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La manutenzione in tempo di crisi

Pier Paolo Falcone – Falcone s.a.s. consulenza e formazione

Crisi e comportamenti delle aziende


La crisi attuale, da cui pare che si incominci a intravvedere la via di uscita, è
la più grave dal Dopoguerra. Altri (ci auguriamo che siano solo dei “corvi”) la
considerano la più pesante da oltre un secolo a questa parte, peggiore della
Grande Depressione innescata dal crollo di Wall Street avvenuto il 29 Ottobre
del 1929; quindi comparabile con la prima Grande Depressione, quella del
1873 ÷ 1896 (anch’essa, guarda caso, originata dal fallimento di una banca
newyorkese, la Jay Cooke).
Per le imprese, si tratta di una crisi sia economica che finanziaria. Economica
per la forte contrazione degli ordini e del fatturato, con pesanti ripercussioni
sull’occupazione; finanziaria per la improvvisa difficoltà di accesso al credito,
nonostante il taglio dei tassi attuato dalla BCE per fronteggiare la crisi stessa
e le ripetute esortazioni alle banche.
La reazione delle imprese è inevitabile: il taglio delle spese non
indispensabili, la ricerca spasmodica di tutte le efficienze possibili, la
riduzione degli immobilizzi e l’eliminazione degli investimenti senza ritorno
immediato. Per la manutenzione tutto ciò significa, in concreto, drastico
abbattimento dei budget (tanto più facile quanto più l’attività è terziarizzata),
ridimensionamento delle scorte di ricambi – inclusi quelli “strategici” che,
semplicemente, non vengono più riapprovvigionati – e … richiesta di
allungamento della vita utile residua del macchinario!
Il rischio è che le aziende, manovrando la scure, anziché cercare modalità
innovative per snellirsi, semplificare i processi e divenire più efficienti,
recidano anche le “corde di sicurezza”, compromettendo seriamente quei
fattori di sopravvivenza indispensabili per affrontare efficacemente la
successiva e auspicata ripresa. Per minimizzare questo rischio, il
Management dovrebbe innanzitutto individuare accuratamente le fonti di
perdita interne, quindi coinvolgere i dipendenti, i fornitori e, laddove possibile,
gli stessi clienti nella ricerca e nella messa in atto di tutte le opportunità per
abbatterle.
Tornando alla contrazione degli ordini, da un punto di vista pratico – in
funzione delle scelte aziendali e delle esigenze dei clienti – è opportuno
distinguere due assetti finalizzati a ridurre la produzione:
 l’utilizzo intermittente della capacità produttiva, con periodi più o
meno lunghi di arresto degli impianti;
 il funzionamento continuo degli impianti, con saturazione parziale
della loro capacità produttiva.
Naturalmente le due situazioni possono essere compresenti nello stesso
Stabilimento / Unità produttiva, con riferimento a impianti diversi.
Gli indicatori di manutenzione
Prima di entrare nel merito delle conseguenze della crisi sulla manutenzione,
è utile richiamare alcuni indicatori di natura economica e finanziaria di
quest’ultima.
1. Costo totale annuo di manutenzione sul valore di rimpiazzo degli
impianti (alcune aziende usano il costo totale di manutenzione su
immobilizzi tecnici lordi): il rapporto non è influenzato dalla crisi, in
quanto indipendente dal grado di saturazione della capacità produttiva.
2. Costo di manutenzione sul costo di produzione (unitario o totale): il
rapporto è influenzato negativamente (cresce) dal sotto-utilizzo della
capacità produttiva, poiché i costi fissi di produzione rimangono
inalterati, mentre calano quelli variabili.
3. Costo di manutenzione per unità di prodotto: è influenzato
negativamente (cresce) dalla diminuzione dei volumi di produzione.
4. Costo totale di manutenzione sul fatturato: il rapporto è influenzato
negativamente sia dal sotto-utilizzo della capacità produttiva, sia dalla
probabile contrazione dei margini dovuta alle difficoltà di mercato
(minori prezzi).
5. Immobilizzo in parti di ricambio per manutenzione su capitale circolante
totale: può risultare maggiore (svantaggio apparente) se la contrazione
dei volumi produttivi comporta una riduzione delle scorte di prodotto
finito e di materiali diretti.
Molte aziende fanno riferimento soprattutto al secondo e al terzo indicatore,
con le conseguenze descritte in seguito.

