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Recensione a Il cane di Giacometti di Stefano Raimondi, Marcos y s, 2017

La poesia di Stefano Raimondi ci ha abituati a improvvisi colpi di violenza e a lunghe apnee. Ci ha


abituati ad una scrittura dove in uno spazio sempre immedicabilmente urbano, sia raggiunta la
perfetta fusione fra frammento, brano, scaglia luminosa e irta di dolore, cinematografico frame e
lunga sequenza narrativa, infine costruzione ampia, larga, poematica, progettuale. Conosco
pochissimi poeti la cui perizia artigianale nel concepire un progetto di poesia sia così meticolosa,
così paziente. Fra le tante cose che ho dovuto imparare dalla sua scrittura c'è anche questo: la
maieutica pazienza con cui un libro nasce alla sua verità e con cui cresce e attende il momento in
cui potrà farsi carne da leggere, carne abitata dal futuro lettore. Questa è l'etica della scrittura che
sorregge ogni verso di Stefano Raimondi e questa è la poesia in cui sono cresciuto.

Ed ecco che, dopo cinque anni dal primo volume (Per restare fedeli, 2013) è pubblicata la seconda
tappa della trilogia dell'abbandono, che è costituita dal volume Il cane di Giacometti, edito per
Marcos y Marcos. La trilogia dell'abbandono è un progetto di scrittura che affonda le radici nei
primi anni del duemila e che intende rendere conto ogni volta in maniera peculiare di una
particolare condizione tutta umana: l'abbandono e la rinascita. A discapito di quanto siamo soliti
pensare, infatti abbandono è una parola duplice, ambigua. Da un lato subito ci evoca il tormento
negativo di chi è lasciato solo, di chi è separato: abbandono in questa accezione è la parte che ha
perso il legame col sua totalità, è il separato inconsolabile, la parte maledetta che non si sa
consolare dal lutto infinito. Ma dall'altro, scavando un po' meno ingenuamente nel suo significato,
non possiamo non notare che abbandono al proprio interno ha una potenza positiva che è almeno
pari a quella negativa. Infatti abbandono etimologicamente proviene da una locuzione che
originariamente vuol dire vendere all'asta, lasciare andare: insomma, liberare. Non è un caso
certamente che il libro si apra proprio su questi versi: «ci sono abbandoni che non tengono\ ma
lasciano andare» (p. 15), E questa dualità, questa ambiguità è costantemente tenuta in conto nei
libri di Stefano. Ogni volta, almeno in questi due primi libri, c'è la necessità di rendere conto del
crollo di ogni cosa, della possibilità della distruzione completa, sostanziale della vita umana e al
contempo della sua inevitabile forza di rinascere, di risalire, «con il suo pezzo di bene in bocca» (p.
78). C'è nei versi di Stefano l'adesione a questo ritmo fondativo della vita, questa fiducia, questa
fedeltà.
Ma andiamo più vicino al libro, più dentro. Se nella prima tappa questo dissidio fra distruzione e
rinascita era saggiato, sul piano infernale, del rapporto fra storia singola e storia plurale, fra storia
minima e domestica e storia collettiva, questa seconda è tutta invece calata nel purgatorio
dell'intimità, tutta entro le mura di una città che è un «circondario di colpa» (p. 17), un luogo di
«resoconti\ che lasciano soli» (p. 21), che diventa «l'acuto della stortura»(p. 28). E allora se nel
primo capitolo di questa trilogia eravamo sia nei versi sia nelle sezioni nel tempo esploso, nel tempo
delle mine e della guerra che spacca i muri (C'erano allusioni continue alla Seconda Guerra del
Golfo, ai fatti di Genova del 2001, alla caduta delle Torri Gemelle), qui siamo nel rasoterra dei
tombini. Qui dove l'attesa, materiata di tempo – la più umana delle categorie – è la chiave che fa sì
che la storia di dolore si tramuti in una storia di rinascita: «si guarisce così nella città\ aspettando»
(p. 63). Nella prima tappa della trilogia il tempo era invece «il ticchettio delle mine», il tempo era
scandito dalla crudele necessità della storia e dalla sua lontana e presente violenza; qui invece il
tempo passa attraverso «i quattro passi storti» e conduce al cuore del libro, ovvero alla «Storia di
Natale» (un'altra allusione alla rinascita) che vede protagonisti un pianista zoppo e una gobba
claudicante. Questo piccolo romanzo d'amore dentro il libro rappresenta un passaggio essenziale,
esemplare: offre l'esempio di un amore senza scampo e senza ritorno. I due umili amanti si
ritrovano ognuno nelle storture dell'altro, semplicemente per dirsi che «si guardavano fino a
bastarsi» (p. 65).

