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Le domande fondamentali che ogni essere umano si pone al centro della sua esistenza,

seppure non espresse esplicitamente, sono sempre le stesse:


chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?
La risposta a queste domande che si ripropongono sempre nei vecchi termini non è mai la
stessa ma cambia con il variare delle nostre conoscenze sulla natura umana e sul mondo che
ci circonda, per cui dobbiamo abbandonare l'idea cara a molti filosofi ed a molti teologi di
cercare una risposta esauriente e definitiva valida per tutti e per l'eternità e prendere
coscienza, come ci indicano alcuni nostri rituali, che le nostre risposte, anche se
generalmente esaurienti, sono e saranno sempre perfettibili.
La soluzione del problema esistenziale è di tipo individuale poiché ogni individuo è
chiamato a dare personalmente la sua risposta ma nello stesso tempo è di tipo collettivo
poiché le caratteristiche che accomunano il genere umano sono enormemente maggiori di
quelle che contraddistinguono i vari popoli ed i singoli individui.
Da dove veniamo e chi siamo possiamo anche pensare di saperlo a sufficienza ma dove
andiamo?
La questione che mi tormenta è questa e soprattutto, riformulando la domanda con altri
termini, mi chiedo: è ancora possibile, in mezzo a tutto ciò che accade, un tipo di vita che
sia completamente imperniato sulla natura dell'uomo e sull'opera dell'uomo?
Secondo il filosofo Gunther Anders oggi viviamo in un mondo in cui la macchina e gli
oggetti prodotti in serie sono diventati i protagonisti della storia, il mondo è il luogo in cui
ogni essere umano è “gettato” e costretto a vivere in qualità di essere totalmente inadeguato
ai nuovi tempi.
Anders individua nella seconda guerra mondiale una linea di divisione tra la prima e la
seconda metà del secolo scorso importante nella storia dell'umanità ,(sebbene, naturalmente,
le radici degli avvenimenti di allora siano da ricercarsi molto più addietro nel tempo) in
quanto la tecnica acquista un ruolo preminente rispetto alla natura diventando fine, non più
mezzo nelle mani dell'uomo . Prima di quel momento il mondo apparteneva ad una figura
umana ben definita, universale, nonostante le molte e notevoli differenze.
In seguito si manifestano fatti nuovi: le cose tendono a non aver più lo stesso carattere, la
stessa misura, a mutare il loro punto di partenza e i loro fini; altre sono le forze che le
muovono, le loro relazioni con la natura non sono più quelle di prima.
Al contatto con il “fatto nuovo” che si introduce nella storia, tutto l'antico ordine di cose si
sgretola. L'uomo che gli apparteneva e del quale noi tutti portiamo, più o meno, qualcosa nel
sangue, diventa un senza patria. La comparsa della tecnica come fine è prima di tutto un
fenomeno che ha intaccato l'intimo dell'uomo.
L’uomo della civiltà tecnologica è subalterno alle macchine da lui stesso create, e per
queste prova soggezione e vergogna. Questa vergogna ( che Anders chiama “vergogna
prometeica” ) è legata a una sorta di dislivello tra l’uomo e i prodotti meccanici, che
essendo sempre più efficienti e funzionali lo oltrepassano facendolo diventare antiquato.
Le macchine sono perfette, funzionano e sono ripetibili in serie: questo concede loro una
sorta di eternità che all’uomo è negata. Di fronte alle macchine l’uomo perde la sua
importanza all’interno del sistema sociale, egli diventa antiquato perché, appunto, ha
bisogno di riposarsi, di mangiare, di divertirsi mentre le macchine funzionano “sempre”
senza intervalli e distrazioni.
Se la prima rivoluzione industriale è consistita nell'introduzione delle macchine, se la
seconda si riferisce alla produzione dei bisogni, la terza rivoluzione industriale (quella che
attualmente stiamo vivendo e che è nata nello scorso secolo) è per Anders quella che
produce l'alterazione irreversibile dell'ambiente e compromette la sopravvivenza stessa
dell'umanità.
Simbolo incontrastato e paradigma della nuova era (e della sua pseudo-cultura) è
indiscutibilmente la televisione. Per il filosofo tedesco lo sviluppo della radiotelevisione è la
piena espressione della società tecnologica, dove i diversi “mezzi” acquistano in effetti la
sovranità sulla vita, non solo lavorativa. Questo è il segnale di una nuova fase, più
perfezionata, della cultura di massa. Prima, sostiene Anders, il pubblico di massa si trovava
almeno unito dal fatto di assistere insieme a uno spettacolo (pensiamo al teatro o al cinema),
di condividere le emozioni. Con la televisione questo non avviene più, in quanto si impone
una forma di atomizzazione. Il carattere domestico del mezzo è per il filosofo il maggior
responsabile dell’appiattimento emozionale che caratterizza il nostro essere. Guardiamo tutti
le stesse cose, compriamo tutti le stesse cose e di conseguenza parliamo delle stesse cose e
pensiamo in blocco le stesse cose: non c’è più spazio per l’originalità, ma solamente per
l’omologazione intellettuale.
