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Geografo. Università di Bologna, sede di Ravenna
1
La relazione non toccherà, per ragioni di tempo, elementi rilevanti dell’urbanizzazione, e che
forniscono esempi che arricchiscono il quadro qui abbozzato, come l’urbanizzazione ottocentesca
nell’Est europeo e nelle città coloniali.
2
G. Botero, 1589, Della Ragion di Stato libri dieci, con tre libri delle cause della grandezza e
magnificenza delle Città, in Venetia: Appresso i Gioliti.
3
Nel senso di “un complesso di individui profondamente, essenzialmente, biologicamente legati alla
materialità in cui esistono” (Foucault, 2004, trad. it., 309).
1
In questa cornice, con il XVIII secolo, l’architettura e l’urbanistica divengono temi
dell’arte del governare, e il governo delle città diviene il modello di razionalità di
governo che si applica al territorio nel complesso (Foucault, 1982 e 2004).
Con la città ottocentesca, e in ragione di questa nuova arte del governare, lavoro e
tecnica assumono proporzioni e intensità qualitativamente e quantitativamente inedite.
Ora, la città ottocentesca presenta al massimo grado di densità quell’elemento che
tanto preoccupava Hobbes e che solo il “sistema Westfalia” (Neve, 2005a) sembrava
in grado di controllare, la “moltitudine” (Balibar, 2002) (fig. 1).
5
Per cui ci sia consentito rinviare a Neve, 2005a e 2005b.
4
concepita come una qualità che si aggiunge alla loro natura di soggetti, facendone soggetti
anche di comunità. (Esposito, 1998, p. X)
Ciò che è comune agli individui che abitano un territorio non può però esser
rappresentato come un ‘qualcosa’, non può sostanziarsi in una ‘proprietà’, tanto meno
la proprietà dello stesso territorio così come prescrive la dottrina dello stato-nazione:
Che tale possesso sia qui riferito soprattutto al “territorio” non sposta le cose dal momento
che il territorio è definito appunto dalla categoria di “appropriazione” come matrice
originaria di ogni altra proprietà successiva. Se ci si ferma solo un attimo a riflettere fuori
dagli schemi correnti, il dato più paradossale della questione è che il “comune” è
identificato esattamente con il suo più evidente contrario: è comune ciò che unisce in
un’unica identità la proprietà - etnica, territoriale, spirituale - di ciascuno dei suoi membri.
Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune. (Esposito, cit.,
pp. XI-XII)
Di fatto, non è un caso se il territorio ha assunto storicamente tale ruolo, perché
(…) esiste una costitutività strumentale dello spazio intuitivo originario (per mezzo degli
strumenti d’orientamento). (Stiegler, 1996, 271)
Proprio tale costitutività rappresenta il fondamento sul quale si fonda il legame
comunitario, nella materialità dei media tecnici e dei supporti, in tutto ciò che
possiamo ricondurre a ciò che Simondon chiama il “preindividuale” (la lingua, la
struttura familiare, la religione, i modi di produzione) (Simondon, 1989b) e che qui
chiameremo anche il “passato non vissuto”, che rende possibile una condivisione che
è innanzitutto estetica e semiotica, una messa-in-comune di sensoria
(communautisation) (op. cit., 274), che producono l’uno: la società.
(…) la società, in proprio, non esiste, dunque neanche la comunità (…) essa non è che una
disposizione di tali dispositivi o sistemi, per quanto, nonostante tutto, questa disposizione,
per costituire l’uno, debba essa stessa indossare una singolarità che è idiomatica, detta
altrimenti, singolare e comune allo stesso tempo. (Stiegler, 2004, 28)
Tenterò, a questo proposito, di indicare un percorso che attraversa le molteplici
trasformazioni della grande città europea nel XIX secolo (soffermandomi in chiusura
sull’esempio italiano), trasformazioni che potremmo arrischiarci a considerare tutte
convergenti nell’articolare “spazi di sicurezza” per mezzo dell’approntamento e del
mantenimento della quotidianità. In questo senso, la metropoli ottocentesca è un
enorme dispositivo di comunicazione che, rispetto alla città preindustriale, non
presenta soltanto differenze dimensionali, ma soprattutto livelli di operatività ed
5
efficacia semiotica che agiscono ad un livello preriflessivo, in cui le informazioni
vengono “embodied”6. Vediamo come.
