che può quindi significare
“che possiede il bene”, “che mantiene il bene”. Mentre il diminutivo croato e sloveno
Darinka può anche derivare direttamente dal termine slavo dar, che significa “dono”.
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WALKABOUT ITALIA
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palermo
* Come lo chiamava Peppino Impastato nelle trasmissioni da lui condotte su Radio Aut.
** CouchSurfing (letteralmente ‘surfare sui divani’) è un servizio di scambio di ospitalità.
Ha la finalità di mettere in comunicazione persone disponibili a scambiarsi ospitalità
gratuitamente. È attualmente è il sito web dedicato allo scambio di ospitalità con il
maggior numero di utenti attivi.
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WALKABOUT ITALIA
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PALERMO
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il sogno zero
Zaino in spalla, fresca come una rosa, impacciata di fronte alla strada
come un chierichetto dinnanzi a Dio.
Palermo-Piana degli Albanesi. Circa 25 chilometri, circa in salita. Proba-
bilmente oggi farò più passi di quanti ne abbia mai fatti in tutta la mia vita.
«Darinka, sei pronta a partire? Ti sei allenata?», «Sì sì», rispondevo
sicura. Sì sì, quando? Mi allenerò strada facendo, pensavo tra me e me.
Quello strada facendo è adesso.
Passo il cartello che delimita la città. Familiarizziamo. Dovremmo in-
contrarci spesso nei prossimi mesi e ci facciamo una foto insieme. Sorrido
apertamente, lui rimane freddo.
Il tempo è lunatico, sole, pioggia, grandine, senza vie di mezzo. Forse
quello lassù sta decidendo se gli sono simpatica o meno, e pensare che cre-
devo di essere io quella bipolare.
La città scompare in lontananza. Tornante dopo tornante viene rimpiazzata
da verdissime vallate, belle pinete e roccia nuda che spunta inaspettatamente
dai prati, irrigidendo il paesaggio. Il percorso da seguire è nelle mani di
Google. Google sembra aver rimpiazzato Dio, in questo terzo millennio.
Sento una voce uscire da una macchina: «Darinkaaaa».
Cosa? Non conosco nessuno da queste parti, chi può essere?
Una signora ha letto del mio viaggio sul «Giornale di Sicilia», mi stava
cercando per darmi il suo sogno. Forse non sono completamente pazza, o
se lo sono, siamo almeno in due!
Tiro fuori la scatola, la scatola che mi ha fatto Marco.
Marco.
L’unico ad aver creduto in me, fin da prima ancora che avessi ben chiaro
cosa fare. Quando mi venne a trovare in Nuova Zelanda mi portò un orec-
chio di gesso, fatto da lui. Gli dico che me ne servirebbe un altro, montato
su una scatola, nella quale possa raccogliere i sogni di tutti. Dopo un paio
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IL SOGNO ZERO
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WALKABOUT ITALIA
gliosa delle sue origini e con la sua voce squillante e cristallina mi spiega
che quando si sposerà indosserà il vestito che è stato di sua madre e prima
di sua nonna e prima ancora della madre della nonna e così via fino a
seicento anni fa, quando le loro lontane parenti in fuga se lo portarono da
questa parte del Mediterraneo. È rosso, di velluto spesso, ricamato con fili
d’oro. Un capo di valore inestimabile, preservato amorevolmente di gene-
razione in generazione. Come se io mi facessi le spremute con uno spre-
miagrumi medioevale invece di essere vittima della plastica fatta per rompersi
e il cui vero costo lo paga il pianeta.
Mi sembra di aver valicato i confini del mondo ed essere entrata in un
luogo incantato, abitato da esseri fieri e schivi che preferiscono isolarsi pur
di salvaguardarsi, un luogo fermo nel tempo.
Sono dentro a un dipinto di seicento anni fa.
Rosalba mi offre il famoso cannolo di Piana, e mentre anche il mio palato
parte per un paradisiaco viaggio spazio-temporale, andiamo a vedere un
posto speciale prima che le tenebre ci soffochino.
Fa freddo e il vento sciuscia* sfiorando le pietre memoriali che si stagliano
contro il cielo rosso sangue del giorno spentosi improvvisamente. Il mio
primo giorno di cammino si conclude qui, a Portella della Ginestra. Rosalba
prova a spiegarmi cosa successe su questo lembo di terra il primo maggio
1947, ma non trova le parole, anzi non lo sa, nessuno lo sa. Si sa che c’era il
bandito Giuliano, si sa che ne sono morti undici e ne sono stati feriti una
trentina, tra cui donne, bambini e anche un asino.
Questo si sa.
I mandanti e il perché, a settant’anni dalla strage, invece rimangono un
mistero. Torniamo a casa, nel silenzio, tra le urla irrequiete delle anime che
ancora se lo chiedono.
* “Fischia”, in siciliano.
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quentin tarantino
È presto, ma il sole dovrebbe essere già visibile, invece ci sono solo pecore.
Pecore che si confondono con la nebbia in un abbraccio ovattato sopra le
sponde del lago di Piana degli Albanesi. Vento e pioggia mi schiaffeggiano, li
insulto apertamente e si vendicano spezzandomi l’ombrello.
Rosalba mi ha lasciato della pasta ai carciofi, ma non trovo riparo per
fermarmi a mangiare. L’acquolina che scende dalla mia bocca si confonde
con la pioggia. Acqua nell’acqua.
Si ferma un camionista: «Vuoi un passaggio?».
«No grazie».
“Ce la devo fare da sola”, penso tra me e me.
Sparisce nella nebbia.
Sapevo che questo viaggio non sarebbe stato una “passeggiata” e rido
per lo sciocco gioco di parole e per sdrammatizzare. Dicono che gli atteg-
giamenti non siano solo conseguenze dei nostri stati d’animo, ma anche il
contrario. Sperimento questa teoria sperando il sorriso mi sollevi il morale.
Purtroppo è destinato a sparire velocemente. Lo stesso camion si materia-
lizza nuovamente tra la coltre di nuvole appoggiate a terra. Avrà sbagliato
strada. No. Si ferma. Il conducente abbassa il finestrino: «Andiamo a sco-
pare», dice con uno spiccato accento siciliano dall’alto dei suoi due metri
di autocarro. Tarantino prende la regia, incazzata nera gli rispondo: «Vat-
tene o ti cavo fuori i polmoni e mi ci asciugo il sudore». Bravo Quentin,
da segnare, la mettiamo nel prossimo film. Ma stranamente quello che
penso non è quello che dico e dalla mia bocca esce un tremante «No, gra-
zie», mentre la mano destra s’infila, altrettanto incerta, nella tasca dei pan-
taloni per cercare lo spray al peperoncino.
Potevo almeno non metterci il grazie. Solo le pecore avrebbero notato la
scortesia.
Ho esitato troppo a lungo e la regia apre il portellone del camion con un
colpo secco sul mio collo. Vedo il camion e poi il prato, e poi ancora il ca-
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mion e il prato dove con un tonfo sordo affonda il mio torso senza testa.
Chiudo gli occhi. Quanto tempo è rimasto al mio cervello per creare l’ultimo
pensiero prima di spegnersi? Per quanto tempo avrà ancora controllo sulle
mie mani? Provo. Vanno a cercare la testa e la trovano proprio lì dov’era
prima. Apro gli occhi. Sono intera e il camion non c’è più.
Dopo aver concimato per anni la fantasia con film splatter era ora di
spegnere lo schermo e alzare il culo. Mi fa bene questa passeggiata. ’Fanculo
la pioggia, ’fanculo il vento, e ’fanculo il camionista. Mi merito i vostri
schiaffi. La prossima volta reagirò meglio.
Riparto con Jimmy Hendrix che strilla di essere un voodoo child nelle
mie cuffie, e i miei piedi diventano le bacchette di Mitch Mitchell. Arriviamo
a Corleone stremati, ma ci sembra di aver fatto un gran concerto.
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tombe nuove
per morti da un pezzo
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TOMBE NUOVE PER MORTI DA UN PEZZO
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nuovo cinema paradiso
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NUOVO CINEMA PARADISO
quilino a Londra, ci aveva lavorato insieme all’Arezzo Wave. Quali fili del
destino siano stati manovrati per fare in modo che io ed Epifania ci incon-
trassimo in un paese così piccolo e sperduto non lo so. La prendo come
un’altra pietra miliare a indicarmi la retta via.
Entrando in paese il respiro si spezza in gola. Sono sul set di uno dei
miei film preferiti: Nuovo Cinema Paradiso! Andiamo a visitare il museo
del cinema. Le immagini scattate durante le riprese del film ricoprono le
pareti e l’impiegata comunale che ci ha appositamente aperto le sue stanze
avvia la colonna sonora. Senza rendermene conto, lacrime di gioia solcano
le mie guance scottate dal sole e dal vento. La magia di essere entrata
dentro a uno dei miei film preferiti si materializza in gocce salate, come se-
gnalibro di un momento indimenticabile.
Nella famosa piazza dalle due chiese, una da rito latino, l’altra bizantino,
scattiamo qualche foto con e senza macchina fotografica e c’informiamo
sul percorso che ci aspetta domani.
Sembra esserci una mulattiera, è più corta di una decina di chilometri ri-
spetto alla strada asfaltata. Ora, dopo solo quattro tappe, so cose che prima
di partire non sapevo. Per esempio che 10 chilometri in più sono almeno
due ore di cammino, e due ore in più influenzano pesantemente la tempistica
di una giornata. E che la maggior parte di noi umani conosce solo i percorsi
che può comodamente percorrere seduto nella sua auto. La mulattiera ci
viene sconsigliata, ma essendo in due i rischi vengono condivisi… rischiamo.
Attraversiamo la riserva naturale dei Monti di Palazzo Adriano raggiun-
gendo più di 1.500 metri di quota, il vento soffia incessante, qualche piccola
frana blocca il cammino. Karolina le attraversa come uno stambecco, senza
aprire bocca, e io inesperta ma determinata non posso certo farmi umiliare
da una ragazzina. La seguo a ruota.
Fresche pinete costeggiano il sentiero fino al passo. Improvvisamente lo
scenario si apre su una conca fiorita, animata dalle greggi. A fondo valle
l’acqua intrappolata dalla diga d’Invaso Castello riflette il cielo nuovamente
azzurro, creando un magico caleidoscopio di colori. Camminando ogni pa-
norama viene conquistato passo dopo passo, con gli altri mezzi i panorami
sono rubati.
Karolina ha solo altri otto giorni di vacanza in Italia prima di tornare al-
l’università, decidere quale dei due Poli attraversare a piedi e quale nazione
salvare dall’ebola, quindi mi abbandona per cercare un passaggio in mac-
china. Mi offre dei pasticcini per sdebitarsi dell’ospitalità.
Non è me che devi ringraziare, la strada è di tutti.
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bella senz’anime
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BELLA SENZ’ANIME
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127 ore
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127 ORE
bloccato, per sfilarsi dalla roccia e mettersi in salvo. Questa è zona argillosa,
vulcanelli, buche, ruscelli sotterranei, un campo minato, penso mentre pro-
cedo con passo incerto, appesa ai capelli dei santi che a uno a uno tiro giù
dal paradiso come birilli.
Dovevo tornare indietro subito, senza esitare, ora non ha più senso.
Arrivo in cima alla collina quasi in lacrime e finalmente intravedo la strada
asfaltata e un discreto passaggio. La potenziale vicinanza a un altro essere
umano mi salva dal vortice di paura in cui stavo annegando. Strizzo la ma-
glietta, la appendo sullo zaino ad asciugare, cambio le scarpe sporche e ri-
prendo a camminare, quasi a correre fino all’asfalto e poi sull’asfalto fino
ad Agrigento.
Oggi ho imparato che la mia mappa virtuale non tiene conto di frane,
ruscelli estemporanei, fango, proprietà privata e a volte semplicemente
segna sentieri che non esistono più o che forse non sono mai esistiti, e ha
deciso di presentarmi i suoi difetti tutti insieme. Proprio come un fidanzato
subito dopo avergli concesso un sì di troppo. Pesce d’Aprile.
Ci metto più di dodici ore ad arrivare ad Agrigento, stremata, impolverata,
e anche un po’ incazzata. Spero chi mi ospiterà abbia in frigo grosse quantità
del mio integratore di sali minerali preferito. La birra.
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guardare in alto
In effetti sì, il ragazzo che mi ospita – che per comodità chiameremo Mi-
ster X – ha della birra, ma ha anche tre camere da letto. Dice l’unica agibile
sia la sua e sembra che dovremo condividerla. Insiste che il disordine nelle
altre stanze non mi permetterebbe di dormire comoda, gli ripeto di non es-
sere mai stata aggredita nel sonno da un comodino disordinato e che piut-
tosto preferisco dormire sul divano, russo e sputo di notte. Non vorrei
dargli fastidio.
Forse ho russato una volta in vita mia, per colpa del raffreddore e non
credo sputassi.
Concesso.
L’integratore al luppolo inizia a fare il suo effetto scioglilingua e mi
prendo la confidenza di scherzare sopra al pessimo savoir faire di Mister X.
Non si offende e mi spiffera che solitamente con le straniere funziona, dice
che si è portato a letto tutte le ragazze che ha ospitato finora. Una volta
anche due insieme e per confermare mi mostra il video sul telefonino di due
agili americane gemere e divertirsi nella camera da letto “agibile”.
Mia mamma aveva detto che era proprio un bravo ragazzo quando ancora
prima di partire le avevo detto che quello che mi avrebbe ospitato ad Agri-
gento mi aveva addirittura chiamata per assicurarsi andassi proprio da lui.
Mia mamma non ne azzecca una.
Esco a prendere una boccata d’aria, un po’ scioccata e un po’ divertita da
quest’ultimo incontro. Non ho intenzione di appoggiare altro peso sotto ai
piedi e mi siedo su un muretto con le gambe a penzoloni a guardare il cielo.
«Darinka?», dice un uomo col cane al guinzaglio.
“E questo chi è?”, penso stranita. «Sì, sono io».
«Ciao! Sono Pietro, un amico di Epifania, di Palazzo Adriano. Mi ha
parlato del tuo viaggio. Voglio aiutarti! Ti serve qualcosa? Dormire, man-
giare? Sogni?».
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GUARDARE IN ALTO
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come un’irritazione cutanea inarrestabile sul viso di una donna troppo bella.
Agrigento è stata rapita dal suo temine di paragone e d’ispirazione, la madre
Grecia, come una figlia strappata alla culla ancora in fasce brancola nel buio
a tentoni. Crolla pezzo dopo pezzo.
Chi ha vissuto altre realtà può fare un confronto e torna a casa portando
con sé visioni di una città restaurata e funzionale. Ma chi, come la maggior
parte dei locali, non è mai uscito, non si rende conto di quanto meglio po-
trebbe essere e tende a smorzare l’euforia dei ritornati che solitamente ri-
partono sconsolati lasciandola pigra e senza desideri, come un gatto castrato
prima della sua prima volta. Un gatto che non ha mai vissuto il sesso, non
sa cosa sia, semplicemente non gli interessa.
Pietro desidera una città reattiva. DESIDERARE. Riflettiamo sull’eti-
mologia della parola. Mancanza di stelle. Guardare in alto e pensare,
scrutare il vuoto che implica la lontananza tra il soggetto e l’oggetto del de-
siderio, cercarlo nel nulla. Proprio come stavo facendo quando Pietro mi
ha vista per la prima volta fuori da casa di Mister X. Forse per quello mi ha
riconosciuta.
Purtroppo sembra che qui anche sognare sia un atto sovversivo e Pietro,
nel suo ruolo d’insegnante, è stato richiamato più volte. Ha la colpa di far
sognare troppo i figli degli altri.
Lo saluto con l’amaro in bocca, io vado avanti e lui torna a scuola, en-
trambi sempre guardando in alto.
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qualcuno conosce qualcuno?
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QUALCUNO CONOSCE QUALCUNO?
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farina. I bambini lo ascoltano silenti, con gli occhi grandi pieni di terrore.
Forse stavo meglio cinque minuti fa, unica sopravvissuta all’Apocalisse.
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radio battente
Licata. Una foto col cartello, io sorrido e lui rimane freddo come al solito.
Chiamo Alessio e Sabrina. Stanno organizzando il bar per stasera, ma i loro
amici sono stati avvertiti del mio arrivo e mi aspettano alla sede della radio.
Una decina di ragazzi affittano il piano di un edificio, vogliono uno
spazio comune e vogliono farsi sentire, così creano Radio Battente e si ri-
trovano giornalmente a parlare di musica, notizie e ancora musica. Mi ri-
corda la casa occupata in cui vivevo a Londra, grandi spazi disordinati
riempiti da tante idee.
