Sei sulla pagina 1di 73

Maurizio

De Giovanni

Le Mani Insanguinate
antologia di racconti noir
(2014)


EmmeBooks 358
*


Da La Canzone di Filomena a Ex Voto, da lo e mia sorella a Chi difende Margherita, fino a Per amore di Nami:
Maurizio de Giovanni presenta in quest'antologia 15 dei suoi migliori racconti noir.
Storie di passioni e di dolori, di morte e di resurrezione. Alcune sono tratte da fatti di cronaca nera, altre sono
rivisitazioni di eventi storici, altre ancora sono grottesche o intrise di un umorismo nero.
Tutte toccano il cuore di ognuno di noi. Come sempre lo stile con cui i racconti sono scritti quello che i lettori
hanno imparato ad amare grazie ai romanzi del Commissario Ricciardi.

Le mani insanguinate
di Maurizio De Giovanni

Prefazione 5

La Canzone di Filomena 7
Io e mia Sorella 19
Quanto mi manchi in Primavera 37
Basta uno Sguardo 39
Per Amore di Nami 51
Storia di Maria 57
Il Bicchiere della Staffa 63
Quando Guarisco 67
Ritornare Ogni Notte 69
Quello che Giusto 77
Piccolo Francesco 95
Il Maschio Dominante 97
Le Voci dal Muro 105
Chi Difende Margherita 113
Ex Voto 117

Prefazione

Dopo i suoi "libri seri", come ama definirli, quelli sulla Passione azzurra, per intenderci, Maurizio de Giovanni torna a
pubblicare con la Cento Autori una raccolta di racconti, Le mani insanguinate, e l'amico Pietro Valente ha insistito perch fossi
proprio io a introdurre brevemente il nuovo lavoro del nostro facondo e fecondo autore.
Ho accettato subito, con entusiasmo. Non potevo perdere questa occasione, visto che opinione comune che il prefatore
abbia un unico scopo: azzerare il libro ed esaltare se stesso.
Immagino che Maurizio a questo punto interromper la lettura, vagamente preoccupato. Naturalmente scherzo.
Non scherzo, invece, quando dico che, pur vivendo con lui e condividendo quasi tutti i meravigliosi doni che la Scrittura ci ha
fatto; pur leggendo, correggendo e rileggendo pi e pi volte ogni sua creatura letteraria, mai in prima linea ma immediatamente a
ridosso, come pi mi si conf, io realmente non so dirvi quando Maurizio scriva.
Sono pochissimi i momenti della giornata in cui lo sorprendo al computer. Eppure sono tante le parole che ogni giorno
nascono dal suo pensiero e dal suo cuore. Lui sostiene di scrivere come il pianista di un saloon, con la vita degli altri che gli passa
accanto, senza sfiorarlo. evidentemente capace di altissima concentrazione, visto che in casa nostra, oltre a me, dimorano
stabilmente due ragazzi, quattro o cinque loro amici, un cane, due televisori perennemente accesi e la Playstation. Questo, quando
la situazione tranquilla. In ogni caso, il tempo che Maurizio dedica alla scrittura talmente poco rispetto al volume della sua
produzione che credo prima o poi sar oggetto di studio quale raro esempio di autore juke-box, in un mondo di scrittori per i quali
una giornata di lavoro pu dirsi assolutamente proficua quando si conclude con la produzione di una sola pagine. Finita, per.
Lasciando ai posteri la soluzione dell'arcano, Le mani insanguinate ospita quindici racconti molto diversi tra di loro per
lunghezza, modalit di scrittura e soprattutto argomento: a storie di fantasmi si affiancano riletture di fatti di cronaca nera o
rivisitazioni di eventi storici; a racconti a sfondo sociale se ne alternano di grotteschi o amaramente umoristici; e poi, pi o meno
esplicita, Napoli, con i suoi riti, i suoi Santi, il suo sangue.
Brani dunque diversi tra loro, ma accomunati dal rivolgimento finale, il colpo di scena, cui Maurizio ricorre spesso con
maestria e naturalezza. Non a caso Sentinella di Fredric Brown il racconto breve che l'autore porta ad esempio di perfezione
narrativa.
E soprattutto, brani accomunati dalla magia del racconto, che prescinde dalla cifra, gialla, nera o umoristica che sia.
Maurizio a questo riguardo vi dir che lui racconta solo storie e che la lingua non conta, in quanto mero strumento di
narrazione.
Io nel mio piccolo vi dico che la parola, cos come la pausa che ne l'assenza, contano eccome, e sempre conteranno.
E quindi ringrazio Maurizio per l'incanto che ogni volta mi regala.

Napoli, novembre 2013


Paola Egiziano

La Canzone di Filomena

Vi voglio raccontare una storia.


Ve la voglio raccontare stanotte, che questo vento caldo scuote le imposte e la pioggia
martella quel che rimane dei vetri.
Stanotte, che questo vecchio palazzo decrepito sembra ancora di pi un gigante
intrappolato nella rete di vicoli disperati, lui che era nobile e forte nell'infanzia di questa triste
citt urlante.
Tanto possiamo solo starcene qui, seduti a sentire il pianto del vento e a vederne le
lacrime; non la nostra notte, questa. Possiamo raccontare. Solo raccontare.
Vi ricordate i primi anni del secolo? Quando il mare profumava l'aria fino alla collina, e da l
in poi erano piante ed erba giovane, e l'aspro odore delle pecore e delle canzoni d'amore? Non
me lo dite, chi di voi c'era. Per ricordate certo le risa dei bambini, gli zoccoli dei cavalli
carichi di fieno sulle salite ripide. E ricordate gli inverni, e il tenero odore di legna bruciata
che faceva pensare a casa, e faceva affrettare il passo. Ricordate i cappelli e gli inchini, e il
suono delle fisarmoniche ambulanti, e il Natale degli zampognari, con i canti e il battere delle
mani dei cento, mille scugnizzi scalzi, geloni e pantaloni corti con lo spago in vita, come
d'estate. E il carretto della pizza, il carretto della verdura, il carretto della pasta, e i cento, mille
carretti che legavano la citt in una rete di urla e richiami.
In quegli anni in cui tutto sembrava possibile, il vecchio e il nuovo sottobraccio a guardare
avanti, in quegli anni c'era una bambina. Proprio ai piedi di questo nostro vecchio palazzo
triste, che ora conosce il vento e le lacrime solitarie dell'antico dolore, in uno dei bassi oscuri
in cui si soffoca e si trema, c'era una bambina. Occhi grandi senza lacrime, bocca chiusa,
serrata a non lasciare uscire un sospiro. Non ricordo il nome, lo sapete, non ci dato di
ricordare quello che non stato scritto. Diremo Filomena, che significa quella che si deve
amare, perch lei meritava di essere amata nel mio vago ricordo.
Prima di sei paia d'occhi neri, la pelle bruna cotta dal sole maledetto di dodici estati, le
mani nervose abituate ad abbrancare il cibo per i fratelli affamati, a sminuzzare quello che
trovava dietro ai grandi cortili, dove grasse nutrici gettavano avanzi di pasti sconosciuti. E
quante volte le mani restavano vuote, e vuoti di lacrime gli occhi, e vuote le pance gonfie, il
pianto dei pi piccoli leggero leggero come un cinguettio di passeri morenti. E la disperazione
di un domani senza sole, e la paura della notte.
Dovete sapere, voi che mi sentite raccontare nel vento e nella pioggia di questa notte
sospesa, che Filomena aveva perso la madre, morta nel sangue dell'ultimo parto, quello dei
due gemelli. Le vecchie vicine avevano urlato per due giorni, nell'aria ferma di una primavera
silenziosa. Nemmeno le ruote delle carrozze della strada grande si sentirono, in quei due
giorni in cui Filomena divent adulta a dieci anni, senza sedersi e senza dormire, per non

sognare tutto il sangue che dalla paglia del letto gocciolava sulla terra battuta. Tutti, c'erano,
fuori la porta del basso. E dietro la cassa di legno chiaro, sulle spalle del padre e degli zii, nel
silenzio del dolore fino a Poggioreale.
E dovete sapere del padre. Del padre di Filomena, un uomo solo e debole, che la
disperazione port all'inferno, nell'abisso di se stesso, a cercare pace senza trovarne in vini
nuovi e taverne rumorose, lui che non aveva pi moglie ma ancora figli quando c'era da
raccogliere comprensione e compassione; non quando c'era da trovare da mangiare. Lui che
riusciva a procurarsi solo un poco di lavoro a ore, sulle assi malferme dei cantieri nei
quartieri nuovi, quelli che andavano crescendo come piccole foreste dietro le vie vecchie o
vicino al mare, sotto la montagna. E per i soldi se li beveva, o se li giocava a carte seduto sulle
cassette di legno, nel buio stretto vicino al porto in mezzo agli strilli dei gabbiani.
I primi tempi Filomena lo andava a cercare, e purtroppo lo trovava. Addormentato, il pi
delle volte, la bocca aperta e il berretto sugli occhi, il pesante respiro acido che faceva ribrezzo
e un'espressione di dolore.
Forse sognava il sangue sulla paglia, pensava Filomena. Forse si guardava attorno, nel suo
inferno; quello che nel sonno non poteva far finta di non conoscere a forza di vino e di lavoro
duro.
E se lo portava a casa, attraverso la buia ragnatela di irte salite e ripide discese che
conoscete come conosco io: d'estate tra gli occhi tristi delle vecchie sedute a cercare aria
fuori le porte dei bassi, d'inverno attraverso la pioggia che non lava e i suoi mille ruscelli che
gorgogliano dalla collina. Piccola, scura, forte, gli occhi neri senza pianto, a sostenere un
grande uomo malfermo per il vino e la malinconia.
Dovette passare un anno dalla notte del sangue sulla paglia per il nuovo dolore. Filomena
aveva appena trovato il sonno, nel vicolo i topi padroni della notte correvano avanti e
indietro; le sembr di sognare quando sent la grande mano ruvida su di s, l'odore rancido
del fiato pieno di vino e fumo. Rest in silenzio e quando il dolore fu pi forte pens che forse
era cos che se n'era andata la madre, in un lago di sangue gocciolante sulla paglia del letto.
I fratelli e le sorelle continuarono il loro sonno affamato e i topi non smisero di correre;
forse anche a lui sembr di sognare il tempo recente e infinito in cui l'amore era carne e
sospiri, e il dolore della figlia gli sembr il piacere della moglie. Fatto sta che da allora
cominci l'inferno di Filomena.
Ad alcuni di voi non sembrer possibile. Chi di voi invece c'era, sapr che non strano che
Filomena prendesse su di s tutto quel dolore come un'altra croce che doveva portare, come
cercare da mangiare per i fratelli, mendicare, anche rubare, accettare la carit di qualche
signora del vicolo che aveva pi pena che povert. Ogni notte sperava che l'uomo fosse troppo
ubriaco per alzarsi, che il respiro pesante si trasformasse nel profondo russare a bocca
spalancata che significava poter riposare, niente dolore. A volte succedeva. Altre volte no, e
trattenendo il fiato sperava di morire come la mamma, di trovare pace e poter dormire,
dormire, dormire per sempre.
Le albe che uccidevano quelle notti la trovavano vicino alla fontana nella piccola piazza,
prima ancora che arrivassero le donne per lavare i loro stracci, per scacciare con l'acqua
gelida il fantasma del dolore. E bagnata e tremante tornava a casa, in tempo per dare da
mangiare ai fratelli quel poco che aveva messo da parte il giorno prima. E ancora una giornata
di lotta per il cibo, tra cento altri piccoli vecchi, in gara coi topi e i cani per gli stessi avanzi.
Non odiava nessuno, Filomena. Nemmeno l'uomo che le portava il dolore. Sapete che non

c' spazio per l'odio quando si deve sopravvivere. L'odio una passione da ricchi, come
l'amore; patrimonio delle coppie con il monocolo, il bastone e gli alti cappelli, che vedeva
passeggiare per via Toledo tenendosi nell'ombra dei vicoli, come fosse uno spettacolo di
teatro. Roba per i signori che si intravedevano dai finestrini delle carrozze, con i folti colli di
pelliccia e gli chauffeurs, o per gli ufficiali a cavallo, con i pennacchi rossi sui grandi cappelli a
barca. Non odiava, Filomena, n tutto sommato amava: faceva quello che doveva fare, gli
occhi grandi senza lacrime e le mani svelte, le guance scavate da fame, veglia e dolore. Aveva
un compito, e quel compito era lei stessa.
Ci fu un giorno in cui c'era vento e pioggia, come in questa eterna notte il cui urlo disperato
tutti ascoltiamo da dietro le porte sbarrate. Filomena aveva trovato da mangiare tra i rifiuti di
una piccola trattoria; non aveva dovuto camminare molto, ma i geloni ai piedi nudi la
costringevano a fermarsi spesso.
Aveva trovato riparo in un portone, aspettava che la pioggia si calmasse. Ai pi piccoli
badava il fratellino, un altro vecchio di dieci anni che aspettava affamato il suo ritorno.
Nel portone, a terra, un cumulo di stracci maleodoranti. Filomena ci si sedette sopra, alla
ricerca di un posto asciutto e caldo; quando ci si appoggi, dal cumulo usc un flebile lamento.
Nella penombra, tremante sotto gli stracci, c'era una vecchia. Altri si sarebbero spaventati,
di fronte al volto straziato dalle rughe e dalle piaghe, alle mani orrendamente deformate
dall'artrite, ai pochi ciuffi stopposi che uscivano dal fazzoletto sporco che le copriva la testa;
ma la bambina che non piangeva e che vedeva la morte ogni giorno e quasi tutte le notti, non
conosceva la paura.
La vecchia allung la mano. La bambina riconobbe lo sguardo della fame e della
disperazione; la donna sarebbe morta presto. Ebbe pena di lei, sorella di fame e di dolore.
Prese un pezzo del suo pane, lo mastic un po' come faceva per i fratelli pi piccoli, senza
denti come la vecchia, e glielo fece mangiare. Un poco alla volta, la mano adunca posata sul
suo braccio ad accompagnarne debolmente il gesto, il vento che continuava a urlare, il
torrente di pioggia che portava rifiuti verso un mare irraggiungibile, appena fuori il portone. Il
tempo sembrava fermo.
Alla fine la vecchia ferm la mano della ragazza, sazia delle poche briciole; rimasero cos
nell'urlo della pioggia, a parti invertite, la vecchia bambina che nutriva la bambina vecchia.
Poi la mano deforme accarezz il viso bruno. Ne percorse i contorni, gli occhi, con un tocco
delicato e sconosciuto a quella pelle.
Quanto sei bella, disse con la voce graffiata. Sembri la Madonna della Francesca.
Filomena non aveva mai sentito quel nome. E nessuno mai le aveva detto che era bella. La
coscienza che aveva di se stessa era quella di un piccolo animale, come quelli che insieme a lei
scavavano nei rifiuti alla ricerca di cibo per un altro giorno, obbedendo all'ottuso richiamo del
ventre; ma ora, dentro la penombra di un portone, mentre fuori infuriavano vento e pioggia, la
carezza della vecchia riport a galla dal mare nero dei ricordi i tratti della madre, prima del
lago di sangue sulla paglia. E la voce di lei, che cantava canzoni dimenticate con la voce di un
angelo.
Non pianse nemmeno allora, Filomena. Ma sent il cuore stretto in un pugno, e si alz e
scapp, i piedi nudi nell'acqua gelida, il pezzo di pane rimasto chiuso nella veste, i grandi
occhi neri stretti nella pioggia battente.
Nei giorni che seguirono e soprattutto nelle notti, quando attendeva il ritorno del padre col
fiato sospeso, Filomena non riusc a separarsi dall'immagine della vecchia e dal suono

gracchiante della sua voce. Bella. La Madonna della Francesca. Sapeva di assomigliare alla
madre, le vicine di casa glielo dicevano sempre; nel suo dormiveglia sognava che la Madonna
della Francesca era la sua mamma, e che le cantava una lunga dolce canzone tenendola in
braccio. Il pensiero divent un rifugio dove ritirarsi nei momenti peggiori, quelli in cui
desiderava addormentarsi senza sogni.
Tornava a volte a cercare la vecchia, sperando di vederla per darle ancora un po' di pane;
per questo, ne portava sempre qualche boccone nella grande tasca della veste, ma non la
trov. Avrebbe voluto chiederle qualcosa di questa Madonna, della sua faccia, soprattutto
degli occhi che immaginava grandi e neri, pieni di gioia e di amore per il figlio che portava in
braccio.
La vecchia non c'era. Filomena non lo poteva sapere, ma le aveva dato da mangiare il suo
ultimo pasto. Era stata portata via dagli spazzini insieme ai suoi stracci, in una grande fossa
comune non lontano da dove dormiva sua madre.
Un giorno, non molto tempo dopo, Filomena sent due donne del vicolo parlare. Una diceva
all'altra che, nonostante fosse sposata ormai da anni, non aveva ancora la benedizione di un
figlio e temeva che per questo il marito l'avrebbe mandata via. L'altra, la pi vecchia, propose
una serie di rimedi, erbe, preghiere. Filomena, seduta a terra vicino alla porta del suo basso,
ascoltava distratta guardando i gemelli che giocavano a tirarsi i capelli. A un certo punto per
una frase di una delle due attir la sua attenzione. Avete provato, diceva, la sedia della chiesa
di Santa Maria della Francesca?
La ragazza ebbe un tuffo al cuore; non pensava che il nome sussurrato dalla vecchia del
portone esistesse davvero. Ascolt dalla bocca della donna la leggenda di questa sedia, in una
chiesa vicino a via Toledo, dal potere miracoloso per le donne che non riuscivano ad avere
bambini. Da quel momento in lei il pensiero della madre, della vecchia, della Madonna della
Francesca e di se stessa diventarono un'unica immagine, di forza, dolcezza e protezione. E
decise: doveva andarci, e vedere questa faccia. Per ricordare meglio. E perch il ricordo le
avrebbe fatto compagnia.
Appena pot, qualche giorno dopo, si mise alla ricerca della chiesa. Credeva che fosse in
una grande piazza, come le altre chiese dove andava a chiedere l'elemosina, e invece era
piccola, stretta tra altri palazzi. Ci pass davanti per due volte senza vederla, scansando il
passaggio delle carrozze, sballottata dai passanti che non si accorgevano di lei. Poi vide una
suora che usciva da un portone per svuotare un pitale e la segu per una stretta scalinata,
ritrovandosi nella fresca penombra della stretta navata
Era in corso una funzione. Filomena si nascose vicino al muro, cercando riparo dietro una
colonna. Un prete stava raccontando la storia di una santa, suor Maria Francesca. C'era una
dozzina di persone, sedute nei banchi. Soprattutto donne. Filomena ricord la storia
raccontata dalla sua vicina, e pens che quelle erano tutte l per avere in dono un figlio. E lei,
perch era l? Che dono voleva, lei? Solo vedere il volto della Ma-donna, per ricordare la sua
mamma; per separarne l'immagine dal lago di sangue e dalla goccia che dalla paglia cadeva a
terra.
Il prete raccontava. Di una ragazza morta tanto tempo prima. Parlava semplice, per farsi
capire da gente ignorante. Raccontava di una donna mortificata da piaghe, nelle mani e nei
piedi come Ges. Di dolori atroci, dei maltrattamenti del padre, dell'amore della madre.
Filomena ascoltava, e le sembrava di volare in un altro mondo. Pass di nuovo la suora, e la
ragazza si fece pi vicina al muro.

Si accorse che stava proprio sotto un quadro, Maria che guardava con orgoglio innamorato
il bambino che teneva in braccio. I grandi occhi neri spalancati, Filomena fiss il volto della
donna senza pi ascoltare la voce del prete. Pensava di vedere la propria madre, e pensava che
il bambino in braccio fosse una bambina, e che fosse lei stessa. Il cuore le martellava le
tempie. Nella sua mente, dalla sua anima, Filomena parl al quadro.
Sapete bene, sorelle mie, come esistano certi posti; posti in cui le forze dell'universo si
incontrano, creando correnti e passaggi. In questi posti gli uomini hanno posato pietre
nell'alba della specie, e su di esse templi, colonne e chiese. Posti dai quali le voci vengono
ascoltate.
Filomena si trov cos, per caso, in quel posto preciso; ci si trov per sfuggire allo sguardo
severo di una suora, che avrebbe scacciato dalla chiesa la piccola stracciona, senza sapere che
la chiesa era l da secoli proprio per permettere alla ragazza di urlare senza voce il proprio
dolore. Ci si trov proprio nel momento in cui c'era qualcuno attento, a sentire la sua voce. E
la sua voce senza parole, il flusso dei suoi dolori segreti, furono come una canzone struggente
e disperata per chi l'ascolt.
Non ci dato sapere, sorelle mie, chi siamo state in vita. Se uomini o donne, se bambini
morti presto. Se invece ancora non siamo nate, e calpesteremo la terra nel lontano futuro. Non
ci concesso ricordare: dobbiamo attendere di essere chiamate, e attendiamo nelle buie
stanze di palazzi dimenticati, testimoni senza pena e senza gioia delle passioni e del dolore
del tempo.
Ma in notti come queste, ascoltando la pioggia che bussa con forza alle finestre, il vento
sembra raccontarci le nostre stesse storie, e a me racconta quella della piccola Filomena che
piangeva senza lacrime nella chiesa di Santa Maria Francesca.
Fui chiamata io.
Nessuna di noi sa se contravveniamo al destino o lo aiutiamo a realizzarsi, quando
riceviamo i nostri incarichi; nemmeno sappiamo se esiste, il destino. O piuttosto se c'
qualcuno che risponde al richiamo che viene da quei pochi posti, e fa quello che deve fare. Non
chiediamo, perch sappiamo che non avremmo risposta. Lasciai il buio come un alito freddo e
svolsi il mio compito.
Aspettai l'uomo sulla trave, a dieci metri di altezza, nel cantiere dove lavorava, quello
stesso giorno. Lo vidi tra gli altri, le spalle curve sotto il peso delle pietre che portava in alto,
un altro piano di un nuovo palazzo che tra cent'anni sarebbe stato vecchio e solo, come
questo in cui stiamo aspettando la fine della notte. Vedevo il segno che era stato preparato, il
punto preciso dove l'avrei incontrato. Sapete come avviene: dovevo stare ferma e guardare.
Lui pos il secchio di ferro con le pietre, si gir per tornare indietro e guard dalla mia
parte. Si avvi trascinando il passo, in pieno equilibrio, la testa bassa a guardare bene dove
metteva i piedi. Io aspettavo, paziente. Se c' una cosa che conosciamo, sorelle, la pazienza;
cento, mille, diecimila anni di pazienza, per un soffio di vita lungo un attimo e senza ricordi.
Alz lo sguardo e mi vide. Siamo rese visibili per un solo attimo, ogni volta. E nella nostra
terribile immagine, colui o colei per cui siamo stati mandate vede tutte insieme le proprie
paure, tutti i terrori che hanno animato gli incubi di un'intera esistenza. Non so cosa vide in
me il padre di Filomena, ma dovette essere terribile. Gli occhi spalancati, i lineamenti del viso
contorti a scoprire le gengive rosse e i denti guasti, la bocca aperta in un urlo senza suono.
Sentii il sibilo del respiro uscire dai polmoni, lo spasmo dei muscoli del collo che si tendevano
a cercare aria.