6
A questo proposito si veda Varela, 1999; Varela, Thompson, Rosch, 1991; Varela and Depraz, 2000.
6
Figura 2. Sensoria della metropoli ottocentesca (da Amin e Thrift, 2005, modificata).
La quotidianità è però un sistema spazio-temporale complesso in cui apprendiamo ad
orientarci non solo attraverso le pratiche spaziali, ma anche perché veniamo “educati”
spazio-temporalmente ad una tradizione che si presenta come un ‘nostro’ passato pur
senza appartenere alla nostra esperienza. Si tratti di apprendere il ritmo delle abitudini
quotidiane, l’uso degli strumenti temporali (orologi, calendari), gli orizzonti di
movimento negli spazi pubblici, nelle case, verso e dalla scuola, i giochi, noi
apprendiamo un orientamento esperito come presente, che però è impregnato7 di un
passato non vissuto da noi, ma ereditato. Tale passato è un “preindividuale”8
(Simondon, 1989b), di cui vedremo in seguito il ruolo di composizione della
moltitudine.
7
“È vero che pensiamo soltanto con una piccola parte del nostro passato; ma è con tutto il nostro
passato, compresa l’inclinazione originaria del nostro animo, che desideriamo, vogliamo, agiamo.
Dunque il nostro passato ci si rivela integralmente attraverso la spinta che su di noi esercita e sotto
forma di tendenza, sebbene solo una piccola parte di esso possa venir rappresentato” (Bergson, 1941,
trad. it. 10).
8
Si veda anche Whitehead, 1928.
7
La città come macchina sinestetica
In cosa è “sinestetica”9 la metropoli ottocentesca? Se si fa riferimento all’accezione
originaria di “sinestesia” – il cui verbo ‘synaisthanomai’ designa non solo il
‘percepire simultaneamente’, ma anche il ‘condividere percezioni o sensazioni’ – la
metropoli del XIX secolo è sinestetica nella misura in cui costruisce uno spazio della
“sensibilità comune”, uno “spazio del sentire insieme” (Arendt, 1958). E questo
attraverso i dispositivi e le reti tecniche, la stessa materialità del costruito, che
presiedono al mantenimento della quotidianità, e che agiscono come dei sensoria
communia, il cui primo esempio, costitutivo della formazione delle città in età
moderna, sono state le vedute e le piante urbane (Neve, 2005a, 2005c).
La metropoli ottocentesca è certamente multimediale e invasiva dal punto di vista
sensoriale.
They rattled on through the noisy, bustling, crowded street of London, now displaying
long double rows of brightly-burning lamps, dotted here and there with the chemists'
glaring lights, and illuminated besides with the brilliant flood that streamed from the
windows of the shops, where sparkling jewellery, silks and velvets of the richest colours,
the most inviting delicacies, and most sumptuous articles of luxurious ornament,
succeeded each other in rich and glittering profusion. Streams of people apparently
without end poured on and on, jostling each other in the crowd and hurrying forward,
scarcely seeming to notice the riches that surrounded them on every side; while vehicles of
all shapes and makes, mingled up together in one moving mass, like running water, lent
their ceaseless roar to swell the noise and tumult (…) Nor were there wanting objects in
the crowd itself to give new point and purpose to the shifting scene. The rags of the
squalid ballad- singer fluttered in the rich light that showed the goldsmith's treasures, pale
and pinched-up faces hovered about the windows where was tempting food, hungry eyes
wandered over the profusion guarded by one thin sheet of brittle glass--an iron wall to
them; half-naked shivering figures stopped to gaze at Chinese shawls and golden stuffs of
India. There was a christening party at the largest coffin-maker's and a funeral hatchment
had stopped some great improvements in the bravest mansion. Life and death went hand in
hand; wealth and poverty stood side by side; repletion and starvation laid them down
together. (Charles Dickens, Nicholas Nickleby, 1838-39)
Nel tentativo di governare la moltitudine, sempre attraversata da tensioni
potenzialmente distruttive generate dalla riorganizzazione spazio-temporale indotta
dall’industrializzazione, i sensoria urbani separano funzionalmente l’azione dei sensi
9
Si tralascia qui, ovviamente, l’accezione più nota, retorica e poetica, del termine.