"Ogni consumatore è un lavoratore a domicilio non stipendiato che coopera alla
produzione dell'uomo di massa", e aggiunge. "Dato che il mondo ci è fornito in casa, non
ne andiamo alla ricerca; rimaniamo privi di esperienza".
L’esperienza muta: ora la televisione occupa la maggior parte del nostro tempo libero e fare
esperienza (interagire con gli altri, leggere, etc.) non sembra essere più necessario. Con la
televisione cade, inoltre, ogni barriera tra realtà e fantasia, infatti la televisione sembra
sostituire anche i nostri sogni.
Ma procediamo con ordine e cerchiamo di capire come siamo giunti a questo punto e se al
contrario di quanto sostiene Anders , cioè che, non è più lecito nemmeno sperare in quanto
la condizione a cui l’uomo oggi è arrivato è sostanzialmente irrecuperabile, abbiamo ancora
una via d'uscita.
Dobbiamo per prima cosa iniziare a smontare quella definizione, di origine greca Zòon
logistikòn, nobile per la sua tradizione, secondo cui l'uomo è un animale ragionevole o
razionale perché all'uomo manca il carattere tipico dell'animale, l'istinto. L'istinto,infatti, è
una risposta “rigida” ad uno stimolo. La parola importante è rigida.
Sono comportamenti automatici, non sono frutto di apprendimento né di scelta. Gli istinti si
distinguono dalla pulsione in quanto questa mira alla soddisfazione dei
propri bisogni (fame, sonno, sesso) basandosi su schemi appresi tramite interazione
continua tra individuo ed ambiente e senza obiettivi particolari.
L'uomo non è dotato di quelle risposte rigide agli stimoli che chiamiamo istinti.
L'animale appena nasce sa quello che deve fare invece gli uomini non sanno cosa fare e
necessitano di molte cure per cui la nascita non è solamente nell'atto del parto ma tutto un
percorso che necessita di cure senza cui il bambino non sopravviverebbe proprio per
mancanza di codici istintuali. Ragion per cui assumiamo come definizione iniziale l'altra
espressione con cui i greci definivano l'uomo: Zòon lògon ékon. L'animale che ha il
linguaggio. Con la parola linguaggio già entriamo in una dimensione tecnica perché il
linguaggio non è un'immediatezza, immediato sarà il gesto,immediata l'espressione del
viso..il linguaggio è una mediazione tecnica tant'è che noi la lingua la dobbiamo imparare
secondo una tecnica che si chiama grammatica sintassi ortografia, quindi è l'uomo che nella
definizione già rivela una componente tecnica.
La teoria per cui gli uomini non hanno istinti è enunciata per la prima volta da Platone nel
Protagora, dove racconta che Zeus incaricò Epimeteo (epi-metis, colui che pensa dopo;
quindi l'improvvido, lo sprovveduto) di fornire a tutti i viventi delle qualità, che erano poi le
qualità istintuali, la loro virtù..Virtù per i greci è forza, è capacità. Giunto all'uomo,
Epimeteo più non ne disponeva da distribuire, perché era stato troppo prodigo nelle
assegnazioni precedenti. Allora Zeus, impietositosi della sorte umana, incaricò il fratello di
Epimeteo, Prometeo (pro-metis, colui che pensa in anticipo), affinchè desse agli uomini la
sua virtù: l'antiveggenza, il pre-vedere., il pro-gettare, gettare avanti lo sguardo.
Anche Hobbes , molti secoli dopo,sosterrà che, mentre gli animali mangiano quando hanno
fame, l'uomo è "etiam fame future, famelicus" ,ovvero affamato anche dalla fame futura. In
altri termini, l'uomo non ha bisogno dello stimolo della fame per procurarsi il cibo, perché
prevede che, anche quando sarà sazio, arriverà il tempo in cui necessiterà di cibo.
Questa è la virtù dell'uomo: la capacità di previsione.
Ciò gli consente una certa organizzazione del mondo.
Platone fornisce anche delle spiegazioni anatomiche del motivo per cui gli animali non
possono progettare data la forma del loro corpo.