Avevo sperato che vedesse in me un'immagine cara, che cadesse nel tentativo di
abbracciarmi. A volte succede. Avrei preferito non assorbire un altro immenso dolore, un
terrore senza fine. Non fu cos. Chi ci chiama aveva deciso che l'inferno dell'uomo
cominciasse dagli ultimi attimi della sua triste vita. Tentando di urlare perse il berretto, che
cadde lentamente verso il suolo, dieci metri pi in basso. Solo allora un suo compagno se ne
accorse, e alz lo sguardo dal muro che stava costruendo; rimase fermo cos, come se fosse
diventato di pietra anche lui. I capelli dell'uomo davanti a me si tinsero di bianco,
assurdamente; arretr di un passo, mise il piede nel vuoto e cadde. Alle sue spalle, il
compagno url e fu l'unico suono che trafisse il pomeriggio senza sole.
Dieci metri pi in basso, un vestito logoro, schizzi di sangue e cervello a terra e gli arti
scomposti di una bambola rotta. Un'altra volta. Non la prima; non l'ultima. Mi dissolsi nel
vento.
Ci piace pensare che tutto sia studiato, che chi ci chiama sappia che un evento doloroso
possa alla fine rivelarsi buono, che dal terrore e dalla morte possa nascere la vita. Che il male
talvolta sia bene mascherato, come il bene pu nascondere vermi e putrefazione.
I giorni che seguirono dimostrarono l'anima del vicolo, che in quegli anni poveri riscaldava
pi del fuoco. Inorriditi dalla disgrazia di quei poveri bambini, che in cos poco tempo
avevano perso entrambi i genitori, i vicini fecero scudo: le autorit che volevano portarli in
orfanotrofio non trovarono nessuno, il basso deserto svuotato di ogni segno di vita. I fratellini
furono adottati dalle famiglie vicine, che li presero come figli propri e come tali li tennero per
tutto il resto della vita. Questa citt sapeva essere cos.
Quanto a Filomena, fu presa a servizio da una famiglia molto ricca di via Toledo; se ne
interess la suora di cui aveva avuto paura, nella chiesa di Santa Maria Francesca dove la
religiosa la trov addormentata, ai piedi del famoso quadro, una fredda mattina d'inverno. La
famiglia la prese a benvolere, specialmente un figlio di poco pi grande di lei, che rimase
subito affascinato da quei grandi occhi senza lacrime. Non so dirvi cosa successe, negli anni
dopo. So che non riusc mai a piangere, e nemmeno a ridere.
Ma posso dirvi, sorelle, che qualche anno dopo ci fu una bella signora che venne vicino al
quadro, il quadro che sapete, e fece una carezza al volto della Madonna. Aveva gli occhi neri,
grandi. Ma non disperati.

Non ci dato sapere chi siamo state, o chi saremo. Ma vi voglio dire una cosa: mi piace
sognare di essere stata una donna giovane e gentile, e di aver avuto sei figli. Mi piace sognare
di aver avuto in braccio una bella bambina con gli occhi grandi e neri, che non piangeva.
Perch era felice, mentre le cantavo una lunga, dolce canzone.

Io e mia Sorella

Dotto', credetemi: io a questa cosa, a fare questa cosa, non ci avrei pensato mai. Non sono cose
mie, queste, non lo sono mai state. Sono quelle cose che si sentono alla televisione, alla fine della
giornata se ci hai la forza di tenere ancora gli occhi aperti dopo una giornata di lavoro. Io lavoro
forte, sapete, dotto'; forte assai. Faccio il contadino, ci ho un terreno mio, tutta la vita ho messo
da parte i soldi per avere un terreno mio, alla fine. Facevo il bracciante agricolo, come mio padre,
a buttare il sangue dieci ore al giorno per fare ricco un altro.
E poi finalmente ce l'ho fatta, si vendeva questa terra, un poco lontana dal paese mio, ma che
fa, io non tenevo a nessuno, e chi ce l'ha mai avuto il tempo, o la forza, per trovarsi una moglie.
Sono giovane ancora, pensavo. Ci ho il tempo davanti, per pensare a questo. E poi mi sono
accorto che a forza di lavorare, a forza di spezzarsi la schiena in mezzo alla terra, finiva che
tutto questo non sarebbe servito a niente, a nessuno. A chi ce la lasciavo, la terra mia? Il frutto del
lavoro di tutta la mia vita? Se la sarebbe pigliata qualche cugino, chi sa, magari i figli della sorella
di mia madre che stanno in citt e che non li ho mai visti.
A quel punto, dotto', quando ho cominciato a fare questi pensieri, mi sono guardato intorno.
E quella stata la rovina mia.

Io e mia sorella ci siamo trasferite in quel buco di paese giusto un anno fa. Non che ci
volessimo andare, beninteso.
Ci piace pensare di noi di essere piuttosto raffinate. Non ricercate, inutilmente
pretenziose, di quelle che magari si guardano e si pensa: ma guarda quelle, che coraggio a
uscire cos. Non di quelle pacchiane, esagerate nel modo di fare, di quelle che quando arrivano
sembrano riempire l'ambiente di se stesse.
Noi siamo eleganti, ma discrete. E ci facciamo i fatti nostri. Pensiamo che alla nostra et,
ormai, la collocazione giusta per noi due sia la citt, un quartiere borghese, tranquillo. Magari
senza particolari pretese, siamo le prime a renderci conto di non essere pi giovanissime, alla
moda e brillanti, ma almeno un posto che non sia fuori dal mondo come questo buco nel quale
poi siamo andate a finire.
Io tanto quanto mi adatto, ma mia sorella no. Siamo diverse, pi di quanto si sia disposti a
immaginare, vedendoci cos simili. Io sono sempre la prima, impulsiva e decisa, quella che sa
adattarsi alle situazioni con prontezza. Lo spirito guida, si potrebbe dire. Lei invece
introversa, sempre piena di dubbi e incertezze, incline alla depressione; ricordo una volta,
eravamo giovani, alle prime uscite, si interess a lei un signore, proprio un bel tipo. In genere,
devo dire, gli uomini scelgono me, anche se esteticamente siamo pressoch identiche: ma ci
dev'essere qualcosa, un fascino sottile che li spinge a preferirmi.

Invece quella volta l'uomo la scelse, evidentemente affascinato da quell'aria remissiva,


sensibile che ha. Lo vidi che l'accarezzava, perfino, superando quella fase di insicurezza che
hanno gli uomini quando sanno che stanno per cedere a un'emozione. E quella che fa? Si
ritrae, mostrando di s la parte meno luminosa; si schermisce, mostra evidentemente la
voglia di scappare e di tornarsene nel buio da dov'era venuta. Lui naturalmente se ne accorse
e, non senza una punta di rimpianto, le volt le spalle e pass oltre con la superficialit tipica
degli uomini.

Dotto', non facile. Quando uno non ha mai curato queste cose, donne, amici, non facile
mettersi a cercare compagnia.
Certo io qualche volta in osteria ci andavo, gi al paese. La domenica, quando il lavoro non ti
pesa sulla schiena e non ti viene di buttarti sul letto vestito e dormire, dormire senza sogni e senza
nemmeno mangiare.
Ma non mi sentivo a mio agio, tutti a guardarmi, il forestiero che si era comprato la terra loro,
e non ci faceva lavorare nemmeno un bracciante, per risparmiare. Io non ero certo andato fino l
per far guadagnare loro, se no rimanevo al paese mio. Insomma, mi facevo un paio di birre
mentre loro giocavano a carte, niente di pi. Sentivo le chiacchiere sulla gente del paese, nomi
che non conoscevo e che nemmeno mi interessava conoscere.
Insomma, non era certo da l che poteva venir fuori una compagnia per me: da quella
freddezza, da quella ostilit.
Forse avrei dovuto cercare di fare amicizia. Forse, se avessi parlato con loro, se avessi saputo
qualcosa di quel posto e di chi ci abitava non sarei qui, adesso. A parlare di questa cosa terribile,
di questa mostruosit che mi successa. Avrei dovuto cercare qualcuna del posto, mi sarei dovuto
integrare piano piano, ci avrei messo tempo ma alla fine ci sarei riuscito.
E invece, come sapete, dotto', non ho fatto cos.

Man mano che il tempo passa, bisogna scendere a patti con le proprie pretese. Io a mia
sorella lo dico sempre: prima di giudicare il prossimo, bisogna saper giudicare se stessi.
Certo, non facile. Ogni volta una ci mette il pensiero, a potersi fermare, a mettere le tende.
Ma a me e a mia sorella ci frega proprio l'eleganza; il fatto che la gente ci pensa come due per
le occasioni, non per la vita quotidiana. Mettiamo soggezione, ecco cosa.
Io a mia sorella lo dico sempre, di non avere tanta cura per se stessa e quindi di non
obbligare me a fare altrettanto, per mantenermi alla sua altezza. sbagliato, soprattutto nella
nostra posizione. Si finisce per non diventare mai importanti, per rimanere marginali per
tutta l'esistenza. Per non essere mai prese a cuore, e diventare veramente care a qualcuno.
Temo che ormai sia tardi, per porsi questo problema. Almeno oggi, dopo quello che
successo. Che strano, proprio oggi che io e mia sorella siamo al centro dell'attenzione di tanta
gente, proprio adesso che non si parla d'altro che di noi, che siamo fotografate su tutti i
giornali.
Lei pi di me, per la verit. Ma per merito mio, comunque.

Dotto', io non che l'ho deciso proprio, di non rimanermene pi da solo. Diciamo che ho
cominciato a pensarlo un poco alla volta, le sere che mi accorgevo che rimanevo nel campo
anche dopo che il sole se n'era andato e non vedevo pi niente.

Alzavo lo sguardo da terra e guardavo il cielo, dalla parte che era diventato buio prima, e
vedevo che c'era gi qualche stella, nel cielo della primavera. Le stelle, dotto', certe volte ti
accusano. Ti dicono guardaci, e pensa che stai guardando noi e che l'ora in cui invece quelli
come te stanno a tavola, in mezzo alla moglie e ai figli, a fare il padre e a pensare che quello che
hai fatto per loro, che stai costruendo qualcosa che poi a qualcuno rimane.
Io mi ricordo mio padre e mia madre, dotto'. Me li ricordo bene. Mi ricordo perfino mio fratello,
che mor che io ero ancora piccolo. Io ho buona memoria, sapete: e lo dico proprio a voi, e magari
non mi conviene. Ma io ho buona memoria. E me le ricordo quelle serate sotto alle stelle, seduto
sotto l'albero grande che sta al confine ovest del mio podere, a fumare e a pensare a quello che
sarebbe successo quando sarei diventato vecchio e incapace a lavorare.
Era pi questo, dotto'. Il pensiero di quando sarei diventato vecchio. Non il desiderio di una
donna, non l'urlo del corpo che chiama un altro a primavera. No. Quello, meno lo si fa e meno si
sente il bisogno; e comunque, uno una volta ogni mese pu andare in citt con la corriera,
approfittando di andare a vedere le sementi per la stagione o un aratro o il pezzo di ricambio del
trattore, e andare con una puttana. Ce ne stanno tante, lo sanno che andiamo e si mettono
proprio vicino al mercato.
Certe volte ho pure pensato, adesso prendo una di queste e me la porto a casa. Chiss, magari
andando dove nessuno la conosce e sa chi , pure una puttana pu diventare una brava madre di
famiglia. Ma mica facile, dotto': ci stanno i papponi che non le mollano, e loro stesse si drogano
e sono abituate a fare soldi, non sono sceme a condannarsi a una vita di lavoro duro per un
piatto a tavola e un poco di calore nel letto.
stato quando ho pensato questo, che nemmeno una puttana mi avrebbe voluto, che ho
deciso di cominciare a guardarmi attorno.

Una volta abitavamo in citt, era la seconda casa che cambiavamo. Dio, quanto eravamo
ancora giovani, e quanto gi ci sentivamo vecchie. C'era questo tizio, uno con pretese di vita
sociale ma con pochi mezzi: uno che voleva sembrare molto meglio di com'era, insomma.
Ci portava in giro, locali, ristoranti, ricevimenti. Si imbucava, pensava che noi non ce ne
accorgessimo ma era piuttosto evidente. Si faceva invitare, non pagava mai e non uscivamo
mai da soli. Si vestiva con eleganza, questo s: non sbagliava gli accoppiamenti, i colori erano
quelli giusti e i capi che indossava erano all'altezza della situazione e della compagnia di mia
sorella e mia, anche se devo dire che all'epoca quasi nulla ci sembrava alla nostra altezza.
Beveva, il tizio. Si vedeva che era infelice, che andava finalmente rendendosi conto che la
sua vita non era andata secondo le sue aspettative, che le cose non avevano preso la piega
giusta. Stemmo insieme a lui, per un po': ci pareva scorretto mollarlo. Poi una sera che era
ubriaco fradicio, cominci a singhiozzare e voleva portarci a letto, tutte e due. Ci credereste?
Io e mia sorella, a letto con lui ubriaco e piangente.
Decidemmo di mollarlo quella sera stessa, e un paio di giorni dopo eravamo gi altrove. Io
e mia sorella siamo cos, se decidiamo di fare una cosa la facciamo. Ci basta uno sguardo
d'intesa.

Una volta deciso, dotto', gi mi sentivo pi tranquillo. Per ora era sufficiente, mi bastava
sapere che potevo mettere le cose in maniera tale da avere una donna, una famiglia.
Cominciai a fare caso di pi alle cose che potevano piacere, misi a posto l'intonaco della casa,

riparai qualche seggiola che traballava, comprai un po' di biancheria. Lavorai all'orto, lo misi in
ordine, e piantai anche qualche fiore sul giardinetto davanti alla porta, casomai qualcuno fosse
venuto prima o poi a vedere dove abitavo e in che modo tenevo il posto. Qualcuna, cio.
Naturalmente questo non significava niente, se non cominciavo a presentarmi meglio io
stesso. Mi guardai allo specchio e quello che vidi non era un bello spettacolo. Un uomo ancora
giovane e sembravo un vecchio: la pelle nera di sole e il collo bianco, sotto la camicia che mi
riparava dal vento; le rughe profonde di una faccia strizzata nella luce del giorno e maltrattata
dall'umidit delle mattine; le mani di carta vetrata, piene di mille cicatrici.
Dovevo mettermi a posto. Mi feci la barba, mi lavai. Gettai via le camicie pi murate, i
pantaloni pi strappati. Mi presi una giornata e me ne andai in citt, per una volta non al
mercato delle sementi n dalle puttane: stavolta andai a cercarmi vestiti nuovi.
E decisi che quella domenica me ne sarei andato a messa, per vedere chi c'era. Nei paesi,
dotto', oggi come cent'anni fa se uno vuole trovare una brava ragazza deve andare a messa la
domenica. E io volevo trovare una brava ragazza.

Arrivammo nel paese un annetto fa. Ci guardammo attorno, come al solito evitando di
parlare tra di noi delle sensazioni che avevamo, forti, esplicite.
Ogni volta era pi triste, ogni volta pi difficile. I posti dove andavamo a finire erano il
simbolo della nostra decadenza, della lenta rovina verso la quale il nostro destino ci portava.
Forse era naturale che andasse cos, pensavo mentre mi guardavo attorno, la prima volta
che percorremmo il corso principale del paese: ma rassegnarsi era difficile. Molto difficile.
Guardai mia sorella, cercando di decifrarne l'espressione. Era impenetrabile, come al
solito. Procedeva dignitosa, senza guardarsi attorno, un passo dietro l'altro, composta e
aggraziata, nelle migliori condizioni che le consentivano l'et e i travagli: ma io la conoscevo
meglio di chiunque, e ne sapevo leggere la disperazione. Forse sar questo l'ultimo posto,
pensava. Qui si compir il nostro destino.
Facevo uno sforzo terribile a non ricordare i lucenti pavimenti di marmo che avevamo
conosciuto, le sfavillanti luci dei saloni degli alberghi di lusso, le soffici moquettes e i
panorami indimenticabili delle terrazze dove ci portavano a cena. Decoro, decoro, avrebbe
detto mia sorella. Che nessuno immagini da dove proveniamo, ma che tutti capiscano che
siamo eleganti e dignitose. Sempre.
Anche se il polveroso corso di quel paese era pi piccolo e sordido della pi laterale
traversa della citt in cui eravamo nate e in cui avevamo vissuto la gran parte della nostra
vita.
Camminando al fianco di mia sorella, mentre tutti ci guardavano con ammirazione e
ostilit, per la prima volta pensai che la nostra fine era vicina.

Io cerco di ricordare la prima volta che l'ho vista, e vi ho detto che tengo un'ottima memoria;
ma mi dovete credere, dotto', io non me lo riesco a ricordare.
Forse perch quella domenica mi sentivo addosso gli occhi di tutti, forse perch nei vestiti
nuovi che mi ero comprato non mi sentivo a mio agio, forse perch stavo attento a non fissare gli
occhi su nessuno, mia madre diceva che era maleducazione a guardare fisso uno sconosciuto. Ma
non mi ricordo, quando l'ho vista per la prima volta.
Mi ricordo che c'era il sole, quella mattina. Un sole di febbraio, senza nebbia, una luce forte che

portava calore ma non consentiva di nascondersi.


Tutto il paese era in piazza, quando sono arrivato io. Mi guardavano, eccome se mi
guardavano. Ho saputo dopo che il mio arrivo era il secondo fatto nuovo del mese, perch la
settimana precedente era arrivata pure lei, con la sua famiglia. E con sua sorella, dalla quale mai
si separava.
Ma io in quel momento mi sentivo il centro del mondo, e credetemi, dotto', per uno abituato a
stare da solo non era una bella sensazione. Vestito a festa, impacciato e solo. Mi sentivo ridere
appresso da tutti.

Il tizio lo incontrammo dopo un po', che nemmeno avevamo capito bene ancora il posto.
Non che ci fosse molto da capire, per la verit: una cacca di cane in mezzo al nulla, era la
corretta metafora. E io e mia sorella, in materia, eravamo piuttosto esperte. Bastava guardare
in giro, vedere la gente com'era vestita: pareva che non conoscessero il mondo, l'eleganza era
come la lingua di un Paese lontano, incomprensibile ed estranea.
Io ebbi il mio bel da fare, per evitare che mia sorella cadesse di nuovo in depressione. Mi
accorsi del suo mutismo, del suo ingrigirsi. Sembrava quasi impolverata, abbandonata. Ai
miei occhi invece il posto riservava qualche attrattiva: prima di tutto, eravamo sicuramente le
pi eleganti e attraenti di tutte. Poi, mi sembrava che riscuotessimo rispetto e attenzione, che
era proprio quello che ci serviva. Infine, ci si prendeva cura di noi, e Dio sa se ne avevamo
bisogno. Insomma, di tanti posti dove avremmo potuto capitare dopo le ultime brutte
esperienze, quello non mi pareva il peggiore, decisamente: dovevo solo riuscire a farglielo
capire, a quella sciocca di mia sorella.
Il tizio, dunque, mi sembr proprio una bella occasione. Mia sorella era sempre incline ad
affezionarsi, sentimentale e dolce com'era. Dovevo solo riuscire a farglielo piacere,
magnificandone i lati positivi.
Il problema era trovarli, i lati positivi. Un buzzurro della peggiore specie, un contadino
abbrutito dalla fatica, senza cultura, senza sentimenti. Le mani, e quel che peggio i piedi,
nodosi come una radice di quercia. La pelle come cuoio non conciato. Il collo rosso, come un
gallinaccio.
Ma il modo di fare aveva una qualche riservata cortesia, come il riflesso di un'educazione
lontana e non dimenticata. Cominciai a parlarne a mia sorella, con piccoli accenni casuali a
una preferenza di lui per lei, che dapprima fu negata con decisione.
Ma con un sorriso confuso. Era gi qualcosa.

Me ne accorsi un paio di domeniche dopo, dotto'. Vennero a galla nella mia attenzione, come
un pezzo di sughero che emerge piano. Le avevo sicuramente viste, forse anche sin dalla prima
volta, ma in mezzo alla folla erano passate inosservate ai miei occhi.
Non saprei dire come: erano evidenti come se le avesse illuminate un faro. Prima di tutto
perch pure loro, come me, erano tenute un po' in disparte, come se fossero arrivate di recente
(ed era proprio cos, anche se allora io non lo sapevo). La maggiore mi guardava, coi suoi occhi
neri e profondi, intelligenti. Mi guardava con curiosit, come se volesse vedermi dentro ai pensieri.
Ma io fin da subito ebbi occhi solo per l'altra, la pi giovane.
Voi ora purtroppo la vedete solo in fotografia, dotto'. Ma non potete immaginare quanto mi
apparve bella, quella domenica di fine febbraio in chiesa. Mi pareva una Madonna, quei

lineamenti dolci, gli occhi bassi, le guance rosse quando la sorella si accorse che la guardavo e le
sussurr qualcosa all'orecchio.
Alla fine della funzione pensai che perdere tempo non aveva senso. E mi avvicinai.

Vedemmo il tizio avvicinarsi, con qualche preoccupazione. L'esperienza ci diceva che non
c'era necessariamente da preoccuparsi, in una prima fase. Lui poi alla fine non era male, una
volta ripulito e rivestito.
Considerammo noi stesse come se ci guardassimo dall'esterno, secondo un gioco
consolidato che ci piaceva fare. Quella di destra disse alla sinistra di non preoccuparsi, di non
provare angoscia. Quella di sinistra si mantenne calma, senza mostrare all'esterno il fremito
che sentiva. Quella di destra fece un mezzo passo avanti, per attirare l'attenzione su di s, che
era pi forte, pi consapevole. Quella di sinistra si alz un po', per sembrare pi alta.
La danza era cominciata.

Dotto', i mesi che seguirono sono stati i pi strani di tutta la mia vita. Non avevo mai
corteggiato una donna, e lei era bellissima. L'unico problema era che stava sempre con la sorella,
non si separavano mai: io non la riuscivo mai a incontrare da sola.
Mi dicevano che era l'unico modo per non fare insospettire i genitori, che se l'avessero saputo
loro non mi avrebbero mai e poi mai permesso di stare con lei. lo finivo sempre prima di lavorare,
mi svegliavo prima dell'alba per avere il tempo, quando il sole cominciava a scendere dietro la
linea delle montagne, di andare a casa, lavarmi e cambiarmi: non avrei avuto mai la faccia di
presentarmi come finivo di lavorare davanti a lei. Mi pareva una principessa.
La sorella era strana, si metteva l e guardava con un sorriso che non capivo, che non riuscivo
a interpretare.
Io aspettavo.
Che aspettavo? Non lo so. Aspettavo che venisse il momento di parlare, di dire quello che avevo
in testa, che volevo una famiglia, che volevo mettere ai piedi di una donna tutto quello che avevo
fatto nella mia vita.
Che questa donna non poteva che essere quella fata che mi regalava un sorriso ogni tanto, o
una parola. Mi bastavano, allora. Ma sentivo che non sarebbero bastati per sempre.
Nel frattempo era cominciata l'estate. Una terribile estate bastarda, che faceva impazzire, che
non lasciava respiro. Un'estate di fuoco, senza una goccia d'acqua per la terra o per gli animali, o
per noi che impieghiamo mesi a tirar fuori qualche frutto.
Quell'estate, dotto'.
Quell'estate fu la mia rovina.

Quell'estate fu terribile.
Io e mia sorella siamo nate per stare al chiuso, dove il clima non estremo e non ci scuote,
non ci colpisce nella nostra essenza intima. Non siamo fatte per il freddo che penetra n per la
pioggia che sferza la pelle; e non siamo fatte nemmeno per il caldo infernale che alza la
polvere, che secca, che sporca tutto quello che trova sulla sua strada d'inferno.
Siamo nate per la luce morbida, per l'aria ferma e sorridente, le parole sussurrate e il
tintinnio dei bicchieri al lume di candela. Siamo nate per il profumo dei fiori e per il cibo
raffinato, per muoverci su tappeti fruscianti e scivolare via, in camere da letto coperte di raso.