8
nell’individuo, ricomponendola in senso transindividuale, collettivo, in un ambiente
che diventa una “seconda natura”. Ambiente che negli anni trenta del Novecento
risuona nell’“Uomo Collettivo” che Auden, in un momento storicamente
significativo, osserva nelle strade e nelle case di New York:
Into this neutral air / Where blind skyscrapers use / Their full height to proclaim / The
strength of Collective Man, / Each language pours its vain / Competitive excuse: / But who
can live for long / In an euphoric dream; / Out of the mirror they stare, / Imperialism’s face
/ And the international wrong. // Faces along the bar / Cling to their average day: / The
lights must never go out, / The music must always play, / All the conventions conspire /
To make this fort assume / The furniture of home; / Lest we should see where we are, /
Lost in a haunted wood, / Children afraid of the night / Who have never been happy or
good.10
La spinta verso la modernizzazione della città nel XIX secolo è guidata dalla visione
degli spazi urbani come ambito di circolazione, una visione che coniuga l’idea del
libero movimento (delle merci, del denaro, delle persone) all’idea di habitat
‘igienico’, dal punto di vista sanitario e morale. Il moderno concetto di circolazione –
affermatosi nel XVII secolo con il modello della circolazione sanguigna di Harvey –
viene applicato, dalla metà del XVIII secolo, alla ricchezza, al denaro11, alle idee e
all’informazione e, dopo il 1880, al traffico, all’aria e all’energia (Illich, 1988). Tale
mutazione semantica segnala la nuova attenzione per lo spazio-popolazione, la cui
“ricchezza” (e anche la sua potenziale pericolosità) è l’essere uno spazio-movimento
(Cavalletti, 2005). Si afferma la nuova nozione di “ambiente urbano”, che compare
per la prima volta nel 1842 nell’Avant-propos di Balzac a La comédie humaine, in cui
lo scrittore segnala la sua intenzione di mostrare i modi di agire e pensare del XIX
secolo come Buffon aveva fatto nel suo studio della vita animale. La verve modernista
degli ingeneri sanitari che, a partire dall’esempio parigino, domineranno la scena
urbana con i loro progetti di pianificazione urbanistica – gli “igienisti” – conserverà
questo nesso tra igiene biologica e morale.
La città ottocentesca produce una brusca discontinuità nelle modalità di ricezione
dell’ambiente urbano. Come nota Richard Sennett (Sennett, 1994), la trasformazione
della città in un ambiente che deve favorire la circolazione, in uno spazio che è una
“pura funzione del movimento”, diminuisce la funzione degli spazi pubblici come
10
W. H. Auden, September 1, 1939, in Another Time (1940), trad. it. in Un altro tempo, a cura di N.
Gardini, Milano: Adelphi, 1997, pp. 188 e 189.
11
Se ne veda l’apoteosi nei romanzi di Emile Zola La cuccagna, 1872 o Il denaro, 1891.
9
ambiti di contatto e d’incontro anche interclassista – processo che si acuirà con il
prevalere del trasporto individuale sul trasporto collettivo nel corso del Novecento.
La città in questo periodo si colloca sulla soglia storica in cui i luoghi sono ancora
“contenitori d’informazione” ma sono già in campo le innovazioni, come il telegrafo
e, in seguito, il telefono, che muteranno radicalmente il senso della comunicazione e
trasmissione di informazioni:
Nel passato, i cambiamenti nei media hanno sempre influito sui rapporti tra i luoghi.
Hanno influito sulle informazioni che la gente portava nei luoghi e sulle informazioni che
la gente riceveva in determinati luoghi. Ma i rapporti tra luogo e condizione sociale erano
ancora piuttosto saldi. I media elettronici hanno fatto un nuovo passo avanti e l’hanno
portato a una dissociazione quasi totale tra collocazione fisica e “collocazione” sociale
[…] Un tempo “comunicazione” era sinonimo di “viaggio” […] Un tempo, passare da una
situazione all’altra e da una condizione sociale all’altra, significava anche andare da un
posto all’altro. Un luogo definiva una situazione distinta, perchè i suoi confini
delimitavano percezione e interazione. (Meyrowitz, 1993, 198-99)
Da questa nuova concezione ‘circolatoria’ dello spazio derivano due paradigmi
solidali: il paradigma “idraulico” e quello “ferroviario”.
