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Federico Pellizzi
La materialità intermedia del virtuale

I. Percezioni del digitale

È indubbio che la rete, il digitale, e perfino il computer siano oggetti sfuggenti.


L'ambiguità che li contraddistingue è determinata dalla loro natura costitutivamente
ibrida, che li mostra al tempo stesso come strumenti e come ambiente nel quale siamo
immersi, come oggetti e come memoria, come materia e come informazione. A ciò si
aggiunge la grande mutevolezza delle forme e degli usi a cui il digitale si presta.
Questo intreccio di techne e episteme crea un forte disagio cognitivo, che rende difficile
in primo luogo mettere a fuoco la consistenza culturale delle neotecnologie. Non si sa
bene quali discipline esistenti riescano meglio a studiare il fenomeno digitale, rubricato
per lo più nella categoria dei "nuovi media". Spesso prevale comunque, nella
letteratura specialistica come in quella divulgativa, un atteggiamento riduttivo, che
tende a non interrogarsi sul ruolo del digitale nella costruzione di un ambiente culturale,
e a non porsi il problema di quali siano gli elementi costitutivi dell'insieme material-
simbolico che va creandosi. Tra queste impostazioni parziali, due in particolare sono
ancora molto diffuse: quella "dematerializzante" e quella "materializzante". Se si
volesse insistere in un'interpretazione psico-culturale, si potrebbe sostenere che si
tratta di un tentativo di reagire alla simultanea pervasività e alterità del digitale, alla sua
molteplicità invadente, insieme cognitiva, emotiva e strumentale. Di fatto il perdurare a
volte sotterraneo di questi riduzionismi rallenta la comprensione di quanto sta
avvenendo, e quindi la partecipazione critica al grande laboratorio antropologico che si
sta costituendo.
Per quasi mezzo secolo, a partire dalla sua invenzione, il computer è stato percepito
prevalentemente come macchina logica. Solo negli ultimi dieci-quindici anni, nella
percezione comune, si è cominciato a toccare con mano - quasi nel senso letterale del
termine - che il suo aspetto più rivoluzionario è la possibilità di manipolare, scambiare,
conservare oggetti, e che la sua potenza simbolica va oltre la logica. Ciò è stato
possibile grazie a una serie di innovazioni tecnologiche che, tutte insieme, hanno
prodotto una svolta decisiva nell'uso sociale del computer. Anche in questo caso, come
per la cultura del libro e della stampa, non è stata una singola invenzione a provocare
una rivoluzione, ma un insieme di accorgimenti tecnici, innovazioni, scoperte, idee,
metafore, esigenze d'uso e pratiche sociali che hanno preparato la strada a un
cambiamento di prospettiva culturale. Eppure il riduzionismo logico, nelle sue varie
forme, che qui chiamerò "ontologia del software", ha ancora un peso enorme, come
vedremo, nella percezione e nell'uso delle neotecnologie.
Un altro esempio di riduzionismo, quasi inerziale, sembra procedere dalle teorie della
comunicazione (da Innis a McLuhan) che hanno messo al centro delle loro ipotesi la
materialità del "mezzo". La ricaduta di questo modo di vedere, che pure ha avuto
grande importanza nell'innovare le prospettive della storia della cultura e della
comunicazione, ha puntato sulle proprietà taumaturgiche di un presunto "supporto",
ancor prima che fosse possibile sperimentare nei fatti - attraverso la rete - le forme
della comunicazione digitale. Chiamerò questo secondo tipo di riduzionismo "ontologia
del supporto". Il concetto di supporto, in realtà, è del tutto inadeguato, per la sua
indeterminatezza, a descrivere non solo la comunicazione digitale, ma qualsiasi tipo di
comunicazione. Eppure è uno dei termini più ricorrenti nelle descrizioni delle "svolte
epocali" nel campo della storia dei media e in particolare nella descrizione della
rivoluzione digitale. L'insistenza sul "supporto", nelle sue molteplici manifestazioni, dal
bit allo schermo, dalla rete alla memoria magnetica, è frequente nelle visioni
deterministiche e negli studi che tendono a sostenere, magari sulla scia di modelli
come quelli di Goldmann o di Panofski, omologie o isomorfismi fondamentali tra uno
2

strumento e il modo di pensare di un'epoca. Il termine "supporto" tuttavia designa


dispositivi, oggetti e fenomeni di natura assai eterogenea, dei quali sono messe in luce
di volta in volta le più disparate e parziali proprietà e qualità. Gli studi più convincenti,
nel campo della teoria e della storia della comunicazione, parlano invece di "sistemi"
dei media, dove le componenti fisiche, tecnologiche, sono connesse ai processi
produttivi, ai complessi ideologici, alle strutture dell'immaginario, alle organizzazioni
istituzionali, oltre che, naturalmente, connesse tra loro.1