Il mio nome è per loro impronunciabile e mi battezzano Belinda.
«Belinda tra un’oretta t’intervistiamo!».
«A me?».
«Fidati di noi».
Non posso fare altro. Fiducia, un sorriso e lo spazio per un sogno nella
mia scatola sono la mia merce di scambio.
C’è Claudio, un giornalista piemontese. Lavora per un’importante agenzia
di comunicazione e lo fa online, quindi può vivere dove gli pare. Ha scelto
Licata. Il costo della vita qui è più basso rispetto al Nord, il clima e la gente
meno freddi. Luca e Nino, le altre due voci della radio, mi offrono tanti sali
minerali al luppolo per placare il nervosismo della diretta.
Non so come va l’intervista. So che ridiamo a ogni scambio di battute.
Essere seduti con loro davanti ai microfoni o al bancone del bar dove an-
dremo dopo non fa alcuna differenza, sono dei professionisti e mi fanno
sentire a mio agio.
Raggiungiamo la bella coppia che mi ha intercettata. Chitarra, voce e
sax vibrano tra le tende vellutate in un’atmosfera da bordello d’altri tempi.
Il “corridoio Club” potrebbe benissimo trovarsi su una qualsiasi via di
Lower Manhattan e non sfigurerebbe. Non scherzavano quando dicevano
che mi avrebbero offerto da bere, e la capacità di rifiutare un drink dopo
l’altro nel contesto bohémienne licatese viene meno.
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RADIO BATTENTE
Anche Claudio non la vede. Mi spiega che la mafia campa di affari molto
grandi e molto piccoli. Da una parte il controllo sulle droghe importate, e
gli intrallazzi nei lavori pubblici. Dall’altra il controllo sul territorio fatto di
estorsioni e rapine. Per gli affari grandi Licata non è il posto adatto, mancano
i centri di potere economico e politico che diano ampi margini di guadagno.
Per gli affari piccoli nemmeno, con un’economia in crisi c’è ben poco da
estorcere e rapinare.
Dormiamo ancora stretti l’uno all’altra, alla fine si stava comodi, e ci sa-
lutiamo con un abbraccio innocente. “Chissà cos’è successo l’altra sera?”,
mi chiedo mentre saluto lui e Luca.
Stanno salendo alla radio. Mi sintonizzo subito sulle voci dei miei nuovi
amici e sulla strada. Credo questa possa diventare una piacevole routine.
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autodistruzione
“If you don’t have anything good to say, say nothing”*, diceva sempre
Chris con il suo accento irlandese così incredibilmente sexy. Chris chi!?
Saranno almeno tre giorni che non penso a lui.
Eppure torna sempre, come quel taglietto dentro la bocca dove la lingua
continua ad andare a sbattere, con la scusa di controllare se c’è ancora. Mi
sorge il dubbio che in realtà ci vada per assicurarsi che non si chiuda.
Sta volta c’ero quasi. È bastato un pensiero e la mia mente scatta un’istan-
tanea che mi catapulta indietro di qualche mese. Sono davanti al mio lago
felicemente abbracciata a lui, gli ho detto di sì, ci sposeremo. In un secondo
smantello tutto il lavoro fatto dalle piastrine in questi giorni. Il taglio è
aperto e in effetti su Gela non ho niente di buono da dire, ma non voglio
più ascoltare chi continua a parlarmi solo nella mia testa.
Gela è una grande città inquinata, famosa per la raffineria dell’Eni, in
passato popolata per lo più dai suoi dipendenti. Ora molti sono stati rim-
piazzati da macchine. Le spiagge sono spoglie e il mare non balneabile.
Molti quartieri sembrano ricostruzioni di una periferia milanese in disuso,
animati solo da antichi spettri di speranze d’ordine e progresso ormai an-
ch’essi disillusi. Una colonna dorica sopravvive come un dito fragile puntato
da un passato più civile del presente, impotente davanti al fumo arancione
sputato fuori dalle ciminiere.
Mostri senza forma nel cielo di una notte senza stelle.
Attraverso a passo spedito e a fiato sospeso la città per riaffiorare nella
campagna. Qui il paesaggio sarebbe meraviglioso se non fosse soffocato
dalle serre che lo nascondono. Sembra una zona fertile, tanto fertile che i
pomodori crescono anche sui marciapiedi. Guardo più attentamente. I
marciapiedi sono effettivamente fatti di pomodori, ma non crescono qui,
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AUTODISTRUZIONE
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di ceci, ama tanto il suo lavoro da trasferirsi dentro alla riserva naturale che
studia e preserva. Sogna la sua nuova dimora senza sportelli, in modo che
chiunque dei suoi ospiti possa prendere qualsiasi cosa senza avere quel
senso d’intrusione creato dall’aprire uno sportello in casa altrui. Esseri di
questo tipo riescono a farmi credere per un attimo che la nostra stupida
specie non meriti l’autodistruzione.
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l’isola di pasqua
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WALKABOUT ITALIA
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L’ISOLA DI PASQUA
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sicilia
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SICILIA
può permettere di vivere dove più gli garba. Colpo di fulmine con Siracusa.
Si ferma qui. La ragione principale che l’ha spinto a rimanere è la spontanea
gentilezza della sua gente e mi trovo costretta a metterla alla prova. Ci sono
troppe attrazioni turistiche che vorrei visitare e sarebbe un peccato rinun-
ciare a priori solo perché non posso permettermi il biglietto d’ingresso.
Devo trovare un modo di entrare gratis, senza scomodare Thomas e ho
un’idea che mi frulla per la testa.
Il duomo, cattedrale metropolitana della Natività di Maria Santissima, è
stato riadattato alle esigenze delle divinità di moda e delle numerose domi-
nazioni nel corso dei secoli. Oggi è appunto parte di una repubblica che si
chiama Italia, di religione cristiana. Chissà a quando la prossima?
L’entrata “per i turisti” costa 2 euro. A prescindere dal fatto che non
trovo giusto far pagare l’entrata di un luogo di culto, tengo le mie polemiche
chiuse dentro alla zip di un sorriso talmente largo che con un movimento
brusco la calotta cranica potrebbe scivolare a terra.
«Ciao, sto risalendo l’Italia a piedi, senza soldi, raccogliendo sogni.
Volete contribuire al mio progetto con un sogno o magari facendomi
entrare gratis?».
Alla mano ho degli articoli di giornale che parlano del mio viaggio, in
caso volessero verificare. Non ce ne sarà bisogno, né qui, né ai bagni ebraici
(5 euro), né all’entrata del macabro labirinto di catacombe di san Giovanni
(8 euro), né al museo di Archimede (6 euro). Tento il colpaccio al teatro
greco: 10 euro sono tanti, ma l’inserviente non solo mi accoglie, ma si offre
di accompagnarmi anche nella parte successiva del complesso dove po-
trebbero richiedermi il biglietto. Entriamo a braccetto e mi spinge letteral-
mente dentro all’Orecchio di Dionisio, per poi lasciarmi libera di immaginare
i turisti trasformarsi in prigionieri e immaginare lo scaltro tiranno origliare
i nostri bisbigli dall’alto.
L’orecchio di Marco è più piccolo, non amplifica i suoni, amplifica i
sogni. È stato costruito per uno scopo ben più nobile, aiuta a ritrovare i
sogni dei prigionieri di noi stessi. Li fotografo uno dentro l’altro.
Totale 31 euro che non ho risparmiati e un’altra storia da raccontare.
Sì, credo Thomas l’abbia indovinata a fermarsi in Sicilia. Una terra abi-
tuata a una dominazione dopo l’altra, una terra che per difendersi si nutre
della sua identità eterogenea dove ormai nessuno è più straniero.
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55.200 passi di libertà
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55.200 PASSI DI LIBERTÀ
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55.200 PASSI DI LIBERTÀ
licare le Alpi da uomini liberi per cercar fortuna altrove. Riprendo il mio
conto alla rovescia sui miei 55.200 passi spensierati contro la loro corsa in-
cognita verso una nuova vita.
A Catania, Tiziana e Laura mi aspettano per guidarmi attraverso la loro
città. Mi portano a vedere un locale nel quale scavando per allargarlo è
stato ritrovato un fiume sotterraneo nello scantinato. Ora ti ci puoi sedere
davanti a mangiare carne di cavallo, mentre lo vedi scomparire nei meandri
della Catania sotterranea, o meglio nei suoi sette strati, essendo stata stretta
dal caldo abbraccio dei tentacoli incandescenti dell’Etna ben sette volte.
A tratti il passato riemerge in superficie, rendendo la città un affascinante
museo a cielo aperto, con i suoi colori rubati al vulcano.
Raccogliendo i loro sogni mi rendo conto che la mia scatola è ormai
colma. Tiziana vive ora a Verbania e mi sembra una persona affidabile. La
eleggo solennemente messaggera dei sogni affidandole il contenuto della
scatola magica e tutta la mia fiducia. A Baveno ho già investito “il ragioniere
dei sogni”. Per la sua incolumità preferisco mantenere l’anonimato. Il nulla
è in agguato. Ha una cassaforte in casa. I sogni di tutti mi aspetteranno lì.
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mamma etna
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MAMMA ETNA
a funghi in vita mia e mi prende sotto le sue ali. Mi spiega dove crescono,
come muovermi, come guardare. Mi confida che oggi non siamo qui con la
speranza di trovarne molti, ma di scoraggiare i suoi rivali. Il grosso lo ha rac-
colto ieri. Sicuramente si è lasciato qualcosa alle spalle e non vuole che i suoi
avanzi incoraggino gli altri fungaioli della zona a tornare a visitare il “suo
territorio”. Lui ne trova quindici, io cinque e Maurizio nemmeno uno, aggi-
randosi allampanato e rumoroso tra le foglie secche. Ha la testa tra le nuvole
invece che nel sottobosco, provocando le crude prese in giro dell’amico. Io
e Lola ce la palleggiamo tra i due trattenendo a morsi le risate.
Tra “gli aghi di pino, il silenzio e i funghi”* si apre una radura affacciata
su una collina scolpita da tunnel lavici. I margini dei fiumi di lava si raffred-
dano velocemente a contatto con l’aria; poi tocca alla parte superiore, creando
un tubo di lava secca in cui il resto del magma continua a scorrere fluido e
indisturbato. Centinaia di scosse sismiche accompagnano le eruzioni e la
montagna è sempre attiva. «Anche in questo preciso momento», mi dice Ro-
berto indicandomi con una pila l’ingresso della grotta. Deglutisco a fatica e
prego che la mamma se ne stia tranquilla per almeno i prossimi dieci minuti,
prima di entrare nel buio del tunnel. D’altronde lui che pensa io sia l’unica
degna padrona del suo bastone non mi metterebbe in una situazione perico-
losa e non può essere deluso dall’ignorante paura che mi assale. Penso, spero,
prego, cercando di raggiungere più in fretta possibile l’uscita del tunnel.
Roberto purtroppo dopo la scampagnata ha impegni e ci deve lasciare,
ma prima di congedarsi come Yoda con Skywalker m’insegna a maneggiare
il bastone come arma di difesa e mi dimostra la resistenza del mio legno
spezzando in due il ramo di un albero con un colpo secco. Messaggio rice-
vuto. Ho un’arma solida alla quale appoggiarmi nei passi più difficili, ma
anche una potente arma di difesa. Cercherò di usare la forza con discerni-
mento, maestro.
Maurizio e io torniamo al rifugio. Mi ricorda Benigni, un riccio fascio di
nervi con un sorriso più largo della faccia, una risata più sonora dell’Etna e
parole che ne escono troppo rapidamente per essere associate a idee nel
mio cervello.
Se fosse cresciuto in America gli avrebbero diagnosticato ADD** e
rifilato calmanti fin da piccolo rincoglionendolo. Fortunatamente nella vec-
chia Italia non è ancora arrivato l’aggiornamento a tali malattie ed è sem-
plicemente stato diagnosticato “Maurizio”.
* Sembra ognuno debba avere una strofa preferita di Generale di De Gregori. Questa
è la mia.
** Attention deficit disorder: disturbo da deficit di attenzione.
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WALKABOUT ITALIA
L’altro giorno ha beccato dei cinesi aggirarsi nei dintorni del suo bel ri-
fugio. Cercavano germogli di felce per farne chissà quale stregoneria, mi
dice. È salito su un albero per scrutarli e maledirli dall’alto. Li odia. Odia
tutti i cinesi.
Un giorno gli venne il pallino di partire per un viaggio a scopo benefico,
si mise davanti al computer con l’idea di cercare l’associazione supportata
da Giobbe Covatta, l’Amref*, mandò un e-mail ma fece un errore di orto-
grafia e la inviò all’Aref, un’associazione a sostegno dei rifugiati politici ti-
betani. L’indirizzo e-mail di Maurizio è Mao@… Ricevette una risposta
immediata richiedendo identificazione e chiarimenti. E grazie al suo nome
sospetto nacque una corrispondenza che presto si trasformò in un viaggio.
Maurizio in vesti di volontario come uno sherpa scarpinava da villaggio a
villaggio sulle pendici himalayane a portare farina e coperte ai bisognosi.
Ora è per caso – o forse no – un attivista per la causa del Tibet libero.
Saluto il mio sbadato sherpa con affetto e lo lascio alla volta del vulcano.
Sono sempre stata affascinata dai vulcani. Fin da piccola un sogno ricor-
rente era quello di ritrovarmi nel mezzo di un’eruzione e mi ritrovavo ad
architettare ogni tipo di via di fuga per non rimanerne travolta. Considerata
la quantità di incubi vulcanici, mi sento abbastanza preparata all’evenienza.
Osservo la mamma con timore reverenziale e lei giustamente non si vuole
rivelare a una fanatica. La cima fuma, ma niente lava. Niente rombi. Silenzio
e rumore di passi e sudore che cola. Cerco di immaginarmeli. Qualcosa di
simile a un tuono, ma più gutturale, viene da dentro. La terra trema. È
Tifone che non trova pace dopo essere stato confinato sotto alla Sicilia da
Zeus. Voglio sentire la sua frustrazione emergere da sotto i miei piedi. È ir-
requieto, ma schivo. Ha appena aperto delle nuove bocche e in questi
giorni è vietato scalarlo fino in cima. Mi fermo ad ammirare il paesaggio lu-
nare, illuminato a scaglie dai raggi filtrati dalle nuvole che sfrecciano veloci
trasportate dai venti dei 2.000 e passa metri d’altezza. Creano un gioco di
luce incredibile sul nero e il rosso dei coni visibili e sui riflessi dei sacchetti
della spazzatura abbandonati nel paesaggio.
La mamma ha molti figli villani, che non la rispettano e si divertono a
sfruttarla. Passo davanti a una schiera di negozi di souvenir affollati di
turisti. Campeggia l’insegna “LAVA STONES FOR SALE”. Rendetevi conto che
tutto il paesaggio intorno a noi è composto di pietra lavica. Come vendere
un granello di sabbia in spiaggia.
La storia geologica del terreno sulle pendici della montagna lo rende
particolarmente fertile. Pini, betulle, castagni e ciliegi incorniciano le brulle
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MAMMA ETNA
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cambiare tutto
per non cambiare nulla
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CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NULLA
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WALKABOUT ITALIA
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CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NULLA
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mal di sicilia
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MAL DI SICILIA
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abra calabria
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ABRA CALABRIA
fosse Pollock. Questo tramonto è una metafora che cerco di digerire tra
paura e esaltazione.
Ieri ho lanciato un sondaggio chiedendo quale versante mi conveniva pe-
regrinare per risalire lo Stivale? Mi dicono tirreno. Più turistico, più popolato,
meno selvaggio e più sicuro. Penso a Taormina e scelgo lo Ionio.
A Reggio Calabria ci sono i bronzi di Riace. I bronzi conoscono Mimmo,
che conosce Gioacchino, che conosce Ludovico che mi ospita e insieme mi
organizzano l’entrata gratuita al museo.
Mimmo si fa trovare all’entrata. È un signore tanto sovrappeso quanto
disponibile. Iniziamo la visita dai sotterranei, da dove è possibile vedere
una sezione delle catacombe che si srotolano sotto la città. Se si scavasse
sotto al museo probabilmente si troverebbero altrettanti reperti che in su-
perficie. Questa è la Calabria. Un’affascinante stratificazione di culture una
sopra l’altra.
Purtroppo dopo la Magna Grecia in fase decrescente.