Il nuovo carattere della città ottocentesca era già stato illustrato da Walter Benjamin,
nell’indicarne la natura sotterranea. Quella che si afferma con la modernizzazione
richiesta dagli “igienisti” è la città sotterranea che si coordinerà funzionalmente con
quella di superficie quando, con l’espansione d’inizio Novecento, le reti idriche,
fognanti, energetiche, fino alla ferrovia metropolitana, si articoleranno con il sistema
viario nel delineare non solo la ripartizione funzionale delle aree, ma la stessa
gerarchia areale che è alla base di quel motore della crescita urbana che è il mercato
immobiliare (figg. 3-4).
10
Figura 3. Il sottosuolo della Londra ottocentesca (da Vercelloni, 1994).
11
Figura 4. Il sistema fognario parigino costruito tra il 1856 e il 1878 (da Gandy, 1999).
La città è anche un enorme apparato di comunicazione in cui la scrittura prolifera
lungo tutte le superfici urbane – su tutta la pelle della città, come uno smisurato
tatuaggio – con modalità e portata diverse. Nel 1852 si apre il grande magazzino Le
Bon Marché, a cui ne seguiranno molti altri sempre più monumentali (fig. 5),
adeguandosi allo stile edilizio in ferro e vetro che ha nel Crystal Palace di Paxton
costruito per la prima Esposizione universale (Londra 1851) il primo grande esempio.
12
Figura 5. Sezione funzionale del grande magazzino A la Belle Jardinière del 1867 (da Vercelloni,
1994).
Ma già precedentemente i passage, le gallerie ricoperte in vetro che collegano le vie
interne, avevano manifestato la nuova natura della città. All’epoca in cui Hugo scrive
Notre-Dame de Paris i passage ed i magasin de nouveautés sono già innumerevoli e
densamente frequentati e i grandi magazzini cominciano a proliferare con i prezzi da
ingrosso e le nuove tecniche di vendita (il giro d’affari del Bon Marché passa dai
450.000 franchi del 1852 ai 21 milioni del 1869), proliferazione che porterà a un turn
over delle proprietà e a un dopage del mercato immobiliare che raggiungerà il
culmine proprio con il Secondo Impero (Benevolo, 1993, 92-99).
D’altra parte la superficie degli edifici viene ricoperta sempre più dai manifesti
pubblicitari che diventano l’epidermide comunicativa della città, l’uomo stesso –
l’uomo-sandwich o homme-affiche – diviene portatore del messaggio commerciale.
Quando nel 1857 al Louvre si avrà la prima illuminazione elettrica stradale
(Benjamin, 1986, trad. it. 724) la città inizierà a chiudersi all’ultimo frammento di
natura che la sovrastava, la visione del cielo, completando la trasformazione in natura
dell’ambiente urbano.
Le superfici comunicative della grande città, siano esse en plein air come la
pubblicità o interne come il cinema, costituiscono in quanto manifestazioni collettive
“i sogni ad occhi aperti della società”, come afferma Kracauer, che tendono a
13
produrre uno spazio “sincrono” – in un continuo presente – in cui le singolarità
individuali vengono omologate alla quotidianità12.
L’attenzione di Benjamin per la “naturalizzazione” dello spazio urbano si congiunge
al suo interesse per la città invisibile, sotterranea. Se i passage sono “cunicoli di
superficie”, il métro diviene di notte il loro analogo: un dedalo di percorsi il cui unico
filo d’Arianna è dato dai toponimi che si costituiscono in una topografia mentale
incongruente rispetto a quella stradale di superficie. Infatti “qui sotto non resta traccia
delle collisioni e delle intersezioni dei nomi che formano la rete linguistica
superficiale della città” (Benjamin, 1986, trad. it. 131).