II. Modelli testuali: l'ipertesto

Non voglio sostenere che i supporti materiali e tecnologici non abbiano un'importanza
enorme nel modellare le forme della comunicazione, ma credo che sia molto limitativo
tanto trascurare la catena di produzioni culturali e di modalità discorsive che
intervengono in questo modellamento, quanto ricondurre questo processo a una
dimensione puramente "comunicativa". Questo della comunicazione è un punto di vista
che ha avuto un grande ruolo euristico, ma che rischia ora, a mio avviso, di
semplificare le cose. I grandi passaggi forse, alla fine dei conti, non si registrano tanto
sul piano della comunicazione, quanto su quello dei modi di rappresentare il mondo, di
costruire memoria. E cioè, di fatto, i cambiamenti avvengono anche in base a forme di
non-comunicazione, a dispositivi di esautorazione. Le profonde e lente trasformazioni
di questi anni riguardano la scrittura (cambiano la natura del segno), la testualità
(producono un nuovo modello di testo), e i modi del discorso (consentono di connettere
le cose tra loro in modo differente). Ci vorranno forse molti secoli perché queste
trasformazioni si compiano. C'è voluto un millennio per arrivare alla concezione del
segno - autonomo, arbitrario e visibile - che contraddistingue la (una certa) modernità,
e altrettanto per costruire la pagina, metafora della nostra pregressa "certezza" del
mondo. Come ha mostrato in modo agile ma molto convincente Ivan Illich,2 la
rivoluzione gutenberghiana è cominciata alcuni secoli prima dell'invenzione dei
caratteri mobili.3 La cultura del libro è stata preparata da un "fascio di invenzioni"4
della più varia natura che in modo assolutamente non deterministico hanno corrisposto
a differenti (e a volte conflittuali) esigenze culturali. La trasformazione è passata
dunque attraverso una miriade di innovazioni tecniche di natura molto diversa tra loro,
dall'introduzione della carta all'introduzione dei paragrafi e degli spazi bianchi tra le
parole. Tutti questi accorgimenti tecnologici e scoperte hanno interpretato e realizzato,
di volta in volta, diverse esigenze di ristrutturazione della testualità. Dunque appare per
lo meno problematico parlare di "supporto". E ancor più dubbio rinvenire nella sua
forma costitutiva i semi del futuro. È piuttosto frequente, invece, trovare che da una
rappresentazione spesso assai semplificata dei "supporti" si traggono indicazioni su
come sarà trasformata la cultura o, addirittura, il nostro cervello.5 Questo tipo di
riduzionismo, ancora in auge tanto nei giornali quanto negli studi specialistici, trasforma
in senso comune alcuni slogan legati a concetti molto confusi, come non-linearità,
interattività, multimedialità, ecc. Così si perde di vista proprio la materia, la costituzione
effettiva degli oggetti, proprio quando si pensa di tenerla in gran conto. Si arriva in
questo modo a equazioni-sillogismi di questo tipo: ipertesto = non-linearità = fine del
pensiero narrativo. L'errore sta tanto nelle equazioni, quanto nelle inferenze. Credo ad
esempio che l'ipertesto sia tutt'altro che non-lineare, e che anzi argini, riorganizzi e
riordini in modo molto più complesso - architettonico - la non-linerità della nostra
cultura di transizione. Esso configura e assimila, ad esempio, la non-linearità
(anch'essa non assoluta) del database. In questo caso alla linearità si oppone, come
elemento di novità, l'architettonicità, non la non-linearità. E ciò che è importante è il
fatto che tale architettonicità sia materialmente strutturabile, ossia testualizzabile.
Quindi bisogna fare un salto di scala, e sforzarsi di vedere l'ipertesto non come un
oggetto emblematico, reificabile nella sua materialità breve, quasi ottusa, di un
3

manufatto digitale, bensì come un prodotto culturale in via di formazione: un modello di


testualità, che sta in stretto rapporto con il "come scrivere" le cose, e con il "come
dirle".
Tornerò su questo tra breve. Qui voglio solo aggiungere che ritengo che non ci sia nulla
di definito e di definitivo in questa testualizzazione. La testualità è un campo di
battaglia. Anche nella lotta sulle diverse forme e configurazioni del testo si giocano i
futuri assetti della società e della cultura. Parimenti, credo che non si possa attribuire
nulla di rivoluzionario o di progressivo (e nemmeno di nuovo) alla presunta non-
linearità, così come penso che non sia giustificato assegnare a priori l'etichetta di
reazionario a un "ordine del discorso" di complessità superiore. Non va dimenticato
invece, osservando come è fatto, che il testo digitale, in quanto costitutivamente
stratificato, incorniciato e processuale, possiede una struttura fortemente gerarchica.
Tale stratificazione funzionale, che richiede competenze eterogenee, si predispone
anche a un uso sociale differenziato. Non solo, ma, ai fini della sua stessa costituzione,
il testo digitale sembra esigere una più sofisticata divisione del lavoro: tutt'altro
dall'immagine della proliferazione orizzontale indifferenziata che molti hanno
stigmatizzato, e molti altri esaltato. La nuova testualità digitale sembra chiedere o
prefigurare una società altrettanto gerarchica e stratificata, dove è tutta da verificare la
possibilità di diminuire la contraddizione plurisecolare tra produzione e consumo, di
aprire nuove zone mobili di scambio culturale e sociale, di inaugurare un'era in cui sia
possibile intraprendere, almeno in parte, se si può dir così, un consumo riflessivo e
attivo. Ancora una volta, non è solo una questione di comunicazione, ma anche di
forme. E non è nemmeno una questione di perdita di memoria, come da qualche parte
si teme,6 ma qualcosa di più grave: si tratta di costruire una memoria. Il pericolo
dell'oblio, che Lorenzo De Carli esprimeva affermando che la rete potrebbe diventare
"un potente strumento di oblio e di soppressione delle differenze, invece che un mezzo
per esaltare il multiversum nel quale viviamo e del quale occorrerebbe che ciascuno di
noi prendesse coscienza",7 andrebbe inteso in questo senso: non come rischio
dell'indistinto, ma come problema della ristrutturazione sociale delle competenze e
degli accessi.

