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Mario Neve∗

La macchina sinestetica. Materialità degli spazi urbani


e produzione dello spazio pubblico nella metropoli
ottocentesca1
Per AM

Il est surprenant de voir combien le problème des espaces


a mis longtemps à apparaître comme problème historico-politique (…)
L’ancrage spatial est une forme économico-politique qu’il faut étudier en détail.
M. Foucault

Premessa: eccezionalità della metropoli ottocentesca


Dall’opera di Giovanni Botero2 (1589) alla metà del XIX secolo si sviluppa un nuovo
tipo di razionalità politica, l’“arte del governare”, in cui la “popolazione”3 è
espressione non più della potenza del sovrano, ma è un fine del governo (Foucault,
1978).
Questo processo ha il suo lato più noto e indagato nella “produzione del popolo”,
quest’ultimo inteso come “una comunità che si riconosce in anticipo nell’istituzione
statale, considerata ‘propria’ rispetto ad altri stati, e soprattutto che iscrive le proprie
lotte politiche nel suo orizzonte” (Balibar, 1991, 103). Nel suo complesso, però, si
tratta di un processo più ampio, che implica
(…) uno stato che ‘interviene’ nella riproduzione stessa dell’economia e soprattutto nella
formazione degli individui, nelle strutture della famiglia, della sanità pubblica e più in
generale di tutto lo spazio “privato”. (Balibar, cit., 102)


Geografo. Università di Bologna, sede di Ravenna
1
La relazione non toccherà, per ragioni di tempo, elementi rilevanti dell’urbanizzazione, e che
forniscono esempi che arricchiscono il quadro qui abbozzato, come l’urbanizzazione ottocentesca
nell’Est europeo e nelle città coloniali.
2
G. Botero, 1589, Della Ragion di Stato libri dieci, con tre libri delle cause della grandezza e
magnificenza delle Città, in Venetia: Appresso i Gioliti.
3
Nel senso di “un complesso di individui profondamente, essenzialmente, biologicamente legati alla
materialità in cui esistono” (Foucault, 2004, trad. it., 309).
1
In questa cornice, con il XVIII secolo, l’architettura e l’urbanistica divengono temi
dell’arte del governare, e il governo delle città diviene il modello di razionalità di
governo che si applica al territorio nel complesso (Foucault, 1982 e 2004).
Con la città ottocentesca, e in ragione di questa nuova arte del governare, lavoro e
tecnica assumono proporzioni e intensità qualitativamente e quantitativamente inedite.
Ora, la città ottocentesca presenta al massimo grado di densità quell’elemento che
tanto preoccupava Hobbes e che solo il “sistema Westfalia” (Neve, 2005a) sembrava
in grado di controllare, la “moltitudine” (Balibar, 2002) (fig. 1).

Figura 1. W. Hogarth, Gin Lane, 1751, incisione.


La moltitudine, la massa, è il risvolto negativo della popolazione per l’arte del
governare, la sua pars destruens. E il liberalismo ottocentesco, nel suo interrogarsi su
“quanto governare” (Foucault, 2004), trova nella città-macchina il dispositivo
probabilmente più efficace per far sì che spazio fisico e spazio sociale coincidano: per
mezzo della produzione di uno spazio pubblico che rende possibile la composizione
2
della moltitudine in un sistema spazio-temporale autoregolato che diventa la trama
inavvertita ma tenace del quotidiano. Come?

La mia relazione prende spunto dalla pregnante riflessione di Franco Farinelli in