Il museo è in fase di allestimento da tempo indeterminato per tempo al-
trettanto indeterminato. Centinaia di scatoloni pieni di statue e suppellettili
rischiano di diventare molto più antichi di quelli che sono nel buio dei sot-
toscala. Mimmo mi racconta dei miliardi di euro stanziati per predisporre
le sale, spostare i bronzi da una parte all’altra, restaurare la struttura. Mi
racconta delle lauree regalate e delle attese interminabili aspettando che la
burocrazia della corruzione sia svolta a regola d’arte per dare posti a chi di
convenienza e far sparire miliardi come fossero noccioline.
I bronzi da soli sono sufficienti per attirare frotte di turisti e far pagare il
prezzo del biglietto, il resto può marcire in cantina fino a quando tutte
quelle noccioline non saranno trasformate in burro d’arachidi, a ingrassare
i meccanismi lenti di un sistema all’orlo del collasso e i soliti ignoti.
Come se stessimo per salire su uno shuttle, entriamo in una stanza che si
risucchia tutte le nostre impurità. Sterile ed estasiata ammiro i bronzi.
«Guarda com’era l’uomo una volta», enfatizza Mimmo, passandosi una
mano sul pancione. Freno a stento una risata spontanea. L’uomo di oggi ha
tutte le possibilità di essere in forma quanto i bronzi, ma non voglio rovinare
la visione ultraterrena di Mimmo, esponendogli i giovamenti che potrebbe
trarre da una dieta sana e un po’ di esercizio fisico.
Se solo i bronzi potessero prendere vita, sarei curiosa di vedere la ribel-
lione selvaggia nei confronti degli stolti ladri che li tengono in ostaggio
senza rispetto.
Chi invece li rispetta è un’altra meraviglia nascosta del museo. Nuccio,
uno dei loro restauratori. Lui e una collega sono stati esposti in vetrina
per tre anni consecutivi mentre lavoravano chirurgicamente sui guerrieri
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WALKABOUT ITALIA
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ABRA CALABRIA
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WALKABOUT ITALIA
* Il paese di Pentedattilo fu teatro della “Strage degli Alberti”. Nella notte del 16
aprile 1686, Il barone Bernardino, capostipite della famiglia Abenavoli, si introdusse
all’interno del castello di Pentedattilo con un gruppo di uomini armati. Progettava di
prendere in moglie Antonietta, figlia del marchese Domenico Alberti, ma costei era
stata promessa a Don Petrillo Cortez, figlio del Viceré di Napoli. Giunto nella camera
da letto di Lorenzo, fratello di Antonietta, lo sorprese durante il sonno sparandogli
due colpi di archibugio e finendolo con quattordici pugnalate. Poi si lanciò all’assalto
del castello, uccidendo gran parte degli occupanti, compreso Simone Alberti, fratellino
di nove anni di Lorenzo, mortalmente sbattuto contro una roccia. La Strage degli
Alberti nel corso dei secoli ha dato origini a varie leggende. Una di queste afferma che
un giorno l’enorme mano si abbatterà sugli uomini per punirli della loro sete di sangue.
Un’altra dice che le torri in pietra che sovrastano il paese rappresentano le dita insan-
guinate della mano del barone Abenavoli (per questo motivo Pentedattilo è stata più
volte indicata come “la mano del Diavolo”). Un’altra infine narra che la sera, in inverno,
quando il vento è violento tra le gole della montagna si riescono ancora a sentire le
urla del marchese Lorenzo Alberti.
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ABRA CALABRIA
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WALKABOUT ITALIA
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ABRA CALABRIA
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come pecore in mezzo ai lupi
Il mio viaggio in Calabria “come una freccia dall’arco scocca vola veloce
di bocca in bocca” senza le prestazioni erotiche di Bocca di Rosa. Mi
avevano detto che avrei avuto difficoltà a infrangere il muro di diffidenza
dei calabresi, ma che una volta sfondato sarebbero stati ancora più ospitali
dei siciliani. Devo aver trovato un varco, perché questo famoso muro non
l’ho nemmeno visto. Forse si erano dimenticati le porte aperte o forse
questo muro immaginario era davvero inventato.
La rete di Couchsurfing, pressoché inesistente, è ampiamente rimpiazzata
dal passaparola. E ovunque arrivo sono la benvenuta perché “amica” di
qualcuno che mi ha già ospitata, e parlando bene di tutti i miei benefattori
nessuno vuole essere da meno, preparando banchetti di benvenuto regali.
Ripercorro i passi di Edward Lear, un caricaturista e scrittore inglese che
mi precedette di un paio di secoli, si fece a piedi le Calabrie e il Regno di
Napoli. La tecnica di Edward era quella di farsi lasciare delle lettere di pre-
sentazione dai baroni che lo ospitavano, introducendolo ai successivi, ob-
bligandoli di conseguenza a offrirgli vitto abbondante e alloggio dignitoso,
non volendo sfigurare con i predecessori che glielo avevano inviato fiduciosi.
Ora i papiri, la ceralacca e i nobili sono stati rimpiazzati da telefonate, e-
mail e gente comune, ma il concetto è lo stesso.
Arrivo a Palizzi, un bel paesino quasi abbandonato racchiuso tra pareti
montuose. Vedo l’ospizio ma non la scuola. Tutti i paesi che sto attraversando
ora saranno morti tra qualche decennio. I giovani se ne vanno e non c’è ri-
cambio generazionale, in pochi s’interessano alla terra. Tra questi c’è Michele,
che mi porta a cena nell’unico ristorante del paese. Il suo. Mi ospita anche
nell’unico B&B, sempre suo. Vende solo i prodotti che coltiva, alleva o
caccia, ed è riuscito a trapassare questa passione al figlio Antonio, che cena
con gli amici al tavolo di fianco al nostro. Si presenta fugacemente e si offre
di mostrarmi una scorciatoia domani, mentre porta le pecore al pascolo.
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COME PECORE IN MEZZO AI LUPI
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WALKABOUT ITALIA
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una rosa nel deserto
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WALKABOUT ITALIA
Africo in lontananza. La luce gioca in suo favore, mossa dalle nuvole come
un grosso riflettore si posa su uno scoglio a forma di cuore, poi sulla spiaggia
incontaminata e si tuffa in mare. Sembra bellissima. Avvicinandomi gradual-
mente inizio a vedere gli edifici grigi e i pilastri di cemento sui tetti dei con-
domini mai terminati. Una vecchia bionda fisicata vista da dietro. Ora che
l’ho raggiunta per corteggiarla mi accorgo del suo vero aspetto. È orripilante,
le rughe le devastano il viso senza lineamenti. Africo è il paese più brutto che
abbia incontrato sul mio cammino. Forse che abbia mai incontrato.
Come la maggior parte dei paesi sulla costa ionica calabrese è di recente
costruzione. Africo antico era sull’Aspromonte, ma l’alluvione del 1951 ha
sradicato la sua popolazione forzandola a evacuare. Inizialmente si era di-
stribuita tra Reggio e i comuni limitrofi, per poi andare a occupare questo
lembo di terra “libero” e renderlo proprio. Mi dicono che all’origine fosse
bello. Una serie di villette a schiera, ognuna con il suo giardino. Ora i
giardini sono stati rimpiazzati dal cemento, i tetti mancano, e in caso le fa-
miglie crescano si può sempre aggiungere un altro piano. Nessuno si degna
di imbiancare i muri grigi, essendo il paese un cantiere a cielo aperto.
Questo non causa vergogna. Passeggiare senza trucco o senza essere
vestiti bene sì. C’è un atmosfera alla Sergio Leone in giro e vengo radiografata
a ogni passo. I bambini, onesti nella loro sfacciataggine, mi chiedono diret-
tamente «Chi sei? Cosa ci fai qui?», per poi sparire tra le gonne delle
mamme indignate. I capelli rosa lunghi da una parte e corti dall’altra e il ta-
tuaggio di un serpente che scende dallo stinco sono chiaramente fastidiosi
allo sguardo di chi incontro. Qualche anziano mi chiede cosa vendo, altri
mi guardano di sottecchi incuriositi, altri trovano una scusa per indagare
sulla mia presenza, chiedendomi se gli posso fare una foto. Un rettangolo
di cemento alto con una croce sopra e un Cristo disegnato male costituiscono
la chiesa. Entro sperando di incontrare un’accoglienza migliore. Le coriste
sembra abbiano visto il diavolo in persona e le sento spettegolare mentre il
prete mi viene incontro baldanzoso. È un affabile vicentino. Chissà di quale
peccato deve essersi reso colpevole per essere stato confinato qui. Mi con-
fessa che il padre santissimo sta mettendo a dura prova la sua misericordia.
Il suo sogno? Vedere le malelingue di Africo quietarsi per sempre.
Se Modica puzzava di musica, questo paese puzza di carogna.
Non conosco Rosa. È stata lei a invitarmi. Un invito aperto da quando
sono partita. Mi viene incontro abbracciandomi con un sorriso. Ora sono
io a guardarla storto. Deve essere un’aliena precipitata qui per sbaglio. Ci
teneva tanto andassi a trovarla, mi stava davvero aspettando. Vorrebbe che
mi fermassi anche il giorno successivo, ha qualcosa da dirmi. Lei ha aspettato
me, ora tocca a me fare altrettanto.
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UNA ROSA NEL DESERTO
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WALKABOUT ITALIA
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UNA ROSA NEL DESERTO
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WALKABOUT ITALIA
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plastica e cemento
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WALKABOUT ITALIA
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PLASTICA E CEMENTO
che cosa abbiamo lasciato, troverà reperti di floppy disk, computer, tubi
grigi e qualche apribottiglia originale, se è fortunato. Plastica e cemento.
Abbraccio Carmen, altro frutto splendente di una società marcia, e la
ringrazio per il suo sincero altruismo disinteressato.
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go walk
A Isca sullo Ionio sono ospite di Gianni Tirelli. Il fratello del fidanzato
di mia zia di circa quarant’anni fa. Suono alla porta di una casa antica e
decadente. Mi apre un bell’uomo sulla sessantina con un sorriso inequivo-
cabile. Mi accoglie in casa sua come fossi una figlia. Salgo le scale cercando
di celare lo stupore, questa casa sembra un museo e quest’uomo un santo
con un aurea accecante. Prendo possesso della mia stanza stordita dal-
l’eleganza di ogni oggetto. Buddha, madonne e cristi ammiccano in ogni
angolo. Si respira l’esistenza di Dio, ma non il dio geloso della Bibbia, un
dio veramente onnipotente che comprende tutto e risiede in ognuno di
noi, nel bene e nel male.
A casa di Gianni mi sono state spedite delle scarpe nuove per sostituire
le mie adorate Sketchers, su cui si è ormai aperto un buco vista asfalto. Pit
stop, cambio gomme. Non avevo mai bucato un paio di scarpe prima. Ora
so un’altra cosa che non sapevo prima di partire. Anche le scarpe hanno un
autonomia. Queste fanno circa 800 chilometri.
Mi dispiace abbandonarle, hanno una storia alle spalle.
Le ho comprate a Londra l’inverno scorso per essere un “Angelo”. Io e
Chris avevamo provato a vivere a Hong Kong, entrambi senza visto lavora-
tivo. Lui suonava per strada e io lavoravo clandestinamente in un bar. I
nostri lavori combinati bastavano a malapena per permetterci quello che
loro chiamano uno “studio flat”. Una stanza di meno metri quadri di quelli
che si possono contare sulle dita di una mano, con tanto di cucina e bagno,
senza finestre. Praticamente l’appartamento a Milano di Renato Pozzetto
in Ragazzo di campagna. Non c’interessava, ci piaceva starci addosso. Era-
vamo belli, giovani, soprattutto lui, e innamorati. Un giorno subisce la mi-
naccia della deportazione dalla polizia che ferma il suo concerto urbano e
decidiamo di partire volontariamente. Io volevo andare a Berlino, lui a
Londra. Io gli avevo spezzato il cuore e gliela do vinta senza discutere.
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GO WALK
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WALKABOUT ITALIA
non poteva più perdere tempo a fare cose che non gli andava di fare! Perché
avrei dovuto aspettarne altri trenta per giungere alla stessa conclusione?
Sapevo esattamente cosa non mi piaceva fare, ma avevo dimenticato i
miei sogni! Cosa mi piace fare? Ho sempre avuto la testa tra le nuvole, sin
da piccola, sempre a guardare fuori dalla finestra, sempre ultima a conse-
gnare ogni compito in classe: il tempo è denaro, mi diceva la mia maestra. Mi
scocciavo ogni volta che mi metteva sotto pressione con questa brutta storia
del perdere tempo come fossero soldi.
Però quella frase da incubo che ogni tanto mi rimbomba ancora nelle
orecchie sto imparando a leggerla diversamente.
Avendo il tempo di essere lenta ora mi considero ricca.
Invece di guardare la mia lentezza e il mio continuo fantasticare come
un difetto, perché non trasformarli nei miei punti di forza, è quello che mi
piace fare, andare piano e sognare.
Da qui nasce Walkaboutitalia.
Il desiderio di iniziare un viaggio lento, come Atreyu nella Storia infinita,
cercando di sconfiggere il nulla. Una mente libera è pericolosa, sognare è
una sottile forma di ribellione e mettere in pratica i nostri sogni vera e
propria rivoluzione. E la mia crisi personale era talmente profonda da
averla causata, questa rivoluzione, non avevo nulla da perdere, al massimo
avrei fallito, ma quantomeno ci avrei finalmente provato. Quale sarebbe
stato il prossimo passo?
Nel 2004 mi sono laureata in fotografia, proprio a Londra, e poi ho dato
sfogo alla mia voglia di viaggiare adattandomi alle mille situazioni che il
mondo mi presentava, senza pregiudizi e senza snobbare alcuna possibilità.
In balia della vita sono passata da fare la grafica in Canada a vendere ma-
gliette per un gruppo rock in tour in Europa, a drogarmi pesantemente
mentre credevo di fare l’artista a New York, per poi andare a disintossicarmi
facendo la volontaria in una Thailandia post-tsunami. Poi la spogliarellista
ad Auckland in Nuova Zelanda, incontrare un ercolanese e trasferirci in-
sieme in Laos, dove prima ho insegnato inglese ai bambini delle scuole ele-
mentari e poi aperto un ristorante, per poi lasciarli entrambi e finire a fare
la barista in bikini nelle miniere dell’outback australiano. Ma forse invece
di cercare di adattarmi al mondo se avessi fatto quello che amavo fare lui si
sarebbe adattato a me?
Ecco cosa mi piace! Viaggiare, fotografare, scrivere e sognare! Lenta-
mente!
Arrivata a casa, prenotai il primo volo per Malpensa, chiamai i miei genitori,
e gli dissi che sarei tornata in Italia dopo quindici anni d’assenza.
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GO WALK
Il progetto era ormai chiaro nella mia testa, mi sarei fatta l’Italia a piedi,
raccontandola con immagini e racconti, e avrei tentato di salvarla dal nulla
stimolando la fantasia della gente che avrei incontrato, raccogliendo i loro
sogni, in una scatola magica. Li avrei aiutati a farli tornare a galla, come
quella notte era magicamente successo a me.
I miei genitori non mi capirono immediatamente. In realtà furono in
pochi a farlo, mi prendevano per matta.
In effetti un po’ matta mi sentivo. Torno a casa e mi faccio tutta l’Italia a
piedi, ma non ho una lira? Bene, quindi parto senza soldi per dimostrare
che i sogni si possono realizzare anche senza. Non avevo scelta, ma mi pia-
ceva l’idea di barattare un tetto per un sorriso, un pasto per un sogno, una
storia per un’altra storia, un sorriso per una pesca. Provare che i soldi non
comprano tutto, e “vendere” solo ciò che non si può comprare.
Ma a piedi…?
A piedi io non ero neanche mai andata al supermercato. Come si fa?
Google l’onnipotente mi apre il mondo di chi aveva già fatto viaggi simili e
invio una e-mail a una manciata di indirizzi.
«Ciao, sono Darinka, non ho esperienza di viaggi a piedi e il mese prossimo
parto da Palermo senza soldi per tornare in Piemonte a piedi. Ho intenzione
di partire con una scatola magica. Hai presente i biscottini della fortuna che
si trovano nei ristoranti cinesi dove all’interno si trova un bigliettino con
scritto il proprio destino? Vorrei offrire la possibilità a chi incontro di
scrivere il suo destino senza affidarlo al caso e infilarlo nella mia scatola».
Riccardo Carnovalini, un intrepido camminatore risponde estasiato dalla
mia follia. È disposto a condividere la sua conoscenza con me, e per un’altra
“coincidenza” in quei giorni si trova ad Ameno, una manciata di chilometri
da casa mia. Ci incontriamo in un bar e per tre ore e mezza consecutive lo
tempesto di domande.