III. Limiti del concetto di multimedialità

Voglio anche accennare brevemente, come esempio ulteriore di incomprensione del


supporto attraverso l'esaltazione del supporto, al caso della cosiddetta multimedialità.
L'uso corrente di questo termine è molto confuso e onnicomprensivo. Per cominciare,
risulta spesso ambiguo di quali media si parli: dei linguaggi impiegati, delle modalità
sensoriali di ricezione o emissione, dei canali o degli strumenti di accesso, dei luoghi
della fruizione, delle forme di espressione. Risulta poi altrettanto vago quale sia la
direzione del flusso, se dall'uno ai molti o dai molti all'uno. Per rendere più chiaro: se si
usa, ad esempio, uno strumento per produrre diversi linguaggi, oppure se si fanno
convergere diverse forme espressive in unico linguaggio, o se si impiegano diversi
strumenti per un unico scopo comunicativo, ecc. È infine incerto quale sia la natura del
flusso, ossia se si tratti di un processo di tipo produttivo, creativo, tecnologico,
distributivo, comunicativo, ecc. Qualcuno risponderebbe che "multimedialità" è tutto
ciò, e altro ancora, ma non credo che in questo caso una visione "sistemica", o meglio
globalizzante,8 aiuti più di tanto nella comprensione profonda del fenomeno. Uno dei
pochi elementi certi è che il concetto implica una molteplicità e una convergenza, un
rapporto tra uno e molti. Sfugge, quasi sempre, dove e come avvenga questa
convergenza, ossia quale sia l'elemento unitario che raccoglie, coordina o irradia la
molteplicità di linguaggi (di forme comunicative, di modalità sensoriali, ecc.). Si slitta
anche qui, il più delle volte, tra l'insistenza o sulla natura logica dell'elemento unificante
(la codifica binaria), o sulla sua natura materiale (il prodotto, lo strumento, il canale, il
4

supporto). Si tratta di visioni parziali, e nemmeno la loro somma fornisce risposte


soddisfacenti a questa domanda: per quale medium passano i diversi media? La
risposta, spesso elusa, è, dal mio punto di vista, più semplice di quello che potrebbe
apparire, anche se ha conseguenze complicate: il mediatore dei mediatori è il testo. La
"multimedialità" è sempre esistita. Noi siamo l'essere multimediale per eccellenza. Il
nostro corpo è multimediale. Che cosa c'è dunque di straordinario e innovativo in
questa unitarietà molteplice della multimedialità? L'aspetto rivoluzionario sta nel fatto
che questa molteplicità è testualizzata. Le conseguenze complicate allora stanno, per
esempio, nel fatto che dobbiamo mutare la nostra nozione di testo, e che forse non è
così vero, come qualcuno afferma, che si vada verso una "società post-testuale",9
verso una cultura dell'"abitare",10 o, addirittura, verso una estinzione della scrittura.11

IV. Il ruolo dell'informatica umanistica

Va detto poi che i due riduzionismi dominanti, ontologia del software e ontologia del
supporto, possono corroborarsi o combattersi, ma entrambi hanno avuto effetti negativi
sulla comprensione del ruolo culturale del computer e delle reti: hanno ritardato un uso
pragmatico delle neotecnologie e una riflessione sui veri effetti culturali, già in atto, del
nuovo sistema interconnesso che si sta creando. I cambiamenti interessano in primo
luogo, come ho detto, la natura del segno, del testo e del discorso, ed è su questi temi,
su questa materia che gli studi tendono a sorvolare. Tra gli studiosi che da tempo
fanno uso del computer nell'ambito delle discipline umanistiche, l'esistenza di queste
due impostazioni riduttive ha influenzato differenti stili d'uso dello strumento
informatico, diverse aspettative e progetti teorici, che altrove ho chiamato,
scherzosamente, Digital Mind e Digital Body.12 Nel mondo letterario, in particolare, tale
dicotomia ha avuto l'effetto di favorire il rifiuto, da parte della maggioranza dei letterati,
degli strumenti informatici, ritenuti o aridi mezzi meccanici, buoni a far statistiche, o
fenomeni mediologici, extra-letterari o, peggio, pericolosi per la vita stessa della
letteratura.13 È un rischio ancora attuale dell'informatica umanistica chiudersi in queste
due impostazioni, l'una computazionale, dedita alle tecniche di formalizzazione, l'altra -
diciamo - multimediale, volta alla realizzazione di strumenti telematici. Il rischio è
trascurare il compito più importante dell'informatica umanistica, che è storico-culturale
e teorico. In altre parole investirsi da un lato di un insieme di problemi che sono stati
prerogativa della storia delle idee, della storia della cultura materiale, dell'antropologia
(studio delle configurazioni dei rapporti tra scrittura, discorso e mondo); dall'altro, di
temi chiave della teoria letteraria e della semiotica della cultura (natura e trasformazioni
della testualità, tematologia, generi letterari e generi del discorso). L'informatica
umanistica, come sostengo da molti anni, dovrebbe assomigliare più alla retorica
antica che a una disciplina soltanto tecnico-specialistica. Così intesa essa porrebbe
programmaticamente al centro delle scienze umane, per ragioni teoriche profonde e
non per ossequio alle mode, il problema del Testo e il problema dell'Altro. E potrebbe
divenire uno dei tessuti connettivi delle scienze umane.

