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JOACHIM ZELTER

La scuola
dei disoccupati

Lavorare non è per tutti

Traduzione
Barbara Ciolli

Isbn Edizioni

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Isbn Edizioni
via Sirtori, 4
20129 M ilano
Direzione editoriale: M assimo Coppola
Senior editor: M ario Bonaldi
Editor e diritti: Sara Sedehi
Redazione: M atteo Alfonsi, Antonio Benforte, Linda Fava
Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi
Art director: Alice Beniero
In copertina: illustrazioni di Artem Krepkij
www.isbnedizioni.it
info@isbnedizioni.it

Copyright © 2006 Klöpfer & M ayer, Tübingen, Germany

© Isbn Edizioni S.r.l., M ilano 2012

Titolo originale: Schule der Arbeitslosen

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Una fabbrica dismessa in un decadente distretto industriale. L’edificio, di
due piani, è stato provvisoriamente ristrutturato, suddiviso in stanze singole
e in spazi comuni: coaching zones, training points, recreation sectors…
Al primo piano, i dormitori, le docce e i lavabi. I muri divisori sono stati
tirati su in tutta fretta. Le pareti sono in truciolato, tinteggiate di bianco. Al
pianterreno si trovano gli uffici: la segreteria, la stanza per gli istruttori, la
direzione della scuola e altri locali. Vicino, la mensa: una mensa senza
cucina, con distributori automatici di bibite, di zuppe e di cibi precotti. Al
piano interrato, la stanza per la meditazione e la palestra. Dentro, cyclette,
vogatori, solarium e una sola palma.
In passato, l’edificio faceva parte di una fabbrica di autoradio. Nel giro
di pochi mesi, l’azienda, fallita, è stata liquidata. La struttura è passata di
competenza a SPHERICON, al prezzo simbolico di un euro.
SPHERICON non produce più autoradio. Neppure altri oggetti. Al limite,
SPHERICON produce opportunità – le ultime – per quegli uomini che credono, o
vogliono credere, di essersi giocati o di aver bruciato tutte le loro chance.
SPHERICON è un centro decisionale. Mette in atto i provvedimenti presi dai Job
Center dell’Agenzia federale per il lavoro, misure per formare i
disoccupati. La scuola colleziona ogni possibile strumento per la loro
completa istruzione. Molto più di una scuola professionale. Piuttosto, una
scuola di vita. Così sta scritto in testa alla lettera, in inglese e in tedesco.
School of Life. Scuola di vita.
SPHERICON è un convitto per disoccupati adulti. Dopo le lezioni gli allievi
non tornano a casa, ma vengono seguiti e assistiti full-time. Sia gli studenti
che gli insegnanti dormono nell’edificio. Sono in continuo contatto e
scambio. Le materie di lezione non sono assegnate a priori agli allievi
(trainees), ma sviluppate individualmente, a seconda delle lacune che
emergono da un quadro personalizzato. Niente è impossibile. Persino

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quando ogni provvedimento immaginabile e inimmaginabile fallisce –
questo il concetto – gli allievi ne escono rafforzati: stabilizzati, resi euforici
e flessibili.

L’anno scolastico di SPHERICON è suddiviso in trimestri. Ogni corso dura un


trimestre, circa tre mesi, poi arrivano i nuovi trainees. Il trimestre inizia
con la consegna degli allievi per mano dei rappresentanti dell’Agenzia
federale per il lavoro. Questi accompagnano i trainees nel loro tragitto
verso SPHERICON. Sono presenti al momento dell’ingresso. Si comportano, nel
vero senso della parola, in loco parentis, come dei genitori: parlano con i
docenti durante il passaggio di consegne, visitano le classi, ispezionano le
camerate, assistono al discorso dei dirigenti scolastici. Fanno quasi tutto
ciò che farebbero dei reali genitori, quando, dopo una matura riflessione,
decidono di iscrivere il loro figlio in collegio per il suo bene, perché non
possono fare altrimenti. Loro, gli intermediari dell’Agenzia federale,
svolgono colloqui approfonditi nei Job Center con i disoccupati: colloqui
sull’inevitabilità di SPHERICON, su SPHERICON come grossa chance. La chance di
una vita. Nella prassi, parlano alla maniera di un familiare: pazienti,
accorti, previdenti… Per l’ennesima volta. Si appellano alla
ragionevolezza dei loro assistiti: in gergo, l’Agenzia federale li chiama
anche clients o patients. Soppesano la loro condizione, sia in parole che in
numeri. Valutano in modo franco e diretto: in mesi e in anni, in milioni e in
miliardi, in termini umani ed economici. Parlano – come si fa con i malati
terminali – di SPHERICON come terapia innovativa. Allo stesso modo in cui i
medici descrivono i nuovi metodi d’intervento. Fanno leva sull’eccellente
fama di SPHERICON e mostrano la brochure scolastica: School of Life. Alcune
foto del libretto rimandano vagamente al clima dei tempi di scuola e
dell’università. Gli allievi indossano una sorta di uniforme scura. Gli
intermediari tacciono compiaciuti. Dopodiché, citano singole frasi del
dépliant: «La disoccupazione non è un destino». Né SPHERICON una scuola
come tutte le altre. La decisione spetta ai disoccupati, però gli intermediari
li incalzano. E lasciano loro intendere che non a tutti viene presentata
un’offerta del genere. Non a tutti. In previsione, a chi accetta viene
prospettato uno status particolarmente vantaggioso nel dossier dell’Agenzia
federale. Uno status eccezionale. La copertura sanitaria resta garantita. Gli
intermediari mostrano loro il contratto scolastico: da leggere, poi da
firmare. Con l’accettazione, chi sottoscrive non è più disoccupato. In ogni
caso, non più effettivamente.
Da ora in poi i senza lavoro si chiamano trainees. Già la parola SPHERICON
è un nuovo inizio. Non appena i trainees hanno firmato, vengono iscritti a

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SPHERICON dagli intermediari dell’Agenzia federale. Per e-mail o via fax. I
dossier e i documenti sono trasmessi alla direzione della scuola. Inoltre, i
video di candidatura dei trainees, come formalità. Gli intermediari
consegnano agli allievi la lista degli oggetti personali che devono, o
potrebbero, portare con sé. Danno loro delle dritte su come affrontare una
giornata tipo – non sempre leggera – della scuola: un cambiamento verso
una vita fatta di sfide e di esercizio continuo. Indicano luogo e ora, quando
e dove ritrovarsi per la partenza. Il viaggio di andata verso SPHERICON viene
organizzato con gli autobus dell’Agenzia federale.
Per tutto il tempo si insiste sul libero arbitrio e sulla motivazione. Gli
allievi sono convinti della necessità della scelta. Loro stessi hanno portato
a casa il contratto, lo hanno studiato e infine sottoscritto. Hanno raccontato
tutto a familiari e ad amici, hanno annunciato loro l’iscrizione, con la
fiducia stampata sul volto. Raccolti attorno al tavolo, in alcuni casi genitori
e figli hanno intravisto, per la prima volta dopo anni, una punta di speranza,
se non di euforia: grazie a SPHERICON. Una scuola… Una chance… In ogni
caso, un inizio… La brochure della scuola è circolata durante i pasti,
sollevando discussioni in famiglia. I bambini soprattutto erano attratti dal
libretto, in particolare dalle divise scolastiche. Così come dallo stemma
della scuola, dal concetto pedagogico alla base e dai suoi frequenti richiami
all’inglese: «Campus viene da camp…». Così si legge nella presentazione.
Tra le altre informazioni, accompagnate da foto: foto di due allievi (un
uomo e una donna) all’armoniosa opera davanti al monitor di un computer.
Alla firma del contratto, alcune famiglie hanno stappato una bottiglia di
vino. Oppure si sono attardate fino a sera, quasi euforiche.

Qualche giorno dopo gli allievi, bagaglio alla mano, sono tutti riuniti nel
posteggio dell’Ufficio del lavoro. Qui li attende un autobus lavato di fresco
dell’Agenzia federale. Ligi al dovere, i collaboratori dell’Agenzia si
affrettano nel parcheggio: gesticolano, salutano, annuiscono, spiegano. Il
loro gesticolare è un modo per rompere il ghiaccio con i trainees: su,
avvicinatevi. In mano hanno la lista dei nomi. Ogni iscritto al programma
viene chiamato e registrato. I documenti personali vengono visionati. Ogni
iscritto firma per confermare la sua presenza. Ciascuno di loro può portare
con sé solo una valigia o una borsa. Una disposizione dell’Agenzia federale
per il lavoro. La misura è stata comunicata per lettera a tutti gli iscritti,
assieme ad altri punti: tessera di assicurazione sanitaria, materiale da
cartoleria, dizionario della lingua inglese, beauty-case, abbigliamento
adeguato (ovvero scuro), calzini, biancheria, pigiama… La maggioranza di
loro arriva accompagnata da parenti e amici. Se ne stanno in disparte, ai lati

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del cortile, ogni famiglia, ogni coppia per conto proprio, conversano a voce
bassissima. Sono tenuti d’occhio dalla finestra superiore dell’adiacente
palazzina per gli uffici. Altri iscritti sono arrivati da soli. Salgono
sull’autobus senza congedarsi da nessuno. Una collaboratrice dell’Agenzia
federale li sprona con fare amichevole: «Prego, salite pure». Dunque
salgono, si cercano un posto libero e si siedono. Fissano gli schienali dei
sedili anteriori. Quasi il pullman stesse già per partire. Gli altri iscritti sono
ancora fuori, parlano e fumano. Vengono incoraggiati dai loro familiari. Con
piccoli gesti: strette di mano o parole dimesse, che dicono di rivedersi a
Natale, nemmeno quattro mesi a Natale, subito dopo la fine del trimestre. Il
tempo passerà in fretta. Persino questi giorni. Alcuni parenti scattano foto.
Foto di padri e madri alla vigilia del loro nuovo primo giorno di scuola.
Con valigia, cappotto e facce niente affatto abbattute. Sullo sfondo si staglia
l’autobus dell’Agenzia federale per il lavoro, che li porterà a SPHERICON.
Alcuni di loro si atteggiano in tutto e per tutto ad alunni al primo giorno di
scuola. O prima di essere spediti in collegio. Dritti in piedi, esageratamente
contenuti, stanno accanto alle rispettive famiglie e vivono in silenzio il
distacco, con rigida padronanza di sé. Controllano l’ora. Guardano verso il
cielo, oppure a terra. L’autista li esorta a sbrigarsi. Le valigie dovranno pur
essere messe nel bagagliaio dell’autobus. Le portiere sono già aperte. I
trainees si radunano. Si radunano davanti allo sportello sbagliato. Il
conducente li spinge verso un altro ingresso. O sono accalcati su di lui,
oppure troppo lontani da lui, o sono troppo flemmatici oppure zelanti ma in
modo esagitato. Sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato. O in
nessun posto. Tengono la valigia con la mano sbagliata. O, se la tengono
correttamente, allora sono davanti alla portiera sbagliata, oppure non sono
davanti ad alcuna portiera. Per l’autista, qualsiasi loro movimento è
sbagliato, un movimento senza senso, senza meta, senza intenzione, senza
traiettoria… Strappa loro le valigie di mano. Ogni valigia per lui è un
fastidio, un’assurdità, uno spreco di spazio, una fatica inutile.
L’accompagnatrice dell’Agenzia federale riesce a stento a calmarlo. Non
appena gli allievi restano senza valigia, sciamano dall’altra parte
dell’autobus. Lì rimangono fermi, in piedi, come per autodifesa. Salutano
definitivamente parenti e amici. Salgono a bordo. Più l’autista si avvicina
loro, più salgono velocemente. Attraversano le file di sedili del pullman
con mosse scomposte, se possono, cercano di andare più in fondo possibile.
L’autobus porta i colori chiari dell’Agenzia federale per il lavoro. Il nuovo
logo (una A a caratteri corposi) campeggia in lontananza. Sotto, a piccole
lettere: «Agenzia federale per il lavoro». Accanto lo slogan: «La Germania
si muove». L’accompagnatrice dell’Agenzia federale sale per ultima sul

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pullman. Con il capo, fa un cenno all’autista. Le porte si chiudono. L’autista
accende il motore e guida l’autobus fuori dal cortile. Da dietro, i familiari
dei partecipanti salutano ancora. Sul pullman, gli sguardi sono rivolti in
avanti, verso i sedili anteriori, oppure obliqui, fuori dai finestrini. Su
proprio convincimento…
«Su proprio convincimento»… Così sosteneva un noto conduttore
televisivo, così ha detto in un discorso il presidente della Repubblica, così
sta scritto nei manuali dell’Agenzia federale: convincimento del proprio
stato, dell’inammissibilità di speranze e desideri mal nutriti,
dell’impercorribilità della strada finora battuta. Se si vuole: convincimento
di un’esistenza condotta in modo sbagliato. Ossia di un progetto di vita
sbagliato, di un’esistenza affrontata male. Lo stesso ravvedimento dei
detenuti e dei tossicodipendenti: abbiamo sbagliato tutto. Sbagliato tutto!

L’accompagnatrice dell’Agenzia federale impugna il microfono. Indossa una


gonna blu e una camicia bianca con piccole nuance colorate. Assomiglia un
po’ alle accompagnatrici di volo. Il suo abbigliamento risponde all’ultimo
Dress Code dell’Agenzia federale, tre gradazioni di indumenti: business,
business casual, smart casual (classificazione secondo lo standard IBM ).
Poiché questo è un viaggio di servizio ufficiale, l’accompagnatrice indossa
business casual. «Benvenuti a bordo. Il mio nome è Neumann. Sono le
11.30 di giovedì primo settembre.» Su una lista controlla che tutti i
passeggeri siano presenti. Annuisce, confronta, prende nota. Spiega al
gruppo: «Percorreremo circa 150 km. Mettetevi comodi. Godetevi il
paesaggio». Spegne il microfono e passa di fila in fila, passeggero dopo
passeggero. Parla, informa, incoraggia uno alla volta ciascuno di loro. L’età
degli allievi oscilla dai 25 ai 45 anni. Alcuni sono realmente fiduciosi.
Sperano che grazie a SPHERICON si apra, in futuro, una qualche porta. Siedono
dritti e si studiano la brochure della scuola. Oppure imparano vocaboli
inglesi. Non senza una punta di orgoglio, ricevono in cambio gli sguardi
benevoli dell’accompagnatrice. Che in questa circostanza appare come una
previdente hostess. Altri siedono senza nutrire eccessive speranze. Fissano
l’autostrada. E vengono a loro volta fissati dagli abitacoli delle auto di
passaggio. Alcuni guidatori superano l’autobus lentamente, per catturarlo
meglio con lo sguardo, altri lo sorpassano a velocità esagerata, quasi il
pullman fosse di cattivo auspicio. Oppure una malattia infettiva. L’autista
mette su della musica. Alcuni trainees hanno con sé zaini appena comprati
o dei vecchi tempi di scuola: dentro, documenti, attestati e certificati. Vi si
trovano i più disparati diplomi: di scuola professionale, di istituti tecnici,
di licei… Alcuni hanno con sé titoli universitari… Gli attestati di

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successivi corsi di formazione, di aggiornamento e professionali sono i loro
assi nella manica, riposti in speciali cartelle per la documentazione, pronti
a essere calati.
L’accompagnatrice distribuisce i pasti: ognuno di loro riceve un
sandwich con il formaggio e uno con il prosciutto, un uovo sodo e una
stecca di cioccolato. Più tardi, l’accompagnatrice consegna ai partecipanti
delle cartellette rettangolari in finta pelle: «Una piccola attenzione
dell’Agenzia federale per l’inizio della scuola». Ripete queste parole
sedile dopo sedile. Ogni cartella contiene un block-notes, due penne, alcune
griglie ancora vuote per le ore di attività, cd-rom vergini, un pacchetto di
gomme da masticare e un libro: Job Quest, la famosa serie televisiva, in
versione romanzo. I primi allievi cominciano a leggerlo già durante il
viaggio.
Fanno sosta in un parcheggio dell’autostrada. L’autista concede ai
passeggeri una pausa per la pipì. Cinque minuti contati, non uno di più.
Alcuni scendono dal pullman per sgranchirsi un po’ le gambe. Muovono
alcuni passi, i loro ultimi passi autonomi. La scritta dell’autobus campeggia
da ogni angolatura: «Agenzia federale per il lavoro». I viaggiatori degli
altri pullman allungano lo sguardo. Verso chi scende dall’autobus. Su come
scende. Su come è vestito. Poi si voltano imbarazzati, di nuovo verso il loro
pullman: diretti in vacanza, lontano mille miglia, forse in Francia o in
Spagna. I trainees invece girovagano tra gli autobus come corpi estranei;
più che camminare, incespicano. Oppure restano impalati a ciondolare,
quasi fosse la loro ultima occasione nella vita per stare fermi in un qualche
posto. L’accompagnatrice dell’Agenzia federale li spinge a muoversi.
Chiama ad alta voce i disoccupati a raccolta. Volendo, potrebbe anche
prendere il megafono. È proprio sotto il suo sedile. Il conducente accende il
motore. Suona ripetutamente il clacson, con colpi secchi ed energici.
Salgono anche gli ultimi ritardatari. Le porte si chiudono. L’autobus supera
lentamente gli altri pullman. Sembra quasi un cartellone pubblicitario
girevole o lo schermo di un cinema: «Agenzia federale per il lavoro. La
Germania si muove». Riprendono l’autostrada, in direzione SPHERICON.
L’accompagnatrice controlla che tutti i partecipanti siano a bordo. Una
formalità dopo ogni fermata intermedia. Li conta a voce alta dal primo
all’ultimo e viceversa. Li conta una prima e una seconda volta… Mancano
due iscritti. Lo accerta con calma, senza agitarsi, chiama di nuovo uno a uno
tutti gli iscritti, stavolta per nome e annota la loro presenza su una lista. Ora
sa come si chiamano gli scomparsi: due quarantenni. Un uomo e una donna.
La donna indossa un loden. In effetti, nessuno si ricorda di averli visti.
Nessuno sa dirle se se ne siano andati via insieme, oppure se ognuno di loro

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sia sparito per conto proprio nel bosco limitrofo, oppure se sia ancora da
qualche parte nell’autogrill, magari nell’angolo di un bagno o in chissà
quale toilette. Le cartellette rettangolari in finta pelle sono ancora ai loro
posti. Le loro valigie sono sotto, nel portabagagli. L’accompagnatrice
comunica al conducente l’accaduto. Lui commenta agitando la mano con
fare sprezzante. Come se non si fosse mai aspettato nient’altro: non solo da
questa sosta per pipì, ma dall’intero viaggio, da ogni singola faccia del suo
carico di disoccupati: fatica sprecata! Poi afferra il suo telefonino e informa
l’Agenzia federale dell’incidente. Pochi minuti dopo entrambi gli scomparsi
vengono presi, non materialmente – possono andare dove vogliono, senza
essere ricercati né perseguiti per legge – piuttosto vengono segnalati nei
computer dell’Agenzia federale. L’accaduto resta irrevocabilmente
annotato. Ogni ulteriore azione di rivalsa nei confronti dell’Agenzia
federale è da considerarsi persa. Da questo momento i due sono al di fuori
di ogni tutela. Viene autorizzata la cancellazione dei loro nomi e dei loro
dati. Le loro valigie smaltite. Come se due uomini si fossero gettati da una
nave, in mare aperto, nel nulla.

Secondo una direttiva dell’Agenzia federale, gli autobus possono essere


utilizzati per svariati fini dimostrativi: come prova di efficienza, di sforzo,
di movimento… Indubbiamente rappresentano anche spaventose immagini
viaggianti, se non intimidatorie.

L’autobus lascia l’autostrada e attraversa un’anonima città. Ai suoi bordi si


allunga un distretto industriale degli anni ottanta. In decadenza. Solo pochi
anni prima nessuno avrebbe mai potuto credere che quelle abitazioni
appena costruite potessero cadere in rovina così velocemente. Potevano.
Quasi tutti gli edifici sono vuoti. Circondati da enormi pozzanghere. I tetti
sono crollati sopra cumuli di macerie. Sulle pareti crescono piccoli
cespugli di erbacce. Alcune strade sono sbarrate. Irreparabilmente.
L’asfalto è saltato in innumerevoli punti. In ogni caso, la maggior parte di
queste vie non ha né utilità, né destinazione. Non porta più in alcun luogo. I
loro edifici sono abbandonati. Per questo le strade sono state chiuse.
L’autobus supera nomi e nomi di vie bloccate da reti e da cartelli di
sbarramento: «Strada chiusa».
SPHERICON si trova nella Düsseldorfer Strasse. Una via non ancora chiusa. I
suoi edifici sono stati provvisoriamente trasformati in sale da bowling,
magazzini per pezzi di ricambio, luoghi di culto per sette religiose. Sono
più che altro tendoni per raduni di fedeli, piuttosto che veri e propri edifici.
SPHERICON comincia accanto a una ditta di spedizioni per aspirapolvere.

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School of Life, sta scritto su uno striscione sopra l’edificio principale.
L’autobus si arresta davanti al portone. L’autista e il portiere sollevano la
mano a mo’ di saluto. La sbarra si alza. Il pullman passa davanti all’edificio
principale. Qui sono parcheggiati altri autobus dell’Agenzia federale.
Arrivano da tutta la Germania. I loro occupanti sono già nel cortile della
scuola, da soli nascosti tra i pullman, oppure in gruppetti. Fumano, si
guardano intorno e aspettano. Due sono i tipi di bagaglio: valigie o borsoni
sportivi. I borsoni ispirano un senso di fiducia e di disponibilità. Forse
addirittura qualcosa come un senso di giovinezza. Dietro la linea blu che
divide il cortile si intravedono i primi funzionari di SPHERICON. Indossano
divise scolastiche. Osservati dagli autobus sembrano doganieri alla
frontiera. In piedi, visibilmente annoiati, la faccia leggermente rivolta verso
i trainees, parlano occasionalmente tra loro, le mani incrociate dietro la
schiena. Alcuni vanno su e giù gesticolando, proprio come fanno i
doganieri. Di tanto in tanto, il loro sguardo corre agli allievi, al di là della
linea blu. Per il resto – davvero come a ogni importante linea di confine –
sulle prime i nuovi arrivati vengono abbandonati a se stessi: lasciati in
attesa; osservati con la coda dell’occhio; sondati nei movimenti sospetti e
in qualsivoglia loro particolarità. Nient’altro. Almeno in un primo
momento.
Il tipo di uniforme scolastica: pantaloni bianchi e un blazer blu scuro con
lo stemma della scuola (una piramide). L’abbigliamento appare a tratti
accademico, sullo stampo delle divise da college inglese, a tratti sportivo.
Ricalcato dalle discipline anglosassoni: cricket con qualche contaminazione
di baseball. Da un lato sobriamente inglese, dall’altro affabilmente
americano: pacca sulla spalla, hey guy! Un po’ Harrow, un po’ Yale, un po’
Germania. Dipende dai punti di vista.
A poco a poco, gli allievi iniziano a raccogliersi e a disporsi in ordine.
Si mettono in fila l’uno dietro l’altro. Si formano i primi serpentoni, senza
che nessuno gliel’abbia ordinato. Partono dalla linea blu al centro del
cortile e terminano ai bagagliai dei rispettivi autobus. Ogni fila corrisponde
più o meno ai passeggeri di un autobus. Si aprono le porte dell’ultimo
pullman. L’accompagnatrice scende. Attraversa il cortile fino alla linea blu,
saluta un funzionario di SPHERICON e gli consegna delle carte. Lui le prende.
L’accompagnatrice torna di nuovo indietro e fa cenno ai passeggeri di
scendere. I bagagliai si aprono. Ognuno va a ritirare il proprio carico. Poi
si dispongono anche loro nel cortile con le valigie o con i borsoni: sulle
prime esitavano, ora si incanalano l’uno dietro l’altro, persino più
rapidamente degli altri contingenti. Di loro iniziativa. Senza una parola di
richiamo.

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Un funzionario di SPHERICON si allinea sulla striscia blu. Imbraccia un
megafono, con cui salutare i neoarrivati al di là del tracciato. «Benvenuti a
SPHERICON.» Lo grida diverse volte. «Benvenuti a SPHERICON.» In tedesco e in
inglese: «Welcome to SPHERICON». Gira su se stesso in senso orario, di
contingente in contingente. Si esprime con frasi secche: tutti arrivati bene?
Dormito bene? Riposati? Di buon umore? Pronti per il nuovo trimestre?
«Ready, able and willing.» Si presenta: «Armstrong… Vicedirettore
scolastico… Deputy headmaster… Armstrong….». Indica l’edificio
scolastico. School of Life. Insiste sulla bella stagione: «Che giornata».
Mostra il cortile scolastico. Sul cui asfalto sono dipinte, a grosse tinte,
alcune iniziali a colori fluorescenti. A, C, H, H1, P2, R, T. «Riuscite a vederle?»
Gli allievi guardano a terra. «Riuscite a vederle?» Le vedono. A, C, H, H1, P2, R,
T … Ogni lettera un… carattere, un’abbreviazione, un significato proprio,
una grandezza definita, una diversa, futura unità scolastica. Nel gergo di
SPHERICON: un team di candidatura. Una comunità, un nucleo abitativo, un solo
dormitorio, lo stesso tavolo a mensa. E molto, molto altro ancora: A, C, H, H1,
P2, R, T. A ogni lettera è appesa un’identità, un’anima, un futuro… A ogni
lettera li attende l’istruttore competente, detto anche consulente, insegnante
di fiducia, mentore, teamleader, captain… Si stringe il megafono alla
bocca: «Tutti gli allievi saranno chiamati per nome». Un collega gli
consegna una lista. «Chiaro? Is that clear? Tutti gli allievi chiamati si
dirigano alla lettera indicata.» Con la cortesia di fare in fretta. Inizia a
leggere i nomi della lista: «Amann, Björn… alla T …» Un uomo con un
borsone sportivo risponde all’appello. «T … attraversi la linea blu verso la
T !» Supera la linea blu con il suo borsone sportivo, dirigendosi alla T .
«Bause…» Alza la mano. «P2…» Accelera verso P2… «Bergmann…» Pochi
passi ed è alla linea blu. «Alla A…» Alcuni trainees si precipitano sulla
linea blu come su una strada molto battuta. Alcuni addirittura corrono.
«Döring, P1…» A poco a poco, attorno a ogni lettera si forma un gruppo,
mentre l’altra metà del cortile si svuota. Gli autisti restano in disparte,
parlottano e gesticolano tra loro. Alcuni allievi non correvano più da anni.
Adesso corrono. Finché l’ultimo di loro non viene chiamato e si posiziona
accanto alla sua lettera, davanti all’istruttore.
Gli istruttori si rivolgono ora ai loro gruppi, con frasi brevi e spezzate,
quasi avessero corso anche loro. Spiegano: 1) chi sono: «Mi chiamo Fest,
[1] Ansgar Fest». 2) Davanti a che lettera si trova il gruppo: la A. 3) Cosa
significa A? Significa Apollo. 4) Cosa si intende per gruppo? Un team, una
classe, una comunità di allievi. 5) Dove dorme il gruppo? In una camerata.
6) Chi svolge le lezioni di un gruppo? Ansgar Fest. 7) Cos’è un insegnante
di SPHERICON? Un consulente, un mentore, un teamchief e un accompagnatore.

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Anche un uomo di fiducia. E molto, molto di più… Tutto ciò Ansgar Fest lo
spiega con frasi chiare e stringate. Gli altri gruppi si sono già avviati verso
l’edificio scolastico. Ben presto, quasi tutto il cortile è deserto. Gli
accompagnatori dell’Agenzia federale sono rimasti in disparte.

«Nulla deve restare com’è» recita un credo di SPHERICON. Ogni gruppo


formato nel cortile è un gruppo a sé, creato ex novo. Ricavato da ex gruppi
e assemblato in modo originale. Fedele al motto della direzione scolastica:
diversità, novità, contingenza. Nulla deve restare com’è. I legami esistenti
devono essere rimescolati. Le combinazioni nascenti nuovamente
consolidate. In continuazione. Mobilità, elasticità, imprevedibilità. SPHERICON
significa cambiamento continuo: Non più e Non ancora. Ansgar Fest guida
il suo gruppo nell’edificio principale. Sopra la porta d’ingresso sventola la
bandiera della scuola, su cui è visibile una piramide. Iniziano adesso le
formalità per l’ammissione, nel gergo di SPHERICON: Check-ins. Registrazione
all’ingresso; consegna delle carte d’identità e dell’assicurazione sociale,
così come delle tessere di assicurazione sanitaria; spegnimento dei
telefonini; trasferimento nei dormitori; disfacimento delle valigie;
sistemazione dei sanitari; accertamenti di sicurezza; regolamento interno;
Dress Code ecc. Ansgar Fest li precede. I trainees lo seguono. Gli orari
sono appesi all’entrata. Gli avvisi attaccati a una bacheca. «Ore 8,
distribuzione delle forbici. Ore 14, riconsegna delle forbici.»
Evidentemente, ancora comunicazioni del passato trimestre. Sulle scale si
trovano i cartelli con le indicazioni: segreteria, biblioteca, direzione
scolastica. Nei corridoi, l’odore dei disinfettanti. L’istruttore Fest guida il
suo gruppo a passo spedito. Mentre cammina, spiega ancora una volta:
vietato parlare al cellulare prima delle dieci di sera. Superano un gruppo di
allievi seduti. Al passaggio, Fest indica loro le sedie: «Il soggiorno». Alle
pareti sono appesi alcuni poster incorniciati e un orologio rotondo, in stile
classico. Fest li conduce nella loro camerata, in fondo al corridoio. Sulla
porta c’è scritto: «Apollo». Fest la apre. Nella stanza, armadi d’acciaio e
letti a castello. Le allieve dormono nella parte posteriore del salone. Il
settore è riparato alla vista dagli armadi d’acciaio, allineati di traverso.
Creano una sorta di barriera. Nella parte anteriore dormono gli uomini. Una
tenda separa le due metà. Nel regolamento di SPHERICON si legge: «Imparare
insieme significa vivere insieme. E viceversa. Di regola gli allievi di ambo
i sessi vivono e apprendono all’interno di uno stesso gruppo». Inoltre:
«Questa è la condizione della più moderna coeducazione. Vedere anche:
stimoli coeducativi, provvedimenti coeducativi, vibrazioni coeducative…».
Sopra ogni letto si trovano delle lenzuola. Di colore bianco. Ai trainees la

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scelta delle postazioni. Sugli armadi sono fissate le targhette con i loro
nomi. I lucchetti possono essere ritirati all’ingresso. Le toilette si trovano
sul lato sinistro del corridoio. Lavabi e docce sulla destra. Sopra il cuscino
di ogni letto, il regolamento interno e un opuscolo informativo. Giovedì
primo settembre 2016, ore 16.
Ansgar Fest ha appena lasciato il dormitorio. La sua voce echeggia nel
corridoio. Non parla, chiama. Chiama un collega e gli comunica questioni
organizzative: borse smarrite, orari, calendario scolastico, aule, pennarelli,
forbici… Negli altri corridoi echeggiano voci di analoghe conversazioni,
per niente sgarbate, piuttosto allegre, di un’allegria e di un cameratismo
contagiosi: come in un campo estivo. Gli allievi di Apollo sono nella loro
camerata: gli uomini nella metà anteriore, le donne in quella posteriore. I
trainees non si conoscono ancora. Mai visti prima. Non sanno neppure
come chiamarsi tra loro: con che nome? Con il tu o con il lei? Alcuni si
danno spontaneamente del tu. Altri del lei. Altri ancora non dicono niente.
Nella metà posteriore di Apollo si inizia a parlare prima che in quella
anteriore. Parole ingessate, frasi del tipo: «Mi chiamo…». Pronunciate
sommessamente. A stento si comprendono i nomi. Tanto vengono detti
piano. Quasi bisbigliando: «Mi chiamo…». E, dopo una pausa, la voce
aggiunge: «Sono… una fioraia». Quasi volesse giustificarsi. Anche se da
lungo tempo non è più fioraia. Altrimenti non sarebbe qua. Ma ci tiene lo
stesso. Ci tiene così tanto che indossa persino una camicetta ricamata a
fiori. Anche chi le è di fronte ci tiene moltissimo. Pronuncia chiaro e forte
la parola «fiori». Le dà la mano e dice: «Mi chiamo Karla». Si stringono
l’una l’altra con le mani e con gli occhi. Un allievo apre la finestra e guarda
fisso fuori, per alcuni minuti. Punta l’adiacente ditta di spedizioni per
aspirapolvere. È protetta con il filo spinato. In lontananza si sente il rumore
degli autobus dell’Agenzia federale. Escono in strada dal cortile, diretti in
convoglio verso la città… Poco dopo non si sentono più. I primi trainees
saggiano i letti. Sopra o sotto? Alla finestra o alla parete? Vicino agli
armadi o più lontano possibile? Esplorano le postazioni con furtive
occhiate di traverso. Con passi incerti, vanno verso la branda prescelta, per
poi voltarsi altrove, all’ultimo momento. Oppure per riprendere a
girovagare daccapo. Alcuni gravitano sui passi orbitanti di altri. Tutto ciò
avviene nel più assoluto silenzio, con movimenti tortuosi e inversi, gli
uomini davanti alla tenda, le donne dietro la tenda. Finora, a malapena è
stata pronunciata qualche parola. Se si esclude: mi chiamo. E: io sono. La
maggior parte di loro sceglie la postazione senza fiatare, solo un drappello
parlando. Altri non riescono a decidersi.
Hanno due ore di tempo a disposizione: tempo per disfare le valigie, per

14
rifarsi il letto, per rinfrescarsi ecc. Anche per conoscersi. Così come per
leggere il regolamento interno. La cena è alle 18. Prima, la consegna delle
monete. Così sta scritto nell’opuscolo informativo sopra il cuscino. Dopo
cena, pulizia della stanza. Poi, alle 19, il discorso del direttore scolastico.
Alle 23, sotto coperta.
I primi allievi riordinano gli armadi. Altri passeggiano nei corridoi.
Avanti e indietro. In esplorazione, a passi impacciati. Senza alcuna meta.
Altri ancora si distendono sui letti e leggono Job Quest, oppure sfogliano il
regolamento interno. Circa cento pagine: un libro, più che una semplice
brochure. Molto più di un normale regolamento interno. Piuttosto, un
regolamento completo, un manuale di scuola e di vita. Se si vuole, una
filosofia di vita. Da lì anche il titolo, con le iniziali maiuscole: A New Life.