merito alla definizione di città e l’originario paradosso che produce la città moderna
(e, di fatto, l’esito stesso della modernità attraverso la formazione dello Stato
moderno), paradosso evidenziato attraverso una rilettura della semiotica peirciana.
L’attenzione di Farinelli si focalizza
(…) sulla relazione di tipo indicale tra la via di comunicazione e l’abitazione, ancor più
forte e sistematica di quella che Peirce (…) individuava tra il fumo e il fuoco: vi può
essere in qualche caso, a rigore, fumo senza fuoco, ma non può esservi abitazione senza
via di comunicazione, per quanto esile ed esigua possa essere. E si tratta di una relazione
fondata non soltanto sullo spazio e sul tempo ma anche su di un collegamento di natura
causale. (Farinelli, 2003, 124)
E la nascita della città moderna, secondo Farinelli, avviene proprio attraverso la
“scissione del nesso organico tra arteria stradale ed edilizia” (Farinelli, cit., 145),
saldandosi in seguito con la formazione dello Stato moderno, quest’ultimo inteso
come “macchina” produttrice di uno spazio omogeneo attraverso i sistemi di
comunicazione (Farinelli, cit., 171):
Proprio perché orientata nel senso della riduzione del mondo a tempo di percorrenza,
l’effetto di tale scissione fu infatti, paradossalmente, non l’abolizione del nesso in
questione ma all’opposto la sua generalizzazione nella forma prospettica che segnerà tutta
la modernità: quella fondata sull’anticipo dell’asse rettilineo e sulla più o meno successiva
e conseguente dilatazione all’infinito delle costruzioni. (Farinelli, cit., 145)
La mia ipotesi4 è che, se è vero che dal Settecento la definizione di città si sbarazza
dell’ingombrante zoon politikon, cioè in sostanza della primazia dell’elemento umano
in favore del costruito, dell’edificato come ‘contenitore’ (Farinelli, cit., 136-7), con la
città ottocentesca il governo dello spazio-popolazione (proprio in quanto spazio) deve
inscrivere nella medesima materialità urbana i dispositivi di orientamento spazio-
temporale che possono controllare la moltitudine, producendo (anche se sempre
4
In questa direzione, e correlato alla tematica degli “spazi di sicurezza” che riprendo più oltre, si veda
Foucault, 2004, trad.it. p. 22: “Sebbene sia vero che la sovranità si inscriva e funzioni essenzialmente
su un territorio e che l’idea di sovranità su un territorio non popolato sia un’idea giuridicamente e
politicamente non solo accettabile ma perfettamente accettata e fondamentale, nei fatti, l’esercizio
concreto, quotidiano e reale della sovranità implica sempre una certa molteplicità, che va trattata sia
come la molteplicità dei soggetti sia come la molteplicità di un popolo.”
3
parzialmente e in maniera imperfetta) il popolo. Lo spazio tendenzialmente omogeneo
prodotto dallo stato-nazione (e che in questa fase era la base su cui si consolidava lo
spazio della produzione capitalistica), questo spazio nuovo, astratto ed omogeneo, in
cui la scambiabilità e la circolabilità delle merci, del denaro e delle informazioni si
intrecciava fino a divenire in apparenza un flusso unico, era anche però uno spazio
frammentato, diviso, che faceva convivere al suo interno omogeneità globale e
polverizzazione locale:
Curioso spazio: omogeneo, e composto di ghetti. Trasparente e falso: una trappola.
Falsamente vero, «sincero» (…) In esso si effettua incessantemente la sostituzione alle
cose, agli atti, alle situazioni, di rappresentazioni (…) Il «mondo dei segni» non è soltanto
lo spazio occupato dai segni e dalle immagini (da oggetti-segni e segni-oggetti); è anche lo
spazio in cui l’Ego non è più in rapporto con la sua natura, con una materia, e nemmeno
con la «cosità» delle cose (merci), ma con le cose sdoppiate nei loro segni, e da questi
sostituite (soppiantate). L’«io» come segno non ha rapporti che con altri segni. (Lefebvre,
1974, trad. it. 300-1)
Tale peculiarità, a mio parere, dipende dalla contraddizione genetica dello stato-
nazione, dal suo tentativo di essere – per ragioni che qui non è possibile trattare in
maniera adeguata5 – per un verso, una reductio ad unum che riguarda i soggetti e i
luoghi. Si tratta infatti di costituire come unità la molteplicità degli individui (dalla
moltitudine al popolo) insieme alla molteplicità dei luoghi (la formazione dello spazio
nazionale). E in questo – se si esclude la scala del fenomeno – non vi sarebbe nulla di
davvero nuovo. Ma per altro verso lo stato-nazione tenta anche di tenere insieme
particolare e universale, privato e pubblico, in un’ambigua unità in cui l’individuo
deve trovare la difesa del proprio particolare – come libertà dallo Stato – proprio
all’interno dei confini che lo Stato liberale gli assegna, senza poterne prescindere
(Galli, 2001). Tra i confini che lo Stato liberale appronta, uno dei più potenti è l’idea
di nazione, in cui si evidenzia l’ineliminabile aporia che affligge l’idea di un’identità
comunitaria e individuale che emana dai luoghi. Alle radici di questa concezione –
che condensa l’idea di luogo come unicum, singolare, “a cui appartiene” (e “che
appartiene a”) una comunità – vige un paradosso basato sul
(…) presupposto irriflesso che la comunità sia una “proprietà” dei soggetti che accomuna:
un attributo, una determinazione, un predicato che li qualifica come appartenenti ad uno
stesso insieme. O anche una ‘sostanza’ prodotta dalla loro unione. In ogni caso essa è

5
Per cui ci sia consentito rinviare a Neve, 2005a e 2005b.
4
concepita come una qualità che si aggiunge alla loro natura di soggetti, facendone soggetti
anche di comunità. (Esposito, 1998, p. X)
Ciò che è comune agli individui che abitano un territorio non può però esser
rappresentato come un ‘qualcosa’, non può sostanziarsi in una ‘proprietà’, tanto meno
la proprietà dello stesso territorio così come prescrive la dottrina dello stato-nazione:
Che tale possesso sia qui riferito soprattutto al “territorio” non sposta le cose dal momento
che il territorio è definito appunto dalla categoria di “appropriazione” come matrice
originaria di ogni altra proprietà successiva. Se ci si ferma solo un attimo a riflettere fuori
dagli schemi correnti, il dato più paradossale della questione è che il “comune” è
identificato esattamente con il suo più evidente contrario: è comune ciò che unisce in
un’unica identità la proprietà - etnica, territoriale, spirituale - di ciascuno dei suoi membri.
Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune. (Esposito, cit.,
pp. XI-XII)
Di fatto, non è un caso se il territorio ha assunto storicamente tale ruolo, perché
(…) esiste una costitutività strumentale dello spazio intuitivo originario (per mezzo degli
strumenti d’orientamento). (Stiegler, 1996, 271)
Proprio tale costitutività rappresenta il fondamento sul quale si fonda il legame
comunitario, nella materialità dei media tecnici e dei supporti, in tutto ciò che
possiamo ricondurre a ciò che Simondon chiama il “preindividuale” (la lingua, la
struttura familiare, la religione, i modi di produzione) (Simondon, 1989b) e che qui
chiameremo anche il “passato non vissuto”, che rende possibile una condivisione che
è innanzitutto estetica e semiotica, una messa-in-comune di sensoria
(communautisation) (op. cit., 274), che producono l’uno: la società.
(…) la società, in proprio, non esiste, dunque neanche la comunità (…) essa non è che una
disposizione di tali dispositivi o sistemi, per quanto, nonostante tutto, questa disposizione,
per costituire l’uno, debba essa stessa indossare una singolarità che è idiomatica, detta
altrimenti, singolare e comune allo stesso tempo. (Stiegler, 2004, 28)
Tenterò, a questo proposito, di indicare un percorso che attraversa le molteplici
trasformazioni della grande città europea nel XIX secolo (soffermandomi in chiusura
sull’esempio italiano), trasformazioni che potremmo arrischiarci a considerare tutte
convergenti nell’articolare “spazi di sicurezza” per mezzo dell’approntamento e del
mantenimento della quotidianità. In questo senso, la metropoli ottocentesca è un
enorme dispositivo di comunicazione che, rispetto alla città preindustriale, non
presenta soltanto differenze dimensionali, ma soprattutto livelli di operatività ed

5
efficacia semiotica che agiscono ad un livello preriflessivo, in cui le informazioni
vengono “embodied”6. Vediamo come.