Ci ritrovammo immerse in un posto dove c'era solo terra e polvere, in un vento che alzava
nuvole di sporco e penetrava anche nelle anime, senza dare pace.
L'uomo ci cercava ogni giorno, ogni santo giorno quando il sole tramontava. Ci chiamava e
noi rispondevamo, perch non potevamo fare altro, perch non c'era nessun altro. E ci
portava per strade solitarie, in silenzio, incapace di dire quello che sentiva e che noi, io e mia
sorella, avevamo capito benissimo.
Non ci piaceva la piega che andava prendendo la situazione. Era chiaro che l'uomo, il
nostro uomo, aveva capito qualcosa di molto diverso da quella che era la realt. Noi due che
ne avevamo viste tante, invece, che avevamo sentito milioni di bugie al chiaro di luna, che
sapevamo quanto poco significassero i sospiri al tramonto e quanto potessero essere false le
promesse temevamo il momento in cui lui si sarebbe reso conto che il suo sogno non si
sarebbe realizzato mai.
Avevamo capito subito che l'uomo era un sempliciotto, un fesso. Che prenderlo in giro, per
due ragazze annoiate dalla morte civile che era la vita in quel paese, era il pi divertente dei
passatempi possibili. Ma sapevamo che non poteva durare in eterno, e ci chiedevamo con
angoscia cosa sarebbe successo quando i nodi fossero finalmente venuti al pettine. Il gioco
era andato troppo avanti, e ora non si poteva tornare indietro.
Non pi.

Io mi ricordo quel pomeriggio, dotto'. Me lo ricordo come fosse adesso.
Mi ero deciso la sera prima, quando disteso sul letto non riuscivo a prendere sonno per il caldo,
che non mi lasciava respirare.
Glielo avrei detto. Non importava che c'era la sorella davanti, che ogni tanto quando si
guardavano mi pareva di cogliere uno sfott, una presa in giro per il mio modo di parlare. Le
avrei detto che le volevo bene, che senza di lei mi pareva impossibile vivere.
Mi ero preparato un bel discorsetto: sarei andato dal padre, gli avrei detto quello che tenevo, la
terra, gli animali, il trattore, il furgone. Ero sicuro che sarebbe rimasto colpito, erano ricchezze
messe da parte in una vita di lavoro duro. E se non gli fosse bastato, gli avrei promesso di lavorare
ancora di pi, che fissasse pure quanto voleva per lasciarmi sposare la figlia.
Ero disposto a prendere in casa anche la sorella, naturalmente. Sapevo quanto fossero legate,
ed erano due braccia in pi per la casa e la terra. Avrebbe potuto occuparsi dell'orto, mi
sembrava abbastanza forte.
La giornata successiva vol via tra la voglia che arrivasse il momento e la paura di leggere
nello sguardo di lei uno smarrimento, o peggio ancora un rifiuto. Ma non poteva essere, pensavo:
perch altrimenti avrebbe passato il tempo con me, tutte quelle ore a sentirmi sognare, a dirmi
del suo passato, della sua vita che sentiva vuota e senza significato?
Eravamo fatti l'uno per l'altra, non c'erano dubbi. Mi avrebbe detto di s, magari sarebbe
scoppiata a piangere di gioia come avevo visto succedere nei film in televisione, e mi sarebbe
caduta tra le braccia.
Quando finalmente venne l'ora, mi sbarbai accuratamente, mi lavai e mi pettinai. Poi misi
come sempre i miei migliori abiti, per fare la migliore figura possibile. E andai incontro
all'appuntamento pi importante di tutta la mia vita.

Mentre andavamo all'appuntamento eravamo molto, molto preoccupate. Mia sorella, al

solito pessimista, aveva cominciato a lamentarsi per tutto, il caldo, la polvere, la lunghezza
della strada.
Io tacevo, invece. Qualcosa nell'aria, il senso di aspettativa e l'ansia mi metteva di
malumore. La conversazione tra me e mia sorella and scemando pian piano, mentre ci
avvicinavamo al luogo concordato. Eravamo in anticipo, evidentemente.
Mi guardai attorno, non c'era nessuno. L'idea di scegliere un posto appartato, per poter
portare avanti quel gioco assurdo, mi parve pi che mai pericolosa. Cominciai a picchiettare
nervosamente sul muretto, e pi picchiettavo pi diventavo preoccupata e nervosa.
Osservavo mia sorella che ostentava una calma e una freddezza che non aveva, lo sapevo
bene. Lei puntava davanti a s, ostinatamente rifiutandosi di guardare dalla mia parte.
L'aria era soffocante. Le cicale, i grilli o quello che accidenti erano, non smettevano con
quel verso assordante. Io sentivo la polvere penetrare attraverso i pori, e pensavo che non
sarei stata mai pi pulita.
A ripensarci ora, la sensazione di allora mi pare veramente ironica.

E lo feci, il mio discorso, dotto'. Eccome, se lo feci. Mi misi l, in piedi, vestito a festa, pulito e
pettinato, e dissi la poesia.
Dissi tutto quello che avevo pensato, le mie intenzioni, i miei sentimenti. Parlai della casa, del
terreno, delle camere nuove per i bambini che volevo costruire sullo spazio del retro. Degli
animali, le due vacche, i maiali.
Delle galline.
Proprio l, arrivato alle galline, mi accorsi di una cosa: mentre lei stava con gli occhi bassi,
rossa come un peperone, le dita intrecciate sulla pancia, la sorella fece una specie di pernacchia.
Io mi girai a guardarla e mi accorsi che stava trattenendo con grande sforzo una risata. Appena
si accorse che la stavo vedendo ridere non si trattenne pi e cominci a sganasciarsi, con le
lacrime che le scendevano, la bocca aperta per riprendere fiato. Si teneva la pancia, quella
stronza puttana, e rideva e rideva.
Sconcertato guardai di nuovo lei, e mi resi conto che stava ridendo come la sorella. Faceva
degli strani singhiozzi col naso, la mano davanti alla bocca, le spalle che sussultavano. Rideva.
Rideva di me. Ridevano di me. Dei miei sentimenti, delle mie speranze.
Dotto', voi siete un uomo e forse mi potete capire. Io stavo l, con una giacca stretta, una
cravatta attorno al collo che non mi faceva respirare, le scarpe elegantissime comprate di
seconda mano al mercato. Stavo l a guardare tutti i miei sogni che si sgretolavano come un
intonaco vecchio sotto alle risate di quelle due perfide puttane.
E faceva caldo, dotto'. Un caldo infernale. Anzi, forse era proprio quello l'inferno. E io ci stavo
in mezzo.
A quel punto, proprio in quel momento, ho sentito qualcosa che si spezzava dentro di me, con
un rumore come di un ramo di legno calpestato.
E non ci ho visto pi.

Mi resi conto che stava per succedere l'irreparabile appena sentii che la ragazza pi
grande, quella brutta, cominciava a sghignazzare. Un errore gravissimo.
Mi ricordai di quella volta a Portofino, quando chi ci indossava rise maleducatamente in
faccia a una signora anziana che faceva programmi sentimentali per un lontano futuro,

prendendosi un bello schiaffo in pieno volto. Certo, quello era un ristorante di lusso: reazioni
diverse, ma dello stesso tenore.
Temetti che l'uomo decidesse di usare i piedi, rovinandoci irreparabilmente. Io e mia
sorella siamo in ottime condizioni, per avere la nostra et, ma non siamo state concepite da
un grande stilista italiano per riparare piedi che prendono a calci corpi umani. Ringraziando il
cielo per l'uomo, in un barlume di lucidit volle preservare abiti e scarpe che tanto gli erano
costati e us solo le mani.
Le sue nodose, bitorzolute, fortissime mani da contadino, attorno al delicato collo delle due
ragazze che volevano combattere la noia di un piccolo paese prendendosi gioco di lui.

Me le ritrovai ai piedi, come due bambole rotte.
Le guardavo, dotto', le guardavo sconcertato. Mi chiedevo se veramente ero stato io. I grilli
continuavano a cantare, il caldo era terribile e non c'era un alito di vento e io ero l, vestito bene,
pettinato e assassino di due donne.
Le avevo strozzate. Come due galline, le galline che gli avevano tirato fuori quella risata
oscena. E io gli avevo tirato il collo.
Cominciai a ridere io, adesso. Forse ero impazzito. Forse sono impazzito, dotto', ma vero che
chi pazzo non va in galera?
Comunque cominciai a pensare veloce, il pi veloce possibile. Mi guardai attorno, non c'era
nessuno. Mi guardai addosso, e non c'erano tracce n di lotta n di sangue. Tutto pulito, com'ero
uscito di casa: nemmeno il nodo della cravatta, si era sciolto.
Le presi e le misi nel furgone, che tenevo posteggiato l vicino: erano leggere, dotto', leggere
come due agnelli. Le portai insieme, una in una mano, una nell'altra. Dove le avrei portate? Dove
le potevo mettere?
Mi rassicurava pensare che nessuno sapeva che ci vedevamo, me l'avevano raccomandato
cento volte, non lo dire a nessuno, dicevano, stai attento, che se lo sa mio padre non ci fa uscire
pi. Finalmente capivo che era per prendermi meglio in giro, senza fare brutta figura col resto del
paese: ma adesso mi faceva comodo, molto comodo.

La guida era calma, il momento pericoloso era passato. Io e mia sorella, alternandoci nel
premere i pedali del vecchio furgone scassato, ci chiedevamo dove sarebbe andato l'uomo a
mollare i cadaveri delle due sciocche ragazze.
Certo la cosa era stata brutta, ma bisogna anche dire che quelle due se l'erano cercata. In
dieci anni di vita e sei passaggi di propriet non ci era mai capitato di vedere un omicidio,
duplice perfino, dal vivo. A teatro, certo, al cinema e anche in tiv, ma mai dal vivo, anche se
"dal vivo" non forse la frase pi corretta.
Guardai mia sorella, e ci chiedemmo ora dove stava andando.

L'unico posto che mi era venuto in mente era quello. Forse perch avevo pensato tante volte
che nessuno se ne sarebbe mai accorto se per sbaglio ci fossi caduto dentro, mentre lo pulivo con
una pertica.
Il vecchio pozzo. Quello che tanto serviva, quando la pioggia non cadeva come in quella
terribile estate torrida.
Ci andai, le buttai dentro. E me ne andai a dormire. Posso dirvi una cosa, dotto'? Dormii

benissimo. Proprio benissimo.


Non me lo aspettavo proprio.

Quando ci ritrovammo vicino al pozzo ci scambiammo un'occhiata: l'uomo era veramente
uno stupido. Possibile che non ci avesse pensato? Possibile che fossimo noi sole ad avere la
consapevolezza della nostra unicit?
Ci mise un paio di minuti a gettare le ragazze nel pozzo. Incredibilmente quando fece il
primo viaggio scans la pozzanghera di un paio di centimetri, ma la seconda volta ci mise mia
sorella dentro, in pieno. La poveretta fece una faccia, lei cos pulita e precisina, sempre attenta
alla polvere che nuoce al pel-lame e all'umidit, inzaccherata fino alla tomaia dal fango. Mi
scapp da ridere ma mi trattenni: mi avrebbe uccisa!
E nemmeno pens di ripulirci, a casa, o come avevamo temuto di distruggerci col fuoco o
di gettarci in un canale, per cancellare le prove. Niente. Ci tolse e ci mise l, ai piedi del letto,
allineate e coi fetidi calzini dentro. Come al solito.
Un paio di giorni dopo arrivarono in dieci, con due macchine. Prelevarono lui e noi.

Dotto', io al fatto delle impronte delle scarpe non ci avevo proprio pensato. Col fatto che non
pioveva da tanto tempo non immaginavo che vicino al pozzo c'era l'unica pozzanghera nel giro
di chilometri, e che la suola di queste maledette scarpe di lusso che avevo comprato di seconda
mano al mercatino unica.
Io proprio non ci avevo pensato.
Se no, con tutto il rispetto, dotto', volevo vedere come facevate a scoprire che ero stato io, pure
con la testimonianza di quella vecchia pettegola che ci aveva visto parlare quell'unica volta fuori
alla chiesa.
E proprio vero, dotto': c' sempre qualcuno che non si fa i fatti suoi, siete d'accordo?

E cos, alla fine della carriera e dopo essere passate tante volte di mano, ci ritroviamo ad
avere gli onori della cronaca, come si dice.
Mia sorella, con la suola incrostata di fango, si ritrova fotografata sulle prime pagine di tutti
i giornali e perfino in televisione, come abbiamo visto dal monitor del custode dell'Ufficio
Prove e Reperti della questura, dove risiediamo attualmente.
Lei si finge inorridita, per essere esibita in quelle condizioni di sporcizia; ma sotto sotto
contenta per tutta questa visibilit, tanti anni dopo la vetrina. fatta cos, le piace lamentarsi.
Io la conosco bene, mia sorella.

Quanto mi manchi in Primavera

Mi manchi, sai. Mi manchi tanto.


Anche di pi, ora che primavera. Ora che l'aria carica di profumi e di aspettative, ora che
il sole arriva all'improvviso e lascia abbagliati e confusi. Ora che la luce invade l'ombra e fa
sorridere nel silenzio, senza una ragione.
Mi manchi.
Ti osservo da lontano navigare nell'aria nuova, sempre leggera ed elegante, la sciarpa di
seta mossa dal vento come una scia, gli angoli del soprabito sottile che accarezzano le gambe
affusolate. Ascolto i tacchi che percuotono le pietre della strada, chiudendo gli occhi, e ti
immagino veloce, persa nei tuoi pensieri, riflessi di rame e d'oro nei capelli.
Mi manchi tanto.
Ti penso nella tua solitaria colazione, rimescolare il caffellatte col viso appoggiato alla
mano, gli occhi color del cielo persi nel vuoto. Mentre forse di sfuggita pensi a me, che vengo a
galla da chiss quale ricordo, o nel suono di una canzone che entra indiscreta dalla finestra
aperta.
Mi manchi da far male.
Quando sono nell'alito del vento che prende il mare e i fiori, le foglie nuove e i lontani
sorrisi e li porta in strada a dissipare la tristezza, quando navigo a cavallo delle onde nella
promessa dell'estate, mi manchi ancora. E ti rivedo dormire, la guancia sul cuscino, con quel
tuo modo partecipe di sognare, corrugando la fronte. Ti guardavo per ore, e tu non l'hai mai
saputo; sperando di essere il cavaliere che ti rasserenava, scacciando ogni doloroso pensiero.
Mi manchi ogni attimo.
E di pi in primavera, quando sei felice come una bimba per i gioielli, la macchina scoperta
e gli abiti alla moda. Mi riscalda il pensiero che sia con me che hai trovato l'alimento per la tua
fame di bellezza, di lusso. Che sia per me che ora sei la meravigliosa creatura che sei
diventata.
Mi manchi, sai. un anno, ormai, che ti osservo in ogni momento. Da quando mi hai
avvelenato. un anno che ti aspetto, nella curva dove il destino ti attende. Non manca molto,
ormai. Qui sappiamo ogni cosa, giorno, ora. Mi manchi.
Mi manchi da morire.

Basta uno Sguardo

Amore mio,

non ti ho mai scritto; ci penso solo adesso. Alla fine dei conti e tutto considerato, non
strano; anzi, direi che piuttosto comprensibile. Eppure mi pare assurdo che io debba
raccontarti tutto per iscritto, e proprio oggi, da qui. Non servir a niente, lo so: ma scrivere
una lettera, ho letto da qualche parte, serve anche un po' a parlare con se stessi, a prendere
coscienza delle cose. A non mentirsi.
Il pensiero di te la cosa pi importante che io abbia mai avuto. I tuoi occhi adoranti, il tuo
sorriso, la tua dolce devozione. Avrei potuto avere tutte le donne che volevo, e tutte devote e
adoranti e sorridenti, proprio come te; eppure, tu sei stata diversa da tutte le altre, e sento la
necessit di scrivertene il motivo, che non ti ho mai detto.
Per spiegarti devo partire da lontano. Da molto lontano.

Sai di mia madre; di come mi abbia cresciuto da sola, senza un sorriso, come un compito
ricevuto dal padreterno, una croce da portare nel suo viaggio in terra. Una donna dura, mai
espansiva, taciturna. Vaga, evasiva quando cominciai a chiedere di mio padre; di volta in volta
un marinaio, un soldato, un artista straniero. Non ricordava nemmeno le bugie che mi diceva,
presa dal dover lavorare a testa bassa per mantenere la piccola casa in cui stavamo. Non
stata certo l'infanzia, la stagione pi bella della mia vita: non ricordo amici, se non un cane
bastardo che tenevo in un cortiletto l vicino e sul quale a volte sfogavo la rabbia che veniva
dalla solitudine, fino a quando mor.
Disegnavo, per. Fu chiaro presto quanto fossi bravo: un bambino triste e silenzioso, che
disegnava bene. A mia madre non piaceva che disegnassi, le sembrava una perdita di tempo,
una distrazione dalla questione principale che rimaneva il sopravvivere: ma forse le dava
anche soddisfazione, ascoltare i complimenti dei vicini del quartiere straccione dove
stavamo.
Venivano a farsi fare dei ritratti, portavano larghi fogli di carta spiegazzata, matite, penne
arrugginite e perfino pezzi di carbone; io tiravo fuori con due tratti gli aspetti pi evidenti dei
visi angolosi, dei nasi storti e degli occhi strabici, e tutti sorridevano e ci regalavano qualcosa,
dolci, cibo, stoviglie spaiate. Insomma, alla fin fine da adolescente mi pagavo i libri e quello
che serviva per andare a scuola.
Nelle altre materie non ero bravo; non che non studiassi, anche perch non avevo di meglio
da fare. Imparavo, conoscevo tutte le risposte, ma puntualmente alle interrogazioni andavo
malissimo. Il motivo era sempre lo stesso: la mia insicurezza.
Andavo alla cattedra trascinando i piedi, gli occhi bassi, le mani tremanti. Alle domande

rispondevo con un irritante mormorio, balbettando frasi sconclusionate che iniziavano e non
terminavano, rendendo evidente al professore l'incertezza con cui navigavo tra le nozioni
senza saper scegliere la risposta giusta. Quello che era uno stato d'animo veniva scambiato
puntualmente per superficialit, e me ne tornavo a posto con le orecchie rosse di vergogna e
un'altra insufficienza, tra le risate crudeli dei compagni.
Non sai, amore mio, quanto possano essere terribili gli adolescenti quando individuano
una preda. Venivo perseguitato per tutta la giornata, con ogni genere di scherzo: l'inchiostro
sulla sedia, sgambetti, accuse ai professori per qualsiasi marachella non avesse un colpevole
evidente. Non riuscivo a difendermi, lo sguardo a terra, le mani lungo i fianchi. La mia
struttura fisica fragile, la bassa statura facevano s che anche i pi deboli si rifacessero su di
me per le loro frustrazioni.
Dentro di me cresceva un odio cieco e furioso per il prossimo: fantasticavo di riuscire a
vendicarmi, immaginavo di diventare grande e muscoloso per poter picchiare tutti, o di
procurarmi un'arma per ammazzarli tra atroci tormenti. Sognavo ogni notte la mia rivalsa, un
giorno lontano e luminoso in cui avrei goduto dell'altrui sofferenza.
Avevano tutti qualcosa in comune, tranne me: ero escluso dai giochi come dai rituali, le
liturgie tipiche degli adolescenti. Crescevo da solo, nel silenzio e nell'odio.
Lo so che sembra assurdo, mio dolce amore. Io, proprio io, solo e disperato, chiuso nel buio
della mia stessa anima. Ma era cos, e cos stato per molti anni.
Trovavo conforto nel disegno. Pi di tutto mi piaceva disegnare paesaggi; forse perch la
gente mi faceva paura. Mia madre mi diceva che, perdita di tempo per perdita di tempo, tanto
valeva disegnare le facce della gente, che almeno potevamo ricavarci qualche regalino. Ma io
preferivo andarmene vicino al fiume, a disegnare l'acqua che scorreva tra gli alberi; o anche le
facciate dei palazzi dei ricchi, dietro le quali immaginavo una vita che non avrei mai potuto
vivere. M'incantavo a guardare i riflessi del sole sulle finestre, o il battere della pioggia sulla
strada lucida o sugli ombrelli che nascondevano cappelli e pellicce. Amavo dipingere perch,
immagino, potevo crearmi un mondo mio, nel quale essere padrone invece che servo. E dove
riuscire a governare gli eventi, senza dover subire la volont degli altri.
Se leggessi queste righe sopra la mia spalla, come tante volte hai fatto in passato,
sorrideresti scuotendo il capo; penseresti che sto inventando, che non posso essere io il
ragazzo di cui ti racconto. E invece no, amore: proprio la mia vita, che ti sto raccontando. La
prima parte oscura della mia vita.
Appena fui in grado di farlo, naturalmente me ne andai. Senza rimpianti. Aiutai mia madre
in seguito, come sai; ma non l'ho mai vista volentieri. Le dovevo gratitudine, non amore.
Per mantenermi, mi venne naturale pensare all'arte. Era l'unica cosa che sapevo fare,
d'altronde. Dipinsi qualche tela, l'avvolsi e andai un po' in giro.
I miei quadri piacevano anche; le volte che riuscivo a ottenere un minimo di attenzione,
qualcuno dei quartieri ricchi ne comprava, dandomi comunque molto meno di quanto
valessero in realt. Il problema, al solito, ero io, il venditore meno convincente che potesse
esistere. A volte il possibile cliente sembrava incerto che io fossi il vero autore, tanto era
evidente l'incapacit di mostrare i pregi dei paesaggi che volevo vendere; veniva da credere
che li avessi rubati, o che fossi un intermediario di un altro artista.
Insomma, le cose non andavano bene. Erano pi i giorni che non mangiavo di quelli in cui
riuscivo a mettere qualcosa sotto i denti. Avevo l'aspetto talmente patito da suscitare la
compassione di qualche donna che mi passava gli avanzi dei pasti, dando un colpo ulteriore

alla mia dignit gi ridotta ai minimi termini.