L’haussmannizzazione parigina dei grands travaux (1853-1870), come modello che
farà scuola, esalterà l’idea di circolazione. Sia per quanto riguarda la regolazione
delle acque (paradigma “idraulico”), che, sul fondamento dell’igiene urbana (fig. 4),
segnerà per molte città la fine del loro rapporto diretto con l’elemento fluviale e la
creazione di una sorta di città ideale del sottosuolo, la cui opera di razionalizzazione
dei fluidi dovrà essere la garanzia del benessere della città di superficie (Vercelloni,
1994; Gandy, 1999). Sia per quanto riguarda la nuova concezione della strada urbana
che, secondo Haussmann, è il prolungamento della strada ferrata (paradigma
“ferroviario”). Già a partire dalla prima stazione, la Gare de Strasbourg, chiamata dal
1854 Gare de l’Est, viene edificato il rettifilo del Boulevard de Strasbourg come
prolungamento della testa del binario. Questa visione di grande impatto percettivo –
l’arrivo nella stazione urbana, dopo un viaggio che è un’esperienza assolutamente
nuova rispetto al periodo preindustriale, e l’impatto del grande viale rettilineo e largo
– viene incardinata a scala metropolitana dalla “grande croisée”, la crociera viaria il
cui asse est-ovest (rue de Rivoli-rue Saint-Antoine) incrocia l’asse nord-sud tramite
l’apertura de boulevard de Sébastopol (inaugurato nel 1858), che prosegue proprio il
boulevard de Strasbourg. La stazione diventa così lo spazio di mediazione non
soltanto tra il territorio e la metropoli, ma anche tra il nuovo mondo industriale e
l’ambiente urbano: mentre il lato rivolto verso la città si armonizza con lo stile
12
Cfr. Stiegler, 2004, 150 sgg.; Brose, 2004. Anche qui si evidenzia la contraddizione genetica dello
stato-nazione delineata in apertura. Lo spazio sociale sincrono, infatti, pur essendo un dispositivo
estremamente efficace per gestire la moltitudine, crea una doppia frizione, che finisce per generare
feedback autodistruttivi. Il primo elemento di attrito (e il più grave) è la progressiva eliminazione della
possibilità individuale di libertà dallo Stato, nella misura in cui la sincronicità azzera la presenza del
passato non vissuto al cui interno e contro il quale si definiva la soggettività. Il secondo elemento
(direttamente conseguente dal primo) è costituito dalla scarsa capacità di uno spazio sociale sincrono
nel “produrre popolo”, fermo restando la sua efficacia nel produrre consumatori.
14
edilizio urbano (fig. 6), l’interno si presenta come un vero e proprio spazio
industriale, in cui il mondo della fabbrica diventa esperienza ‘normale’ di qualsiasi
viaggiatore o passante (fig. 7) (Schivelbusch, 1988).
Figura 6. La Gare de l'Est, costruita tra il 1847 e il 1850 (da Schivelbusch, 1988).
15
Figura 7. C. Monet, La Gare Saint-Lazare, 1877, Paris, musée d'Orsay.
13
La promiscuità e l’informalità dei caffé sarà abbandonata dalla borghesia nel XIX secolo in favore
dell’ambiente dei club.
16
Figura 8. Uno gin palace londinese (da Schivelbusch, 2000).
La città ottocentesca funziona – come macchina sinestetica – attraverso la costruzione
di ritmi quotidiani gestiti da dispositivi che devono garantire, nei limiti del possibile,
la fluidità degli spostamenti in una sorta di coreografia su grande scala. A questa
caratteristica va ricondotta sia l’osservazione di Simmel sulla differenza strutturale tra
strada di campagna e di città (Simmel, 1908), come anche la sua caratterizzazione
dell’appuntamento [rendez-vous] per le strade della metropoli come tensione tra
fuggevolezza puntuale e fissazione spazio-temporale. Questa intermittenza è regolata
da dispositivi tratti dal paradigma ferroviario, come la segnaletica stradale e i primi
semafori (utilizzati a Londra e copiati da quelli impiegati per il traffico ferroviario).
Regolazione che arriva al culmine con la percezione dello spazio urbano determinata
da quel doppio sotterraneo della metropoli che è il métro.