Il loro corpo guarda lo spazio circoscritto della terra mentre l'uomo grazie alla sua posizione
eretta distende uno sguardo fino all'orizzonte, ha di fronte a se un panorama.
Orao in greco vuol dire vedere, pan tutto; ha uno sguardo totalizzante all'interno del quale è
in grado di assistere ad un mondo e di organizzarsi all'interno di questa visione totale.
Ecco allora che l'uomo non va pensato come un animale fornito di istinti ma come quel
vivente che può sopravvivere solo se diventa immediatamente tecnico.
La tecnica è dunque la dimensione con la quale l'uomo supplisce alla sua carenza istintuale
e come tale essa rappresenta anche il luogo della sua libertà.
Anassagora affermava che l'uomo è intelligente perchè ha le mani.
La natura,per i greci, è ciò che permane nel mutamento: il Theion, il divino, perché essa è il
principio che si prende buona cura degli enti in cui e attraverso cui si manifesta. Poiché è il
divino essa è anche il sacro e, come ha dimostrato Rudolf Otto, incute nell’uomo timore,
venerazione e rispetto e, nella sua sacralità, è intangibile.
Il mito greco delinea il quadro entro cui il rapporto tensivo tra uomo e natura si
risolve nel racconto prometeico, nel quale il titano ruba il fuoco agli dei per donarlo agli
uomini. Tale racconto che vede come attori, uomini dei e come trait d’union il titano,
dimostra che per gli antichi e non solo per i greci, la pulsione di adattamento allo spazio
circostante é sempre sentita come conflittuale.
Ciò che il mito rivela, in maniera molto moderna se vogliamo, e’ la condizione non solo di
esistenza ma di ek-sistenza del singolo: il racconto indica infatti il passaggio da una sfera
amniotica, incosciente, nella quale versava l’uomo prima del dono del fuoco da parte del
titano, all’autocoscienza, alla comprensione del sé altrimenti impossibile;l’accesso ad un
sapere differenziante che segna il definitivo distacco dalla maternità uroborica e il
raggiungimento di una diversa condizione: l’uomo é gettato al di fuori della partecipazione
con la natura ed incontra anche la sua finitezza temporale, la mortalità.
Prima del dono di Prometeo l’uomo aveva bisogno dell’aiuto della divinità per
soddisfare le proprie esigenze di vita; egli era totalmente dipendente e tale rapporto non era
niente di più di quello che intercorre tra una madre ed un figlio piccolo, ancora ben lontano
dall’autosufficienza. Il fuoco che Prometeo dona all’uomo rappresenta quindi il veicolo
simbolico della sua emancipazione e del raggiungimento di una nuova e superiore
condizione, o meglio, dell’approdo alla dimensione umana, attraverso il distacco da quella
animale.
La natura diviene ostile e matrigna l’uomo può, rispetto al dio, vedere le cose nella loro
duplicità innanzitutto, e ,quindi, nella loro differenza relativa. Ciò apre la possibilità di
dominare la realtà una volta differenziata nelle sue parti, di rendere operativa la tecnica, in
primis, come processo di selezione oggettuale.
All’uomo, inoltre é dato non solo di esistere, come accennavamo prima, ma di ek-sistere:
tutti gli enti esistono, le cose gli animali e noi medesimi; l’uomo, in più é da sempre aperto
originariamente alla comprensione del mondo e alla manifestazione dell’essere.
La ragione che si instaura sulla base della comprensione delle differenze porta
all’uomo la facoltà di poter scegliere e quindi di agire:
questo ci racconta il mito, questo simbolizza Prometeo.
Ciò non deve però indurci a considerare il rapporto tra uomo e natura, cioè tra tecnica e
natura come sottoposto al volere della pura libertà umana: la natura é ciò che si ricompone
al di là del nostro agire. Per il mito essa é sottoposta non tanto al volere di Zeus, quanto a
quello della Necessità (Ananke) e della Giustizia (Dike): a queste due entità tutti sono
sottoposti, persino gli dei ,soprattutto nelle successive rappresentazioni della tragedia greca.
Tali forze tracciano il limite, il perimetro entro il quale sia le azioni umane che quelle divine
sono contenute e fanno sì che qualsiasi tentativo di sopraffazione sia destinato a naufragare
contro le leggi inviolabili del cosmo. La tecnica umana ha, quindi, una propria misura e la
vicenda del titano, attraverso anche e soprattutto il supplizio che patisce, insegna che la
volontà di dominare la natura si ricompone, in ogni caso, all’interno di quest’ultima. La
volontà di potenza che si esprime in Prometeo viene punita sulla montagna sacra.