E poi, un giorno, successe qualcosa che mi ha cambiato la vita. E non solo a me.
Ricordo che pioveva a dirotto. Avevo girato tutta la giornata, col fagotto dei miei dipinti e
della mia disperazione sulle spalle, ero affamato, sfiduciato e fradicio di pioggia fino al
midollo. Tremavo di febbre, e senza nemmeno sapere dove fossi mi ritrovai al limite del mio
vecchio quartiere. Entrai in una taverna e mi lasciai cadere su una sedia Decisi di spendere i
miei ultimi soldi in un bicchiere di vino e un piatto di minestra, ma la mano mi tremava e non
riuscivo nemmeno a portare il bicchiere alla bocca. Cominciai a piangere, quasi senza
accorgermene; le lacrime si mischiavano alla pioggia sul mio volto, il futuro non mi era mai
sembrato cos oscuro.
L'unico altro cliente della taverna in quel giorno di tempesta era un vecchio, seduto a un
tavolo vicino al mio. Poteva avere anche cent'anni, la faccia devastata dalle rughe, le spalle
curve, le mani sul manico di un bastone che teneva davanti a s. Guardava dalla mia parte, me
ne accorsi solo dopo qualche minuto.
I suoi occhi erano notevoli: due frammenti di ghiaccio, fermi, senza et. Parevano caduti su
quella faccia da qualche altra parte. Ricordo che pensai che sarebbe stato interessante fargli
un ritratto: lo avrei dipinto in penombra, come lo vedevo in quel momento, dando risalto a
quella luce fredda che attraversava lo spazio e l'anima di chi lo guardava. Sembrava lo sguardo
di un animale da preda, acquattato nel buio in attesa di ghermire la sua vittima.
A un tratto cominci a parlare. Anche la voce sembrava inadatta a lui, come gli occhi: era
una voce ferma, senza esitazioni, una voce da giovane. Mi chiese perch volessi morire.
Non mi ero nemmeno reso conto di star pensando a porre fine alla mia vita; il suicidio era
diventato un compagno di viaggio, camminava al mio fianco durante le peregrinazioni inutili
dell'artista fallito che ero diventato. Pensai che fosse evidente dal mio stato, e risposi
bruscamente che non ci pensavo affatto, e che comunque si trattava di affari miei.
L'uomo sembr non avermi nemmeno sentito. Rispose che mentire a me stesso era solo
una parte del mio problema, e che il pi grave era il mio rapporto col prossimo. Non ero forse
stato fin da bambino un solitario, uno che veniva preso in giro e perseguitato da chiunque?
Non ero forse incapace di reagire, di difendermi?
Per un attimo pensai di star delirando per la febbre. Nella sala non c'era nessun altro, e la
pioggia batteva furiosa sui vetri. Come faceva quel vecchio che non avevo mai visto a scavare
cos profondamente nella mia vita, capendo di me ogni cosa con un semplice sguardo? Seguit
a parlare, rievocando episodi che avevo inutilmente cercato di dimenticare, umiliazioni
passate e mortificazioni presenti. Percorreva l'esistenza altrui come un sentiero di montagna,
fermandosi a guardare panorami e burroni e raccontandomi la mia stessa anima, come io non
avrei mai avuto il coraggio di fare. Sei giovane, mi disse. Molto giovane. E hai una forza, un
potere che nemmeno puoi immaginare.
Non sapevo di che cosa stesse parlando. Un potere? Ma se stavo per morire di fame e di
febbre, solo come un cane e con l'unica ricchezza di poche tele imbrattate che stavano
colando colore e pioggia sul pavimento?
Un potere immenso, credi a me, disse. Devi solo capire come usarlo. E come? Ammesso che
sia vero, perch non l'ho mai saputo, non me ne sono mai accorto? Non lo so perch, mi disse.
So che ce l'hai, e posso anche insegnarti a usarlo.
Mi raccont che era un segreto antico della sua razza, nascosto perch in un remoto
passato era stato usato proprio contro chi lo aveva scoperto. Una facolt che allo stato

embrionale c' in ogni uomo, ma che solo pochi posseggono in una quantit sufficiente a
essere usata; e ancora meno sono quelli che se ne rendono conto.
Aggiunse che stava per morire, che non aveva parenti e comunque aveva sentito in me una
forza che mai nella sua lunga vita aveva trovato. Che, pur di evitare che il segreto andasse
perduto, era disposto a condividerlo con me, a patto che non lo avrei usato se non per me
stesso e solo per me stesso. E per chi altro dovrei, vecchio? Sorrise, scoprendo le gengive
vuote. Il sorriso mi parve osceno e raccapricciante. Non hai idea delle tentazioni che avrai,
ragazzo Ma per fortuna ho letto in te che la vita ti ha insegnato a badare a te stesso, e forse
non ti metterai in testa strane idee. Ora ascoltami bene.
E me lo disse.
Sai, amore mio: oggi che mi trovo qui non riesco a valutare quel momento se non alla luce
di tutto quello che successo dopo. E tuttavia a ripensarci non saprei dirti se accaduto
davvero, o stato solo un sogno nel delirio della febbre. Sta di fatto che l'oste mi trov riverso
a terra, senza conoscenza, ed grazie alla sua carit se sono vivo, perch mi tenne su una
branda nel retro della trattoria per due settimane nelle quali riprendevo coscienza solo a
sprazzi e per pochi minuti. Quando ne ebbi la forza, chiesi del vecchio, ma lui mi disse che non
aveva visto nessuno e che nessuno c'era nel locale, quella sera, a parte me.
Non ne fui sorpreso: mi sembr naturale che un'immagine cos vaga e indistinta fosse
frutto della mia fantasia. Come le assurdit che credevo di aver sentito. Ricordai la voce ferma
nel rumore della pioggia. Prima di parlare, guarda gli occhi, aveva detto: anche solo per un
attimo. Troverai l'eco di una passione, il sentimento predominante. Lo vedrai chiaramente,
come se fosse scritto nelle pupille di chi ti sta di fronte a lettere fiammeggianti.
Aveva detto proprio cos: a lettere fiammeggianti. Ma chi parla, in questo modo? Era chiaro
che avevo sognato, che stavo delirando. Una volta che avrai visto l'emozione, saprai come
assecondarla. E come rivolgere a tuo vantaggio la convinzione del tuo interlocutore, come
plasmarne la volont facendogli credere che sia la sua.
Non era vero, naturalmente. Impossibile che fosse possibile. D'altra parte, era vero che io
avevo la maledetta abitudine di cominciare ogni conversazione con gli occhi bassi, cercando a
terra la forza di parlare per la mia insicurezza.
Attesi che la moglie dell'oste, una donna sciatta e scontrosa, venisse a portarmi gli avanzi
che mi davano da mangiare, e per una volta prima che mi parlasse la fissai negli occhi. Ancora
rabbrividisco: fu la prima volta in assoluto. Lessi chiaramente tutto il fastidio che provava per
il fatto di dovermi dare da mangiare, e l'odio per la sua vita e per il marito che la teneva
sottomessa e che la trattava da serva. Questa consapevolezza mi diede una forza nuova: le
dissi che comprendevo la sua sorte, che le ero grato per la cortesia e che a mio parere avrebbe
dovuto ribellarsi al marito, facendo valere la sua volont.
Il tono stesso della mia voce mi sorprese: era dolce, suadente, profondo. Come la musica di
un violoncello, triste e coinvolgente. La donna mi guardava a occhi spalancati. Avrei appreso
in seguito quanto fosse facile orientare la volont delle anime semplici, degli ignoranti. Da
quel momento e per i giorni in cui rimasi alla locanda riguadagnando le forze, la donna
divenne una mia serva devota; mi furono riservati i bocconi migliori, la biancheria pi
morbida e pulita, e dovevo letteralmente cacciarla dalla stanzetta sul retro per evitare che il
marito sospettasse qualcosa di inesistente.
Da allora sperimentai sempre di pi la mia nuova facolt. A volte razionalmente pensavo
che la disperazione mi avesse dato la forza che non avevo mai avuto, o che magari la febbre

altissima avesse in qualche modo alterato il mio cervello; dentro di me sapevo per che non
era vero: il vecchio, il fantomatico vecchio della notte di tempesta aveva risvegliato un potere
che non sapevo di avere.
Nessuno mi resisteva. Vendetti senza difficolt tutti i miei quadri, e a un prezzo
esorbitante. Poi decisi di non perdere tempo con un'attivit cos poco redditizia come la
vendita porta a porta, e allargai la mia vita sociale. Mi resi presto conto che manovrare la folla
era ancora pi semplice che un singolo soggetto: si verificava un effetto onda, come se
ognuno trasmettesse agli altri la mia volont. C'era fame, insoddisfazione, rabbia. Cavalcai
queste emozioni comuni, nate dalla guerra alla quale anch'io avevo partecipato badando solo
a restare vivo; fondai un mio partito: perch sottoporsi ad altri quando il consenso era una
merce cos facile da conquistare?
Mi circondai di pochi fedelissimi, in grado a loro volta ma solo col carisma personale di
guidare la massa. Volevo assicurarmi un ruolo, un posto di potere per accedere alle risorse
economiche che mi servivano. Non volevo altro. Solo il benessere, la liberazione da tutte le
angustie e le sofferenze di quella povert che conoscevo cos bene. D'altra parte il vecchio me
lo aveva fatto promettere, no? Soltanto per me stesso.
Ti incontrai in quel periodo, ricordi? Un giovane ambizioso e sicuro di s, padrone della sua
vita e del suo destino. Molte donne mi circondavano, e qualche volta concedevo loro di farmi
compagnia: ma perch avrei dovuto legarmi a qualcuna, se potevo averle tutte? Bastava uno
sguardo.
Tu no, amore mio. Tu eri diversa. I tuoi occhi non perdevano luce, quando li fissavo; non eri
una marionetta nelle mie mani. Io sentivo che il tuo sorriso era sincero, spontaneo,
dolcemente e profondamente innamorato. Mi dava una forza nuova, diversa da ogni altra
energia che avessi mai provato. Avrei voluto sposarti subito, ma tu mi dicesti di attendere, di
pensare a compiere prima il mio luminoso destino, che era quello del nostro popolo, della
nostra grande nazione.
Mi convinsi, mi convincesti. Mi diedi corpo e anima alla politica, al partito; divenni da
capopopolo politico, da politico parlamentare, da parlamentare capo di Stato. Le piazze si
riempirono, e fu necessario trovarne di pi grandi. Gli occhi devoti e luccicanti delle prime file
mi suggerivano quanto bastava a dire cose che coinvolgessero le masse immense che
intervenivano ai miei discorsi.
E tu, amore mio, sempre discretamente alle mie spalle. Ci vollero anni per costringerti a
venire un po' di pi alla luce, a farti vedere al mio fianco. Non volevi, preferivi startene in
disparte. Ma quando eravamo da soli mi ascoltavi per ore, e sorridevi quando provavo con te i
toni, le parole che avrei usato. Che sorriso, che avevi. E che meravigliosa sensazione, poter
godere del tuo sguardo intelligente: su di te il potere non agiva, non avevo facolt di
influenzarti. Il tuo era amore vero, spontaneo. Non sai che valore aveva per me.
Non ti ho parlato mai del vecchio e del suo dono. Il motivo? Non so. Forse mi piaceva che tu
pensassi che la devozione bovina delle folle fosse per il mio carisma, per il fascino che
esercitavo. Forse temevo che mi vedessi come un mostro, e fuggissi via da me. stato l'unico
segreto che ho mantenuto, con te. Non potevo perderti.
Conosci la piega che le cose hanno preso poi, mio tenero dolce amore. La sera discutevo
con te su cosa avrei detto, e l'indomani infiammavo la gente o i miei generali, incitandoli a
non dimenticare che il nostro grande popolo era destinato a comandare il mondo. E quando
mi facesti capire qual era il vero, principale nemico, non esitai a dare gli ordini opportuni,

affinch fosse debellato e distrutto, una volta per tutte.


Quando le cose cominciarono ad andare per il verso sbagliato, temetti per il tuo destino e
per la tua salvezza. Fu l'unico timore: alla fine ci credevo anch'io, in tutte le fantasie che avevo
urlato per anni da balconi e finestre o dentro microfoni. Non avevo paura, il ragazzo con le tele
era morto in quella trattoria, tanti anni prima. Ma tu, amore mio, tu dovevi essere salvata.
Ci siamo rifugiati qui, e due giorni fa ho voluto finalmente sposarti, mentre fuori, in
superficie, si sentivano tuonare i cannoni. Si trattava solo di aspettare: appena fossero
arrivati, mi sarebbe bastato uno sguardo e li avrei convinti a lasciarci andare. Non c'era
dubbio: anche i nemici sarebbero caduti nella rete del mio immenso potere. Ma poi, quella
notte dopo l'amore, ti sei addormentata. E nel sonno hai parlato.
Nominavi un uomo. Ricordavi il passato, pregavi qualcuno di non lasciarti, di non tornare
dalla moglie. Hai fatto un nome: Abraham. E io finalmente ho capito.
Ho capito, mia dolce Eva, che il potere non ce l'ho solo io. E che una donna, una povera
piccola donna in questi tempi terribili, per vendicarsi ha bisogno di un uomo, e maggiore sar
la potenza di quell'uomo maggiore sar la sua vendetta. Ho capito che la tua influenza su di
me stata assoluta, e che attraverso me hai spinto il nostro popolo nel baratro: che volevi
sterminare il tuo amante e la sua stirpe, e per questo mi hai ordinato di sterminare tutta la
sua gente.
Avremmo potuto fuggire facilmente, il mio potere e il tuo ancora pi grande. Avremmo
potuto ricostruire tutto, soggiogare l'America, la Cina e il resto del mondo. Ma eri un mostro,
amore mio. Un mostro.
Ho aspettato che ti svegliassi, la nostra prima notte di nozze nel bunker sottoterra, ancora
vivi e gi nella tomba. Ti ho portato il caff col cianuro che avevamo preparato con Goebbels e
gli altri fingendo che ci saremmo suicidati con loro.
Adesso sei qui, distesa sul nostro letto, come se dormissi. Questa lettera brucer coi nostri
corpi, quando avr finito con la vita. Li sento, stanno arrivando: non user il mio potere con
loro. Non voglio pi vivere senza di te.
L'ultimo dolore stato porgerti la tazza senza guardarti: mi avresti letto dentro, come
sempre. Lo hai sempre detto.
Basta uno sguardo.

Addio, amore mio.

Adolf

Berlino, 30 aprile 1945

Per Amore di Nami

Lo sai, non siamo in molti. Ce ne accorgiamo d'estate, quando saliamo pi su, sempre pi
su da non scorgere pi niente se non qualche rifugio, e l'erba che ancora resiste, verde in
mezzo alle rocce. Non siamo in molti.
Per la maggior parte vecchi, con storie di dubbi e problemi, o di padri e madri attaccati alla
montagna che hanno trasmesso col latte il bisogno della solitudine. Vecchi solitari e disperati,
che hanno scordato il senso delle parole e sanno solo stare cos, senza suono se non quello
della neve che preme alla porta. Io no. Io sono giovane, o almeno quando sono venuto qui lo
ero; ora la mia anima ha cent'anni, perch ogni minuto diventato lungo un'ora e non mi d
pace.
Sono arrivato qui vent'anni fa, e venticinque ne avevo; mi ero stancato della gente e del
mondo, non avevo desideri se non quello di starmene per conto mio. Ho costruito la mia casa,
un po' alla volta, senza fretta. Ricordo il primo inverno. Avevo preparato un nucleo, un unico
ambiente con una piccola latrina, attorno al focolare che doveva assicurarmi la
sopravvivenza. Non c'eri ancora tu e non c'erano le altre, allora. E nemmeno la stalla, il fienile
e l'officina, venute dopo, una per estate, sul terreno che ho comprato per due soldi con
l'eredit dei due vecchi estranei di cui ero stato figlio, nella vita precedente. Questo era prima.
Prima che la montagna diventasse di moda, e cominciassero ad arrivare quei pidocchi che
chiamano turisti.
Noi siamo lontani, vero, hai ragione. Non ci sono le maledette piste, qui vicino, e
nemmeno quei mostri di funivie e seggiovie che deturpano le salite, fino in cima seduti caldi
con coperte sulle gambe, per dare l'illusione a vecchi flaccidi di conoscere l'aria dei monti; e la
nostra terra non nemmeno fatta di sentieri tortuosi per evitare le salite, come se si volesse
cancellare la natura stessa della montagna, riducendola a una comoda passeggiata. Lo scelsi
apposta, questo luogo, esposto a nord e di rocce impervie, non addomesticabili proprio come
il sottoscritto. un posto per quelli come me, come noi. Non ci piace, stare comodi.
La strada lontana e sterrata. Non arriva il rumore dei motori, nemmeno quando il vento
tagliente trascina gli odori della valle, della putrida valle fatta di cibo sintetico e di petrolio.
Eppure, non so perch, quel maledetto pomeriggio mi ci trovai vicino. Non ricordo il
motivo per cui avevo percorso il sentiero, se per una inconfessata nostalgia dell'umanit o
per seppellire qualcosa, se per osservare una luce nuova del tramonto o semplicemente
perch i miei piedi avevano cercato nuove vie. E comunque nove volte su dieci la strada
deserta, sterrata e quasi dimenticata com', e inutile da quando hanno fatto una nuova
variante per arrivare al traforo. Anche in macchina vogliono stare comodi, i pidocchi.
Mi ritrovai vicino, ti dicevo. Lo sentii dalla puzza. Col tempo il naso si affina, e noi puzziamo
per loro e loro puzzano per noi. Prima ancora di girare l'angolo e uscire dagli alberi capii che

c'era qualcuno; avrei potuto andarmene senza rumore, e nulla sarebbe cambiato. Ma svoltai
quel maledetto angolo. Oggi non saprei dirtene il motivo: forse il coraggio, forse la paura. La
curiosit di vedere chi si fosse avventurato sin quass, e perch non ci fosse rumore, forse. O
forse voglia di assicurarmi che fosse transitorio, che non ci fosse il rischio di trovarmi davanti
un tir pieno di tronchi, che venisse a gettare le basi per un altro orrendo albergo che mi
costringesse a partire per andare altrove.
E invece dietro l'angolo c'era una macchina ferma, un cofano alzato e Nami seduta alla
guida con le mani sulla faccia.
Non sapevo chi fosse, naturalmente. E mi muovevo in silenzio, al solito, quindi non mi sent
arrivare. Ma non si spavent come avrei pensato, di fronte alla barba lunga e ai vestiti di lana
grezza, al bastone e ai vecchi stivali legati con lo spago fino al polpaccio. Mi guard, gli occhi
neri grandi, e sorrise. Salve, disse. Grazie a Dio c' qualcuno.
Lo spaventato fui io, di fronte a quei meravigliosi capelli neri e a quei denti bianchi, e al
suono di quella voce d'angelo. Lo spaventato fui io.
Mi disse che aveva sbagliato strada, e poi ancora, una serie di bivi e di incroci sconosciuti
in cui aveva scelto discese che poi erano diventate salite. Che non sapeva dove si trovasse, che
da poco stava al paese gi a valle, che si era trasferita dalla citt e non voleva disturbare. Che il
cellulare, qualsiasi cosa fosse, non funzionava e che non sapeva come fare a tornarsene a casa.
Nella mia vita precedente lavoravo ai motori; misi a posto il suo in un attimo, e le spiegai
come fare a tornarsene da dove era venuta. Mi ringrazi, dolcemente. Io non riuscivo a
guardarla, il cuore mi batteva in gola. Per strano che fosse io, grande e grosso, irsuto e sporco,
ero quello terrorizzato; e lei, raffinata ed elegante, profumata e sorridente, era a suo agio
come se fosse nata l, sulla strada di montagna che non finiva, in mezzo alle pietre e ad alberi
vecchi di secoli.
Mi chiese il nome, e glielo dissi. Io Nami, mi rispose. Che nome ? Un vezzeggiativo, una
storpiatura del suo nome; cos la chiamava un vecchio amico che un po' mi somigliava, mi
disse. E cos avrebbe voluto che io la ricordassi: Nami. Prima di partire per una salita che
sarebbe diventata la discesa giusta dopo qualche chilometro, mi disse: torner a trovarti.
Marted, allo stesso posto. Poi, ridendo, mi disse che marted era dopo due giorni, e fece bene
a dirmelo perch non sapevo minimamente che giorno fosse.
Non avrei voluto andarci, e invece naturalmente ci andai. Tu mi avresti detto di evitare, e
avresti avuto ragione. Ma ci andai. Quella volta e altre ancora, a parlare con Nami.
Restavamo l, seduti sul ciglio della strada, su un vecchio tronco. Mi raccontava di una vita
di silenzio in mezzo al chiasso, di un marito insulso e pragmatico, di un figlio che somigliava
al padre ogni giorno di pi; della ricerca di vecchi sentimenti morti, che aveva portato al
trasferimento nel paese della valle. Figurarsi: gente di citt, addirittura; e io trovavo
insopportabili anche quelli di montagna.
Di me le dissi poco, perch poco c'era da dire: della stanchezza di ascoltare voci e parole
inutili, dell'odio per la corsa incontro al nulla, di genitori morti con cui niente avevo avuto a
che fare. E molto le dissi della montagna, dell'odore del vento tra gli alberi, dei sapori ingenui
e degli animali forti, dell'incontro con me stesso ogni giorno nel bosco; del primo raggio di
sole sulla neve, delle bufere che cambiavano tutto e che tutto restituivano in primavera.
Mi stava ad ascoltare con la bocca aperta e gli occhi brillanti, le mani giunte sotto il mento,
come se vedesse attraverso le mie parole l'avvicendarsi del tempo e delle stagioni, i fiori e i
funghi, la caccia e le paure della mia vita. Finch.

Finch un giorno fece freddo, per il vento nuovo del nord che aveva deciso di farci visita. E
Nami batteva i denti, avvolta in un cappotto di plastica bianco, piume d'oca, come se ci
fossero oche a quell'altezza. E allora fui io a dirle dai, mettiamoci nella tua macchina. Glielo
dissi con difficolt perch al chiuso mi manca l'aria: ma avevo pena per lei, e anche questa era
una cosa nuova, che non riconoscevo nella mia anima.
In macchina si avvicin, per il freddo che sentiva. E io la strinsi, non per il freddo che avevo
sentito.
Fare l'amore con Nami era selvaggio e gentile. Tutti e due ci aggrappavamo come a una
zattera, per non morire; io combattevo la solitudine che amavo, lei forse la solitudine alla
quale era condannata. Da allora ogni volta sembrava la prima e l'ultima, il bisogno e la paura,
la consapevolezza della fuga o della vacanza che era. Dur due anni, con la sola pausa degli
inverni, che ci isolavano nel reciproco ricordo. Non so dirti, oggi, se avrei saputo farne a
meno, dire basta. Non so se ne avrei mai avuta la forza.
E infatti fu lei, a dire basta. Non sempre cos?
Forse si stanc, forse le venne a noia l'eremita montanaro e le differenze con tutti quelli
che conosceva. Cos pensai. O forse il marito si accorse di qualcosa, e lei non ebbe il coraggio
di scegliere. E che scelta avrebbe dovuto fare? Condividere la mia solitudine, entrare nei miei
silenzi? Io stesso non l'avrei voluta tra i piedi, nelle giornate della neve alla porta, quando non
sopporto la mia stessa presenza.
E non avrei mai potuto fare ritorno a questa che chiamano civilt, in mezzo alla plastica e
alla gomma, nel rumore perenne e nei sorrisi pieni d'odio.
Tornai per alla strada cento volte, nei mesi che vennero dopo. E per due, tre anni. Pensavo
sempre che Nami sarebbe tornata, anche solo per dirmi addio. Che quello che c'era stato non
poteva finire nel silenzio di un ultimo appuntamento non rispettato. Non poteva essere tutto
cos banale.
Al quarto anniversario decisi che sarei sceso io. Mille volte avevo pensato alla strada che
avrei fatto, come avrei percorso vie ignote che mi avrebbero mantenuto invisibile e nascosto,
come sempre. Se rispetti la natura, la natura ti copre come il migliore dei complici.
Scesi a valle; trovai la sua casa e mi accampai nei dintorni, sottovento, dove nessuno
poteva vedermi, dove nessun cane avrebbe sentito il mio odore nell'aria. E comunque col
tempo il mio odore era diventato quello dei boschi. La natura il migliore dei complici.
Vidi Nami; un po' appesantita, ma bella come sempre. Ne vedevo il passo, da lontano, e
leggevo i suoi pensieri e i suoi silenzi. Vidi il suo uomo, diverso da me come il giorno dalla
notte; il grosso fuoristrada, i sacchi della spesa. Vidi il Natale, e le luci colorate attraverso le
finestre. Vidi il ragazzino, che correva allegro nella neve, la luce azzurra della televisione la
sera. Vidi che non c'erano molte case vicine, e imparai gli orari e i movimenti di quei pochi
che abitavano nei dintorni.
E vidi qualcos'altro.
Vidi il motivo per cui Nami non era pi venuta, il motivo per cui se n'era andata dopo aver
contaminato per sempre la solitudine che era stata la mia conquista.
Vidi il motivo tra le braccia di Nami, nel suo sguardo malinconico una mattina che senza
saperlo mi guardava, mentre guardava il bosco attorno alla sua casa. Capii che era per quel
motivo che Nami si era condannata e aveva condannato me, forse convincendosi che io e lei
insieme non eravamo mai esistiti.
Decisi, e non ebbi mai dubbi.

Aspettai il momento, con calma. Il marito usc per andare a lavorare, baciandola sulla soglia
e salendo in macchina. Attesi che il rumore dell'auto scomparisse come la nebbia del mattino.
Contai i minuti, finch sentii il tossire dell'autobus della scuola, che veniva a prendere il
ragazzo. Vidi Nami accompagnarlo per mano, le spalle curve, un cappotto sul pigiama, sciatta,
trascinando i piedi. La mia Nami, senza vita.
Entrai in casa e feci quello che dovevo fare. Cancellai il motivo delle nostre solitudini. E me
ne tornai a casa, qui sulla montagna.
E adesso?
Adesso aspetto. Scendo ogni marted sulla strada, e aspetto di sentire il rumore di un
motore sulla salita. Perch so che Nami torner. Quando si sar purificata, quando la
lasceranno tornare. Quando capir l'errore che ha fatto, a non condividere con me quello che
con me aveva creato.
Torner. questione di tempo; e io ho tutto il tempo del mondo. In fondo ho imparato la
voce del tempo, e il suo silenzio. Passo il tempo a chiacchierare con le capre, come te; fedeli
amiche silenziose, dalle quali non aspetto risposte.
Le mie risposte verranno da laggi.
Dalla valle di Cogne.

