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Pensava agli squali.

Sono animali strani, sembrano poco svegli, con quei puntini neri al posto degli occhi.

Era davanti al reparto del tonno in scatola, quando le vennero in mente. Aveva letto
da qualche parte che spesso nelle reti da pesca rimangono incastrati degli squali,
attirati dal sangue dei tonni, e finiscono dritti nel processo di macellazione per finire
poi sulle nostre tavole.

Avrebbe voluto essere uno squalo, pensò mentre allungava la mano verso dei filetti
di alici. Avrebbe volentieri corso il rischio di diventare paté.

Mentre bippava il vasetto mettendolo nel carrello lo sentì. Aveva imparato a


riconoscerlo in modo terribilmente familiare, come se fosse uno starnuto.

Il caldo, prima. Di colpo.


Ma non fa caldo qui, pensò.
Eppure sudavano i palmi delle mani e anche la schiena iniziò a farsi bollente.
“Spero di non pezzare, non oggi, ho la camicia azzurra, si vedrebbe troppo” fu il suo
primo ingenuo pensiero.
Non qui, si disse poi. Non ora, non qui. Ovunque ma non qui. Mi conoscono tutti.
Invece andava avanti, il cervello non aveva più mordente sulla materia.
Che menata di cazzo, si disse.
Si vide dall’esterno. Faceva movimenti come se il corpo non fosse il suo e
l’immagine fosse sfocata, come un film degli anni ’70 che passano su una televisione
in lontananza.
Ora torno, si disse. Ora mi recupero.
Sapeva che non era così.
A volte riusciva a muoversi e l’adrenalina si dipanava meglio. Altre volte invece il
rush era così violento da bloccare le mani in posizioni assurde, come nei film sugli
esorcismi, sembrava una possessione e si spaventava pensando fosse un infarto
quando succedeva.
Pregò non fosse quello il caso.
I suoni diventarono ovattati, arrivava tutto in differita, si sentiva come se fosse in
diretta dal Kazakistan, non sapeva neanche più dove fosse di preciso, mentre si
aggrappava allo scaffale dei sughi pronti.
Mi ha sempre fatto schifo la crema di noci, pensò per cercare di distendere il flusso
di pensieri.
E se muoio?
No, bugia. Lo sai cosa è, non dargli vinta sta paranoia.
Dialogava tra sé e sé come i matti.
Ok, sto impazzendo, si disse.
No, me lo vuole fare credere sta cosa.
Eppure vedi, non ci credi neanche tu.
Stai zitta.
Forse muori.
Stai zitta, stronza.
Avrebbe voluto vomitare ma non sarebbe uscito nulla se non una schiuma acida
piena di paura.
Non riusciva a respirare bene. Quando l’adrenalina avanzava andava in apnea,
come i pesci rossi che saltano fuori dalla boccia, boccheggiando.
I piedi si iniziarono a fare pesanti. Di lì a poco non sarebbe più riuscita a muoverli.
Devo fare qualcosa.
Muoviti.
No.
Muoviti ho detto.
Non ci riesco.
Muo-vi-ti.
E si mosse.
Velocemente lasciò il carrello, la borsa, le alici.
Sembrava la marcia degli zombie, che buffo, le piaceva pure Romero.
Arrivò nel reparto dei surgelati, spalancò lo sportello dei minestroni e afferrò una
busta da un chilo.
La abbracciò premendola con forza contro il petto.
Le venne da piangere.
Poi venne il blackout.
Come se il corpo si resettasse, alzandosi dopo una caduta dal ventiduesimo piano,
come se nulla fosse.
I segni del passaggio rimanevano il sudore, gli occhi vuoti e una immensa
stanchezza.

Si avvicinò il ragazzo del reparto frutta, gentile e silenzioso.


“Un altro attacco di panico? Te l’ho detto, forse è il caso che tu faccia la spesa online
così la consegnamo a domicilio e non devi uscire”.

“Sto bene, sono solo un po’ stanca”, disse lei posando il minestrone.

Riprese la borsa, lasciò il carrello ed uscì dal supermercato.

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