«SPHERICON è una scuola libera e facoltativa. Ci vivono circa 150 istruttori e


allievi. Qua tutti conoscono tutti. Qua la vita ha la priorità su qualsiasi altra
cosa…»
A New Life

«SPHERICON è una scuola internazionale. I nostri istruttori arrivano da tutto il


mondo. Le lezioni sono svolte in tedesco, con moduli variabili in inglese, a
seconda della candidatura o delle modalità di lezione…»
A New Life

«Imparare per tutta la vita. E se è la vita stessa a dover essere appresa,


allora si pone il quesito: come e attraverso cosa? Vivendo al meglio…»
A New Life

«Metodo Yale: la poliedricità si apprende variando sistemi di rapporti


alternati…» Ancora: «Chi scopre i propri obiettivi trova più facilmente la
sua strada…». E: «Imparare a gestire il tempo significa imparare a
pensare…». Inoltre: «Il successo personale ha in sé qualcosa di
piacevolmente contagioso…».
A New Life

«Compiti per il giorno dopo: da noi non esistono compiti. Voi siete il nostro
compito. Per questo vi abbiamo integrato nella routine del training…»
A New Life

«SPHERICON non è né un progetto, né un programma, ma un sistema…


Intervenire a 360 gradi contro ogni forma di inattività o di blocco…»
Ancora: «A SPHERICON non esistono punizioni. Ciò non vuol dire che non

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vengano commessi errori…».
A New Life

«Tolleranza zero: nessuna pietà per l’autocommiserazione.»


A New Life

«Dress Code: rinunciamo intenzionalmente alle tradizionali uniformi


scolastiche. Facciamo invece affidamento sul volontario rispetto di un
Dress Code: pantaloni scuri e una camicia scura, si accettano anche T-shirt
o maglioni…»
A New Life

«Tempo libero: a rigore SPHERICON non prevede tempo libero, solo tempo:
tempo per fare, tempo per produrre, tempo per migliorarsi, tempo per
ricominciare… Work is freedom.»
A New Life

«Tavola calda: è aperta dalle 6 alle 23. I distributori automatici per bibite, i
distributori automatici per alimenti, i distributori automatici con i piatti
pronti offrono un’abbondante scelta per pasti o per spuntini. Caffè e altre
bevande calde, così come diversi tipi di zuppe si possono ritirare in
qualsiasi momento…» Ancora: «Distributori automatici speciali con
alimenti e cibi pronti per vegetariani… ».
A New Life

«Le monete: i distributori automatici della tavola calda necessitano di


appositi gettoni (Bonus Coins). Vengono distribuiti in segreteria durante la
consegna delle monete, su presentazione di un verbale redatto dal capo di
ciascun gruppo…»
A New Life

«Work is freedom.» La frase non compare soltanto nel regolamento, ma


anche su poster appesi in diversi punti della scuola. Uno di questi mostra un
temerario mentre scende le rapide, nell’istante di massimo sforzo e
pericolo. Altri poster ritraggono ciclisti, scalatori o sub…

La frase vale anche capovolta: «Freedom is work».

Un altro poster riprende un gruppo di ragazzi mentre chiacchierano


vivacemente. Sullo sfondo si intravede l’orecchio a forma di ragnatela di
uno sconosciuto. E la frase: «Careless talk costs jobs».

16
Mancano pochi minuti alle 19. Gli allievi sono radunati nella hall della
scuola, un vecchio capannone industriale svuotato di tutte le macchine. Le
sue dimensioni sono impressionanti. Come il gigantesco hangar di un
aeroporto. Con delle sproporzionate porte scorrevoli che conducono
all’aperto. I trainees siedono su sguarnite sedie di plastica. Davanti a loro
è allestito un palco. Nel mezzo, un leggio mobile per i comizi. Alla sua
destra e alla sua sinistra le sedie per il corpo docente. «Trainer corps» o
anche «staff di istruttori». Dietro il palco è appesa la bandiera della scuola.
Sotto lo stemma scolastico – la piramide – la scritta latina: «Labor
improbus». Lavoro incessante, quotidiano; lavoro indefesso. Gli istruttori
salgono sul palco da un ingresso laterale. Il direttore scolastico per primo.
Anche lui in uniforme: pantaloni bianchi e blazer blu scuro con lo stemma
della scuola. Seguito dal vicedirettore scolastico, Mr Armstrong, e dagli
altri istruttori. Si siedono. Si atteggiano tutti a teenager: modo di fare
giovanile, cameratesco, alla mano. Nella brochure della scuola è scritto:
«Nessuno dei nostri istruttori ha più di 35 anni. La loro giovane età è parte
del programma». Più che del programma, un obbligo. Persino il direttore
scolastico, nel complesso, è ancora giovane, con qualche anno in più del
resto degli istruttori, ma ancora giovane. Abbronzato e con dei denti
bianchissimi. In ottima salute e pieno di sano ottimismo. Più che il direttore
di una scuola sembra un allenatore di calcio. L’allenatore di una squadra
alla vigilia di un incontro decisivo. Avanza verso il leggio, la sala si
ammutolisce. Sorride. Saluta gli allievi. Dà loro il benvenuto quali
Freshers. In tedesco: matricole. Li saluta con fare allegro-gioviale, in un
tono che sembra dire: sì, qua siete al posto giusto. Assolutamente. La
presenza di ognuno di voi è già degna di nota, una coraggiosa inversione di
rotta, un nuovo inizio… Saluta gli accompagnatori dell’Agenzia federale.
Sono su sedie separate. Saluta lo staff di istruttori. Poi si presenta. «Il mio
nome è Benkdorff, Ulrich von Benkdorff.» Comunica i numeri del suo
ufficio: numero della stanza e numero di telefono. Poi introduce il team di
insegnanti. Ogni istruttore citato si alza e accenna un saluto. Anche Ansgar
Fest: coordinatore dei gruppi e teamchief di Apollo. Istruttore per le
candidature. Laureato a Harvard. Tre lingue parlate. Un professionista della
candidatura. Tutti gli insegnanti di SPHERICON, secondo il direttore scolastico,
sono molto più che semplici istruttori professionali. Sono accompagnatori e
assistenti fissi, consulenti e consiglieri, un mandato che va ben oltre il
programma delle lezioni. Vivono nel campus, non lontano dai dormitori.
Nel complesso sette camerate: Apollo, Canergie, Hartz, Parsons,
Philadelphia, Ricardo, Taylor. Ogni dormitorio è un inizio a sé, un modo
distinto di procedere, un gruppo distaccato. Ciascun gruppo è nato da

17
un’accurata e approfondita riflessione: a seconda dell’età, del sesso, del
livello di istruzione e dei profili professionali. Composto seguendo un
programma per il computer dello psicologo scolastico, il dottor
Lichtenstein. Anche lui si alza, accennando a un saluto. Ogni gruppo forma
un team – un team di allenamento, un team d’apprendimento, un team di
candidati – seguito, guidato e assistito da un istruttore. Persino durante i
pasti…
Poi il direttore scolastico arriva al suo tema più caro: SPHERICON stesso.
Cos’è SPHERICON. Cosa pretende SPHERICON. Cosa provoca SPHERICON e cosa
significa. Significa apertura. La breccia in ogni stato consolidato. La messa
in discussione di ogni rapporto stabile, se non arrugginito, con tutti gli
effetti che ne conseguono. Significa rivedere abitudini rodate. Il foro in
intime camere oscure. Rompere con il pessimistico atteggiamento del ma. E
sbarazzarsi di ulteriori atteggiamenti negativi. Inclusi gli scostanti
comportamenti interpersonali. SPHERICON non ammette ma. SPHERICON significa
rompere il ghiaccio che dimora nelle nostre teste. Superare ciò che è stato
finora. Far saltare in aria tutto ciò che è a senso unico: una strada, una
direzione, una verità. I costrutti linguistici che iniziano con le sillabe mono
necessitano di revisione. Parole come sempre o solo necessitano di
revisione. Concetti come solo e unicamente sono sottoposti a verifica
critica. SPHERICON significa critica. Critica verso se stessi e critica verso gli
altri. Critica iniziale, critica in corso, critica finale. We are nothing if not
critical. Shakespeare. SPHERICON vuol dire movimento. Moto continuo. Moto
come principio. Moto come necessità. Moto come gioia. Moto fino allo
sfinimento. SPHERICON è un nuovo inizio, tabula rasa, una cesura.
«Dimenticate tutto ciò che avete appreso finora.» Una frase dei primi,
pionieristici tempi di SPHERICON. «Dimenticate tutto ciò che avete appreso
finora.» Una frase ripetuta durante le innumerevoli ore di lezione. Una frase
crudele, disumana, lacerante; tuttavia, una frase necessaria. Alla fine, una
frase di liberazione.
Per un attimo von Benkdorff si arresta. Afferra un bicchier d’acqua. Gli
accompagnatori dell’Agenzia federale si gettano occhiate, quasi volessero
ammiccarsi. Sì, siamo al posto giusto. Assolutamente.
Il direttore scolastico riprende a parlare: di filosofia, di pedagogia, dei
metodi di training e del prossimo, imminente trimestre. Di giochi a
computer e di Bonus Coins. «Paghetta sarebbe un’espressione sbagliata. Da
noi non esiste paghetta, ma paga, paga in cambio di lavoro, Bonus Coins.»
Parla di orari per la colazione e di pulizia delle stanze. Di capacità di
affermarsi e di spirito di gruppo. Parla prendendo in prestito metafore dal
ciclismo: allenamento, allenamento e ancora allenamento. Parla di

18
frequenze di pedalata e frequenze cardiache. Tutto ciò significa lavoro,
nient’altro che lavoro. E parla della storia del lavoro. Durante l’intero
corso dell’umanità, il lavoro è sempre stato dato a priori. Ha
accompagnato, assediato, braccato gli uomini per millenni. Negli ultimi
anni, tutto ciò è cambiato. Non è più il lavoro a inseguire gli uomini. Noi
inseguiamo lui. Lo ricerchiamo. Con ogni mezzo. Così come si cerca una
preziosa materia prima. Come i cacciatori cercano la preda. Il vero lavoro
di oggi non è più il lavoro in sé, ma cercare lavoro. Un disoccupato non è
un uomo senza lavoro. Al contrario. È un uomo con un lavoro
impareggiabilmente difficile, quello di cercare lavoro. La forma più
ambiziosa di lavoro. Forse addirittura la sua manifestazione più alta e
completa. Ricerca del lavoro è un modo di dire ingannevole. Lavoro di
ricerca è l’espressione corretta. Il disoccupato presta un continuo lavoro di
ricerca. Se si vuole, anche un lavoro di indagine. Alla fine, la sua – spesso
vana – opera è soggetta al lavoro altrui. È questa la divisione del lavoro dei
nostri giorni. Lavoro di ricerca contro lavoro già trovato. Caccia al lavoro
contro salvaguardia del lavoro. Conquista del lavoro contro difesa del
lavoro. Quest’ultima è di gran lunga la più facile. Paragonato al lavoro di
ricerca, l’avere già un lavoro è solo una forma mitigata di dopolavoro. Pura
rendita. Misure cautelari, opere di fortificazione… Quindi, ogni mezzo è
lecito per cercare lavoro. Non solo lecito, in ultima istanza, necessario.
Qualsiasi via, pensabile e impensabile, traversa, laterale o straordinaria.
Qualsiasi finzione o astuzia. Meticolosità e perseveranza. Arti retoriche e
talento per la recitazione. In aggiunta, doti sia analitiche che strategiche.
Nervi d’acciaio. Gusto nell’aggredire. Capacità di espugnare imponenti
baluardi. Di scagliarsi contro ricorrenti ostacoli. Di occupare piattaforme
impervie… Di ributtarsi nella mischia… SPHERICON mette a disposizione ogni
aiuto immaginabile. SPHERICON supporta nel lavoro di ricerca. Un’operazione
paragonabile alla ricerca dell’oro. O dei diamanti. SPHERICON aiuta nel lavoro
di indagine, di allenamento, di candidatura, di regia. SPHERICON non aiuta
soltanto, SPHERICON stesso non è altro che un continuo lavoro di ricerca, di
indagine, di allenamento, di candidatura, di consulenza e di regia…
Alle 11 di sera nei dormitori vengono spente le luci. Molti allievi sono
ancora svegli. Alcuni vanno su e giù per i corridoi. Nessuno ha mai pensato
che sia proibito. Altri fumano davanti a una finestra aperta. Oppure contano
i Bonus Coins. Oppure siedono con il loro cellulare nell’angolo di una
doccia. Oppure mormorano sotto le coperte ai loro familiari. «Com’è stato?
È stato…»

«Scavate!» Da una carriola spuntano vanghe e picconi. L’istruttore Fest li

19
ha fatti prelevare da un container. «Continuare a scavare!» La prima ora del
primo giorno di scuola era appena cominciata, che l’istruttore scattò in
piedi e guidò Apollo fuori dall’aula. «Veloci. Più veloci.» Dal cortile della
scuola gli allievi approdarono al portone principale, che si aprì da solo
nella Düsseldorfer Strasse, e su cui s’incamminarono in due file. Venivano
superati da auto strombazzanti. Quasi la loro presenza, su quella strada,
fosse del tutto fuori luogo. L’immagine ricordava quella di una gita
scolastica gratuita. E loro stessi si sentivano in gita scolastica, la gita prima
dell’inizio di un lungo anno scolastico: un respiro profondo, l’ultimo, e una
stiracchiata alle gambe prima di mesi difficili, stracarichi di lavoro.
Persino la stagione arricchiva il quadro, uno degli ultimi giorni caldi
dell’anno. Gli allievi camminavano entusiasti, scambiandosi qualche
battuta: conversazioni sui tempi di scuola, sulle gite scolastiche, sugli
insegnanti e sui primi impieghi, di quelli ne parlavano come del primo
amore…
Alla fine della Düsseldorfer Strasse arrivarono a un appezzamento di
terreno, su cui era sistemato un container che Fest aprì, per trasportare al
centro dell’area una carriola piena zeppa di attrezzi. Comunicò a ognuno di
loro di imbracciare vanga o piccone. Con una corda tracciò un perimetro
sul prato: «Scavate!».
Gli allievi sono impacciati, sanno a malapena come si tengono in mano
vanga e piccone. Fest lo indica loro. «Scavate! Continuate a scavare!
Scavate più in profondità!» Con la schiena china in avanti, riescono a stento
a sollevare vanghe e picconi; più che affondare seriamente gli attrezzi nel
suolo, li lasciano cadere a terra. Solo Fest colpisce davvero a fondo. Ogni
suo movimento è una dimostrazione: di come si conquisti il terreno. Di
come si penetri in profondità. Centimetro dopo centimetro. Di come ci si
abitui allo sforzo. «Ancora!» E illustra chiaramente come si appare, quanto
ormai non si è più abituati a ogni fatica. Già il fardello degli attrezzi parla
da solo. Alcuni degli allievi a cui si è rivolto continuano a fingere di
muoversi. «Niente alibi» grida e passa oltre, mostrando con gesti esaurienti
come si fa: dissoda il terreno con movimenti circolari e lo affonda. «Così si
fa.»
«Come si chiama?»
«Bergmann.»
«Come prego?»
«Roland Bergmann.»
«Su, scavi.»

Con le scarpe pulite e i vestiti appena stirati, l’indomani mattina gli allievi

20
si riuniscono nel prato. Si dispongono a mezzo cerchio attorno alla buca che
si sono scavati, come attorno a una fossa. E come fossa Fest vuole che la
buca sia anche interpretata. Ognuno di loro deve guardarne il fondo
attentamente. Ognuno di loro deve sapere con tutto se stesso cosa significhi
essersi scavato una fossa, come primo passo verso il nuovo trimestre, verso
una nuova vita. Ciascun allievo deve riflettere bene su dove si trovi, non a
caso davanti a una fossa, e su cosa sia da seppellire dentro questa fossa.
Non solo false speranze, illusioni inconcepibili o sogni assurdi. Non solo
singoli errori, atteggiamenti sbagliati o percorsi di vita mancati. Scavarsi
una fossa equivale a tracciare una linea, una linea definitiva, un fossato
profondo. Equivale a riconoscere apertamente di aver fatto una vita
sbagliata, sfociata in un vicolo cieco, per poi condurla alla fossa. Con tutte
le conseguenze e la franchezza necessarie per un vero nuovo inizio. Così
come per tutte le altre fosse che si trovano nello stesso prato. Si
riconoscono dalle croci disadorne, con incise le scritte dei passati anni
scolastici: «Apollo 2012», «Apollo 2013»… Ogni fossa è un nuovo inizio.
E ogni nuovo inizio è un distacco, un congedo dal passato e un addio a se
stessi. Reinventarsi. Non a caso, la frase è tratta da A New Life. Per alcuni
minuti gli allievi restano in piedi, davanti alla fossa comune collettivamente
scavata. Alcuni a mani giunte. Le parole di Fest penetrano loro nella
schiena. Poi si raccolgono in silenzio, prima di incamminarsi verso il
campus. Subito dopo inizia il trimestre. Subito dopo…
Alle 6.15 scatta il programma di risveglio mattutino, diffuso dagli
altoparlanti nelle camerate: «Buongiorno… Un nuovo giorno… Un nuovo
inizio… Per favore, alzarsi… Colazione… Colazione alle sette nella tavola
calda… Non dimenticate i Bonus Coins…». A parlare è una voce
femminile. Simile alle voci degli altoparlanti negli aeroporti, a tratti
armoniosa, a tratti pressante: «Per favore, alzarsi». In tedesco e in inglese:
«Time to get up». Minuto dopo minuto, il timbro è sempre più chiaro e
assillante. «Last call…» Dalle 6.20 in poi nessun allievo è più a letto. Lo
impone una direttiva scolastica. La maggioranza dei trainees è già pronta,
in piedi accanto alle brande. Perplessi, armeggiano senza criterio con
qualsiasi cosa trovino attorno. Da ogni movimento traspare una sonnolenza
camuffata. Forse addirittura mancanza di orientamento. Se solo, afferma uno
studio dell’Agenzia federale, se solo imparassero ad alzarsi di buon’ora,
allora le misure adottate avrebbero già dato un risultato. Dagli altoparlanti
arriva adesso della musica, la sigla iniziale della serie televisiva Job
Quest. Il pezzo inizia con le note continue di un contrabbasso, che risuona a
ritmo sempre più accelerato, fino a uno staccato di colpi martellanti – quasi
pugni sferrati contro le porte – mentre da molto lontano, in sottofondo, i toni

21
limpidi di un sintetizzatore penetrano nella stanza, ed è come una
liberazione… I primi allievi entrano nel corridoio in scarpe da ginnastica.
Avanzano con i loro beauty-case verso gli spogliatoi. Si fanno la doccia. Si
lavano i denti. Si vestono. Fanno attenzione al Dress Code (pantaloni scuri,
camicia o T-shirt scura). Vanno alla tavola calda e fanno colazione. I Bonus
Coins per i distributori automatici li hanno ritirati la sera prima, in
segreteria. Un apposito distributore per la colazione offre croissant,
doughnuts e muffins, tutti grandi poco meno della fessura centrale da cui i
trainees ritirano i pezzi. Da un’altra macchinetta rotolano giù uova sode.
Mangiano in silenzio. Masticano fissando nel vuoto, fissano masticando. Lo
sguardo perso sul piano del tavolo. I tavoli di Apollo sono gialli. Quelli
degli altri team di altri colori. Qualche raro, sommesso dialogo: da dove
vieni? A che Job Center ti sei presentato? Novità della serie televisiva Job
Quest? Alcuni allievi scrutano i gusci delle uova appena mangiate. Li
frantumano con le dita e li spingono avanti e indietro sul tavolo; ci formano
delle linee, ben sminuzzate, sottili linee di difesa.
Conversare tra tavoli di team diversi non è proibito. Ciò nonostante, ogni
tavolo generalmente fa gruppo a sé. Solo pochi discorsi travalicano i
confini dei singoli team, tipo da Canergie a Taylor. Di dove siete? Com’è il
vostro istruttore? Com’è stata la vostra sepoltura? Dove diavolo siamo
finiti? Sopra a tutto ciò, la voce femminile da aeroporto, che
all’altoparlante elenca l’assortimento dei distributori automatici per la
colazione. Augura buon appetito a intervalli regolari, indica l’ora, ricorda
l’inizio delle lezioni. Così come di rifarsi il letto. È lieta del nuovo corso
degli allievi. L’inizio di una nuova vita. Cronometra gli ultimi minuti della
colazione. A un certo punto spiega che il tempo è scaduto. Ad alto volume e
scandendo sempre più le parole…
Dopo la colazione, i trainees tornano nelle loro rispettive camerate. Si
rifanno il letto, come suggerito da uno schizzo su A New Life. Si lavano i
denti. Preparano la cartella. Studiano il calendario delle ore, si dirigono
solerti nelle aule.
Classroom Apollo: quattro file di banchi. Disposti l’uno dietro l’altro.
Nelle file posteriori si trovano i computer. Davanti, la lavagna e un leggio.
Accanto, le mensole con libri e altri strumenti didattici. Vicino alla porta è
installato un boccione trasparente dell’acqua. Alle pareti sono appese delle
foto incorniciate. Foto che ritraggono persone. L’aula si riempie. Gli allievi
si siedono. Alcuni di loro osservano le immagini alle pareti. Altri ordinano
il loro materiale per la scuola. Oppure attendono immobili l’inizio delle
lezioni.
7.30. L’istruttore Fest entra in classe. «Good morning.»

22
La giornata scolastica di SPHERICON va dalle 6.15 di mattina alle 11 di sera,
con occasionali compiti notturni. L’inizio delle lezioni è alle 7.30. Seguono
sei ore di 45 minuti, intervallate da pause di cinque minuti. Pranzo alle
12.30. Dopo, pausa di rigenerazione: Power Napping, ovvero una siesta
pomeridiana intensiva di massimo trenta minuti, da fare vestiti sopra – non
sotto – le coperte. Seguono tre ore di lezioni pomeridiane. Dopo, Coffee
Break alla tavola calda, ognuno secondo la propria quota di Bonus Coins.
Alle 16.30 inizia la cosiddetta pausa di riposo attivo. Arriva fino alle 18. In
queste ore la stanza della televisione è aperta. Va in onda la famosa serie
televisiva Job Quest. Quasi tutti i trainees la seguono nel tempo libero.
Siedono come elettrizzati. Altri preferiscono leggere la versione romanzo.
Oppure scendono al piano interrato e lavorano agli attrezzi della palestra. È
possibile anche andare all’aperto (previo accordo con la portineria). Alle
18, cena, sempre a seconda dei Bonus Coins. Dopodiché partono le
ripetizioni, il ripasso, l’automatizzazione e l’utilizzo delle materie acquisite
durante il giorno, soli o in piccoli gruppi: lavoro di candidatura,
rielaborazione dei curricula e altri incarichi. Nelle stesse ore si svolgono
anche i colloqui terapeutici con lo psicologo scolastico. Alle 23, riposo.
«A rigore, SPHERICON non prevede tempo libero, solo tempo. Tempo per
fare, tempo per produrre, tempo per migliorarsi, tempo per ricominciare…»
Così è scritto in A New Life. «Tempo per imparare, tempo per riflettere,
tempo per rimettersi in discussione. Tempo per progetti di vita originali.
Tempo per bozze autobiografiche. Tempo per correzioni. Tempo per un
permanente lavoro di candidatura.»

La famosa serie televisiva Job Quest. L’eterno telefilm sulla forsennata


ricerca di lavoro, con protagonisti sempre nuovi che inseguono
un’occupazione, battendo vie avventurose. La inseguono e alla fine la
trovano. La cercano con documentazione propria, presa in prestito oppure
falsificata: per terra, in mare, nell’aria; con amici, senza amici, contro gli
amici… Ogni puntata mostra il peregrinare di un nuovo protagonista che,
all’ultimo momento, dopo innumerevoli battaglie e contraccolpi, ottiene un
impiego; certo, non facilmente, piuttosto se lo guadagna, combatte, lo
strappa con la forza, come quando infligge un infallibile scacco matto. Nel
mondo di Job Quest non esistono quasi mai casi, tutt’al più fortunate
combinazioni di eventi, ma, soprattutto, prove continue di smisurato
coraggio. Talvolta anche di audacia. Uno dei protagonisti sfreccia al
colloquio di presentazione, dopo essersi impossessato di un’auto. Un altro,
nel mezzo del colloquio di presentazione, si lancia dalla finestra
dell’ufficio su un camion in transito. Nessuno, in questo mondo, trova

23
lavoro per caso o perché, prima, ne aveva sempre avuto uno. Piuttosto, ogni
lavoro deve moltissimo ai colpi di testa di eroici uomini comuni. Just do it!
Nel frattempo, il telefilm esiste anche nella versione di gioco al computer:
nel suo percorso dentro una fabbrica blindatissima, il protagonista supera
una serie interminabile di ostacoli e di avversari, scavalcando muri,
attraversando tubi, librandosi in aria.
L’istruttore Fest entra in classe.
«Buongiorno.»
Cerca gli sguardi degli allievi.
«Come va?»
Alcuni allievi annuiscono.
«Come va?»
Chiede in tedesco, poi in inglese.
«How are you?»
Poi chiude la porta.
«Tutto a posto?»
«Dormito bene?»
Fest si sbottona la giacca.
«Are you all right?»
Nessuna risposta.
«All you all right?»
«…»
«What’s your name?»
«Berg… mann.»
«And your first name?»
«Roland.»
«Roland Bergmann. Are you all right?»
«Yes.»
«Enjoyed the digging?»
«…»
«Enjoyed the digging?»
«…»
«English doesn’t seem to be your forte.»
«…»
«Are you with me?»
«…»
«Roland Bergmann, are you with me?»
«Yes.»
«Do you speak English?»
«…»

24
«You are not really with me.»
E passa oltre. Alcuni allievi sfoderano il loro libro d’inglese. Business
English in 100 Days. Altri aprono i block-notes. Tengono la matita alla
mano, quasi fossero pronti, in ogni momento, ad appuntarsi le frasi
dell’istruttore.
«You are not really with me… You are not even with yourself… or in
yourself…»
Di nuovo in tedesco.
«Siete tutti qui?»
Si toglie la giacca.
«Siete qui?»
Una lunga occhiata fende l’aula.
«Siete davvero tutti qui?!»
Gli allievi si guardano intorno.
«Qui?!»
Indica in diverse direzioni.
«Qui?! O là?! O laggiù?! O più avanti, dall’altra parte?! Oppure fuori?
Riuscite a percepirvi?»
Lancia la sua giacca su una sedia.
«Riuscite a sentirvi?»
Nessuna risposta.
«Riuscite a vedervi?»
Nessuna risposta.

La materia di Training alla candidatura copre molte ore, quasi ogni giorno,
per tutto il trimestre. La insegna l’istruttore Fest. Una materia chiave. In più,
Fest insegna le materie di Elaborazione biografica, Modellazione
drammatica, Consultazione Internet, Training telefonico, Business English.
Durante la lezione si è presentato agli allievi: nato a Londra, cresciuto in
Germania, laureato a Harvard. Pratica come avvocato. Autore di un libro.
Un libro sul rapporto tra candidatura e meditazione. Capocamping nel Sud
della Francia. Così. Per capriccio. Quasi a dimostrazione della sua estrema
flessibilità. Della sua capacità di adattamento e della sua franchezza
biografica. Il suo motto di vita: «A Fest quel che è di Fest». Niente di più e
niente di meno. Lo racconta di sfuggita, spargendo frasi qua e là. Per
alleggerire magistralmente la lezione e per fare chiarezza, soprattutto sulla
materia della Candidatura. L’insegnamento si divide in Teoria e Pratica
della Candidatura. Fest ne parla in modo telegrafico: cos’è una candidatura.
Com’è classificabile nella teoria della comunicazione. Candidarsi nel
Medioevo (secoli XII-XIV della lirica cavalleresca, detta Minnesang).

25
Candidarsi nel XIX secolo, candidarsi nel XX secolo, candidarsi nel XXI
secolo, in formato multimediale con immagini, grafici e suoni. Indica alla
lavagna vari modelli di candidatura: mittente della candidatura; destinatario
della candidatura; mezzi attraverso cui candidarsi: lettera di candidatura,
telefonata di candidatura, film di candidatura, canzoni di candidatura,
abbigliamento da candidatura, occhiali da candidatura, denti da
candidatura, sport da candidatura, estetica della candidatura… E tuttavia,
spiega Fest, queste sono solo bazzecole, preliminari, introduzioni iniziali…
Fa distribuire i giornali. Con la raccomandazione di studiare attentamente
gli annunci di lavoro; nel caso, di ritagliarli. Davanti a ogni allievo c’è un
paio di forbici. Distribuite dalla segreteria prima della lezione sulla
candidatura, con una consegna speciale. Le forbici sono un tema fisso. Il
pallino del direttore scolastico. Von Benkdorff ama le forbici. Nel suo
ufficio se ne possono trovare a centinaia. Dei colori e delle dimensioni più
disparate. Von Benkdorff dà estremo valore alle forbici. Ogni allievo deve
disporne di un paio tutto suo durante l’analisi del giornale. Fest gira tra i
banchi e se ne accerta. Vorrebbe vederne un paio su ogni postazione di
lavoro. Le forbici sono numerate. Raccomanda agli allievi di farne un uso
parsimonioso, di non ritagliare a caso le inserzioni superflue, solo le più
promettenti. I trainees leggono gli annunci di lavoro, mantenendo un
contegno ineccepibile. Nessuno di loro ha aperto il giornale in tutta la sua
larghezza. I quotidiani sono poggiati sui tavoli della scuola. Fest si aggira
tra le file di Apollo. C’è un silenzio tombale. Di tanto in tanto lo sguardo
interrogativo di un allievo corre a Fest, che gli è vicino e che, insieme a lui,
getta un’occhiata all’inserzione: chissà, magari questo annuncio… Chi lo
sa, questa la risposta quieta dell’istruttore, al suo passaggio. Chi lo sa.
Strappa le forbici a un allievo e inizia a ritagliare un annuncio.
L’operazione echeggia in tutta la stanza: il frangersi della carta, il cigolare
delle forbici. Qualcuno si arresta a metà taglio, quasi voglia tornare
indietro, sforbiciata dopo sforbiciata. Altri continuano a tagliare
alacremente, per sfuggire alla silenziosa attenzione della classe. Ogni taglio
desta sguardi altrui, in particolare gli sguardi di Fest: che ritagliare
quest’annuncio sia davvero d’aiuto? Dunque, la maggior parte dei trainees
è estremamente cauta con i tagli. Altri non ritagliano affatto. Siedono inerti,
fissando i giornali. Non sono poi così tante le inserzioni da ritagliare.
Più tardi, Fest prega gli allievi di leggere ad alta voce gli annunci
selezionati. Alcuni di loro si fanno avanti molto traballanti e li presentano:
un posto da ingegnere, un posto da tecnico industriale, un posto da fioraia…
Leggono con fatica, a più riprese. Come se già a parole questi impieghi
fossero fuori discussione. Sacrosanta verità. Impronunciabili, perché

26
irraggiungibili. Irraggiungibili, se non addirittura inconcepibili.
Scandiscono gli annunci di lavoro con pesanti movimenti della bocca e con
un pensiero fisso: un’inserzione di lavoro di tale calibro, sulle mie labbra.
Anche solo il pensiero appare blasfemo. Come quando si è letteralmente sul
punto di rivolgere la parola a una donna irraggiungibile. O anche solo di
coltivare una fantasia del genere. Con questo tono leggono gli annunci.
Alcuni impieghi vengono pronunciati a voce bassissima, quasi di sfuggita,
per schiarirsi la gola. Pronunciano i nomi come se fossero ricordi lontani.
O miraggi. Fate morgane. Nelle bocche queste inserzioni risuonano tanto
irreali.
Fest ascolta ogni singolo trainee. Annuisce. Ringrazia. Scruta allievo
dopo allievo. E chiede:
«Perché mi state leggendo questo annuncio di lavoro?».
«Perché…» Gli interrogati si bloccano.
«Perché proprio questo annuncio?»
Gli interrogati sono ammutoliti.
«Perché io…»
«Sì?!»
L’allieva si interrompe.
«Perché questo posto in particolare?»
«Perché… sono… una fioraia.»
«Fioraia?»
Tiene l’annuncio in mano, leggermente rivolto verso l’alto. «Negozio di
fiori cerca fioraia.»
Fest: «Ci legga l’annuncio ancora una volta».
Legge l’inserzione, stavolta in forma più sciolta: «Cercasi fioraia
creativa, cortese e flessibile per il nostro negozio di fiori. Orientata al
risultato, portata per i contatti umani e sempre pronta a dare una mano…».
«Continui a leggere!»
«Dell’età…»
«Ancora!»
«Dell’età ideale tra i 25 e i 35 anni…»
Fest: «Lei ha tra i 25 e i 35 anni?».
L’allieva non risponde.
«Ha tra i 25 e i 35 anni?»
Dopo una lunga pausa: «No, non rientro in questa fascia».
Fest: «Lei non rientra in questa fascia».
Non rientra in questa fascia. Da due anni non rientra in questa fascia.
Chiama l’allievo successivo: Perché proprio questo posto? Un posto da
commerciante. Perché nessun altro impiego? Soprattutto, perché solo un

27
posto?
Il trainee risponde a frasi spezzate: dato che è commerciante… Cioè, un
tempo lo era… Ha sempre voluto… Si potrebbe forse… provare…
«Come prego?»
«Provare.»
«Provi!»
«Come prego?»
«Provi. In segreteria c’è un telefono. Scenda e provi!»
L’allievo non si alza.
Non va al telefono.
Non ci prova.
Fest passa di fila in fila e continua a chiedere: perché proprio questo
annuncio? Perché non un altro? Soprattutto, perché solo un annuncio?
«Credete sul serio di potervi candidare a un impiego, per il solo motivo di
averlo già svolto in passato? O perché un impiego del genere vi
piacerebbe? Lo credete sul serio?» Fa ripiegare i giornali e parla
dell’assurdità di un simile atteggiamento: siccome prima era così, allora
anche oggi… Siccome oggi è così, allora anche domani… Siccome c’è un
inserzione di lavoro, allora c’è un posto… «Credete seriamente questo?»
Raccoglie i giornali.
Lascia la stanza.
Abbandona gli allievi alla loro pausa.
Ritorna nella stanza.
Distribuisce di nuovo i giornali, esattamente gli stessi. «Proviamoci
ancora una volta. Aprite i giornali. Andate agli annunci di lavoro. Cercate!»
I trainees cercano, non con le mani, solo con gli occhi. Nessuno osa fare
passi falsi, toccare un’inserzione sbagliata, toccarne una qualsiasi. Ogni
annuncio appare sbagliato, ridicolo, fallace, rischioso.
Fest avanza di fila in fila e osserva gli allievi da sopra le spalle.
«Ai nostri giorni, se si vuole trovare un posto di lavoro, non ci sono 36
opportunità. Spesso non ce ne sono neppure due. Cercate!»
Gli allievi a cui si è rivolto continuano a sfogliare.
«Su, ancora!»
Non restano quasi più pagine da sfogliare…
«Fermi!»
Toglie il giornale di mano all’allievo e dice: «Lei ha centrato la pagina
giusta». Fest, parlando a tutta la classe: «Aprite tutti il giornale a pagina
52!».
Tutti aprono il giornale a questa pagina.
Qui iniziano i necrologi.