Ciò che ci preme sottolineare é che la sua figura risulta ad uno sguardo più attento, ambigua;
egli, pur appartenendo alla stirpe dei Titani non esita a mettersi dalla parte di Zeus,
determinandone la vittoria; d’altra parte non esita a tradirlo per donare il fuoco ed
emancipare l’uomo.
La duplicità prometeica riflette anche la duplicità della tecnica stessa: essa è
strumento di emancipazione ma é un’insidia allo stesso tempo, sia per l’uomo che per gli
dei. Nella tragedia greca, sviluppo del racconto mitico, l’uomo non é un essere tra gli altri:
la sua natura viene percepita come la più inquietante (to deinotaton), perché essa si rivela
come l’indole della creatura che esercita la violenza in seno alla natura. Una volta gettato
nel mondo egli deve ritagliarsi il proprio spazio in un mondo differenziato in cui e’ costretto
ad aggirarsi.
Egli supplisce alla carenza istintuale che ha, rispetto alla perfezione e alla compiutezza
dell’animale, col trovare da sé la sua strada. In questa sua solitudine risiede anche la sua
tragica grandezza, cioè l’essere aperto alla progettualità come apertura al mondo e alla
temporalità, alla libertà ed alla morte.
Sempre per la tragedia egli é pantoporos aporos, cioè capace di percorrere tutte le
vie ma senza averne una precisa: l’uomo é quindi de-viato dal corso della natura.
Nell'epica Ulisse è l’eroe umano più dotato di metis l'intelligenza attiva (nous
contemplativa), è detto, infatti, polu’metis (dalle molte astuzie),polu’tropos (dalle molte vie,
soluzioni), e polume’chanos (che non manca mai di espedienti tecnici) nel senso che … non
manca mai di espedienti, di po’roi, per trarsi d’impaccio da ogni genere di difficoltà,
(aporia).
Pantoporos aporos: in questo ossimoro Sofocle racchiude la tremenda condizione
dell’unica creatura che ek-siste al di fuori della compiutezza della natura.
L’illusione che Prometeo consegna alla modernità é quella di sciogliere l’azione
umana dai vincoli posti dalla Necessità, che regge l’ordine cosmico.
Gli strumenti risultano incapaci di eleggere valori ultimi, perciò la tecnica deve essere
governata , se si vuole, da qualcosa di ancora più tecnico, per evitare che ciò che libera
divenga a sua volta ciò che imprigiona, ed ecco la necessità del rito.
Per l’uomo arcaico esistono due temporalità: il tempo profano, quello quotidiano che
non ha nessun valore dal punto di vista religioso e quello sacro che ha una valenza
ontologicamente piena. Il rito, nella costante ripetizione dell’illud tempus, opera la
riattuazione del tempo sacro, riproposizione ontologicamente identica di un evento
accaduto all’origine del mondo.
Il rito permette all’uomo un’apertura permanente sul tempo religioso, grazie al quale non
solo l’evento originario e’ di nuovo vivificato, ma anche rende possibile annullare il tempo
profano, storico: tutto questo distingue in maniera assoluta l’uomo arcaico da quello
moderno. Per il primo il tempo profano rappresenta, nel suo scandirsi un allontanamento
dalla purezza dell’origine: il tempo ha una struttura circolare che rende possibile recuperare
e ripetere i gesti fondanti e cosmologici degli dei. La natura, attraverso i suoi ritmi,
garantisce la ciclicità del tempo, laddove ogni primavera é importante non tanto perché con
essa, la rigenerazione manifesti questa o quella forza, ma per il fatto che con essa venga
replicato l’atto primo della cosmogonia. Il tempo arcaico é quindi temporalità eterogenea,
profana e sacra: la prima appare come attraversata da incisioni nelle quali la seconda può
irrompere e vivificare. Nell’impostazione aristotelica e in quella stoica, che ne è per molti
aspetti l’erede, il cosmo è sede di una legge immanente, sacro perché sede di un logos
eterno. Nell’impostazione cristiana il logos è logos divino che quindi si partecipa solo al
mondo. Mentre il cosmo aristotelico‐tolemaico è un cosmo in cui vige una legge eterna e
immanente, il cosmo cristiano così come è definito nella Somma teologica di Tommaso
d’Aquino è un cosmo in cui in quanto cosmo creato, vige una «legge imposta». Anche se
imposta, questa legge ha però lo stesso valore della legge eterna, in quanto essa è il riflesso
di quella legge eterna. L’universo è edificato: si parte dal vertice, Dio, cui spettano
congiuntamente essere ed esistenza per poi passare al mondo cui spetta l’esistenza e solo
una partecipazione all’essere. L’universo è descritto nei termini della grande scala degli
esseri: alla sommità di esso, trascendente a esso, Dio, nel quale, essere ed esistenza
coincidono e nel quale proprio nel punto in cui quella coincidenza si realizza è riposta la
legge eterna.