Storia di Maria

Tra le clandestine circola una storiella. In una strada di Kyev una bella ragazza aspetta
l'autobus. Si accosta una fiammante macchina sportiva con alla guida un giovane elegantissimo.

Tania in Italia da dieci anni, dopo tre ha ottenuto il permesso di soggiorno. una
cameriera bravissima e ormai una professionista affermata: lavora a ore ed popolare tra le
signore della Napoli bene, che se la contendono a colpi di decine d'euro. popolare anche tra
le nuove arrivate, che colloca a piene mani senza pretendere percentuali.
Le ho chiesto di raccontarmi una storia di degrado, di difficolt e di sofferenza. Mi ha dato
appuntamento di pomeriggio, in macchina. E mi ha dato un indirizzo.

Il giovanotto elegantissimo offre un passaggio alla ragazza che, ammirata da tanta opulenza,
accetta. L'uomo propone alla giovane di andare a pranzo, nel ristorante pi lussuoso della citt.
La ragazza, dopo essersi fatta un po' pregare, dice di s.

Incontro Nadia a casa sua, in un paese dell'agro aversano. Sono sorpreso: un
appartamento pi che dignitoso, due camere con bagno e cucina, un televisore, centrini sui
mobili. Pulitissimo. Guardo Tania: dov' il degrado? Lei risponde con un cenno alla domanda
di Nadia, vocali chiuse e consonanti gutturali. Pu raccontare. La voce profonda, matura.
Contrasta con l'aspetto, una ragazza esile e bionda, giovane, vestita di nero, capelli raccolti in
una coda, niente trucco. Sarebbe molto bella, Nadia, se non fosse per gli occhi, tristi e vecchi.
Ci offre un caff, fuori dei bambini giocano a pallone. Nadia comincia a raccontare.

Dopo il pranzo, il giovanotto propone alla ragazza di fare un giro. Si ferma in una gioielleria,
regala alla donna un bell'orologio. Lei sempre pi affascinata da tanta ricchezza.

Maria, mia sorella, arrivata in Italia cinque anni fa, dice Nadia. Aveva ventiquattro anni,
due figli e un marito di cui era innamorata. Noi siamo moldave, ma inutile cercare di
spiegare dov' il nostro paese, tanto qua siamo tutte russe come se trent'anni non fossero
passati. Insomma, il marito di Maria non trovava lavoro e aveva cominciato a bere. cos, da
noi. Il liquore costa poco, si fa in casa, nelle cantine.
La fame, la povert, il bambino pi piccolo con una brutta tosse che non passava mai. Maria
si ricord di una cugina che era in Italia da qualche anno, e che la famiglia di lei aveva
comprato una casa e poi un'altra, da affittare. Prese contatto con lei e sal sul piccolo pullman,
quello che parte ogni settimana. Sono i nostri gommoni, vanno avanti e indietro, non si
fermano mai. Solo che all'arrivo la cugina non c'era, e Maria si ritrov sola, senza soldi e senza

parlare una parola di italiano.



Chiacchiera chiacchiera, si fa sera e naturalmente il giovanotto elegante porta la ragazza in
albergo. Lei ormai innamorata cotta e gi immagina un futuro di ricchezze e agi.

Maria non trova la cugina, ma trova un tizio guarda caso moldavo proprio dove arriva il
pullman. Comincia a chiacchierare, e quello le dice che c' una famiglia ricca che cerca una
cameriera giorno e notte; la porta da loro e incassa la met dello stipendio per i primi sei
mesi. Maria contenta comunque, perch ha trovato un tetto, del cibo e pu gi cominciare a
mandare a casa duecento euro al mese, una fortuna. La famiglia costituita solo da una
coppia, un signore e una signora non giovanissimi senza figli, molto gentili e affettuosi con lei.
Maria sa lavorare, forte e impara in fretta.
Dopo alcuni mesi, per, l'uomo comincia a guardarla con occhi diversi. Ogni volta che si
trova solo con lei le parla all'orecchio, le accarezza la spalla. Maria prima ci scherza su, poi
comincia ad avere paura. La moglie non si accorge di niente, anzi sempre meno presente. Il
marito si fa pressante, ansima, allunga le mani. Maria ha sempre pi difficolt a sottrarsi a
quelle mani.

Naturalmente prendono la suite; il giovanotto elegante fa arrivare una bottiglia di
champagne e dodici rose rosse.

Maria lo minaccia di parlare alla moglie. Lui, per tutta risposta, le dice che se gli resiste
ancora la denuncia e la fa rimpatriare subito, con un calcio nel sedere. Maria disperata: la
sua famiglia a casa ha finalmente trovato gli agi sognati, il bambino non ha pi la tosse e,
andando avanti cos, entro due anni riuscir a comprare la casa. Non pu perdere tutto
questo, e allora cede.
Dopo tre mesi, scopre di essere incinta.

I due fanno l'amore per tutta la notte, tra lenzuola di seta e musica classica. La ragazza pensa
alla macchina posteggiata sotto l'albergo e d il meglio di s.

Maria non conosce nessuno, non pu chiedere aiuto ad altri. Crede che l'uomo per primo
non abbia interesse a che il bambino nasca. Pensa che provveder lui, un ricco e apprezzato
medico dei quartieri alti. E lui invece dice di no, che il bambino lo vuole. Maria sorpresa, non
sa che cosa pensare; chiede all'uomo che cosa succeder a lei, che ha una famiglia e non
intende averne un'altra. Lui ride, le dice che anche lui ha una famiglia e che appunto per
questo ha cercato e trovato un modo per avere un figlio che altrimenti non arrivava. Che lui e
la moglie le hanno tentate tutte, e poi hanno deciso cos.
Maria non capisce, non pu credere a una cosa cos atroce. Ma non pu fare niente, non ha
dove andare nelle sue condizioni. Pu solo continuare cos e aspettare. I due la curano, non la
fanno lavorare, sorvegliano che non parli con nessuno del suo stato. Le danno ancora pi soldi
da mandare a casa, il marito e i figli sono al settimo cielo.

Al mattino la ragazza, felice e innamorata, trova finalmente il coraggio di chiedere al
giovanotto elegante che lavoro faccia, da dove prenda tutta quell'opulenza. forse un

industriale? Un petroliere?

Il bambino nasce, sano e forte. La coppia dice a Maria che, terminato l'allattamento,
ricever in un'unica soluzione lo stipendio di due anni. la somma che lei aveva in mente di
guadagnare prima di tornarsene a casa, e molto in anticipo; ma adesso che lo tiene in braccio,
con i grandi occhi neri cos diversi dai suoi e da quelli dei figli in Moldavia, Maria non sa se
riuscir a voltare le spalle a suo figlio. Figli dell'amore, figli della violenza, figli dell'inganno.
Figli.
Le danno delle medicine, dei ricostituenti. Le dicono che le analisi del sangue mostrano
una brutta anemia. Lei ha fiducia, l'uomo un dottore importante. Prende le medicine, ma
non migliora. Anzi, si aggrava sempre di pi, finch entra in coma. Il dottore e la moglie
mandano a chiamare il marito, gli pagano anche il viaggio. L'uomo arriva in aereo, contento
che la moglie sia assistita da un medico cos importante. Maria non si riprende mai pi e
muore, un anno e due mesi dopo il suo viaggio disperato in pullman.
Il dottore e la moglie sono generosissimi, danno al marito di Maria due anni di stipendio in
una sola volta; in fondo, Maria stata la prima balia di loro figlio, e la ricorderanno sempre
con amore. L'uomo torna a casa con Maria in una cassa, e con i soldi compra due case: una
l'affitta, nell'altra va ad abitare con i due figli. Adesso ha anche una nuova moglie, si chiama
Ludmilla.

Nel silenzio che segue, le urla dei bambini che giocano a pallone sembrano strida di
gabbiani. Nadia si alza e prende dalla credenza una fotografia; si vede una donna bionda che le
somiglia moltissimo, con un bambino dagli occhi neri in braccio. Guardo Tania, che sorride
come una Monna Lisa dell'est; ha ragione, questo l'orrore.

Il giovanotto elegante sorride e risponde: niente di tutto questo. Ho solo una moglie che fa la
cameriera in Italia.

Il Bicchiere della Staffa

Prendo la bottiglia, per sentirne la temperatura. Certo, ci sarebbe voluto un bel decanter,
per farlo respirare, per poterne osservare prima il colore e per mischiargli l'aria esterna, su
una superficie ampia: due dita di felicit nella trasparenza del vetro. Ma tant', bisogna pure
accontentarsi.
Verso, piano; nel silenzio della stanza chiudo gli occhi per ascoltare meglio mentre scorre
nel calice. Ho sempre pensato a quanto sia inadeguato definire un liquido il vino rosso. un
fluido, in realt: un flusso, un ponte tra due stati d'animo, la via per una momentanea
beatitudine.
Ho amato due cose, nella mia vita. Il vino rosso e mia moglie. Non l'alcol e le donne, no: il
vino rosso e mia moglie. Tutto stato funzionale a possedere questi due soli piaceri. Alla luce
dei fatti, sembrerebbe per che il vino sia arrivato per primo. O forse per ultimo.
Tengo il calice sospeso, aspettando che il calore della mano si trasferisca all'interno: qua
dentro la temperatura, ancorch controllata, un po' inferiore a quella giusta. Secondo me
anche il bianco solo una bevanda, niente di pi. Non lo chiamerei nemmeno vino: non
dissacrerei una parola come questa, per qualcosa che va bevuta fredda. Che orrore.
Il vino e mia moglie, dicevo. Mia moglie. L'ho conosciuta che ero gi vecchio, e gi pieno di
soldi. Io sono un genio, a proposito: non ve l'avevo detto? Un maledetto genio. Mi sempre
risultato facile usare la gente, servirmi dei loro pensieri, delle loro voglie. Il cinema, la
televisione; e poi giornali, libri, fiere. La mia azienda cresciuta, l'ho venduta e ne ho creata
un'altra pi grande e un'altra ancora. Nel frattempo nuove bottiglie nella mia cantina, e altre
antiche, gusti di altri lustri e decenni, e soli e ombre e nuvole cariche di pioggia di altri tempi
che arricchivano uve, che poi arrivavano a deliziare la mia bocca.
Conobbi mia moglie che ero stanco di tutto tranne che del vino. Bella, allegra, ironica e
intelligente. Giovane, s; e perch non avrebbe dovuto esserlo? Perch non avrebbe dovuto
piacermi? Nella penombra ruoto controluce il calice, per trovare la venatura color del sangue
con la ben nota promessa di felicit. Quanto era bella. Solo una segretaria, all'inizio, e poi le
sue idee, la sua effervescenza che piano piano riempivano le mie giornate vuote, un intervallo
tra due bicchieri. E ritrovai la voglia di vivere, una voglia che forse non avevo avuto nemmeno
negli anni ruggenti dell'inizio della mia scalata al potere e alla ricchezza.
Le chiesi di sposarmi davanti a un Beaujolais; suonavano musica ungherese, con
discrezione, nel ristorante sospeso sulle luci di Parigi. Forse ci fu un lampo di trionfo nel suo
sguardo, quando sorridendo mi disse di s e infil il diamante da tre carati; o forse no. Non
giusto lasciare che il pensiero dei successivi eventi inquini il ricordo dei momenti belli che ci
furono, perch ci furono: ritrovai giovinezza e forza, furono chilometri in aerei e miglia in
panfili, e camerieri guantati che non la-sciavano mai vuoti i nostri calici. Furono toscani, sobri

piemontesi e francesi spumeggianti, esotici cileni e raffinati portoghesi, fiumi di nettare


rosso a circondare, sottolineare, esaltare la nostra felicit. Chi di voi sa cosa vuol dire avere la
vita veramente piena? Se c' qualcuno sorrida ascoltandomi, perch capisce di che cosa sto
parlando.
Non so se aveva in mente fin dall'inizio quello che poi ha fatto. Mi piace pensare di no, che
la sicurezza, la forza e l'esperienza di un uomo come me fosse quello di cui avesse bisogno.
Non mi sono mai illuso di piacerle, naturalmente; non sono uno stupido. Ma un uomo pu
affascinare anche con la personalit, con il potere: e quelle, signori, sono le mie specialit.
Presi i giorni felici, cercai di assaporarli piano per farli durare di pi, come con questo sorso
di paradiso che passo da una guancia all'altra in questo momento, facendo poi schioccare la
lingua sul palato. E come questo sorso, ormai inutile nel mio stomaco malato, quei giorni
passarono lasciando un vago, struggente rimpianto.
Cominci a tradirmi. Io lo sapevo, ma fingevo di non accorgermene. Lavoravo e mi illudevo
che, riempiendo il corpo di quel vile bisogno, lasciasse a me lo spazio dell'anima, della sua
mente allegra e brillante. Diventai se possibile ancora pi sollecito, tenero, affettuoso. La
colmai di attenzioni e regali, cercando di trattenerla al mio fianco, di impedirle di volare via.
Rimase. Fisicamente, rimase: ma dentro, dentro, capite, la sentivo sempre pi lontana. Lo
sguardo perduto nel vuoto, dietro chiss quali ricordi o sogni. Cominciai a odiare il suo
silenzio, una croce sottile e pesantissima che da sotto la sua pelle arrivava sulle mie spalle e le
piegava d'infelicit.
Cercai nel vecchio amico fedele conforto, e lo trovai solo per un attimo, un'ora e niente pi.
Ne ho troppo rispetto per ubriacarmi. L'ebbrezza quantit, il gusto del nettare rosso pura
qualit: non troverete mai ubriaco un vero amante del vino. La mia lucidit divenne un
inferno, man mano che mi rendevo conto di essere diventato per la donna che amavo una
prigione. Sapevo che aveva cominciato a desiderare la mia morte, pur di liberarsi per sempre.
Allora feci una cosa che non avrei mai sospettato essere capace di fare: le presentai un uomo.
Lavorava con me, giovane, bello, discreto. Un inetto, in realt, ma pensavo di fornirle
un'occasione di transitoria felicit. Un modo di sorridere ancora, di trovare la forza di
restarmi vicino nelle altre ore del giorno, se non della notte.
Funzion, da principio; torn allegra e vitale, riprese a starmi al fianco la sera in poltrona,
coi piedi nudi sotto il corpo, il calice tenuto con due mani e lo sguardo di gatta soddisfatta
dietro l'orlo. Mi chiedeva delle migliori bottiglie della mia cantina, tra le pi famose del
mondo. Ascoltava i miei racconti nel crepitio delle fiamme del camino, come una volta, e come
una volta mi sorrideva felice. Ma stavolta si sarebbe innamorata.
Sentii l'odio crescerle dentro, non mi perdonava di esistere e di volerle testardamente
stare vicino. Sapeva che non l'avrei mai lasciata andare e cerc di esasperarmi,
mortificandomi in pubblico con la sua indifferenza, non perdendo occasione di insultarmi o
deridermi. Ma io l'amavo sempre e non potevo pensare di viverle lontano: ero troppo vecchio
e egoista per rinunciare a lei. Le tent tutte, e non ci riusc.
Finch ieri, tornando a casa, li ho trovati qui. Tutti e due. Forse volevano parlarmi, forse
intendevano cercare un accordo: forse, alla fine, avrebbero trovato le parole giuste perch li
liberassi, rassegnandomi alla solitudine, una buona volta. Ma non li sentii; guardavo solo la
bottiglia aperta sul tavolino, davanti a loro, i due bicchieri sporchi, il turacciolo e il cavatappi:
il mio Chteau Lafite del 1787, comprato a un'asta in Germania.
Non fu per i centosessantamila dollari che avevo speso, n per il fatto che non avrei mai pi

potuto trovarne un'altra. Fu per il fatto di non aver mostrato alcun rispetto per quel fluido del
cielo, quel prelibato sangue della terra. Duecentoquarant'anni di attesa, morti anche i
pronipoti di quelli che lo avevano creato nella magia di un autunno francese, per arrivare nelle
mani avide e inconsapevoli di due ottusi ragazzotti ignoranti.
Aspetto la polizia, non tarder ancora molto. La notte finita, quasi l'alba; l'ultimo
bicchiere per brindare sui corpi del mio amore e del suo uomo, e sul loro sangue.
Rosso come questo vino meraviglioso.

Quando Guarisco

Dalla mia finestra li vedo giocare. Si riuniscono in piazza, ogni pomeriggio verso le quattro,
si dividono in due squadre e giocano. Un paio sono bravi, hanno pi o meno la mia et. A occhi
aperti sogno di scendere e di mettermi a osservare da vicino, cos, in pigiama e a piedi nudi;
magari mi arriva un pallone sbagliato, e io palleggio un po', tutti mi guardano a occhi
spalancati e mi dicono gioca pure tu, mettiti all'ala. Ero bravo, mi ricordo. Ma pi di un anno
che non gioco pi.
Sono stato fortunato a capitare in questo letto, vicino alla finestra. Loro giocano e io posso
almeno vedere. L'altro letto invece non ha finestre vicino. E d'altra parte il bambino che lo
occupa non potrebbe nemmeno guardare perch dorme sempre. Secondo me tra non molto
muore. Speriamo che viene uno simpatico, almeno chiacchieriamo un po'.
Naturalmente lo so che non posso scendere a giocare. Gli sembrerei strano, cos pallido e
senza capelli e peli; e nemmeno mi reggo in piedi, e ogni tanto vomito. Mi ricordo la faccia di
mio cugino, quando mi venuto a trovare: guardava il pavimento, il soffitto, le pareti ma non
me. E non pi tornato. Mia madre dice che quando guarisco i capelli ricrescono pi lunghi di
prima. Lei sta qua tutto il tempo. Mio padre invece viene solo nel fine settimana, perch
lavora. Lui porta il camion, un camion enorme.
Mi ha spiegato che va a prendere certi bidoni al nord, deve caricare di notte, roba che non
serve pi e si deve buttare, e la porta in un posto vicino al paese dove la sotterrano e nessuno
la pu trovare perch sopra ci piantano i cavolfiori e i pomodori. A me mi piacciono, i
cavolfiori con la pasta. Mi piacciono assai. Mi piacerebbe anche che pap stesse qui con me,
ma mi dice che per le mie cure servono molti soldi, e questo lavoro che fa quello che ci vuole
per guadagnare tanto. E allora io sto buono buono, e aspetto il fine settimana.
Mi ha detto pap che quando guarisco mi porta con lui, e forse mi fa guidare un poco il
camion. Lui manovra i pedali, perch ho le gambe corte e non ci arrivo, ma in braccio a lui
posso girare lo sterzo. Che bello sar. Devo solo aspettare.
Quando guarisco.

Ritornare Ogni Notte

Cambiando la flebo a Numero Tre, Carlo fischiettava.


Era uno dei pochi lussi che la sua posizione gli consentiva: niente parenti da rispettare,
niente pazienti sofferenti che ti guardavano storto, col loro dolore e tu che fischiettavi. In quel
reparto no. Potevi anche cantare la Traviata, nessuno se ne accorgeva se davi le spalle alla
vetrata dietro la quale a volte passavano, a passo spedito negli zoccoli di gomma verde,
medici e infermieri diretti verso le sale operatorie.
Reparto Rianimazione, c'era scritto sulla vetrata. Rianimazione un corno, pens Carlo. E chi
li rianima pi, a questi? Manco il Padreterno. Qualche volta passava qualcuno che si
riprendeva, certo; ma si capiva subito, una botta in testa, una breve permanenza quando non
c'era posto in Terapia Intensiva, uno stato di momentanea incoscienza dopo un'operazione
non andata perfettamente; ma questi no, pens Carlo. Questi tre sono lo zoccolo duro.
Un vecchio col cancro al cervello inoperabile; la figlia che passava una volta alla settimana,
il mercoled, con la faccia di circostanza e la fretta di andarsene a casa dal marito. Una donna
di mezza et, forse dell'est, con un aneurisma scoppiato e le vene varicose, dicevano che
l'avevano trovata senza documenti fuori all'ospedale, chiss chi l'aveva mollata l in quello
stato. Un giovanotto di belle speranze tutte finite con un colpo di pistola in testa sparato da
uno di un altro clan, aveva sentito che c'era il processo in corso ma che le prove erano
insufficienti. Per lui ogni tanto arrivava la madre, e tutte le volte si metteva a gridare e
sveniva. Tutte le volte. Adesso per erano un paio di mesi che non si faceva vedere, forse alla
fine l'aveva capito che era peggio vederlo cos, il figlio, in quelle condizioni, che non vederlo
affatto. E un paio di volte era venuta una ragazza piccola e bruna, che restava qualche minuto
di l dal vetro, senza una lacrima; ma anche lei da qualche tempo non si vedeva pi.
Lo zoccolo duro di Carlo: quelli che non sarebbero mai migliorati perch non c'erano pi
speranze. Per loro c'era solo da guardare il monitor e aspettare che la linea diventasse diritta,
e poi staccare tutto.
Carlo fischiettava. Non che avesse tutti 'sti motivi per essere contento, e infatti non lo era.
C'era stato un periodo in cui qualche speranza ce l'aveva avuta pure lui, dicevano fosse bravo,
il diploma di infermiere professionale preso col massimo dei voti, la capacit di intuire in
anticipo le necessit dei medici, un buon carattere; l'avevano messo in sala operatoria, a
dirigere la squadra degli infermieri a neurochirurgia, giovane com'era. Gli sembrava di essere
infallibile. E invece, come succede agli infallibili, aveva sbagliato.
Ricordava quel giorno, e il ricordo pesava come una montagna. Era distratto, aveva
discusso con Maria fino a tarda notte, aveva sonno e aveva bevuto; un foglietto al posto di un
altro, un gruppo sanguigno sbagliato e una trasfusione mortale. Il procedimento a suo carico
si era risolto bene, non l'avevano mandato via a calci; ma la carriera brillante se l'era dovuta

scordare.
Quindi anche lui era diventato come Numero Uno, Numero Due e Numero Tre: senza
speranza, chiuso in quello che chiamavano beffardi "l'acquario", ad aspettare una linea che
diventava diritta. Nel suo caso, la linea si chiamava pensione. Ma mancavano ancora
vent'anni. Meglio fischiettare, allora: il tempo magari passa pi in fretta.
Gli avevano detto che quello era un posto di responsabilit; che anche gli irreversibili,
come chiamavano i senza speranza, avevano diritto alla migliore delle assistenze; che
comunque si trattava di una condizione transitoria e che poi avrebbe ripreso il suo servizio.
Carlo sapeva bene che erano tutte fesserie: non sarebbe mai pi uscito da quel reparto, per il
semplice motivo che l non poteva fare danni. In fondo, Numero Uno, Numero Due e Numero
Tre erano gi morti. Si trattava di cambiare le flebo e guardare il monitor, e basta. Quando
arrivavano gli altri, i Transitori, allora mandavano qualcuno per loro finch non uscivano. Da
questo lui capiva che il suo destino era irreversibile quanto quello dello zoccolo duro.
Continuando a fischiettare e lanciando un rapido sguardo attorno, tir fuori dal cassetto
della scrivania una bottiglietta piatta e fece un sorso. B, e che c' di male?, pens. Un piccolo
aiuto per passare la giornata, nient'altro. Per essere un po' pi allegro in questo mortorio. Il
guardiano di tre pezzi di carne e tre monitor.
E per non ricordare.