28
«Cercate tutti i morti nati dopo il 1970! Meglio ancora dopo il 1975.
Cercate!»
«Criteri di ricerca: “Incidente, improvvisamente, morte davvero
prematura…” ecc.»
«Cercate!»
«Appuntateveli!»
«Concentratevi sulle qualifiche professionali…»
«O almeno sulle indicazioni di lavoro…»
«O sugli indizi del loro impiego…»
«Cercate di conoscere gli indirizzi…»
«Gli indirizzi di qualche parente…»
«Chiamate per avere informazioni…»
«Qui c’è un cellulare…»
«Chiamate…»
«Segnatevi il numero…»
«Chiamate i familiari…»
«Fate loro le condoglianze…»
«Offrite loro il vostro aiuto…»
«Chiedete del datore di lavoro…»
«Insistete nel chiedere…»
«Chiamate il datore di lavoro…»
«Fategli le vostre condoglianze…»
«Doletevi…»
«Offrite…»
«Offritegli il vostro aiuto…»
«Pronti a subentrare in qualsiasi momento…»
«In qualsiasi momento…»
«Sul posto… Subito…»
«Ancora prima del funerale…»
«Parlategli…»
«Siete giovani… sani… e disponibili!»
«In vita…»

All’inizio è Fest a condurre le telefonate, in colloqui simulati. Alla fine


svolge addirittura telefonate vere, dal vivo. Non sempre gli allievi ne
scorgono la differenza. Parla con i familiari, con i vicini, con i datori di
lavoro… dei defunti. Appena un’ora di lezione e Fest ha incassato due
assicurazioni di lavoro. En passant. Improvvisando. Come se a malapena
fosse il caso di parlarne. Poi telefonano gli allievi in persona, sulle prime
indugiano, poi – spronati da Fest – diventano sempre più diretti. Non

29
importa di che impiego si tratti: se di un posto da infermiere, da
pasticcere… «Provateci! Telefonate!» Le qualifiche individuali non hanno
più alcun peso. Il nocciolo è il colloquio di presentazione come tale. Una
forma artistica in sé. Il nocciolo è dimostrare fiuto per la candidatura.
Semplicemente, intuire quando un impiego è disponibile. Avere accortezza
nel parlare con un datore di lavoro. Riuscire persino ad anticiparlo di un
passo. Sapergli offrire tutte le qualifiche richieste e non (queste puramente
fittizie). Dirsi pronti a iniziare con lui in qualsiasi momento. In qualsiasi
momento. Alla fine, si tratta anche di provare l’emozione di
un’assicurazione di lavoro. La semplice emozione di una promessa. Per
gran parte dei trainees, è il primo evento del genere dopo anni di rifiuti, se
non addirittura la prima risposta positiva della loro vita. Anche quando è
solo una promessa passeggera, vincolata a qualifiche e attestati da
presentare in seguito. Non saranno mai presentati quei documenti. Non
avranno mai quell’impiego. Certo che no. Sono solo esercitazioni
telefoniche. In condizioni realistiche, ma pur sempre esercitazioni
telefoniche. Autorizzate dall’Agenzia federale. Allenamento per le dita, a
prova di ciò che è possibile. Niente di più e niente di meno. Presto,
seguiranno vere azioni di candidatura.

Sostiene Fest: «Ai nostri giorni, se si vuole trovare un posto di lavoro, non
ci sono 36 opportunità. Spesso non ce ne sono neppure due. Di solito si
presentano singole occasioni. Bisogna coglierle, a ogni costo».

Nel suo curriculum vitae sta scritto: Roland Bergmann. Nato nel 1977 a
Backnang. Liceo. Maturità. Dopo la maturità, facoltà di Biologia. Laurea.
Poi ha lavorato sei anni all’università come assistente scientifico, un
percorso molto promettente. Disoccupato da tre anni. Siede in prima fila, a
sinistra. I suoi documenti di candidatura sono sparsi davanti a lui. Il suo
sguardo non è privo di speranza. Questa mattina si è alzato prima di tutti,
persino prima della voce del risveglio, si è fatto un’abbondante doccia e,
dopo essersi rasato, si è tamponato il viso con dell’acqua di colonia. Tutto,
stamani, gli appariva come un incoraggiante, nuovo inizio. Persino lavarsi i
denti. Subito dopo la colazione si è seduto in aula e ha imparato vocaboli
inglesi, in particolare i verbi irregolari: dig, dug, dug… arise, arose,
arisen… Con il pollice accarezza il primo foglio del suo curriculum vitae.
Lo considera ben fatto, chiaro, con frasi ponderate, in un carattere pulito –
Westminster – pieno di qualifiche e aggiornamenti, stage e pubblicazioni.
Non senza una vena di compiacimento osserva il timbro sul suo certificato
di laurea e la frase: «Esame superato con lode». Non è da tutti superare un

30
esame di laurea con lode. Anche se deve ammettere che il suo inglese non è
particolarmente fluente. Guarda il braccio disteso della sua vicina di banco.
Un braccio ancora giovane. A Roland Bergmann ricorda le braccia dei suoi
tempi di scuola: braccia che si stiravano e si allungavano, oppure braccia
semplicemente adagiate. Come il braccio della sua vicina. Un braccio
semplicemente adagiato accanto a lui, quieto e imperturbabile,
inconsapevolmente vicino all’altra metà del banco. Arriva quasi a sfiorare
la sua documentazione di candidatura, come se tra loro ci fosse confidenza
di lunga data. La sua vicina di banco si chiama Karla Meier. Ha 36 anni.
L’età le è indifferente. Se non comparisse sulla sua documentazione di
candidatura, non ci penserebbe neppure. Gira lo sguardo altrove. Nel suo
curriculum vitae si spalancano vuoti evidenti. La parola «maturità»
campeggia a caratteri maiuscoli. In effetti, l’apice, il punto fermo della sua
vita. Seguito da più di due anni di buco. Poi, il buco di uno studio
universitario cominciato e mai terminato. Poi, un apprendistato in banca. Lo
aveva iniziato all’ultimo momento, dopo lunga indecisione: di nuovo un
buco. Persino negli anni di scuola ci sono vuoti: per un anno non ci è
andata. Un buco. Ha ripetuto la dodicesima classe: altro buco. Nessun
hobby dichiarato, nessuna attività sportiva: lacune. Neppure un anno
all’estero, sempre rimasta in Germania: lacune. Persino nei suoi ricordi si
aprono vuoti. Da quando è disoccupata, i vuoti sono aumentati. Non riesce
neppure a ricordarsi bene cosa abbia fatto l’anno in cui non è andata a
scuola. Ha osservato gli uomini per strada. È andata a trovare gli amici. Si
è innamorata. Ha letto libri. La sua ombra ha sfiorato passanti solitari. Ha
ricominciato a cantare, a voce bassa. Da bambina voleva diventare
cantante. Ogni sera, prima che i suoi genitori andassero a dormire, cantava
qualcosa per loro. Vestita come una principessa. Con un rotolo di carta
igienica imbottito a farle da microfono. A volte la sua famiglia invitava
amici e vicini di casa. Allora Karla cantava non solo canzoni, ma anche
fiabe e storie del suo vissuto. A braccio. L’applauso degli ospiti era molto
più che di facciata. Restavano davvero colpiti dalla sua voce. E anche
commossi. Alcune canzoni doveva cantarle di nuovo, e poi di nuovo ancora.
Dopo la mettevano a letto.
La mente di Karla torna alla vecchia strada che la portava a scuola. Era
lastricata e correva attraverso una cittadina medievale, lungo negozi ed
edifici antichi, di grande valore artistico. Nei ricordi, passa accanto alla
gastronomia vicino alla casa dei suoi genitori. Per anni ci ha comprato
dolci. Nel negozio lavorano tre commessi in camice bianco, come i
farmacisti. Si ergono maestosi, dietro un bancone. Anche se non hanno
clienti. In piedi, come se tutto dovesse sempre essere nel miglior ordine

31
possibile. I tre negozianti salutano i passanti in strada, Karla inclusa, con un
inchino corale. Il suo percorso verso la scuola taglia in diagonale la città.
Le persone passeggiano più lentamente di oggi, con gesti posati. Passano,
salutano, si fermano, parlano, osservano… Mitezza d’animo li accompagna
in ogni movimento. Mista a un’espressione di fedeltà. Comprano il pane,
oppure il formaggio o la verdura, sempre nello stesso negozio, anno dopo
anno, perché sono clienti affezionati, così almeno sembra. Alcuni di loro
sono vegetariani. In ogni caso, dall’espressione del viso sembrano
vegetariani. Un’aura vegetariana di mite cortesia, disse una volta di un
compagno di scuola che si era innamorato di lei. Nei ricordi, Karla
cammina ancora più lentamente del solito. Prende la strada più lunga. Le
deviazioni aumentano la conoscenza del posto, disse una volta sua madre.
Domanda ai passanti di strade inesistenti. Oppure si spaccia per
sondaggista e chiede opinioni alla gente: per esempio, il parere su certi
edifici che si trovano lungo la via. «Che ne pensa della casa all’angolo? Le
piace?» Oppure chiede loro di confrontarsi con determinate frasi, frasi del
tipo: «Le utopie hanno perso fede nell’umanità». «Che ne pensa?» Chiesto
così, per curiosità, per saperne di più di se stessa e degli altri. Sceglie
sempre strade diverse o deviazioni, le chiama anche vie del pensiero,
perché a ogni nuova strada associa un pensiero diverso. Fa una sosta sulla
panchina di un parco, legge un libro per qualche attimo, guarda il sole.
Oppure impara a memoria ruoli teatrali. Persino quando quei ruoli non le
sono stati assegnati nelle rappresentazioni scolastiche. Declama le parti mai
ottenute con crescente entusiasmo. Quella che ama di più è Rosalinda in
Come vi piace… A un certo punto si alza e riprende a camminare. Certo che
arriverà tardi a scuola. È quasi sempre arrivata un po’ in ritardo alla prima
ora di lezione, per anni. Fa niente, che vuoi che sia. Gli insegnanti la
accoglievano in classe con sguardi del genere. Alla fine, rispettavano la sua
passione per il teatro. Per questo si tratteneva più del previsto a scuola, a
volte fino a tarda sera, in prove teatrali lunghe ore, anche quando lei non
era in alcun ruolo…
Ciò che resterà di Karla saranno il nome, la data di nascita, il diploma e
la sua pratica in banca. Ciò che invece dovrà essere modificato sono i
vuoti. Fest affronta direttamente la questione delle lacune: cosa è successo
quando frequentava la dodicesima classe? Cosa è successo dopo il
diploma? Che significa, per lei, aver interrotto l’università? Identifica i
vuoti al primo sguardo. Punge Karla nel vivo, istantaneamente, con un paio
di domande e richieste di conferma. Non vede solo i vuoti formativi e
professionali, ne vede anche altri: vuoti extracurriculari, negli hobby e nel
tempo libero, mancanza d’interessi, lacune nelle lingue straniere, il vuoto

32
dell’estero, nessun viaggio, lacune al computer, assenza di personalità,
vuoti emozionali e umani… Questi vuoti sono da colmare. Nelle parole di
Fest: da ridisegnare, da modellare, da reinterpretare. Persino questo è un
obiettivo della materia di Elaborazione biografica.
Di Karla Meier, Fest si occupa con una speciale predilezione. Non
appena gettato uno sguardo al suo curriculum vitae, disse: «Credo che non
possiamo fare a meno di parlarne, almeno una volta». Fest si trattenne a
parlare con lei durante e dopo la lezione. Con analoga predilezione si
occupa del suo vicino di banco, il biologo Roland Bergmann. Forse perché
siede accanto a lei. O forse perché sono entrambi in prima fila. O perché
hanno tutti e due il diploma di maturità. O perché i loro numerosi vuoti
esistenziali sono fin troppo evidenti. Curriculum vitae di Karla alla mano,
Ansgar Fest chiede apertamente alla classe: cosa possiamo ricavare da
questi vuoti? Per esempio, dalle interruzioni scolastiche. «Un anno senza
andare a scuola. Cosa possiamo ricavarne di buono?» La classe non ne ha
idea. Karla non sa. A essere sincera, risponderebbe:
«Non ho fatto niente».
«Come prego?»
«Niente.»
«Niente?»
«Niente.»
Forse avrebbe potuto rispondere: «Ho passeggiato per la città… Ho
osservato la gente… Ho riflettuto… Mi sono seduta su una panchina e ho
letto… Per esempio, ho letto questa frase: “Non far niente è infinitamente
faticoso”». Avrebbe potuto rispondere tutto questo, eppure è rimasta seduta
in silenzio.
Più tardi Fest afferma qualcosa di simile a «il nulla di una vita è sempre
perdonabile, ma solo nella vita reale, non in un curriculum vitae. Non in un
curriculum vitae!». E chiede di nuovo: «Un anno senza andare a scuola.
Cosa ne possiamo ricavare di buono?». A poco a poco dalla classe
arrivano proposte, proposte del tipo: una malattia, un corso specialistico,
un anno all’estero… «Un anno all’estero! Dove? In quale paese?» domanda
Fest. Gli allievi citano l’Inghilterra… Per Fest troppo vicina, scialba,
scontata. E la Francia? Per Fest troppo abituale. Canada? «Meglio!»
Sudafrica? «Molto meglio!» America del Sud? «Benissimo!» E così si
colmano lacune su lacune del periodo scolastico di Karla. L’anno senza
andare a scuola non l’ha trascorso a casa, ma da alcuni parenti in
Sudamerica. In una fattoria della Patagonia. No, meglio ancora come guida
turistica: escursioni sulle Ande, meraviglie della natura, visite guidate sui
ghiacciai… You name it. «Riesce a conviverci?» chiede Fest a Karla, che

33
risponde con un filo di voce. «Riesce a conviverci?» Karla annuisce. «Lo
scriva fino a domani mattina nel suo curriculum vitae: Patagonia. E lo
sviluppi in modo conseguente.» Nei suoi pensieri, Fest vede già il
soggiorno di Karla in Patagonia come il salto di qualità durante un
colloquio di presentazione.
«È stata in Patagonia?»
«Sì, sono stata in Patagonia».
«Là ha lavorato come guida turistica?»
«Sì.»
«Parla spagnolo?»
«Sì, un po’.»
Davanti alla classe recita in continuazione dialoghi del genere. Una
dimostrazione. La prova scenica dell’efficacia dell’elaborazione
biografica. Alla lunga, il discorso non cade più solo sulla vita di Karla e
sui suoi mille vuoti. Fest è già passato alle lacune del suo vicino di banco,
Roland Bergmann.
«Maturità?»
«Sì.»
«In che anno?»
«Nel 1998.»
«Perché solo nel 1998?»
«Perché…»
«Perché non nel 1997?»
«Perché…»
«Perché?!»
«Perché ho ripetuto un anno.»
Fest, con un’occhiata alla classe, come a far intendere quanto sia inutile
tacergli falle e strappi del genere in un curriculum vitae: «Perché ha
ripetuto un anno». Ogni conoscitore di curricula coglie al primo colpo
simili incongruenze.
«Voto di maturità?»
«Due virgola uno.»
«Corsi d’approfondimento al liceo?»
«Chimica e Biologia.»
«Università?»
«Biologia.»
«Perché non Chimica?»
«Mi interessava di più Biologia.»
«Dove ha studiato?»
«A Stoccarda.»

34
«Altrimenti? Altri luoghi?»
«No.»
«Settore in cui è specializzato?»
«Botanica e…»
«E?»
«Pesci.»
«Laurea?»
«Laurea specialistica.»
«Esperienze lavorative?»
«Un posto da assistente all’università.»
«Gli ambiti delle sue mansioni?»
«Seguivo il mio professore nelle sue iniziative didattiche… Contribuivo
ai convegni scientifici… Ho anche accumulato esperienza in campo
amministrativo…»
«Tutto qua?»
«…»
«Tutto qua?»
«…»
Fest gli sfila il curriculum vitae di mano. Con la stessa impazienza di un
medico che sfila di mano a un paziente il referto di una malattia. Lo tiene in
alto, proprio come si mette una radiografia sotto la luce. Un’immagine piena
di macchie, strappi e fratture… Lacuna dopo lacuna… Fest le scandisce
senza pietà. Per esempio, il vuoto di un anno dopo la maturità. Oppure il
dottorato. «Che ne è del dottorato? Lei non conclude il suo dottorato, senza
alcun motivo. Senza alcun motivo valido.» Già il tema del dottorato è per
Fest fonte di irritazione: un lavoro sul comportamento dei pesci. Perché mai
pesci? «A chi interessano?» Esige dalla classe proposte e alternative.
«Voglio proposte.» Così com’è il curriculum vitae non regge.
«Attività sportive?»
«Faccio jogging.»
«Tutto qua?»
«…»
«Sport estremi?»
«…»
«Attività agonistiche?»
«…»
«Esperienza nel fare interviste?»
«…»
«Esperienza nel campo dei media?»
«…»

35
«Esperienze linguistiche?»
«…»
«Corsi di dizione?»
«…»
«Militare o servizio civile?»
«…»
«Militare o servizio civile?»
«Sono…»
«Come prego?»
«Sono… stato giudicato in… abile».
«Cosa?»
«Inabile».
Fest, con un’occhiata lampo alla classe: «È stato giudicato inabile».

Più tardi Fest scrive proposte alla lavagna. L’esistenza di Roland Bergmann
vi si srotola come un tappeto rappezzato, un brainstorming di proposte e
controproposte biografiche. Frecce e controfrecce che terminano su parole
sempre nuove e su tappe di vita problematiche, oppure che colmano spazi
vuoti. Di diversi colori. Alcune parole campeggiano a caratteri decisi, altre
sono lasciate di riserva, scritte con gesso leggero o immediatamente
cancellate: «botanica». Così come «lezioni di canto» e «pesci». Al
contrario, altre ancora sono sottolineate: «genetica», «attività di
laboratorio», «maratona». Ben presto la discussione non investe più solo il
curriculum vitae di Roland Bergmann: si innescano i primi agganci e
paragoni con quello del suo vicino di banco. Alcune proposte si allacciano
di colpo alle lacune di vita di Roland Bergmann. Molto può essere
addirittura scambiato, a un’osservazione più attenta calza meglio all’uno
piuttosto che all’altro. Fest chiama simili transazioni biografiche «fantasia
combinatoria». Transazioni di curriculum vitae in curriculum vitae: in uno
di questi, «chierichetto» è doppiamente cancellato. Con una lunga freccia la
proposta viene aggiunta a un altro curriculum vitae, in forma variata.
«Assistente di messa» può andare, ma «stage in un circo» no!
I curricula, secondo Fest, sono come gli esseri umani, per loro natura,
promiscui. Si lasciano accoppiare, trapiantare, fondere, incrociare a
volontà… Con atti di transazioni combinatorie. «You name it.» Esorta gli
allievi a lavorare ai loro curricula nelle ore pomeridiane e serali, lavorare
e ancora lavorare, sempre in questa direzione. E loro, pomeriggio e sera,
siedono ai tavoli (in aula, a mensa o nei dormitori) e lavorano imperterriti
ai loro curricula. Muto, Fest sorveglia le loro fatiche. Oppure spiega
individualmente: «Un curriculum vitae si nutre della migliore combinazione

36
possibile tra età dell’esistenza e traguardi lavorativi; qualifiche e
personalità; aspetti generali e peculiarità; teoria e pratica; armonia tra le
parti e stabilità propria». Capita che un trainee non riesca ad andare avanti
con il suo curriculum vitae e dica: «Ma non torna! Mai stato a New York e
neppure in America». E Fest replica, sempre più snervato: non è questo il
punto. I curricula sono progetti di vita, rappresentazioni di vita. Nessuno, di
fronte a un quadro, si domanda se coincida o meno con la realtà. «Nessuno
se lo domanda.» I curricula sono fittizi. «Lo capite o no?!» Nient’altro che
montature! «Controllate in A New Life, alla rubrica curricula.» Ora si siede.
Una volta Fest fa addirittura la voce grossa con Roland Bergmann. Nei
corridoi rimbombano frasi come: «Non conclude il suo dottorato, senza
alcun motivo, senza alcun motivo valido, ma parla di verità! A chi interessa
la verità? Nessuna delle sue verità le darà mai un posto di lavoro.
Nessuna!». Ancora: «Si guardi indietro, guardi alle sue esperienze, una
volta per tutte. Chi si identificherebbe seriamente con una vita del genere?
Chi si appassionerebbe a una vita simile? Non riesce nemmeno a suscitare
la pietà».
Il mattino dopo è di nuovo calmo. Riconsegna a Karla il curriculum vitae
più volte ritoccato, con queste testuali parole: «Mi sto lentamente
appassionando alla sua vita. Il montaggio, i punti di svolta, gli stage e i
viaggi… Trovo tutto bene inscenato. Naturalmente, qua e là occorre limare
ancora qualche punto».
A Roland Bergmann dice, in tono conciliante: «La vera riuscita,
l’efficacia visibile di un curriculum vitae, la sua marcia in più non è
nient’altro che questo: né prima né dopo, né futuro né passato, solo il qui e
l’ora, la coerenza interna di un curriculum vitae».
Ancora: «Tutto il materiale biografico è autoinventato, e viceversa».
Ancora: «I curricula sono una forma di letteratura applicata. Come un
romanzo o un dramma teatrale: esposizione, trama in crescendo, nodo di
svolta, scioglimento finale dell’intreccio… Scioglimento finale dopo
scioglimento finale. Un curriculum vitae non è nient’altro».
Ancora: «Un romanziere di successo sarebbe anche un buon scrittore di
curricula, un affermato scrittore di curricula sarebbe anche un buon
romanziere».
Ancora: «Una candidatura azzeccata è come un bestseller: avvincente,
trascinante, travolgente… Dalla prima all’ultima riga. Uno slancio in
avanti… Un tracciato continuo… Una pista vincente… Un’autostrada
epica…».
Ancora: «In un curriculum vitae, così come in un romanzo, non contano i
sentimenti profondi, lo stato d’animo, ma il suo intreccio, tutto ruota intorno

37
all’intreccio».
«In una tragedia, i personaggi non recitano per imitare qualche
personaggio, bensì li includono nel romanzo, per amore dell’intreccio.»
«Lo capite o no?»
«Lo stesso vale per curricula e per candidature. Come per tutto il
resto…»
«Le candidature sono insiemi di azioni assemblate in modo fittizio.
Strutture combinatorie indipendenti. Transazioni promiscue. Un sistema
coerente di segni logici portatori di senso.»
«Nessuna esistenza è interiore, ma esteriore… Niente sentimentalismi,
ma vita d’azione… Niente vita di meditazione, ma vita di eventi… Niente
vita di buoni propositi, ma vita di risultati…»

In un’altra occasione, Fest sostiene: «Se venisse scritto un libro su


SPHERICON, non ci sarebbero uomini in carne e ossa, e neppure raffigurazioni
di uomini, ma al massimo fragmenti o figmenti di curricula cangianti…
Funzioni e prodotti di progetti biografici… Costrutti combinatori… Futuri
detentori di posti di lavoro… Conquistatori di posti di lavoro!». Ancora:
«Gran parte dei personaggi non avrebbe neppure un nome. Anche se ne
avesse uno, allora lo avrebbe solo per poter cambiare e scambiarsi
continuamente…». Inoltre: «La lingua adottata sarebbe quella di SPHERICON:
breve e concisa, un linguaggio didascalico. Azioni e commenti ridotti a
stringate didascalie. Un linguaggio perennemente immanente».

Prima di ogni lezione (e talvolta anche durante) Karla osserva le fotografie


alle pareti dell’aula. Sono ritratti fotografici di grosso formato. Per
dimensioni e pregio, di poco inferiori alle immagini del capo dello Stato. In
totale nove foto, appese intorno a tutta la stanza. A volte Fest le indica di
sfuggita, con le mani e con gli occhi. Con solenne gravità, così come, un
tempo, gli insegnanti si riferivano ai simboli religiosi. Un singolo sguardo,
il solo puntare del dito bastava ad ancorare indissolubilmente alla lezione
ciò che era stato detto. Le foto somigliano un po’ alle immagini degli
sportivi: istantanee di uomini e donne in momenti di forte appagamento,
dopo una grande vittoria. Forse durante l’assegnazione di una medaglia.
Alcuni dei soggetti ripresi indossano, in effetti, giacche della tuta. I loro
volti tradiscono segni di sforzo fisico. Più che di sforzo fisico, di lunga
concentrazione e pervicacia. Il convergere di ogni energia umana verso un
unico scopo. Ogni ombra di distrazione è stata rimossa dallo sguardo. Il
loro piglio è monarchico, nel vero senso della parola: dominato da un unico
interrogativo, a ogni ora del giorno e della notte. Alcune facce sorridono.

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Dopo una lunga battaglia. Alcuni sorridono trionfali, altri sollevati, altri
ancora imbarazzati. Sotto ogni foto ci sono un nome e una data.
Karla osserva in continuazione queste strane immagini. All’inizio
supponeva si trattasse delle foto di vecchi istruttori. In realtà sono i volti di
allievi precedenti. «Criens, 2010…» Fest indica in fondo alla stanza e
aggiunge: «Guardate». Si alza e si posiziona accanto alla foto. «Criens,
2010… Uno dei nostri migliori allievi.» Accarezza la cornice. «Persino di
notte trovavamo Criens al computer, alle prese con una candidatura…»
Dormiva sì e no cinque ore… Riusciva a spedire intorno alle 100 e-mail a
notte… E-mail da candidato… Non random, sistematicamente… Non banali
e-mail, e-mail con magistrali curricula in allegato… Animati con foto e
video… Talvolta addirittura curricula vocali… Con la musica in
sottofondo… Il suo periodo a SPHERICON era un incessante crescendo di
autocandidature… Un fuoco continuo di sforzi… Abbatteva poderosi
ostacoli… Impermeabile a rifiuti e riserve… Riuscivamo a stento a
frenarlo… «Guardatelo molto attentamente. Guardatelo dritto negli occhi.
Osservate il suo sguardo! Tenete bene a mente questo sguardo… Oggi
lavora per un gruppo industriale giapponese.» Fest lo racconta con ostentata
nonchalance: «Oggi lavora per un gruppo industriale giapponese». La
portata dell’evento si rivela proprio nell’apparente noncuranza. Come se
Fest liquidasse in due parole un paralitico «che oggi corre le maratone».
Per un attimo la voce di Fest si spezza. Si schiarisce la gola. Gli allievi
assistono per la prima volta alla commozione del loro insegnante.
Sopraffatto dal senso ultimo del suo operato. Nella sincera convinzione
dell’esattezza non solo dei suoi insegnamenti, ma anche dei principi più
profondi che lo muovono. Work is freedom. Freedom is work. Ancora: Only
work begets, work begets work… Eccole appese, le immagini viventi del
valore di ogni sua fatica. Ogni volta che la sua lezione ristagna, Fest indica
– in segno di prova – i volti incorniciati alle pareti dell’aula. Alcuni di loro
sono stati addirittura presi a esempio per episodi di Job Quest: «Come
Heißmeyer, nel 2012». Un segugio… Nessuno come Heißmeyer aveva così
tanto fiuto per i posti ancora liberi… Li trovava nei giornali… Persino
lontano dai necrologi… In banalissimi, innocui articoli su Dio e sul
mondo… Li trovava nelle trasmissioni radiofoniche… Nelle più vaghe
allusioni… Anche nelle conversazioni fortuite e nei commenti di strada…
Ancora prima che un posto si liberasse, lui lo sapeva già… O perlomeno ne
aveva un’idea… Perennemente in prima linea, con la sua candidatura…
Persino camminando fiutava l’esistenza di posti disponibili… In località
fuori mano… O nei supermercati… Bastava un’occhiata nel cortile… O una
chiacchierata lampo per strada… Attaccava continuamente bottone alla

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gente su qualcosa, sempre alla ricerca di lavoro… «Adesso ha 45 anni, 45,
e lavora. Lavora!» Ancora oggi cerca e trova ogni giorno posti di lavoro…
Così, per pura abitudine… Non riesce semplicemente a farne a meno.
La notte, di solito, Roland Bergmann resta sveglio. Leggerebbe molto
volentieri, ma purtroppo alle 11 di sera la luce viene spenta. A poco a poco,
alcuni trainees prendono sonno. Altri restano svegli, come impietriti,
respirano trattenendo ogni suono; cercano di dare il meno possibile
nell’occhio, quasi non fossero affatto lì. Oppure rimuginano immersi in
reciproci pensieri: Roland pensa a Karla e Karla, magari, a Roland.
Riposano ad appena pochi metri di distanza. Altri allievi parlottano in
sordina tra loro, perlopiù di argomenti scolastici: di compiti, di curricula o
di Bonus Coins… Quand’è la prossima consegna? Come sarà il prossimo
rapporto di Fest? Dalla relazione dipende l’ammontare dei Coins. In base
al rapporto dell’istruttore delegato ne vengono distribuite tre quantità:
Premium (100 Coins a settimana), Advanced (80 Coins), Basic (60 Coins).
Premium significa monete extra per dolci, sigarette e altri prodotti. Basic
una lunga, dura settimana solo con lo stretto necessario, una settimana senza
dessert, uova, sigarette. La prima settimana, tutti i trainees hanno ricevuto
la quantità massima, Premium. La seconda più nessuno. O almeno, nessuno
di Apollo. La maggioranza di loro è stata declassata ad Advanced, alcuni
addirittura a Basic. Declassati. Downcoined, un’espressione del
vicedirettore scolastico. Svalutati. Moneta-degradati. La terza settimana
alcuni allievi hanno ottenuto di nuovo Premium. Il metro che determina la
classificazione è oggetto di sempre nuove congetture: a seconda delle
prestazioni scolastiche (compiti e collaborazione), dell’immagine
complessiva data dall’allievo, del carisma e della fiducia trasmessi.
Certamente, anche a seconda del grado di attività prestata in palestra.
Oppure, le scelte di Fest sono del tutto casuali e arbitrarie. Per mettere in
guardia ciascun allievo, scuoterlo e spronarlo. Ogni mercoledì, dalle 16
alle 17, l’ufficio di Fest è aperto a tutti: così informa un avviso in bacheca.
Anche per eventuali domande sulla ripartizione dei Bonus Coins e sul
rapporto settimanale…
Il brusio notturno delle supposizioni penetra fin dentro il dormiveglia:
per esempio, il recinto che cinge la scuola. Sarà caricato elettricamente?
Con che voltaggio? Ma certo che non è caricato! Perché mai dovrebbe
essere caricato? Una settimana prima, alle rete sono stati notati dei tecnici
assieme ai dirigenti. Che cosa può voler dire? Niente! E perché allora il
proiettore? I tralicci del proiettore non sono affatto dentro il campus, sono
fuori… Vicino alla ditta di spedizioni per aspirapolvere… Oppure i dubbi
sul portone: è sorvegliato anche di notte? Ma certo che è sorvegliato! Con

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che meccanismo si aprono la porta esterna e quella interna? O gli strani
poster della mensa: poster di spiagge con palme, eppure nemmeno una di
queste è davvero verde, tutte mezze secche. Sembrano palme danneggiate,
le foglie sono spelacchiate. Che cosa può significare tutto ciò? Sierra
Leone, sta scritto su uno dei poster. Freetown, Sierra Leone. Dove sarà
mai? In Spagna? In Sudamerica? Che cosa possono voler dire questi poster?
Niente, pura decorazione. E perché poi la spiaggia appare così stranamente
smorta? Soprattutto, perché il logo dell’Agenzia federale su ognuno dei
poster? Freetown, Sierra Leone e sotto poi – a suggello di autenticità –
Agenzia federale per il lavoro.
L’argomento scivola sulle offerte di lavoro. Nei dormitori di SPHERICON si
aggirano i fantasmi degli impieghi più disparati, di solito indiscrezioni
trovate su Internet, annunci che, per qualche secondo, compaiono sugli
schermi e poi si dissolvono nel nulla. Alcuni allievi sono certi di averli
visti, non posti di lavoro qualsiasi, posti veri. Posti retribuiti. Per alcuni
istanti sarebbero lampeggiati sui monitor. E il testo del concorso dava
l’impressione che bastasse candidarsi, solo candidarsi, e tutti avrebbero
ricevuto una credibile chance… Che gli impieghi in questione siano ancora
liberi sul Mare del Nord? Da giorni si aggira la voce di cosiddetti posti di
lavoro sul Mare del Nord: un bando del maggiore birrificio tedesco. Che
non si trova più sulla terra ferma, ma a bordo di una megapetroliera nel
Mare del Nord. Fino a duecento persone vi avrebbero già trovato
occupazione. E ci sarebbero ancora posti liberi… Alcune voci sono
scettiche. Altre ne sono convinte. Il fratello di un allievo l’ha sentito dire a
Radio-CB. «Mio fratello conosce il Mare del Nord. Conosce il birrificio.
Conosce addirittura la nave ristrutturata.» Poi si gira verso la parete, parla
un po’ agli altri un po’ a se stesso: «Per un posto del genere nuoterei,
nuoterei giorni interi…». E si addormenta.
Gli allievi ancora svegli discutono di dati sulla disoccupazione, un tema
fisso: di quanti effettivamente siano i disoccupati. Sei milioni? Sette
milioni? Da tempo ormai non circolano più cifre ufficiali. In ogni caso, non
dati dell’Agenzia federale. O almeno, parlando di numeri, allora ci sono i
dati davvero indecifrabili di un istituto matematico, che usa un metodo di
calcolo assolutamente innovativo: non più in cifre assolute, ma fluttuanti.
Non più in termini di uomini, ma di casi. Stando a questa procedura, sei
milioni di disoccupati non sono più sei milioni di inoccupati, ma casi
fluttuanti di variabili in oscillazione: disoccupazione transitoria,
disoccupazione fisiologica, disoccupazione fluttuante… Anche per questo
motivo circolano così tante cifre, e non solo nei dormitori di SPHERICON.
Secondo alcuni, in questo paese, non c’è affatto la disoccupazione. Esistono