Facciamo un salto di duemila anni e dal punto di vista tecnico non è cambiato un gran che,
anche se nella storia è entrato prepotentemente il pensiero giudaico-cristiano che cambia
totalmente l'orizzonte di senso, la natura è creata da Dio, è l’effetto di una volontà e viene
consegnata all’uomo all’insegna del dominio (“siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la
terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere
vivente sulla terra”). La categoria del dominio viene iscritta come prerogativa della
subordinazione della natura all’uomo.. Eccoci nel 1600 quando nasce la cosiddetta scienza
moderna o scienza basata sulla matematica: gli autori di riferimento sono Galileo, Cartesio,
Bacone. Secondo questi pensatori dobbiamo abbandonare l’esempio dei greci, che
contemplavano la natura nel tentativo di catturare quelle costanti utilizzando le quali si
potevano costruire le leggi del governo della città e quelle del governo dell’anima. Nell’età
moderna gli uomini, intesi come comunità scientifica, devono procedere in un’altra
direzione. Formulano delle ipotesi, sottopongono la natura a esperimento e se l’esperimento
conferma l’ipotesi, assumono le ipotesi formulate come leggi di natura. Queste leggi così
ottenute non sono eterne, ma provvisorie, da sostituire non appena saranno trovate altre
ipotesi, che opportunamente verificate, consentiranno di spiegare più fenomeni rispetto alle
ipotesi precedenti.
La scienza moderna nasce nella forma della dissociazione dalla verità assoluta.
La scienza non dice verità, ma solo cose esatte, ottenute da determinate premesse.
Queste premesse possono essere cambiate se se ne trovano altre più esplicative.
A questo punto bisogna smontare, dopo la definizione di animale razionale, un secondo
pregiudizio, quello che la scienza sia pura e la tecnica buona o cattiva a secondo dell'uso che
se fa. Non è vero, perché l'essenza della scienza è la tecnica, non nel senso che la scienza
per poter produrre le sue scoperte abbia bisogno di dispositivi tecnici, ma perché lo sguardo
scientifico non è puro; la scienza non studia per contemplare il mondo, la scienza studia per
manipolare il mondo. Per cui la intenzione tecnica è già inscritta nella mentalità scientifica.
Sarebbe come se in un bosco andassero un poeta e un falegname, non vedrebbero la stessa
cosa i due, uno vedrebbe l'espressione della natura gli alberi mentre l'altro vedrebbe i
mobili. L'intenzione scientifica è già tecnica è già manipolativa, per cui ribaltiamo il
rapporto: la tecnica è l'essenza della scienza, non la conseguenza della scienza. Non c'è stata
mai una scienza che non sia stata tecnica, non c'è stata mai una rivoluzione scientifica che
non sia stata tecnologica e nessuna rivoluzione tecnologica che non sia stata scientifica che
non abbia cambiato i modelli di cognizione.
Kant illustra bene il nuovo metodo scientifico nell'introduzione alla Critica della ragion
pura e ne parla come di una rivoluzione copernicana, cioè come per Copernico non è più la
terra al centro del cosmo ma il sole così cambia il rapporto dell'uomo con la natura .
Questo capovolgimento è ciò che accade, dice Kant, perché il rapporto è rovesciato, l'uomo
non si comporta più in confronto della natura come uno scolaretto che beve tutto quello che
dice il maestro, ma come un giudice che obbliga l'imputato a rispondere alle sue domande.
La comunità scientifica fa delle ipotesi, sottopone la natura a esperimento, la natura
risponde all'esperimento, se l'esperimento conferma le ipotesi si assumono le ipotesi fatte
dagli uomini come diritti di natura, non come leggi eterne, ma come leggi provvisorie di
natura fin che non se ne trovano di più esplicative. La scienza non teme di smentire se stessa
a differenza di altre espressioni umane, a differenza della religione, se domani il Papa ci
venisse a dire che Dio non esiste provocherebbe un collasso alla religione, anche l'ideologia
se nega se stessa collassa, lo abbiamo visto in questi anni; la scienza no, perché non assume
le sue ipotesi come leggi eterne.