Cosa mi porto, come preparo il cammino, come faccio con l’acqua e le
scarpe? E di che marca? E soprattutto… Secondo te è fattibile?
«Sì, anch’io ho sempre sognato di partire senza soldi».
Da qui la svolta! Se prima ero titubante, la mia attitudine cambia, inizio
a crederci anch’io. Sembra possibile. Nel momento in cui io stessa ne sono
finalmente convinta cambia tutto. Sembra sappia di cosa stia parlando.
Grazie all’aiuto di un grande amico creiamo il mio blog walkaboutitalia.com.
Perché questo nome?
Walkabout è la camminata che gli aborigeni compiono in età adolescenziale,
da soli nel deserto, per riconnettersi con le loro ancestrali radici e la terra.
Io non conosco il mio paese. Ho bisogno di una “walkabout”.
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WALKABOUT ITALIA
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e le pale girano
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WALKABOUT ITALIA
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E LE PALE GIRANO
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WALKABOUT ITALIA
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una lunga strada
che non porta da nessuna parte
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WALKABOUT ITALIA
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UNA LUNGA STRADA CHE NON PORTA DA NESSUNA PARTE
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la grande bellezza
Ottanta giorni di viaggio. Jules Verne a questo punto della sua storia
aveva già fatto compiere il giro del mondo al suo Phileas Fogg, invece io fe-
steggio i miei primi mille chilometri a piedi sulla spiaggia di Roseto Capo
Spulico, ancora in Calabria. La seconda regione del mio viaggio.
Il bello di non avere programmi è che non posso rimanere indietro sulla
tabella di marcia.
Prima di partire avevo paura. Ma non sapevo di cosa. Era semplicemente
l’umana paura dell’ignoto.
Ora invece conosco esattamente gli ostacoli che di tanto in tanto interse-
cano il mio cammino e questa enorme paura. Quello che era un muro di
nebbia ora è solo la concentrazione di centinaia di migliaia di piccole gocce.
Come una noce nel sacco, non fa più rumore. Diventa ragionevole, posso
vedere la sua faccia e come tutti i mostri dei film horror una volta visti in
faccia non fanno più paura, anzi sembrano ridicoli.
Ora il mostro è la mia vita dopo questo viaggio.
Viaggiando senza soldi si è liberi relativamente. Per nutrirmi e avere un
tetto sotto il quale sognare ho la necessità di dipendere da qualcuno. Questo
è meraviglioso, perché mi porta a conoscere il panorama umano di ogni re-
gione, oltre a quello naturale. Vivo per osmosi, lasciando e assorbendo il
massimo da ogni situazione, rimanendo di conseguenza triste o felice in
base all’esperienza, sino al prossimo incontro. Incognito, un po’ come la
prossima carta capovolta al tavolo di poker. Anche se sfortunata, questo
non mi frustra, perché la passione è per il gioco. Nel bene e nel male.
Senza soldi ci si rende conto di cosa si ha veramente bisogno, tutti quei
bei vestiti di cui ho pieni gli armadi sono rimpiazzati dai due cambi nello
zaino, e non perdo mai tempo a decidere cosa indossare. La fame indotta
dai colori dei cartelli pubblicitari e la sete di cose che fanno venire più sete è
rimpiazzata dalla semplice necessità e dai frutti che incontro per strada. A
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LA GRANDE BELLEZZA
volte ho tanta fame che mi capita di mangiarmi anche zucchine crude rubate
dagli orti, altre volte vado tranquilla con un paio di soppressate in tasca la-
sciatemi dai miei benefattori. Passo dopo passo mi rendo sempre più conto
che vivere così dovrebbe essere la “norma”. Fare lavori che non ci piacciono
per comprare cose che non ci servono contribuendo a un sistema che non ci
appartiene è la vera follia.
Ed è questo che cerco di catturare nelle mie immagini. La bellezza non
si fa catturare in una foto. La bellezza si vive. Posso cercare di trasmettere
un messaggio di bellezza, ma preferisco trasmettere le contusioni che si
formulano nella mia mente all’impatto visivo di determinati contrasti. Creare
domande invece di cercare di dare risposte che non ho.
Le mie foto sono solo una giungla di segni, che ci si può divertire a inter-
pretare. Se volete vedere la bellezza dovete mettervi in cammino.
Oggi mi sono presa un momento per festeggiare i miei primi mille chilo-
metri con me e me stessa. Ci siamo fatte il primo bagno, ferme immobili a
guardare il cielo, galleggiando, come incastonate in un’acquamarina lucente.
Abbiamo respirato la bellezza. Senza soldi, perché ho scoperto che né la
bellezza né i sogni hanno un prezzo.
E la bellezza in tutte le sue espressioni è stata la protagonista dei miei ul-
timi giorni.
A Rossano, Mr Fortunato Amarelli, il re della liquirizia in persona, mi
apre le porte del suo museo per spiegarmi tutti i segreti delle pastiglie scure
che la sua famiglia è dedita a produrre da secoli. In pochi istanti, camminando
tra i registri contabili scritti a mano duecento anni fa dagli Amarelli del pas-
sato, scatolette colorate e confetti di ogni forma e dimensione, l’erede della
dinastia è riuscito a farmi amare la pianta dal sapore agrodolce che a dirla
tutta, a me personalmente, non piace nemmeno.
Proseguo verso Tenuta Ciminata Greco, dove sarò ospite di Mario, lo
spassoso cugino di Fortunato. Durante la passeggiata per raggiungerla mi
accorgo che le sculture che vivono dentro agli ulivi sono commoventi e con
le lacrime di gioia che mi solcano le guance abbraccio un altro sconosciuto.
La tenuta è un elegante agriturismo avvolto nella campagna e la pace di
cui si gode dalla terrazza con piscina lo rende il luogo ideale per scrivere.
Sono tentata a lanciare le scarpe ai fili del telefono e rimanerci, questo è si-
curamente il posto più bello dove sia stata ospitata finora e il suo lato
umano non è da meno.
Mario, Fortunato, amici e consorti si prendono cura di me offrendomi
da mangiare e riempiendo la mia scatola di sogni, affascinati dalla mia av-
ventura e io dal loro carattere affabile.
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WALKABOUT ITALIA
Oggi tocca a loro farmi da guide per il centro storico di Rossano, come
altri l’avevano fatto altrove in precedenza. Senza nulla in cambio se non un
sorriso e un po’ di fiducia nel prossimo. Chiudere gli occhi e lasciarsi tra-
sportare da parole dolci, una cascata di capelli rossi, una voce rauca, un
fascio di luce, un albero, il profumo di pane appena sfornato, una canzone.
Lo scenario cambia ma la storia continua a ripetersi.
«Non ti senti sola?», mi chiede spesso chi ascolto la sera. Parlare con uno
sconosciuto è liberatorio. Non si ha paura di essere se stessi, non si ha paura
dei giudizi e ogni sera non mi si apre solo una porta per entrare in casa, ma
una finestra sulla vita di chi mi ospita. No, non mi sento sola.
«Come fai a mangiare?», domandano paradossalmente mentre mi si
passa un piatto di pasta. «Come fai a dormire?», mentre per quella sera chi
me lo chiede mi ha già fatto il letto. Chiacchierando, mangiando o lavandomi
i denti prima di coricarmi, rispondo con naturalezza: «Così». Non c’è altra
risposta. Non esiste una formula.
Ogni volta che parto lascio una parte di me a chi mi ha donato una parte
di sé, e mi chiedo se forse prima o poi questo gioco non finirà per stufarmi.
Mi chiedo se prima o poi la smetterò di sentire quello strano prurito ai
piedi che sento quando rimango troppo a lungo nello stesso posto. Non c’è
altro da vedere, se si riesce a vedere dentro di sé, eppure questa capacità di
concentrazione ancora non mi appartiene.
Che sia questo l’amore incondizionato di cui tanto cercavo di capire il
senso? Sentirsi tutt’uno con la natura e le anime che porti dentro. Senza il
bisogno di possederle.
Sapere che ci sono, ci sono stati o ci saranno e lasciarsi riempire di gioia.
Come un unico fiume senza tempo, perché l’acqua è a valle e allo stesso
tempo a sorgente.
Presente futuro e
passato sono uno. Tu
parte di me, io parte
di te e insieme siamo
acqua che scorre.
Forse è questa la
vera grande bellezza
e forse un giorno riu-
scirò a conquistarla
per più di qualche
secondo alla volta.
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certe notti tra pus e zanzare
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WALKABOUT ITALIA
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grazie per la compagnia,
chiunque tu sia
C’è qualcosa che si muove con me, lo vedo con la coda dell’occhio da
quando sono partita e quando mi giro per definirne i contorni sparisce. Poi
c’è uno spettro del passato con il quale parlo ogni tanto. Siamo stati inna-
morati tanto tempo fa, ci siamo fatti tanto male e ora alterniamo, ogni tanto
capita anche di farsi del bene. Lui è rimasto nel Laos, ma ha ascoltato le
mie imprecazioni da lontano e tramite un amico riesce a trovarmi un tetto
a Ginosa Marina. Solo dodici chilometri da qui.
Anche un tratto così breve in queste condizioni diventa lungo, ma non
posso spendere un’altra notte insonne essendo benvenuta solo dalle zanzare.
“Hit the road Jack”, canta Ray Charles sostituendo con classe il Liga, e
non posso non dargli ragione.
Oggi è una giornata importante. Entro in Puglia e non sorridiamo né io
né il cartello. Un signore mi sorpassa con una carrozzina elettrica e veden-
domi zoppicare mi chiede se voglio un passaggio. Sono tentata dal potenziale
della storia paradossale che ne potrebbe nascere, ma non posso mollare
ora. L’idea di farmi questo viaggio a piedi era anche quella di forgiare il ca-
rattere, superando da sola le sofferenze, e le mie sofferenze rispetto a quelle
di un disabile devono cambiare nome.
Arrivo a destinazione dopo quattro ore di dolorante strascico sotto al
sole. Domenico mi aspetta premurosamente alla porta del suo B&B e si
mette a mia completa disposizione, posso fermarmi il tempo necessario per
riprendermi. Il figlio del farmacista di Ginosa segue i miei passi dalla
Liguria, dove si è trasferito, e mi offre di andare a farmi medicare dai suoi.
Colgo la palla al balzo e nel giro di un paio di giorni la ferita si rimargina
quasi completamente.
Riparto, e per la prima volta posso permettermi di percorrere sulla spiaggia
l’intero tratto previsto, senza neanche pensare alle scarpe. Il mare è limpido,
è domenica e le scuole sono finite. Incontro molta gente, chi mi offre la gra-
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WALKABOUT ITALIA
nita, chi suggerimenti sulla strada da percorrere, chi mi dona il suo sogno
mentre si rispecchia nell’acqua raccogliendo telline. La spiaggia è dura per i
muscoli, ma sole e mare sono il miglior modo per rimarginare una ferita.
A Chiatona “qualcuno conosce qualcuno?” non funziona e provo la tec-
nica che ho usato per entrare nei musei a Siracusa per trovare ospitalità
gratuita in hotel. Ritagli di giornale alla mano e sorriso disegnato da un
bambino che sconfina agli angoli del viso.
Bassa stagione e il weekend è finito, se trovo un receptionist simpatico e
sognatore è fatta. Bingo. Alfredo e i suoi dreadlock fino al culo sono una
garanzia di successo ancor prima di aprir bocca.
Non riesco a distinguere i lineamenti della presenza che mi segue, perché
ogni giorno assume un volto nuovo. Oggi si chiama Alfredo, ieri era la
spiaggia, il sole e il mare, poi Domenico e prima ancora l’arcobaleno sullo
stretto.
Formi il pensiero lo lanci nell’universo come un sassolino nell’acqua e i
suoi cerchi concentrici arrivano dove devono arrivare e qualcuno risponde.
Risponde sempre.
Dio? Un angelo? Il Destino? Semplice Culo? Mia mamma dice che è la
mia nonna omonima slava. Mia nonna dice che è il suo defunto marito ita-
liano, il temuto partigiano Fulmine. Non mi va di creare litigi nazionalisti
tra morti. Io non lo so cosa sia, se sia solo la mia voglia di crederci a crearlo
o se siano una squadra di forze mistiche che fanno il tifo per me. L’unica
cosa certa è che funziona e quindi grazie per l’aiuto e la splendida compa-
gnia, chiunque tu sia.
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questa è taranto
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WALKABOUT ITALIA
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QUESTA È TARANTO
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WALKABOUT ITALIA
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QUESTA È TARANTO
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il branco
Mettete degli attori in strada a guardare il cielo e scoprirete che nel giro
di pochi minuti la maggior parte dei passanti è ferma a imitarli, tanto da
fermare il traffico. Questo fenomeno individuato del professor Robert Cial-
dini è chiamato social proof.
Quando massaggiavo i giocatori di poker, sfruttavo questo comporta-
mento a mio vantaggio, regalando massaggi nei momenti morti. In questo
modo gli altri giocatori vedendomi sempre impegnata pensavano ci fosse
una ragione e chiamavano sempre me a massaggiarli, nonostante non fossi
certo la più capace tra le mie colleghe, tra cui c’erano esperte fisioterapiste.
Perché questa emulazione di branco? Forse è un istinto di sopravvivenza.
Quando un’antilope inizia a correre, le altre non hanno certo tempo di
assicurarsi che ci sia veramente un predatore in agguato, la seguono senza
farsi troppe domande. Probabilmente in passato lo stesso era valido anche
per noi, e anche ora che indossiamo Google glasses per indicarci con un
punto esclamativo l’escremento che stiamo per calpestare, il codice genetico
di questo comportamento non si è automaticamente cancellato. Il com-
portamento di branco è valido per la moda, la politica, il pensiero, tutto,
me inclusa.
Nei giorni scorsi mi ha chiamato tale Nikki, presentatore di Tropical Pizza,
un popolare programma su Radio Dj, per saperne di più sul mio viaggio, e
improvvisamente tutti vogliono sapere chi sono, come mai cammino, quanti
litri d’acqua bevo al giorno, e quante volte mi fermo a pisciare mentre si
scattano un “selfie” con “la camminatrice”. Andy Warhol l’aveva predetto
che in futuro ognuno avrebbe avuto i suoi quindici minuti di celebrità.
A dispetto delle considerazioni sull’estrema arroganza dell’essere umano
nel considerarsi una specie intelligente, tutto questo mi facilita ulteriormente.
Volevo condividere i miei passi fin dall’inizio e ora che il numero di persone
che ne è a conoscenza è cresciuto a dismisura ho ricevuto inviti in tutta
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IL BRANCO
Italia. Carta e penna, devo segnare ogni contatto e rispettivi numeri di tele-
fono sulla mappa.
Mi siedo su un sasso e a metà del primo appunto mi fermo. Chi sono
questi nuovi sconosciuti? Probabilmente saranno come quelli che non co-
noscevo fino a ieri. Non ho voglia di organizzarmi, sto scendendo nel Salento
insieme all’estate, mi sento in vacanza e voglio continuare a camminare
senza pensieri, non ho voglia di avere certezze. Ora sono quelle a farmi
paura. Se dovrò dormire fuori ci sono delle spiagge stupende e il sacco a
pelo caldo nella pancia del mio zaino. Non ho voglia di unirmi al branco,
sto bene da sola.
Il mio zaino e la mia ombra, in effetti, sono gli unici compagni di viaggio
che mi seguiranno fino alla fine e ho deciso di dargli un nome. Cassiopea e
Goethe. «Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera», scriveva il tedesco illu-
minando il mio lato oscuro; l’altra è una costellazione, come le altre, amica
dei viaggiatori. Bussola nel cielo, Cassiopea è soprattutto la tartaruga di
Momo, la bambina che grazie al potere dell’ascolto porta felicità e sconfigge
i signori grigi, ladri del tempo, nel libro di Michael Ende. La mia tartaruga
è un essere saggio a forma di zaino che mi raddrizza la schiena e zittisce
quando è il momento di ascoltare.
Andiamo a Manduria. Matematicamente è più probabile che “qualcuno
conosca qualcuno” in un paese di 30mila anime piuttosto che di mille.
Mi viene consigliato di andare in un pub abbastanza alternativo fre-
quentato da gente che possa capire la mia pacifica follia e offrirmi un tetto.
Apre alle nove. Devo aspettare un paio d’ore e tira vento. Cerco una chiesa
tranquilla dove ritirarmi a scrivere.
Avete mai provato a entrare in chiesa mentre i cristiani attendono messa
con gli auricolari che spingono musica nelle orecchie a massimo volume? È
un esperienza mistica. Immagino il silenzio della chiesa mentre c’è chi
manda un messaggio sotto al banco, nascondendosi agli occhi del Cristo in
croce come a scuola dalla maestra, chi paga la bolletta dell’Enel alla chiesa
accendendo candeline con l’interruttore, chi sussurra pettegolezzi, chi
dorme, chi viene a cercare l’assoluzione per peccati che non ha intenzione
di interrompere e anche qualcuno che prega.