Secondo Benjamin, il ruolo dell’abitudine è formativo delle modalità con cui il


tessuto architettonico entra a far parte del vissuto dei residenti. Solo un turista si
sofferma con maggiore o minore attenzione sui caratteri di una facciata o di uno
scorcio. La percezione dell’architettura di una città accade “nella distrazione e da
parte della collettività” (Benjamin, 1966). Tale percezione che l’abitante
metropolitano esercita nei confronti dello spazio urbano è una forma di conoscenza
tacita (Polanyi, 1958):
Il sistema o macchinario conoscitivo individuale ha due modalità essenziali di
funzionamento. La prima, più arcaica sotto il profilo sia filogenetico sia ontogenetico, è la
conoscenza tacita, globale e immediata attuata dal corpo, nella sua struttura e nelle sue
funzioni biologiche: è una conoscenza che, a certi livelli, appare guidata dal sistema
affettivo ed emotivo e (…) è legata ai moduli mentali muti. La seconda, più recente sotto il
profilo evolutivo e posteriore nello sviluppo dell’individuo, è la conoscenza esplicita,
attuata nelle forme della logica astratta e in genere nella razionalità verbale (Longo, 1998:
13).
Dal punto di vista semiotico, spunti in questa direzione possono essere trovati nelle
nozioni di “pratiche istruite” (Fabbri, 2005), e “spazio come informazione” (Benedikt,
1996), oltre che nei lavori precorritori di Rossi-Landi (Rossi-Landi, 1985).
La città ottocentesca, come campo che le forze generate dalla moltitudine
compongono e scompongono, è “metastabile” (Simondon, 1989a, 1989b), vive in un
equilibrio dinamico, teso, sovrassaturo, ed è regolata, anche se mai completamente,
dall’“ingegneria della certezza” (Amin, Thrift, 2005), cioè l’insieme di quei mezzi
tecnici che produce la quotidianità (fig. 2) come intreccio di vita quotidiana (pratiche
spaziali) e quotidiano (rappresentazione dello spazio – concettualizzazione)
(Lefebvre, 1977).

6
A questo proposito si veda Varela, 1999; Varela, Thompson, Rosch, 1991; Varela and Depraz, 2000.
6
Figura 2. Sensoria della metropoli ottocentesca (da Amin e Thrift, 2005, modificata).
La quotidianità è però un sistema spazio-temporale complesso in cui apprendiamo ad
orientarci non solo attraverso le pratiche spaziali, ma anche perché veniamo “educati”
spazio-temporalmente ad una tradizione che si presenta come un ‘nostro’ passato pur
senza appartenere alla nostra esperienza. Si tratti di apprendere il ritmo delle abitudini
quotidiane, l’uso degli strumenti temporali (orologi, calendari), gli orizzonti di
movimento negli spazi pubblici, nelle case, verso e dalla scuola, i giochi, noi
apprendiamo un orientamento esperito come presente, che però è impregnato7 di un
passato non vissuto da noi, ma ereditato. Tale passato è un “preindividuale”8
(Simondon, 1989b), di cui vedremo in seguito il ruolo di composizione della
moltitudine.

7
“È vero che pensiamo soltanto con una piccola parte del nostro passato; ma è con tutto il nostro
passato, compresa l’inclinazione originaria del nostro animo, che desideriamo, vogliamo, agiamo.
Dunque il nostro passato ci si rivela integralmente attraverso la spinta che su di noi esercita e sotto
forma di tendenza, sebbene solo una piccola parte di esso possa venir rappresentato” (Bergson, 1941,
trad. it. 10).
8
Si veda anche Whitehead, 1928.
7
La città come macchina sinestetica
In cosa è “sinestetica”9 la metropoli ottocentesca? Se si fa riferimento all’accezione
originaria di “sinestesia” – il cui verbo ‘synaisthanomai’ designa non solo il
‘percepire simultaneamente’, ma anche il ‘condividere percezioni o sensazioni’ – la
metropoli del XIX secolo è sinestetica nella misura in cui costruisce uno spazio della
“sensibilità comune”, uno “spazio del sentire insieme” (Arendt, 1958). E questo
attraverso i dispositivi e le reti tecniche, la stessa materialità del costruito, che
presiedono al mantenimento della quotidianità, e che agiscono come dei sensoria
communia, il cui primo esempio, costitutivo della formazione delle città in età
moderna, sono state le vedute e le piante urbane (Neve, 2005a, 2005c).
La metropoli ottocentesca è certamente multimediale e invasiva dal punto di vista
sensoriale.
They rattled on through the noisy, bustling, crowded street of London, now displaying
long double rows of brightly-burning lamps, dotted here and there with the chemists'
glaring lights, and illuminated besides with the brilliant flood that streamed from the
windows of the shops, where sparkling jewellery, silks and velvets of the richest colours,
the most inviting delicacies, and most sumptuous articles of luxurious ornament,
succeeded each other in rich and glittering profusion. Streams of people apparently
without end poured on and on, jostling each other in the crowd and hurrying forward,
scarcely seeming to notice the riches that surrounded them on every side; while vehicles of
all shapes and makes, mingled up together in one moving mass, like running water, lent
their ceaseless roar to swell the noise and tumult (…) Nor were there wanting objects in
the crowd itself to give new point and purpose to the shifting scene. The rags of the
squalid ballad- singer fluttered in the rich light that showed the goldsmith's treasures, pale
and pinched-up faces hovered about the windows where was tempting food, hungry eyes
wandered over the profusion guarded by one thin sheet of brittle glass--an iron wall to
them; half-naked shivering figures stopped to gaze at Chinese shawls and golden stuffs of
India. There was a christening party at the largest coffin-maker's and a funeral hatchment
had stopped some great improvements in the bravest mansion. Life and death went hand in
hand; wealth and poverty stood side by side; repletion and starvation laid them down
together. (Charles Dickens, Nicholas Nickleby, 1838-39)
Nel tentativo di governare la moltitudine, sempre attraversata da tensioni
potenzialmente distruttive generate dalla riorganizzazione spazio-temporale indotta
dall’industrializzazione, i sensoria urbani separano funzionalmente l’azione dei sensi