V. La testualità moderna

Questa apparente divagazione sull'informatica umanistica voleva mettere in evidenza


che la cultura prevalentemente metonimica in cui siamo immersi tende a trasformare lo
specialismo "moderno" in qualcosa di procedurale. Aspira alla leggerezza, cercando di
svincolarsi dal peso della cultura, dalle sue oggettivazioni e resistenze. Tanto
l'ontologia del software, quanto l'ontologia del supporto, sono tentativi più o meno
eleganti di disfarsi della complessità e della corporeità della cultura moderna. Il "mondo
5

3" di Popper, ossia il prodotto dell'attività umana che, in certa misura, "trascende i suoi
creatori", è in effetti un'invenzione della modernità. Hans Blumenberg, studiando le
grandi metafore del libro e della leggibilità, ha mostrato come, nel cuore della
modernità, di fianco al libro sacro e al libro della natura abbia cominciato a prender
forma un "terzo libro", quello della cultura, dell'esperienza del mondo e della storia. A
questa oggettivazione e autonomizzazione hanno contribuito pensatori come Gracián,
Vico e Leibniz.14 Questo "terzo libro" è polisemico e stratificato, e in esso la "logica
della fantasia" e l'uso della metafora sono consustanziali al senso e alla verità. Ciò che
è irreversibile, in tale consapevolezza di un mondo umano, antropologico, non è tanto
la natura libresca di questo mondo oggettivo, materiale, fatto di forme, supporti, usi e
idee, bensì la sua natura testuale. È una testualità che si pone come diaframma
modellizzante - una sorta di finestra, di quadro, di schermo - tra l'oralità e la scrittura,
tra il segno e il discorso. Non sono convincenti certe cesure nette, del tipo
"oralità/scrittura", o "scrittura/nuova oralità" che possono rinvenirsi negli studi, pure
fondamentali, di Havelock, McLuhan, Ong, Goody, ecc. Sembra invece più convincente
mettere in luce i diversi equilibri che si creano in ogni società letterata tra il parlato e lo
scritto,15 mostrare come cambia il luogo di collocazione del "principio di autorità". La
testualità moderna, se da un lato tende a esasperare la natura convenzionale del
segno, dall'altra orienta il discorso verso un saggio del reale, una sperimentazione del
vero. Il testo moderno dimostra in quanto mette in gioco una comunità di interpreti,
anche se non rinuncia e anzi intensifica una serie di rituali orali (dalla predica alla
scuola) volti al controllo del potere.

VI. Autoreferenzialità ed eteroreferenzialità del digitale

Ora che questo mondo autonomo sembra assumere forme e metafore meno libresche,
e sembra trovare quasi una materializzazione nella rete, peso e leggerezza sembrano
"stati" altrettanto inadeguati. In altre parole è sempre meno possibile comprendere e
descrivere questo "terzo mondo" in termini esclusivamente di autonomia o di
eteronomia, di autoreferenzialità o di eteroreferenzialità, di costruttivismo o di
determinismo. Ciò è evidente per ragioni che riguardano la materialità della rete ma
anche il suo statuto teorico. Da un lato il digitale impone le sue regole, esporta il suo
modo di pensare, richiede, per poter risolvere problemi, che i problemi stessi siano
ripensati in maniera informatica. È la vocazione autoreferenziale, riduzionistica
dell'informatica: il digitale capisce soltanto il digitale. Se vogliamo usare i potenti mezzi
dell'informatica per trattare dati o controllare processi dobbiamo essere in grado di
pensare già prima quei dati e quei processi in termini informatici; questo aspetto, in
buona sostanza, spinge anche verso una riorganizzazione del mondo, per il vantaggio
che la gestione di oggetti e processi già predisposti al trattamento informatico può
comportare (informatizzazione del mondo). Quindi, più si diffonde l'uso del computer,
più si diffonde la forma mentis che le è propria, con effetti organizzativi, economici,
sociali e culturali molto profondi. Dall'altro lato il digitale ha natura fortemente inclusiva.
Permette cioè di importare (simulandoli) oggetti e forme del mondo reale, creando
nuove forme di interazione. È, questo, l'aspetto eteroreferenziale del digitale, che
diviene supporto virtuale di scambi reali, veicolo informatizzato di rapporti non
informatizzati, e occasione di sperimentazione di metafore e di forme. La rete include
oggetti, discorsi, testi, ambienti, mappe, archivi, costrutti mantenendo un rapporto con
ciò che resta fuori, permettendo di approfondire anche il nostro rapporto con ciò che
resta fuori. Queste due facce del digitale convivono, anche se le conseguenze
teoretiche del secondo aspetto vengono più spesso trascurate, e non si può non tener
conto di entrambe, perché è proprio dalla loro combinazione che prende forma la
cultura che sta nascendo. In un certo senso questo aspetto duplice e costitutivo
sembra in continuità con la parte più sperimentale del moderno, ne amplifica e ne
6

realizza alcune aspirazioni. Ne continua, soprattutto, la vocazione pragmatica, ossia la


tendenza a connettere senso e forza, significato ed efficacia, comunità ed esperienza.
La simulazione e la virtualità sono costituite da una materialità al cubo,16 se così si
può dire, ma che non può che essere continuamente messa alla prova, in una sorta di
circolarità tra parole e cose, numeri e oggetti. La cultura della rete costringe a un
continuo rimando, a un continuo passaggio, fuori da ogni contrapposizione tra misura
ed esperienza, dal piano formale a quello dell'uso, dalla riflessione alla prassi.