Questo comporta anche un diverso rapporto con la storia, nel senso che la tecnica non ha
nella storia nessun momento di negazione di se stessa. Se, ad esempio, succede un disastro a
Cernobil , nessuno dice che la tecnica e la scienza sono da bandire, ma invochiamo la
scienza e la tecnica affinché pongano riparo al disastro. Per cui la negazione al disastro
tecnico viene risalvato dalla tecnica; mentre il disastro ideologico non viene più salvato
dall'ideologia, come il disastro religioso non viene più salvato dalla religione. La tecnica
non prevede la sua negazione, la sua negazione è condizione di incremento di se stessa, per
cui diventa autoreferenziale.. E qui attenzione, ancora una volta non pensiamo che la
scienza sia antitetica alla religione, non facciamoci ingannare dalla storia enfatizzata della
guerra tra il Papa e Galileo, non è così, perché la scienza gronda di metafore religiose, è una
conseguenza dell'apparato teologico medioevale la scienza. . La scienza e la tecnica - dice
Bacone - ci restituiranno le virtù preternaturali, quelle che Adamo aveva prima del peccato
originale, ma soprattutto consentirà agli uomini di redimersi dal peccato originale. Il peccato
originale aveva determinato nell'uomo due condizioni penose che sono: il sudore della
fronte e il dolore a cominciare dal dolore del parto. La scienza e la tecnica riducendo le pene
del peccato originale, cioè le fatiche del lavoro e riducendo il dolore, che è un'altra
conseguenza, l'altra pena del peccato originale, concorrono alla redenzione. Per cui la
scienza vive la stessa mentalità religiosa che consiste nel dire che il passato è male, il
presente è riscatto e il futuro è salvezza; questa è la triade religiosa che si trova pari pari
nella triade scientifica: il passato è ignoranza (male), il presente riscatto e il futuro è
progresso.
La differenza sarà nei contenuti, ma la prospettiva, la prospettiva è religiosa, la scienza vive
una prospettiva religiosa. Del resto questo lo verifichiamo psicologicamente tutti quanti noi
che ci rivolgiamo alla scienza con la stessa attesa psicologica con cui una volta ci si
rivolgeva a Dio, potremmo dire che la verità scientifica è il nostro Graal.
Facciamo un salto di altri due secoli e andiamo ad aprire un libro di Hegel sulla logica che
a un certo punto dice due cose: la prima che la potenza della nazioni non dipende dai beni
di cui le nazioni sono proprietarie o i singoli individui sono proprietari in quanto la
ricchezza d'ora innanzi si fonderà non sul possesso dei beni, ma sul possesso degli
strumenti, perché i beni si consumano, mentre gli strumenti producono i beni. La cosa
interessante è che Hegel dice queste cose nel 1816 quaranta anni dopo che era nata
l'economia politica con quel libro di Adam Smith sull'origine della natura e della ricchezza
delle nazioni (1776). Rispetto all'economia la tecnica è una razionalità ancora più perfetta,
perché l'economia soffre ancora di una passione umana che è la passione per il denaro di cui
la tecnica non soffre minimamente. La seconda proposizione di Hegel forse è ancora più
importante della prima, nella prima è anticipatore del futuro mentre la seconda è strutturale.
Dice Hegel: Attenzione che quando si ha un aumento quantitativo di un fenomeno, si ha la
variazione qualitativa del paesaggio. L'esempio di Hegel è elementare ma illuminante: se
mi tolgo un capello sono uno che ha i capelli, se ne tolgo due sono uno con i capelli, se ne
tolgo tre sono uno con i capelli, se li tolgo tutti sono calvo. Quindi l'aumento della quantità è
una variazione della qualità. Queste affermazioni hanno delle rilevanze notevoli in tutti gli
scenari, il primo scenario è la politica. Noi già oggi osserviamo che la politica non è più il
luogo della decisione, aldilà delle messe in scena ,la politica per decidere deve guardare un
altro scenario che si chiama economia. A sua volta l'economia deve guardare a un'altro
scenario che è il dispositivo tecnico, quanta tecnologia abbiamo, di quante capacità
tecnologiche disponiamo, dove conviene investire in innovazione tecnologiche? La politica
decade come luogo della decisione, perché diventa più decisiva l'economia, l'economia a sua
volta sceglie a partire dalla disponibilità tecnologica, per cui già la tecnica tiene sotto scacco
l'apparato decisionale.