9
Si tralascia qui, ovviamente, l’accezione più nota, retorica e poetica, del termine.
8
nell’individuo, ricomponendola in senso transindividuale, collettivo, in un ambiente
che diventa una “seconda natura”. Ambiente che negli anni trenta del Novecento
risuona nell’“Uomo Collettivo” che Auden, in un momento storicamente
significativo, osserva nelle strade e nelle case di New York:
Into this neutral air / Where blind skyscrapers use / Their full height to proclaim / The
strength of Collective Man, / Each language pours its vain / Competitive excuse: / But who
can live for long / In an euphoric dream; / Out of the mirror they stare, / Imperialism’s face
/ And the international wrong. // Faces along the bar / Cling to their average day: / The
lights must never go out, / The music must always play, / All the conventions conspire /
To make this fort assume / The furniture of home; / Lest we should see where we are, /
Lost in a haunted wood, / Children afraid of the night / Who have never been happy or
good.10
La spinta verso la modernizzazione della città nel XIX secolo è guidata dalla visione
degli spazi urbani come ambito di circolazione, una visione che coniuga l’idea del
libero movimento (delle merci, del denaro, delle persone) all’idea di habitat
‘igienico’, dal punto di vista sanitario e morale. Il moderno concetto di circolazione –
affermatosi nel XVII secolo con il modello della circolazione sanguigna di Harvey –
viene applicato, dalla metà del XVIII secolo, alla ricchezza, al denaro11, alle idee e
all’informazione e, dopo il 1880, al traffico, all’aria e all’energia (Illich, 1988). Tale
mutazione semantica segnala la nuova attenzione per lo spazio-popolazione, la cui
“ricchezza” (e anche la sua potenziale pericolosità) è l’essere uno spazio-movimento
(Cavalletti, 2005). Si afferma la nuova nozione di “ambiente urbano”, che compare
per la prima volta nel 1842 nell’Avant-propos di Balzac a La comédie humaine, in cui
lo scrittore segnala la sua intenzione di mostrare i modi di agire e pensare del XIX
secolo come Buffon aveva fatto nel suo studio della vita animale. La verve modernista
degli ingeneri sanitari che, a partire dall’esempio parigino, domineranno la scena
urbana con i loro progetti di pianificazione urbanistica – gli “igienisti” – conserverà
questo nesso tra igiene biologica e morale.
La città ottocentesca produce una brusca discontinuità nelle modalità di ricezione
dell’ambiente urbano. Come nota Richard Sennett (Sennett, 1994), la trasformazione
della città in un ambiente che deve favorire la circolazione, in uno spazio che è una
“pura funzione del movimento”, diminuisce la funzione degli spazi pubblici come

10
W. H. Auden, September 1, 1939, in Another Time (1940), trad. it. in Un altro tempo, a cura di N.
Gardini, Milano: Adelphi, 1997, pp. 188 e 189.
11
Se ne veda l’apoteosi nei romanzi di Emile Zola La cuccagna, 1872 o Il denaro, 1891.
9
ambiti di contatto e d’incontro anche interclassista – processo che si acuirà con il
prevalere del trasporto individuale sul trasporto collettivo nel corso del Novecento.
La città in questo periodo si colloca sulla soglia storica in cui i luoghi sono ancora
“contenitori d’informazione” ma sono già in campo le innovazioni, come il telegrafo
e, in seguito, il telefono, che muteranno radicalmente il senso della comunicazione e
trasmissione di informazioni:
Nel passato, i cambiamenti nei media hanno sempre influito sui rapporti tra i luoghi.
Hanno influito sulle informazioni che la gente portava nei luoghi e sulle informazioni che
la gente riceveva in determinati luoghi. Ma i rapporti tra luogo e condizione sociale erano
ancora piuttosto saldi. I media elettronici hanno fatto un nuovo passo avanti e l’hanno
portato a una dissociazione quasi totale tra collocazione fisica e “collocazione” sociale
[…] Un tempo “comunicazione” era sinonimo di “viaggio” […] Un tempo, passare da una
situazione all’altra e da una condizione sociale all’altra, significava anche andare da un
posto all’altro. Un luogo definiva una situazione distinta, perchè i suoi confini
delimitavano percezione e interazione. (Meyrowitz, 1993, 198-99)
Da questa nuova concezione ‘circolatoria’ dello spazio derivano due paradigmi
solidali: il paradigma “idraulico” e quello “ferroviario”.
Il nuovo carattere della città ottocentesca era già stato illustrato da Walter Benjamin,
nell’indicarne la natura sotterranea. Quella che si afferma con la modernizzazione
richiesta dagli “igienisti” è la città sotterranea che si coordinerà funzionalmente con
quella di superficie quando, con l’espansione d’inizio Novecento, le reti idriche,
fognanti, energetiche, fino alla ferrovia metropolitana, si articoleranno con il sistema
viario nel delineare non solo la ripartizione funzionale delle aree, ma la stessa
gerarchia areale che è alla base di quel motore della crescita urbana che è il mercato
immobiliare (figg. 3-4).

10
Figura 3. Il sottosuolo della Londra ottocentesca (da Vercelloni, 1994).

11
Figura 4. Il sistema fognario parigino costruito tra il 1856 e il 1878 (da Gandy, 1999).
La città è anche un enorme apparato di comunicazione in cui la scrittura prolifera
lungo tutte le superfici urbane – su tutta la pelle della città, come uno smisurato
tatuaggio – con modalità e portata diverse. Nel 1852 si apre il grande magazzino Le
Bon Marché, a cui ne seguiranno molti altri sempre più monumentali (fig. 5),
adeguandosi allo stile edilizio in ferro e vetro che ha nel Crystal Palace di Paxton
costruito per la prima Esposizione universale (Londra 1851) il primo grande esempio.