In questa stessa prospettiva va vista la “scoperta della notte” (Faure, 2000;
Schivelbusch, 1994; Beltran-Carré, 2000), resa possibile dall’illuminazione pubblica,
prima a gas e poi elettrica. L’illuminazione e la nuova trama stradale canalizzeranno
la moltitudine sia all’interno di spazi semi-pubblici preesistenti come i passage, sia
nelle nuove strutture rese possibili dalle innovazioni tecnologiche in materia edilizia
17
come le gallerie, i grandi magazzini, i mercati generali14. La compressione spaziale
resa possibile dai nuovi mezzi di trasporto ha come correlato l’espansione temporale
del quotidiano, in cui il tempo della produzione e il tempo del consumo si estendono a
colonizzare la notte.
14
Tralasciamo qui di occuparci dell’insieme di nuovi luoghi che verranno creati per orientare nel
nuovo spazio pubblico la popolazione, modificando radicalmente il panorama urbano: nuovi luoghi di
culto, Municipi, Palazzi del Governo, teatri, musei, biblioteche, quartieri industriali, degli affari,
ospedali, cimiteri, scuole, manicomi; senza contare la creazione di quell’influente sistema di
orientamento collettivo che è l’istruzione pubblica, con le sue sedi e mezzi di disciplinamento.
15
Su questo termine si veda Neve, 2005b.
18
utilizzo che una qualità da contemplare. È in questo senso che l’abitudine che
sottintende le pratiche urbane ha un peculiare ruolo formativo, favorendo, come
avviene in generale per le strutture iterative e ricorsive che caratterizzano le istituzioni
sociali, il preservarsi di una continuità negli atti e nei comportamenti, soprattutto in
epoche di mutamento o crisi. Il fatto poi che il tessuto architettonico possegga la
compresenza di elementi di epoche storiche diverse viene percepito, in questo genere
di situazione, anche attraverso l’educazione impartita sia dall’ambiente sociale e
familiare, sia, soprattutto, dai sistemi d’istruzione. D’altro canto, il nostro stesso senso
della temporalità è incarnato dalla materialità dell’edificato urbano: la materia
architettonica è materia temporalizzata. La materia del costruito – com’era ben chiaro
a Rodolico – si condensa in tempo, data la sua origine tecnica, e tuttavia le sue
trasformazioni nel tempo sono le condizioni della coscienza sociale urbana della
temporalità. Il passato non vissuto, inteso in questo caso come architettura storica, ben
incarna il ruolo principe delle tradizioni culturali, la cui durata per più generazioni
vuole garantire l’armonizzazione dei “tempi” individuali all’interno di una cornice
temporale unitaria: non è un caso se gli stati-nazione hanno rivolto particolare
attenzione alla necessità di approntare il collante culturale della comunità nazionale.
In questo consiste l’ethos urbano: in una “abitabilità” fondata su una “abitualità” che,
a sua volta, è strutturata da un milieu che può avere un maggiore o minore grado di
“sinestesia”, da intendersi, come s’è detto, nel suo senso originario di “comunanza di
sensazioni-emozioni”, di un “sentire insieme”.
La vera novità ottocentesca sta nel coniugare le nuove, pressanti esigenze di
costruzione di un territorio nazionale con la nuova idea di città basata sulla
circolazione e sulla rendita immobiliare che ha nella Parigi del Secondo Impero il suo
modello più noto e influente. E nella produzione del popolo – come base etnica
“fittizia” della popolazione (Balibar, 1991) – il problema era di conciliare tale sforzo
con le caratteristiche sinestetiche della città, che rendevano poco praticabile – come
avevano ben intravisto Benjamin e Musil – un’educazione nazionale impartita
attraverso la pianificazione dello spazio urbano:
[…] lo scopo della maggior parte dei monumenti comuni è quello di suscitare un ricordo,
di incatenare l’attenzione o di dare ai sentimenti un indirizzo pio […] e a questo scopo
principale i monumenti falliscono sempre […] Non si può dire che noi non li vediamo;
sarebbe più giusto affermare che essi non si fanno osservare, che si sottraggono ai nostri
sensi […] Tutto quello che dura perde la forza di colpire. Tutto quello che forma le pareti
della nostra vita, per così dire, le quinte della nostra consapevolezza, perde la capacità di
recitare una parte in questa coscienza. (Musil, 1927, trad. it. 63)
19
I monumenti, infatti, potranno ricoprire con efficacia il loro ruolo, paradossalmente,
solo attraverso la loro riproduzione e diffusione in immagini: cartoline, libri di testo
(Sicard, 1999).