La manutenzione con utilizzo intermittente della capacità produttiva


È la situazione più semplice – delle due individuate – dal punto di vista della
gestione delle attività manutentive; vale comunque la pena di sottolineare
alcuni aspetti.
In primo luogo, visto che gli impianti, quando sono in funzione, risultano
tendenzialmente saturati (sarebbe poco conveniente attuare fermate non
sufficienti a smaltire tutta o quasi la capacità produttiva in eccesso), l’attività
di manutenzione deve assicurare l’affidabilità e la disponibilità degli stessi;
ricordando inoltre che per molti impianti – si pensi ad esempio a un
compressore aria, o a un generatore di vapore – il funzionamento
intermittente è di per sé causa primaria di deterioramento e quindi di
inaffidabilità. C’è la possibilità di utilizzare i periodi di fermata del processo
produttivo per interventi di tipo preventivo, ma questo fa lievitare
ulteriormente il costo di manutenzione per unità di prodotto, oltre agli altri tre
indicatori economici sopra elencati. In sintesi: affidabilità e disponibilità
vengono a costare più care.
È poi necessario, per evitare ulteriori sprechi, riprogrammare le attività di
manutenzione periodica, tenendo conto che la stragrande maggioranza di
esse è legata al tempo di funzionamento, e non al calendario.
Si tenga infine conto delle inevitabili conseguenze negative sulla ispezione e
sulla manutenzione “autonoma” (T.P.M.) svolte dal personale di esercizio.
L’esigenza di miglioramento della efficienza della mano d’opera, per altro
penalizzata dalla discontinuità del processo produttivo, porta a sopprimere il
cosiddetto “lavoro indiretto” (il tempo di ispezione è a tutti gli effetti una
“perdita” di efficienza). Quanto meno, cala l’efficacia di queste attività, per
ragioni sia di motivazione del personale, sia pratiche: si tratta di attività
periodiche divenute – con il T.P.M. – routine, poco compatibili quindi con una
organizzazione del lavoro che “rompe” la routine stessa per tutto ciò che ha
frequenza minore della ripetizione del ciclo lavorativo vero e proprio. Ne
consegue la necessità di riportare in capo alla manutenzione una serie di
compiti normalmente svolti dal personale di produzione, eliminando tutti quelli
che sono effettuabili solo con gli impianti in marcia.

La manutenzione con saturazione parziale della capacità produttiva


Questo assetto produttivo può essere frutto di una scelta “coraggiosa” del
management, ma anche – più spesso – di una scelta obbligata: si pensi a tutti
quegli impianti di produzione il cui arresto (se non per un periodo
relativamente lungo, e a seguito di un adeguato procedimento di “messa in
conservazione”) causa seri danni, oppure il cui riavviamento comporta costi /
perdite eccessivi rispetto al risparmio realizzato con la fermata.
La caratteristica fondamentale di questa situazione è, contrariamente al caso
precedente, la perdita di importanza della disponibilità; e, con essa, dei due
fattori che la determinano: l’affidabilità e la manutenibilità.
Per quanto riguarda l’affidabilità, posto di fare riferimento a un realtà
aziendale che ha già sostenuto in passato i costi (o, meglio, gli investimenti)
necessari a portarla ad un livello adeguato, restano i costi del suo
mantenimento nel tempo, dovuti essenzialmente alle attività periodiche di
“manutenzione pianificata”, di tipo preventivo / proattivo e predittivo. Queste,
ovviamente, possono essere ridotte, ricalcolandone la frequenza in base alla
minore velocità di degrado del macchinario, conseguente al minore carico
gravante sulla sua capacità produttiva.
In pratica, però, si procede spesso in modo assai più “empirico”: a fronte di
una riduzione del volume produttivo dell’ x%, allo scopo di mantenere
invariato il costo di manutenzione per unità di prodotto (o quello sul costo di
produzione), si tende a ridurre la frequenza delle attività periodiche della
stessa percentuale, dimenticando che la diminuzione del carico non ha la
stessa influenza sui vari modi di guasto, e che la relazione tra affidabilità e
intervalli di manutenzione non è lineare. Il risultato, quasi sempre, non è
quello sperato: l’effetto immediato è un sensibile incremento dei difetti e dei
guasti, e quindi dei costi di manutenzione. Più a lungo termine, l’attenzione
eccessiva ai costi anziché all’affidabilità porta inevitabilmente a un
incremento incontrollato dei rischi.
A questi danni se ne aggiunge di norma un altro, non monetizzabile ma non
meno grave: la demotivazione del personale, che percepisce il sopravvenuto
disinteresse dell’azienda per l’affidabilità degli impianti come una scarsa
considerazione degli sforzi precedentemente fatti dal personale stesso per
migliorarla. Passata la crisi, come si potrà recuperare questa situazione?
Una valida alternativa, dal punto di vista economico, sarebbe sostituire –
laddove possibile – parte delle attuali modalità di manutenzione preventiva e
predittiva con altre più semplici e meno costose, anche se richiedenti una
frequenza più elevata, affidate al personale di esercizio (si fa qui riferimento a
contesti produttivi in cui si sia sviluppata l’applicazione della metodologia
T.P.M., o altre forme di coinvolgimento sul buon funzionamento del
macchinario).