VII. Dalla robotica alle interfacce grafiche

Fino a una quindicina di anni fa era difficile pensare che il mondo digitale potesse
diventare un ambiente quotidiano di comunicazione scritta e di costruzione di memoria.
Nonostante ciò, e forse proprio per questo, l'immaginario è stato dominato per decenni
da rappresentazioni che evocavano una possibile subordinazione alle macchine.
Paradossalmente la percezione della diversità radicale della macchina, della sua
alterità assoluta, il parossismo metonimico dello sviluppo eccezionale di una sola
facoltà (la capacità di calcolo) a scapito di tutte le altre, hanno favorito un confronto con
l'umano, la personificazione del computer, e anche la fantasia di una sostituzione dei
valori macchinici a quelli umani.
Prova di questa tendenza è stata lo sviluppo, negli anni Cinquanta, di un filone
domestico della fantascienza robotica, il cui capostipite è Isaac Asimov, che sembrava
svolgere una funzione lenitiva rispetto al timore di una "presa del potere" da parte delle
macchine. Con le "Tre leggi della robotica" venivano fissati i vincoli dell'obbedienza del
computer, confinato nella sua personificazione robotica, e controllato attraverso la sua
etica programmata.17
Tutta la prima fase nella percezione delle tecnologie digitali che, come si è detto, è
stata influenzata dall'idea del computer come macchina logica, è stata accompagnata
dal ricorso sistematico, nella letteratura e nel cinema, alla personificazione.
Successivamente, dalla fine degli anni Sessanta, questa dinamica di separazione e
proiezione ha cominciato a incrinarsi, e la tecnologia ha cominciato a compenetrarsi
con la sfera dell'umano. Con Star Trek,18 e, in particolare, un decennio dopo, con
Guerre stellari,19 ha cominciato a conquistare l'immaginario l'ipotesi di un possibile
innesto del digitale nel biologico, di un'ibridazione di macchinico e umano.
Affinché si diffondesse l'idea di una compenetrazione sociale, invece, ci è voluto,
paradossalmente, più tempo. Perché prendesse piede un'idea di interattività in grado di
investire molti aspetti della vita pratica, cioè, si è dovuto attendere che il computer
fosse in grado in qualche modo di simulare analogicamente il mondo.20 Il che significa
costruire o simulare oggetti e ambienti dotati, da una parte, di una propria legalità
interna e, dall'altra, di un aggancio metaforico o derivativo con il reale.
Il mutamento di percezione cominciò a manifestarsi di pari passo con l'introduzione
delle interfacce grafiche,21 fenomeno che Sherry Turkle presentava ancora
sostanzialmente, sia pure con qualche correzione, come una vittoria dell'estetica
postmoderna della superficie (incarnata da Macintosh) sull'estetica moderna della
profondità (incarnata da IBM).22 Fu invece l'inizio della rivoluzione "inavvertita" del
digitale, ossia della sua penetrazione "banale" nella vita e negli oggetti di tutti i giorni.
Questa diffusione nel quotidiano andava (e va tuttora) in una direzione a mio parere
differente da quella prospettata dal mito della grande "convergenza digitale" (che
peraltro aveva come modello economico-produttivo e di consumo la televisione). Il
digitale penetra negli oggetti rispettandone gli usi differenziati, adattandosi a vecchie
abitudini e creandone di nuove. Inonda gli oggetti di scrittura, allo stesso modo in cui gli
oggetti entrano nel digitale. Ma l'aspetto più importante di questa rivoluzione
"inavvertita", spesso lasciato in secondo piano rispetto ai celebrati prodigi del possibile,
è la diffusione di una nuova grammatica del connettere. Essa apre la strada, poco alla
7

volta, a un modo diverso di pensare le relazioni tra gli oggetti, tra le parole e le cose.
Le parole diventano - anche - istruzioni. Il segno tende non più a "stare per", bensì a
portare materialmente verso ciò che rappresenta e indica. Il testo diviene un processo,
che implica, non in senso metaforico, il suo lettore. Il discorso viene liberato dai regimi
di separatezza modale e di isolamento ontologico dal mondo che ne garantivano la
purezza, e prende a includere oggetti, a farsi architettura di oggetti.

VIII. La materialità del digitale

Questo quadro, anche se qui sommariamente delineato, mostra più che altro che si è
avviato un processo di cui sarebbe difficile rendersi conto senza osservare da vicino la
materialità di queste manifestazioni. E uno degli aspetti salienti degli oggetti culturali
che cominciano a costituire il nostro ambiente vitale sembra proprio la
compenetrazione di corpo e informazione. Si tratta, in prospettiva, di un corto circuito
nella nostra concezione del linguaggio. Nel binomio langue-parole siamo portati ad
attribuire corporeità e concretezza (storicità) al secondo termine, mentre il primo è
astratto e astorico. Nel mondo digitale questa condizione tende a rovesciarsi. Il codice
diviene materiale, tangibile; il metalinguaggio assume la forma di meta-dato e di
relazioni strutturate. Le possibilità di articolazione, le enunciazioni, tendono invece a
divenire potenziali. La ripetibilità differenziata dell'esecuzione del testo permette che
caratteristiche del codice, come la simultaneità e la compresenza, divengano quasi
pratiche sperimentabili, in una succesione di combinazioni. Aumentando la
complessità, si ottiene un dispositivo in cui è in un certo senso programmato
l'intervento del caso. Il caso viene, per così dire, materializzato. Sembra tuttavia che,
più che un rovesciamento, come alcuni sostengono,23 questo sia l'avvio di un circolo
virtuoso pragmatico, come prima accennavo. Se il codice è materiale, non è più codice.
È un insieme di regole storiche, delimitate e delimitanti, che l'interazione è in grado di
mutare. Viene creato un thesaurus, che è molto diverso non solo da un codice, ma
anche da altre forme di archivio, come l'indice, l'elenco, il catalogo.24 Non c'è qui lo
spazio per approfondire questo aspetto, ma mi limiterò a richiamare alcune
conseguenze della materializzazione nel discorso (che ancora potrebbe definirsi
testualizzazione) dell'elemento paradigmatico.
Ho fatto già ricorso ai due concetti saussuriani di paradigma e di sintagma analizzando
le linee tortuose che Laurence Sterne introduce nel Tristram Shandy per rappresentare
l'andamento divagante della narrazione.25 Si trattava in quell'occasione di mostrare
come l'introduzione di simili inserti (i celebri scarabocchi sterniani), con funzione
paradigmatica (ossia intercalati allo scopo, di là dalle intenzioni auto-parodiche, di
mostrare l'impianto narrativo e le regole attraverso le quali esso era costituito), avesse
il ruolo straniante di instaurare una tensione tra mappa e percorso, tra sistema del
racconto e narrazione. Sterne riusciva a far convergere distanza critica e straniamento
artistico pur non riuscendo, per limiti tecnici (tipografici), ad andare oltre la
rappresentazione di una mappa che a volte riproduceva in tutto e per tutto l'andamento
di una riga di scrittura tipografica: da sinistra a destra, andando a capo, ecc. Ma
un'ulteriore considerazione riguardava proprio la corporeità di questi paradigmi: nel
confronto a distanza con gli strumenti digitali si vedeva bene come la funzione delle
interruzioni paradigmatiche avesse anche la funzione di introdurre una forma, un
oggetto dentro al discorso. La stessa osservazione si poteva fare a rovescio, partendo
da un prodotto digitale (che in quel caso era un gioco per bambini), e constatando che
le mappe hanno sempre la funzione di introdurre un'aggiunta semantica legata alla loro
forma (spesso in funzione straniante). Questo elemento semantico è irriducibile
(intraducibile). Si produce nel discorso il fenomeno, sorprendente, della presenza di un
paradigma con funzione deittica. L'unico "paradigma" esistente di questo tipo è il corpo
umano. Questa irruzione del corpo nel discorso mi pare la metafora più significativa per
8