12
Figura 5. Sezione funzionale del grande magazzino A la Belle Jardinière del 1867 (da Vercelloni,
1994).
Ma già precedentemente i passage, le gallerie ricoperte in vetro che collegano le vie
interne, avevano manifestato la nuova natura della città. All’epoca in cui Hugo scrive
Notre-Dame de Paris i passage ed i magasin de nouveautés sono già innumerevoli e
densamente frequentati e i grandi magazzini cominciano a proliferare con i prezzi da
ingrosso e le nuove tecniche di vendita (il giro d’affari del Bon Marché passa dai
450.000 franchi del 1852 ai 21 milioni del 1869), proliferazione che porterà a un turn
over delle proprietà e a un dopage del mercato immobiliare che raggiungerà il
culmine proprio con il Secondo Impero (Benevolo, 1993, 92-99).
D’altra parte la superficie degli edifici viene ricoperta sempre più dai manifesti
pubblicitari che diventano l’epidermide comunicativa della città, l’uomo stesso –
l’uomo-sandwich o homme-affiche – diviene portatore del messaggio commerciale.
Quando nel 1857 al Louvre si avrà la prima illuminazione elettrica stradale
(Benjamin, 1986, trad. it. 724) la città inizierà a chiudersi all’ultimo frammento di
natura che la sovrastava, la visione del cielo, completando la trasformazione in natura
dell’ambiente urbano.
Le superfici comunicative della grande città, siano esse en plein air come la
pubblicità o interne come il cinema, costituiscono in quanto manifestazioni collettive
“i sogni ad occhi aperti della società”, come afferma Kracauer, che tendono a

13
produrre uno spazio “sincrono” – in un continuo presente – in cui le singolarità
individuali vengono omologate alla quotidianità12.
L’attenzione di Benjamin per la “naturalizzazione” dello spazio urbano si congiunge
al suo interesse per la città invisibile, sotterranea. Se i passage sono “cunicoli di
superficie”, il métro diviene di notte il loro analogo: un dedalo di percorsi il cui unico
filo d’Arianna è dato dai toponimi che si costituiscono in una topografia mentale
incongruente rispetto a quella stradale di superficie. Infatti “qui sotto non resta traccia
delle collisioni e delle intersezioni dei nomi che formano la rete linguistica
superficiale della città” (Benjamin, 1986, trad. it. 131).
L’haussmannizzazione parigina dei grands travaux (1853-1870), come modello che
farà scuola, esalterà l’idea di circolazione. Sia per quanto riguarda la regolazione
delle acque (paradigma “idraulico”), che, sul fondamento dell’igiene urbana (fig. 4),
segnerà per molte città la fine del loro rapporto diretto con l’elemento fluviale e la
creazione di una sorta di città ideale del sottosuolo, la cui opera di razionalizzazione
dei fluidi dovrà essere la garanzia del benessere della città di superficie (Vercelloni,
1994; Gandy, 1999). Sia per quanto riguarda la nuova concezione della strada urbana
che, secondo Haussmann, è il prolungamento della strada ferrata (paradigma
“ferroviario”). Già a partire dalla prima stazione, la Gare de Strasbourg, chiamata dal
1854 Gare de l’Est, viene edificato il rettifilo del Boulevard de Strasbourg come
prolungamento della testa del binario. Questa visione di grande impatto percettivo –
l’arrivo nella stazione urbana, dopo un viaggio che è un’esperienza assolutamente
nuova rispetto al periodo preindustriale, e l’impatto del grande viale rettilineo e largo
– viene incardinata a scala metropolitana dalla “grande croisée”, la crociera viaria il
cui asse est-ovest (rue de Rivoli-rue Saint-Antoine) incrocia l’asse nord-sud tramite
l’apertura de boulevard de Sébastopol (inaugurato nel 1858), che prosegue proprio il
boulevard de Strasbourg. La stazione diventa così lo spazio di mediazione non
soltanto tra il territorio e la metropoli, ma anche tra il nuovo mondo industriale e
l’ambiente urbano: mentre il lato rivolto verso la città si armonizza con lo stile

12
Cfr. Stiegler, 2004, 150 sgg.; Brose, 2004. Anche qui si evidenzia la contraddizione genetica dello
stato-nazione delineata in apertura. Lo spazio sociale sincrono, infatti, pur essendo un dispositivo
estremamente efficace per gestire la moltitudine, crea una doppia frizione, che finisce per generare
feedback autodistruttivi. Il primo elemento di attrito (e il più grave) è la progressiva eliminazione della
possibilità individuale di libertà dallo Stato, nella misura in cui la sincronicità azzera la presenza del
passato non vissuto al cui interno e contro il quale si definiva la soggettività. Il secondo elemento
(direttamente conseguente dal primo) è costituito dalla scarsa capacità di uno spazio sociale sincrono
nel “produrre popolo”, fermo restando la sua efficacia nel produrre consumatori.
14
edilizio urbano (fig. 6), l’interno si presenta come un vero e proprio spazio
industriale, in cui il mondo della fabbrica diventa esperienza ‘normale’ di qualsiasi
viaggiatore o passante (fig. 7) (Schivelbusch, 1988).

Figura 6. La Gare de l'Est, costruita tra il 1847 e il 1850 (da Schivelbusch, 1988).