In questo momento, chiunque ha la possibilità di entrare sulla scena e
scegliere la propria colonna sonora. La mia è Caparezza, che urla appassio-
natamente: “Vieni a ballare in Puglia”.
Il contrasto è netto, mentre le bocche si aprono per un’Ave Maria:
“Turista tu resta coi sandali, non fare scandali se siamo ingrati e ci siamo
dimenticati d’essere figli di emigrati. Mortificati, non ti rovineremo la gita.
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WALKABOUT ITALIA
Su, passa dalla Puglia, passa a miglior vita”. Mi siedo a guardare le docili
pecore doppiare il cantautore pugliese.
Questa società è sull’orlo del collasso.
La casa del Signore chiude i battenti e lascia il viandante nuovamente
sulla strada. Vado al pub speranzosa. Una ragazza, due ragazzi, lei mi
guarda di sottecchi incuriosita. Stanno fumando. Gli scrocco una sigaretta
per rompere il ghiaccio. Iniziamo a parlare, scatta l’ingranaggio e aprono
immediatamente i loro cuori, le loro porte e anche il menù per offrirmi la
cena e un ambìto calice di Primitivo. Mariada confessa di avermi notata da
lontano e che moriva dalla voglia di conoscermi, sperando le chiedessi
un’informazione. Le chiedo di più. Un sogno.
Ha lasciato un lavoro che odiava proprio ieri, e se non l’avesse fatto non
sarebbe qui e non ci saremmo incontrate. Vuole rivoluzionare la sua vita,
partire, cambiare, realizzarsi e prende il nostro incontro come un segno del
destino.
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IL BRANCO
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WALKABOUT ITALIA
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caput mundi
Ad Aradeo c’è Maria Neve, la prima persona che mi ospiterà che cono-
scevo da prima di partire. È bello per una volta sapere che faccia e che rea-
zione aspettarsi. Me la ricordo magra, rossa, sexy e positiva. Non è cambiata,
anzi, nel suo ambiente naturale, il Salento, è ancora più splendente. Spendo
qualche giorno in compagnia sua e dei suoi amici che entusiasti della mia
avventura ripartono con me fino a Gallipoli. Poi, scendendo verso la punta
dello zoccolo, mi aspetta Francesca a Capilungo, cugina di Francesco, in-
contrato a Manduria. Mi accorgo subito della sua intensità e spero di essere
all’altezza della sua compagnia.
Durante la cena, preparata con amore, mi racconta di come sia cambiata
la sua campagna negli ultimi anni. I cartelli “zona avvelenata” campeggiano
alternatamente tra un uliveto e il successivo. I contadini preferiscono gli er-
bicidi della Monsanto piuttosto che i tagliaerba. Maestosi alberi secolari si
sono ammalati. Questo trattamento, invece di ottimizzare la produzione,
avvelena il terreno, le radici, quindi la pianta e i suoi frutti. Tra gli alberi in-
deboliti ha visto crescere interi campi di pannelli solari, paradossalmente in
contemporanea alle sue bollette. Ora compra energia pulita da compagnie
estere, che deturpano il paesaggio delle sue campagne, a un prezzo più alto.
Francesca è un’artista di strada, un’affascinante cantastorie. Nelle vesti
di Virgilio mi guida premurosa tra i gironi esoterici del tarantismo e della
pizzica e della sua blasfema commercializzazione, poi come Beatrice mi ca-
tapulta in paradiso, soffiando polvere di stelle, materia di sogni al vento.
Sintonizziamo le nostre energie massaggiandoci a vicenda prima di addor-
mentarci, poi, insieme, abbracciate sugli scogli e folgorate della magia di
quest’incontro di anime sorelle da un’eternità, ci congediamo.
Salutarci non ha importanza, perché siamo sempre state una dentro
l’altra e continueremo ad esserlo come matrioske fluttuanti in un universo
senza gravità e senza tempo.
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CAPUT MUNDI
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CAPUT MUNDI
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sogno di non avere più sogni
(forse)
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SOGNO DI NON AVERE PIÙ SOGNI (FORSE)
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WALKABOUT ITALIA
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SOGNO DI NON AVERE PIÙ SOGNI (FORSE)
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WALKABOUT ITALIA
era stato costruito un immobile abusivo, farlo demolire e regalarlo alla Re-
gione, a patto che su di esso non venga mai più costruito nulla. Se la bellezza
salverà il mondo, come dice Dostoevskij, Carla e la sua Coppula Tisa salve-
ranno il nostro diritto a reclamarla.
Daniele, conosciuto ad Aradeo viene a camminare con me e guidati dalla
luna piena attraversiamo le campagne incantate infestate di trulli verso Al-
berobello, passando da Cisternino e Locorotondo, altre città bianche, ancor
più belle dell’inflazionata Ostuni. Senza tetto, ci divertiamo a ridere dei
vigili urbani che ci consigliano di scavalcare il cancello del mercato di paese
per dormirci dentro; poi, tramite un cliente del bar dei miei genitori a
Stresa, entriamo in contatto con i suoi genitori che gentilmente ci ospitano
nel loro trullo.
Una giornata spesa a camminare, rubando prugne e fioroni e sperando
di riuscire a trovare un letto sotto ai caratteristici coni di pietra, ed eccoci
qua, col sogno di oggi realizzato, ad ascoltare Pietro raccontare come scuo-
iare un riccio (non di mare) al mio compagno di viaggio vegano. Immersi
nella campagna, ora più varia e meno avvelenata di quella salentina, ammi-
riamo gli uliveti che invece di essere tenuti in ordine con le polveri Monsanto
vengono coltivati a grano. Bronzi secolari emergono da un mare giallo flut-
tuante nel vento.
Saluto il mio compagno di passi a Castellana Grotte e scrocco l’ingresso
di 14 euro per visitare i tre chilometri di passaggi sotterranei scolpiti dal-
l’acqua in migliaia di anni. La guida alle grotte mi aveva vista camminare
nei pressi di Santa Maria di Leuca e mi regala il suo unico biglietto omaggio
l’anno. Dormo questa volta in un trullo imperiale cosparso disordinatamente
da contrabbassi, mandolini, piani, batterie e chitarre di ogni genere, appar-
tenenti al musicista meraviglioso che prepara un falò nel suo bosco senza
fine per accogliermi. Solcando il cancello della sua immensa proprietà, ini-
ziano i fuochi d’artificio, non in senso metaforico, davvero, il vicino di casa
sta festeggiando qualcosa, per me è il mio arrivo e mi sento benvenuta.
Chiacchiero con Walter tutta la notte davanti al fuoco scoppiettante, mi
offre un letto a caso nel suo trullo a sette stanze, perché lui preferisce
dormire nella tenda che ha montato in giardino.
Riprendo la strada fino a Noicattaro, per vedere la finale del mondiale
in casa di ragazzi incontrati sulla via, che mi raccontano come in quelle
zone sia usanza affittare una casa tra le comitive di amici, un luogo dove
potersi ritrovare tra loro, guardare le partite, giocare alla play, portarci la
ragazza di turno. Per la modica somma di 10 euro al mese a testa, si rispar-
miano tutti quelli che avrebbero altrimenti buttato via al bar, e sono liberi
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SOGNO DI NON AVERE PIÙ SOGNI (FORSE)
di fare quello che nei luoghi pubblici è vietato. Una grande idea, e mi
chiedo perché noi al nord le uniche collette che facevamo da ragazzi erano
quelle per prendere il fumo e poi gelarci le chiappe assiderati dal freddo
umido del lago d’inverno.
Sulla strada verso Bari mi fermo all’Ikea.
Tutti ne parlano e non ci sono mai stata. Sembra
il museo dei salotti di tutto il mondo e le fami-
glie baresi sono goffe e impacciate tra la perfe-
zione studiata dagli scandinavi, non sono certo
le famiglie delle pubblicità (e dubito che anche
quelle svedesi lo siano).
A Bari dormo a casa di Davide, un disastro
di casa dove per ogni couchsurfer che ospitano
aggiungono una stanghetta sul muro. Siamo a
164 in meno di un anno. Condivido la stanza
con i giovani studenti ubriachi, dopo aver visto
insieme il concerto di Goran Bregovic e aver
ballato con nuovi sconosciuti.
Rispondere alle stesse domande, inventarmi
risposte nuove per non annoiarmi, scoprire un
fondo di verità anche in esse per rendermi
conto che la verità assoluta non esiste. Tutto
questo è meraviglioso, eppure era diventata la
mia routine e avendo perso la paura non mi
eccitava più, era diventata “normale”, insipida.
Avevo bisogno di staccare, e fortunatamente
“quello lassù” mi ha organizzato qualcosa di speciale.
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essere liberi di…
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ESSERE LIBERI DI…
Perché siamo veramente qui è un mistero, e col passare dei giorni sembra
diventarlo anche per chi ci ha chiamato.
I personaggi inizialmente elencati sul sito come partecipanti vengono
rimpiazzati da altri sconosciuti, ma questa polpetta messa insieme a caso
esce saporita e presto scopriamo di essere l’unica ragione per cui vale la
pena rimanere. C’è Clelia, una blogger sarda che vive dei suoi viaggi e del
suo raccontarli, Dino che l’anno scorso si è fatto 9.000 chilometri in bici at-
traversando l’Africa da nord a sud, Cristian direttore creativo di un’agenzia
digitale, Carlo Alberto ex psicologo del Grande Fratello e inguaribile ro-
mantico, e i fratelli Astrologo, due giovani virtuosi videomaker romani.
Dopotutto siamo creativi e ribaltiamo la frittata in nostro favore, utiliz-
zando questi giorni come piattaforma per divertirci insieme e accrescerci a
vicenda. I video passano in secondo piano. D’altronde Essere liberi di…
cosa? Che cos’è la libertà? Per me la libertà è riuscire ad essere se stessi,
sempre e comunque. Per questo adoro la strada. C’è chi si veste, chi si
trucca e si atteggia per riflettere allo specchio l’immagine di sé che vorrebbe,
e c’è chi se ne frega, chi parla, canta e ride da solo. In strada c’è chi sceglie
la direzione in base a dove deve andare o chi lo fa in base ai suoi colori, e
c’è chi non l’abbandona mai perché a volte si riesce ad essere se stesso solo
lontani da casa.
Io ero sulla strada, ed ero anche su quella giusta per una volta, e sono
stata dirottata. Peccando d’ingenuità, mi sono lasciata attrarre da questo
specchietto per allodole e l’unica cosa che posso fare ora per redimermi è
ammettere l’errore, imparare la lezione e ripartire da qui. O se volete, da
zero, cambiando rotta. Come le storie a bivi di Topolino, dove sfido chiun-
que a non essersi mai letto tutti gli altri possibili finali.
Ora leggo l’altra storia, mi sono trovata davanti il cartello che indicava
Taranto dritto, e Reggio alle mie spalle. Il futuro di una volta è già passato
e ho girato a sinistra, valico il Pollino verso il Tirreno, perché i colori di
queste montagne non me li sono ancora mangiati. E ho tanta, tanta fame,
ma non di mozzarella… di strada, di sogni, di mondo, di vita.
3, 2, 1… GO WALK (again).
Si riparte.
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le pietre magiche
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LE PIETRE MAGICHE
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WALKABOUT ITALIA
Con Biagio sono in debito, mi dà molto di più di quello che gli posso of-
frire. Biagio è un cantastorie, ha un’asina che si chiama Cometa Libera e
tutti gli anni attraversa il Pollino insieme a lei, fermandosi nei borghi
montani a raccontare i perché della musica popolare attraverso di essa. Il
suo sogno realizzato si chiama ViaggioLento, un festival da lui ideato, dove
invita a raccontare le proprie utopie diventate realtà, ad ascoltare e ad av-
valorare qualsiasi forma di libera espressione.
Esiste una realtà parallela a quella che spesso pensiamo sia l’unica: Biagio
ha trovato la strada per arrivarci, dedicando anima e corpo alla sua passione,
la musica. Nei giorni in cui mi ospita ho la fortuna di assistere alle prove. Sta
preparando uno spettacolo nuovo: Kairos, riferendosi al momento giusto
per agire, analizza lo status quo confrontando dati oggettivi di povertà e di-
suguaglianza a livello mondiale. Sono noti, ma sentirli tutti insieme travolti
dal vortice catartico della musica portano allo stordimento. Il suo linguaggio
rimane impresso a fuoco nella testa e nello stomaco, e l’unica cosa che ho da
dare in cambio è l’ascolto e raccontare la sua storia. Esercizio di umiltà.
Un signore si ferma al ciglio della strada con la sua moto Guzzi. Se
proprio dovessi mettermi un mezzo a motore sotto le chiappe sarebbe lei.
È da stamattina che mi vede camminare, è curioso e gentile e mi offre dei
soldi (che rifiuto). Allora apre una busta di plastica e taglia mezza forma di
formaggio da lasciarmi. Esercizio di umiltà.
Giovanni è il fratello di un amico di un mio amico. Si occupa di pro-
muovere vino calabrese e conosce tutti. Davvero tutti. Dire di essere amica
di Giovanni Gagliardi in Calabria è un biglietto da visita che apre tutte le
porte. Ma io Giovanni non l’ho mai incontrato, eppure veglia su di me da
quando sono sbarcata a Reggio. In qualunque situazione, mi aiuta a trovare
contatti, cibo e un letto, senza nemmeno conoscermi. Esercizio di umiltà.
Mi raggiunge Milena, un ex avvocato che ha realizzato il suo sogno can-
cellandosi dall’albo per trasformarsi in scrittrice. Ha voglia di camminare e
di cambiare aria, io non ho niente da darle. La strada e la libertà sono
sempre a disposizione di tutti, ma lei mi offre compagnia, vino, tabacco e
un sasso. Esercizio di umiltà.
In spiaggia mi sono messa a raccogliere dei sassolini, li cercavo di una
certa grandezza, non troppo grandi, non troppo piccoli, completamente
lisci, ci ho messo un paio d’ore per raccoglierne una ventina, poi li ho esa-
minati uno a uno e ne ho scartati tredici.
Milena, mi osserva di sottecchi e me ne passa uno. È il più bello di tutti.
Sono soddisfatta dei miei otto sassi perfetti.
Le pietre magiche mi portano a riflettere.
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LE PIETRE MAGICHE
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sirene che camminano
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SIRENE CHE CAMMINANO
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WALKABOUT ITALIA
* “Pensi di dover volere più di quello che ti serve, e fino a quando non l’avrai non sarai
libero”.
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SIRENE CHE CAMMINANO
buon vino e illuminiamo col falò. Pier Luigi, che nella compravendita dei
suoi cavalli ci ha guadagnato una canoa, la usa per andare a fare la spesa e
cucina pasta al salmone per tutti.
Tutta quest’aria aperta e la buona compagnia mi fa bene, sono euforica,
mi faccio addirittura una canna, non succede forse dal 2006. Si spegne in-
sieme a me, Carlo e il fuoco, esattamente lì.
Mentre scrivevo sulla spiaggia ho perso tutte le mie pietre magiche e ho
capito che non era la loro fisicità ad essermi utile, ma la lezione che mi
hanno lasciato.
L’unica rimasta l’ho regalata a Carlo Alberto, chissà che un giorno gli
possa servire.
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ho trovato l’amore
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HO TROVATO L’AMORE
È tardi, la luna è quasi piena sopra al mare e i piedi vanno avanti per
inerzia. Nella notte qualche grugnito di animale che non vedo, o forse è
davvero il nulla o uno dei suoi servi alle calcagna. Dalla solitudine passo
alla paura, torna l’eccitazione che lamentavo aver perso. Daniele mi mette
in contatto con Peppe ad Agnone, e arrivo al suo ristorante a mezzanotte.
In tempo per cena. Amo il sud.
Peppe Tarallo è un uomo meraviglioso. È stato lui a lottare per la crea-
zione del parco nazionale del Cilento e ne è stato anche presidente. Mentre
mangiamo riso e cozze, mi racconta la sua storia condita di sogni.
Come capita spesso a chi viaggia, Peppe nota la bellezza di casa solo al
rientro, ma alla fine degli anni Ottanta si accorge anche del pericolo in-
combente della speculazione edilizia, quindi si riunisce con amici con cui
condivide l’amore per la propria terra e nasce l’idea del parco. Nel 1991 di-
venta area protetta, nel 1995 parco nazionale e ora anche patrimonio del-
l’umanità. Dal 2002 al 2008 ne è presidente. Blocca la costruzione di un
villaggio Club Med, protegge il Cilento dall’invasione di spazzatura del na-
poletano e conquista la demolizione del cosiddetto “ascensore della ca-
morra”, un hotel a forte impatto ecologico sulla costa, tra le minacce dei
camorristi urlate a denti stretti verso lui e i suoi figli.