Si vedevano alla fine di Coroglio, lui veniva da Cavalleggeri, lei da Bagnoli. Non perch fosse a
mezza strada, ma per il posto dove volevano andare. Quando si incontravano, la loro meta era
Nisida.
Gli amici di lui, l'avessero saputo, l'avrebbero messo in croce: una di un altro quartiere, anche
vicino ma sempre un altro quartiere, e poi nemmeno bellissima, piccola piccola com'era. E tutto
questo tempo perso con tutto quello che tenevano da fare. Ma lui guardava i suoi occhi e
rimaneva incantato ogni volta, due stelle nere senza fondo, ci trovava una forza calma,
tranquilla, senza violenza ma invincibile. Lei in lui credeva, aveva sempre creduto. Gli diceva che
le bastava, che tutta la strada che avevano da fare nella vita l'avrebbero fatta insieme.
Camminavano dicendosi poche parole, riservavano quello che avevano da dirsi per quando si
sarebbero trovati sul pontile. Le guardie facevano finta di non vedere, forse quei due ragazzi, uno
magro e alto, l'altra piccola e bruna, gli facevano un po' di tenerezza, gli ricordavano i figli o forse
se stessi tanti anni prima. E passavano e si trovavano sulla salita stretta, insieme ai gabbiani
grossi e pesanti e davanti al mare, il verde e tutti i profumi del mondo alle spalle. Il loro posto era
un muretto antico, poche pietre quadrate rimaste in piedi chiss da quanti secoli, che
guardavano una caletta e due scogli. Il Paradiso, lo chiamavano. Si sedevano a guardarsi negli
occhi, e ogni tanto il mare, col vento nei capelli.
Allora cominciavano a parlare, stringendosi tutte e due le mani. A raccontarsi il futuro e a
inventarsi il passato, senza le tante cose brutte e allargando le poche cose belle fino a quando
non riempivano i giorni e gli anni.
Io ti dar, diceva lui. Io ti dar la casa pi bella di Napoli, cos questo mare che tanto ti piace lo
vedi appena sveglia, e nemmeno un panno dovrai lavare, dieci cameriere ti dar.
Io ti dar, diceva lei. Io ti dar dei figli belli e forti, che rideranno tutto il giorno. E ti dar tanto
di quell'amore che non avrai il coraggio di uscire la mattina.
E passavano le ore veloci come minuti, a Nisida, mentre il mare sorrideva e i gabbiani

guardavano fissi il sole che scendeva sul mare. Come se non fosse mai successo.
Nisida. Nisida un posto magico. Dove c'era il nostro Paradiso.

Carlo sistem il lenzuolo a Numero Tre, il ragazzo con la pistola. Erano gi molti mesi che la
cicatrice dell'operazione alla testa era scomparsa, non c'erano pi medicazioni da fare. Solo
cambiargli posizione ogni tanto, per evitare le piaghe. Che spreco, pens l'infermiere. Cos
giovane, una vita davanti; forse una ragazza da amare, dei figli, un lavoro. E pensieri,
preoccupazioni, avversit. Ma anche soddisfazioni, piaceri, calore; pranzi di Natale, una
partita a pallone con gli amici, una pizza, aprire un pacchetto.
Sospir, scuotendo la testa. Che offesa dovevi lavare, guaglio', andando con la pistola in
quell'altro quartiere; che ti avevano fatto? Era cos importante, rimanere qua in un letto per
tutti i giorni che ti restano? E buttarlo via, il tuo destino? Era proprio diventato un vecchio
triste, pens mentre dava un altro furtivo bacio alla bottiglia. Un vecchio triste e ubriacone.
Trascinando i piedi si avvicin alla Numero Due; anche quella flebo stava per finire

Dio, quant' lontana casa mia. Non me la ricordo quasi pi.
E non mi ricordo la faccia di mio figlio, che rimasto l e che magari nemmeno si ricorda della
mia, di faccia. Che madre , una che nemmeno si ricorda la faccia del figlio? Una madre che
partita per dargli da mangiare, per farlo studiare. Ammesso che il padre non si sia bevuto tutti i
soldi che ho mandato, pulendo i cessi dei locali del porto con le ginocchia nel piscio degli ubriachi,
lavando scale infinite, mendicando piet nelle stazioni della metropolitana. E quando era
possibile anche vendendomi, ma ero troppo triste per fare la puttana; chi la vuole, una puttana
che piange?
E in mezzo alle lacrime e al piscio, ogni mese mettevo i soldi in una busta e li affidavo al bus che
partiva dalla stazione. E telefonavo al posto pubblico del mio paese, immerso nella neve, per
sapere se erano arrivati, e mia sorella mi diceva s, lo capisco da tuo marito che offre da bere a
tutti.
Ho lavorato fino a impazzire, fino a crepare. E quando non trovavo lavoro me ne andavo
lontano, pi lontano possibile, un pezzo di pane e la rabbia e le lacrime. Un solo posto avevo
trovato, dove per le lacrime e la rabbia non c'era posto: la piccola isola, la stretta salita, il
muretto vecchissimo e gli scogli. Sola, finalmente; io e i gabbiani, per dimenticare le lacrime e la
rabbia, e i pensieri che mi divoravano la testa, i pensieri di una vita sbagliata. La piccola isola mi
aveva chiamata, quando la prima volta l'avevo vista dall'alto, dal palazzo con le lunghe scale che
pulivo ogni tanto. E io c'ero andata, percorrendo una lunga discesa lenta, passo dopo passo fino
a trovare un antico muretto su cui ci si poteva sedere, in mezzo ai gabbiani.
E guardando il mare amico di un paese nemico, vedevo la faccia del mio bambino, e mi pareva
che mi sorridesse. E io sorridevo e piangevo senza lacrime, perch la piccola isola e il muretto
antico questo mi regalavano, il sorriso dolce del mio bambino. Per una madre che ha dimenticato
la faccia del figlio, questo il Paradiso. E ci tornavo e ci tornavo, e mi pareva che l la testa non
mi facesse pi male, non mi pulsasse.
Dio, quanto male sapeva farmi, la testa. Forse era il pensiero di mio figlio, che sentivo pulsare
sempre pi forte.
Fino a scoppiare.

Carlo guardava in faccia Numero Due. Pensava che forse da giovane era stata anche bella,
prima che le rughe scavassero nel viso fiumi di preoccupazioni e di sofferenze.
Doveva aver molto pianto, gli pareva di vedere il dolore nei tratti, e sorriso poco. Che
destino infame, una vena che ti scoppia nella testa cos lontano da casa tua. Chiss chi sei, se
nel tuo paese hai qualcuno che ti aspetta, che ti piange; chiss che fine hanno fatto i tuoi
ricordi. Se hai trovato un posto qui, nel nostro paese, che ti ha dato un po' di pace. Prima di
questo letto e di quest'ago nelle vene.
Si chiese una volta di pi se valesse la pena di tenerli cos, se non fosse meglio staccarla,
'sta maledetta spina, e lasciarli andare dovunque si vada quando l'opera finita e il sipario
calato, una volta per tutte.
E pens a se stesso, alla solitudine della camera ammobiliata in cui era andato a stare,
quando Maria gli aveva detto che non ne voleva sapere pi di lui, delle sue paturnie e della sua
bottiglia. Forse anch'io dovrei staccare la spina, si disse. Guard Numero Uno, il vecchio col
tumore, e pens in fondo che tra lui e l'uomo non c'era tutta questa differenza: il destino
segnato, e piccoli ricordi che andavano scoppiando uno alla volta come bollicine di sapone.

Aveva lavorato. Sempre, come un pazzo, chiss per arrivare dove. Non aveva avuto il tempo
per altro, per la famiglia, per se stesso, solo a lavorare, un negozio, un altro, un altro ancora.
Mettere soldi da parte, per la figlia, perch potesse permettersi quello che alla madre non
aveva saputo dare; gli sembrava fosse l'unica cosa. Al riposo, a coltivare altri interessi, ci avrebbe
pensato dopo, da vecchio. Per ora serviva andare avanti, tirare la carretta. Si era accorto che la
figlia lo vedeva come un estraneo, certo. Che non avevano niente da dirsi, quando tornava dal
collegio per le vacanze e si trovavano attorno al tavolo, nella bella cucina con la finestra che
dava sull'isola e sul mare.
Era diventato ricco. Ma non sapeva fare altro, e quindi continu a diventarlo sempre di pi,
come se fosse bastato a dare un senso a tutto. Apprezzato e stimato, si diceva. Amato no. E poi,
chi avrebbe dovuto amarlo? Per amare qualcuno bisogna starci insieme, e la moglie era morta
giovane e la figlia viveva lontano. Amato no.
I mal di testa erano cominciati di notte, durante i sonni agitati, e non se n'era nemmeno
accorto. Poi cominci a dimenticare i nomi delle cose, la vecchiaia in arrivo, pens. Poi il sangue
dal naso, una, due volte, sar raffreddato, un capillare. Alla fine si ritrov solo, lontano da casa in
mezzo alla strada, che non ricordava nemmeno il proprio nome.
Cancro, disse il medico. Assurdamente pens: no, ariete. Tanto poco gli importava di vivere, da
scherzarci sopra? Con freddezza il medico disse non pu pi lavorare, non ci provi nemmeno. E lui
si mise a guardare l'isola dalla finestra.
Un giorno usc e camminando piano ci arriv, all'isola. C'erano delle guardie che non facevano
passare, la cosa lo sorprese, non lo sapeva. Si mise a chiacchierare e, un giorno dopo l'altro, fece
amicizia con uno di loro, figlio di un suo vecchio dipendente morto da anni. L'uomo lo
accompagn a visitare il posto, un paio di volte, e poi gli lasci libero l'ingresso, tanto un vecchio
malato dove poteva arrivare?
Scopr la caletta che si vedeva dal muretto antico dopo un paio di settimane, un giorno che
una pioggia leggera entrava dalla pelle portando tristezza. Appena si sedette per la tristezza
fin. Sent la pace e il silenzio portare tenerezza nella sua anima stanca, e nel mare vedeva
l'immagine del viso della moglie da ragazza, con gli occhi che sembravano smeraldi, e lui che le

raccontava il futuro che non avrebbero mai avuto.


Ci torn quasi ogni giorno, con le urla dei gabbiani che accompagnavano le onde lente,
pensando che non c'era medicina che potesse dargli altrettanto sollievo. Fu l che lo trov senza
conoscenza la guardia che l'aveva salutato e non l'aveva visto tornare, un pomeriggio senza
vento.

Chiss se hanno qualcosa in comune, pensava Carlo. Oltre al coma di terzo grado e al fatto
di dipendere dalle mie flebo, naturalmente.
Chiss se c' un posto che ha ospitato un sorriso per tutti e tre. E se vanno da qualche
parte, nel loro sonno senza sogni.
Ho bevuto troppo, pens. E si assop, scomodo come stava sulla sedia di formica grigia.
Non molto lontano da lui, nella notte ferma, un grosso gabbiano agit le ali e si spost dal
muretto antico sul quale si era addormentato aspettando l'alba. Non poteva raccontarlo, ma
erano arrivate tre anime a sedersi al suo posto, come ogni notte.
Mille e mille generazioni di gabbiani a volare sul mare e a raccontarsi la storia di quel luogo
dove gli antichi avevano costruito un tempio: il posto dove tornano le anime non ancora
morte, magico, che regala la tenerezza al dolore. Del tempio era rimasto solo un moncone di
muro, ma le anime lo sapevano riconoscere. Ora erano arrivate e si erano sedute a guardare il
mare.

E al gabbiano non sembr affatto strano.

Quello che Giusto

No.
Mi sembrava di essere stato molto chiaro. Parlo io e solo io, niente domande di alcun
genere. Ci sono gi passato, le prime volte: sempre a chiedere di lui e soltanto di lui, e com'era,
e che cosa faceva, e dove andava, e come si vestiva, e che cosa mangiava. E allora io finivo di
parlare, voltavo le spalle e me ne andavo. Figuriamoci, se mi andava di dire come si vestiva e
che cosa mangiava.
Questo all'inizio, naturalmente. Poi ho finito di accettare di incontrare giornalisti. Volete
sapere di lui? E allora chiedete a lui. Tanto lo sappiamo, quanto sia abile nel pilotare
l'opinione pubblica, nel farsi pubblicit. Di questo gli va dato atto: non sbaglia una mossa.
Quando c' da intervenire interviene, quando c' da tacere tace. Compare solo nelle occasioni
che gli sono utili, al fianco delle persone giuste, appoggiando sempre e soltanto i vincenti. Ha
un fiuto incredibile.
Anche questo conta, sa? Anzi, direi soprattutto questo. Sapersi muovere, sapersi proporre.
Sapere comparire e sparire a tempo debito.
Io invece so solo scomparire. Ho un talento naturale, per scomparire. Mentre ci sono, voil,
non ci sono pi. Un fantastico prestigiatore, l'Houdini mediatico perfetto.
Lei mi potrebbe chiedere: e allora come mai, stavolta ha chiesto di parlare? Non accetto
domande, le ho detto. Parler perch stavolta ho deciso che quando troppo, troppo. E che
quello che giusto giusto.
Perci, mia cara signorina, si levi dalla testa di poter fare domande. Se dovessi accettare di
rispondere a qualche curiosit lo decider io, e glielo far capire. Sono capace di intuire le
curiosit negli occhi delle persone. Un regalo dell'attivit, del mestiere. Come sapr io
insegnavo. L'ho fatto a lungo, direi pi a lungo di quanto mi piaccia ricordare.
Metta qui quell'aggeggio, lo so che ce l'ha nella borsa. Sapesse quanti, prima di lei, hanno
finto di ascoltare con aria assorta, consapevole e comprensiva quello che avevo da dire, o che
avevo voglia di dire. Io sar anche vecchio, ma non deficiente o rimbambito, e soprattutto non
a digiuno di quello che la vostra tecnologia riesce a fare nel settore della registrazione o
dell'intercettazione dei suoni. E lo capisco subito, quando l'interlocutore ha nascosto un
microcoso per registrare la mia voce; lo capisco dall'espressione fintamente assorta e
falsamente comprensiva che si stampa sulla faccia, dall'assenza di un blocco per appunti e di
una penna.
Ecco, brava: lo metta qui, sul comodino. Lo pu pure accendere, anzi, insisto perch lo
faccia. Pretendo per di avere una copia della registrazione, prima di firmare la liberatoria per
il suo, come lo chiamate?, reportage. interesse mio prima che vostro, che le mie parole non
vengano cambiate o travisate. Sapesse quante volte mi successo.

Prima di tutto, le voglio spiegare perch ho deciso di parlare proprio adesso, e proprio con
il vostro giornale. Avrei potuto scegliere, come sa, testate ben pi importanti o prestigiose;
avrei potuto decidere di mostrare la mia faccia in diretta, magari nel telegiornale della sera, il
mio viso scavato dalla malattia. Forse sarei riuscito ad attirare la piet e il consenso degli
spettatori che a milioni, abbuffandosi a cena, guardano ottusamente quello che la scatola
magica gli propina, nulla vero se non passa in televisione. Sarebbe stato facile, un vecchio
ma-lato che propone la sua imminente morte, che la getta sul tavolo come una fiche disperata
contro un avversario vincente. Alla gente piacciono, queste cose: un Davide moribondo contro
un Golia splendente di gloria.
Ma io, vede, non voglio vincere. Non mi interessa il suo crollo nella polvere, vederlo battersi
contro la maldicenza o la contrapposizione della critica. L'ho visto cavalcare anche onde
contrarie, in questi anni, e con grande successo. Vince, vince sempre. abilissimo. Lo
naturalmente, non ha bisogno dei consigli di esperti di marketing o avvocati che pure pu
permettersi in grande quantit, ricco e famoso com'. E io non gliela voglio dare,
l'opportunit di mostrarsi regalmente pietoso e commiserante nei confronti di un vecchio
morente.
Ho scelto voi perch siete sempre stati dalla sua parte. Ricordo la prima recensione, tanti
anni fa: non era facile, un esordiente fuori dalle rotte della grandissima editoria, un piccolo
uomo con un piccolo romanzo, quasi invisibile. Ho ripensato spesso a quel pezzo, a firma di
quello che oggi il suo direttore, signorina. Quanto della sua carriera dipeso da quell'articolo?
Lo scopritore del fenomeno letterario di inizio millennio, stato definito. I miei complimenti.
Naturalmente potrete scegliere di non pubblicare le mie parole: sarebbe legittimo, lei non
immagina ancora quanto e come esse siano fuori dalla vostra linea, sempre celebrativa della
pi grande gloria letteraria del Paese. Ma lo farete, invece: glielo dico io. E sa perch, lo farete?
Perch se no lo far qualcun altro, ecco perch. E siete pur sempre giornalisti, no? Affamati di
notizie, e soprattutto attenti a fare prima degli altri. E questa che le do oggi, mi creda, una
gran notizia. La pi grande.
Per dovr ascoltarmi dall'inizio. Con tutte le pause che dovr fare per bere un sorso
d'acqua, per prendere l'ennesima pillola o anche solo per riguadagnare un po' di fiato. Sto
morendo, gliel'ho detto? No, non perda il suo tempo e il mio con frasi di circostanza. Ho preso
contatto col suo giornale solo quando i medici mi hanno assicurato che in alcun caso vedr la
prossima settimana. Morir tra poche ore. E nessuno mi rimpianger, ne sia certa.
Tantomeno lei, quando avr finito di parlare.
Dall'inizio, le dicevo. Ma qual l'inizio? Comincerei dall'universit.
Vede, signorina: io sono un genio. Ho intuizioni che nessuno ha, capisco le cose molto
prima degli altri; ma questo possibile notarlo in ogni persona particolarmente intelligente.
Quello che ho e nessun altro ha invece la capacit di riconoscere il bello, lo straordinario.
Anzi, lui a riconoscermi: il bello mi attrae, mi individua, mi distingue; sempre stato cos.
Scegliere le lettere come campo di studi stato facile. Necessario, direi. Andare a scegliere
il bello, il grande, l'immortale in mezzo a cose che altri come me nei secoli avevano scelto era
come sedersi attorno a una tavola meravigliosamente imbandita assieme alle migliori
forchette di tutti i tempi. Non si agiti, signorina: abbia fiducia, arriveremo all'argomento che
le sta a cuore. nelle mie mani, lo sa: le conviene starsene buona a sentirmi. Facendo anche
finta che quello che dico le interessi.
Non ho un buon carattere, e non lo avevo allora. Sono insofferente nei confronti degli

stupidi, degli ottusi. Di tutti quelli che non sanno vedere al di l del proprio naso, dei
leccapiedi, dei servi. Non fingo nemmeno piet, ho la lingua tagliente e la so usare. Risultare
sgradevole non mi interessa.
La mia carriera universitaria poteva essere leggendaria: il massimo dei voti a ogni esame,
senza alcuna difficolt. E il sospiro di sollievo di ogni professore quando, alla fine del corso,
potevano liberarsi di uno studente che cos chiaramente ne sapeva pi di loro. Non ero
simpatico, n mi interessava esserlo. Allora come adesso la cattedra va quasi sempre a chi
meglio tesse reti diplomatiche, al miglior cortigiano, piuttosto che al migliore.
Cos arrivai alla fine del corso in tempi brevissimi, senza che nessuno mi offrisse la
possibilit di fare la tesi nella sua materia. Un caso unico nella storia della facolt. Allora scelsi
io; il pi difficile dei corsi, in cui nessuno mai prendeva il massimo dei voti e io invece, in una
leggendaria seduta d'esame nella quale avevo fatto cadere il titolare di cattedra in pi di una
contraddizione, potevo vantare la lode.
Non rifiutarono. Ma non ebbi alcun aiuto nella redazione della tesi, anzi, mi fecero trovare
biblioteche chiuse, vennero meno ad appuntamenti, fecero sapere alle altre universit che
non gradivano che mi si mettessero testi a disposizione. Me lo aspettavo: il professore era un
vendicativo, supponente imbecille e si era legato al dito la brutta figura che gli avevo fatto fare
all'esame.
L'argomento assegnatomi riguard perfidamente un autore semisconosciuto del
quattrocento, inutile che le dica di chi si tratti, una come lei non lo ha di certo mai sentito
nominare. Il bastardo aveva scritto un saggio, trent'anni prima, e quella era l'unica fonte:
faceva in modo che non lo potessi contraddire. E invece io trovai un libro ancora precedente,
per caso, da un antiquario, che lo confutava alla grande.
Il giorno della discussione della mia tesi avrebbe dovuto vederlo: sembrava un tacchino, il
collo rosso, la voce gracchiante. Pareva gli dovesse venire un ictus, cosa della quale poi
effettivamente mor qualche anno dopo, che bruci all'inferno. Fui perfetto, ma quando fu il suo
turno non mi diede punti. Credo che tuttora sia rimasto un caso unico. Cos non ebbi la lode, e
forse anche per questo la carriera accademica, l'unica che mi interessasse, mi fu preclusa
A ripensarci oggi probabilmente fu meglio: i numerosi nemici che il mio carattere mi aveva
procurato mi avrebbero atteso al varco e prima o poi mi avrebbero comunque fatto fuori. Ma
sul momento, mi creda, avrei voluto morire. Purtroppo non sapevo fare altro; cercai per molto
tempo di collaborare con giornali e riviste, ma il bastardo aveva svolto bene il suo mestiere di
maldicente: i miei articoli furono puntualmente respinti, bello ma in questo momento non ci
interessa, era la risposta.
Ci provai per un anno. Un anno lungo. Consumai tutte le riserve, i miei erano poveri e non
potevano aiutarmi.
Dovevo mangiare. Non ero il tipo da andare a bussare alle porte chiuse, non sapevo
chiedere; ma dovevo mangiare. Mi guardavo attorno e non c'era nulla che fosse attinente alla
mia materia. Tentai di fare il cameriere, la guida turistica, il custode: ma sarei morto nella
mente, e questo era peggio che morire nel corpo.
Alla fine mi rassegnai, e feci quello che non avrei mai pensato di fare: il concorso per
insegnare nei licei.
Mi creda, il passo subito precedente al suicidio, per uno come me. C' una differenza
enorme, rispetto all'insegnamento universitario: in questo caso gli studenti, ancorch idioti e
incapaci per la massima parte, hanno pur sempre scelto di essere l. Sono spinti da una forza,

una passione. Nella maggior parte dei casi non valgono nulla, ma almeno hanno voglia.
A scuola invece la marmaglia domina; si tratta di ottusi relitti, spinti dall'inerzia della
volont di genitori idioti e con l'unico desiderio che la lezione finisca presto, per poter andare
a drogarsi o a ubriacarsi o allegramente uno incontro all'altro in un frontale il sabato notte.
Per non parlare degli insegnanti: un manipolo di falliti frustrati e insoddisfatti, pieni di sogni
andati a male che continuano a suppurare, lasciando che l'olezzo si espanda attorno, una
putrefazione delle illusioni che intossica.
Non fu facile accettare di dover diventare parte di questa categoria. Io, che ero stato
investito di un immenso talento, che ero capace di discutere per ore di argomenti dei quali i
miei futuri colleghi erano completamente a digiuno, ritrovarmi a tentare di far entrare
concetti elementari nelle teste di pietra di ragazzi che nulla avrebbero concluso nelle loro
squallide esistenze.
Ma, come le ho detto, dovevo mangiare. Vinsi il concorso naturalmente senza alcuna
difficolt, inserito nella minuscola lista di quelli senza raccomandazione ma talmente
superiori agli altri da essere incontestabili. E fui anche contento di essere mandato in un
paese ignoto della Campania interna, dove non si sa perch era stato messo un liceo classico:
come se ci fosse bisogno di altra cultura che non fosse quella della coltivazione della terra e
dell'allevamento delle vacche.
Non credo e non ho mai creduto che la cultura sia per tutti. La cultura per pochi. Le masse
devono fare le masse, e seguire la strada che le grandi menti indicano. Punto e basta. Un
concetto semplice, che tuttavia l'umanit non ha mai voluto apprendere; di qui guerre, fame,
egoismi. Se il bello governasse, non ci sarebbero piaghe: il bello armonia, tutto al suo posto.
Capisce bene come, in questo contesto, non ci sia nulla di pi inutile che insegnare lettere
in un liceo di campagna di una delle regioni pi culturalmente disastrate del pianeta. Credo
che in Africa, in India almeno ci sia la rabbia, la determinazione della crescita per
sopravvivere; l non c'era nemmeno questo. Solo la notte delle menti, il silenzio delle anime.
Ciononostante, mi sentivo al mio posto. Un fallito in mezzo ai falliti, a gestire il tempo e la
poca voglia di futuri falliti.
Il paese era anche peggio di quello che mi aspettavo. Un grosso centro che era stato
agricolo e non era diventato turistico, che cercava il senso del proprio presente attorno
all'unica cosa che aveva, la stazione ferroviaria che costituiva uno snodo verso la Puglia. Pochi
forestieri ciondolavano in attesa della coincidenza perennemente in ritardo, e al massimo
consumavano un distratto pasto nei due ristoranti vicino alla ferrovia. Uno squallore infinito.
Non legai con nessuno e nemmeno mi interessava. I colleghi erano quelli che ci si sarebbe
aspettato in un avamposto di uomini perduti come quello. Mi guardavano con livido timore,
come se mi interessasse il loro triste, piccolo orticello; non potevano capire che la mia stessa
vita era diventata un ripiego, e nella miseria intellettuale nella quale ero stato ricacciato, un
posto valeva l'altro. Anzi, pi defilato e lontano dagli occhi del mondo accademico mi trovavo,
meglio era per me.
Fu in quel periodo che cominciai a scrivere. Non mi spiego il perch. Mi piaceva studiare,
cercare l'armonia della bellezza nelle composizioni altrui, antiche o moderne; adoravo leggere
e rileggere, assaporare la rotondit delle parole di poeti morti da secoli come con un liquore
invecchiato sapientemente. Sprofondare in sentimenti altrui, godere dell'incanto che pu
nascere dalla sublimazione dell'altrui sofferenza.
Ho sempre pensato che il perduto amore che aveva dannato la vita di molti autori fosse