15
Figura 7. C. Monet, La Gare Saint-Lazare, 1877, Paris, musée d'Orsay.

La solidarietà tra paradigma “idraulico” e “ferroviario” si rileva anche nelle modalità


attraverso cui strada ferrata, gerarchia viaria urbana e reti sotterranee di servizi
divengono gli assi polarizzatori del mercato immobiliare, secondo gli elementi
principali del modello haussmanniano che, come già detto, sarà il più seguito in
Europa. Tali elementi sono:
 la garanzia del massimo di uguaglianza dei diritti alla proprietà fondiaria;
 la crescita dell’organismo urbano in più direzioni, liberandolo dai vincoli della
città murata;
 il distacco tra destinazione d’uso del singolo edificio e l’area ad esso
corrispondente;
 la strada come elemento funzionale e rappresentativo (Blasi, Padovano, 1984).
Da ultimo, ma non meno importante, è la costruzione temporale della quotidianità
urbana, ovviamente solidale con le trasformazioni spaziali, costruzione cui ho già
fatto riferimento rispetto alla “sincronizzazione”. La perdita del “primo piano” della
visione nell’uso dei mezzi come il treno o il tram e l’esperienza del viaggio collettivo
tra sconosciuti – per cui gli stimoli si moltiplicano e s’intensificano a vari livelli
sensoriali, ma senza poterli selezionare e discernere (Schivelbusch, 1988) –
accentuano la “paura del contatto” (Canetti, 1960; Sennett, 1994), che risulta evidente
anche nella trasformazione dei locali pubblici, i quali accentuano le caratteristiche di
spazio di circolazione, in cui si consuma, spesso in solitudine e direttamente al banco,
in contrasto con l’ambiente dei caffé e dei salon che avevano rappresentato dei luoghi
di formazione della “società civile” illuminista13 (Schivelbusch, 2000) (fig. 8).

13
La promiscuità e l’informalità dei caffé sarà abbandonata dalla borghesia nel XIX secolo in favore
dell’ambiente dei club.
16
Figura 8. Uno gin palace londinese (da Schivelbusch, 2000).
La città ottocentesca funziona – come macchina sinestetica – attraverso la costruzione
di ritmi quotidiani gestiti da dispositivi che devono garantire, nei limiti del possibile,
la fluidità degli spostamenti in una sorta di coreografia su grande scala. A questa
caratteristica va ricondotta sia l’osservazione di Simmel sulla differenza strutturale tra
strada di campagna e di città (Simmel, 1908), come anche la sua caratterizzazione
dell’appuntamento [rendez-vous] per le strade della metropoli come tensione tra
fuggevolezza puntuale e fissazione spazio-temporale. Questa intermittenza è regolata
da dispositivi tratti dal paradigma ferroviario, come la segnaletica stradale e i primi
semafori (utilizzati a Londra e copiati da quelli impiegati per il traffico ferroviario).
Regolazione che arriva al culmine con la percezione dello spazio urbano determinata
da quel doppio sotterraneo della metropoli che è il métro.
In questa stessa prospettiva va vista la “scoperta della notte” (Faure, 2000;
Schivelbusch, 1994; Beltran-Carré, 2000), resa possibile dall’illuminazione pubblica,
prima a gas e poi elettrica. L’illuminazione e la nuova trama stradale canalizzeranno
la moltitudine sia all’interno di spazi semi-pubblici preesistenti come i passage, sia
nelle nuove strutture rese possibili dalle innovazioni tecnologiche in materia edilizia

17
come le gallerie, i grandi magazzini, i mercati generali14. La compressione spaziale
resa possibile dai nuovi mezzi di trasporto ha come correlato l’espansione temporale
del quotidiano, in cui il tempo della produzione e il tempo del consumo si estendono a
colonizzare la notte.

Il passato non vissuto e i sensoria


All’interno del processo di formazione statale, come si è detto, agisce una
convergenza di sensoria che incardinano i processi di riproduzione sociale su di un
sistema di orientamento collettivo spazio-temporale che produce un “passato non
vissuto” che le generazioni a venire ereditano: cioè il paesaggio, i monumenti, i
documenti, in una parola, la tradizione, che si presenta come un passato cui
apparteniamo pur senza averne fatto esperienza diretta. Negli anni cinquanta,
Francesco Rodolico (Rodolico, 1953) ricordava come, pur nella gran varietà di pietre
reperite in loco o fatte giungere da altre località (oltre a quelle derivanti dal riuso di
materiali provenienti da edifici antichi, abbattuti o in rovina), le città italiane, almeno
fino all’inizio dell’Ottocento, presentavano ognuna una distintiva qualità estetica
dell’edificato, che il “colore del tempo” contribuiva ad amalgamare. Non si trattava
però di una prospettiva meramente estetica in senso ristretto (e men che meno
nostalgica) su indefinibili atmosfere perdute. Piuttosto si trattava della messa in
evidenza dei milieu tecno-geografici15 che producevano la materialità del costruito
urbano, e che consentivano, alla semplice osservazione degli edifici e delle strutture,
d’individuare i rapporti che la città intratteneva o aveva intrattenuto con le località di
origine dei materiali. Operazione non più possibile dal momento in cui l’uso di
materiali come il cemento ha reso non localizzabile la materialità dell’edificato.
Come ricordato in precedenza (Benjamin, 1966), l’ambiente edificato diventa parte
del nostro quotidiano attraverso l’abitudine, la quale ci appropria le qualità estetiche
del costruito come un qualcosa di domestico, e il cui aspetto è più una guida al suo