Questo può far pensare a una fine della politica, d'altronde non bisogna immaginare che ci
siano delle categorie eterne, la politica nasce nel 400 a. C. ad Atene. Nata e cresciuta
faticosamente forse sta finendo. Non solo perché è cambiata la struttura del potere, finora
abbiamo rappresentato la politica come un triangolo dove al vertice c'è il potere, alla base
c'è l'osservanza o la non osservanza dei dispositivi del potere. Da una parte si comanda e
dall'altra si ubbidisce o disubbidisce, quello è un po' il modello arcaico che funzionava fino
all'età pretecnologica, oggi non funziona più oltre che per ciò che è stato detto, anche perché
la tecnica distribuisce il potere a tutti gli operatori, tutti coloro che operano nel triangolo
hanno la possibilità di godere di un piccolo potere sufficiente a far saltare tutto l'apparato. È
sufficiente che dieci controllori di volo interrompano la loro attività e tutta la navigazione
aerea si blocca.
Il fatto è che la tecnica ci pone dei problemi rispetto ai quali noi siamo del tutto
incompetenti; se mi dovessero far votare circa l'apertura o chiusura degli impianti nucleari,
per votare con competenza dovrei essere un fisico nucleare e non lo sono, allora voto sulla
base di suggestioni psicologiche: paura del nucleare, appartenenze politiche, effetti retorici,
dimensioni fideistiche, me lo dice il Papa.
Per cui se ci si chiede: bisogna fare o non gli organismi geneticamente modificati non è
facile decidere, bisogna essere un biologo molecolare. Fecondazione tecnicamente assistita?
Uso degli embrioni per ricerca? Come faccio a decidere?Certo, criteri di libertà, non si
vuole vietare agli altri....Il problema è che la tecnoscienza ci pone dei problemi rispetto a cui
non possiamo essere democratici perché non capiamo la questione,dato che non abbiamo
competenza sufficiente di quel problema e quindi diventiamo vittime della retorica, della
persuasione. E questo è pericoloso, se pensate che Platone dedica ben 12 su 34 dialoghi ai
sofisti . Platone se la prende appunto con i retori e i sofisti perché corrompono gli animi, li
seducono e quindi gli impediscono l'uso della ragione. Operazione possibile all'epoca di
Platone, educare gli uomini a ragionare, invece che commuoverli o affascinarli. Oggi questo
non è più possibile, perché il livello di competenza richiesta dai prodotti tecnico-scientifici
è tale per cui io che non sono competente mi lascerò inevitabilmente sedurre per prendere
posizione. La democrazia così collassa e viene sostituita dalla retorica che non è la
competenza. Paradossalmente , proprio lo smisurato sviluppo del sapere e della conoscenza
rischia di diventare un ostacolo alla nostra comprensione del mondo. La conoscenza
acquisita rappresenta sì un patrimonio per l’Umanità, ma la sua vastità allontana questo
patrimonio dal singolo Uomo rendendolo di fatto a lui inaccessibile. Questo è un pò lo
scenario di sfondo della politica, le stesse cose si possono dire a proposito della morale, la
scienza ci pone dei problemi rispetto cui la morale annaspa. La morale che cosa ci può fare?
. Il problema non è ciò che la tecnica è in grado di fare, ma che ci sia un'etica all'altezza
delle vette da essa raggiunte. La scienza si trova nella difficoltà di calcolare gli effetti
indesiderati di cui è causa, per cui la società che un tempo aveva un'aspettativa positiva nei
confronti della scienza ora ha dubbi e timori. La scienza non può dare risposte alle nostre
richieste di senso, come non può fondare la logica dell’agire etico. A meno che non si
trasformi in metafisica. Tentazione che è sempre sospesa e incombente sull’attività effettiva
degli operatori della scienza. A questo punto se la tecnica, prima di essere strumento nelle
mani dell'uomo, è visione del mondo che decide la natura delle cose e la qualità dello
sguardo, la visione di Anders da cui siamo partiti sembra dimostrata.
Se di visione del mondo si tratta noi, con l'aiuto dei nostri rituali, potremmo cambiare il
nostro punto di osservazione e trovare all'interno della tecnica un'altra possibile risposta..Il
processo evolutivo dal quale proviene l'uomo, ha prodotto, per quanto paradossale ciò possa
sembrare, la sua libertà, la sua capacità di scegliere. E quando sceglie, se lo fa perché
guidato dalla sua volontà identificata totalmente come ragion pratica e cioè come
prerogativa sottomessa alla legge e non come volontà arbitraria, istituisce valori. Ma egli né
può scegliere, né può istituire valori se non li fonda su un logos che sia specifico a essi.
Come ha insegnato Kant, l’uomo conosce e conoscendo applica la ragione all’esperienza.
Ma l’uomo immagina anche e immaginando adopera la ragione in un altro modo, che non è
meno rigoroso di quello praticato nella conoscenza. Il mondo umano è il mondo delle
azioni agite e da agire che in quanto tale è differente dal mondo dell’essere: esso si
configura come un cosmo autonomo al quale si applicano regole specifiche diverse da
quelle che si applicano alla natura. Per questo penso che possa rispondere alle sfide che
provengono dalle biotecnologie solo l’uomo della responsabilità, tale e quale è il massone.