Sensoria come gli edifici, i monumenti – essendo time-biased (Innis, 1950), dunque
destinati alla trasmissione del passato non vissuto – sono eminentemente “pubblici”,
nel senso che sono sottoposti al controllo dello Stato, ma possono funzionare anche
perché i media “leggeri”, destinati alla comunicazione – space-biased, come i mezzi
d’informazione, i libri di testo – ne allargano la conoscenza e l’interpretazione
‘corretta’, agevolandone il ruolo orientante, presso una moltitudine destinata a essere
trasformata in popolo.
21
Lo stesso neomedievalismo non è in fondo che una variante del pittoresco, che
impropriamente subordina la struttura degli spazi pubblici ad una visione di tipo
vedutistico: favorendo la fruizione prospettica degli edifici e dei monumenti, la
relativa individualità degli oggetti architettonici rispetto al tessuto circostante, la
qualità compositiva in senso pittorico che il centro storico deve possedere e che
costituisce il criterio di selezione che alimenta e sostiene l’azione dei “cultori”.
Un caso esemplare, in tal senso, è lo scontro sul piano di risanamento del Ghetto di
Verona, che nel 1913 vedrà i cultori opporre alle ragioni dei tecnici motivazioni
basate sulla conservazione degli scorci e delle vedute “tipiche”.
Se in alcuni casi i vincoli e le tutele che si moltiplicheranno con l’attività delle
Soprintendenze consentiranno non solo la salvaguardia del patrimonio archeologico,
ma anche il suo studio al fine di ricavare su base scientifiche la storia urbana, la gran
parte dell’ambiente antico delle città italiane verrà raccordato, all’insegna del
pittoresco, sia ai nuovi sobborghi (si vedano i casi del quartiere Milanino, del Lido di
Albaro o della Collina di Torino), sia a porzioni di paesaggio sulla base, come nota
Guido Zucconi, del “grado di fruizione prospettica”.
La nascita dei centri storici italiani costituisce dunque forse la migliore
esemplificazione del paradosso che la città-macchina ottocentesca fa esplodere
all’interno del legame tra stato-nazione e capitalismo industriale. Paradosso che si
fonda, come abbiamo visto, sulla riduzione dei soggetti a popolo e dei luoghi a spazio
nazionale (Farinelli, 2003). Il paradosso è che il garante della libertà che il soggetto
cerca di ottenere rispetto al controllo statale è lo Stato stesso (Galli, 2001), soggetto
che però, anche per potersi individuare in quanto tale, deve poter sviluppare
autonomamente la tensione tra la propria storia personale e il passato non vissuto che
egli eredita dalla tradizione (tradizione nazionale, nel caso in questione). Ma il
passato non vissuto (il preindividuale) necessita dei luoghi, deve poter favorire l’idea
di un’appartenenza ai luoghi ‘significativi’ della nazione e delle città per rinsaldare
l’idea che il territorio nazionale sia, allo stesso tempo, comune e proprio. Questo
aspetto crea la tipica ambiguità della nozione di identità comunitaria su base
geografica. Esso entra in conflitto, però, con i dispositivi di gestione della moltitudine
– su scala ben più vasta e, per loro natura, tendenzialmente indifferenti ai luoghi –
della produzione e del consumo capitalistici. Lo spazio sociale sincrono della
metropoli ottocentesca, infatti, nel produrre consumatori orientati dai ritmi quotidiani,
ha ridotto progressivamente ma inesorabilmente le condizioni di possibilità della
dialettica tra passato non vissuto e passato individuale dei soggetti, erodendo anche la
22
credibilità delle manifestazioni urbane dell’idea di nazione, manifestazioni che nel
caso dei centri storici italiani (paradosso nel paradosso) si basano su modelli esogeni.
Per queste ragioni la città ottocentesca è uno straordinario laboratorio che ha ancora
molto da insegnarci sulle nostre patologie urbane odierne, patologie che il patetismo
degli appelli alle “piccole patrie” serve solo ad occultare16.
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