Il rasoterra dei tombini è una delle figure più potenti di questa seconda tappa della trilogia. Insieme
all'immagine del cane stremato, smagrito e secco sottile come un filo ma resistente come il bronzo
del 1951 dello scultora Alberto Giacometti evocato dal titolo. I tombini e il cane sono fra loro
connessi, perché è proprio il cane quell'animale che più degli altri ha il muso vicino ai tombini. Un
cane che è come «un respiro in affanno» (p. 11), mai curato, selvatico e solitario eppure è l'animale
che è capace di cercare di vagare e quindi di togliere «la sentenza ai nomadi» (p. 48): assolve colui
che è in ricerca. Inoltre il cane è capace di comprendere con un'intuizione fisica, immediata, erotica,
che va al di là di ogni intellettualismo o schermo protettivo: «guardami come si annusano i cani tra
le gambe per capirsi» (p. 55). Soprattutto sono quelli che più amano ascoltare «i cori dei tombini»
(p. 41): i tombini sono a loro volta se non allusioni ai passaggi, alle imprevedibili svolte della vita,
nel rasoterra; dai tombini si accede a quello che Raimondi chiama il «vero delle cantine», alla verità
del sottosuolo, alla verità inconfessabile e sottile alla quale solo il cane stremato ma di bronzo trova
la via di accesso.
È come se in questo libro di Raimondi ci sia un progressivo inabissarsi dentro le viscere della città;
più ci si inabissa più ci si avvicina alla verità: «Ho sentito la via stordirsi\ la luce della città chinarsi\
i tombini chiamarsi uno\ ad uno come un coro» (p. 56). È come se l'abbandono potesse diventare
positivo soltanto dopo aver scoperto la bellezza terapeutica del basso, soltanto dopo che si è visto
dagli «scavi aperti in città» come «grotte rupestri» nascere «storie che escono piano dalle frasi\
come facce dai cunicoli» (p. 57). Ed è allora che il cerchio della città si apre (p. 80) e si accede al
cuore-atalante, al cuore sommerso della città, al cuore nell'apnea felice: «è inutile avere paura» (p.
85). Attraverso il furibondo dolore, si è come trasformati, mutati: «si aspetta così, che si diventi
altro\ che la pelle guarisca dagli abbracci» (p. 86). Si entra nella dimensione che prelude al terzo
capitolo della trilogia: l'amore rinnovato, l'amore che accoglie il sogno e la luce, lo stupore. Ci si
rende conto che il dolore è solo una parte della vita, senza nessun privilegio, è come un'altra: «dal
dolore si passa facendosi sottili\ come una luce d'alba che subito finisce» (p. 99).

BIO

Stefano Raimondi (Milano, 1964) poeta e critico letterario, laureato in Filosofia (Università degli
Studi di Milano). Sue poesie sono apparse nell’Almanacco dello Specchio (2006) e su Nuovi
Argomenti (2000; 2004). Ha pubblicato: Invernale (1999); Una lettura d’anni, in Poesia
Contemporanea. Settimo quaderno italiano (2001); La città dell’orto (2002); Il mare dietro
l’autostrada (2005); Interni con finestre (2009). Per restare fedeli (2013) e infine Soltanto vive,
(2016), Mimesis. È inoltre autore di saggi come: La ‘Frontiera’ di Vittorio Sereni. Una vicenda
poetica (1935-1941) (2000); Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio
Sereni e René Char (2007). È tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio.

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