esprimere la natura circolare, quasi ambivalente del mondo digitale, in cui i segni
tendono a divenire al tempo stesso cose e regole. La testualità digitale diviene uno
spazio topico, un luogo dei luoghi, un thesaurus, dove l'insieme delle regole non
sopprime la storicità, e anzi può renderla più esplicita e controllabile. Se vogliamo, è il
cinema che ha annunciato questa possibilità di ridare corpo al segno, attribuendo un
volto ai personaggi, "scrivendone" la storicità fisica. Il testo digitale realizza pienamente
questa esigenza creando un sistema di connessione e di ripercorrimento tra questi
segni-corpo.

IX. Conclusioni

La materialità del digitale va intesa dunque in senso ampio, come modalità concreta
del fare segno e del fare discorso. In questo modo si evita una visuale ristretta, che
escluda, alternativamente, o l'aspetto logico, o l'aspetto materiale; e si vede come il
testo digitale possa fungere, almeno in teoria, da connettivo aperto tra codifiche e
mondo, tra modelli e realtà. I computer hanno cambiato perfino le prospettive della
matematica, come ha mostrato Giuseppe Longo:26 la materialità degli strumenti apre
addirittura nuovi settori di ricerca nelle discipline che si ritengono teoreticamente più
pure, a dispetto di tutte le etiche e le estetiche dell'immaterialità e del software.27
L'hardware non è solo ferraglia, come una parte della cultura cyberpunk, in sintonia
con gli idealismi apollineo-platonici delle "scienze pure", tende a credere,28 bensì
agisce fin dalla radice sul modo di impostare i problemi: "La struttura logica non è tutto,
e il supporto materiale ha un'importanza straordinaria, perché la sua struttura fisica
interagisce in maniera inestricabile con la funzione e la modifica (ad esempio
introducendo ritardi temporali e trasformando i rapporti logici in rapporti di causa-
effetto)".29 Sarebbe quindi non solo un'illusione, ma un errore profondo sul piano
teorico pensare al mondo delle reti, anche in luoghi circoscritti e controllati dal rigore
accademico, come a un caso in cui si realizza, come dicono gli scienziati, la "neutralità
rispetto al substrato",30 dove cioè non si verificano resistenze, deformazioni, deviazioni
imposte alla logica dalla storia.
Ma soprattutto, risalendo dal cuore logico all'uso pratico, è perfino ovvio constatare
come i luoghi, gli usi, gli oggetti, le metafore del mondo reale influiscano sulle forme e
le funzioni della programmazione, sulle configurazioni delle interfacce e sulla
progettazione stessa di nuovi dispositivi. La rete, e il web in modo particolare, hanno
rivoluzionato i criteri della programmazione e la mentalità dei programmatori,
diffondendo l'esigenza di una programmazione orientata agli oggetti, di una messa a
punto di sistemi interattivi aperti, non subordinati alla logica dell'algoritmo. Come ha
affermato Peter Wegner, professore emerito di Computer Science alla Brown
University, "Pensare, dedurre, è proprio ciò che fa un algoritmo: non interagisce, pensa
soltanto. Un oggetto, invece, può interagire; esso è, quindi, più simile ad un sistema
empirico o fisico e funziona proprio in un modo che sembra dar ragione agli empiristi, i
quali sostenevano che non possiamo fare tutto con il solo pensiero, che dobbiamo
riconoscere il ruolo dell'interazione con il mondo esterno".31
La rivoluzione inavvertita, la "cultura della virtualità reale" come direbbe Manuel
Castells,32 apre di fatto la strada a un nuovo tipo di discorsività, e quindi di macro-
sintassi, di cui entrano a far parte non solo oggetti, dotati di una propria profondità ed
efficacia al tempo stesso rappresentativa e operativa (le icone, i bottoni, le parole
attive), ma anche altri agglomerati stratificati di istruzioni/funzioni che complicano la
grammatica, la retorica e l'estetica della comunicazione scritta. L'uso di questo
ambiente testuale ha posto le basi per la programmazione object-oriented, ma anche
per qualcosa di più vasto, che riguarda più globalmente la nostra cultura: la produzione
di dispositivi di studio, di ricerca, di comunicazione e di lavoro che consentono il
9

passaggio da un livello analitico a uno olistico, da un piano astratto a uno concreto, da


un esercizio di esperienza a uno di riflessione.
Note:

1 È il caso dell'ottimo P. Ortoleva, Mediastoria. Mezzi di comunicazione e cambiamento


sociale nel mondo contemporaneo, Milano, Net, 2002. Per un'impostazione più vicina
ai cultural studies che ai media studies, attenta alle resistenze e alle sfumature
"dell'azione e del significato" nei complessi mediali-culturali si veda, a mo' di
introduzione, R. Silverstone, Perché studiare i media?, Bologna, Il Mulino, 2002. Per il
ruolo dell'immaginario si veda P. Flichy, L'imaginaire d'Internet, Paris, La Découverte,
2001.

2 I. Illich, Nella vigna del testo. Per un'etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina,
1994.

3 Per le conseguenze e le interdipendenze dell'invenzione della stampa, sul piano


sociale e storico, ma con minor attenzione alla costituzione del testo, rimane
comunque fondamentale E. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come
fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1986.

4 I. Illich, Nella vigna del testo, cit., pp. 5-6.

5 È la falsariga su cui si muove, ad esempio, una recente inchiesta di "Newsweek", in


un numero dedicato a The Youth of Future, 30 giugno 2003, n. 26.

6 L'eclisse delle memorie era il titolo di un convegno linceo di una decina d'anni fa: T.
Gregory e M. Morelli (a cura di), L'eclisse delle memorie, Bari, Laterza, 1994.

7 L. De Carli, Internet. Memoria e oblio, Torino, Bollati-Boringhieri, 1997, pp. 112-113.

8 Il concetto di multimedialità eredita l'onnicomprensività del termine medium tipica del


pensiero di McLuhan. In quest'ultimo, tuttavia, tale estensione rispondeva a una
precisa necessità teorica, come Renato Barilli ha mostrato già molti anni fa (R. Barilli,
Estetica e società tecnologica: Marshall McLuhan, in "Il Mulino", marzo-aprile 1973, n.
126, pp. 264-300), mentre oggi si riversa acriticamente nell'uso corrente,
accompagnata, paradossalmente, da una sorta di monografismo schematico sulle
proprietà di singoli "mezzi di comunicazione".

9 M. Ricciardi, Le comunità virtuali e la fine della società testuale, in La cultura per il


XXI secolo, a cura di P. Cesi e P. Borgna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 130-155.

10 A. Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Genova , Costa & Nolan, 1996.

11 M. Costa, L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma , Castelvecchi,


1999.

12 F. Pellizzi, L'ipertesto come forma simbolica, in "il verri", n. 16, maggio 2001, p. 73.

13 Per una ricostruzione abbastanza simile alla mia, e per un commento su come
questa situazione abbia tenuto i letterati tradizionali nell'ignoranza di ciò che è definito
"one of the most remarkable achievements" (uno dei raggiungimenti più notevoli) della
prima fase della rivoluzione digitale, ossia lo sviluppo di sistemi di marcatura in grado
di descrivere la struttura logica di ogni documento digitale, si legga: J. McGann,
Radiant Textuality: Literature after the World Wide Web, New York, Palgrave, 2001, in
particolare l'Introduzione, pp. 1-19.
10

14 H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, a cura
di R. Bodei, Bologna, Il Mulino, 1984, in particolare pp. 113, 117, 168; un'esposizione
della teoria dei tre mondi si trova in K.R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di
vista evoluzionistico, Introduzione di A. Rossi, Roma , Armando, 1983, pp. 209-255. La
citazione da Popper è a p. 216.

15 In questa direzione, anche se con campi di applicazione molto diversi, si vedano B.


Stock, La voce del testo. Sull'uso del passato, Roma, Jouvence, 1995; R. Finnegan, La
fine di Gutenberg. Studi sulla tecnologia della comunicazione, Firenze, Sansoni, 1990.
Tra gli studiosi che hanno messo in evidenza la dialettica variabile tra parola e scrittura
nell'età moderna sono anche da ricordare, oltre a Foucault, Bachtin e Ricoeur.

16 Per una critica delle teorie della dematerializzazione e sul rapporto tra "forme
simboliche" e loro efficacia pragmatica e produttiva rimane fondamentale T.
Maldonado, Reale e virtuale, Milano, Feltrinelli, 1998, in particolare pp. 9-78.

17 Esemplari a questo proposito le raccolte asimoviane di racconti sui robot (I. Asimov,
I, Robot, New York, Gnome Press, 1950 e Id., The Rest of the Robots, Doubleday, New
York, Garden City, 1964) e i suoi due romanzi The Naked Sun (Doubleday, New York,
Garden City, 1957) e The Caves of Steel (Doubleday, New York, Garden City, 1954).
Le famose "Tre leggi" non sono operative dai primi racconti, ma si fanno strada dal
quinto racconto in poi come esigenza interna, regolatrice.