È un personaggio scomodo, glielo si fa capire. Il governo Berlusconi lo
vuole rimpiazzare con uomini di fiducia e lo fa commissariare ben due
volte. La prima con la scusa di una mancata dichiarazione dei redditi e per
la seconda si inventano un emendamento apposta per lui. L’“emendamento
Tarallo”: se si è eletti presidente del parco nei sei mesi precedenti l’insedia-
mento di un nuovo governo si è deponibili dalla carica. Ovviamente accuse
ed emendamento non stanno né in cielo né in terra, e per una volta la giu-
stizia ha la meglio. Peppe vince entrambe le cause.
Ovviamente non gli verrà rinnovato l’incarico. Sa fare una cosa che pochi
sanno fare. Dire di no e continua a farlo da comune cittadino. No, non
possiamo continuare a caricare l’asino. “Ciento nienti accarerretano u ciuc-
cio”*. E il ciuccio è già sovraccarico. Peppe ha il coraggio di dire basta, per
questo è un personaggio scomodo.
Dormo nel letto del figlio Luca, che rientra tardi un po’ alticcio ed è
sorpreso di trovarsi una donna tra le lenzuola infilatacela dal padre. Mi fa
il solletico e sbellicandoci di risate ci addormentiamo con le finestre aperte
sul mare. Le tende arancioni svolazzano nel vento, portandosi via la mia
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WALKABOUT ITALIA
Ma si vede che non è del tutto soddisfatta e rimane con la testolina ap-
poggiata sulle mani a guardare il cielo sognante durante il resto della serata.
Ida e Mario invece il loro sogno lo stanno realizzando, giorno dopo
giorno.
Si scambiano il loro primo bacio da adolescenti, per poi rincontrarsi
anni dopo per caso su un autobus. Lei gli disse che era inutile provarci,
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HO TROVATO L’AMORE
non poteva essere: dopotutto, anche se alla lontana, erano cugini. Dal
giorno dopo si trasferiscono a vivere insieme e dopo un mese Ida è incinta.
La tenuta nel Cilento è di famiglia, ma cade a pezzi, mancano luce,
acqua e telefono. I parenti inizialmente si oppongono al progetto, ma i due
persistono, mollano le professioni di architetto e avvocatessa per ristrutturare
l’angolo di paradiso a Punta Tresina con il loro sudore e venirci a vivere.
Imparano a fare olio e vino e ora il loro bianco è considerato uno dei
migliori dieci in Italia, raccontano in totale sintonia, lei seduta sulle ginocchia
di lui, mentre lui le accarezza i capelli come fosse un maestoso felino.
Dormo sotto la tenda che hanno montato per me, davanti ai vigneti a picco
sul mare, e sogno l’amore. Un amore come il loro.
Annachiara alle sei di mattina
si presenta davanti alla mia tenda,
ci ha pensato tutta la notte e ha
altri due sogni da darmi.
È passata da volere un Sam-
sung ad aspirare il benessere per
tutti i bambini del mondo. Una
notte di sogni porta consiglio.
Osservo nei dettagli il sentiero
che mi allontana alla tenuta, il mio
cuore deve ricordarsi la strada per
volarci quando offuscato dal dub-
bio, l’amore vero esiste.
Ida e Mario ne sono la prova.
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un problema con le autorità
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UN PROBLEMA CON LE AUTORITÀ
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WALKABOUT ITALIA
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un fuoco che fa ombra
Più intensa è la luce, più scura sarà l’ombra che proietta, mi ricorda
Goethe.
La luce della Campania è accecante. La costiera amalfitana mi ha lasciata
senza parole. Credo di non aver mai visto tanta bellezza in tutta la mia vita.
Pensavo la Nuova Zelanda naturalisticamente fosse il paese che offrisse
di più, tra quelli che ho avuto la fortuna di visitare finora. Mi devo ricredere.
Anche noi abbiamo laghi, vulcani, ghiacciai e fiordi, e nel mezzo ci sta pure
una qualche repubblica marinara ricca di storia e tradizione.
Fabio, un gentile sconosciuto che segue il mio viaggio via Internet, sa
che sono arrivata in costiera amalfitana e mi contatta direttamente per con-
sigliarmi di passare a salutare un suo amico, il proprietario dell’hotel Maresca
a Praiano. La curva dopo mi ci trovo davanti. Come non ascoltare i consigli
di un destino così sfacciato? Entro, chiedo di Nello, sono amica di Fabio,
mai visto.
Mangio con loro? Certo, avevo giusto fame.
È un bel pranzo, finestre aperte sul blu alle nostre spalle, conversazioni
brillanti nonostante il tepore impigrisca le palpebre. A tavola c’è Sabina,
una donna austriaca. Era venuta a farsi un giro in Italia negli anni Settanta,
partendo dalla costiera, stringe amicizia con Nello e s’innamora del posto e
forse anche di lui. Il resto dell’Italia improvvisamente non le interessa più
e ogni anno torna.
«Tu non poterrre andarrre Positano senza farrre sentierrro degli dèi. È
belissimo! Oggi tu viene casa mia a Furorre, domani faccio vederre strada
per sentierro».
Non mi sogno neanche lontanamente di dirle di no. Uno perché non è
una domanda ma un ordine, due perché se lei torna qui da ormai più di
quarant’anni ci sarà un motivo e lo voglio vedere con i miei occhi.
Andiamo, anche se sto tornando indietro, oramai cosa cambia? Una
manciata di chilometri in più o in meno?
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WALKABOUT ITALIA
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UN FUOCO CHE FA OMBRA
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l’epicentro
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L’EPICENTRO
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una scelta razionale. Lascio Chris e torno in Laos. Non lo farò mai più. Es-
sere razionale, intendo. Ho fatto la cazzata più grande della mia vita.
Gli uomini non cambiano, diceva Mia Martini, e aveva ragione. Francesco
non ha ancora imparato ad amare e io non ho ritrovato la pazienza che
avevo già perso prima di andarmene. Faccio di tutto per farmi perdonare
dal mio giovane irlandese, ma la bolla si è spezzata e anche il suo cuore.
Dopo un paio di mesi sembra finalmente riesca a convincerlo e lo raggiungo
a Hong Kong, ma fondamentalmente non è mai riuscito a perdonarmi e lo
capisco. Ercolano non è solo stata travolta dal vulcano, ma è anche l’epi-
centro di tutti i miei terremoti sentimentali, avendo dato i natali a Francesco.
Sono stata invitata dal suo migliore amico e dalla dolcissima moglie Rita.
Abitano al piano di sopra dei miei “ex suoceri”, e prima di essere sgamata
per caso sulle scale e fare una figuraccia mi vado a costituire salutandoli
spontaneamente. Il padre Ciro oramai in pensione si diverte a creare i pae-
saggi della natività in sughero, per intrappolarli sotto a campane di vetro se-
condo la tradizione napoletana e a dipingere. Ora è nel garage alle prese
con un paesaggio di mare che gli sta venendo particolarmente bene. Non mi
riconosce subito. Sono cambiata. Il viola messo sui capelli a Corleone è
sbiadito in un biondo chiarissimo, capelli corti come non li ho mai avuti e se
non avessi seno passerei per un ragazzo. Taglio antistupro, lo chiama Marco.
A Ciro, dopo il primo attimo di confusione, si riempiono gli occhi di la-
crime: «Darinka!!! Cosa ci fai qui! Quanto tempo! Che piacere!». Parliamo
fino alla commozione di entrambi, si spiace per come siano andate a finire
le cose con il figlio, gli dico di non preoccuparsi, non era destino. Come la
maggior parte delle persone della sua età non capisce cosa stia facendo in
giro a piedi e senza soldi, ma è sinceramente felice di vedermi, e anch’io. In
lui rivedo il lato del figlio che amavo. Tenerezza e creatività.
L’indomani, prima che io riparta, si presenta a casa dei coniugi che mi
ospitano mentre sto ancora dormendo e lascia a Rita una busta per me. Rita
neanche troppo intimamente spera che la mia storia d’amore con l’ercolanese
che detiene i due poli opposti del mio cuore non sia finita e sento che mi
vuole bene davvero. Il sentimento è reciproco e siamo entrambe emozionate
all’addio sulla tromba delle scale dell’epicentro. Dice di avere una busta da
parte di Ciro. Dentro ci sono 100 euro per offrirmi il caffè. Il regalo mi ap-
panna lo sguardo di emozioni, ma non posso accettarlo. Viaggiare senza
soldi è stata una scelta. Una regola del gioco che mi sono inventata.
Il caffè nel napoletano è la metafora di tutto. Se bisogna discutere per
mettere a posto le cose ci si va a fare un caffè, se si vuole aiutare qualcuno
gliene si offre uno, se con uno non parli di certo non ci vai a bere il caffè in-
sieme, ed eventualmente per festeggiare una giornata fortunata lo si può
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L’EPICENTRO
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WALKABOUT ITALIA
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non c’è niente di cui
avere paura
Certo, sono italiana, ma per la metà della mia vita non sono stata qui.
Non guardo la televisione, i politici li conosco solo tramite l’ironia di Crozza
che seguo sempre con piacere da lontano su YouTube, la metà delle volte
che mi parlano dei “famosi” non so che faccia abbiano, e altri come Walter
Nudo li conosco solo perché mia nonna ne è perdutamente innamorata.
Ora, dopo aver speso soli pochi mesi in Italia, non posso pretendere di
aver recuperato i quindici anni in cui non ci sono stata, né posso permettermi
di giudicare. Ho però notato una cosa che piace molto fare a questo popolo.
Sembra che noi, dall’alto della culla della “civiltà”, abbiamo il diritto divino
di porci al di sopra delle parti.
Sento spesso generalizzare sui comportamenti di francesi, tedeschi,
inglesi, cinesi, americani, per non parlare dei nordafricani. Quando poi i
contatti reali avuti da questi giudici super partes con gli “alieni” sono pres-
soché nulli. Ho camminato nel mezzo di strade affollate da cinesi e maroc-
chini. L’ho fatto qui. L’ho fatto in Marocco, e l’ho fatto in Cina, e la diffe-
renza è la diffidenza. Al limite al loro paese ti guardano incuriosito.
Se noi, dopo essere passati dalle centrifughe mediatiche propagandistiche
e demonizzanti, abbiamo paura di loro, posso solo immaginare che effetto
la nostra paura possa avere sugli stessi. Mostri con la sola colpa di essere
nati dal lato “sbagliato” del Mediterraneo.
Vengo spesso messa in guardia dallo straniero e cerco di non farmi in-
fluenzare da racconti di stupri e rapine che l’uomo nero sembrerebbe così
incline a compiere.
Questa è decisamente la cosa che mi piace di meno di questo paese.
Forse generalizzo, ma ovunque sia stata in Italia ho notato la tendenza a
giudicare tutto ciò che è diverso da noi in modo negativo. Dall’immigrato
al vicino di casa con usi e costumi originali. Quando mi si chiede da dove
sia passata e che esperienza abbia avuto con i calabresi o i napoletani, per
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WALKABOUT ITALIA
esempio, non posso fare a meno di esternare il mio entusiasmo nei loro
confronti e noto quasi un’espressione di delusione nello sguardi dell’inter-
locutore, secondo cui gli uni sono rimasti all’età della pietra e gli altri in-
cantatori di serpenti di professione.
L’Agro Pontino dovrebbe essere un covo di fascisti agguerriti.
Vengo ospitata gratuitamente da un campeggio entrandoci al buio, mi
viene offerta una pizza e la colazione, piovono sogni. Ettore, che mi aveva
ospitata a Itri, mi aspetta all’arrivo della tappa successiva. Dopo essersi fatto
una doccia chiarificatrice, si rende conto di aver perso un’occasione unica,
non avendo contribuito alla scatola magica. Testuali parole: «Ho pensato…
e se tu fossi una fata, passata da casa mia con il potere di avverare i miei
sogni? Ho dovuto inseguirti per darteli!». Mi fermo a un bar a riempire
l’acqua, mi chiamano “distributrice di speranze”, mi offrono da mangiare e
scrivono tanti biglietti da aggiungere alla mia collezione di desideri.
Latina dovrebbe essere la capitale del “male” per eccellenza.
Ci arrivo dopo 46 chilometri ombreggiati da pini marittimi sull’Appia,
una bella ma monotona campagna. Qualche fenicottero a eccitare i miei
passi di tanto in tanto. Per non annoiarmi ricorro al trucco della batteria.
Immagino le mie gambe come dei pedali e la terra la pelle tirata della gran-
cassa, cammino a ritmo di musica. Arrivo in fretta.
Per un malinteso rimango senza tetto un paio d’ore prima di entrare in
città, e lancio una manciata di richieste di ospitalità su Couchsurfing. Nel
giro di mezz’ora la gente fa a gara ad accogliermi. Accetto la prima offerta,
rifiutandone a malincuore altre cinque.
Non siamo finiti a parlare di politica con i miei benefattori. Forse sono
stata fortunata a incontrare “rari casi non affetti da fascismo acuto”. Ma ho
smesso di credere alla fortuna.
Volete continuare a pensare che Latina sia un’inospitale schiera di de-
stroidi incalliti, che i napoletani siano tutti dei ladri, i calabresi chiusi e dif-
fidenti, i francesi altezzosi, gli inglesi antipatici, i cinesi sporchi e i marocchini
stupratori?
È vero che a Latina vince la destra, ma forse invece di soffermarsi allo
sterile pregiudizio andrebbero ricercati i perché storici, e mi viene in mente
una bellissima frase che lessi sull’insegna di un ufficio di traduzioni a Kashgar
(Xing Jang, Cina): “In life nothing is to be feared, it is only to be understood”.
Nella vita non c’è niente di cui aver paura, è solo da essere compreso.
Credo che i perché storici, in questo caso, siano più che comprensibili,
essendo Latina una città creata negli anni Trenta sopra a territori bonificati
dai più poveri di tutta Italia, sopraggiunti nell’Agro Pontino per creare
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NON C’È NIENTE DI CUI AVER PAURA
spazi inesistenti e costruirci, con successo, il loro futuro. Allora perché non
smontare l’invalicabile montagna delle ideologie che ci separa, per poi ren-
derci conto invece di quanto ci accomuna demolendo i pregiudizi.
Se poi per caso fossimo interessati a parlare di verità oggettive, una volta
entrata nel Lazio la spazzatura che mi ero tanto abituata a vedere ovunque
è diminuita sensibilmente.
C’è stata Heli, la mia migliore amica, una fotografa finlandese a trovarmi
nei giorni scorsi. Mi raccontava di come in Finlandia sia pratica sportiva
nazionale il “lancio del Nokia” e le ho risposto che il nostro sport nazionale
ufficioso è il lancio del frigorifero.
Roy Batty in Blade Runner direbbe: «Ho visto frigoriferi in posti che voi
scandinavi non potreste immaginarvi, frigoriferi e forni in vallate irraggiun-
gibili, illuminate solo dalle costellazioni di Orione, frigoriferi in fiamme
spegnersi tra uliveti nel buio alle porte di Tannhäuser. E tutti questi frigoriferi
andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. O forse no, dato
che non sono biodegradabili. È tempo di morire».
Quindi, se poi all’estero sentissimo dire che l’Italia è sporca e l’italiano
razzista e bigotto, certo è generalizzare, ma io non mi offenderei.
Ma poi in fondo, cosa volete ne sappia io… Ex stripper di origini slave.
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il circo montico
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IL CIRCO MONTICO
Esce dalla gabbia altrettanto sorpreso. Parliamo delle origini delle nostre
famiglie, entrambe friulane, mio nonno era un partigiano, soprannominato
“Fulmine” per la sua lestezza, rifugiatosi in Piemonte per sfuggire alla taglia
che pendeva sulla sua testa. Il padre di Gaetano invece era fascista emigrato
a Latina. Una storia da film. Le probabilità di essere parenti sono oggetti-
vamente buone, essendo i Montico in pochi e i nostri originari di Sesto al
Reghena, un paesino che conta meno di 6.000 abitanti.
Ora so perché sono passata di qua. Per conoscere il mio lontano cugino
domatore di leoni. Mi porta nell’ufficio e mi racconta della sua vita nomade.
Cinquantacinque anni in viaggio. Parla undici lingue. Apparentemente il
circo Montico è uno dei più conosciuti sul panorama circense europeo.