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solo casi di disoccupazione transitoria, fisiologica; tutt’al più rari casi di
disoccupazione anomala, reale… Così spiega un allievo ai compagni
ancora svegli. Certe notti le cifre si impennano fin sopra gli otto milioni.
«Ne sono assolutamente certo. Da tempo sono otto milioni. Otto milioni!»
Numeri del genere sprigionano rabbia e soddisfazione: rabbia per la
mostruosità di tutto ciò, e soddisfazione per essere riusciti finalmente a
pronunciarlo, tutto ciò, non con parole proprie, ma con nude cifre. A ogni
picco di cifra corre un nuovo brivido. Nel sentire di numeri sempre
crescenti – pronunciati sbadigliando, a volte addirittura nel dormiveglia –
gli allievi raggelano sotto le coperte. «Dieci milioni. Questo inverno
saranno dieci milioni. Addirittura più di dieci milioni.» Eppure i brividi
sono subito seguiti da una certa sensazione di calore, se non di
autocompiacimento: per poter innanzitutto dormire qua. Da privilegiati. Per
essere tutt’altro che veri disoccupati, ma soggetti in formazione. E anche se,
tra qualche mese, loro saranno di nuovo senza lavoro, faranno sempre
compagnia ad altri dieci milioni di disoccupati. Nessuno può trascurare un
numero del genere. Neppure il capo di Stato. Dieci milioni! Presto sarà la
maggioranza, non più la minoranza. E contro la maggioranza nessuno può
schierarsi.
Roland Bergmann è sempre sveglio. Ma ascolta a malapena i discorsi
altrui. Se costretto, citerà un dato qualunque che non dia troppo nell’occhio
(otto milioni) e tornerà il più discretamente possibile ai suoi pensieri. Per
esempio gli torna in mente la casa dei suoi genitori: una casa con
innumerevoli piani, tanti quante le stanze delle altre case. Sotto a tutti, al
pianterreno, c’era la farmacia del padre. Solo il modo in cui era arredata
era una singolarità. Molti clienti venivano esclusivamente per stupirsi degli
arredi, persino i telefoni e le lampadine risalivano agli anni cinquanta. E
più si andava su, piano dopo piano, più tutto diventava antico: i telefoni dei
piani superiori risalivano agli anni prima della guerra. Roland Bergmann
aveva trascorso l’intera infanzia a telefonare con quegli apparecchi.
Quando chiamava, reggeva con tutte e due le mani le pesanti, traballanti
cornette… La casa era incredibilmente grande. Solo Roland aveva a
disposizione svariate stanze. Distribuite su piani diversi: una camera da
letto, una stanza per cambiarsi e per lavarsi i denti, una stanza per giocare,
un’altra per fare i compiti, una camera con le sue collezioni da futuro
biologo… Quando gli amici venivano a trovarlo, passavano spesso le
serate là dentro, oppure in una stanza a parte con la televisione. La madre
faceva coricare il figlio assieme all’amico o all’amica su un divanetto e si
ritirava in cucina. Portava i succhi direttamente dalla farmacia, su un
carrello cigolante per il tè… Prima di ogni pasto si pregava. Il padre saliva

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con il camice bianco da farmacista. Mentre mangiava, raccontava delle
stranezze di alcuni clienti: delle loro malattie, dei progetti per le vacanze o
dei loro pellegrinaggi. Ad alcuni aveva anche prestato del denaro, come a
un albergatore loro vicino di casa, che voleva andare a trovare in treno una
zia a Palermo. Solo un esempio della generosità del padre… Dopo il
diploma di maturità, naturale che Roland volesse studiare biologia: in
nessun modo fu forzato, né trattenuto. Non gli fecero mai la domanda: a cosa
lo porterà tutto ciò? Oppure perché non avesse scelto qualcos’altro. Magari
uno studio con cui dopo rilevare la farmacia. Il lavoro allora non aveva
alcuna importanza. Neppure la farmacia. Parlava per ore di botanica con il
padre. O di pesci. O del progetto di un comune equipaggiamento
fotografico, che entrambi volevano comprarsi per riprendere stelle e corpi
celesti. Il denaro non contava. Regnava il benessere. Certo non l’opulenza,
ma il benessere. Trapelava dal volto dei suoi genitori. Trapelava dai visi
dei suoi amici… A un certo punto la farmacia fu venduta, più tardi anche il
resto della casa, prima i piani inferiori, poi quelli medi, infine i più alti.
Piano dopo piano, la casa passò in altre mani. Roland Bergmann è a letto
insonne, e pensa al lento ritirarsi della sua famiglia dalla casa.
La stanza 101 è l’ambulatorio del dottor Lichtenstein, lo psicologo della
scuola. Karla vi è stata convocata. A ogni modo, lei ha interpretato così
l’avviso che le è stato consegnato in segreteria. La stanza 101 è addirittura
raffigurata nella brochure della scuola, con il primo piano del dottor
Lichtenstein alla sua scrivania e la frase: «L’ufficio dello psicologo
scolastico è sempre aperto a tutti gli allievi». Durante il trimestre parla
almeno una volta con ognuno di loro. Volendo, anche più spesso. Pare che
lo psicologo Lichtenstein sia un buon uomo. Comprensivo. Il semplice fatto
che sia qua è già specchio dell’elasticità mentale della scuola. Così come
dell’elasticità mentale dello stesso Lichtenstein.
Karla attende per alcuni minuti sulla una sedia davanti al suo ufficio. La
porta si apre quasi inavvertitamente, con una leggera folata di vento.
Lichtenstein la invita a entrare. «Per favore, si tolga le scarpe.» Le scarpe?
«Sì, prego.» Karla si piega e se le toglie. Entra nell’ufficio in calzini. Lo
psicologo le assegna una sedia davanti alla scrivania: «Si accomodi pure».
Karla si siede. «È comoda?» Karla annuisce. Per un attimo restano in
silenzio. Karla devia lo sguardo da Linchtenstein alla finestra. Chiunque
visiti l’ufficio di Lichtenstein, mentre siede, guarda fuori dalla finestra. Lui
stesso è riconoscibile solo di profilo. «Si è ambientata bene a SPHERICON?»
Karla fa cenno di sì. Il dottor Lichtenstein prende nota. Poi le chiede perché
sia venuta. Karla non capisce. Le chiede un’altra volta: perché è venuta?
D’impulso vorrebbe rispondere che è stata convocata, altrimenti non

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sarebbe affatto qua, invece replica evasiva, con frasi confuse. Lichtenstein
la interrompe e dice: «In ogni caso, sono lieto che sia venuta». Ovvero,
secondo un documento interno: «Non dare mai agli allievi l’impressione
che siano stati convocati a un appuntamento con lo psicologo. Piuttosto,
espressa o inespressa, esiste una forma di consenso, l’allievo cerca il
colloquio di sua spontanea iniziativa».
Lichtenstein sfoglia alcune carte, chiaramente carte su Karla, in parte
anche di Karla. Le sembra di riconoscere uno dei suoi curricula. Le
domanda, molto di sfuggita, se la rielaborazione biografica la entusiasmi.
Karla risponde con un suono lontano che potrebbe voler dire tanto sì che
no. Lichtenstein prende nota e chiede: quale finzione biografica della sua
vita la entusiasma di più? Lei non capisce. Lui le chiede nuovamente:
«Quale finzione biografica le piace di più?». Indica uno dei suoi curricula,
da cui legge ad alta voce: «Soggiorno in Patagonia. Patagonia. Ha trascorso
un anno in Patagonia. Intanto. Le piace? Intendo dire, anche solo l’idea.
Argentina. Le Ande. La entusiasma? Parla uno spagnolo passabile. Conta
qualcosa per lei?». Karla risponde con un filo di voce. Lichtenstein si piega
verso di lei. «Conta qualcosa per lei? È il suo curriculum vitae. È la sua
vita. Non la mia o quella di chiunque altro, ma la sua vita. O le è
indifferente?» Karla alza le spalle. «Dunque, le è indifferente.» Pausa.
«Non pensa neppure a quanto sia difficile candidarsi per un qualunque
impiego, con una vita descritta senza entusiasmo?» Karla non risponde.
«Non solo descritta, anche vissuta nel nulla, senza neppure un lampo di
entusiasmo.» Pausa. Lichtenstein studia le sue carte. Chiede ancora. «Mi
dica, parli apertamente, c’è qualcosa che la entusiasma nella sua vita, nel
suo curriculum vitae?» Entusiasmare? Karla era sul punto di rispondere: un
tempo la vita intera mi entusiasmava… A volte avverto ancora oggi i
bagliori di questo entusiasmo… O almeno, ricordo momenti entusiasmanti
ormai passati da anni.
Lichtenstein: «Riesce a immaginarsi che qualcuno, prima o poi, avrà
ancora bisogno di lei nella sua vita?».
«…»
«Le ho chiesto se riesce a immaginarsi di essere ancora utile a qualcuno,
prima o poi.»
«No.»
«Non riesce a immaginarlo?»
«No… Al massimo agli amici… o ai miei genitori…»
«Ai suoi genitori?»
«Sì.»
Lichtenstein chiede ancora: «Job Quest? Guarda regolarmente Job

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Quest?». Karla risponde di no. «Gioca a Job Quest?» Ancora no.
«Preferisce leggere la versione romanzo?» Neppure. «O forse non le è stato
dato il libro?»
«Sì che mi è stato dato.»
«Ma?»
«…»
«Come prego?»
«Niente.»
«Non va neppure in palestra?»
«…»
«Come prego?»
«No.»
«O in solarium?»
«No.»
«Le dico questo, perché ha un aspetto abbastanza pallido.»
«…»
«Le foto da candidata.»
«…»
«Nella sua documentazione mancano foto convincenti.»
«…»
«Lei non può candidarsi con le foto presentate. Questo solo tra
parentesi.»
«…»
«Un po’ di sport le farebbe bene.»
«…»
«Qualche minuto in solarium.»
«…»
«Sa come si arriva in palestra?»
«…»
«Sa come si arriva in palestra?»
«Sì.»
«Ma?!»
«…»
«Ma?!»
«…»
«Sa dove si trova la palestra?»
«…»
«Dove?»
«Nel piano interrato.»
«Nel piano interrato.»

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«…»
«Ha paura dei locali interrati?»
«Credo di no.»
«Che significa: crede?»
«…»
«Che significa: crede?»
«Non so.»
«Lei non sa.»
Lichtenstein prende appunti. Senza alzare lo sguardo, le chiede
brutalmente: sta seriamente cercando un lavoro? Karla non capisce. Le
chiede di nuovo se stia seriamente cercando un posto di lavoro. O se anche
solo lo desideri. Karla replica con improvvisa veemenza: certo che vuole
lavorare… Da anni non si augura nient’altro… Dopo tutto questo tempo non
pensa a nient’altro che alla pace e alla tranquillità di un semplice,
tranquillo posto di lavoro… Darebbe qualsiasi cosa, soltanto per trovare
questa pace…
Lichtenstein la guarda e afferma: «Eppure, ciò nonostante, mi chiedo se,
nel suo profondo, lei non abbia ancora dei dubbi… O ansia. Un’avversione
per l’idea di ottenere davvero un impiego, un giorno. Ci rifletta».
Osserva i suoi documenti: «Lei non è sposata?».
Karla risponde con smorta lentezza: «No, non sono sposata».
«Non ha neppure figli?»
«No.»
«Non le piacciono i bambini?»
«Certo che mi piacciono i bambini.»
«Allora non ne vorrebbe mai avere?»
«Certo che sì…»
«Ma?»
Non trova alcuna risposta.
«Ma?»
Dopo una pausa: «E non ha neppure un ragazzo?».
«No. Al momento no.»
«Perché no?»
Pausa.
«Perché no?»
«È… È andata… così.»
«È andata così?»
Karla annuisce.
Lunga pausa.
«Se posso permettermi un’osservazione: lei è attraente. È alta,

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slanciata… Perché non ha un ragazzo?»
«…»
Dopo le vengono in mente alcune frasi: un ragazzo? Non ho mai avuto
soldi per conoscere qualcuno o per uscire con lui la sera. Poi però non
glielo dice.
Di nuovo una lunga pausa.
Prossimo passaggio: Lichtenstein le chiede se, pur non avendo un
ragazzo, abbia conoscenti o amici. Poi le chiede in modo ancora più diretto:
«Allora non ha né amici né amiche? Neppure qui a SPHERICON? Non ha ancora
conosciuto nessuno? No? Non ha rivolto la parola a nessuno? Non ha
risposto a nessuno? No? Conosce solo persone che appartengono al
passato, persone dimenticate, persone disprezzate?». Pausa. «Perché pensa
così male di sé? Perché è così severa? Così negativa? Così ritrosa? Perché
si nasconde?»
«Io non mi nascondo.»
«Lei si nasconde. Dietro se stessa. Dietro la sua vita. Dietro le sue
braccia, il suo volto, dietro tutta la sua persona. Perché lo fa?»
«Io non lo faccio.»
«Eccome se lo fa.»
Pausa.
«Fuma?»
Karla nega.
«Beve alcolici?»
Nega ancora.
«Dunque, non beve alcolici.»
«No.»
«Neppure nei momenti di solitudine?»
«…»
«Neppure un goccio?»
«Solo molto raramente.»
«Che significa raramente?»
«…»
«Che significa raramente? Una volta alla settimana? Due volte alla
settimana? Oppure ogni due giorni?»
Karla non risponde.
«Dunque registro: beve regolarmente, ma di rado.» Karla non esterna
più, risponde solo dentro di sé: sì, bevo regolarmente, ma di rado. Sì, non
ho quasi né amici, né conoscenti…
Lichtenstein si alza e passeggia su e giù per l’ufficio. Riassume, con frasi
secche: «Non ha figli. Né, evidentemente, si augura di averne. Non è

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sposata. Non ha il ragazzo. Né le manca un ragazzo. A ogni modo, non
smisuratamente. Non ha quasi amici, né conoscenti. La sua vita è povera di
contatti umani. Non fa sport. Non guarda Job Quest. Non dimostra
particolare interesse nel progettare la sua esistenza, l’unica a sua
disposizione. Nell’attuale versione, la sua vita non è convincente. Incolore
e apatica in ampi tratti. Perché la sua esistenza sembra così apatica? Un
datore di lavoro potrebbe chiedersi, prima di tutto: sono di fronte a un
essere umano? Lei appare spenta, pallida e indifferente. Manifesta a stento
interesse per qualcosa. Sia per se stessa, sia per gli altri. Ed è senza lavoro.
Già da alcuni anni. Né sembra sforzarsi con tutta se stessa per averne uno.
Lo trova appagante? Ha senso per lei tutto questo? Una vita senza amici, né
gioia. Senza calore, né sentimenti. Senza prospettive, né lavoro…».
Karla resta muta. Muove la testa, quasi impercettibilmente.
Con la mente Lichtenstein è già alla sua relazione. E alla ricerca
scientifica che sta scrivendo, un trattato sulle emozioni e sulle condizioni
mentali degli inoccupati: Psicogenesi dei disoccupati di lungo corso.
Dentro, viene approfondita la domanda su fino a che punto determinati
aspetti della personalità favoriscano la disoccupazione. Gli individui
inoccupati – e cioè non al momento dell’inattività, ma già prima che questa
subentri – sarebbero, in prevalenza, personalità sintomatiche: secondo le
statistiche, perlopiù soggetti ansiosi con difficoltà nei rapporti umani e
paura a stringere legami, scogli che persistono per tutta la vita. Oppressi da
ricordi d’infanzia negativi, depressi latenti, con scarsa fiducia in se stessi e
nel mondo. La genesi della loro disoccupazione va di pari passo con i
sintomi del disprezzo di sé e di una ridotta capacità lavorativa. Di impianto
cognitivo-emozionale pessimista cronico; rapporto con genitori e familiari
generalmente problematico. Di regola, i soggetti in questione sono instabili
sul piano delle emozioni. I loro stati d’animo sono più l’origine che la
conseguenza della loro condizione. Il titolo di un capitolo del trattato di
Lichtenstein è: Can your personality make you unemployed? Il saggio è in
inglese. Arricchito da statistiche. Una di queste indica che gli uomini sopra
una determinata altezza diventano con minore probabilità disoccupati
rispetto a quelli al di sotto della stessa soglia. Solo l’11,3 per cento di una
generazione di donne nate nello stesso anno e alte più di un metro e settanta
diventa disoccupato entro i 40 anni. Lichtenstein squadra Karla. Già al
primo sguardo si colloca chiaramente al di sopra del limite. È alta, magra e
attraente. Si vede che è alta, persino quando è seduta, basta guardare quanto
sono lunghe le sue gambe. Osservata da un punto di vista statistico, Karla
non dovrebbe affatto essere disoccupata.

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«Com’è stato?» Karla è sdraiata nel letto a castello, sotto. Non appena nella
camerata viene spenta la luce, da sopra le chiedono: «Com’è stato…? Il
colloquio… dallo psicologo?». Sopra di lei riposa un’allieva obesa. Un
tempo era cassiera in un supermercato. Lo racconta quasi ogni sera, finché
non si addormenta: saluta i clienti, aziona la cassa, conta le monete…
«Cosa ti ha chiesto? Cosa ti ha chiesto?» lo domanda con una curiosità
ansiosa, quasi che Karla si fosse appena risvegliata da una lunga
operazione. «Che cosa ti ha fatto?» A ogni domanda si gira sull’altro lato. Il
letto comincia a oscillare: «Che uomo è?». Che sia davvero uno psicologo?
Ma che le avrà chiesto? Che abbia sentito male? Karla non risponde. Ha
infilato la testa sotto il cuscino, si avverte a malapena il suo respiro.

Più tardi si alza e ripete alcune frasi a se stessa: 1) Niente è così com’è,
dice la psicologia, finché riguarda il paziente. 2) Tutto è così com’è, dice la
psicologia, nella misura in cui riguarda il mondo in generale. 3) Il mondo è
inesorabilmente così com’è (accento su inesorabilmente). 4) L’uomo è egli
stesso colpevole (nel complesso). 5) Come un tempo la religione
contemplava l’uomo: tutto contro l’uomo, tutto a favore del mondo e delle
sue divinità. 6) Il paziente sbaglia. 7) Per favore, togliersi le scarpe.

Di notte le vengono in mente altre risposte, tardi, troppo tardi, eppure ciò
non toglie nulla all’impeto delle parole non dette, che esprimono
esattamente quello che Karla avrebbe potuto dire nel colloquio con
Lichtenstein, sì, che avrebbe dovuto assolutamente dire, ma che non ha
detto, per un semplice vuoto di parole. È stretta in un autentico tumulto di
pensieri, risposte supplementari, repliche e controrepliche…
Per esempio, alla domanda se lei stia seriamente cercando un lavoro.
Talmente innumerevoli sono stati, negli anni, i no alle sue richieste, che a un
certo punto Karla ha iniziato a candidarsi non più a suo nome, ma a nome e
con i curricula di parenti o di amici. Per trasmettere loro cosa si provi a
leggere un rifiuto. E per non trovarsi più sola di fronte a un no, ma poterlo
condividere con altri. Persino gli amici con curricula esemplari ricevevano
risposte negative. Karla si adoperava anche moltissimo, per far risaltare il
più possibile la vita dei suoi amici. Più della propria. Ma nulla cambiava
nella monotonia dei continui rifiuti. Come se scrivere una candidatura fosse
già il presagio che candidarsi per quel posto era fuori discussione.

Sulle prime ore del mattino Karla pianse.

La vita di SPHERICON è una vita di studio e di lavoro: imparare i lavori e


imparare di nuovo a lavorare. Labor improbus. A SPHERICON, i giorni della

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settimana devono simulare esattamente le prestazioni di un giorno
lavorativo. Non solo simulare. Incarnare e riprodurre. Dai primi attimi del
risveglio fino agli ultimi minuti prima del riposo notturno. Anche se pochi
di loro troveranno un impiego, alla fine del trimestre. Ciò che resterà, sarà
l’esperienza dello sforzo e del lavoro quotidiani, un’esperienza fisica,
psicologica e sociale. SPHERICON, di conseguenza, è da intendersi anche come
mondo avventuroso, alla stregua dei parchi di divertimento che regalano ai
visitatori l’emozione di terre ed epoche lontane. SPHERICON avvera
l’esperienza del lavoro: lavoro individuale, lavoro collettivo, lavoro a
gruppi, lavoro non soltanto come mezzo verso un fine, ma come fine stesso.
Labor improbus. E tutto questo per giorni, settimane, mesi. Ai ritmi
incessanti della scuola. Un trimestre copre tre mesi. Durante questo tempo
gli allievi restano nella scuola. Anche i weekend. Tornare a casa non è
permesso. Eccetto nei casi accertati di lutto o di emergenza.
Nel fine settimana non si tengono lezioni. La mattina i trainees possono
dormire più a lungo. Solo compiti e incarichi più leggeri contaminano i
sabati e le domeniche. Altrimenti il tempo è libero. Non pochi trainees
siedono a computer e lavorano ancora alle bozze biografiche. Oppure
scrivono lettere. Oppure si preparano psicologicamente alla consegna dei
Bonus Coins. Oppure giocano col computer a Job Quest e al suo sequel Job
Attack. Lo scopo di questo videogame non è solo ottenere un posto di
lavoro, ma è strapparlo agli altri. I candidati giocano su Internet o su
Intranet. L’uno contro l’altro. Oppure alleati contro terzi. Per vie
rocambolesche spiano o cercano di carpire informazioni a chi ha già un
impiego, identificano le password, leggono e-mail altrui, tentano di
individuare minimi punti deboli e disattenzioni degli avversari, braccano il
posto di lavoro avvistato, con lo stesso percorso subdolo di un
sommergibile, i cui siluri stanno per essere lanciati. A un certo punto
premono il pulsante decisivo: Job Attack.
La consegna delle monete si svolge il sabato pomeriggio dalle 14, in
segreteria. Gli allievi vengono chiamati in ordine alfabetico. Ciò
nonostante, molti di loro si accalcano con larghissimo anticipo all’ufficio.
Altri escono e passeggiano intorno all’edificio. Oppure siedono su una
delle cyclette in palestra, o si fanno la doccia per ore.
Fuori dal campus non c’è quasi nulla da vedere. È vietato l’accesso agli
appezzamenti di terreno, ai capannoni industriali e alle fabbriche confinanti.
Sono sorvegliati da pastori tedeschi. SPHERICON può essere abbandonato solo
varcando il portone principale. L’ingresso confina direttamente con la
Düsseldorfer Strasse. Quasi nessun allievo arriva in questa strada. Senza
esplicita autorizzazione della direzione scolastica è vietato addirittura

50
accedervi. Una strada che, in realtà, non porta a niente. Dove non si
fermano bus. Dieci chilometri fino alla città, che fiancheggiano superstrade
e autostrade, praticamente impercorribili. Job Attackers. Il mondo è pieno
di Job Attackers.
Siedono in un angolo con i loro cellulari e raccontano, oppure scrivono.
Altri non hanno oggetti con sé. Altri ancora continuano a lavorare indefessi:
memorizzano vocaboli inglesi, studiano necrologi o sono indaffarati nei
loro curricula. In tre settimane un allievo è diventato mancino, per pura
voglia di cambiamento – forse anche per furia di cambiamento – quasi a
dimostrazione della frase di A New Life: «Non c’è niente che non possa
essere cambiato».

Sì, dopo la distribuzione delle monete, le reazioni si accavallano e si


scontrano: dal sollievo all’euforia, ma anche all’incredulità e alla
delusione. Downcoined. Declassato. Alcuni si precipitano da Fest a esigere
spiegazioni. Ma non c’è. O non apre. Allora passano all’ufficio successivo,
quello del vicedirettore scolastico, Mr Armstrong. Ma neppure lui apre. E
se apre, parla solo in inglese: «This is not within my province… I am the
wrong person to ask… Try next time even harder… Assert yourselves!».
Dopo la consegna delle monete, la maggior parte dei trainees sciama
verso la mensa. Si formano le prime file davanti ai distributori automatici.
Rumore di monete dappertutto: nelle mani degli allievi in attesa o mentre
cadono dentro le macchinette. Ressa davanti al distributore automatico
della birra. Viene rifornito ogni sabato. Dopodiché passano alle uova e ai
salatini. Ai primi tavoli si beve già e si conta ad alta voce. Si imbastiscono
trattative: monete in cambio di curricula. O monete contro annunci mortuari.
Birra contro chiamate al cellulare. Salatini a forma di stanghetta contro
lettere di candidatura. O password di e-mail contro passaggi segreti nel
mondo sotterraneo di Job Attack…
In sottofondo si sente della musica. Arriva da un ghettoblaster
appoggiato sopra il distributore della birra. Potrebbero addirittura ballare,
perché no. Spazio ce n’è a sufficienza. La direzione scolastica non avrebbe
niente in contrario. Anzi! I contatti fisici tra gli allievi sono bene accetti.
Più che bene accetti. E non solo durante i balli… Tutti i sabati, in mensa
vengono aggiunti pouf e tappetini imbottiti per contatti successivi. Le
occasioni non mancano. Non solo cuscini, nicchie e tendine, anche un
distributore automatico di preservativi. È appeso vicino alla palestra. In
fondo all’ultimo piano ci sono due camere da letto distinte: per parecchi
istruttori, il fiore all’occhiello pedagogico dell’intera scuola: Weekend-
Suite I, Weekend-Suite II…

51
Ansgar Fest arriva in mensa e trova la pista da ballo vuota. Gli allievi
siedono chini sui tavoli e mangiano uova sode, sorseggiano birra o contano
i loro Coins: un misero mucchio di sguardi abbassati. Fest ripensa alle
serate dance dei primi anni di SPHERICON. Pensa ai suoi allievi migliori:
Heißmeyer, Kappellmann, Hagenburg… Hagenburg… Hagenburg si
lanciava in pista senza sapere con che donna avrebbe ballato un attimo
dopo. Si accostava alla prima venuta e, ballando, la spingeva in un angolo,
la baciava e la ribaciava tra la macchinetta del caffè e quella della birra…
La baciava nel corridoio… La chiave della Weekend-Suite II pronta nella
tasca dei pantaloni. Oppure la faceva scivolare nella tasca della sua
compagna. La chiedeva all’insegnante di turno, ancora prima di avere la
benché minima idea di chi avrebbe varcato la soglia con lui. Faceva
impazzire le donne. Nei suoi fulminei avvicinamenti, così come nel suo
perenne cambio di partner: compagne di ballo, di baci e di letto, a
rotazione… Mosse d’azzardo da tagliare il fiato… Ballava incontro a una
donna, per poi voltarsi in extremis e spingerne per mano un’altra in un
angolo buio… Hagenburg… Una volta, durante la simulazione di un
colloquio di candidatura, gli fu chiesto cosa fosse per lui la povertà.
Risposta: la monogamia. Hagenburg… Entrare nella camera del sabato sera
sempre con la stessa donna è facile… Entrarci ogni sabato sera con una
donna diversa era la sua arte… Nel mezzo della notte si alzava e scriveva
candidature…
Il vicedirettore scolastico Armstrong arriva in mensa. Spegne il
ghettoblaster e va sulla pista da ballo. Parla come se avesse un microfono
in mano:
«Is there no one here… to dance.»
Guarda i trainees.
«No?… You don’t wanna dance?»
Si avvicina ai singoli allievi.
«Don’t wanna dance?»
Sempre più vicino.
«Not even with yourself?»
Ora è davanti a loro.
«Why are you here?»
Continua.
«Why don’t you go to bed?!»
Ancora.
«Were you downcoined?»
Ancora.
«You look as if you were downcoined.»

52
Ancora.
«You are not really here…»
Di tavolo in tavolo.
«Not here… Nor there… Not anywhere…»
Al tavolo successivo.
«You are nowhere…»
Di nuovo verso la pista da ballo.
«Nowhere.»
Pausa.
Come se parlasse loro ancora frontalmente.
«Datemi un segno di vita.»
Getta occhiate nella stanza.
Gli allievi siedono costernati.
«O almeno un segno di morte.»
Fissa sguardi sfuggenti.
«Give me a sign.»
Corre verso un tavolo.
«Give me an H.»
A braccia tese.
«Datemi una E.»
«Una E.»
Gli allievi siedono atterriti, senza parole.
Alcuni imbracciano la bottiglia di birra.
Come se dentro ci fosse una E.
«Una E!»
Un drappello di allievi farfuglia la lettera E.
Armstrong plaude al gesto con entrambe le mani e passa oltre.
«Give me an L…»
Parla di sedia in sedia.
«Just an L.»
Alcuni trainees pronunciano una leggerissima L.
«Ancora una L!»
Vuole un’altra L.
Poi una O.
«Give me an O.»
Supplica in ginocchio l’allieva che siede vicino a Karla, l’ex cassiera
del supermercato. Downcoined.
«Give me an O. Please give me an O.»
Le afferra la mano sinistra.
«Please!»

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Lei sibila una O.
Lui scatta in alto, tende l’orecchio e grida.
«She got it. She got an O.»
Va di nuovo in avanti.
«An O. Okey-doke.»
Agita le braccia sulla pista da ballo.
«HELLO! Say it. All of you. Say HELLO. Say it!»
Dagli allievi arrivano striminziti HELLO.
«Più forte!»
Le grida si fanno un po’ più forti.
Non abbastanza per Armstrong.
«Più forte!»
Non abbastanza.
«Louder!»
Non abbastanza.
«Say and wave HELLO.»
Crolla platealmente sulle ginocchia.
Please, un HELLO collettivo soltanto.
«HELLO!»
Gridato normalmente.
Enfatizzato.
Superaccentato.
«HELLO!»
Una trovata di Armstrong per il benvenuto del sabato sera. Non solo sua,
una trovata di SPHERICON: la scossa iniziale, un uscire da sé, un librarsi da sé,
un saluto corale. L’HELLO degli allievi si ingrossa. All’inizio sembravano
grida di uomini che stanno annegando, timorose grida di aiuto. Ora vibrano
compatte. Al ritmo delle note che escono dal ghettoblaster. Fest ha messo
su una nuova cassetta. La musica parte con il tono uniforme di un
sintetizzatore, accompagnato dalle note di un contrabbasso e dal ritmo di
una batteria. Say HELLO. Say it. Say and wave HELLO. Gli allievi si muovono a
tempo di ballo – che lo vogliano o no, si muovono, persino quando sono
ancora seduti – con l’amplificarsi della musica. Come gli spettatori di un
concerto. Come se loro stessi fossero il concerto, il refrain continuo di
un’eterna canzone. Save and wave HELLO. Sullo sfondo, fantomatici
chitarristi. Armstrong stesso si agita come un chitarrista. A tratti un
chitarrista, a tratti un frenetico batterista dalle movenze trascinanti, un
rocker al culmine della sua esibizione. Ouverture di un sabato sera, a
SPHERICON. Esercizi di riscaldamento ad alto tasso energetico. High Energy
Warming Up: frammenti di una delirante serata. Armstrong si inchina. Si

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inchina sfinito dopo il ballo. Sorride – quasi sopraffatto – e grida:
«Grazie». Quasi parlasse a un microfono, ma con più fiato, più sorrisi, non
è un semplice parlare: «Thank you. You were wonderful». Poi inizia la
serata.

Sì, arrivò il momento dei balli di coppia. Si sfiorarono le prime mani,


anche solo per salutarsi, a fine serata. Ansgar Fest registrò alcuni abbracci
dietro una tenda, poi un bacio fugace. Niente di più. «Come i bambini»
borbottò Fest. Poi gli allievi si ritirarono a letto, nei rispettivi dormitori. Le
chiavi delle due suite rimasero in tasca a Fest.

Weekend-Suite I e Weekend-Suite II: in entrambe le camere ci sono letti a


due piazze. Sempre rifatti con lenzuola fresche. Su entrambi i lati si trovano
i comodini con gli abat-jour. Di fronte al letto, un armadio. Alla parete, un
lavabo. Le camere sono state create ex novo. Accessoriate di tutto. Niente
più scuse per ritirarsi in solarium. Da soli o in due. In A New Life vengono
definite «Weekend-Suits. Chiedete al vostro istruttore o mentore». Quando
gli fu chiesto, Fest diede senza esitare la chiave alla neocoppietta che si
stringeva davanti a lui. Ai due andava tutta la sua simpatia. Così come a
ogni futuro legame sentimentale – in qualunque costellazione – più variabile
era, tanto meglio. Tutto ciò, per SPHERICON, è assolutamente funzionale alla
formazione: una modalità di candidatura, un esercizio aggiuntivo, graditi
esercizi manuali. Chi, su questo terreno, dimostra più abilità e coraggio,
eguale coraggio dimostrerà – questa l’esperienza – candidandosi per un
impiego. Gli studi di Lichtenstein a riguardo parlano chiaro: quanto più
vincenti si è nella conquista di un partner sessuale, tanto più successo si
avrà nel cercare lavoro. E viceversa: quanto più inconcludente si rivelerà il
candidato per un impiego, altrettanto fallimentare sarà la sua ricerca di
partner. I disoccupati si riconoscono già in pista da ballo. Sempre che osino
lanciarsi in pista.
Con il procedere del trimestre, i primi allievi andarono da Fest e gli
chiesero le chiavi di entrambe le camere. Alcuni le chiesero con giri di
parole, bloccandosi e riprovando più volte, con ostinazione. Altri
domandarono apertamente, in modo diretto. Alcuni si informavano con
giorni d’anticipo, altri solo pochi minuti prima. Si crearono e si divisero
coppie, nel vero intento di A New Life: diversità, novità, contingenza.
Niente deve restare com’è. Secondo una direttiva interna, le stanze non
possono essere assegnate per più di due volte alle stessa coppia. Citazione
da A New Life: «La promiscuità è un’abilità in sé…». Ancora: «Riuscire in
qualsiasi momento a candidarsi, avendo già un impiego, per un nuovo

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impiego e, da questo, per uno nuovo ancora vuol dire libertà…».

In un paio di occasioni si verificò che le camere fossero assegnate a coppie


fittizie. Dormivano nel letto matrimoniale senza neppure sfiorarsi. Ognuno
per conto suo. Adagiati lì, solo per stare su materassi confortevoli. O per la
comodità del lavabo. Sfruttavano la camera come la stanza di un hotel: per
godere degli agi. Preferivano dormire in due nello stesso letto, che nella
camerata con tutti gli altri. Un trainee venne sorpreso da solo nel letto a due
piazze, senza neanche una partner qualsiasi. La lampada del comodino era
accesa, stava leggendo.

Alle tre di notte Roland Bergmann venne svegliato. Vide l’ora sul suo
orologio da polso, che pendeva dalla testa del letto. Ansgar Fest, in piedi
accanto alla branda, lo toccava con la mano. Disse, in tono né alto né basso:
«Per favore, si alzi e venga con me». Roland Bergmann si vestì. Gli altri
allievi non si accorsero di nulla. O almeno sembravano dormire. Fest lo
portò fuori dalla camerata, nel corridoio. I miei genitori sono morti. Per
Roland Bergmann era già una certezza. È successo qualcosa di terribile. I
miei genitori sono morti. Perciò vengono a prendermi, a quest’ora.
Scendono le scale. Al pianterreno la luce era accesa. La porta della
segreteria aperta. La superarono e arrivarono all’ufficio del direttore
scolastico. Fest bussò ed entrarono. Von Benkdorff sedeva a un lungo
tavolo. Teneva delle carte davanti a sé. Accanto a lui Lichtenstein, lo
psicologo scolastico. Salutarono frettolosamente Roland Bergmann. Gli
fecero cenno di sedersi. Fest si mise all’altro lato del tavolo, vicino al
direttore scolastico. I tre, schierati di fronte a lui, non davano il via al
colloquio. Era la prima volta di Roland Bergmann nell’ufficio del direttore
scolastico. Le pareti non erano in truciolato, ma in vera muratura.
Pendevano i calendari delle lezioni e le cartine dei dormitori. Si potevano
vedere persino i singoli letti, raffigurati nella mappa con i nomi dei
rispettivi allievi. Riconobbe anche il suo, assieme al suo nome. Ora quel
letto era vuoto…
Le domande partirono senza convenevoli. Tutti e tre – Von Benkdorff,
Lichtenstein e Fest – levarono nello stesso istante lo sguardo su di lui,
quando il direttore scolastico gli si rivolse:
«Lei è nato nel 1977 a Backnang, Stoccarda?».
Roland Bergmann annuì.
«Ha iniziato la scuola nel 1984?»
Roland Bergmann annuì.
«Perché solo nel 1984?»