Affidabilità o manutenibilità?
Da quanto detto sopra – e chi scrive ne è assolutamente convinto – emerge
che qualsiasi azione, avente come conseguenza, anche non voluta, una
minore affidabilità del macchinario, provoca un incremento dei costi di
manutenzione per unità di prodotto o rapportati al costo di produzione
(indicatori 2. e 3.); anche se in valore assoluto, e quindi in rapporto al valore
di rimpiazzo del macchinario (indicatore 1.), si ha una riduzione.
Del resto, il costo di manutenzione dipende essenzialmente da due fattori:
l’affidabilità del macchinario e l’efficienza delle attività manutentive, entrambi
da tenere al massimo livello possibile. Quindi solo un incremento significativo
dell’affidabilità permette, a parità di efficienza, di ridurre il costo di
manutenzione.
Le leve per ottenere un significativo risparmio, oltre a quanto citato al termine
del paragrafo precedente, sono quindi riconducibili a un abbassamento (che,
ovviamente, non deve riguardare i guasti che possono compromettere il
funzionamento degli impianti critici per il flusso produttivo e, men che meno,
quelli che possono avere un impatto sulla sicurezza o sull’ambiente) della
manutenibilità o, per meglio dire, del livello di servizio reso dalla
manutenzione:
 riduzione degli organici di manutenzione (leva più praticabile se si
tratta di personale, anche solo in parte, esterno);
 riduzione dell’orario di lavoro dei manutentori (in primo luogo,
eliminazione degli straordinari);
 riduzione delle scorte di ricambi (non quelli “strategici”) – questo
punto introduce anche benefici circa l’indicatore 5.;
 rallentamento (o arresto) dello sviluppo di sistemi informativi di
supporto.

Conclusioni
Sin qui non sono stati citati alcuni fattori di riduzione dei costi di
manutenzione utilizzabili indipendentemente dalle circostanze; ne ricordiamo
tre:
 il passaggio dalla riparazione dei guasti alla ricerca ed eliminazione
delle loro cause;
 la sostituzione della manutenzione su guasto con quella preventiva –
prevenire costa meno che curare, anche nel caso della “salute” del
macchinario;
 l’ottimizzazione delle attività di manutenzione preventiva e, in
particolare, l’eliminazione di quelle ridondanti (es.: il controllo
periodico con chiave dinamometrica degli organi di serraggio su cui
è stata anche apposta una marcatura a vernice per evidenziare “a
colpo d’occhio” un eventuale allentamento) o addirittura inutili (es.: lo
stesso controllo dopo un intervento migliorativo che elimina il rischio
di allentamento).
Tutto ciò, chiaramente, si basa sulla “affidabilità” della risorsa umana, a sua
volta fondata soprattutto sulla competenza e sulla motivazione.

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