L’uomo della responsabilità, in definitiva, è l’uomo che può anche farsi
carico del processo evolutivo, atteso che, ovviamente, non lo orienterebbe se non verso
esiti di vita, avendo egli fondato la sua identità di essere responsabile su una scelta
originaria che è la scelta dell’uomo che ha accettato la vita con tutti suoi carichi e tutte le
sue sofferenze. Quest’uomo può continuare nel suo cammino, senza temere, anche
quando si trovasse a camminare «nella valle dell’ombra della morte», perché anche
allora egli porterebbe con sé la sua responsabilità, che è, come, dice sempre Lévinas,
apertura di sguardo su un modo d’essere del divino che nessun processo evolutivo
potrebbe dissolvere.
Luigi Fantappiè noto scienziato matematico autore della teoria della sintropia, nei suoi
“Principi di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico” scrive:” la legge della vita non
è dunque la legge dell'odio, la legge della forza, cioè delle cause meccaniche, questa è la
legge della non vita, è la legge della morte;la vera legge che domina la vita è la legge dei
fini, e cioè la legge della collaborazione per fini sempre più elevati, e questo anche per gli
esseri inferiori. Per l'uomo è poi la legge dell'amore, per l'uomo vivere è, in sostanza,
amare, ed è da osservare che questi nuovi risultati scientifici possono avere grandi
conseguenze su tutti i piani, in particolare anche sul piano sociale, oggi tanto travagliato e
confuso. […] La legge della vita è dunque legge d'amore e di differenziazione, non va verso
il livellamento, ma verso una diversificazione sempre più spinta. Ogni essere vivente,
modesto o illustre, ha i suoi compiti e i suoi fini che, nell'economia generale dell'universo,
sono sempre pregevoli, importanti, grandi; secondo Hume “la ragione da sola non può mai
essere motivo di una qualsiasi azione della volontà […] e la ragione non può mai
contrapporsi alla passione nella guida della volontà”.
La via giusta da percorrere è scritta dalla Natura con un linguaggio che solo il cuore è in
grado di decifrare. Così come dolore e piacere sono dei rivelatori che il disegno biologico ci
mette a disposizione al fine di indirizzare correttamente le nostre azioni di adattamento, la
Natura ci offre un altro indicatore per permetterci di percepire quanto abbiamo capito del
disegno che la stessa ha previsto per noi e quanto bene siamo riusciti ad interpretarlo.
Questo indicatore è infine proprio la felicità. Possiamo dedicare tutta la vita al
soddisfacimento di un desiderio, all’inseguimento di un sogno, ma è alla fine con il nostro
grado di felicità che dobbiamo confrontarci quando ci interroghiamo sulla correttezza
dell’impostazione che abbiamo dato alle nostre scelte. Come propone il filosofo Umberto
Galimberti, “e se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole
la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi
propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del
proprio daìmon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco
eudaimonìa”
Ogni essere vivente ha il suo posto e la sua ragione d’essere all’interno di un disegno dove
tutto è necessario e perfettamente inserito con il resto dell’Universo. E’ la presa di
coscienza di questo ruolo, fragile ma allo stesso tempo grande ed indispensabile, lo scopo
della nostra esistenza. La felicità ne è poi la conseguenza, o se vogliamo, l’indicatore, il
faro che ci consente di ritrovare la via quando rischiamo di smarrirla.
In questa avventura l’uomo ha quindi bisogno delle emozioni tanto quanto della ragione: ha
bisogno della mente per l’omeostasi, senza la quale non sarebbe possibile la
sopravvivenza, ma ha anche bisogno del cuore, dell’istinto, della fantasia, delle emozioni.
E’ in questo che l’uomo si distingue dagli altri animali, come essere dotato di coscienza
non può accontentarsi semplicemente di sopravvivere. Quando rinuncia alla pretesa
antropocentrica, quando rinuncia al suo profitto l’uomo sperimenta la potenza della Natura,
comprende che le emozioni che proviamo attraverso la passione, la creatività, la musica,
rappresentano l’opportunità che ci è concessa per passare attraverso la porta che conduce ad
altre dimensioni altrimenti non accessibili con il solo ausilio della ragione.
Come scrisse Blaise Pascal (1623-1662) in una delle sue pagine più belle:
“l’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la
sorpassano: essa non è che debole cosa se non arriva a riconoscere questo”

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