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«…»
«Perché non già nel 1983?»
«Perché…»
«Perché?!»
«Mio padre era all’estero per lavoro e mi ha portato con sé.»
«Dove?»
«A Madrid, in Spagna.»
«Bene. Qualcosa di curioso del suo periodo scolastico.»
«Di curioso?»
«Dei suoi tempi di scuola.»
«Ero…»
«Si?!»
«Ero… boyscout.»
«Ancora!»
«Giocavo a basket…»
«Come prego?»
«Volevo dire baseball.»
«Molto bene! Liceo?»
«Max-Born, a Backnang.»
«Lingue straniere?»
«Inglese e francese…»
«E?»
«Spagnolo.»
«Soggiorni all’estero?»
«Uno scambio in Scozia, ai tempi di scuola…»
«E poi? Dove ancora?»
«In Canada.»
«Esattamente dove in Canada?»
«A Sherbrooke.»
«Pensavo nel Québec.»
«Sherbrooke è nel Québec.»
«Dove esattamente nel Québec?»
«Nel Sud del Québec.»
«Dove?»
«Al confine con il Vermont.»
Breve sguardo riconoscente del direttore scolastico ad Ansgar Fest.
«Maturità?»
«Nel 1998.»
«Perché non nel 1997?»
«Per l’anno in Canada.»

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«Corsi d’approfondimento al liceo?»
«Chimica e Biologia.»
«Perché Biologia?»
«Perché…»
«Come prego?»
«È andata così.»
«Studi universitari?»
«Bio…»
«Come?»
«Biochimica.»
«Materie centrali del suo studio?»
«Botanica.»
«Come prego?»
«Genetica.»
«E poi?»
«Biologia molecolare.»
«Ah, ecco…»
«…»
«Laurea?»
«Nel 2006, laurea specialistica.»
«E dopo?»
«Assistente scientifico all’università.»
«Ambiti delle sue mansioni?»
«Seguivo il mio professore nelle attività didattiche… Partecipavo ai
convegni scientifici… Ho accumulato anche esperienza in campo
amministrativo…»
«È tutto?»
«No.»
«Ma?»
«…»
«Ma?»
«…»
«Dottorato?»
«Nel 2012.»
«Ecco.»
«…»
«Poi?»
«Mi è stato prolungato il contratto per un anno.»
«Ah, ecco.»
«…»

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«Esperienze lavorative? Stage?»
«Attività di laboratorio.»
«Dove?»
«All’università.»
«E poi?»
«Anche al di fuori dell’università.»
«Dove esattamente?»
«In un istituto…»
«Quale istituto?»
«L’Istituto dott. Jäger.»
«Che tipo di centro è?»
«Un centro di misure ambientali.»
«Cosa vi viene misurato?»
«Sostanze tossiche.»
«Ah.»
Pausa.
«Malattie?»
«…»
«Ha avuto qualche grave malattia?»
«Intende malattie durante la mia attività di assistente ?»
«Intendo malattie in genere.»
«No.»
«Nessuna malattia cronica?»
«No…»
«Neppure malattie mentali?»
«No…»
«Nemmeno nella sua famiglia?»
«No…»
«Nessuna malattia?»
«No…»
«E handicap? Malattie che possono portare a problemi penali?»
«…»
«Può parlarne apertamente.»
«…»
«Droghe?»
«No…»
«Dipendenza da pasticche o medicinali?»
«No…»
«Ha mai scontato una pena detentiva?»
«No…»

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«Un qualunque reato?»
«No…»
«Neppure infrazioni stradali?»
«No…»
Lunga pausa.
«Una domanda di biologia. Cos’è una molecola?»
«…»
«Cos’è, secondo lei, una molecola?»
«L’unità più piccola… L’unità più piccola di un composto chimico.»
«Quante molecole ha il carbonio?»
«…»
«Quante molecole ha il carbonio?»
«Al momento… Al momento non lo so.»
«Non lo sa?!»
«A ogni modo, non esattamente.»
«Allora ce lo indichi a grandi linee.»
«…»
«Per favore, ce lo indichi a grandi linee!»
«…»
Lunga pausa.
«Desidera aggiungere qualcosa?»
«…»
«Qualcosa di importante, interessante, insolito?»
«…»
«Non ha niente da aggiungere?»
«No…»
«Neppure sul suo impiego al call center?»
«…»
«Nel suo curriculum vitae c’è scritto: Call Center Vancouver. Che tipo di
incarico svolgeva?»
«Ero consulente.»
«Per cosa?»
«Per domande ambientali.»
«Per quali clienti?»
«Per clienti da tutto il mondo.»
«In inglese?»
«Yes, in English.»
Lunga pausa.
Von Benkdorff con un’occhiata a Lichtenstein: «Ha ancora domande?».
Lichtenstein annuendo: «Una domanda di cultura generale: quale di

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queste razze di cavalli, secondo lei, non esiste? Islandese? Norvegese?
Arabo? Troiano?».
«…»
«Una domanda da biologo. Islandese, norvegese, arabo, troiano. Quale di
queste razze è inventata?»
«Tro…»
«Come prego?»
«Troiano.»
«Ne è sicuro?»
«…»
«Prossima domanda: quattro, cinque, sei, sette. Dov’è il verbo?»
«…»
«Quattro, cinque, sei, sette. Dov’è il verbo?»
«…»
«Be’, il tedesco non è certo il suo forte. Altra domanda: signor
Bergmann, lei passa con il rosso al semaforo?»
«…»
«Passa con il rosso al semaforo?»
«No.»
«Perché è così disfattista?»
«Io… Io non sono disfattista.»
«Invece sì che lo è. “Separare la crusca dal fior di farina”. C’è qualcosa
che non torna in questa frase?».
«Non… so…»
«“Separare la crusca dal fior di farina”. Perché non “separare il fior di
farina dalla crusca”?»
«Io…»
«Karla Meier.»
«…»
«Le dice qualcosa il nome di Karla Meier?»
«Sì.»
«Sì?»
«Frequenta questa scuola.»
«In che rapporti è con lei?»
«…»
«In che rapporti è con lei?»
«In rapporti… amichevoli.»
«È stato con lei nella Weekend-Suite II?»
«…»
«È stato con lei nella Weekend-Suite II?»

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«Sì.»
«Quanto spesso?»
«Due volte…»
«Ha ballato con lei?»
«No…»
«Perché no?»
«Abbiamo…»
«Come prego?»
«Abbiamo parlato tra noi.»
«Come ha trascorso la notte con lei?»
«Siamo rimasti… svegli… tutta la notte.»
«Avete avuto…?»
«…»
«Avete avuto… rapporti sessuali?»
«No…»
«Come prego?»
«No.»
«Dunque non avete avuto rapporti sessuali.»
«No.»
Pausa.
«Perché no?»
«Non è successo.»
«E cosa è successo invece?»
«Abbiamo parlato.»
«Avete parlato tutta la notte?»
«Sì.»
«Di cosa avete parlato?»
«Del passato… Dei nostri anni di scuola…»
Pausa.
«Non vede alcun futuro davanti a sé?»
«…»
«Non vede alcun futuro davanti a sé?»
«No…»
«Neppure per la sua amica?»
«Non lo so.»
«Non vi siete mai toccati, per tutta la notte? Abbracciati? Accarezzati?
Baciati?»
«No.»
«Siete andati intenzionalmente nella Weekend-Suite II per non toccarvi,
per non abbracciarvi, per non accarezzarvi, per non baciarvi?»

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«Io…»
«Come prego?»
«Non so.»
«Avete comodamente approfittato del lavabo?»
«Abbiamo conversato per tutta la notte.»
«Dunque non siete andati per il lavabo? O per le lenzuola cambiate di
fresco?»
«No.»
«Come prego?»
«No.»
Ogni tre o quattro notti un allievo veniva svegliato, condotto nell’ufficio
della direzione scolastica e interrogato, simulando colloqui di selezione:
sotto torchio per ore; in conformità con i suggerimenti autobiografici forniti
nei curricula. Nelle direttive interne di SPHERICON è spiegato: «Trasformare
un curriculum vitae in un colloquio di presentazione è il punto cardine, la
svolta nevralgica di ogni candidatura…». Ancora: «Le candidature
migliori, i curricula più brillanti crollano durante la maggior parte dei
colloqui di selezione…». Inoltre: «È necessario testare le invenzioni e gli
esercizi autobiografici dei trainees a sorpresa e in condizioni estreme…».
Al meglio di notte, sbucando dal nulla, quando una mano repentina si posa
sulle spalle di un allievo e lo strappa dal sonno, catapultandolo in un
colloquio di presentazione. Surprise is the mother of experience.
Colloquio di presentazione: non a caso, l’espressione deriva proprio dal
termine presentazione. Una compatta, dinamica ed efficace presentazione
della propria esistenza, autobiograficamente ottimizzata.
In questa prova, i trainees degli anni precedenti avevano dato prestazioni
sorprendenti. Criens per esempio, nel 2010: impassibile, sempre e
comunque, a ogni simulazione. In ogni colloquio di presentazione,
l’ennesimo picco di coesione biografica. Trattava con la massima
nonchalance e con un sorriso accattivante ogni sfumatura dei suoi
innumerevoli curricula. Spesso era perfino superfluo svegliarlo: già sedeva
a uno dei computer. Con un inchino, si alzava e seguiva l’istruttore.
Molti allievi pensavano a Criens, quando, di notte, non riuscivano a
prendere sonno. Distesi, in perenne attesa della pila luminosa e della mano
che sarebbero venute a prelevarli. Tenevano sotto il cuscino i bigliettini dei
curricula e memorizzavano ogni dettaglio autobiografico. Sibilavano i nomi
di paesi in cui non erano mai stati, che a stento riuscivano a pronunciare; e
bisbigliavano le date di lavori mai svolti: apparizioni in serie tv per
bambini, tour estremi lungo bizzarri paesaggi, corse su slitta… Svegli fino
alle prime ore del mattino, senza essere prelevati. Al loro posto venivano

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chiamati altri allievi. Oppure, alcune volte, non veniva chiamato nessuno.
Oppure venivano chiamati di giorno, non di notte. Quasi nessun allievo si
presentò spontaneamente al suo colloquio di presentazione.

Rapporto sul colloquio avuto con Roland Bergmann: «Da evidenziare


positivamente le competenze biografico-esistenziali sugli anni scolastici e
sull’adolescenza, in particolare sul soggiorno all’estero in Nordamerica:
Sherbrooke, Québec, Canada. Incomplete e vacillanti le risposte
sull’attività in laboratorio e ad altre domande. Presenza dialogica al di
sotto della norma. Chiuso. Taciturno. A tratti sonnolento. Linguaggio
sbiadito. Limitato sguardo al futuro, se non addirittura rifiuto verso il futuro.
Occhio prevalentemente rivolto al passato. Persino nell’uso del linguaggio.
Vistoso deviare dal presente al passato. Soggetto dalla personalità
nostalgica».
Ma soprattutto, secondo Lichtenstein, la vita di Roland Bergmann
mancava di punte drammatiche: di un movente, di un filo conduttore, al
limite di un nesso logico, di una struttura della narrazione a contrappunto, di
una meta… Mancava la suspense. Mancavano le grosse cesure biografiche.
Mancavano i punti di vista, di svolta, gli abissi. E, naturalmente, le vette.
Troppo poco umana. Nessuna storia vissuta. Troppa mediocrità e troppa
misura: nascita, scuola, liceo, università… Troppo piatta. A chi interessa?!
Chi la legge?! Mancavano gli estremi. Mancava di significato. Come
interpretarla? Ovvero classificarla?! Dove sono i colpi di scena? Troppo
poco compassionevole. Punti di identificazione praticamente nulli. Chi
leggerebbe mai qualcosa del genere? Immedesimarsi poi, figuriamoci.

Non appena la porta della Weekend-Suite II fu chiusa, Karla e Roland


iniziarono a parlare, per la prima volta davvero in intimità, senza gli
sguardi incrociati degli altri allievi. Come un torrente in piena,
cominciarono a raccontarsi di genitori e di fratelli, di persone care e di
amici, dell’infanzia e della giovinezza… Di qualsiasi argomento si
presentasse. Durante le prime ore della loro prima notte si dilettarono
nell’avere semplicemente ancora molte ore davanti a sé. «Parla ancora. Per
favore, parla ancora.» Mentre ascoltavano, si ammiccavano con mutui
sguardi: parla ancora. Non importava quanto marginale fosse l’argomento.
Più marginale era (fosse anche solo il colore di un libro), più
prudentemente lo affrontavano, assaporando fino all’ultimo l’abbondanza di
tempo e di sensibilità. Trovarono addirittura delle occasioni per tacere
indisturbati. Il comfort del lavabo era il comfort di riempire d’acqua il
bicchiere per lavarsi i denti e per bere. Bevvero a vicenda da questo calice.

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Il lusso del letto matrimoniale era il lusso di non appoggiarvisi mai quella
notte, neppure una volta.
Giorni prima Roland aveva appuntato su un bigliettino l’idea di
trascorrere una notte nella Weekend Suite e l’aveva passato a Karla, durante
la lezione. Alcune ore dopo, lei gli inviò la risposta: «Con te starei bene
ovunque, tranne che in questa stanza». Per poi, il giorno successivo,
mandargli un nuovo bigliettino: «Dove potremmo mai parlare per una notte
intera, se non in questa assurda camera. Tua K.».
In alcuni momenti sedevano l’uno di fronte all’altra, liberi da ogni
preoccupazione sul loro stato: su SPHERICON, sulla rieducazione e sui
curricula, sugli anni di disoccupazione… persino sull’esistenza della
Weekend-Suite II. Come se fossero a parlare in un altro luogo, in un altro
tempo, in altre circostanze. «Racconta ancora!» E Karla raccontava ancora.
Citò un libro della sua infanzia, in cui aveva letto la frase: «E si narrarono
favole sul mondo». Con frasi del genere allusero poi alla loro prima notte
di conversazione.

I provvedimenti adottati nei confronti di entrambi: declassamento (Bonus


Coins) a Basic Minus; almeno per due settimane; posti separati in aula;
limitato Power Napping; elaborazione biografica (redazione,
rielaborazione e riscrittura di curricula); addestramento alla candidatura
(training telefonico, aspetti astrali della candidatura); e-mail di candidatura;
annunci mortuari, telefonate postmortem…

Una mattina le lezioni furono sospese per l’intera giornata. Gli allievi si
dovettero allineare all’aperto, subito dopo colazione, ognuno nell’unità del
rispettivo team di candidatura, da Apollo all’estrema sinistra a Taylor
all’estrema destra. Tutti in piedi dietro la linea blu, sopra le lettere a grandi
caratteri sul suolo del cortile: A, C, H, P1, P2, R, T. Sopra la porta
d’ingresso dell’edificio sventolava la bandiera della scuola: bianca e blu,
con una piramide stilizzata. Gli allievi rimuginavano in continuazione sul
suo significato: un rimando alla piramide delle banconote americane? Un
simbolo della massoneria? O il segno di un nuovo ordine mondiale? Von
Benkdorff e il dottor Lichtenstein raggiunsero la linea blu: il loro
nervosismo era palpabile. Chiamarono il custode. Doveva raccogliere a
uno a uno i pezzetti di carta sparsi nel cortile. Con la cortesia di fare in
fretta. Era stata annunciata una visita, la visita dell’Agenzia federale per il
lavoro. Mr Armstrong lo spiegò al megafono: VISITA. Non una visita
qualsiasi, la visita del dirigente regionale di un’importante circoscrizione.
Nell’Agenzia federale, così raccontò Armstrong, la carica di dirigente

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regionale era di rango prominente, paragonabile a quello di un vescovo o
del presidente del Consiglio. Il suo nome: Friedrich Groener.
Accompagnato dal segretario personale Noske. Il nome era già un
programma. Queste tutte le informazioni. Arrivo concordato: nel corso del
pomeriggio. La visita non si presentava inattesa. Un viaggio d’ispezione.
Erano pronti, da sempre. A SPHERICON, l’intero ciclo di lezioni non era che un
progressivo prepararsi a questa visita, così come a qualunque altra visita:
così spiegarono Armstrong e von Benkdorff, alternandosi. Le loro uniformi
scolastiche erano appena stirate. Ligi al dovere, camminavano lungo la
linea blu, aggiustando qua e là le pose dei candidati. Nel frattempo, il
custode aveva montato il microfono. I trainees si trovavano in piedi già da
una mezz’oretta. Iniziò a piovere. Il custode riparò il microfono sotto un
ombrello. Lo reggeva terribilmente in alto, quasi il dirigente scolastico
fosse già arrivato e stesse tenendo il suo discorso lì sotto. Von Benkdorff
controllava l’ora in continuazione. Fece telefonare dal suo ufficio: quando
arrivano esattamente Groener e il suo segretario…? A momenti, fu loro
risposto. Tutta la scuola era già schierata da un’ora. Alcuni allievi si
reggevano a malapena sulle gambe. Von Benkdorff fece trasmettere della
musica dall’altoparlante, più tardi anche una versione radiofonica di Job
Quest: «Darei tutto per questo posto di lavoro, tutto…» dice il protagonista
alla sua ragazza. Poi la ragazza gli chiede: «Davvero mi lasceresti per
questo impiego?». Certo, la sua risposta. Allora la ragazza sospira dimessa
e sembra abbracciarlo, come colta da profondo sollievo. Pioveva senza
sosta… In lontananza si udirono le eliche di un elicottero, sulle prime era
solo un rumore irritante, lontano anni luce dallo scenario del cortile. Poi,
invece, si fece sempre più vicino, forte e chiaro. L’elicottero venne loro
incontro planando tra due ciminiere. Le sue luci di posizione brillavano
nella pioggia. Ruotò gravemente alcune volte attorno alla scuola, quasi
volesse farsene un’idea. Dal basso era leggibile la scritta: «Agenzia
federale», a caratteri rossi su uno sfondo verde oliva. Sotto, lo slogan: «La
Germania si muove». Gradualmente, l’elicottero si abbassò sul cortile
scolastico. Atterrò su un’area segnalata, sollevando vortici di polvere fino
in lontananza. Von Benkdorff e gli altri istruttori si trovavano nel pieno
vento dell’elicottero; rannicchiati, gesticolavano con le mani, un po’ per
salutare un po’ per schermirsi. Le eliche ruotavano implacabili, perfino
quando il velivolo fu a terra. L’asta del microfono iniziò a vacillare. Il
custode fu costretto a tenerla ferma. Solo dopo qualche minuto si avvertì il
rallentare delle eliche. Von Benkdorff corse incontro al velivolo, fendendo
gli ultimi vortici. Si aprì uno sportello laterale: Groener scese. Indossava
un trench e un foulard rosso. Non appena fu riconoscibile, sembrò in un

66
qualche modo di averlo già visto: chissà, magari in televisione, per suoi
contributi a qualche autorevole trasmissione. L’assistente Noske lo seguiva
con una valigetta. Von Benkdorff li salutò entusiasta, con entrambe le mani:
dall’elicottero, li guidò verso il centro del cortile. Gli allievi restavano a
una certa distanza, sulla linea blu. Dove si erano posizionati. Salutarono da
lontano. Niente perdite di tempo in strette di mano o benvenuti personali.
L’intera visita (a eccezione del discorso) fu pervasa dalla fretta. Groener
salutò il gruppo degli istruttori di sfuggita, con un breve cenno del capo. Gli
istruttori risposero con un servile inchino. Con uno scatto all’indietro,
Groener catturò gli allievi in un solo sguardo. Muovendo la bocca sembrò
quasi esclamare: «Ah!». Oppure: «Eccoli qua, dunque». Controllò l’ora.
Dopo qualche attimo di esitazione – quasi fosse sul punto di cambiare idea
– varcò infine la linea blu, incontro ai trainees. Von Benkdorff – un po’
stupito – lo seguì a passo spedito e gli presentò ogni team di candidati, per
nome: Apollo, Canergie, Hartz… Al cospetto di ciascun gruppo, Groener si
arrestò e disse: «Ah». Oppure: «Molto bene». Oppure: «Ancora così».
Giunto a Parsons, si rivolse direttamente ai singoli allievi, con frasi lampo
del tipo: «Allora?». Oppure: «Come va?». O ancora: «Vedrete». Gli
interpellati (mani incrociate dietro la schiena) rispondevano infervorati.
Anche volendo, non potevano fare altro che parlare mantenendo il contegno
più retto possibile. Riferirono della loro instancabile attività:
«Addestramento alla candidatura… Elaborazione biografica…». Mentre
parlavano, Groener passava oltre. Ricardo, Taylor… «Molte bene.» Poi
fece dietrofront. Von Benkdorff gli indicò la strada per il microfono. «Il
discorso.» Durante il tragitto, il direttore scolastico raccolse parole di
stima profuse da Groener: parole di lode e di approvazione. Von Benkdorff
ringraziò e andò al microfono. Fu veloce, diretto e conciso, come mai lo era
stato prima: «Saluto… Ringrazio… Ringraziamo… Siamo lieti… Tutta la
scuola è felice…». Frasi di rito, scandite in fretta e furia, per sgombrare
finalmente il campo al discorso del dirigente regionale, che a quel punto
raggiunse il microfono. Von Benkdorff gli reggeva personalmente
l’ombrello, dato che continuava a piovere. Groener si schiarì la gola e
augurò buona giornata a tutta la scuola, nonostante il tempo, nonostante la
pioggia e il gelo, nonostante il ritardo. Si schiarì la gola ancora una volta, si
sfilò i guanti dalle dita e li diede a Noske, il suo assistente. Groener
affrontò immediatamente il tema dello stato economico generale. Sembrava
conoscerlo a menadito per le continue analisi in materia. Ne parlava come
se fosse appena reduce da un analogo dibattito, scappato via in elicottero da
un convegno impegnativo, per stiracchiarsi le gambe, in volo verso il
prossimo dibattito a tema. Di dibattito in dibattito. Descriveva la situazione

67
generale come si fa per un assetto di guerra: una condizione difficile,
certo… La congiuntura più pesante dai tempi del conflitto mondiale… Il
paese costretto a spietate battaglie sui prezzi e per l’esportazione… A
guerre commerciali e a manovre difensive… Impegnato sulle più disparate
facce della terra e su innumerevoli fronti: il fronte delle auto,
dell’elettronica, quello interno… Una guerra economica di dimensioni
globali… Una World Wide War.
Von Benkdorff, che continuava a reggere l’ombrello, plaudeva a occhi
spalancati. Per certi aspetti, proseguì Groener, erano stati commessi
errori… Era stato perso terreno prezioso… Si erano avuti crolli su più
fronti… Sconfitte e persino perdite… Non sempre si era stati
sufficientemente in guardia… Eppure, da alcuni mesi, si affacciavano
segnali di svolta… Il baratro era ormai alle spalle… Pulsavano segnali di
ripresa molto promettenti… Una ripresa, i cui sintomi Groener snocciolò
cifra dopo cifra: indici dell’andamento di mercato, prezzo del greggio,
effetti del cambio, oscillazione delle riserve, il nuovo modello della
Volkswagen… Un modello favoloso. Ma soprattutto, un generale ottimismo,
una tangibile spinta in avanti, un vento nuovo… Groener parlò accennando
copiosamente a nuovi prodotti, alla cui vista il suo cuore non solo aveva
iniziato a palpitare, ma addirittura si era fermato per un attimo. Premevano
offensive nell’innovazione e nell’export, come mai si era visto prima… La
riconquista di mercati perduti… Lodò l’operato degli ingegneri… Pionieri
in avanscoperta di nuovi lavori… In gara per un concorso internazionale…
Non un concorso qualsiasi, un concorso globale, una candidatura
mondiale…
L’assistente, che si trovava dietro di lui, gli consegnò una busta blu.
Ora occorreva solo attendere, calmi e fiduciosi… Ognuno di voi continui
a lavorare come al solito… Nessuno dia credito alle voci… Mai smettere
di credere… In se stessi e in generale… L’Agenzia federale vi aiuterà
instancabilmente… Il nostro unico compito è la formazione,
l’aggiornamento e la riorganizzazione continue… Contro ogni ostacolo,
interno ed esterno… Questa è la risorsa più importante… Il nostro più
grande capitale: gli uomini. Man power. Uomini su uomini… L’umanità…
Soprattutto qui, in questa scuola… Non è venuto a mani vuote… Non senza
una buona notizia…
Sollevò la busta. Von Benkdorff gli reggeva sempre l’ombrello.
L’ombrello vibrava.
Era per lui una gioia infinita, poter comunicare alla scuola che l’Agenzia
federale per il lavoro elargiva oggi una concessione straordinaria… La
concessione di un nuovo posto di lavoro…

68
Assaporava il silenzio tra le frasi.
Il posto di un istruttore aggiuntivo… Un impiego con tutti i crismi…
Come premio e incoraggiamento… In linea con il progetto pedagogico della
scuola… Per l’eccellente lavoro svolto da SPHERICON… Davvero una nuova
realtà, un pianeta nuovo per la formazione, la specializzazione e
l’aggiornamento… La vita come apprendimento e aggiornamento continui…
Rifletteteci… Mille grazie…
Passò a von Benkdorff la busta che conteneva il nuovo impiego. Indicò
Noske: «Per tutte le formalità consultate il mio assistente». In una mano von
Benkdorff reggeva la busta, nell’altra l’ombrello: non gliene restava libera
neppure una da stringere. Groener gli diede dei colpetti sulle spalle. Poi
avanzò verso l’elicottero. Gli altri istruttori non sapevano se fosse o meno
il caso di applaudire. Su energico cenno del direttore scolastico iniziarono
ad applaudire. Quindi applaudirono anche gli allievi. Le eliche
dell’elicottero cominciarono a muoversi. Noske discusse ancora alcuni
dettagli tecnici con von Benkdorff. Poi si diresse anche lui verso
l’elicottero, sotto l’ombrello di von Benkdorff. Contro il vento crescente
delle eliche, von Benkdorff riusciva a malapena a tenerlo dritto. Alla fine fu
costretto a rincantucciarsi indietro. Noske salì sull’elicottero, che decollò
subito dopo. Von Benkdorff li salutava con la busta. Sembrava quasi che gli
stesse volando via di mano. Anche istruttori e allievi facevano ciao con la
mano. L’elicottero sorvolava già i tetti della scuola e del capannone
confinante. Per un attimo oscillò indeciso nel vento. Poi volò via.
Per il resto del giorno ogni lezione venne sospesa. Riposo per tutte le
classi. Nel pomeriggio si tenne una consegna straordinaria di Coins. Basic
Extra (sessanta monete aggiuntive) per tutti i trainees. O almeno, quasi per
tutti. Nei corridoi regnava un’euforia mai vista. Le voci degli allievi
risuonavano più forti e limpide del solito. Il clima festoso contagiò sia
allievi che istruttori. Come se l’indomani potessero partire e rincasare.
Come se potessero fare le valigie un attimo dopo. Persino il custode aveva
un’aria amichevole e contenta. Gran parte della scuola era seduta in mensa,
sia trainees che istruttori. La loro gioia sembrava addirittura più marcata di
quella degli allievi. Fest invitò il suo team a bere insieme un cappuccino.
Brindarono a vicenda, sollevando i loro bicchierini di plastica. Fest
ringraziò per la disciplina dimostrata dal gruppo, per il contegno e la
capacità di resistere così a lungo in piedi. «Sapete» domandò dall’alto in
basso, a tutto il tavolo, «sapete cosa è successo oggi?» Gli allievi lo
intuivano. «Sapete chi era qua oggi?» Groener… «Sapete chi è Groener?»
Un dirigente regionale… «Un dirigente regionale! Sapete cosa significa
essere un dirigente regionale?! Sapete cosa significa?! Sapete quanto è

69
grande la sua circoscrizione?!» Gli allievi lo intuivano, ma non lo
sapevano. «Solo la sua circoscrizione?! Quanti collaboratori ha sotto di
sé?! Solo sotto di sé. Sapete quanti disoccupati sono registrati nella sua
circoscrizione?! Lo sapete?!» Nessuno di loro lo sapeva. «Quasi un
milione.» Fest si fece portare da un allievo un altro cappuccino. «E sapete
da chi era accompagnato?! Lo sapete?!» Dal suo assistente Noske… «Dal
suo assistente Noske… Sapete chi era e chi è adesso Noske?» Impiegò un
po’ di tempo, prima di trovare le parole per descrivere chi era stato e chi
era adesso Noske: Noske, il segretario personale di Groener. Molto più di
un segretario… Piuttosto, la mente di Groener… La mente dell’intera
Agenzia federale per il lavoro… Un esperto di statistica… Un eccellente
matematico… specializzato in Logica… Nato come filosofo… In origine ha
letto Karl Marx… Karl Marx… Perché no… E non solo Marx… Anche
Marcuse e Adorno… Perché no… Poi, la conversione… Durante un viaggio
in America… In un cinema della California… Nel mezzo di un film…
Uscito dalla sala era un uomo nuovo… Lo confidò alla sua
accompagnatrice: da ora in poi solo logica… logica, matematica e
statistica… Dottorato in Logica… Abilitato in Logica… Approdò
all’Agenzia federale per il lavoro… Si fece strada… Sviluppò nuovi
procedimenti statistici… Attraverso cui snellire statistiche vecchie
decenni… Eliminare disoccupati registrati per errore… Modificare assunti
infondati… Ripulire statistiche inesatte… Noske, il re del calcolo… Noske,
il filosofo… Noske, l’inventore di nuove formule… Il famigerato Noske…
Ancora oggi legge Marx, così, per scaricarsi…
Fest parlò fino a tarda sera di Noske: Noske che firma le sue statistiche a
volte con la sinistra, altre con la destra… Così, come gli va di fare…
Noske…
Karla Meier e Roland Bergmann non sedevano al tavolo con gli altri.
Erano in aule diverse, forzati al martellante e punitivo lavoro
autobiografico…
Fest parlava ancora di Noske. Beveva un cappuccino dietro l’altro. Nel
giro di un anno, così raccontava, Noske aveva ridotto le statistiche sui
disoccupati a mezzo milione. Mezzo milione…
In segreto, Karla non scrisse affatto il suo curriculum vitae, ma quello del
suo amico Roland, con il suo nome e il suo sesso, così come Roland non
scrisse affatto il suo curriculum vitae, ma quello di Karla, con il suo nome,
la sua data di nascita e il suo sesso…
Di chi inizia a occuparsi della propria condizione, non ci dovremo più
occupare. «Chi l’ha detto? Groener. Groener l’ha detto l’altro giorno. Ha
solo espresso un pensiero di Noske…»

70
Karla e Roland si spedirono via mail i rispettivi curricula, insieme a
lettere e brevi messaggi. Karla: «Non rivelerei nulla di me in nessuno dei
miei curricula. Non qui e non in queste circostanze. Non arriverei a tanto
neppure per un posto di lavoro». E aggiunse: «Mio caro, cosa faremmo mai
senza i nostri sogni, senza le nostre speranze?».

L’argomento base di tutti i discorsi da mensa non era ancora stato


ufficialmente toccato: il posto di lavoro. Soltanto l’indomani, nel corso
della lezione – a voce contratta, a più riprese, con drammatiche pause tra le
parole – Fest tirò in ballo il tema: il posto di lavoro. Sì, avevano sentito
bene. Non si erano ingannati. Non avevano fantasticato: un vero posto di
lavoro. BAT II a, sezione I a. Un impiego da istruttore. Un istruttore di questa
scuola. Con relativi diritti e doveri. Pausa. Non un mezzo lavoro, un lavoro
a tempo pieno. Regolarmente retribuito. Pausa. Il bando sarebbe uscito a
breve. Pausa. Il direttore scolastico ne aveva discusso quella mattina con il
gruppo degli istruttori. Pausa. Era sua intenzione circoscriverlo alla sola
scuola. Pausa. A nessun altro. Non pubblicarlo su alcun giornale. Neppure
su Internet. Pausa. Ogni allievo della scuola era pregato di candidarsi.
Pausa. Ciascuno di loro. Non una parola sarebbe uscita dalla scuola.
Almeno non dalla direzione scolastica. Pausa. Il bando sarebbe stato
appeso all’albo, durante la ricreazione. Pausa. Mai, nella storia di SPHERICON,
la direzione scolastica aveva fatto un’offerta del genere ai trainees. Pausa.
Ora occorreva solo restare calmi… Le narici di alcuni allievi iniziarono a
tremare… Mantenere i nervi saldi. Mancavano ancora alcune settimane alla
scadenza dei termini di candidatura. Pausa. Fest citò la scena chiave di un
film d’azione americano: «We’ve got to play this wisely now». Ogni allievo
aveva eguali chance. Età, sesso, diplomi scolastici e licenze professionali
da ora in poi non contavano più. Il concorso era un nuovo, radicale inizio.
Per la direzione scolastica non esisteva più né Premium, né Advanced, né
Basic, e neppure maturità, lauree o ulteriori proforma, solo le candidature.
Candidature credibili. Ogni istruttore aiuterà i suoi allievi. Lui, Fest, farà
del suo meglio. Le sue esperienze, il suo bagaglio… Appoggerà con tutto se
stesso ogni candidatura di Apollo… Ognuna di esse… Come se fosse lui
stesso a candidarsi per il posto… Come tutti gli altri istruttori… Canergie,
Hartz, Parsons… Da non sottovalutare… Philadelphia, Ricardo, Taylor…
Da non sottovalutare… Nessun timore degli altri nomi… Nessuna paura di
chissà chi, piuttosto rispetto… E attenzione… Careless talk costs jobs…
There will be job attacks and counter-attacks… We’ve got to play this
wisely now…
L’impiego venne bandito all’albo con le testuali parole: «A job for you».