Vendono i loro numeri ai circhi di tutto il vecchio continente e i due figli,
Rudy e Denny, sono infatti ora in tournée. Mi prende la mano e la legge
senza azzeccarne una, non si può pretendere troppo, la sorte ha già dato
abbastanza per oggi.
Starei ore ad ascoltarlo, ma mi aspettano a Cisterna per cena e sono co-
stretta a salutarlo. Sognante, immaginandomi un possibile futuro o passato
nel circo, trovo che la storia del mio nuovo parente acquisito si addica
molto a quella della nostra famiglia, che a quanto dice papà ha origini zin-
gare. Il bisnonno di Gaetano s’innamorò di una donna del circo mentre il
mio di una zingara ed entrambi abbracciarono lo stile di vita delle compagne.
Sicuramente il nomadismo ci è rimasto nel sangue.
Racconto subito l’incredibile incontro a mia zia Anna, che impersona
alla perfezione il sangue gitano che scorre nelle nostre vene, dividendo la
sua vita tra Spagna e Indonesia, e mi dice di ricordarsi del circo Montico.
Era passato per Stresa durante la sua infanzia, e già ai tempi si era preparata
a scappare con loro, voleva fare la trapezista, poi si rese conto di soffrire di
vertigini e rinunciò.
Non passare da Aprilia
è stata un’idea fantastica,
perché oltre ad avermi por-
tata dal signor Montico mi
permette di passare dalle
pittoresche colline dei Ca-
stelli romani ed evitare
molto asfalto, ma il perché
di questa deviazione come
al solito l’ho capito solo per
strada.
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basta!
Quando arrivo nelle città mi piace perdermi. Senza mappa, giro guidata
dai sensi, ammirando quello che mi sta intorno, invece che le fattezze delle
cartine. Solitamente non mi faccio accompagnare da chi mi ospita, perché
preferisco prima esplorare senza filtri e scoprire gli angoli da fotografare
con calma, senza influenze esterne.
A Roma non sapevo più da che parte guardare. È sicuramente la città
più bella che abbia mai visto. Quale città al mondo ha una strada costruita
duemila anni fa che ti porta direttamente nel suo cuore pulsante? L’Appia
Antica è costeggiata da mausolei, resti di ville romane, volti di duemila
anni fa scolpiti nel marmo che osservano il mio passaggio imperturbabili.
La storia si respira nell’aria. Allo stesso tempo non si può non notare il
contrasto con la civiltà che invece di essere andata avanti sembra aver fatto
marcia indietro. Il cuore palpita, ma il cervello è in coma. Il contrasto tra
passato e presente, tra bellezza e sterilità è netto. Sembra che i romani
vivano in un museo impolverato da sfruttare e vendere ai turisti senza ren-
dersi conto che l’hanno costruito loro e che quindi non può essere solo
tale. È una casa da vivere, preservare e continuare ad arredare con lo stesso
gusto dei predecessori.
Capitale specchio veritiero di una società malata di vizi, bei vestiti,
plastica e televisione. E ve lo dico in tutta onestà, se non avessi senso del-
l’umorismo Roma da sola non è piacevole da girare. In quattro giorni di
lunghissime passeggiate da Trastevere a Pigneto, da piazza di Spagna al
quartiere ebraico, ho perso il conto degli apprezzamenti alquanto coloriti
di chi mi credeva straniera e inconsapevole dedicati alle mie “poppe”.
Eppure trovo triste che l’unico sfogo evidente della creatività umana a
Roma sia l’approccio scurrile col gentil sesso. In questi mesi ho fatto indi-
gestione di umanità e Roma è la goccia che fa traboccare il vaso. Chi ha vo-
tato Berlusconi? Chi mi offre un gelato perché mi scambia per una di X-
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BASTA!
Factor? Chi nasconde una brava persona dietro ad aggettivi volgari perché
così fan tutti? Chi spettegola della sua vicina di casa davanti a una statua
del Bernini? Chi mi chiede “le credenziali del pellegrino” invece di credere
ai calli sui miei piedi?
Basta! L’idea che se ci comportiamo come se vivessimo nel mondo dei
nostri sogni esso si adeguerà a noi è altrettanto valida per gli incubi.
Negli ultimi cinque mesi come una spugna mi sono riempita di umanità
e di storie, poi spremuta per assorbire ancora. Ora sono satura, assorbo ma
non esce più niente. Ho bisogno di stare da sola per un po’. Ho voglia di
intraprendere un viaggio diverso, un viaggio senza chiasso, un viaggio
dentro di me.
Allora faccio domanda alla confraternita di San Jacopo di Compostela
per ottenere le credenziali del pellegrino che dovrebbero aprirmi le porte
della via Francigena. Le hanno finite e dovrei aspettare un paio di settimane,
ma dicono che basta una lettera di presentazione scritta da un sacerdote.
Non è difficile trovare un sacerdote a Roma: lo trovo, e quando gli spiego
che mi serve la certificazione di pellegrina, poverino, neanche lui sa cosa
scrivere. Sembriamo Troisi e Benigni che scrivono la lettera a Savonarola.
Timbro della sua parrocchia. Fatto.
Da domani abbandono l’asfalto e con esso voglio lasciare anche la società
alle spalle, fuori da me e dai miei passi. Almeno per un po’. Ho fatto una
scorpacciata di parole, voglio austerità. Non credo di essere pronta per
questo, come non ero pronta per iniziare questo viaggio prima di partire,
quindi tanto vale farlo e basta.
Diario del capitano, data
astrale 10 settembre 2014.
Abbiamo raccolto un se-
gnale d’emergenza, cambio
rotta, allacciare le cinture,
si parte per un viaggio in-
teriore.
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i sogni
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I SOGNI
lotta attivamente giorno dopo giorno per dare una nuova immagine alla
sua amata città, passando da Bernd, lo scultore tedesco che vive il suo
sogno di simbiosi con il cosmo nelle magiche grotte di cava di Ispica, da
Raffaella, che affronta la paura giornalmente gestendo terreni sequestrati
alla ’ndrangheta, fino a Santa, che sola contro tutti denuncia il traffico
illecito di organi, facendo scattare arresti come fossero tessere del domino
senza scrupoli passando da ospedali e ambasciate.
Questi personaggi, e tanti, tanti altri, non sbiadiscono mentre mi allontano.
Non abbiamo la serenità perché il sistema ce l’ha rubata. Siamo tutti im-
pegnati a correre su un tapis roulant per rimanere sempre fermi, e se ci si
stanca si va indietro e si cade, e ci hanno insegnato ad avere paura di
cadere. Ce l’hanno venduto come “progresso” e si sono dimenticati di dirci
come si spegne.
Alcuni dei miei eroi sono caduti dal tappeto infinito, si sono fatti male e
poi si sono rialzati liberi, altri hanno alzato lo sguardo per accorgersi che
basta saltare giù.
E io dove sto camminando? Sono sicura di essere scesa dal tapis roulant?
Perché se non l’ho fatto potrei andare avanti all’infinito senza arrivare da
nessuna parte.
Testa satura, cuore confuso, dubbi che mi corrodono l’anima. Se ne è
accorto anche il fisico, che si è ammalato. Febbre, tosse e raffreddore. Sono
contenta che quantomeno ce ne siamo accorti tutti insieme. Almeno tra di
noi c’è un’ottima sintonia.
Sono ospite della migliore amica di un caro amico appena sopra a Roma
e posso stare tranquilla fino a quando non mi sentirò meglio. Dieta di aglio
e cipolla e in tre giorni mi tornano le forze. Ho tempo libero come non ne
ho da mesi e faccio una cosa che non faccio mai. Logistica a lungo termine,
scrivo ogni tappa da qua a casa: trentacinque. In trentacinque giorni potrei
essere sul Lago Maggiore. Il sito della via Francigena è fatto molto bene,
indica tutti i luoghi che offrono un tetto ai pellegrini. Religiosi o meno.
Mando e-mail con richieste di accoglienza indistintamente. Non sono cat-
tolica, ma credo in Dio e sono disposta a condividere le mie scelte e ad
ascoltare con interesse quelle di un frate. Vorrei vedere con i miei occhi la
vita di un monastero, cercando di carpirne l’essenza. Forse la scelta di pro-
seguire in silenzio non è poi tanto diversa dalla loro.
Trovo accoglienza in quasi tutti i punti richiesti. Tranne un paio.
A Vetralla, un’associazione non solo mi rifiuta ospitalità dicendo che la
mia mission ( la chiamano così) è diversa dalla loro – in quanto secondo
loro il mio non sarebbe un cammino serio perché non di riflessione e di re-
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WALKABOUT ITALIA
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walkaboutsilence:
urla dal silenzio
Il mio silenzio non può essere completo, devo pur presentarmi quando
arrivo a destinazione. Dico il minimo indispensabile e scopro il disperato
bisogno di essere ascoltati.
Solo ora capisco il significato dell’orecchio sulla mia scatola magica, le
porte aperte che ho trovato per strada e il grande calore umano che mi ha
accolta ovunque. Il segreto del mio viaggio è proprio l’ascolto. E per ascol-
tare meglio ho spento anche la musica, la colonna sonora del mio viaggio.
La soundtrack delle lacrime che scendevano ascoltando Bob Dylan, nel si-
lenzio dei monti Sicani, cantare Boots Of Spanish Leather per il suo primo
vero amore e per il mio perso e lontano. Battle Without Honour Or Huma-
nity spingeva i miei passi tra i poster di Gesù e i suoi amici sull’interminabile
106 in Calabria, nel conto alla rovescia di quei cinquecento chilometri
fino a Taranto. Cantando insieme a Fiorella Mannoia Il cielo d’Irlanda
noncurante degli sguardi sorpresi degli anziani mentre attraversavo le città
bianche in Puglia.
Tutte le canzoni di questa playlist hanno avuto il loro momento e ascol-
tandole si srotola davanti ai miei occhi la bobina di un Super8 con tutte le vi-
cende vissute con loro nelle orecchie. Le ho spente, per non distrarmi. Vorrei
ascoltare il mio respiro e sincronizzarlo con quello del mondo. Concentrarmi
sull’aria fredda che entra nelle mie narici ed esce calda sul mio labbro supe-
riore, liberare la mente da ogni pensiero. Trovare il silenzio interiore.
Riesco a farlo per qualche minuto alla volta.
Poi un anfratto assomiglia a un altro già visto. Dov’ero? Cosa pensavo
mentre passavo di là? La vista emula la musica, che viene bruscamente in-
terrotta dal boato emesso da due caccia bombardieri che infrangono la
barriera del suono. Scortano un aereo, paranoia terrorismo, scuse per inutili
spese militari per le quali si tagliano fondi all’istruzione, sanità, ricerca, al-
l’arte. Imparare dalla Costa Rica.
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WALKABOUT ITALIA
Altre distrazioni.
C’è una ricostruzione storica con dei teatranti che fanno i gladiatori,
nell’anfiteatro di Sutri. C’è Francesca, è di colore, e c’è l’omino che la pre-
senta alla platea: «È in Italia da nove anni e, bene signori e signori, rullo di
tamburi, Francesca si è laureata!!!». Manca solo che la povera faccia un in-
chino come una simpatica scimmietta da circo. Invece imbarazzata oramai
al centro dell’attenzione indietreggia sperando quest’attimo passi in fretta.
Tutti applaudono. Ma dove cazzo sono finita? Penso allo sguardo di
Django mentre mette mano alla pistola sotto al tavolo.
In qualsiasi paese “normale” Francesca, nera, laureata e disoccupata
come tutti gli altri gladiatori, non sarebbe stata minimamente calcolata,
esattamente come non sarebbero stati calcolati gli altri gladiatori laureati. Ep-
pure l’omino era sicuramente in buona fede, troppo basso per scorgere
oltre il suo bianco narcisismo l’inconsapevole travestimento buonista.
Altre distrazioni.
E tutti quelli che mi fermano per dirmi che ho sbagliato strada, la Fran-
cigena è verso Roma, sono controcorrente senza neanche farlo apposta.
Non vado a Roma, torno a casa! Quale casa? Eccitazione per il rientro e
poi cosa farò? Ancora quale casa?
Distrazioni.
Poi ci sono le mele. Le mele non mi piacevano più, quella frutta inutile
che si mette nelle macedonie giusto per fare volume. Se vai a vedere i vassoi
delle macedonie alle feste e alle mense, pesche, ciliegie e fragole vanno
sempre via per prime, melone, banana, kiwi, tutti spariti… Se non un
cumulo di inutili cubetti di mele, per fortuna inzuppati del gusto di qualche
altro frutto abbandonati sul fondo del vassoio.
Ma quelle lì sono quelle del supermercato, e dove minchia crescono?
Io in giro non le ho viste!
In giro ho visto solo piccole brutte mele deformi, tanto buone da farci la
macedonia solo con loro. Forse quelle dei supermercati crescono diretta-
mente sotto alla luce al neon degli scaffali dove le vendono?!
Distrazioni.
Poi è successo di tutto qua fuori mentre non c’ero. I fichi… standomene
a letto ammalata, mi sono persa una settimana di fichi! Dei quindici anni di
bunga bunga che mi sono persa non me ne frega niente, ma questa settimana
era importantissima e non c’ero!
Sono maturate le noci, le nocciole sono cadute dagli alberi, le foglie sono
un morbido tappeto che scricchiola sotto ai miei piedi, si respira l’autunno
e quei bei sacchettini di dolcissime gemme viola sono esplosi sugli alberi
come fuochi d’artificio, sono caduti e non ho fatto in tempo a mangiarli!
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WALKABOUTSILENCE: URLA DAL SILENZIO
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WALKABOUT ITALIA
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ascolta
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WALKABOUT ITALIA
viola di cui non avrei mai conosciuto il colore se lei non l’avesse scritto a
mano nel 1944 dietro alla stampa in bianco e nero che ho tra le mani. C’era
una bella luce sulla sua scrivania nello Yorkshire settant’anni fa.
Condivido con Gianni un sorriso beffardo.
Sospiro con lui, come dopo una grande cena, sazi di immagini “rubate”.
Mi regala Louise e il suo vestito viola in bianco e nero. E anche il volto di
una bambina, anche lei ammiccava un sorriso negli anni Trenta. Il regalo
più bello che mi sia mai stato fatto. Esercizio di umiltà.
Espira.
Cammina in silenzio, non pensare. Ascolta le farfalle che ti accarezzano.
«I preti so ’ontro i preservativi ’osì si fanno dieci figlioetti, non si hanno
soldi pe’ mandarli a scola e ’rescono nell’ignoranza. Son più facili da ’oman-
dare, altre pe’orelle smarrite da portare in ’hiesa maremma bu’ajola».
Massimo mi ospita, odia i preti e ha una sorprendente fantasia nell’affib-
biare aggettivi variopinti alla madonna, proprio nel paese dove ho provato
a bussare ma le porte della casa del Signore sono rimaste chiuse.
Scopri l’ironia di Dio, ridi, sorridi, ascolta.
Ascolta Jimmy, coreano. Non ha più sogni. È felice. Mogliettina medi-
terranea, casa in campagna, dodici gatti. Ha studiato arte a New York e fa
marionette di legno, seguendo l’antica tradizione italiana che gli italiani
non seguono più. Sta imparando il dialetto veneto per animarle.
Inspira l’incredibile sorriso di Jimmy.
Ascolta il suo amico Pietro, che raccoglie scarti nelle cantine abbandonate
per farci delle lampade. Abbandona una vita frenetica in Veneto e prende
in gestione il meraviglioso casale dove mi ospita.
Espira nel tramonto bucolico mentre le oche passeggiano sui prati.
Inspira la Toscana con tutti i tuoi sensi.
Avevano ragione ad esserne invidiosi. Passato e futuro si fondono armo-
niosamente. Un casale vivo su ogni collina, il rumore della ghiaia sotto ai
miei piedi. Odore di fiori, di mosto e di bosco. Bagnati e sporcati di boro
sulla pancia della balena bianca, sputata fuori del vulcano spento nei bagni
di San Filippo. Immergiti nell’oro che colora i tramonti sulle colline. Nuotaci
dentro, mangiane i suoi frutti attaccati alle vigne. Saluta la faina che ti spia
e la lepre che ha troppa fretta per salutarti.
Gli animali sono finalmente animati e non più spiaccicati sull’asfalto.
Ascolta Remigio, che dall’Umbria ha deciso di trasferirsi qui e farne la sua
casa senza rimpianti e il vino che scorre. Assaggia i pici all’aglione e ab-
braccialo forte come un amico di sempre, premuroso come si è dimostrato
verso di me, sconosciuta. Portalo con te fino a casa in forma di cinghiale di
peluche attaccato allo zaino.