18 Serie televisiva di Gene Roddenberr, che ebbe molto successo negli USA alla fine
delgli anni Sessanta.

19 Star Wars, regia di George Lucas, USA, 1977, 121 min.

20 Questa vocazione del digitale verso la simulazione dell'analogico, non sempre


adeguatamente analizzata, si è manifestata in realtà assai presto, prima di ogni
interfaccia grafica. Mentre tuttavia nella prima fase l'obiettivo era simulare certe facoltà
e capacità umane (di cui il test di Turing, volto a verificare se una macchina può avere
comportamenti linguistici percepibili come intelligenti, è il prototipo e il modello), nella
seconda l'obiettivo era la costruzione di mondi, di oggetti e di simboli. Un sintomo
precoce, limitato ma non meno significativo, della seconda tendenza, è rappresentato
dal fenomeno delle faccine (emoticons), già in uso nelle primissime comunicazioni in
rete: ossia l'uso di una combinazione di tre o quattro caratteri per simulare la mimica
facciale ed esprimere understatements, emozioni, commenti. Se ne veda un repertorio
in G. Massari, Smiley. Le faccine di Internet, Viterbo, Stampa Alternativa, 1995.

21 Le date di produzione di architetture innovative, nella storia dei personal computer,


non corrispondono ovviamente alle date della loro diffusione di massa: per registrare
un decisivo cambiamento della percezione del computer attraverso l'interfaccia grafica,
dopo l'introduzione dell'interfaccia Macintosh (1984), bisogna attendere pressappoco il
1990 (diffusione di Windows 3.0) o, addirittura, per un'integrazione completa, Windows
'95. Sulla storia delle interfacce Apple si può vedere J.S. Young e S. Jobs, The Journey
is the Reward, New York, Scott Foresman, 1987.

22 Sh. Turkle, La vita sullo schermo, Milano, Apogeo, 1997, p. 12 e ss. L'autrice
corregge uno schematismo rigido, ma sempre all'interno di una poetica della "pluralità"
e della variazione postmodernista. Cfr. Ivi, p. 21 e ss.

23 L. Manovich, The Language of New Media, Cambridge, The MIT Press, 2001, p.
231. Lev Manovich si è rifatto alla distinzione saussuriana paradigma/sintagma per
11

sottolineare una differenza d'accento tra nuovi media, governati dalla paradigmatica
"logica del database", e vecchi media, narrativi e sintagmatici. In particolare ha
sostenuto che nel passaggio ai nuovi media si capovolge il rapporto tra codice ed
enunciazione. Nei media tradizionali era l'enunciazione (ossia la realizzazione storica
di un concreto discorso), ad avere esistenza materiale, esplicita (in praesentia), mentre
il codice rimaneva virtuale, implicito (in absentia). Ora, nei media digitali, il codice si
materializza, mentre l'enunciazione diviene potenziale: "database (the paradigm) is
given material existence, while narrative (the syntagm) is dematerialized"; Ibidem. Del
tutto indipendentemente da Manovich, in un intervento a un convegno tenutosi a
Edimburgo nel 1998, mi sono rifatto alla stessa distinzione saussuriana per mostrare
qualcosa di completamente differente, ossia il desiderio, già espresso nel cuore della
modernità, e in parte realizzato dalla testualità digitale, di integrare sullo stesso piano
discorsivo, in funzione ironica e critica, regole e cose (F.Pellizzi, The Hypertext as a
Critical Discourse: From Representation to «Pragmeme», in New Media and the
Humanities: Research and Application, a cura di D. Fiormonte e J. Usher, Oxford,
Humanities Computing Unit (Oxford University), 2001, pp. 57-67).

24 Sul catalogo si veda V. Bovolo et al., Il catalogo, o della costruzione del migliore dei
mondi semiotici, in G. Ferraro (a cura di), L'emporio dei segni, Roma, Meltemi, 1998,
pp. 41-76; sulla differenza tra index e thesaurus, si veda R. Betti, L'uomo e il labirinto
nel mondo "artificiale", in Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi, Atti del
convegno internazionale di Modena, 20-23 gennaio 1981, Modena, Panini, 1981, pp.
187-201.

25 F. Pellizzi, The Hypertext as a Critical Discourse, cit., p. 61. Si veda anche F.


Pellizzi, Critica, fiction, ipertesti. "Modernità" e trasformazioni della scrittura, in "Nuova
Corrente", 2001, n. 127, pp. 161-184.

26 G.O. Longo, L'irragionevole efficacia della matematica e l'efficace irragionevolezza


del computer, in "Nuova Civiltà delle Macchine", luglio-settembre 2000, n. 3, pp. 55-56.

27 Sull'estetica dell'immaterialità si legga, di T. Maldonado, anche l'ampia


argomentazione di Corpo tecnologico e scienza, in P.L. Capucci (a cura di) Il corpo
tecnologico. L'influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Bologna,
Baskerville, 1994, pp. 77-97.

28 Si veda, su certe tendenze della cybercultura contemporanea, M. Dery, Velocità di


fuga. Cyberculture di fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997.

29 G.O. Longo, L'irragionevole efficacia della matematica e l'efficace irragionevolezza


del computer, cit., p. 59. Per una conferma dell'errore di un'impostazione che si basa
solo su schemi logico-formali, in riferimento alle vicende dell'intelligenza e della vita
artificiali, si veda D. Parisi, Mente: i nuovi modelli della vita artificiale, Bologna, Il
Mulino, 1999.

30 Si vedano le osservazioni di S.J. Gould contro il riduzionismo algoritmico di Daniel


Dennett applicato all'evoluzionismo culturale: S.J. Gould, Pluralismo darwiniano, in "La
Rivista dei libri", novembre 1997, n. 11, pp. 25-26.

31 P. Wegner, La programmazione orientata a oggetti, Intervista a MediaMente, 6


gennaio 1996, (17 giugno 2003). Si veda, da ultimo, P. Wegner e D. Goldin,
Computation beyond Turing Machines, Comunicazione ACM, giugno 2002, (17 giugno
2003).
12

32 M. Castells, La nascita della società in rete , Milano, Università Bocconi Editore,


2002, pp. 379-434.

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