71
Così, quasi distrattamente. Minimizzando. Le condizioni di candidatura
erano elencate a caratteri piccoli. Le domande dovevano essere indirizzate
alla direzione scolastica per iscritto e con oggetto: Trainerjob. La
candidatura doveva essere trasmessa via mail. Ogni domanda doveva
contenere i seguenti documenti: una lettera di candidatura (covering letter),
un curriculum vitae, eventuali file audio con curricula acustici, anche file
animati con immagini (foto, grafici e video di candidatura). In inglese o in
tedesco. Era permesso anche usare entrambe le lingue in combinazione, se
non addirittura preferibile: I wish to apply for the post of a school trainer.
Find enclosed a bilingual curriculum vitae… Tutte le domande presentate
venivano scrupolosamente ordinate ed esaminate dalla direzione scolastica.
Decisivi per il successo erano i criteri di contenuto e di qualità formale.
Contenuto della candidatura: attrattività biografica e consistenza, linearità
della struttura dell’intreccio (esposizione, punti di svolta, scioglimento
finale) ecc. Forma della candidatura: qualità grafica e tipografica delle
lettere di candidatura e di tutta la documentazione allegata; taglio
multimediale (piuttosto che monotematico) e impatto comunicativo del
contenuto. La direzione scolastica selezionava cinque candidati/e tra le
domande più convincenti, invitati poi al colloquio di presentazione. Tali
colloqui si svolgevano di sabato sera, sul palco della hall scolastica. Ogni
colloquio di presentazione durava trenta minuti: iniziava con la
performance individuale di quindici minuti di ciascun candidato, sotto
forma di relazione orale, prova teatrale, show, ballo o musica. Seguiva
un’interrogazione incrociata di quindici minuti, con i candidati faccia a
faccia con la direzione scolastica e con il corpo docenti. A fine serata
veniva selezionata la presentazione di candidatura meno convincente,
attraverso il voto del pubblico. La direzione scolastica si riservava il
diritto di consigliare il pubblico. Dopo l’esclusione di un aspirante, il
procedimento passava al giro successivo, sabato seguente con i rimanenti
candidati. Di nuovo veniva selezionato ed escluso l’aspirante meno
convincente, fino a che Fest decretava il candidato vincitore. La finale si
svolgeva il quinto sabato sera, una settimana prima della fine del trimestre.
Il procedimento adottato era dettagliato, completo e democratico. Teneva
conto della sensibilità e del parere di tutti gli allievi, dunque dell’intera
comunità scolastica. Si realizzava poggiandosi sulle più ampie basi
valutative. Conteneva elementi sia tecnici che plebiscitari. Pretendeva il
massimo da ciascun candidato, questo per un lungo lasso temporale.
Osservava e formulava un giudizio su molteplici piani. Esigeva,
introduceva, illustrava, chiariva. Non affidava niente al caso.
Ansgar Fest osservò da sopra le spalle i suoi allievi. Sedevano in aula,

72
ai computer, e battevano le loro candidature. Oppure limavano gli incipit
delle loro lettere. O le foto da candidati e i grafici delle loro vite. Soltanto
le immagini erano una fatica di Sisifo. Scannerizzate al computer da
normalissime foto oppure scattate con la macchina digitale della scuola:
perlopiù in palestra, accanto alla palma. La maggior parte dei curricula
conteneva diverse foto del candidato, disposte l’una dopo l’altra, come
durante la proiezione di diapositive elettroniche che presentano il soggetto
nelle sue più molteplici sfaccettature: in varie pose, con vestiti sempre
nuovi, in momenti e location diversi… Al lavoro, nel tempo libero, facendo
sport. Ansgar Fest annuiva con apprezzamento, puntando i monitor. Suggerì
solo piccoli aggiustamenti: voleva alcune immagini più grandi. Altre più
colorate. O più chiare. O più nitide. O leggermente modificate, per esempio
ritoccate. Alcune parti del corpo dovevano assolutamente essere
valorizzate. Perché no? «Puntate il tutto per tutto. Esiste solo questa unica
chance.» Citava Machiavelli, che una volta pareva aver detto: «La politica
non è mai uno strumento della religione, al contrario, la religione è uno
strumento della politica». «Intendete.» Lo stesso, secondo Fest, valeva per i
curricula. I curricula non sono mai rappresentazioni della vita, al contrario:
la vita è solo stoffa, materia grezza per curricula che già vivono in sé.
Niente di più e niente di meno. I curricula obbediscono alla loro verità. E
alle loro opportunità. Così come ai loro bisogni. Un curriculum vitae
vincente non è dato da ciò che è stato, ma da ciò che avrebbe potuto o
dovuto essere, per condurre un’esistenza al successo. Non un senso
veritiero ma un senso verosimile, questo pretendeva Fest dai suoi allievi.
Non la coincidenza tra curriculum vitae e vissuto, ma coerenza interna. «Se
qualcuno di voi non ha il diploma di scuola media, allora non può avere la
maturità.» Altrimenti si infrange la regola di coerenza interna. «Se però
qualcuno di voi scrive di avere sia il diploma di scuola media che la
maturità, anche se non ha né l’uno né l’altro, allora questo è un dato di fatto
coerente. Consegue che può stare scritto in un curriculum vitae.» Fatto
deriva da facere, fare. Just do it. Non esistono fatti senza un qualcosa di
fatto. Non esistono dati di fatto che non siano stati fabbricati. Dato di fatto
deriva dalla parola fare. Nient’altro che da fare. Just do it. Il fulcro è la
coerenza interna, nient’altro che la coerenza interna, soprattutto in questa
candidatura. Che è slegata da ogni realtà esterna. Non esistono candidati
esterni. Non ci sono periti esterni. Non esiste un fuori, solo il dentro: la
coerenza interna dei curricula e la forza di persuasione di ogni candidato.
«Lo capite o no?!» Talvolta Fest appariva irritato e snervato: «Lo afferrate
o no?! Potete scrivere quello che volete nei vostri curricula. Basta che lo
crediate giusto. Sempre che sia coerente. Se vi sentite vecchi, cambiate

73
l’età. Se non vi sta bene il luogo di nascita, allora cambiatelo. Se non siete
soddisfatti del vostro diploma professionale, allora scrivete maturità».
Anything goes, era la risposta fissa di Fest. Niente è impossibile. Finché
tutto è plausibile. «Ricominci ancora da capo con il suo curriculum vitae»
disse a un allievo da dietro: «Faccia tabula rasa». All’inizio un curriculum
vitae è come una parete bianca. Una tela. Niente di più, niente di meno. I
curricula sono opere d’arte in sé. Nessuno si interesserà ad attestati e a
certificazioni. Nessuno. Neppure il direttore scolastico. Odia attestati e
certificazioni. «Voi siete la certificazione. Voi siete gli attestati di voi stessi.
Questo attestato è il suo attestato.» «Collaudatore di auto per la
Volkswagen.» Si leggeva su un monitor. «Perché no» fu la replica di Fest.
«Animatore alle Gran Canarie.» «Molto meglio» gridò in classe. «Ma non
con questo carattere… Tutto, ma non in Times New Roman… Prenda
Impact… Meglio ancora Britannic Bold… O Arial Black… Voglio vedere i
caratteri danzare…» E passò al monitor successivo. «Che significa?!» gridò
nella schiena a un’allieva. «Che significa?!» La fioraia. Aveva sempre
desiderato fare la fioraia: «Negozio di fiori cerca fioraia». L’annuncio di
lavoro era ancora ripiegato in tasca. Lei, la fioraia, nel frattempo si era
ringiovanita di dieci anni: sulla trentina, non più sulla quarantina. Così
stava scritto nel suo curriculum vitae, un curriculum vitae che lei – sotto
l’influsso delle esternazioni di Fest sulla coerenza interna – aveva
continuamente modificato: a suo vantaggio. E a vantaggio del suo amore per
i fiori. «Cosa significa?!» Che si volesse candidare per l’ennesima volta a
un posto da fioraia, invece che per un posto da istruttore? Cosa aveva mai
contro il posto da istruttore?
«Niente.»
Ma?
«…»
Ma?
«…»
Fest si sentì personalmente offeso dal suo curriculum vitae. Lo denigrò,
bollandolo come completamente sbagliato, di un altro pianeta, contrario a
ogni consiglio e a ogni ragionevolezza. Di cosa aveva mai paura? L’idea di
lavorare in questa scuola, come istruttore, forse la opprimeva? Lui
l’apostrofò come una danzatrice di sogni e di ansia. Il suo curriculum vitae
era ridicolo. Doveva ricominciare da capo. Tabula rasa. Lo cancellò con un
solo movimento del dito. Lei restò davanti allo schermo vuoto. Con la sua
camicetta ricamata a fiori. «E rifletta una buona volta sul suo parrucchiere.»
L’allieva fissava il monitor. «Veda se non sia anche il caso di dimagrire un
po’. Perlomeno un po’. Per il bene della sua candidatura.» Le guardò la

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nuca. «Basic Minus! Le farà bene.» E si diresse verso lo schermo
successivo. «Studio del latino.» Fest guardò incredulo. Poi disse di scatto:
«Perché no? Un’originale provocazione». Al limite, adatta a riabilitare
curricula di scarto. «Perché no? Continui! Voglio leggere un tipo di sport da
combattimento. Qua sotto, voglio vedere un tipo di sport da combattimento.
Nient’altro! Niente vegetariani, voglio carnivori. Niente pony norvegesi,
voglio cavalli da corsa. Non corso della vita, ma corsa di vita…»
Raggiunse il prossimo computer: «Cambi password. Cambi password ogni
giorno. Le password frivole devastano il lavoro…». Ancora: «Esiste solo
questo unico posto di lavoro…». Ancora: «Un posto di lavoro equivale a
una medaglia. Non d’argento, d’oro. Solo l’oro vale tra le medaglie. Fateci
caso! Trenta argenti non sono nulla paragonati a un oro. Neppure sessanta
argenti… Neppure cento… Cento occasioni mancate! Cento sconfitte! Cento
scappatoie e cento scusanti… Esiste solo questo unico posto di lavoro! Non
un secondo, non un terzo, solo questo unico posto di lavoro…». Arrivò al
computer di Karla Meier.
Come sta andando?
Annuì con il capo.
La osservava da dietro.
Sedeva inerte.
A cosa sta lavorando?
Cercava una risposta.
A cosa sta lavorando?
«Non so.»
«Cosa significa: non so?!»
«Io…»
«Cosa sta scrivendo?»
Nessuna risposta.
«Cos’è questo?»
Lo sguardo fisso sullo schermo.
«È un curriculum vitae?»
«…»
«È un curriculum vitae?»
«No.»
«Dunque, non è un curriculum vitae.»
«Penso di no.»
«Ma?»
«…»
«Solo qualche appunto.»
«Appunto di cosa?»

75
«Io…»
«Non lo sa?!»
«No.»
«Dunque lei non sa a cosa sta lavorando?»
Nessuna risposta.
«Lei non sta affatto lavorando a una candidatura.»
«Io…»
«Lei non sta affatto scrivendo una candidatura.»
«No…»
«Cosa?»
«No.»

Gli appunti di Karla. Li scriveva per sé oppure in frettolose e-mail a


Roland Bergmann, post scripta alle loro conversazioni notturne nella
Weekend-Suite II. Parafrasando Roland Bergmann: Speakend-Suite. Karla
gli rispose con una sola frase: «Yes, my dear, let us speak our end».
E-mail di Karla: lavorerai alla tua candidatura?
E-mail di Roland: non so. E tu?
E-mail di Karla: no.

E-mail di Karla: la notte scorsa ho sognato questa domanda: chi è davvero


lei? Credo fosse Fest a chiedermelo. Io rispondevo: sono la più riservata di
tutti. Persa nei miei ricordi e nei miei pensieri. Non sono nient’altro.
Perlomeno, non qui… Forse dovrei scrivere nel mio curriculum vitae: non
sono, dunque sono…
E-mail di Roland: a proposito di curriculum vitae: certo che la mia vita
non è perfetta. O dovrei forse dire: spigolosa, legnosa, ingarbugliata,
bislacca…
E-mail di Karla: bislacca?
E-mail di Roland: ho fatto troppi errori. Ho sbagliato nello studio, nel
lavoro, ho letto libri sbagliati. Mi sono fatto idee sbagliate. Ho agito nel
modo sbagliato. Per esempio, una volta durante un’escursione in montagna.
Mi imbattei in un sentiero sbagliato e poi sbagliai a mettere il piede a terra.
Mi slogai la caviglia. Ci mancava solo questa, mi disse un’amica. Avrei
dovuto subito chiederle: cos’altro ti aspettavi?
E-mail di Karla: piccole battute tra amici che feriscono.
E-mail di Roland: allora è la parola che più odio. Allora come va lo
studio? Quante volte me l’hanno chiesto, spesso con la parola allora.
Allora come va lo studio? Chiesto in modo affabile, sbirciandomi con la
coda dell’occhio. Oppure semplicemente domandato alla cieca, nel mio

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isolato. Allora come va lo studio? Avrei risposto volentieri: Allora come
va l’allora? In quel periodo fondai un club Antiallora.
E-mail di Karla: una volta soltanto avrei voluto provare la sensazione di
rifiutare un posto di lavoro, ringraziando. Nella migliore delle ipotesi, un
posto di lavoro per cui non mi ero affatto candidata. Volevo prendermi
questa libertà. Rifiutare qualcosa, prima di essere rifiutata io stessa. Una
forma di candidatura al contrario. Una sorta di scandidatura. Mi sarei
mangiata con gli occhi l’annuncio di lavoro più importante di tutti, sui
giornali, per poi rifiutarlo con mille grazie, con le stesse parole che, da
anni, ottenevo in risposta: «Egregi signori e signore. I miei migliori
ringraziamenti per la vostra cortese offerta di lavoro. Con immenso
rincrescimento sono costretta a comunicarvi che l’impiego non incontra
pienamente le mie aspettative. Vi auguro grande successo a venire per il
futuro della vostra attività lavorativa e buona fortuna nella ricerca di una
candidata idonea al posto. Cordiali saluti ecc.».
E-mail di Roland: come deve essere gratificante.
E-mail di Karla: soltanto l’espressione a venire. Che sensazione,
scriverla per intero, da una prospettiva opposta. Grande successo a venire.
E-mail di Roland: hai mai scritto una lettera del genere?
E-mail di Karla: purtroppo no.

E-mail di Karla: per tutta la vita ho parlato troppo tardi.


E-mail di Roland: parlato troppo tardi?
E-mail di Karla: davanti agli amici mi definivo così, una parlante
tardiva. Spesso nei momenti decisivi di una conversazione non mi veniva in
mente niente. A volte restavo completamente muta. Più un discorso mi
feriva, più mi mancavano le parole. Spesso ho trovato le risposte molto
tempo dopo i momenti cruciali di un dialogo, quando ormai era troppo tardi
per rispondere, perlopiù di notte, a letto, quando non riuscivo a dormire.
Allora sì che mi venivano in mente le risposte vere. Frase dopo frase. Avrei
potuto scriverci sopra romanzi interi.
E-mail di Karla: se non avessi parlato così terribilmente in ritardo,
magari oggi non sarei qua. Sai che da ragazzina volevo fare la cantante?
E-mail di Roland: davvero?
E-mail di Karla: sì.
E-mail di Roland: perché non lo scrivi nel tuo curriculum vitae?
E-mail di Karla: perché volevo fare davvero la cantante.

E-mail di Roland: Nel mio curriculum vitae devo forse scrivere che una
volta mi battevo a duello?

77
E-mail di Karla: per carità, no.

E-mail di Karla: visiterei volentieri questo club.


E-mail di Roland: quale club?
E-mail di Karla: Il club Antiallora che hai fondato.
E-mail di Roland: davvero?
E-mail di Karla: sì, volentieri.

E-mail di Karla: conosci delle poesie a memoria?


E-mail di Roland: credo di no. E tu?
E-mail di Karla: «Ciò che dicono i realisti mi appare così fuori
dall’irrealtà».
E-mail di Roland: chi lo sostiene?
E-mail di Karla: una poesia.
E-mail di Roland: Lichtenstein mi ha chiesto se posso essere definito un
essere umano.
E-mail di Karla: Se lo fossi, di certo non qua.

In tarda serata Karla fu convocata in una delle aule: non convocata,


condotta. Ansgar Fest andò da lei e la invitò a seguirlo. La portò in un’aula
fuori mano. Fest le indicò di sedersi. La fissava muto. Alla fine disse:
«Per cortesia, mi descriva la sua strategia di candidatura».
«Io…»
«Sì?!»
«Io non ho… alcuna strategia.»
«No?»
«No.»
Pausa.
«Quindi ha intenzione di candidarsi a caso, senza la benché minima
strategia.»
«Io…»
«Sì?!»
Pausa.
«Lei sa che per candidarsi a questo impiego c’è un termine di scadenza?»
«Sì.»
«Tuttavia non ha ancora preparato una strategia.»
«No.»
«Non ha ancora idea di come fare a candidarsi per questo impiego?!
Nessun piano per il suo curriculum vitae?!»
«No.»

78
«Posso vedere una buona volta la sua documentazione per la
candidatura?»
«Sta nel computer.»
«Allora andiamo al suo computer.»
«Il computer è nell’altra aula.»
«Allora andiamo nell’altra aula.»
Pausa.
«Cosa stiamo aspettando?»
Pausa.
«Esiste una qualche documentazione per la candidatura, vero?»
«…»
«Esiste una qualche documentazione per la candidatura, o no?»
«No.»
«Nessuna documentazione?»
«No.»
«Come mai?»
«Io…»
«Per favore parli più forte!»
«Io… non sono…»
«Più forte! Non la comprendo.»
«Non sono sicura… se… candidarmi o meno per questo impiego…»
Pausa.
«Lei non è sicura se candidarsi o meno per questo impiego?!»
«Sì.»
Pausa.
«Le è chiaro quello che sta dicendo?!»
«…»
«Le è chiaro?!»
«…»
«Sul serio lei si pone la domanda se sia o meno il caso di candidarsi per
questo impiego?!»
«Sì.»
«Più forte! Non la comprendo!»
«Sì.»
Pausa.
«Sa dove si trova?!»
«…»
«Dove ci troviamo?!»
«A SPHERI…»
«Dove?»

79
«A SPHERICON.»
Pausa.
«Dunque ci troviamo a SPHERICON.»
«Sì.»
«E perché siamo qua?!»
«…»
«Perché siamo qua?!»
«Non lo so.»
«Come prego?!»
«Non lo so.»
«Lei non lo sa. E qua, in questo posto, lei, in tutta serietà, si chiede se sia
o meno il caso di candidarsi per un impiego?!»
«…»
«Non un impiego qualsiasi, pagato più o meno bene, un vero posto di
lavoro…»
«…»
«Qui e ora!»
«…»
«Retribuito in piega regola.»
«…»
«All’interno di questa scuola.»
«…»
«Lei ha 36 anni. Da anni è disoccupata, forse lo sarà per il resto della
sua vita. E davvero si pone la domanda se sia o meno il caso di candidarsi
per questo impiego?»
«…»
«Lei è alla deriva, in un oceano di disoccupazione di massa, e si pone
una domanda del genere?»
«…»
«Questo voleva dirmi?»
«…»
«Questo voleva dirmi?»
«Sì.»
«Come prego?»
«Sì.»

Nel primo colloquio Karla disse: «Non sono sicura di candidarmi per
questo impiego». Più tardi affermò con un debolissimo filo di voce: «Non
so se voglio candidarmi per questo impiego».
«Come prego?»

80
«Niente.»
«Come prego?»
«…»
«Per favore, parli a voce più alta.»
«Non so… non so… se… voglio candidarmi per… questo impiego.»
Pausa.
«Perché non lo sa?»
A interrogarla non era più Ansgar Fest, ma lo psicologo della scuola,
Lichtenstein, prima nella stanza 101, poi nelle stanze 102 e 103. «Perché
non lo sa?» Karla balbettava. Riusciva ad arrivare solo a metà frase, prima
di essere interrotta, o di troncare lei stessa la risposta. Lichtenstein le diede
un bicchier d’acqua. «Perché non lo sa?» Il tono della sua voce cambiava di
minuto in minuto. A momenti sembrava affabile e gioviale, con
un’espressione rilassata sul volto, quasi ogni risposta fosse possibile e
lecita. «Parli apertamente. Qua non esistono tabù. Si sente bene? Mangia
abbastanza? Ha problemi in famiglia?» Poi domandava di nuovo, in tono
intransigente, come se la risposta ammissibile fosse solo una. «Perché non
lo sa?»
Karla replicò dopo una lunga pausa e a voce ancora bassissima: «Non lo
so».
«Lei non lo sa.»
«No.»
«Questo è tutto quello che le viene in mente?»
«…»
«Questo è tutto quello che le viene in mente?»
«No.»
«Ma?»
«…»
«Ma?»
«…»
«Alcune settimane fa, durante il nostro primo colloquio, lei mi disse che
non si sarebbe augurata nient’altro che un posto di lavoro. Che dopo tutto
questo tempo non pensava ad altro se non alla calma e alla serenità di un
semplice, tranquillo posto di lavoro. Che darebbe qualsiasi cosa, soltanto
per trovare questa pace.»
«…»
«Ha detto questo?»
«Sì.»
«Ma?»
«…»

81
«Ma?»
«…»
Pausa.
«Eccola, la prospettiva per la calma e la serenità di un semplice,
tranquillo posto di lavoro.»
«…»
«Oppure semplicemente questo lavoro non è abbastanza per lei?»
«…»
«È così?»
«…»
«Perché ha paura di questo posto di lavoro?»
«Perché…»
«Perché?!»
«Perché…»
«Perché ha paura di questo posto di lavoro?»
«…»
«Si sente gravata da questo impiego?»
«…»
«Dunque si sente gravata?!»
«…»
«Sì?!»
«Sì.»
Pausa.
«E poiché si sente gravata, non si candida.»
«…»
«È così?»
«…»
«È così?»
«Sì.»
Pausa.
«Crede forse» chiese ancora Lichtenstein «crede forse che sia una
motivazione sufficiente, non candidarsi per un posto di lavoro perché ci si
sente gravati da questo?»
«…»
«Crede forse che gli altri non si sentano egualmente gravati? Eppure si
candidano lo stesso.»
«…»
«Sì?!»
«…»
«Allora perché non si candida?»

82
«…»
«Perché non si candida?»
«…»
La invitò ad alzarsi. La condusse nella stanza successiva, la stanza 102.
Le indicò di sedersi. Abbandonò la stanza. La lasciò da sola per venti
minuti. Karla era seduta vicino a una cassetta strapiena di forbici. Dalla
parete pendeva una raffigurazione anatomica del cervello umano. Accanto,
alcuni modelli psicologici di comportamento e l’annuncio di una
conferenza: La disoccupazione come fenomeno genetico-fisiologico.
Lichtenstein entrò nella stanza, si accomodò di fronte a lei, le offrì una
gomma da masticare. Karla sedeva immobile. Lichtenstein proseguì nella
sua osservazione: «Tutti gli uomini si sentono continuamente gravati dalle
loro responsabilità, eppure agiscono. La vita intera è un onere, ciò
nonostante, viviamo».
«…»
«Concorda con me?»
«…»
Pausa.
«È innamorata?»
«…»
«È innamorata?»
«No, io…»
«No?»
«No.»
«Eppure?»
«…»
«Quindi è innamorata.»
«…»
«Perché no? Cosa le impedisce di esserlo? Al di là del non volersi
candidare per questo posto di lavoro, niente la ostacola.»
«…»
«Ha trascorso alcune notti nella Weekend-Suite II con Roland
Bergmann?»
«Sì.»
«Allora?»
«…»
«È stato bello?»
«…»
«Roland Bergmann ha 39 anni.»
«Sì.»

83
«Dunque non è più giovanissimo.»
«No.»
«Ha il diploma di maturità e ha studiato all’università. Conta qualcosa
per lei?»
«…»
«Conta qualcosa? Oppure no?»
Pausa.
«Di certo è molto sensibile e comprensivo.»
«…»
«Sa ascoltare.»
«…»
«Per notti intere.»
«…»
«Crogiolarsi nel passato.»
«…»
«Senza un qualsiasi pensiero rivolto al futuro.»
«…»
«Senza sfiorarla, neppure una volta.»
«…»
«Se questo non è amore.»
«…»
«E sa scrivere lettere.»
«…»
«Il comfort del lavabo in stanza era allettante?»
«…»
«E la vista del letto intatto?»
«…»
«Era allettante?»
Pausa.
«Era allettante?!»
Lichtenstein spense la luce. Per un po’ rimasero al lume di una lontana
lampada da tavolo. Le offrì del caffè. Poi le chiese, cambiando tono: «Non
ha mai pensato che con un comportamento del genere danneggia il suo
amico?».
«…»
«No?!»
«…»
«Che lo mette in cattiva luce… Che lo rende impresentabile… Con i suoi
quasi quarant’anni.»
«…»

84
«Che con il suo rifiuto di candidarsi rovina anche la candidatura del suo
amico?! Non solo il suo amico, ma tutti i candidati di Apollo, compreso il
suo istruttore.»
«…»
«Vuole tutto questo?!»
«…»
«Vuole tutto questo?!»
«No.»
«No?»
«No.»
«Perché allora non si candida?»
Alla fine del colloquio Karla sedeva ancora impassibile. Lichtenstein le
passò carta e penna: «Scriva». Si alzò, lasciò la stanza, poi tornò di nuovo
indietro: «Scriva tutto quello che pensa. Scriva tutto quello che ha dentro».
Karla restò seduta inerte, fino al mattino seguente.
Ignorare semplicemente il suo rifiuto, trattarla come se fosse una
candidata come tutti gli altri, senza prendere alcun provvedimento nei suoi
confronti, tutto ciò eccitava Armstrong. Non esisteva pericolo né di fuga né
di occultamento. Le avrebbero fatto tacitamente intendere che sarebbe stata
inserita automaticamente nel procedimento di selezione, in quanto allieva di
SPHERICON, anche senza una sua candidatura. Ogni allievo, volente o nolente,
è un candidato.

E tuttavia la notizia del suo rifiuto circolava da tempo tra gli allievi. La sua
permanenza in Apollo poteva influire pericolosamente. Anche la sua sola
presenza, per gli altri allievi, sarebbe stata un continuo riportare alla mente
la sua aperta rinuncia. Un’onta per l’intero procedimento di candidatura, la
denigrazione del posto messo al bando. In ultima istanza, la denigrazione
della scuola stessa.

«Di chi inizia a occuparsi della propria condizione, non ci dovremo più
occupare.» Ditelo a lei. Ditelo a lei, nel bene come nel male. Glielo dica,
con più slancio possibile.
I wish to apply for the post of a school trainer… Karla aveva scritto e
cancellato ripetutamente questa frase. Così come i suoi curricula. Scritti e
di nuovo cancellati. Ogni curriculum vitae iniziava con una nuova infanzia.
Fest ammetteva solo nuove infanzie: infanzie temerarie, infanzie audaci,
infanzie bizzarre, infanzie premiate. Un’infanzia e basta non gli bastava.
Ogni infanzia era un terreno di spunti, un motto di vita, un diverso impianto
narrativo. Infanzie di apparizioni in tv e di balletti, di ore di canto, di gare

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di equitazione… Infanzie che parlavano più lingue. Niente infanzie
obbedienti del tipo andare a letto presto, ma infanzie di levate mattutine,
infanzie estreme. Infanzie che svettavano. Infanzie convincenti, infanzie
meno convincenti… Infanzie a garanzia di un’adolescenza felice…
Garanzia di una vita felice… Di una candidatura fortunata…
«Con la presente mi candido…» A un certo punto scrisse: «Con la
presente mi scandido…». Per questo come per qualsiasi altro impiego.
Dopo scrisse: «Con la presente mi congedo da ogni successivo impiego. Mi
congedo e mi ribello alla vostra vita raggiante». Lo scrisse in un’e-mail a
Roland Bergmann e cancellò tutte le sue foto di candidatura. Delete!
Delete! Disgustose! Roland Bergmann le rispose con una parola:
«Adorabili!».
Le foto degli altri allievi le apparivano addirittura più brutte delle sue.
Occhi da candidato, nasi da candidato, capelli da candidato, bocche da
candidato, smorfie da candidato… Ghignavano sugli schermi durante le
interminabili mostre di diapositive… Faccia da candidato su faccia da
candidato… Con e senza occhiali da sole… Con e senza palma… Con
vestiti diversi e a distanze diverse… Sempre più ravvicinate
all’osservatore… Primi piani di labbra rossissime… Con tanto di fumetti
che salutavano a caratteri scombinati: Hi. How are you?! Oppure: Who are
you? Molte immagini erano arricchite da file audio, che partivano in
contemporanea con le foto: Hello, my name is… I was born in Ulm…
Immagine successiva. My school… Le foto parlavano con la voce dei
candidati. Oppure con voci scaricate da Internet: Hi, I want to talk to you
about your job offer. Oxford English. Oppure inglese versione reggae.
Oppure tedesco, la voce di uno dei protagonisti di Job Quest: «Vorrei
questo impiego, nient’altro che questo impiego, niente di più e niente di
meno che questo impiego!». In foto, molti dei candidati erano quasi
irriconoscibili, fatto che Fest trovò positivo, molto positivo.
Karla cercò di tenersi più defilata possibile, lontana dalla lotta intestina
tra gli allievi per accaparrarsi la macchina fotografica digitale della scuola.
Non voleva immischiarsi. E neppure voleva essere fotografata in palestra,
davanti alla palma. Né altrove. Pensava all’eliminatoria finale, all’ultimo
colloquio di presentazione sotto forma di show del sabato sera, sul palco
della hall scolastica. Che espressione poi: eliminatoria finale.
La performance individuale. E l’annessa interrogazione incrociata. Nei
corridoi risuonavano già le prime prove delle performance: allievi che
cantavano da soli, accompagnati dalla musica dei ghettoblaster portatili.
Canzoni d’amor cavalleresco nelle melodie e nei testi di vecchie colonne
sonore. I want you to want you, I need you to need you, I love you to love

86
you… Cantavano del posto di lavoro come se stessero celebrando il più
grande amore della loro vita. Chi non cantava si esercitava in un qualche
discorso, in assillanti monologhi di candidatura: «Sono… Voglio…
Credo… Sarò… Potrei…». Karla li ascoltava. Ascoltava il tono nasale e
lamentoso di una canzone hip-hop. Non riusciva a capire se provenisse
dalla radio o se fosse il canto ibrido di un allievo. Who knows. Avvertiva
un trafficare continuo nei corridoi, un viavai ininterrotto, un correre e un
saltare pensando al posto bandito. Aveva già davanti a sé l’immagine
abbagliante di chi, alla fine, l’avrebbe spuntata: un sabato sera, sul palco
della hall scolastica, stretto tra una compiaciuta gratitudine e un disarmante
imbarazzo, nelle braccia del direttore scolastico, spalleggiato dagli evviva
del pubblico. The winner is… Karla se ne stava seduta oppure distesa sul
letto della Weekend-Suite II. Vi era stata condotta. Provvisoriamente. In
mancanza di altre stanze. Anche perché la direzione scolastica non sapeva
come procedere con lei. Un mese prima era stata espulsa – senza
temporeggiare, nel giro di un’ora – con le relative misure da far adottare
all’Agenzia federale per il lavoro. Delete! Delete! Da un po’ di tempo,
però, la direzione scolastica aveva l’ordine dell’Agenzia federale di
trattenere momentaneamente tutti gli allievi colpevoli di infrazioni
disciplinari. Si moltiplicavano i casi di disoccupati che vagavano senza
meta nel quartiere, senza né status né progetti, depredando abitazioni e
negozi. Si moltiplicavano i casi di distributori di benzina incendiati…
«Tutti gli allievi soggetti a provvedimenti disciplinari sono rigorosamente
da trattenere all’interno dell’area scolastica, fino alla scadenza del
provvedimento, consultare Piano Bianco» era la disposizione dell’Agenzia
federale.
Karla doveva essere immediatamente allontanata dal suo team di
candidatura e – salvo nuovi ordini – alloggiare in una stanza separata. I suoi
familiari ne dovevano essere messi al corrente. Per ragioni legali. Se non
subito, nei giorni a seguire. Con Apollo doveva essere interrotto ogni
contatto. I pasti le venivano consegnati da istruttori di altri team. Trattarla
con correttezza era fondamentale per la direzione scolastica. Poteva portare
con sé tutte le sue cose. Fu persino promossa da Basic Minus a Basic.
Liberissima di leggere. E, una volta al giorno, di andare all’aperto nel
cortile, sotto il tassativo divieto di avvicinarsi agli altri trainees. Di solito
Karla compiva i suoi giri al calar dell’oscurità: le giornate si stavano
accorciando. Il cortile era deserto. Dentro le aule brillavano i monitor dei
computer. Da lì, Karla fu avvistata… Solo di sfuggita, con la coda
dell’occhio: eccola là, mentre corre… L’incarnazione della rinuncia
gratuita… Lo spettro dell’incarnazione… Guai a finire come lei… Là, in

87
mezzo al cortile… Vicino alla linea blu… Sul calar della sera. Un essere
umano eliminato, solo la sua sagoma era ancora in vita… Rimozione. Da
eliminare. I contabili dell’Agenzia federale eliminavano alla velocità di
millisecondi. Non si era mai verificato nulla del genere, sosteneva Fest.
Infrazioni ai telefonini sì, Coins clonati, macchinette automatiche
scassinate, virus nei computer, scappatelle notturne, persino fughe, ma nulla
del genere. Praticamente insuperabile. Neppure il fiasco di un altro allievo
poteva batterla. Quando il caso divenne pubblico, tutta la scuola fu
attraversata da un lungo, profondo sospiro. Nelle aule, i trainees restavano
incollati ai monitor, come se anche il minimo sguardo dalla finestra potesse
assottigliare le loro chance di candidatura.
Sul comodino del suo letto poggiava un’impeccabile lettera di
candidatura. Redatta a suo nome dalla direzione scolastica. Mancava solo
la firma di Karla. Libera di sottoscriverla in qualsiasi momento. E di
chiamare immediatamente, per trasmettere la candidatura in segreteria.
Giorno e notte. La porta della scuola era sempre aperta. Sempre aperta.
Lichtenstein e Fest si avvicendavano: «Perché non firma?». Prima e dopo i
pasti: «Perché no?! Cosa ha davvero contro questo posto di lavoro?!».
Fest: «Lei si sta buttando via… Il suo talento, le sue opportunità, la sua
vita intera». E ancora: «Cosa ha realmente contro questo posto di lavoro?!
Qualcuno la tiene sotto pressione?! Parli apertamente. O forse questo
impiego non è pagato abbastanza bene?! È al di sotto delle sue aspettative?!
Inferiore al suo livello?! È questo il punto?! O, per principio, non le
interessa affatto lavorare?!». Ormai era quasi fuori dalla stanza, quando si
voltò: «Il suo amico Roland Bergmann ha presentato una candidatura
folgorante, la migliore di tutto Apollo… Sentirà ancora parlare di lui…».
Veniva accompagnata in bagno e alla toilette e poi di nuovo ricondotta
nella suite. Per la sua sicurezza. Tre volte al giorno. Le fu comunicato di
raccogliere tutte le sue cose e di tenersi pronta. Dagli altoparlanti, nel
corridoio, rimbombavano senza tregua le puntate di Job Quest. L’eroe di un
episodio attraversava il Lago di Costanza a nuoto. Così, perché gli era
saltato in mente di farlo. Superò le boe di uno dei bagni della spiaggia, per
spingersi fin dentro il lago. Più al largo nuotava, più maturava in lui la
decisione di attraversarlo tutto a nuoto. Forse addirittura di annegarci
dentro. Alcune ore dopo, un yacht svizzero lo raccolse: il proprietario gli
promise un lavoro. Proprio così. E disse: «Mi scappa da ridere. Ridiamoci
su!». Le prime, avvolgenti note della famosa melodia happy end
pervadevano la scena finale di ogni puntata, prima come un eco lontano,
sullo sfondo, poi sempre più forti e chiare, accompagnate dal crescendo del
contrabbasso, che picchiava veloce, velocissimo, come tanti pugni sferrati

88
sul tavolo o contro una porta: «Sì, è così. Esiste ancora una giustizia al
mondo. Non siamo ancora completamente allo sfascio!». E cominciava la
puntata successiva.
O la replica dell’ultimo episodio. «Non farlo, per favore non farlo»
implora la ragazza al suo uomo. Che risponde: «Faccio come voglio!». Sta
progettando di dirottare un aereo. Lo farà, se entro lunedì non trova lavoro.
«Ti prego, no» grida la ragazza in lacrime. Lui non dirotta l’aereo. Vola
clandestino fino a Miami. E là trova lavoro. Lavoro!
Quando non veniva trasmesso Job Quest, scorrevano i tabulati di
interminabili notizie economiche. Annunciavano segnali di vicina ripresa,
ormai manifesti ovunque: nei numeri in risalita, nelle innovative scoperte,
in fiammanti impianti industriali, nelle teste di sempre più cittadini, nel
clima di crescente fiducia, nelle previsioni di un famoso astrologo: «Vedo
luce… Luce oltre le stelle… alla fine dell’oscurità… Luce sui prati… e sui
boschi…Vedo paesaggi illuminati… E uomini al lavoro… Aerei e auto in
festa…». Altre voci spingevano a tener duro, assicurando sui dati: «Ancora
qualche mese… Se non settimane…». Alcuni numeri venivano sbandierati
in pompa magna. Altri come eterne litanie, scanditi velatamente e con
sobrietà, perenne sottofondo delle giornate di SPHERICON: «Calma soltanto…
Su, coraggio… Avanti…». Con questa intonazione. Cifra dopo cifra, come
chilometrici convogli di forniture militari.
Nessuno le darà mai un impiego. Nessuno! Karla cercava di
concentrarsi sul libro. Si guardi pure attorno! Lo leggeva riga dopo riga. Si
guardi pure attorno! Leggeva più volte ogni riga. Osservi! Lesse a bassa
voce. Quanti anni ha? Lo rilesse ad alta voce. Quanti anni ha?! Leggeva
attraversata dalle voci di Job Quest, fino alla melodia happy end e
all’inizio della prossima puntata.
Altre voci sembravano le frasi fatte delle previsioni del tempo. I primi,
lontani segni del cambio di stagione: «Anticiclone… in arrivo… in rapido
avvicinamento… Pazienza… Pazienza soltanto…». Previsioni economiche,
previsioni meteorologiche, previsioni astrologiche. «Verrà… Sarà…
Verrà.»
«Si alzi!» Karla era a letto. «Si alzi! Si metta il cappotto e prenda tutte le
sue cose.» Si mise il cappotto, fece la valigia e aspettò, per tutto il giorno,
fino alla sera. La sera le venne comunicato: restava a SPHERICON. Poteva
disfare le valigie. Avevano chiamato i suoi genitori. Li avevano messi a
conoscenza di tutto. Una formalità.
Delete! Un millisecondo, tanto impiegavano i contabili dell’Agenzia
federale a cancellare, eliminare intere città, metropoli di disoccupati che,
nella vita, non avevano voluto o potuto fare altro. Eppure, nonostante tutte

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le possibili cancellazioni ed eliminazioni, i contabili conservavano ancora
traccia delle cause che avevano avviato una pratica di cancellazione.
Lost è il nome di un altro programma. Il programma che dà voce solo a
chi ha perso tutto: ogni posto, ogni protezione o appiglio, ogni appoggio,
ogni contatto con gli altri, ogni aiuto, ogni fiducia, in se stesso o nel mondo.
Ogni rapporto, ogni relazione era bruciata. Senza appigli. Né amici, né
conoscenti, né colleghi, né famiglia, né fratelli o sorelle, né figli. Senza
documenti né status, cancellati, eliminati da ogni computer e da ogni
schedario. Senza nome né data di nascita documentabili, senza prove né
potere di prova. Senza futuro. Solo la nebbia dei loro impenetrabili
trascorsi. Intrisi di omissis, di vuoti abissali e di oscuri sbagli. Nient’altro.
Non un ricordo. Solo echi confusi. Senza coscienza alcuna. Senza
assicurazioni e rassicurazioni. Privi di identità. Senza diritti. Senza un bel
niente. Lost.
I suoi genitori, così le disse Fest, erano rimasti senza parole e
profondamente delusi. La madre in particolare. Le era crollato il mondo
addosso.