una grazia per i lettori dei secoli e dei millenni successivi; che fosse benedetta la morte tra
atroci sofferenze, se il canto limpido e perfetto che ne derivava poteva deliziare generazioni e
generazioni di adoranti posteri. D'altronde, non era forse quella l'immortalit?
Per quanto mi riguardava, ero troppo algido e distante dalla vera sofferenza per pensare di
poter produrre a mia volta la perfetta armonia del dolore. Per cui studiavo, e sognavo di poter
proporre ad altri il battito di quei cuori morti ma vivi per sempre.
Evidentemente quei mesi di silenzio dell'anima, perduto in un luogo senza storia in mezzo
a montagne prive di dignit, produssero la scintilla di sofferenza che non avevo mai pensato
di avere. E mi misi a scrivere.
Non avrei mai proposto a nessuno il mio scritto, beninteso. Avevo perso molto, ma non il
pudore. Mi sembrava di sentire le risate del rarefatto mondo di cui avrei voluto far parte, le
frecce che mi sarebbero state scagliate in cambio dell'arroganza che aveva distinto le mie
critiche; non lo potevo consentire. Eppure, signorina, le dico che forse scrivere quel romanzo
salv il mio equilibrio mentale. Forse sarei morto, forse sarei impazzito. Forse
semplicemente mi sarei ripiegato su me stesso, anno dopo anno, trimestre dopo trimestre,
consiglio di classe dopo consiglio di classe, diventando tutt'altro da quello che ero quando ero
sceso dal treno strizzando gli occhi nella luce del pomeriggio. Mi passa quel bicchiere, per
cortesia? Devo prendere una pillola.
Mi chiedo perch mi curino ancora. Il vecchio nemico ormai ha vinto, ha piantato la
bandiera sull'ultimo organo, non arretrer pi. Ho perso la guerra. Il mio corpo, l'ha persa. La
mia mente ha vinto, invece. Abbia ancora un po' di pazienza, e le spiego come.
Dopo qualche anno, tre mi pare, mi ritrovai ad entrare nell'aula del primo anno per
cominciare il cammino che avrebbe portato un'altra piccola mandria di bestie alla maturit.
Di fronte a me si par il solito gruppo di facce inespressive, di occhi bovini e di menti inutili.
Avevo imparato a parlare a me stesso, ripetendo e illustrando con dovizia puntigliosa di
particolari scientifici le mie lezioni. Sapevo che alcuni colleghi avrebbero voluto chiedermi di
semplificare, di rendere i miei discorsi comprensibili; ma non avevano il coraggio di
ammettere al pi giovane, all'ultimo arrivato, che la loro competenza non era di molto
superiore a quella dei banchi di legno ai quali si ostinavano a parlare.
Parlai per una settimana, le origini della lingua, i primi poeti in volgare, poi al solito feci
fare un tema senza preavviso. Non mi aspettavo nulla. era solo per far capire chi comandava,
chi sapeva e invece chi era ignorante.
Godetti dei soliti lampi di paura negli occhi, dei visi impalliditi, delle mani che si torcevano.
Impassibile negai il permesso a un paio di malati improvvisi di andarsene a casa, e ritirai libri
e appunti. La paura delle bestiole mi nutriva. Lo ammetto, ero un supponente bastardo: mi
rifacevo su innocenti delle frustrazioni che la vita mi aveva inflitto. Ma chi senza peccato
scagli la prima pietra: lei, ad esempio, sar stata angariata da caporedattori e direttori, chiss
a quali compromessi avr dovuto scendere per arrivare a essere l'editorialista affermata e
stimata che . E magari si star a sua volta rifacendo su qualche malcapitato pubblicista e
apprendista, facendogli fare la fatica peggiore senza poter firmare gli articoli. Colto nel segno,
eh? Perch avrebbe altrimenti distolto lo sguardo?
Comunque, io avevo solo loro, per rifarmi. E su di loro mi rifacevo.
Quella mattina di settembre, me lo ricordo come fosse ora, mi divertii notando come gli
occhi delle ragazze si riempivano di lacrime e come sui volti dei maschi si spargessero
chiazze rosse di paura. Tutti erano terrorizzati.

Tutti tranne uno.


Se ne stava l, grassoccio, le mani incrociate sul banco. Lo sguardo spento dietro gli occhiali
da vecchio, di finta tartaruga, spessi. Si meraviglia, eh? Ben diverso dalle immagini di lui da
ragazzino che girano su internet e sui giornali, lo so: un bel bambino allegro, estroverso e
felice. Non era cos. Non so dove lui o il suo abilissimo entourage abbiano preso quelle foto, n
di chi siano, ma le assicuro, mia cara, che era ben diverso.
Gli altri ragazzi e un po' tutti nel paese lo tenevano alla larga. Il padre era uno strozzino, e
questo gli faceva terra bruciata attorno, come il suo carattere spocchioso e supponente. Certo
io questo non lo sapevo, quando notai che era l'unico che non dava segnali di panico di fronte
a quel compito; ma presto lo imparai.
Fu il primo a finire, mi ricordo. Concluse, venne alla cattedra a consegnare e si risedette,
tranquillo, le mani incrociate e di nuovo a guardare nel vuoto. Non gli diedi la soddisfazione di
cominciare a leggere il suo elaborato, aspettai che tutti finissero e me ne andai nella sala dei
professori, dove al solito non c'era nessuno: i miei solerti colleghi appena potevano levavano
le tende, figuriamoci.
Un paio d'ore dopo avevo finito la correzione. La quasi totalit dei temi erano pessimi, me
ne accorsi gi dalle prime righe. Un paio erano mediocri, uno si poteva forse leggere fino alla
fine e segnai un cinque d'incoraggiamento.
Il suo, invece, era perfetto. Perfetto. Lo lessi da cima a fondo una, due, tre volte. Equilibrato,
consapevole, profondo: nessun errore, la sintassi e la formazione del pensiero lasciavano
senza fiato, le intuizioni e le soluzioni critiche pure. Non credevo di poter rimanere sorpreso e
invece mi lasci a bocca aperta.
Non dubitai che potesse aver copiato; la traccia che avevo costruito non consentiva
adattamenti da testi o da temi gi svolti. Pensai a qualche diavoleria, a una comunicazione
con qualcuno all'esterno; ma nessuno in quel posto abbandonato dagli dei della ragione,
nessuno dei miei squallidi colleghi o dei notabili del paese era in possesso di un solo briciolo
dell'intelletto necessario a svolgere in quel modo il compito. Che cos'era successo? Chi
diavolo era, quel ragazzetto grassoccio e apparentemente catatonico?
Feci nei giorni successivi qualche cauta indagine. Scoprii della sua famiglia e della
solitudine di un bambino col quale nessuno voleva giocare. Non che lui cercasse amicizie, mi
disse il bidello; se ne stava sempre solo, con un libro in mano, e passava i pomeriggi chiuso
nella biblioteca della scuola a leggere. E a scrivere. Che cosa scrivesse, nessuno lo seppe mai.
Appunto.
Non quadra con le notizie che avete, vero? In questi ultimi ridicoli mesi avete passato quel
paese ai raggi, raccogliendo il solito squallido mare di menzogne montate ad arte. Tutti ad
affollarsi davanti alle telecamere, io lo conoscevo, io sono suo amico, giocavamo insieme, era
il pi allegro, il pi socievole, il pi buono. Mi meraviglio che non ci siano ancora state
testimonianze di miracoli, qualcuno che lo abbia visto camminare sull'acqua o volare come un
uccello. E le supposizioni che il suo primo, grande romanzo lo abbia scritto proprio da
adolescente.
Niente di tutto ci, glielo dico io. Era un reietto, un piccolo bastardino randagio. Era pure
figlio unico, il padre che pensava a come affamare la gente e la madre malata, che poi mor
senza le lacrime di nessuno.
Ma era bravo. Oh, se era bravo. Nelle altre materie era normale, a dire il vero; spuntava una
tranquilla sufficienza, bordeggiando nell'area dei senza infamia e senza lode, per assicurarsi il

tempo e il modo di darsi anima e corpo a quello che gli interessava: la letteratura e la
scrittura. Mentre credevo di studiarlo, di analizzare questa strana, incredibile perla raccolta in
un porcile, lui studiava me.
Me ne accorsi limpidamente, un giorno verso la fine dell'ultimo trimestre, mentre spiegavo
le implicazioni dell'umanesimo del Boccaccio. Non parlavo con una classe, gli altri era come
non ci fossero: parlavo con lui, solo con lui. Senza rendermene conto avevo progressivamente
emarginato tutti, e gli alunni erano ben contenti di essere la prima scolaresca da quando ero li
a non subire quella che veniva definita la mia persecuzione. Non potevo perdere tempo con
loro. Non potevo sottrarre a lui la quantit di informazioni di cui il suo famelico cervello
necessitava.
Ma, le dicevo, in realt era lui che esaminava me. Con poche domande pertinenti, poste con
la voce sommessa che tutti ormai conoscono, mi indirizzava nella spiegazione verso gli
argomenti che gli interessavano. Voleva andare a fondo.
Questo non gli guadagnava il rispetto degli altri. Lo lasciavano invece sempre pi solo,
perch anche se gli era troppo utile per distogliere da loro la mia attenzione, ne sentivano
acutamente la diversit intellettuale.
Ho un ricordo strano, confuso di quegli anni. Saranno tutte le medicine che prendo. So che
passarono veloci e che furono per la mia mente anni felici. Avevo finalmente un interlocutore.
Avevo qualcuno con cui parlare delle cose che avevo sempre in fondo al cuore.
Non ho mai amato il romanzo d'appendice, troppo melenso e teso a riscuotere il facile
consenso delle masse; ma, a ripensarci oggi, il personaggio della letteratura mondiale al quale
sono stato in quei tempi pi vicino era l'abate Faria del Conte di Montecristo, di Dumas padre:
lo sa che era un negro, vero? E quindi respinto dalla societ culturale della sua epoca, messo ai
margini nonostante il successo planetario delle sue opere. L'abate, dicevo, richiuso in una
galera dalla quale sa che uscir soltanto morto, incontra Dants e si aggrappa a lui: qualcuno
con cui finalmente parlare, qualcuno all'altezza di comprendere le sue lezioni; e per di pi
affamato di sapere.
Finita la scuola andavamo in biblioteca, e io continuavo a trasmettergli quello che sapevo.
Non ero affezionato a lui; io non sono capace di affezionarmi a nessuno. Avevo solo trovato in
quel rozzo ragazzetto il senso della mia stessa vita.
Lui invece mi adorava, senza mezzi termini. Nel suo confuso universo, solitario e popolato
di un talento immenso, aveva trovato un'isola in cui rifugiarsi. Io non mi stancavo di parlare,
lui non si stancava di ascoltare.
L'esame di licenza fu una formalit, su quello nessuno ha mentito a voi giornalisti Costru
una tesina sulle relazioni tra amore e morte nelle letterature mondiali, quattrocento pagine,
proprio quel testo che in forma di saggio uscito un annetto fa, mi pare. Un altro immenso
successo, s. Un altro successo. Il massimo dei voti, manco a dirlo.
Si iscrisse all'universit, ma non and ad abitare in citt. All'epoca non c'era alcun obbligo
di frequenza, e comunque a che gli sarebbe servito? Al paese c'ero io. Cos, per caso e per
fortuna, mi ritrovai a diventare quello che non ero riuscito a diventare con le mie forze: un
professore universitario. Un'universit con un unico insegnante per tutte le materie, senza
sede e senza campus, e per di pi con un solo studente: ma che studente, per.
Gli esami diventarono un rito: completavamo la preparazione, lo accompagnavo alla
partenza della corriera e mi sedevo sulla panchina della piazza ad aspettare il suo ritorno.
Nemmeno una prova senza la lode. Una laurea, una seconda. Gli offrivano le cattedre dalle

quali io ero stato escluso e lui le rifiutava. La famiglia era piena di soldi e al paese c'ero io, il
padre del suo cervello, come mi diceva. Non aveva interesse a vivere altrove.
Collaborava con alcune importanti riviste internazionali, gli articoli venivano fuori dalle
nostre interminabili conversazioni. Mi ero dimesso, il nostro confronto assorbiva troppe
energie per poter continuare a insegnare. Qualche lezione privata era pi che sufficiente per
le mie limitate esigenze, e comunque che occasioni c'erano in quel posto per spendere soldi?
Non potevo comprare nulla che valesse pi dell'uno per cento della soddisfazione che mi dava
un'ora di conversazione con lui.
Aspetti un attimo, la prego. Devo bere, ho la gola secca.
Dov'eravamo? Ah, s, gli articoli e le collaborazioni con le riviste letterarie. Il nome se lo
andava facendo, le sue critiche erano sempre pi lette e quindi pi temute. Ma a lui
interessava il processo creativo. Voleva sapere dove nasce un'idea, quale fosse la scintilla che
d luogo a una narrazione coinvolgente che trasmette una scossa al cuore di chi legge. Mi
chiedeva dati, notizie, anche se ormai non gli potevo indicare nulla che gi non conoscesse.
Cercai di fargli capire che il dolore, la fonte dell'ispirazione. Che chi come lui non aveva
mai sofferto non poteva riprodurre in laboratorio quel processo. Non mi credeva, e si
intestardiva a studiare, a ricercare nella tecnica dei grandi autori le motivazioni della
commozione che i loro scritti davano. Divenne sempre pi triste e taciturno.
Sembra incredibile, lo so, che l'uomo il cui sorriso riempie tutte le vostre trasmissioni, la
cui contagiosa allegria travolge i salotti migliori delle pi grandi capitali sia stato, e nemmeno
troppi anni fa, un giovane triste e malinconico, alla disperata ricerca di qualcosa che non
esiste. Ma cos.
Mi dispiaceva, la sua tristezza. Ero legato a lui, forse nel mio animo burbero lo vedevo
come una specie di figlio, un compagno dell'anima che mai avrei creduto di trovare. Ricordai
il dolore della mia solitudine prima di incontrarlo, e ricordai il romanzo che avevo scritto
senza che nessuno lo leggesse mai. Cercai in fondo al cassetto pi dimenticato e tirai fuori il
dattiloscritto. Ci pensai a lungo, molto a lungo; forse mi vergognavo della nudit della mia
anima, forse temevo la lucidit della sua critica: poi glielo diedi.
Per qualche tempo non si fece vedere. Temetti non stesse bene, o di averlo in qualche
modo offeso. Mi ritrovai da solo nella mia stanza, di nuovo solo coi miei pensieri. Mi misi a
scrivere, di nuovo.
Venne da me dieci giorni dopo, in lacrime. Profondamente commosso, mi disse che quel
mio romanzo era la cosa pi incantevole, dolorosa e coinvolgente che avesse mai letto. Mi
chiese ragione del fatto che mai gliene avessi parlato, e che soprattutto mai avessi scritto
ancora, e ancora e ancora, avendo quel meraviglioso talento.
Mi strinsi nelle spalle: non sapevo cosa rispondere. Vide i fogli che avevo scritto in quei
giorni, e si sedette a leggere. Man mano che febbrilmente girava le pagine le lacrime gli
scorrevano sul viso, nella rinnovata commozione della bellezza ritrovata. Tra le mani aveva il
secondo romanzo pi bello che avesse mai letto.
No, non ci fu bisogno di chiedermelo. Io sapevo che non solo il talento, il segreto del
successo. Serve l'aspetto, la capacit di stare in mezzo alla gente, la giovent. Soprattutto la
giovent.
Vede, signorina, il vostro mondo non perdona gli anziani, per quanto grande sia il talento
che esprimono. Forse non pu perdonare a se stesso di non essersi accorto subito, di non
aver visto immediatamente il talento. Si esibiscono bambini che cantano, ballano o suonano

la fisarmonica; li si manda in televisione, si organizzano trasmissioni apposite e grandi


celebrazioni ammirate. I vecchi invece li si invita in corride in cui ci si pu prendere gioco di
loro, li si pu dileggiare mentre, sorridendo ebeti e sdentati, si godono il credersi al centro
dell'attenzione.
Il nostro accordo fu silente e immediato. Io scrivevo, lui badava alla propria immagine:
l'operazione agli occhi per togliere gli occhiali, la palestra, i corsi di dizione, gli stilisti e i sarti.
Il primo romanzo fu proposto a una grossa casa editrice, che fu ben lieta di ospitare da
autore un critico cos giovane e temuto. Se fosse andata bene, avrebbe avuto un bel successo;
se fosse andata male, avrebbe avuto un utile strumento di ricatto nei suoi confronti.
Non faccia quell'espressione sorpresa e scandalizzata, signorina. Sa bene che funziona cos.
Come sa bene che il romanzo fu uno straordinario successo, cos come i tre successivi. Tutti
miei, proprio cos.
Non sono un Mozart vecchio fagocitato da un giovane Salieri arrivista e determinato: a me
andava bene cos. Mi godevo da lontano, sui giornali e in televisione il mio successo per
procura. Lo guardavo tener brillantemente testa a intervistatori e critici, forte del trionfo
consolidato della produzione e della propria enorme cultura, con meravigliose ragazze al
braccio e macchine con l'autista. Al paese tornava sempre meno, io man-davo per corriere i
testi battuti alla mia vecchia macchina per scrivere e lui, al telefono, si assicurava
quotidianamente che avessi tutto quello che mi serviva. Ognuno al suo posto.
Oggi so che sapendo della mia avversione per l'informatica era sicuro che non avessi copie
di quello che scrivevo. E che la mia casa era discretamente sorvegliata da un'agenzia
investigativa, per essere certo che non corrispondessi con nessuno. Il suo ghost writer era
blindato.
Scrivevo molto rapidamente, e del resto non avevo altro da fare. Ero molto pi veloce delle
esigenze editoriali, per cui il nostro grande autore si creato un tesoretto di romanzi che lo
mette al riparo anche dalla mia morte.
A ogni intervista ha parlato di me. Ha detto che deve tutto al suo maestro, all'uomo che gli
ha insegnato quello che serviva a mettere in evidenza il suo purissimo talento. Un uomo
schivo e riservato, che gli aveva chiesto di non fare mai il suo nome. stato molto generoso,
facendo sapere a tutti come provvedesse a me e al mio benessere.
E i giornali mi hanno cercato, e le televisioni, con insistenza. In quel breve momento in cui
l'opinione pubblica si concentra su qualcosa prima di passare ad altro, il misterioso maestro
del Grande Scrittore stato anche il fatto del giorno. Lui sapeva bene della mia idiosincrasia a
mostrarmi in pubblico, e se anche ci avessi provato sarei sembrato un vecchio pazzo, o nella
migliore delle ipotesi un maledetto ingrato che mordeva la mano che lo sosteneva. Niente da
dire, tutto era ben organizzato. Poi le telecamere sono state puntate altrove, ed tornato il
silenzio.
D'altronde, non avevo alcun motivo per parlare. Avevo tutto quello che mi serviva, il suo
successo lo sentivo mio ed era anche una bella rivincita sul mondo che mi aveva rifiutato tanti
anni fa Finch non mi sono ammalato.
La malattia, signorina, una brutta bestia. Ti fa scoprire di essere attaccato a una vita che
in fondo hai sempre disprezzato. Ti fa sentire ostile una solitudine in cui sei sempre stato al
sicuro. Nelle lunghe notti in cui il dolore del mostro che ti mangia dall'interno ti tiene con gli
occhi sbarrati nel buio, ti fa guardare alla tua scala dei valori in modo critico. E ti fa chiedere
se in fondo la vita poteva andare diversamente, se non hai sbagliato, magari tanto tempo fa, la

scelta a un bivio che ti ha portato lontano, tanto lontano da dove volevi andare. La decadenza
del mio corpo gli ha fatto orrore, e non mi venuto mai a trovare in ospedale. Non gliene
faccio una colpa, le telecamere lo avrebbero seguito, il rischio che in una eventuale fase di
demenza potessi parlare e raccontare qualcosa era troppo alto.
Purtroppo e per fortuna, per, la malattia si divertita a straziare tutto, lasciando intatto il
cervello. Forse sarebbe stato meglio, chiss, se fossi veramente diventato demente. Meglio
per tutti. Anche per me.
Ieri ho visto la consegna del premio, in diretta da Stoccolma. Mi sono fatto portare nella
sala della televisione, sulla sedia a rotelle. Non le dico il dolore, ho tante di quelle piaghe, ma
immagino se ne senta l'odore. Ho visto la trasmissione, dicevo. Lo sapevamo tutti, che
avrebbe vinto lui, la gloria nazionale, il pi giovane vincitore per la letteratura eccetera,
eccetera. stato perfetto, vero? Perfetto come al solito. E la motivazione, poi, la lacrimuccia
che luccicava nel primo piano. Chiss quante volte l'ha provata, la lacrimuccia.
cos che ho vinto il Nobel, signorina. L'ho vinto seduto su una sedia a rotelle, piagato e
dolorante, mentre aspetto da un momento all'altro una vecchia signora che mi far
compagnia nell'ultimo breve viaggio nella notte. Poco male, ho vissuto come dovevo, ho
vissuto come potevo.
Perch allora ho deciso di parlare, proprio nelle ultime ore? Non perch rivolessi una gloria
che non mi servirebbe a campare nemmeno un secondo in pi. E nemmeno perch ce l'ho con
lui, che invece stato l'unico conforto di lunghi anni bui.
Prenda quel biglietto, l sulla cassettiera. L'ha preso? C' un nome e un indirizzo, un
notaio della capitale.
Lo chiamer quando me ne sar andato, ha l'incarico di consegnarle copia di tutti i
romanzi che ho scritto, quelli che sono usciti e quelli che usciranno. Vede, signorina, io di
computer non ne capisco. Ma la carta carbone, la vecchia carta carbone per fare due copie di
quello che si scrive a macchina s, la conosco anch'io. E col corriere che andava e veniva da
casa mia partivano sempre due plichi, uno per il notaio e uno per lui. Cos, per mantenere una
traccia. Caso mai se ne fosse perso uno.
Gliel'ho detto, perch. Perch di fronte alla morte, la scala dei valori cambia. E uno si mette
a posto con la coscienza. In fondo la mia vita l'ho passata a celebrare il talento, no? E allora il
talento deve essere riconosciuto. Anche il mio.
Perch si faccia quello che giusto.

Piccolo Francesco

Piccolo Francesco, che non hai fatto in tempo.