14
Tralasciamo qui di occuparci dell’insieme di nuovi luoghi che verranno creati per orientare nel
nuovo spazio pubblico la popolazione, modificando radicalmente il panorama urbano: nuovi luoghi di
culto, Municipi, Palazzi del Governo, teatri, musei, biblioteche, quartieri industriali, degli affari,
ospedali, cimiteri, scuole, manicomi; senza contare la creazione di quell’influente sistema di
orientamento collettivo che è l’istruzione pubblica, con le sue sedi e mezzi di disciplinamento.
15
Su questo termine si veda Neve, 2005b.
18
utilizzo che una qualità da contemplare. È in questo senso che l’abitudine che
sottintende le pratiche urbane ha un peculiare ruolo formativo, favorendo, come
avviene in generale per le strutture iterative e ricorsive che caratterizzano le istituzioni
sociali, il preservarsi di una continuità negli atti e nei comportamenti, soprattutto in
epoche di mutamento o crisi. Il fatto poi che il tessuto architettonico possegga la
compresenza di elementi di epoche storiche diverse viene percepito, in questo genere
di situazione, anche attraverso l’educazione impartita sia dall’ambiente sociale e
familiare, sia, soprattutto, dai sistemi d’istruzione. D’altro canto, il nostro stesso senso
della temporalità è incarnato dalla materialità dell’edificato urbano: la materia
architettonica è materia temporalizzata. La materia del costruito – com’era ben chiaro
a Rodolico – si condensa in tempo, data la sua origine tecnica, e tuttavia le sue
trasformazioni nel tempo sono le condizioni della coscienza sociale urbana della
temporalità. Il passato non vissuto, inteso in questo caso come architettura storica, ben
incarna il ruolo principe delle tradizioni culturali, la cui durata per più generazioni
vuole garantire l’armonizzazione dei “tempi” individuali all’interno di una cornice
temporale unitaria: non è un caso se gli stati-nazione hanno rivolto particolare
attenzione alla necessità di approntare il collante culturale della comunità nazionale.
In questo consiste l’ethos urbano: in una “abitabilità” fondata su una “abitualità” che,
a sua volta, è strutturata da un milieu che può avere un maggiore o minore grado di
“sinestesia”, da intendersi, come s’è detto, nel suo senso originario di “comunanza di
sensazioni-emozioni”, di un “sentire insieme”.
La vera novità ottocentesca sta nel coniugare le nuove, pressanti esigenze di
costruzione di un territorio nazionale con la nuova idea di città basata sulla
circolazione e sulla rendita immobiliare che ha nella Parigi del Secondo Impero il suo
modello più noto e influente. E nella produzione del popolo – come base etnica
“fittizia” della popolazione (Balibar, 1991) – il problema era di conciliare tale sforzo
con le caratteristiche sinestetiche della città, che rendevano poco praticabile – come
avevano ben intravisto Benjamin e Musil – un’educazione nazionale impartita
attraverso la pianificazione dello spazio urbano:
[…] lo scopo della maggior parte dei monumenti comuni è quello di suscitare un ricordo,
di incatenare l’attenzione o di dare ai sentimenti un indirizzo pio […] e a questo scopo
principale i monumenti falliscono sempre […] Non si può dire che noi non li vediamo;
sarebbe più giusto affermare che essi non si fanno osservare, che si sottraggono ai nostri
sensi […] Tutto quello che dura perde la forza di colpire. Tutto quello che forma le pareti
della nostra vita, per così dire, le quinte della nostra consapevolezza, perde la capacità di
recitare una parte in questa coscienza. (Musil, 1927, trad. it. 63)
19
I monumenti, infatti, potranno ricoprire con efficacia il loro ruolo, paradossalmente,
solo attraverso la loro riproduzione e diffusione in immagini: cartoline, libri di testo
(Sicard, 1999).
Sensoria come gli edifici, i monumenti – essendo time-biased (Innis, 1950), dunque
destinati alla trasmissione del passato non vissuto – sono eminentemente “pubblici”,
nel senso che sono sottoposti al controllo dello Stato, ma possono funzionare anche
perché i media “leggeri”, destinati alla comunicazione – space-biased, come i mezzi
d’informazione, i libri di testo – ne allargano la conoscenza e l’interpretazione
‘corretta’, agevolandone il ruolo orientante, presso una moltitudine destinata a essere
trasformata in popolo.