Lei gli gridò: «Lasci in pace i miei genitori! I miei genitori non sono rimasti
senza parole! E non sono delusi! Figuriamoci poi mia madre!». Le urla di
Karla rimbombavano lontano. «Mia madre non è delusa!» Nei corridoi fu
alzato il volume degli altoparlanti. «Mia madre non è mai stata delusa!»
Ancora più forte: «Non tiri in ballo i miei genitori! Sono i miei genitori».
Gli altoparlanti trasmettevano ora una canzonetta. «Di certo ai miei genitori
non crollerebbe il mondo addosso per qualcosa del genere!» Una canzonetta
dell’Agenzia federale. «I miei genitori non sanno neppure che sono qua.»
Summertime. «Altrimenti non mi ci avrebbero mai mandato.» Milkshake-
time. «O in una scuola simile!» And other times. «Piuttosto si sarebbero
tolti dalla testa di farmi fare qualunque tipo di scuola.» Better times. «Pur
di non mandarmi in una scuola del genere!» Upcoined times. «Tenga mia
madre fuori da questa storia!»

«Potremmo anche» disse Fest in tono vibrante e con tutta l’energia che
aveva in corpo «potremmo anche abbandonarvi a voi stessi.» Disse voi, non
tu o lei, ma voi. «Potremmo abbandonarvi a voi stessi in qualsiasi
momento.» Sulla porta, in procinto di andare, disse: «Potremmo piantarvi in
asso, come se nulla fosse, dall’oggi al domani… Cosa ce lo impedirebbe?
Sarebbe facilissimo, basterebbe far cessare tutti i nostri sforzi. Di
colpo…». Ancora: «Così potremmo persino vivere bene, nel nostro
paese… In uno stato di benessere, se non di lusso… Più o meno incuranti…

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Prescinderemmo tranquillamente da questi sette-otto milioni di
disoccupati… Semplicemente, togliendoceli di torno… Questi milioni non
esisterebbero più… Oppure liquideremmo la cifra nel tempo… Come
sarebbe tutto più facile, sbrigativo, appagante… Senza falsa pietà…
Compassione né autocommiserazione… Non più un mondo pieno di stanze
d’attesa perché si è in troppi… Non più la quadratura del cerchio…
Potremmo cessare ogni sostegno nel giro di una notte… Di più: ogni
ulteriore misura… Qualsiasi riguardo nei vostri confronti… Una volta
tanto, rifletteteci su».

Inoltre: «Non ingannatevi, non createvi false speranze: sotto la vostra


lapide non riposerà alcuna storia universale. Neppure la storia degna di una
nota in calce».

Nel corridoio regnava un insolito silenzio. Nessuna traccia di vita.


L’altoparlante sopra la porta taceva. Improvvisamente, risuonarono delle
voci. Sulle prime assomigliavano a una stridula richiesta di aiuto: più che a
una richiesta a un grido, al grido di un uomo che annega. Eppure, quanto più
questo suono si diffondeva in tutta la scuola, a ripetizione, tanto più diverso
appariva: non una voce in preda al panico, non un grido di morte, ma un
grido di gioia. Più che un unico grido di gioia, molte grida che si
accavallavano l’una sull’altra. Le grida felici di uno scampato o di un
risorto. La gioia risuonava chiara e nitida. Chiara e nitida come quando si
spezza del ghiaccio. Alcuni secondi dopo seguirono altre grida, che
attraversavano egualmente i corridoi. Ogni grido era come un movimento. Il
movimento di chi corre, salta, balla, attorniato da altri che corrono, saltano
e ballano, magari non con la stessa forza, tuttavia chiaramente avvertibili.
Ogni grido iniziale era l’esplodere di un urlo, un urlo improvviso di gioia
indescrivibile, che dilagava continuamente, in un clima di incredulo
sconcerto; rimbalzava su pareti, porte e tavoli. Sopra il tutto, gli
altoparlanti trasmettevano ora la melodia happy end dell’ultima scena di
Job Quest. Era il giorno della nomina ufficiale dei cinque selezionati per il
colloquio di presentazione. Il direttore scolastico aveva letto i nomi ad alta
voce, davanti al suo ufficio. A ogni nome esplodeva un grido – un grido alla
vita – forse il momento più bello nella vita di un uomo. O almeno, von
Benkdorff lo sperava. Due dei candidati nominati appartenevano a
Canergie, uno a Hartz, uno a Parsons, uno ad Apollo. Dagli altoparlanti
della scuola continuava a snodarsi la sdolcinata melodia finale di Job
Quest, come una lunga, interminabile ansa. Per la prima volta gli uomini
vissero il qui e l’ora, la tangibilità del tutto.

91
Fest entrò nella stanza e disse, come di sfuggita: «Allora?». Che ne dice?
Il suo amico Roland Bergmann. Tra i cinque nominati. Una candidatura
grandiosa. Raramente si era vista, in tutti quegli anni, una candidatura del
genere, senza sbavature. Un intreccio senza macchie… Arricchito da grafici
eccellenti… Con giochi di foglie d’oro… Perfetto inglese da candidatura…
Close to nativeness. Che colpo! Un successo per Roland Bergmann. Un
successo per Apollo. Un successo in calcio d’angolo. Più che in calcio
d’angolo.

Dopo un countdown durato giorni, dagli altoparlanti fu comunicato il giorno


del primo sabato sera: sabato 19 novembre, alle 21, nella hall scolastica…
Live. Ancora quattro giorni, dodici ore e ventitré minuti… Intervista a uno
dei nominati: come va? Come si sente? È sorpreso della nomina? Sì. E poi
il come. Come si sta preparando? Se è riconoscente? Indescrivibilmente
riconoscente.

Di tanto in tanto si udivano grida e canti di drappelli di fan, nei corridoi.


Urlavano, cantavano e applaudivano al nome di uno dei convocati. «Il non
nominato supports il nominato.» Leali alla frase di A New Life: uno per
tutti, tutti per uno. Quella stessa settimana la direzione scolastica innalzò a
tutti la quantità di Coins a Premium.

Era libera, disse Fest a Karla, di andarsene al più presto, dopo aver
chiarito alcune questioni tecnico-assicurative: tecnico-assicurative
sanitarie, tecnico-assicurative sugli infortuni, tecnico-assicurative sulla
disoccupazione. Fino a quel momento doveva avere la cortesia di
mantenere un comportamento consono alla sua situazione.

Gli altoparlanti diffondevano – perlopiù la sera – puntate di Lost. Spoken


songs: canzoni parlate di singole entità, lamenti soffocati, come da caverne
o da capsule spaziali, voci senza corpo – teste soltanto, teste parlanti – già
ben oltre la disperazione, senza vie di fuga né di ritorno, di aiuto o di
consolazione, senza nessuno che le ascoltasse; parlavano così, senza un
pubblico, alle prese con spietati inventari e bilanci dei loro continui
fallimenti di vita, contro ogni aiuto e ogni ragione… Lost.
«Ho sbagliato tutto… Tutto quello che potevo sbagliare… l’ho
sbagliato… Da sempre… Già a scuola…» Una voce di Lost. «Dolore…
Pietà… Autocommiserazione… Ecco le mie parole… Dolore… Pietà…
Autocommiserazione… Mai andato oltre… Oltre l’autocommiserazione…
Sarei dovuto andare un passo oltre… Dall’autocommiserazione al rispetto
di me… Ecco dove sarei dovuto arrivare… Al rispetto di me… Sarei

92
dovuto essere rispettoso di me stesso… Rispettoso di me stesso e degli
altri…» Voce di Lost.
«Davvero mi lasceresti per questo impiego?»: Job Quest. Replica dopo
replica. E dopo l’ennesima replica, le repliche delle repliche delle
repliche. Ogni replica era, secondo l’Agenzia federale, un passo verso
l’avverarsi, il concretizzarsi, il crearsi di un futuro lavoro, e tutto nella testa
dell’uomo. «Darei tutto per questo impiego, tutto…» dice l’eroe alla sua
ragazza. E la ragazza gli chiede: «Davvero mi lasceresti per questo
impiego?». Certo, la sua risposta. Allora la ragazza sospira dimessa e
sembra abbracciarlo, quasi colta da un profondo sollievo.
Fest: ma che motivo avrà mai per lagnarsi? Karla, qua, sguazzava nel
privilegio: una camera tutta sua, letto matrimoniale, lavabo… Gli altri
invece stavano nei dormitori. Nulla della sua vita lo convinceva: né la sua
indole, né i suoi lamenti, sia nell’insieme, sia sommandone le parti… Certo
che poteva parlare con i suoi genitori, ovvio… Nessuno aveva mai
sostenuto il contrario. «Lei sta sostenendo cose che non trovano fondamento
nella realtà. Ecco il modulo di richiesta. Queste sono le istruzioni.» Le
consegnò un formulario. «Per cortesia, lo riempia! Non appena arriverà una
chiamata per lei, le faremo sapere.»

Karla visse il primo sabato sera di selezione in parte dagli altoparlanti, in


parte attraverso gli echi di grida lontane: grida isolate, grida all’unisono,
grida incrociate e ben scandite, come le urla dei tifosi agli stadi o le grida
isteriche di un concerto pop: il nominato di Canergie, Gerd Frommer, nel
frattempo, era diventato una star, aveva raccolto fan in tutta la scuola. Salì
per ultimo sul palco – il momento culmine della serata – e cantò la canzone:
«Take me… Take me all… All I am… All I will… Be… The right one… The
bright one… I am… All what I am… More what I am… In my prime… My
prime time… My prime high life time… Take me… Take me all… Take me
home…» accompagnato dal suono della chitarra e del sintetizzatore in
playback. La canzone finì con Canergie e con gli altri fan in delirio. Passò
del tempo prima che in sala tornasse la calma. Le grida incrociate si
susseguivano continuamente. La giuria (direttore, vicedirettore, psicologo e
istruttori della scuola) sedeva in un gruppo a sé di poltrone, sull’altra metà
del palco, e prendeva appunti. Poi partirono le domande, le repliche, le
richieste d’approfondimento e le domande a tranello. Perché questa
canzone? Perché proprio questa canzone? Voleva forse stupire la giuria con
la sua esibizione canora? Risposta di Frommer: sì, tra le urla sfrenate della
sala. Sì! Domanda seguente: nato a Saigon? Perché proprio a Saigon?
Risposta di Frommer: perché no? Delirio in sala. Domanda successiva:

93
perché ha vissuto ma non ha studiato a Yale? Perché? Forse non crede
abbastanza nelle sue idee? Prossima domanda: mi piace come ha impostato
il suo curriculum vitae. Assolutamente. Solo, gli anni dal 1998 al 2002
sembrano piatti. Incolori. Inspiegabilmente lunghi. A tratti perfino poco
credibili. Obiezione di Armstrong: poco credibili? Tutt’altro! Palesemente
veri. E anche divertenti. Gustosi. Come la mousse al cioccolato… Delirio
in sala. Domanda seguente: la capitale del Maryland? Qual è la capitale del
Maryland? Nel suo curriculum vitae non sta forse scritto che un tempo ci ha
vissuto? Domanda successiva. Una domanda di logica: se A o B sono vere e
danno C. Allora anche C è vera… Concorda? Prossima domanda: la
formula di Noske sull’occupazione. Com’è questa formula? Domanda
seguente: «Come se sta sull’altra sponda». Cos’è che non torna in questa
frase, dal punto di vista linguistico? Domanda successiva: chi ha vinto lo
scudetto nella stagione 2013-2014? Il Bayern München I o il Bayern
München II? Domanda successiva: «Come se stesse sull’altra sponda».
Perché questa frase è corretta? Prossima domanda: Annapolis. Le dice
qualcosa questo nome? Niente? Eppure dovrebbe. Annapolis è la capitale
del Maryland. Domanda seguente: la sua ragazza viene aggredita in un
parco e derubata di tutte le sue carte di lavoro. Come si comporta?
Domanda successiva, una domanda d’inglese, Business English: what is
the difference between economic and economical. What is it? Next
question: the theory of perfect competition. Explain it! Prossima
domanda: sua sorella mira al suo impiego. Come si comporta? Domanda
seguente: perché Powerpoint? Domanda successiva: cos’è un blog? E un
blogspotter? Prossima domanda: A e Non-A non possono esistere allo
stesso tempo. Concorda? Domanda successiva: A non può essere
contemporaneamente A e Non-A. A però non può neppure essere né A né
Non-A. Che ha da dire a riguardo? Domanda seguente…
Quella sera Frommer fu brillante. Non venne eliminato. Certo che no.
Come avrebbe potuto essere eliminato? Si qualificò con facilità per il
sabato successivo. Così come Roland Bergmann. Per lui fu meno facile, ma
altrettanto scontato. La candidata di Parsons venne scartata. Tra il giubilo
della sala. Giubilo per Frommer. Nulla contro Parsons e la sua candidata,
per carità, ma Frommer… Un secondo Criens. O Hagenburg. Le sue
risposte erano una manna piovuta dal cielo. Colpi di liberazione. I pugni di
riscatto di un boxeur a terra, che si raggomitola in un angolo, per poi
improvvisamente reagire. Sul palco, Frommer fece un profondo inchino.
Thank you.
I fan gridavano il suo nome, inneggiando in coro a Frommer. Quasi per
alcuni secondi fossero loro stessi Frommer, forti della loro appassionata

94
difesa. Quasi fossero loro Frommer e Frommer loro stessi, solo in un altro,
migliore frangente. Frommer ringraziò personalmente tutti al microfono:
«Sono tutti voi». Lanciò Bonus Coins tra il pubblico, come se non fosse più
un comune mortale.
Alcune allieve gridavano il suo nome. Quasi occorresse placare la loro
eccitazione con dell’acqua fredda. Weekend-Suite. Una notte con Frommer
nella Weekend-Suite. Un’ora soltanto. Insieme a Frommer. Lui al posto di
tutti gli altri senza posto di lavoro. Solo la sua voce e i suoi occhi. Occhi-
Job-Conquest. Si piegò su di me e la fragranza del suo imminente impiego
mi baciò… sulla nuca. Al solo pensiero esplodeva un grido. Frommer[2] –
santo, santo subito, Frommer, santo, santo subito – Frommer salutò con la
mano – gli allievi delle file più lontane cominciarono a sedersi. Che corsa,
che vita… Non una vita regalata, una vita subìta, ma una vita progettata con
le proprie mani, attraverso un lavoro biografico lungo settimane… Solo
poche settimane prima quella stessa vita meritava appena di essere
menzionata… Ora questa vita era sulla bocca di tutti: la più grande
probabilità di lavoro… Una vita plasmata ex novo, dalle fondamenta…
Come una casa demolita e poi interamente ricostruita… O come un
romanzo, rifiutato perché venga riscritto: con un altro linguaggio, in
un’ottica diversa, con uno svolgimento lineare, in un vortice irresistibile di
avvenimenti, in una deriva verso nuove sponde, come la calda, avvolgente
corrente del Golfo… Cos’è un romanzo se non una calda corrente del
Golfo? E cos’è un curriculum vitae se non un romanzo? Il romanzo di una
vita piena di virate… La mia vita non è nata dal caso, disse una volta
Armstrong, l’istruttore di Frommer: non soltanto il vicedirettore scolastico,
anche l’istruttore di Canergie. La mia vita non è nata dal caso – disse
Armstrong, a cui Frommer doveva così tanto – ci ho lavorato sopra. E citò
un romanzo americano: «He sprang from his Platonic conception of
himself…». Tanto aveva fatto Frommer. Settimane prima, nessuno parlava
dei suoi occhi, né lui aveva la minima idea di come fosse la sua voce.

Quella stessa sera Karla dovette raccogliere tutte le sue cose e seguirli.
Fest non arrivò da solo, ma accompagnato dal custode. «Con la cortesia di
sbrigarsi. È nel suo interesse.» Fest le indicò le sue cose sparse. «Non
dimentichi lo spazzolino da denti. E la T-shirt…» Karla chiese: «Sto
tornando a casa?». Fest rispose: «Più o meno». Il custode prese la sua
borsa e si incamminò per primo. La mezzanotte era passata da un po’. «Per
sua fortuna» disse Fest. Si riferiva al silenzio e all’oscurità che li
avvolgevano. Scesero le scale, fino al pianterreno, poi verso il piano
interrato, diretti in palestra. Nel buio, gli attrezzi rilucevano di bianco;

95
nell’aria ancora l’odore di sudore freddo. «Tenga bene a mente questo
odore» disse Fest e passò oltre, superando prima la stanza del solarium, poi
i locali con le docce e l’impianto di riscaldamento. Con una chiave, il
custode aprì una stanzetta. A terra, un tappetino per fare ginnastica, sopra,
un sacco a pelo. Il custode posò la borsa. Karla si sedette sul tappetino. La
porta venne chiusa a doppia mandata, il custode e Fest andarono via. Per la
prima volta dopo settimane, Karla si trovò immersa nel silenzio assoluto.
Niente frastuono dell’altoparlante. Niente voci di Lost. Niente spoken
songs. Niente repliche di Job Quest. Dormì.
All’alba fu svegliata, condotta a fare la toilette mattutina, poi di nuovo
riportata indietro. La stanza non aveva finestre. Tuttavia, da un interruttore
vicino alla porta era possibile azionare la luce del soffitto, spiegò il
custode. Spense la luce e la riaccese. Tanto per mostrarle la praticità di un
apparecchio geniale. Con il suo camice grigio da lavoro sembrava
appartenere ad altri tempi, ai primi tempi di SPHERICON, se non addirittura a
tempi precedenti. Ma che stanza era mai quella? chiese Karla. Il custode:
una stanza a libera disposizione. Per usi speciali. Niente di eccezionale. La
stanza era menzionata perfino in A New Life: alla voce «Ginnastica e
meditazione». A volte Criens vi si era ritirato. «Pensi, Criens.»
Più tardi sentì il lavorio delle attività in palestra, il ronzare delle
cyclette, il vogatore, il ventilatore del solarium e, sopra il tutto, di nuovo il
frastuono degli altoparlanti: ancora Job Quest. Job Quest a oltranza. Il
ronzare delle cyclette aumentava a ogni nuovo sprigionarsi della sdolcinata
melodia finale. A un certo punto si udì la canzone di candidatura di
Frommer: «Take me… Take me all… All I am… All I will… Be… The right
one… The bright one…». Tutto il canto era una melodia di salvezza. La
ascoltavano durante le convulse pedalate alla cyclette. «I am…All what I
am…More what I am…» Con il pensiero si lanciavano in indescrivibili
salite, catalizzati da Frommer. Il suo canto era un inno alla liberazione.
Come portare una vita all’apice, dal nulla, legalmente e in un momento
decisivo. «In my prime… My prime time… My prime high life time… Take
me… Take me all… Take me home…» «Se da una canzone del genere non
esce niente» farfugliò il custode «da cosa allora?»
Nell’esclusivo interesse di Karla, la accompagnava in bagno solo quando
la palestra era vuota. In queste occasioni le portava anche da mangiare. «Ci
dica tranquillamente quello che desidera.» Le elencò i prodotti dei
distributori automatici: uova sode, zuppe, salsiccia affumicata alla
cacciatora… «Come vuole.» Conosceva i distributori automatici come le
sue tasche, poiché era lui a rifornirli. Le portò i saluti di Fest, che era
occupato con gli ultimi preparativi per l’esibizione di Roland Bergmann.

96
Sabato sera. Un’esibizione assolutamente fuori dal comune. Con delle
sorprese.
Purtroppo non poteva telefonare… In ogni caso, non quel giorno… Era
molto dispiaciuto… Forse domani… O dopodomani… Questo non era lui a
deciderlo… No, i suoi genitori non avevano chiamato… O almeno non ne
aveva avuto notizia… Magari non erano mai riusciti a prendere la linea…
Oppure non erano affatto informati… Oppure non sapevano che dire… E
aggiunse: «Ma perché non si è candidata per questo impiego?». In tono
affettuoso e sinceramente dispiaciuto, ma anche carico di incomprensione:
«Perché non si è candidata per questo impiego?».
Fest: l’Agenzia federale non aveva autorizzato la direzione scolastica a
rilasciarla prima del tempo. Un passo del genere veniva meno anche al
progetto pedagogico di SPHERICON. Al contrario. Le avrebbero rilasciato un
attestato. Che lo volesse o no. Così come a tutti gli altri allievi. Anche solo
per motivi legali, non potevano farla uscire dalla scuola prima del tempo.
Avevano chiamato l’Agenzia federale, ma senza ottenere l’autorizzazione al
rilascio. Tra due settimane e mezzo scadeva il trimestre. Con una cerimonia.
Graduation. La consegna degli attestati. Fino ad allora sarebbe rimasta qua.
In fondo, avrebbe anche potuto gioire un po’ per la Graduation e per la
consegna degli attestati. Pensava al suo amico Roland Bergmann?
Trepidava insieme a lui? Gli aveva fatto i suoi migliori auguri? Per la sua
seconda esibizione, sabato prossimo.
Più tardi, dopo che Fest se ne fu andato, il custode le chiese: «Dica un
po’, ma che tipo di uomo è questo signor von Bergmann?». Come se stesse
chiedendo informazioni su una star. Disse signor von Bergmann. Che fosse
barone? O conte? E da che casato discendeva? Il signor von Bergmann
aveva davvero scalato un massiccio di seimila metri, in Canada?
Rimettendoci due dita dei piedi? Quando aveva duellato con il suo
fratellastro? E perché mai? E l’amuleto di ambra? Che c’entrava con lui?
Com’è che si era fabbricato una spoletta a scoppio ritardato? E il campo
alle isole Galapagos? Ma davvero aveva già quarant’anni?
Fest: «Forse sua madre non le vuole affatto parlare, perciò non la
chiama. Una buona volta, ci rifletta su».
Vennero giorni terribili. Non sopportava più di stare in uno spazio così
angusto. Sapeva a malapena se fosse giorno o notte. Era il caso di spegnere
la luce? Oppure di riaccenderla? O di spegnerla di nuovo? «Accenda pure»
le disse il custode, quando la sorprese al buio. Accovacciata sul materasso
con un lancinante mal di pancia. Poteva forse portarle qualcosa? «Devo
andare in bagno… Devo andare in bagno…» Annuì e disse: «Capisco». E
le diede da bere. Forse era il caso di avvisare Fest? O meglio di no? «Due

97
settimane e mezzo. Neppure due settimane e mezzo… Se la luce è troppo
forte, la spenga pure.» In sottofondo, il continuo frastuono della palestra:
Spoken songs, poi di nuovo Job Quest e l’annuncio di una versione
radiofonica di Job Attack. Come una mitragliatrice a salve, il contrabbasso
elettronico crivellò il primo scaglione di trainees, quasi volesse spianarsi
la strada a suon di spari: «Job Quest era l’ieri, Job Attack è il domani…».
Karla chiese al custode se potessero abbassare gli altoparlanti. La sua voce
era debolissima. «Più piano, per favore!» Rispose che non stava a lui
deciderlo. Era la direzione scolastica a regolare il volume. Dalla
segreteria. La centrale acustica era là. Una volta alla settimana, l’Agenzia
federale registrava nuove trasmissioni. Il custode non stava più nella pelle
per la versione radiofonica di Job Attack. Ne parlava quasi sfregandosi le
mani dalla gioia. Le chiese: «Desidera una ciotola di zuppa? O
un’aspirina?».
Un’aspirina. Karla sprofondava nei ricordi: il ricordo del suo letto di
casa, della mensola per i libri sopra il suo letto, dell’albero davanti alla
sua finestra, della mano di sua madre – del volto di sua madre – quando
l’avevano ricoverata in ospedale pediatrico. Passo dopo passo, ripercorse
il tragitto che da ragazzina la portava a scuola. Prendeva deviazioni su
deviazioni. Alcune strade, che prima aveva sbadatamente saltato, le
percorse più volte, avanti e ancora indietro. Godeva di ogni minimo
dettaglio. Persino delle sagome démodé delle auto della sua infanzia. In una
vetrina lesse la frase: «Tutto ciò che è bello manca totalmente di scopo». Si
sedette sulla panchina di un parco e lesse un libro in completo silenzio,
attorno solo il brusio degli uccelli e una brezza leggera. Rivide il volto di
sua madre, non un volto dispiaciuto, un volto pieno di speranza. Non aveva
mai visto sua madre seriamente preoccupata o delusa…
Dall’altoparlante, Karla sentì la voce di un guru del lavoro: parlava in
falsetto, con un tono solenne: esiste qualcosa come il lavoro, dopo la
morte? Posto che non esista prima della morte, esiste il lavoro dopo la
morte? Nell’aldilà? Può essere concepito un paradiso senza lavoro?
Da piccola Karla si lasciava cadere a terra – in piedi, gambe tese e occhi
chiusi – certa che gli altri l’avrebbero raccolta. E veniva puntualmente
raccolta. Non ne aveva mai dubitato. Lo mostrava sempre a tutti. All’asilo,
alle scuole elementari, al liceo. La raccoglievano sempre. Non solo amici o
insegnanti, anche sconosciuti. A volte attaccava bottone ai frequentatori del
parco e chiedeva loro se potevano afferrarla, quando si lasciava cadere. E
veniva afferrata, talvolta da mani insicure, eppure afferrata. Durante l’ora
d’inglese, l’insegnante le spiegò che innamorarsi, in inglese, si dice: to fall
in love, cadere in amore. L’espressione era stata coniata da Shakespeare in

98
Come vi piace. Da allora, ogni volta che si lasciava cadere pensava a
questa frase – cadere in amore – chiudeva gli occhi e si innamorava
cadendo… Si innamorava mentre apriva gli occhi sull’uomo che la stava
stringendo.
«Job Quest era il passato, Job Attack è il domani…» Passi nel corridoio,
fischiettio. Come se qualcuno si stesse sgranchendo le gambe. Un colpo alla
porta, un colpo secco di karatè, sferrato all’improvviso. Nuovi passi
all’indietro. Verso la palestra. Forse verso uno degli attrezzi. Il ripasso di
chissà quale esercizio. Alzarsi, respirare profondamente, passi nel
corridoio, calcio contro la porta e dietrofront.
Una sera Fest disse: l’apice dell’autocompiacimento… Prendere la
propria vita come oro colato… Restare ancorati a ciò che è stato… Come
se tutto fosse già nel miglior ordine possibile… Pensare che nulla sia da
cambiare… Considerarsi immutabili… Avremmo potuto farlo anche noi,
tranquillamente… Possibilissimo… Avremmo potuto senz’altro
abbandonarla al livore altrui, senza batter ciglio… Senza concederle una
porta. O una stanza separata. Senza prendere precauzioni nei suoi confronti.
Avremmo potuto lasciarla sopra, nella Weekend-Suite II, e attendere…
Avremmo potuto procedere così. Letteralmente… Giorno dopo giorno, notte
dopo notte… Avremmo potuto farlo. Perché non l’abbiamo fatto? Perché
volevamo essere giusti. Perché non volevamo abbandonarla.
Se deve andare in bagno, avverta. Bussi alla porta. Oppure chiami.
Sfrutti il tempo a sua disposizione per riflettere. Su cosa ne sarà di lei…
Dopo SPHERICON. Questa non è una cella, ma un pensatoio. Ci rifletta…
Perché era stata portata nel piano interrato? Tra l’altro, affermò Fest,
perché non era più tollerabile lasciarla nella Weekend-Suite II. Il livore di
alcuni trainees era incontenibile. Si chiedevano: che ne è della Weekend-
Suite II? Off limits. Accesso vietato. Occupata da settimane. Che significa?
Che storia è questa? Occupata. Un’allieva agli arresti di lusso. Non le passa
neppure lontanamente in testa di candidarsi e risiede nella Weekend-Suite
II. Con lenzuola lavate di fresco. E razioni complete. Quante coppie aveva
dovuto rispedire indietro, perché la Weekend-Suite II… non era
disponibile. E persino quando la Weekend-Suite I era pronta, se la coppia a
fianco voleva divertirsi, c’era sempre quel silenzio proveniente dall’altra
Suite. Un silenzio di cui non si sapeva niente: se lei ascoltasse indignata
oppure se si voltasse di lato annoiata. Che arroganza. Un silenzio contro cui
si sarebbe potuto sputare: fuck off! Scandendo bene ogni lettera…
Ma allora era innamorata di Roland Bergmann?
Se non si sente bene, può andare in solarium in qualsiasi momento. Un
po’ di colorito in viso non le farebbe certo male. Oppure può rendersi utile

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in palestra… Quindici chilometri sulla cyclette, e poi saltano in testa ben
altre idee: scalare una montagna, prima o dopo le lezioni, a 180 watt. Col
de la Schucht, Plateau de Beille, Mont Ventoux… Se dieci allievi, a ogni
ora del giorno, tenessero in moto ciascuna cyclette a 180 watt,
genererebbero tutta l’energia necessaria a SPHERICON. Prepareremo una
tecnica. Come minimo gare programmate. E anche un piano pedagogico. Un
piano di sanzioni energetiche. A ogni prestazione sbagliata, ogni allievo
sarà punito con un corrispondente numero di watt. Dieci errori linguistici in
una candidatura inglese = dieci minuti di cyclette a 100 watt. Al crescendo
di prestazioni richieste… Un crescendo energetico per tutti i livelli… Più
alte richieste di prestazioni scolastiche = maggiori possibilità di punizioni
corporali e di prestazioni fisiche. Ansia da prestazione vuol dire errori in
agguato, dunque sanzioni al crescente numero di watt = energia. In ogni
settore… Un circolo energetico di livello sempre più alto. Livello psichico,
livello fisico, livello di produttività energetica…
Il quadro di un blitz dell’Agenzia federale che Fest tratteggiò
nell’oscurità della stanza: arrivano Groener e Noske… In persona… Con
l’elicottero… Senza avvisare… Non abbiamo niente da nascondere… Al
contrario… Vogliamo che tutto sia alla luce del sole… Tutto… Groener e
Noske fanno in giro delle attività didattiche… Ne restano visibilmente
impressionati… Persino Noske… Dalla densità del programma… Dalla
robustezza di candidatura dei curricula… Dall’addestramento telefonico…
Dall’elaborazione biografica… Tutte le postazioni dei computer sono
occupate… Tutto per la gioia dell’Agenzia federale… E, come per caso,
Groener e Noske vengono condotti sotto, in palestra… Una passeggiata
extra… Indichiamo loro le cyclette… Sulle quali pedalano i trainees…
Colanti di sudore… E, con la massima nonchalanche, viene spiegato loro:
la corrente di tutta la scuola proviene da queste ruote… Corse forzate a 180
watt… Noske osserva e prende nota…
E questo è solo l’inizio… Il ricavo energetico è in crescente aumento…
Non solo qua, in questa scuola… Ovunque… Otto milioni di disoccupati…
Otto milioni… Di colpo non più un’infinità, una cifra spaventosa… Ma una
quantità energetica… Otto milioni moltiplicati per 180 watt… Calcoli lei…
Calcoli… Reggimenti interi di cyclette in giganteschi capannoni… Sui
monitor dei computer, montagne simulate… Le Alpi… I Pirenei…
Simulazioni di gare contro fantomatici avversari… O contro altre cyclette
collegate in rete… Tutta una questione di organizzazione, di motivazione, di
energetica… La vita intera è energetica…
Il mattino dopo Fest parlò in tono diverso. Ancora dieci giorni. Dieci
giorni alla Graduation… Grædiuèscion… Dieci giorni al rilascio del