– 160 –
ASCOLTA
Ascolta.
No.
Parla.
Te lo impone il prete che ti aveva negato un tetto. Ti fa il terzo grado
prima di aprirti le porte della collegiata dove ti attendono un comodo letto
e una doccia. «Non sei una vera pellegrina se mandi i messaggi con l’iPad
e non lasci l’offerta».
Sembra la teoria del mio amico Andrea. Egli sostiene che se le prostitute
in Thailandia hanno l’iPhone non sono vere prostitute, in quanto se lo pos-
sono permettere e quindi fanno l’amore con piacere con chiunque, e quei
1.000 bath che si prendono in cambio sono solo un gesto simbolico per
mantenere le tradizioni.
A differenza del prete, Andrea però è consapevole di dire una cagata.
Spiega il tuo progetto, assecondalo, se non vuoi tremare al freddo stanotte.
Sorridi finche non ti fanno male gli zigomi. Fagli mettere il timbro sulle
credenziali e fallo sentire importante per un gesto inutile. Ascoltalo com-
piacersi del potere della sua divisa mentre sgrida gli altri “pellegrini” per
aver lasciato la porta aperta nella casa del Signore.
Ascolta la sua umanità mentre scopri che ha rimpiazzato un Don molto
amato, e respira l’odore della paura di non esserne all’altezza sfregarsi con
la sua ambizione di potere divino. Giovane, imbranato e senza carisma,
alla fine non capisco se tutti quei sorrisi l’hanno indotto in tentazione
quando m’invita ad andare con lui a mangiare una fetta di torta.
Espira i pensieri blasfemi.
Inspira l’aria che si raffredda al calar del sole mentre ancora non hai un
letto.
Ascolta la profonda voce di Carlo chiederti se ti sei persa, offrire il suo
aiuto. Non mi sono persa, stanotte non so dove andare a dormire. Ascolta
il cancello di casa sua aprirsi, le pentole scontrarsi in cucina, i gatti che gio-
cano sotto al tavolo. Inspira l’odore delle tagliatelle ai funghi freschi.
Ascolta la storia di Lalla, la compagna di Carlo, cilena, scappata dalla
dittatura di Pinochet in quel lontano 11 settembre che pochi ricordano.
Lalla trova rifugio in ambasciata italiana e sullo stesso volo di Frate Mitra
arriva in Toscana quasi quarant’anni fa e qui si ferma.
Ammira la fiamma accesa nello sguardo fiero di Carlo, mentre racconta
del ’68 in Italia, sorridendo al poster del Che a cui credo non dispiacerebbe
essere seduto lì con noi in questo momento.
Addormentati nel loro letto chiedendoti come mai aprano porte a una
sconosciuta e abbiano un sistema d’allarme che neanche ad Alcatraz.
No, non fare domande, ascolta.
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WALKABOUT ITALIA
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luoghi poco comuni
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WALKABOUT ITALIA
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LUOGHI POCO COMUNI
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WALKABOUT ITALIA
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LUOGHI POCO COMUNI
una scatola di pongo e io quella dei sogni e insieme ci mettiamo tutti a mo-
dellare pongo e desideri.
Nessuno dei bimbi sperduti ha voglia di lasciare il tavolo in cucina ap-
poggiato sul morbido fondo del galeone, protetto e separato dal resto del
mondo da rigogliose montagne verdi. Molto più rigogliose della coltivazione
immaginaria nell’armadio di Gabri.
Inspira i sogni di tutti questa notte, sono sicura saranno coloratissimi.
Chissà, forse anche quest’incredibile cammino non è stato altro che un
sogno dentro ai sogni. Ma esiste un modo per verificarlo.
Fare una festa.
Se al mio arrivo riesco a portare anche solo qualcuno dei protagonisti di
questo lungo viaggio onirico a festeggiare insieme il mio risveglio, sarebbe
come un pizzicotto che mi farà capire che non stavo sognando. Oppure…
i miei nuovi amici potrebbero sconfinare nella realtà per farmi capire che
non sempre tutto finisce al risveglio?
– 167 –
motare
“Confusione! Tu che sei figlia della solita illusione e che fai confusione”,
urla Battisti mentre riattacco la musica e valico in Piemonte. Grazie Lucio,
non troverei parole più azzeccate. Non ci sto capendo un tubo.
Manca il cartello sbarrato di fine Liguria e quello che segnala l’entrata in
Piemonte. Mi fa imbestialire non trovare i cartelli regionali, come venissero
a mancare dei puntini numerati per tracciare il disegno della «Settimana
Enigmistica». Mi accontento di quello che segnala l’inizio della provincia
d’Alessandria, e mi fermo a scattare l’ennesimo autoritratto. Mi devo ri-
comporre. Sto piangendo e il cartello oggi per la prima volta in sette mesi
sembra abbozzare un sorriso d’incoraggiamento.
Una parte di me vuole correre indietro, l’altra avanti. Entrambe velocis-
sime! Cerco di trattenerle per mano rischiando la carne si strappi. Calmati.
Inspira l’autunno e le foglie marce a terra.
Espira la fine di un ciclo.
Gli ultimi sette mesi sono stati una scarica di adrenalina continua, la
festa sta per finire ed è stata tanto bella che sarebbe una di quelle in cui alla
fine il buttafuori ti trascina all’uscita per i capelli, mentre tu lo abbracci e
con gli occhi a semaforo gli dici che vuoi bene pure a lui. Mi sono sentita
sulla strada giusta per la prima volta nella mia vita e non è detto che mi
debba perdere di nuovo a fine viaggio.
Paura di non lasciar andare la freccia al momento giusto.
Maria Grazia, che mi ospita a Genova, mi parla del Kyudo, il tiro con
l’arco giapponese. Più che uno sport, una forma di meditazione, affascinante,
infinita e ricca di metafore. Quando tendi l’arco e raggiungi l’angolazione
giusta, la mira perfetta, la tua mano scivolerebbe via dalla corda tesa con
un movimento naturale, simile alla neve che cade dalla foglia carica. Bilancio
perfetto tra mente e corpo. Hanare.
Rimanere con le dita attaccate e non lasciare andare è una delle malattie
del Kyudo: motare. Esiste anche hayake, la malattia contraria, lasciare
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MOTARE
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WALKABOUT ITALIA
vedere il museo di van Gogh per la ventesima volta non era stata una ge-
nialata. Sgamata in pieno.
La polizia carica un corteo pacifico senza pietà, botte, sangue, manga-
nellate e l’informazione viene manipolata in modo che risulti colpa nostra,
andati a Genova con l’intenzione di distruggerla.
Il sospetto da parte dei miei che fossi diretta al G8 c’era, ma nessuno
avrebbe minimamente sospettato quello che sarebbe accaduto nelle pros-
sime ore.
Con l’occhio fisso nell’obiettivo non mi accorgo di essere rimasta quasi
sola davanti alla schiera di polizia che sta per caricarci tutti. Per non essere
travolta mi butto sotto a una macchina parcheggiata, si apre il vano del rul-
lino. Trentasei negativi affogati nella luce e nei lacrimogeni. Non sarebbero
mai diventati positivi.
Tantissimo altro materiale, prove del massacro, viene distrutto alla Diaz.
Inspira violenza, osserva i loro scarponi marciare ordinati sull’asfalto a
pochi metri dal tuo naso e gli amici che corrono impauriti verso lo stadio.
Girano voci abbiano ucciso qualcuno. Rimani nascosta finché non passa
tutto. Dov’è Skandal? Dove sono gli altri?
Panico.
Aspetta lunghissimi minuti finché non torna il silenzio, finché la nube
bianca e blu sparisce dal campo visivo. Sgattaiola fuori, tossendo fino allo
stadio. Non c’è più in giro nessuno. Prega siano tutti sani e salvi.
Lo sono, abbraccia Skandal, abbraccia tutti, abbracci fortissimi, da spre-
mere fuori le poche energie rimaste. È davvero morto un ragazzo? Come?
Perché? Domande a cui ancora oggi non esiste un vera risposta.
Si sparge la voce che abbiamo vinto noi. Festeggiamo isterici senza sa-
perne bene il perché. Domani ci lasceranno stare. Hanno già sorpassato
ogni limite. Ma nulla in questi giorni va come dovrebbe.
Una manifestazione che poteva segnare la svolta definitiva per il movi-
mento e il futuro dell’Europa si trasforma nella più grande sospensione dei
diritti umani dalla seconda guerra mondiale in poi, secondo Amnesty In-
ternational. La trappola democratica ci ha fregati, demonizzando l’immagine
di un intero movimento e compromettendone definitivamente la crescita.
Un’operazione mediatica mirata a discreditare la serietà del dissenso e a
etichettarlo come portatore di caos, rafforzando allo stesso tempo il potere
delle istituzioni, in quanto garanti della stabilità.
Genova è un campo di battaglia. Distrutta. Noi coloratissimi veniamo
dipinti tutti di nero. Il mondo ci crede. E noi smettiamo di credere nel
mondo. La morte del movimento.
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MOTARE
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WALKABOUT ITALIA
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la relatività
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WALKABOUT ITALIA
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LA RELATIVITÀ
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arrivata?
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ARRIVATA?
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WALKABOUT ITALIA
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colonna sonora
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WALKABOUT ITALIA
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COLONNA SONORA
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ringraziamenti
Ringrazio il mio papà Silvio Montico per avermi trasmesso la sua passione
per il mondo e la mia mamma Sersâg Nada per essere sopravvissuta agli
sbalzi di pressione che questo viaggio le ha causato.
Jean Bernard De Milito, che è riuscito a darmi lo spazio mentale e il sup-
porto senza il quale questo libro non sarebbe stato possibile. Mia cug(gg)ina
Marianna Montico, che mi ha sempre sostenuto anche quando mi svegliavo
ancora ubriaca a fronteggiare decine di chilometri. Alessandro Dal Piva,
per continuare a credere nel cantautorato bavenese e soprattutto nel Cler e
Johnny Thunder e per avermi aiutata a creare il blog. Il Tommy (Tommaso
Nencioni), per aver la pazienza di ascoltarmi, raddrizzarmi e a volte anche
prendere nota. Davidone, senza il quale la festa a Baveno sarebbe stata im-
possibile. Le Debby (Debora Faragalli) e anche il Vale, per avermi insegnato
tecniche di difesa ninja e averle spremute nello spray al peperoncino che
mi hanno regalato. Il ragionier Chopper (Daniele Griggi), di cui ora posso
finalmente svelare l’identità, custode dei sogni. Giuseppe Paletta, perché
ha capito meglio di me cosa stessi facendo e mi ha aiutato a condividerlo.
Marco Gosparini, creatore della scatola magica e perpetua fonte d’ispira-
zione e i miei più cari amici che hanno sostenuto i miei passi da ogni parte
del mondo: Jaime Villalobos, Alessandro Morrone, Heli Luoma, Guy (Som-
vang Louanglath), Sarah Baya, Cristina Nobile, Andrea Bertoni, Anna e
Luna Montico. Riccardo Carnovalini e Anna Rastello, per i preziosi consigli.
Claudio Pizzigallo, per tutto il sostegno e l’amore anche virtuale durante il
mio viaggio e dopo. Clelia Mattana, Cristian Micheletti, Alessandra Spadoni,
Luigi D’Ausilio, Martina Margoni, Eleonora Severino, Dino Lanzaretti,
Andrea Caletti, Valerio Nuzzo, Roberto Pietrobon, Simone Travaglini,
Marco Bonacina, Pietro Palmirotta, Matteo Torresani, perché gli voglio
bene. Mario Rossi, perché almeno uno ce ne vuole e Christopher Wilson.
Anna Fogarini e Sportway, Di Stasio Enrico e Invicta, Nakarath Travel e
Lakra e il Tato per avermi sponsorizzato.
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RINGRAZIAMENTI
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WALKABOUT ITALIA
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RINGRAZIAMENTI
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redenzione
Il primo novembre, dopo sette mesi e dieci giorni – o meglio 2.910 chilometri
circa di cammino – sono arrivata in un posto che in molti considererebbero
casa solo per capire che mia casa era là fuori.
La strada.
Il primo gennaio 2014 sono caduta in bicicletta da ubriaca sfasciandomi
il mento. Immagino sia stata inconsciamente una reazione disperata per at-
tirare l’attenzione di chi non voleva più saperne di me. Sono partita per
questo folle viaggio con le cicatrici di quella caduta. Una sul mento e una
sul cuore. Speravo andassero via, ma sono rimaste entrambe, solo che ora
non le guardo più con dolore e vergogna, le guardo con amore e compren-
sione, come fossero pietre miliari di una meravigliosa storia che è la vita. Di
cui tutti siamo padroni e abbiamo il potere di scrivere esattamente come
vogliamo giorno dopo giorno.
Io volevo che la mia fosse una bella storia.
Non sapevo cosa cercassi, quando sono partita, ora so che cercavo re-
denzione, il perdono da me stessa.
Sognavo di avere una vita senza né rimorsi né rimpianti. Ci sono stati e
non posso tornare indietro, ma li posso trasformare in opportunità. Non si
può cambiare il passato, i nostri errori rimangono tali, ma possiamo scrivere
il nostro futuro e cambiare il frutto di essi. Invece di caricarci le spalle, di
dolore frustrazione e pentimento possiamo mano a mano togliere quei mat-
toni pesanti e far nascere qualcosa di nuovo per cui sarà valsa la pena anche
di sbagliare. Trasformarli in spinta creativa e cavalcarla fino a quando ti
avrà riportato a galla.
L’errore come punto di partenza per qualcosa di molto più grande, in
modo che quando si guarderà al passato da lontano sarà talmente piccolo
rispetto a quello che viene dopo da rimanere fuori dal disegno, da passare
quasi inosservato.
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REDENZIONE
La storia della mia vita ora mi piace di nuovo e anche più di prima.
C’era una volta, tanto tempo fa, ovvero prima della televisione, il braciere.
Era usanza accendere il carbone al centro, e le famiglie riunite in cerchio ci
appoggiavano i piedi per scaldarsi, mentre si raccontavano storie e cuoce-
vano patate. Era il centro del salotto e della vita di casa.
Ecco, io ora sogno una vita con al centro un braciere. Ed essendo la
strada la mia casa, lo voglio portare con me insieme a tutte le mie storie.
Sogno di farmi il giro del mondo in bicicletta, portandolo dietro e trovando
ogni giorno qualcuno con cui condividere cultura e amore e continuare a
espandere i miei orizzonti fino a quando non mi fonderò con essi.
La mia lotta contro il nulla non è finita, e questa è stata solo una storia
tra le tante che iniziano ora, in questo momento, anche la tua. Il mio destino
era scritto sulla suola delle mie scarpe e se non gli avessi dato ascolto avrei
continuato a camminarci sopra senza accorgermene.
E tu? Dov’è scritto il tuo destino? Che storia hai voglia di scrivere?
Pensa intensamente al tuo desiderio, scrivilo sul prossimo foglio di carta
e soffiaci sopra insieme a tutte le tue speranze e trasformalo in rivoluzione.
Non ti preoccupare se ancora non lo sai.
Tutto si risolve con una passeggiata.
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indice
Santa Darinka 7
Palermo 9
Il sogno zero 12
Quentin Tarantino 15
Tombe nuove per morti da un pezzo 17
Nuovo Cinema Paradiso 20
Bella senz’anime 22
127 ore 24
Guardare in alto 26
Qualcuno conosce qualcuno? 29
Radio Battente 33
Autodistruzione 36
L’isola di Pasqua 39
Sicilia 43
55.200 passi di libertà 46
Mamma Etna 50
Cambiare tutto per non cambiare nulla 54
Mal di Sicilia 58
Abra Calabria 60
Come pecore in mezzo ai lupi 68
Una Rosa nel deserto 71
Plastica e cemento 77
Go Walk 80
E le pale girano 85
Una lunga strada che non porta da nessuna parte 89
La Grande Bellezza 92
Certe notti tra pus e zanzare 95
Grazie per la compagnia, chiunque tu sia 97
Questa è Taranto 99
Il branco 104
Caput Mundi 109
Sogno di non avere più sogni (forse) 114
Essere liberi di… 120
Le pietre magiche 122
Sirene che camminano 126
Ho trovato l’amore 130
Un problema con le autorità 134
Un fuoco che fa ombra 137
L’epicentro 140
Non c’è niente di cui avere paura 145
Il circo Montico 148
Basta! 150
I sogni 152
Walkaboutsilence: urla dal silenzio 155
Ascolta 159
Luoghi poco comuni 163
Motare 168
La relatività 173
Arrivata? 176
Redenzione 186
finito di stampare 192