Virus loci: la genesi dei “centri storici” italiani


In questa strategia ancipite – tra lo spazio-tempo della modernizzazione e quello della
“tradizione nazionale” – il caso italiano rappresenta un esempio particolarmente
interessante.
Se, infatti, delle due linee d’intervento urbanistico e architettonico che dominano
l’evoluzione urbana dell’Ottocento in Europa, gli esempi italiani rappresentativi della
prima strategia, che privilegia la costruzione delle nuove strutture residenziali per la
nuova borghesia, sono numerosi, è certamente la seconda linea d’intervento
progettuale, la strategia infrastrutturale, quella su cui si combatterà la battaglia che
avrà come esito, tra l’altro, il formarsi delle idee di “città storica”, di “città d’arte” o
di “centro storico” che usiamo ancora oggi: la battaglia tra ingegneri sanitari, gli
“igienisti” da una parte e i “cultori dell’architettura” dall’altra.
Sebbene già con la legge del 1865 “sull’esproprio per pubblica utilità” si cominci a
parlare, impropriamente, di “piani regolatori”, lo scontro tra le due visioni della città
“italiana” – quella tecnica, ingegneristica, e quella storico-artistica – avrà inizio al
volgere del secolo, scandito da tre eventi principali: la Legge per il risanamento di
Napoli a seguito dell’epidemia di colera del 1884-1885 con il relativo Codice d’igiene
e sanità pubblica (1888), la fase espansiva dell’economia italiana al principio del
Novecento, la Legge Giolitti del 1903 “per la municipalizzazione dei pubblici
servizi”.
La visione dei tecnici sia della città italiana di fine Ottocento – in cui il “centro” (così
come le antiche mura) è un ostacolo alle esigenze funzionali della sanità e dell’igiene
pubblica e della libera circolazione di uomini e merci – sia della città in espansione
20
del primo Novecento – con la nascita delle periferie industriali e l’incardinamento
delle strutture urbane sui sistemi di trasporto collettivo – sarà comunque fondata sulla
metafora “idrica”, dei flussi che la città deve non solo favorire ma intensificare al fine
di sostenere lo sviluppo economico. La saldatura tra città del sottosuolo e città di
superficie sarà garantita da quella separazione tra area edificabile e destinazione d’uso
degli edifici che, inaugurata dalla Parigi haussmanniana, assicurerà la libertà di
localizzazione in dipendenza dalla sola rendita fondiaria.
Negli stessi anni in cui gli ingegneri sanitari trovavano nel piano di risanamento di
Napoli l’occasione di sperimentare su vasta scala le loro idee sull’“igiene urbana” (e il
cui fallimento causato dalla speculazione farà gravare una pesante ipoteca sugli
sviluppi successivi della pianificazione), si attua lo scontro sul piano di risanamento
di Venezia. Se Napoli sembrava offrire un indiscutibile argomento a favore degli
igienisti, Venezia assurge altrettanto facilmente a simbolo della difesa dell’arte e della
storia contro il piccone degli ingegneri. Ora, alla base dell’atteggiamento
“conservatore” dei “cultori dell’architettura” vi è certamente la profonda convinzione
che la città moderna sia fisiologicamente incapace di costruire un ambiente adeguato
sia esteticamente sia funzionalmente. Ma l’aspetto più importante della questione è il
fatto che, proprio in questi anni di formazione di quello che avrebbe dovuto diventare
il passato non vissuto “nazionale”, l’immagine materiale di tale passato che la città
italiana doveva presentare secondo i “cultori” viene derivata da due modelli importati:
il neomedievalismo – che produce sia i falsi edifici medievali che iniziano ad apparire
ospitando spesso filiali di istituti di credito, sia l’isolamento di quelli autentici rispetto
al tessuto architettonico circostante –, ma soprattutto (ed è il modello più inglobante
ed influente ) il pittoresco, nato come immagine del paesaggio italiano all’epoca del
Grand Tour, e traslato come immagine urbana dal vedutismo. Non è inutile ricordare,
a questo riguardo, come la già ricordata cura per la città, come modello per la
pianificazione dell’intero territorio, si saldi – già nelle elaborazioni settecentesche
degli ingegneri francesi dell’École des Ponts et Chaussées – con l’idea del pittoresco
(Dubbini, 1994).
L’Italia delle “cento città” – quella esemplificata dalla fortunata collana editoriale
dell’Italia artistica, che uscirà dal 1902 al 1930 e il cui volume inaugurale sarà
dedicato, significativamente, a Ravenna – diventa così il paradigma europeo della
tensione generata dall’ambiguità dell’idea di comunità che lo stato-nazione cerca di
naturalizzare.

21
Lo stesso neomedievalismo non è in fondo che una variante del pittoresco, che
impropriamente subordina la struttura degli spazi pubblici ad una visione di tipo
vedutistico: favorendo la fruizione prospettica degli edifici e dei monumenti, la
relativa individualità degli oggetti architettonici rispetto al tessuto circostante, la
qualità compositiva in senso pittorico che il centro storico deve possedere e che
costituisce il criterio di selezione che alimenta e sostiene l’azione dei “cultori”.
Un caso esemplare, in tal senso, è lo scontro sul piano di risanamento del Ghetto di
Verona, che nel 1913 vedrà i cultori opporre alle ragioni dei tecnici motivazioni
basate sulla conservazione degli scorci e delle vedute “tipiche”.
Se in alcuni casi i vincoli e le tutele che si moltiplicheranno con l’attività delle
Soprintendenze consentiranno non solo la salvaguardia del patrimonio archeologico,
ma anche il suo studio al fine di ricavare su base scientifiche la storia urbana, la gran
parte dell’ambiente antico delle città italiane verrà raccordato, all’insegna del
pittoresco, sia ai nuovi sobborghi (si vedano i casi del quartiere Milanino, del Lido di
Albaro o della Collina di Torino), sia a porzioni di paesaggio sulla base, come nota
Guido Zucconi, del “grado di fruizione prospettica”.
La nascita dei centri storici italiani costituisce dunque forse la migliore
esemplificazione del paradosso che la città-macchina ottocentesca fa esplodere
all’interno del legame tra stato-nazione e capitalismo industriale. Paradosso che si
fonda, come abbiamo visto, sulla riduzione dei soggetti a popolo e dei luoghi a spazio
nazionale (Farinelli, 2003). Il paradosso è che il garante della libertà che il soggetto
cerca di ottenere rispetto al controllo statale è lo Stato stesso (Galli, 2001), soggetto
che però, anche per potersi individuare in quanto tale, deve poter sviluppare
autonomamente la tensione tra la propria storia personale e il passato non vissuto che
egli eredita dalla tradizione (tradizione nazionale, nel caso in questione). Ma il
passato non vissuto (il preindividuale) necessita dei luoghi, deve poter favorire l’idea
di un’appartenenza ai luoghi ‘significativi’ della nazione e delle città per rinsaldare
l’idea che il territorio nazionale sia, allo stesso tempo, comune e proprio. Questo
aspetto crea la tipica ambiguità della nozione di identità comunitaria su base
geografica. Esso entra in conflitto, però, con i dispositivi di gestione della moltitudine
– su scala ben più vasta e, per loro natura, tendenzialmente indifferenti ai luoghi –
della produzione e del consumo capitalistici. Lo spazio sociale sincrono della
metropoli ottocentesca, infatti, nel produrre consumatori orientati dai ritmi quotidiani,
ha ridotto progressivamente ma inesorabilmente le condizioni di possibilità della
dialettica tra passato non vissuto e passato individuale dei soggetti, erodendo anche la

22
credibilità delle manifestazioni urbane dell’idea di nazione, manifestazioni che nel
caso dei centri storici italiani (paradosso nel paradosso) si basano su modelli esogeni.
Per queste ragioni la città ottocentesca è uno straordinario laboratorio che ha ancora
molto da insegnarci sulle nostre patologie urbane odierne, patologie che il patetismo
degli appelli alle “piccole patrie” serve solo ad occultare16.

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16
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urbani terreno di coltura originario del fenomeno leghista.
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