100
titolo… Lo pronunciò in inglese… Gli attestati… La fine del trimestre…
Vacanza… Finalmente vacanza… Gli allievi gli mancheranno… Persino lei
gli mancherà… Non può farci nulla, ne avrà nostalgia. Vi amo tutti.
Nonostante tutto… «Take me… Take me all… All I am… All I will… Be…
The right one… The bright one… I am… All what I am… More what I
am… In my prime… My prime time… My prime high life time… Take
me… Take me all… Take me home…»
Karla sognò: la trascinavano a calci lungo i corridoi, fino a un salone
enorme, da cui sporgevano gigantesche apparecchiature, trasformatori alla
stregua di altari; e davanti a questi trasformatori si dispiegavano cyclette su
cyclette, come una distesa infinita di tombe, fin dove giungeva lo sguardo.
Per ore e ore fu scortata tra le cyclette. Erano disposte in file, una dietro
l’altra, lungo minuziose e interminabili linee, simili a quelle di un’armata.
Una stanza composta da soldati dell’elettricità che pedalavano a un ritmo di
marcia crescente. Sedevano rigidi, solo le gambe si muovevano. Dagli
altoparlanti venivano diffusi dati sui watt: 160 watt, 170 watt, 180 watt…
Karla non riusciva più a camminare, tanto era lungo il tragitto fino
all’ultima cyclette vuota, su cui veniva fatta sedere. Le allacciavano le
cinture ai piedi, poi anche lei iniziava a pedalare.
Il custode, che le aveva portato dell’acqua, provò a tranquillizzarla.
Aveva pianto. Le porse un fazzoletto e le raccontò dell’Africa. Del Sud, del
sole, del mare. Suo zio una volta era stato in Africa, a El Alamein. Più tardi
anche Fest le parlò dell’Africa. Che ne pensava della Sierra Leone?
Potrebbe piacerle un paese del genere? O meglio la Mauritania? E il
Madagascar? Poi disse: la rabbia di alcuni trainees era eccessiva, persino
crudele, ma comprensibile… La rabbia contro la beffa… La beffa di quelli
come lei… La presa in giro universale di chi aveva smesso di credere, di
chi aveva smesso di impegnarsi… Ogni calcio sferrato contro la sua porta
era comprensibile, addirittura necessario: passo dopo passo verso la porta,
calcio, Job Attack, passo dopo passo indietro… Si voltò e disse: è nostro
compito non risparmiare agli uomini le necessarie sofferenze dei loro
fallimenti…
E anche se questo paese avesse a disposizione tutte le ricchezze del
mondo, nulla cambierebbe nel trattamento dei disoccupati, affermò Fest.
Appronteremmo ogni mezzo affinché questi non si cullino nel loro stato,
neppure all’inizio. Insisteremmo sulle loro reali condizioni, senza se e
senza ma: diremmo loro che sono disoccupati, nient’altro che disoccupati e
che la disoccupazione è intollerabile, contro natura, antisociale e disumana.
Il senza lavoro resta un senza lavoro. Non è ammessa altra parola che
disoccupato! Non leggere, non sognare o parlare: disoccupato. Non

101
passeggiare, guardare gli alberi o raccogliere fiori: disoccupato. Ma quale
altra vita o nuova vita, disoccupato: cioè un uomo privato dell’essenziale.
Come se non avesse né piedi, né occhi, né testa. Senza amici, senza cuore e
intelletto. E anche se non ci crede o non lo sa, glielo ricorderemmo noi:
disoccupato. Con annessi e connessi. Anche se non c’è lavoro. Ci sarà. E se
dovremmo inventarlo, lo inventeremo! Lo simuleremo attraverso macchine.
E le macchine costruiranno altre macchine, che non daranno né riceveranno
lavoro, ma lo simuleranno attraverso immagini tridimensionali: non solo
visuali, acustiche, tattili, olfattive… Lavoro da operaio, lavoro d’ufficio,
lavoro da educatore, lavoro amministrativo, lavoro di polizia e lavoro di
indagine e di ricerca… Lavoro. Non chissà quale voglia passeggera, fissa o
passione: lavoro. Il lavoro non cade dal cielo. Il lavoro è lavoro. Senza
lavoro non esistono libertà, dignità, spirito di comunità, nulla esiste senza
lavoro. Chi non lavora non mangia. Lo ribadiamo continuamente. Lo
ribadiamo con ogni mezzo a nostra disposizione. Fino all’ultimo. Allo
stesso modo insistiamo sul termine senza lavoro. Negativamente, con più
franchezza possibile. Con tutto ciò che ne consegue… Se non avessimo più
disoccupati, li inventeremmo, anche solo per accrescere valore al lavoro.
Per risvegliare ed esaltare questo valore. Memori di ciò che si diventa,
quando si perde il lavoro: inoccupati, fragili, ingiustificabili… Intendete.
Ingiustificabili.
Ultimo giorno del trimestre. Graduation. Grædiuèscion. L’addio degli
allievi. La consegna degli attestati di fine corso. I festeggiamenti si
svolgono nel salone della scuola. La hall è già strapiena. Gli allievi
attendono l’inizio della cerimonia su sedie di plastica. I loro bagagli sono
ammucchiati in un angolo vicino all’ingresso dell’edificio. All’alba hanno
fatto le valigie e sgomberato le camerate, in ordine alfabetico: da Apollo a
Taylor. Gli altoparlanti diffondono musica natalizia.
Tra gli allievi regna aria di vacanza. Basta ascoltare le loro voci. Più
vivaci e melodiose del solito. Trapela dai loro sguardi, dai loro movimenti,
dal loro modo di porsi. Quel senso di sollievo di quando finalmente tutto è
alle spalle. Per quanto brutto possa essere stato, adesso quasi tutto appare
più accomodante, solo perché è passato. Il buonismo muove perfino a un
sentimento di vaga malinconia. Che lo si voglia o no. Malinconia per tutto
ciò che è stato. Anche al ricordo delle Weekend-Suite I e II. E a una punta
di orgoglio. Orgoglio per essere arrivati fin qua, cioè per aver tenuto duro.
A SPHERICON, un trimestre si chiude anche per questo, per suscitare emozioni
simili.
Anche Karla è nella hall della scuola. Siede un po’ in disparte, ma non
isolata, è vicino ai rappresentanti dell’Agenzia del lavoro, riuniti nella sala

102
per partecipare alla cerimonia e per ritirare gli allievi. Come per il viaggio
di andata, indossano la loro mise di servizio biancoblù, smart casual. Non
sono gli stessi accompagnatori, ma portano gli stessi vestiti e hanno la
stessa espressione impressa sul volto: tra il sobrio e il distaccato, solo,
stavolta, dall’aria leggermente più amichevole. Forse in virtù del trimestre
ormai trascorso. In effetti, il loro abbigliamento ricorda quello degli
assistenti di volo. È soprattutto grazie a loro se alcuni allievi avvertono
qualcosa come aria di vacanza. Gli autobus dell’Agenzia federale sono
pronti in cortile. Quando i primi pullman stavano entrando, perfino i più
scettici hanno pensato che sarebbero tornati a casa. Come se il trimestre non
dovesse mai avere una fine – e che tuttavia un bel giorno termina come
avviene con una promessa a cui non si è mai seriamente creduto – e tuttavia
viene mantenuta: anche questo è SPHERICON.
La borsa di Karla è adagiata nel mucchio all’ingresso dell’edificio,
assieme alle altre. Può lasciare la scuola come tutti, come se niente fosse
accaduto. Persino con l’attestato. Con alcune note, certo, eppure è andata
meglio di quanto credesse. Gli altri allievi quasi la ignorano. I
rappresentanti dell’Agenzia del lavoro le siedono vicino. Il suo volto ha
ripreso un po’ di colore.
Accompagnato da una musica leggera, von Benkdorff sale sul palco.
Indossa l’uniforme: pantaloni bianchi e un blazer biancoblù. Viene seguito
dallo staff di istruttori, anche loro in divisa scolastica. Il gruppo di
insegnanti si siede. Von Benkdorff è in piedi, accanto al leggio mobile:
saluta gli istruttori, saluta i rappresentanti dell’Agenzia federale, saluta gli
allievi. Sarà breve, ringrazia, si complimenta e riassume. Lo sguardo corre
al trimestre passato: un trimestre duro, impegnativo, eppure, alla fine, un
trimestre vittorioso. Di poco o niente SPHERICON non può dirsi soddisfatto. A
SPHERICON ogni minuto significa: continuare a fare. Fare meglio. Ancora
meglio. Meglio ancora… Parla degli attestati, che ora saranno consegnati:
Certificate of Professional Application (Attestato di candidatura
professionale), a suggello delle loro globali capacità di candidatura.
Riconosciuto dallo Stato. Da ora in poi gli allievi non sono più allievi, ma
diplomati con un’eccellente preparazione. Se si vuole, professionisti della
candidatura. Maturati e profondamente progrediti: stabilizzati, resi euforici
e flessibili. Qualsiasi cosa accada.
La cerimonia di consegna si svolge secondo il rito americano, Harvard
Standard. In ordine alfabetico, gli istruttori di ogni team vengono chiamati a
parlare. Fest è il primo. Avanza verso von Benkdorff. Lo prega di fargli
spazio. Come se, con tutta solennità, si rivolgesse a una porta immaginaria
che sta per aprirsi. Parla in inglese: «The captain of Apollo requests the

103
honour to confer upon our trainees the Certificate of Professional
Application, CPA, with all rights and duties…». Poi in tedesco: «Chiedo
l’onore di consegnare ai nostri allievi il Certificate of Professional
Application, CPA, con i diritti e i doveri che ne conseguono…». Quasi il
direttore scolastico soppesasse realmente la sua preghiera, alla fine
annuisce e apre una busta color crema, con dentro gli attestati. Invita i
trainees sul palco. Loro si dispongono a mezzo cerchio. Legge ad alta voce
i nomi, in ordine alfabetico, e prega i primi di andare verso di lui.
Consegna a Fest l’attestato che, a sua volta, lo consegna all’allievo. Con
una stretta di mano e qualche parolina nell’orecchio. Nel frattempo, dagli
altoparlanti della hall risuona la musica. Non la melodia happy end di Job
Quest; tuttavia, qualcosa di molto simile, solo più rilassante e
contemplativa. Ciò nonostante, alcuni allievi sono realmente toccati. Non
solo i trainees sul palco, anche chi siede nell’auditorium. Applaudono.
Certificate of Professional Application, CPA. Nel corso del trimestre
avevano sentito accennare alla chiusura, ma non avevano mai veramente
creduto di ricevere, alla fine, qualcosa del genere. CPA. Si scandiscono le
lettere l’un l’altro. Oppure le assaporano in silenzio, muovendo le labbra.
CPA. Ad alcune orecchie suonano già familiari. CPA. Cosa altrimenti, CPA. Come
MA.[3] Non c’è scuola senza attestato. E così un team dopo l’altro viene
chiamato sul palco. Durante la cerimonia, tutti i trainees ricevono il loro
CPA, tra gli applausi dell’auditorium. Anche i rappresentanti dell’Agenzia
federale applaudono. Sono affascinati, se non addirittura commossi: dal
calibro della cerimonia, in doppia lingua, e dall’esistenza di un simile
attestato. CPA. Suggello di straordinarie capacità di candidatura. In teoria e in
pratica. L’élite della candidatura. Qualunque cosa accada, nessuno dei
diplomati avrà più bisogno d’aiuto per scrivere una candidatura.
Per un attimo Karla e Roland si ritrovarono fianco a fianco, sul palco,
durante la consegna degli attestati. Poi le loro strade si divisero.
Tutti gli attestati sono stati distribuiti. Gli applausi scroscianti
dell’auditorium sono cessati. Von Benkdorff si schiarisce la gola. Si
avvicina il momento clou dei festeggiamenti: l’incarico. Da giorni – fin dal
sabato precedente – è di dominio pubblico chi lo otterrà: Frommer. Chi, se
non Frommer. Sabato la sua esibizione è stata schiacciante. Come il
giudizio della sala e della direzione scolastica. Chi, se non Frommer. Von
Benkdorff afferra una seconda, pesante busta: l’incarico. L’incarico di un
allievo a SPHERICON. Finanziato dall’Agenzia federale per il lavoro. Von
Benkdorff lancia un’occhiata ai rappresentati dell’Agenzia federale e
ringrazia. L’incarico. Mai, nella storia di SPHERICON, ai trainees era stata data
l’opportunità di candidarsi per un vero impiego, qui, direttamente sul posto,

104
nel campus di SPHERICON. Un colpo di fortuna pedagogico. La candidatura non
più soltanto come simulazione parte del programma, ma come occasione
seria, il qui e l’ora. Sì, offrire agli allievi l’opportunità di applicare ciò che
avevano appreso sui banchi; far avanzare, nel più breve tempo possibile, un
allievo al rango di istruttore, che trasmetterà poi ai nuovi allievi ciò che ha
appena imparato. L’incarico era stato bandito con tutti i crismi. E con tutti i
crismi i trainees si erano candidati. Sfruttando tutti gli strumenti della
moderna candidatura: linguistici, psicologici, letterari, grafici, acustici… Il
livello complessivo era stato sorprendente. Ogni candidatura era stata
sottoposta al più rigido vaglio. Solo i candidati più validi erano stati
selezionati per il colloquio di presentazione. Qui, da loro era stato preteso
il massimo. Saggiati da capo a piedi. Quanto a sense of humor e prontezza
di risposta. E per altre abilità. Saper stare sul palco. Non cadere sulle
domande tranello dell’interrogazione incrociata. Doti musicali. Abilità
retoriche. Poteri ipnotici. Forza di resistenza. Tenacia. Capacità di
sfondamento. Forza di volontà. Flessibilità. Tolleranza. Anche tolleranza
alla frustrazione. E tutto ciò non in una singola occasione, ma nel corso di
un’intera serie di entrate in scena, in un bagno di apparizioni pubbliche,
sotto un fuoco continuo di sbarramenti e di obiezioni, attraverso un
estenuante processo di selezione, in cui alla fine restava in gioco un solo
candidato. Un candidato. Un impiego del genere non si può conquistare in
una sera, ma perdere sì, eccome. Von Benkdorff arriva a sostenere: mai
prima d’ora, nel nostro paese, un incarico era stato assegnato con tale
rigore, trasparenza e perfezione. Difficilmente avrebbero potuto essere più
selettivi, corretti e fondati nella scelta… Apre la busta… Apre un foglio…
Quasi mormorando, pronuncia testuali parole: «Invito Gerd Frommer a
salire». L’applauso della hall si mischia alle note della canzone di
Frommer: «Take me… Take me all…». Frommer si alza e va sul palco. Von
Benkdorff lo accoglie amabile ed entusiasta: gli stringe la mano, prima con
una, poi con entrambe le mani. Gli istruttori sul palco si alzano in piedi e
applaudono. Von Benkdorff arretra di lato, quasi volesse spostare Frommer
ancora di più al centro dell’attenzione. Anche per i rappresentanti
dell’Agenzia federale. Eccolo qua, Frommer. Il nostro migliore allievo e il
nuovo istruttore. Nessun altro uomo, sulla faccia della terra, ha più diritto a
un posto di lavoro, se non questo Gerd Frommer. Criens, Heißmeyer,
Frommer. Per un attimo Frommer appare rigido e impacciato. Non sa dove
dirigersi. Rimpiange il microfono delle precedenti esibizioni. Saluta con la
mano l’auditorium. Una a una, alcune allieve si alzano e gridano il suo
nome. Lo chiamano in tono terribilmente supplicante, del tipo: non
dimenticarmi! Take me… Take me all… Take me home… Von Benkdorff gli

105
consegna l’atto di nomina ufficiale, il contratto di lavoro, la nuova tessera
di assicurazione sociale. Gli indica di sedersi vicino agli altri istruttori del
suo staff. Viene accolto da strizzatine d’occhio e da piccoli gesti. Il nuovo
istruttore Frommer. Vivrà nel campus, come tutti gli altri trainer. Gli verrà
assegnato un suo team di candidati. Un team per il prossimo semestre. Già
quella mattina, von Benkdorff gli aveva chiesto di pensare a un nome per il
suo team. Jupiter, Sapiens oppure Beckham… Solo suggerimenti. Sulle
ginocchia di Frommer poggiano tutte le sue carte. Prende in mano la tessera
di assicurazione sociale. Già al primo contatto ne avverte il pregio. Non più
la vecchia, sottile e friabile tessera di assicurazione sociale, ma una vera
tessera, come quelle delle banche, con la foto plastificata e con le impronte
digitali. Indiscutibilmente più pregiata di una Master Card o di
un’American Express. Von Benkdorff riprende la parola. Ringrazia. Gli
istruttori come gli allievi. Ed è lieto. Del trimestre in arrivo e delle
imminenti vacanze degli ex trainees. Il sole, il mare, il Sud. Solo
incidentalmente comunica che il secondo classificato della selezione,
Roland Bergmann, battuto da Frommer – nonostante tutto un eccellente
candidato meritevole di ogni rispetto – che Roland Bergmann, come
concordato con il collegio e con l’Agenzia federale, riceverà ugualmente un
impiego. Purtroppo non un posto da istruttore, per quello mancavano i
mezzi, tuttavia sempre un incarico nel ramo tecnico di SPHERICON, una sorta di
custode, con competenze allargate. Tutto ciò a latere, senza invitare Roland
Bergmann sul palco. Gli allievi applaudono. Una formalità. Con la mente
sono già altrove, alle valigie, agli autobus, al viaggio di ritorno, alle
famiglie e agli amici… Von Benkdorff squadra l’auditorium. Come per
congedarsi, afferma: nel passato trimestre, ogni allievo ha dato prestazioni
sorprendenti. Ognuno di voi può considerarsi orgoglioso di se stesso… A
modo suo, ognuno di voi si è guadagnato un impiego… L’Agenzia federale
ne terrà conto… Qualunque cosa accada… Non lascerà che chi è qui ricada
nel suo vecchio stato… Come se nulla fosse accaduto… Come se SPHERICON
non fosse mai esistito… Non lo farà mai… Ha parlato parecchie volte al
telefono con l’Agenzia federale… Telefonate piacevoli… Occhiata ai
rappresentanti dell’Agenzia federale… Una di loro è già in piedi accanto a
lui, ringrazia e prende il microfono: alcune comunicazioni di servizio su
questioni organizzative. Per cominciare, l’invito a lasciare la scuola
rapidamente e con ordine. Subito dopo la fine della cerimonia. Da non
dimenticare i bagagli. Disporsi nel cortile. Dove i trainees verranno
chiamati per nome e assegnati ai vari autobus. Per cortesia, niente
lungaggini negli addii. I documenti e le carte degli allievi sono già stati
ritirati in segreteria, da una collega. Tutte le altre formalità in pullman.

106
I trainees si alzano. Fila dopo fila. Seguono le disposizioni dei
rappresentanti dell’Agenzia federale. Con la cortesia di sbrigarsi. Gli
sguardi degli allievi parlano da soli: volentieri, volentierissimo… Von
Benkdorff è ancora al leggio mobile. Come se non avesse affatto terminato
il suo discorso. Saluta gli allievi con la mano. Nessuno bada più a lui.
Dietro von Benkdorff siede il gruppo degli istruttori. Frommer stringe con
entrambe le mani le sue carte di lavoro. Sembra un fagotto umano.
L’auditorium è quasi vuoto. Nel salone all’entrata i trainees prendono i loro
bagagli. Alcune mani si sfiorano, come per dirsi addio. Valigia dopo
valigia. Borsa dopo borsa. La scena ricorda un po’ gli interni degli
aeroporti. Solo un po’. Fuori, nel cortile, vengono già chiamati i primi
nomi. E assegnati agli autobus. I bagagliai sono aperti. Con delle aste, gli
autisti spingono le valigie in profondità, nella pance dei pullman. Sono un
po’ meno bruschi che all’andata. Piuttosto sobri ed essenziali. Come se ora
vedessero i loro passeggeri con occhi diversi. Diplomati di SPHERICON. CPA.
Alcuni trainees ripetono tra sé e sé il titolo del loro attestato. Altri nomi
vengono letti ad alta voce, non in ordine alfabetico, e neppure per luogo di
residenza o a seconda della vecchia appartenenza al team di candidati, ma
con un nuovo, diverso metodo. Gli allievi salgono sugli autobus. SPHERICON è
ormai alle spalle. Apollo non è più Apollo, Parsons non è più Parsons,
Hartz non è più Hartz. Niente lungaggini negli addii, ammoniscono i
rappresentanti dell’Agenzia federale. I motori degli autobus sono già
accesi. Niente addii! Sono di troppo e persino inutili. Gli accompagnatori
dell’Agenzia federale salgono ora sui pullman. Solo il custode resta nel
cortile, con il suo camice da lavoro dei tempi andati, pensa Karla. E lo
saluta con il pensiero.
Due accompagnatrici dell’Agenzia federale sono nell’autobus con Karla.
Distribuiscono i pacchetti dei pasti. Gli allievi sono soddisfatti, alcuni
perfino entusiasti. Seduti sulle loro postazioni, incamerano a schiena dritta
le occhiate che arrivano dalla strada. Alcuni di loro rispondono addirittura
facendo ciao con la mano. Entrano in autostrada. I pullman dell’Agenzia
federale viaggiano l’uno dietro l’altro, come in un convoglio. Sembra quasi
che altri autobus di altre scuole siano venuti loro incontro. Tanto lungo
appare il convoglio. Spaventoso e allo stesso tempo impressionante.
Vengono sorpassati dagli sguardi attoniti dei guidatori. Quando vengono
immortalati dai finestrini di un autobus granturismo che li supera, i trainees
fanno ciao con la mano. E il pullman restituisce loro il saluto. Le
accompagnatrici dell’Agenzia federale sono davanti, vicino al conducente,
siedono ricurve sulle liste dei nomi, smistano moduli, carte d’identità e
documenti. Karla le osserva per un attimo, poi guarda fuori dal finestrino.

107
Poco dopo, dall’altoparlante arriva la voce di una delle accompagnatrici.
Chiede la loro attenzione: per alcune comunicazioni e informazioni di
servizio… Lo sguardo di Karla vola agli alberi, ai cespugli, alle case. Da
quanto tempo non vedeva più una casa. I suoi occhi si incollano ai cartelli
che rimandano alle attrattive turistiche: montagne, castelli, fontane…
Attrattive non visitabili, tuttavia menzionate. Ogni prato, ogni albero,
l’intero viaggio è per Karla una continua attrazione. «Chiediamo la vostra
attenzione per alcune comunicazioni e informazioni di servizio…» Karla
non ascolta realmente. È come se di fronte a lei scorresse un fiume…
L’Agenzia federale ringrazia. L’Agenzia federale è orgogliosa. L’Agenzia
federale rende noto… Ascolta l’annuncio solo di sottofondo. Come
l’annuncio in arrivo da un binario lontano della stazione, un binario morto
di cui nessuno si cura… L’Agenzia federale comunica: vacanze speciali per
tutti i trainees. A Natale e oltre Natale. Come ricompensa per le prestazioni
dei mesi passati. Come incoraggiamento ed esortazione… Parte di un
innovativo progetto… Un progetto dell’Agenzia federale… Karla assiste di
lato allo stupore degli altri… Persino ad alcune urla di gioia… Non
Maiorca, non le Canarie, ma l’Africa… Freetown, Sierra Leone, Africa.
Partenza alle 15, da Francoforte… Tutto già predisposto: volo,
trasferimento, sistemazione… Beach Camps dell’Agenzia federale
direttamente sull’Oceano Atlantico. Temperatura dell’acqua sopra i venti
gradi. Temperatura dell’aria… Tutto ciò sotto la pioggerella minuta lungo
un’autostrada tedesca… L’accompagnatrice dell’Agenzia federale invita a
mantenere la calma: nessuna vaccinazione. Nessun visto turistico. Nessun
passaporto. A costo zero… I vestiti estivi saranno consegnati loro
all’arrivo… Così come i costumi da bagno… Alcuni allievi telefonano. Al
cellulare raccontano ad amici e a familiari: Africa. Non Maiorca, non le
Canarie, l’Africa… Immagini di spiagge chilometriche e di coppie che
fanno il bagno al sole… Riparati dalle dune… Oppure stretti nel profondo
abbraccio della risacca oceanica… Una sconfinata Weekend-Suite a cielo
aperto… Dopo tutti questi mesi… In valigia, il Certificate of Professional
Application… Come prego? Certificate of Professional Application,
spiega un allievo al cellulare. All’inizio voleva parlarne solo a Natale. Ora
lo racconta direttamente dall’autobus…
Sul pullover di un allievo è ricamato un albero di Natale. Addobbato con
candele ardenti. Solo pochi minuti prima lo indossava spensierato: a casa.
Finalmente a casa. Il trimestre non finirà mai. Ne era stato certo per tutto il
trimestre. Proseguirà a oltranza, senza mai terminare. E invece, adesso è
terminato… Tenta di raggiungere la sua famiglia con il telefonino. La
batteria è quasi scarica. Sul display lampeggia la spia. Con le ultime tacche

108
a disposizione digita più volte il numero dei suoi genitori, ma non trova mai
segnale libero. Solo le parole: «Il numero da lei digitato non è al momento
raggiungibile». Poi l’apparecchio si spegne. L’allievo si sposta in avanti,
verso le accompagnatrici dell’Agenzia federale, chiede se può ricaricare il
telefonino. Gli dicono che non è possibile. Che non ci sono prese libere.
Deve tornare di nuovo a sedersi. Le accompagnatrici si strizzano l’occhio a
vicenda, ammiccando all’albero di Natale ricamato sul suo pullover. Torna
al suo posto, parlottando tra sé e sé: soltanto una presa. Un po’ di corrente.
Solo una telefonata. A casa. Ai suoi genitori. Soffia sul telefonino. Se lo
sfrega sotto il pullover. Come per rianimarlo. Torna di nuovo alla carica,
dalle accompagnatrici dell’Agenzia federale. Soltanto un po’ di corrente,
per un paio di minuti. Per chiamare i suoi genitori. Solo questo! Per
avvisarli. Le accompagnatrici dell’Agenzia federale rispondono: può
avvisarli anche più tardi. Dall’aeroporto. Torna di nuovo indietro. Avanti e
indietro… Quasi nel panico: l’Africa, adesso, all’improvviso, perché?! Che
ci faccio io in Africa?! Non voglio andare in Africa! Avanza ancora, verso
l’autista, lo strattona: «È Natate! Capisce? Natale! Voglio scendere! Per
favore, mi faccia scendere!». Un allievo lo trascina indietro. Una delle
accompagnatrici dell’Agenzia federale li raggiunge: «Adesso non può
scendere! Più tardi potrà scendere. All’aeroporto scenderà». «Sta’ a
sentire» gli dice l’altro allievo «all’aeroporto potrai scendere…» Cerca di
farlo sedere, ma è troppo tardi per calmarlo: «Non voglio fare nessun
campo! Nessun campo! Nemmeno un beach camp! Voglio andare a casa! E
voglio chiamare! Voglio chiamare immediatamente…». Urla correndo su e
giù per l’autobus… L’allievo che sta cercando di calmarlo si volta:
«Qualcuno gli dia un telefonino! Dannazione, un cellulare. Così chiama, una
volta per tutte…». Qualcuno gli passa un telefonino: «Eccolo, il cellulare.
Vedi? Un cellulare. Siediti e prenditi questo benedetto cellulare! Prendi
questo cellulare e falla finita!». Si siede e prende il telefonino. Muto e a
testa china. Digita il numero dei suoi genitori. Parla a voce bassissima:
Africa. Oggi stesso. Come se fosse ormai fuori da ogni dubbio che anche lui
sarebbe andato laggiù, con tutti gli altri trainees.
Ora sono sempre più vicini all’aeroporto. L’impianto è abbagliante. I
cartelli sono inconfondibilmente chiari e insistenti: terminal I e terminal II.
Cargo Lufthansa. Si intravedono i primi aerei. Attendono indolenti sulla
pista. Segni evidenti: della partenza, del cielo, del sole, di un lungo viaggio.
Segni che è tutto vero. Vero come un sogno, ma a tinte ancora più luminose.
I colori dell’aeroporto. Del latte solare. E non sono i soli a partire. Davanti
a loro viaggiano altri autobus dell’Agenzia federale. Dietro, ancora autobus
dell’Agenzia federale. Un convoglio immenso e composto. Di indiscussa

109
attendibilità e fiducia. Gli sguardi di alcuni allievi tradiscono addirittura
febbre di partenza. E chi non si farebbe prendere dalla febbre da viaggio,
qua? Anche solo un po’. Alcuni trainees discorrono di surf. Oppure
vogliono acquistare al Duty free, prima del decollo. Gli altoparlanti dei
pullman diffondono della musica. Le accompagnatrici dell’Agenzia federale
sono calmissime, come se la parte peggiore del viaggio fosse ormai
superata. Gli autobus svoltano di colpo a sinistra, non verso i terminal,
tagliano dentro i terminal, attraverso un portone protetto dal filo spinato,
direttamente sulla pista. A una certa distanza è visibile un gruppo di aerei
parcheggiati a sé. Proprio verso questi aerei sono diretti, costeggiando gli
edifici dell’aeroporto. Accompagnati da auto lampeggianti della polizia. A
destra e a sinistra. Come sotto scorta. Da una terrazza panoramica, alcuni
uomini li salutano con la mano. Le accompagnatrici dell’Agenzia federale
spiegano dagli altoparlanti: nessuna procedura interna all’aeroporto.
Bagaglio direttamente a bordo, dagli autobus. Impossibile fare shopping al
Duty free. Nessuna carta d’imbarco. Niente posti riservati… Karla sente
pronunciare parole come: volo speciale… Status speciale… Passeggeri
speciali… Le volanti della polizia scortano i pullman accerchiando il
gruppo di aerei parcheggiati a parte. Si trovano alla fine della pista. Aerei
per niente fuori dal comune. Né particolarmente vecchi, né nuovi. Airbus.
A330. Un allievo conosce perfettamente il modello: è molto bene informato
su autonomia (oltre 10mila chilometri) e capienza (335 passeggeri). Gli
aerei vengono azionati da turbine Rolls-Royce. Lo spiega come infervorato
da un entusiasmo infantile. Sotto il logo della compagnia aerea si legge, in
caratteri più piccoli: «In cooperation with the Agenzia federale per il
lavoro». Cinque autobus alla volta si arrestano davanti a ogni aereo. Siete
pregati di rimanere seduti, gridano le accompagnatrici dagli altoparlanti.
Per favore, restate seduti! A fatica riescono a trattenere gli allievi sui sedili.
I pullman, fermi l’uno dietro l’altro, vengono svuotati rispettando la fila,
prima i bagagli, lanciati dagli operatori dell’aeroporto su un furgone, poi i
passeggeri.
I primi trainees calcano la pista di rullaggio (alcuni fanno ciao con la
mano) verso gli aerei. Di tanto in tanto spunta qualche raggio di sole. Da
dentro il pullman, Karla vede il suo borsone volare sul furgone dei bagagli.
Poi si alza, è una tra gli ultimi. Davanti a lei si incammina l’allievo con
l’albero di Natale ricamato sul pullover. Adesso è calmissimo. Le
accompagnatrici dell’Agenzia del lavoro si congedano. Allo stesso modo in
cui si sono licenziate dagli altri allievi, incoraggiandoli, con il sorriso sulle
labbra. Augurano loro buon viaggio. Non voleranno insieme. Restano a
terra. Con gli occhi rastrellano già l’autobus: casomai qualcuno abbia

110
dimenticato qualcosa. O addirittura sia rimasto a bordo.
Karla è in piedi sulla pista per il decollo. Riflette se sia o meno il caso
di avvisare le accompagnatrici dell’Agenzia federale che, in effetti, lei non
potrebbe, o non dovrebbe, affatto volare con tutti gli altri. Che la sua
permanenza non è affatto prevista nel campo. Per via dei suoi trascorsi
disciplinari a SPHERICON. Che l’Agenzia del lavoro non abbia preparato alcun
comunicato? La nota sul suo attestato… Eppure, lo sportello del pullman è
già chiuso. Negli autobus, le accompagnatrici sono già assorbite dai loro
documenti. Quindi Karla segue i compagni lungo la pista. A questo punto, sa
che si unirà a tutti gli altri trainees, per solidarietà o perché è confusa,
forse anche per un senso di eternità, a ogni modo, sa che questi sono i suoi
ultimi passi in Germania, forse ancora cinquanta o sessanta passi sulla
pista, che salirà sull’aereo con i compagni e che volerà in Africa, senza fare
mai più ritorno. Troppi allievi. Troppi aerei. Il volo è troppo lungo. I costi
enormi, per poter seriamente contare di tornare a casa, un giorno, di certo
non a breve termine, ma anche in tempi più lunghi. Questo pensa Karla.
Solo un pensiero di passaggio. Con sé ha l’attestato. E che attestato.
Certificate of Professional Application. Con una nota. Addosso, però, non
ha più né documenti d’identità né altre carte. Ovunque essi siano. Ancora
sul pullman dalle accompagnatrici dell’Agenzia federale oppure già
sull’aereo. Non potrebbe nemmeno dimostrare chi è, o chi era una volta.
Solo un pensiero di passaggio. Accanto a lei camminano gli altri trainees.
Non solo le facce di alcuni ritardatari di SPHERICON, anche i diplomati di altre
scuole, da altri autobus. Sente fare il nome di TRINITY. E di ALPHA PARK.
Evidentemente, scuole simili a SPHERICON. Solo, più grandi e blasonate. E
sente i nomi di altre scuole ancora. In effetti, sarebbe assurdo pensare che
SPHERICON sia l’unica scuola del genere. Nessuno lo ha mai sostenuto.
Raggiungono le scalette che portano nell’aereo. Ad attenderli, in alto, un
uomo in divisa dell’Agenzia federale. Ha l’aspetto di uno steward. La sua
mano allude a un invitante benvenuto a bordo. Gradino dopo gradino, si
avvicinano al portellone d’ingresso. Karla pensa ai suoi genitori. A perché
non si sia mai fatta sentire da SPHERICON. Perché non avrebbe saputo cosa
scrivere, né cosa dire… E pensa a Roland Bergmann. Dove sarà mai
adesso? Solo, su una sedia nella hall della scuola? Oppure nel cortile, già
vestito da custode. Pensa questo senza alcuna ombra di scherno. Più sale,
più i suoi capelli al vento sono belli. Quasi leggiadri. Come se andasse in
vacanza. Qualsiasi cosa accada, pensa. E scompare nell’abitacolo
dell’aereo.

111
[1] Fest in tedesco significa «duro». [N.d.T.]
[2] Fromm in tedesco significa «pio». [N.d.T.]
[3] M agister Artium. [N.d.T.]

112
113
Table of Contents
Copertina
Frontespizio
Colophon
La scuola dei disoccupati

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Índice
Copertina 113
Frontespizio 2
Colophon 3
La scuola dei disoccupati 4

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