Che non hai fatto in tempo a guardarti attorno, in questa terra bella e disgraziata in cui sei
nato. Che non hai fatto in tempo a respirare un'aria di gesso e di matite, innamorato degli
occhi di madre di una dolce maestra. Che non hai fatto in tempo a inseguire un pallone che
rimbalza irregolare sulle pietre sconnesse in mezzo alle macchine, insieme a dieci altri come
te, con le ginocchia sbucciate e la risata pronta. Che non hai fatto in tempo a passare la notte
su un libro, terrorizzato da un esame. Che non hai fatto in tempo a provare un vuoto allo
stomaco incrociando lo sguardo azzurro di una ragazza, chiedendoti cosa sia quel malessere
sconosciuto. Che non hai fatto in tempo ad andare in strada, a passare pomeriggi lunghi in
attesa che succedesse qualcosa che poi non succede mai. Che non hai fatto in tempo a cercare
un lavoro, inseguendo un diritto che non ti danno.
Piccolo Francesco, che hai portato con te l'attimo in cui il rumore ha assordato tutti,
qualsiasi cosa stessero facendo, prima che capissero che con la tua anche la loro vita era
finita. Che gi non c'eri quando l'eco si spenta sulla mattina squarciata, nel fiato sospeso di
un luogo che a quel rumore non mai stato estraneo. Che non hai sentito l'urlo roco e
disperato di tua madre. Che non hai letto nello sguardo di tuo padre la consapevolezza di
averti perduto per sempre.
Piccolo Francesco, in questo tuo primo giorno di scuola da angelo, ricevi questa preghiera.
Io ti prego di andare in sogno. Non dai tuoi genitori, che ti vedranno da svegli o
addormentati in ogni singolo attimo della vita che gli rimane, non da loro; non smetteranno di
sentire la tua voce, di riconoscere la tua risata in mezzo alla strada, di immaginarti in ogni
bambino o ragazzo che incontreranno; non smetteranno di ripensare a tutti gli atti che hanno
posto in essere e che hanno portato a quel rumore, e poi a quel silenzio; che vivranno ogni
istante che gli resta come una terribile con-danna. Non nei loro sogni ti chiedo di andare, n in
quelli di chi ti ha amato tenendoti tra le braccia in questo tuo viaggio troppo breve.
Io ti prego di andare nei sogni di quelli che hanno messo quell'arma nel luogo dov'era, tra le
mani di chi era e che ha spezzato tante vite in un solo colpo.
Non ti hanno mai visto, e non ti vedranno mai nel volto che avevi su questa terra; ma sono
certo che ti riconosceranno quando ti vedranno arrivare silenzioso, i piedini nudi a sfiorare il
pavimento, l'espressione seria e lo sguardo triste sul viso dolce, nella prima luce dell'alba. Ti
riconosceranno quando, col cuore in gola, ti vedranno uscire dall'ombra e fermarti in piedi a
pochi centimetri dai loro occhi sbarrati a guardare la notte senza sonno che non riescono a
lasciare.
Ti riconosceranno, quelli che hanno costruito quell'arma, che hanno guadagnato
vendendola, caricandola, mettendola in mano a chi ha premuto quel grilletto.

Ti riconosceranno, quelli che hanno firmato i permessi, che hanno timbrato marche da
bollo, che hanno rilasciato documenti. Quelli che hanno creduto che si potesse tenere quella
cosa in casa per sport, come se colpire, spaccare, distruggere e spezzare possa mai essere
definito uno sport. Ti riconosceranno senza averti mai visto, quando ti presenterai nei loro
sogni macchiato del tuo sangue innocente. Io ti prego, vai in quelle notti e guarda quelle
coscienze.
Affinch ti vedano nei loro figli che giocano sereni. E piangano un po' anche loro, come oggi
piangiamo tutti.
Piccolo Francesco, che non hai fatto in tempo.

Il Maschio Dominante

La gerarchia era semplice e precisa: un capufficio (anzi, un Capufficio) e sette impiegati.


Arrivare in quel team non era semplice: ci volevano esperienza professionale, titoli vari e
soprattutto una spiccata abilit naturale nel leccamento di culo, affinata da consolidata
abitudine nel settore e da decenni di devota applicazione nella pratica.
Come in tutti gli uffici della specie, situati in tutte le strutture piramidali di questo grande,
splendido Paese fondato sul lavoro e quindi sulla burocrazia, dietro un'apparente cordialit di
stampo quasi familiare si celava la determinata volont di uccidere tutti gli altri,
possibilmente tra atroci tormenti e col coinvolgimento delle successive generazioni: mors
tua, vita mea. Sorrisi squaleschi, grandi pacche sulle spalle, commosse partecipazioni ad
eventuali e sperate disgrazie erano lo spettacolare, apparente contraltare di sguardi di fuoco,
morsi al labbro inferiore e silenti pugni su spigoli di armadio in caso di eventi favorevoli ad
altri, primo fra tutti l'Evento: una dimostrazione di apprezzamento del Capo.
Non che quest'ultima fosse frequente; fulgido esempio di perfetto atteggiamento
aziendalistico-gerarchico, il Capo gestiva le risorse secondo il principio aureo dei capiufficio:
sii sempre forte con i deboli e debole con i forti. Qualsiasi studioso dello sdoppiamento della
personalit, se coinvolto nell'analisi dei comportamenti del Capo, ne sarebbe rimasto
affascinato; lo schema era il seguente:
con i superiori: flautato, voce da mezzosoprano, movimenti delicati ad esprimere
discrezione ed efficienza; postura della testa sulle ventitr e venti, nell'intento di figurare
attento ad ogni parola, col risultato immediato di far pensare ad un serio problema cervicale.
Sempre in piedi, anche durante riunioni fiume (si favoleggiava di otto ore in punta di piedi, a
compensare l'altezza di uno e sessantatr, nella Grande Assemblea dei quadri direttivi
dell'89), nessuno dei Grandi Capi ne aveva mai visto la schiena: era in grado di camminare
inchinandosi a ritroso anche per sette chilometri, record aziendale che resisteva da anni.
Mani congiunte in grembo o portatrici di penne, matite o quant'altro interpretasse servire
allo scopo del superiore, era stato visto raccogliere al volo e prima che toccasse terra un
mozzicone di sigaretta non spento di un Condirettore con un balzo di circa sei metri che, se
omologato, avrebbe costituito il primato regionale di salto triplo. Sempre sorridente, anche in
costanza di orribili cazziatoni (che, com' noto, costituiscono la principale forma di
comunicazione tra un Capo e un Sottoposto), riusciva misteriosamente a mandare bagliori di
intelligenza dagli occhiali: bagliori fisici, intendo. Risultavano da alcune foto di gruppo di
convegni (quindicesima fila, in fondo sulla sinistra);
con i sottoposti: praticamente muto, era leggendaria la sua capacit di farsi capire con
bruschi movimenti del capo o con fonemi senza alcun valore semantico. Quando aveva
profferito verbo, era stato con una profonda voce baritonale, e sempre nella forma di

cazziatone, con capacit sottile di mortificare in modo cruento. Gestualit ridotta al minimo,
qualche vaffa mimato o il segno dell'ombrello a riassumere felicemente la mancata
concessione di un permesso: mano destra con la penna, mano sinistra sotto la scrivania. Le
volte che partecipava annoiato ai festeggiamenti di prammatica (onomastici o compleanni
perfidamente rivelati con l'anno di nascita in bacheca da mani ignote) si produceva in
spettacolari grattate di pacco con successiva sadica stretta di mano al festeggiato, che non
riusciva a lavar via il delicato bouquet per due o tre giorni.
Cos come era definibile un maestro nella nobile arte del servilismo e del leccamento di
culo, appariva quindi inattaccabile alla stessa. Ora, la struttura non poteva in alcun modo
permettersi questo sbarramento: come pu crearsi un valido ricambio della classe dirigente,
se non si consente a nuovi leccaculo di accedere al potere con gli stessi consolidati
meccanismi? Va da s che tutti, proprio tutti i rampanti impiegati erano alla rincorsa di una
fessura nella corazza del Capo, una debolezza attraverso la quale accedere alle segrete vie del
suo cuore: anche una semplice motivazione di lieve ricatto sarebbe an-data bene, una leva
qualsiasi per forzare la cassaforte in cui forse, ma solo forse, il maledetto nascondeva la sua
benevolenza. Tutto inutile.
Per sei settimi, il team era composto di vecchie zoccole. Questa era la sostanza, la forma
invece variava sensibilmente da persona a persona. C'era la Rossa Fatale, vaporosa e
truccatissima anche in piena notte, con un parrucchiere, due estetisti ed una manicurista
nello stato di famiglia. C'era l'Azzimato, griffato dalla testa ai piedi come un pilota di formula
uno, che tossiva Dolce e Gabbana e ruttava in fazzoletti Moschino. C'era l'Erudito, che
qualsiasi cosa si discutesse interveniva da esperto assoluto, e lo faceva in modo cos
plausibile che nessuno avrebbe potuto intuire che invece non capiva un cazzo di niente. C'era
il Lavoratore, che con consumatissima abilit riusciva a dar l'impressione di essere sull'orlo
di un esaurimento da superlavoro e invece non aveva nemmeno idea di che cosa si facesse in
quell'ufficio: aveva sulla scrivania la stessa pratica-civetta da cinque anni, abilmente spalmata
su tutta la superficie, e cambiava ogni mezz'ora il foglio con cui, ad alta velocit, attraversava
trafelato la stanza nella speranza di essere notato dal Capo. C'era il Sindacalista, personaggio
temutissimo che viveva in una zona franca e ipertutelata ma che proprio per questo aveva in
corso una non belligeranza con l'azienda che lo rendeva inutilizzabile per qualsiasi vertenza.
C'era lo Sportivo, che provava a buttare ogni discorso sul calcio o i motori, altrimenti
rimaneva catatonico con la mascella pendula e un filo di bava alla bocca. E cosi via.
Il settimo settimo, invece, non era una vecchia zoccola ma una giovane fanciulla
neoassunta, in possesso di una piccola raccomandazione base che le consentiva di
vivacchiare ai margini del contesto sociale: non sorprenda questa presenza di un pesciolino
tra gli squali, sono personaggi necessari perch, ogni tanto, qualcuno deve pur lavorare; e chi
meglio di una piccola smunta ragazzina, con i capelli color topo e meno seno di Benigni, due
inutili lauree e tre pleonastici masters, seicentotrenta battute al minuto e gi quattromila
fotocopie all'attivo? Vagava da una parte all'altra dell'ufficio come una pallina in un flipper,
chiamata di qua e di l tipo Figaro pur non potendosi in nessun caso attribuirle le prime
quattro lettere di questo nome. In disparte, durante gli intervalli del pranzo in cui il Capo si
chiudeva nel Santuario dio solo sa a fare che, ascoltava gli altri discutere di chi di loro sarebbe
stato il prescelto per l'ambitissimo posto nella Segreteria Del Presidente Tuttemaiuscole:
questo infatti era l'evento dell'anno, anzi del triennio, un passaggio di carriera fondamentale
che avrebbe consentito al vincitore di avere la massima visibilit, ampie gratifiche, permessi

retribuiti poliennali e, premio dei premi, di non fare un cazzo per tutti i secoli dei secoli.
Ognuno, bassamente fingendo di credere nelle altrui possibilit, sorrideva comprensivo,
meditando invece imboscate ed agguati professionali per spianarsi la strada: ma tutti erano
cos compresi di s stessi dal ritenere sinceri gli apprezzamenti degli altri.
La ragazza dai capelli color topo li guardava, e pensava con sgomento che mai, nemmeno
dopo trecento anni in quella cloaca, sarebbe stata in possesso degli strumenti necessari per
nuotare nello stesso mare di quei mostri potendo sperare di essere presa in una qualche
considerazione per quel posto; e tutto sommato, forse nemmeno le sarebbe piaciuto, abituata
com'era a fare fotocopie di documenti il cui contenuto sapeva benissimo essere quasi
completamente inutile e comunque sbagliato. In ogni caso, l'elemento chiave della
promozione era il parere favorevole del Capufficio, il cui grugnito e il "non cazziatone" erano i
massimi segni positivi che si potevano sperare. Per quanto riguardava lei, avrebbe potuto
essere fatta di fumo per quanto lui nemmeno la sfiorava con gli occhi: pensava che se non
avesse usato sottrarsi velocemente dalle traiettorie di passaggio, forse il Capufficio, tarchiato
com'era e con quel buffo riporto esacapellico che portava, le sarebbe passato attraverso. Nel
frattempo la conversazione attorno a lei evolveva sul perenne argomento: qualcuno aveva per
caso scorto un segno di debolezza, che so, un vizietto, un hobby, un gusto particolare nella vita
del Capufficio?
Macch stava dicendo l'Azzimato ha due vestiti: uno invernale e l'altro estivo, entrambi
anonimi. (In realt pensava fossero orribili, ma non si poteva mai sapere a che livello poteva
arrivare la delazione). E due paia di scarpe scalcagnate; la cravatta invece una sola, e al
colore originario non arriverebbe nemmeno un archeologo. L'orologio, poi, deve essere
venuto fuori da un ovetto di pasqua quindici anni fa, il passo successivo della tecnologia la
meridiana. No, no: niente di materiale...
Macchina niente soggiunse lo Sportivo. Va a piedi da qui alla stamberga e dalla
stamberga a qui: ammesso che se ne vada, la sera: io non l'ho mai visto uscire.
Esce, esce interloqu la Rossa Vaporosa. Io una volta ho aspettato qui sotto fino alle
dieci, apposta. (Sguardi inveleniti di tutti, guarda che zoccola, pensavano). Per vedere se
c'era una donna, un uomo, qualcuno di... sessuale. Niente. D'altra parte non riceve mai
telefonate, non ha moglie o figli e non prende ferie dal `75, quando fru di quattro ore di
permesso per la morte della madre. Che uomo...
E nemmeno legge disse l'Erudito. Si capisce da come grugnisce: non ha alcun senso
compiuto. Jung, d'altra parte, diceva...
Ma quale cazzo di Jung! interfer, con la sua famosa sensibilit, il Sindacalista. Qui se
qualcuno non scopre una debolezza con cui ricattarlo, questo prima o poi ci pardon, vi fa
un mazzo a capanna, ve lo dico io: attrezzatevi.
A sottolineare l'atmosfera di cupezza che si stava coagulando, giunse un lontano brontolio
dal Santuario, come un tuono lontano: il Capo stava per uscire. Tutti si provvidero di un
documento civetta ed assunsero l'aria occupata, ancorch si fosse in intervallo; la porta si
apr con l'abituale grazia (un suono di gong, sbattendo sull'adiacente armadio) e l'oggetto
delle elucubrazioni di cui sopra si materializz, velocemente procedendo verso la Segreteria
della Presidenza. Accenni di genuflessione al passaggio, arie fintamente sofferenti e ossequi a
mezza voce ad libitum.
Nel passare, rivolto alla ragazza topo, con la solita via di mezzo tra il singulto ed il rutto:
La postaurgh!. A voler significare: prendi la posta in uscita dalla scrivania del mio ufficio, e

fanne l'uso di cui sei incapace. Rassegnata e non senza quel po' di disagio che provava sempre
quando accedeva nel Santuario, la ragazza topo si avvi, cercando di ridurre al minimo i tempi
della permanenza nella tana del Lupo; not tuttavia che, contrariamente al solito, nella
penombra c'era un lieve bagliore: lo schermo di un computer portatile. Non pot fare a meno
di gettare un fuggevole sguardo, poi un secondo: un attimo dopo un sorriso sempre pi ampio
le si allarg sulla faccia.

Quando tre giorni dopo la ragazza topo fu chiamata nel Santuario per ritirare la nomina alla
Segreteria Presidenziale, tutti sapevano ormai tutto: percorse dieci metri tra due ali di livore
e malanimo mascherati da un totale di circa centoventi denti scoperti in un sordo ringhio: ma
come cazzo ha fatto?, era la muta domanda che agitava il popolo delle transaminasi da quando
si era saputa la notizia. Tutto ci era assolutamente meraviglioso: la ragazza topo, ormai
diventata la Stronza Culosa, irradiava una nuova autoconsapevolezza e riconosceva gi in
qualcuno i segnali di una nascente deferenza. Entr (senza bussare!, fu notato con orrore) e
veleggi verso il capo del Capo, chino a mostrare un contrito riporto. Guardandola con un
delicato, affatto nuovo rossore che si andava espandendo sulle guance, egli le consegn la
nomina dicendo, con la voce da mezzosoprano che usava con i Superiori: Prego... in bocca al
lupo... non ha certo bisogno di raccomandazioni...
Lei sfoder un sorriso radioso: Grazie. Ci incontriamo stasera in chat, "Biondina
Procace"...
A sorpresa, il Capo non pi Capo rispose con un timido sorrisetto e sbattendo le palpebre:
A stasera, allora, "Maschio Dominante"...

Le Voci dal Muro

Tu lo sai. Io ti ho amato. Ti ho amato tanto.


Mi ricordo come fosse adesso, quando arrivavi da lontano, con quella tua camminata sicura, lo
sguardo alto, i capelli che ti ondeggiavano nel vento. Quanto mi piacevi. Eri cos intelligente,
profondo; ogni cosa che dicevi mi incantava, mi sentivo piccola, stupida di fronte a te. Mi pareva
assurdo che ti fossi piaciuta proprio io, insignificante, ingenua, insicura. Chiss cosa ti
interessava di me.
A volte sentivo i tuoi occhi addosso, mentre facevo altro; e non mi voltavo per incrociare il tuo
sguardo, per non interrompere il ciclo dei tuoi pensieri. Ero consapevole che nella tua grande
mente c'erano zone in cui non potevo entrare, che volevi tenere per te; e che comunque non avrei
capito, perch tu studiavi proprio il processo del pensiero, ne conoscevi le vie traverse, le strade
sconosciute. Non ti chiedevo niente, tu niente mi dicevi. Il fantasma del silenzio che poi ci avrebbe
circondato, che ci avrebbe sommerso piano come una marea notturna, buia e muta, cominciava
ad aggirarsi attorno a noi gi allora, quando cominciavamo ad annusarci, a capire chi saremmo
stati l'uno per l'altra.
Dovevo capire. Dovevo sapere. La colpa non stata tua, sai: stata solo mia.
Perch io dovevo capire.

Pap? Pap, mi senti?
Lo so, non vuoi che io alzi la voce. Non vuoi nemmeno sentirla, la mia voce. Una volta,
ricordi, me lo dicesti perfino, che il mio tono ti infastidiva, che ti distraeva dai tuoi pensieri. E
i tuoi pensieri erano troppo importanti, non potevano essere disturbati, deviati dal loro
corso.
Me la ricordo fin da quando ero piccola, questa sensazione. Le volte che eri a casa, e io
dovevo smettere di giocare, di guardare la televisione, di ascoltare musica. Ricordo gli occhi
della mamma, spalancati di terrore, una muta richiesta di comprensione, forse di aiuto. Stai
zitta, mi supplicava. Zitta. E io tacevo, per lei e per me, per non sentire sulla pelle il bruciante
dolore della tua cinghia, per non dover sperimentare la terribile combinazione della tua faccia
priva di espressione, del tuo sguardo vuoto e della sofferenza delle ferite sulla schiena.
Mi ascolti, pap? Mi senti?

Tu mi hai scelta e mi hai presa. Il mio parere non ha mai contato nulla. E del resto non avrei
saputo cosa dire: non ero felice e nemmeno triste, ero destinata a te, e il tuo volere era l'unica
condizione sospensiva per essere tua. Il matrimonio fu la solita recita, sorrisi, congratulazioni.
Solo mio padre, a un certo punto, mi strinse piano il braccio: lo guardai negli occhi, con sorpresa

lessi un po' di inquietudine. Anche lui, ricordi, non era uno che parlava molto. Non disse niente. Io
pensai che fosse triste perch me ne stavo andando, perch non avrebbe pi avuto la sua
bambina.
Oggi so che non era cos,.
Ma non ebbe la forza di dirmi quello che aveva in mente, e io non ebbi la forza di ascoltare il
suo cuore. E un po' del mio.
Volevo una casa, volevo un uomo e volevo una famiglia. Ero nata per questo, programmata
come un robot. E volevo te.

Pap, mi senti?
Lo so che non mi risponderai. Non mi hai mai risposto.
Non che ti abbia mai chiesto niente, d'altronde. E che avrei dovuto chiederti? Quali
argomenti avevamo in comune? La casa, la mamma. Ma tu tornavi e ti mettevi seduto in
poltrona, un libro in mano senza leggere, lo sguardo nel vuoto, gli occhi senza niente dentro.
Quegli occhi. Cos simili ai miei, cos spaventosamente diversi. Una finestra aperta sul
nulla, sullo spazio senz'aria che c' tra le stelle, senza la quiete di un raggio di luce. Il luogo del
silenzio erano i tuoi occhi, pap.
Un silenzio che infettava anche la mamma, che pure quando tu non c'eri rinasceva, come
risvegliandosi in primavera dopo un lungo, inguaribile inverno. Non che fosse allegra; ma
almeno il mento non le tremava di terrore, come quando tu mi picchiavi, lo sguardo nel
lavandino, le mani bianche per la stretta ad asciugare nervosamente un piatto gi asciutto.
Non parlavo di noi a scuola. Mi vergognavo dell'abissale differenza tra il mio mondo e
quello delle compagne, che parlavano dei padri con tenerezza, con fastidio o con simpatia. Che
ne ridevano, perfino.
Io non avevo niente da ridere.

Sai, fui addirittura contenta quando prendesti il nuovo incarico. Adesso sembra assurdo dirlo,
ma ne fui contenta.
Certo, non era lo sviluppo di carriera che avresti desiderato, e questo acu il tuo nervosismo, i
tuoi silenzi; ma eri pi vicino a casa, e gli orari erano decisamente pi comodi. Saremmo stati
insieme di pi, avrei potuto con dolcezza lenire i tuoi tormenti che non capivo, che non mi lasciavi
conoscere.
Invece. Invece.
Ma non potevo saperlo, allora.
Volevo un figlio, lo volevo con tutte le mie forze. Pensavo di volerlo per me, perch mi sentivo
madre da sempre, lo avevo nel sangue e nelle viscere di essere chiamata mamma. Ma senza
saperlo lo volevo per noi due. Immaginavo che attorno a una culla saremmo diventati
qualcos'altro, due genitori, una famiglia. Che il velo che si ispessiva ogni giorno tra te e me
sarebbe caduto, che avrei visto il tuo sorriso.
Qualche volta all'inizio mi parlavi del tuo lavoro. Mi descrivevi quei corridoi silenziosi, le celle
chiuse. Mi parlavi dello stridore dei cancelli pesanti che scorrevano sui binari, dei chiavistelli, delle
catene. E mi dicevi dell'orrore del baratro della follia, dell'oscurit sulla quale eri costretto ad
affacciarti, per trovare il bandolo delle nevrosi, delle fobie, della pazzia che indagavi.
Quando nacque nostra figlia fui felice. Ricordo che tenendola tra le braccia mi voltai verso di

te, per leggere almeno una volta nei tuoi occhi la felicit, l'orgoglio e un po' di fiducia nel futuro.
Guardavi altrove. La fronte corrugata, gli angoli della bocca lontanissimi da qualsiasi sorriso.
Il buio stava uscendo dalle celle, e cominciava a inghiottire la tua anima.

Pap? Almeno adesso puoi ascoltarmi, pap?
Chiss se mi stai sentendo. Non lo so. Non l'ho mai saputo, quanto mi ascoltassi, le rare
volte che trovavo il coraggio di parlarti. Crescevo, diventavo donna attorno a te e tu non mi
vedevi. Avevo imparato alla fine quanto mi convenisse che tu non mi vedessi. Niente sguardo
addosso, e niente dolore sulla schiena.
Col tempo ci si abitua a tutto, sai, pap? Ci si abitua.
Io per esempio mi ero abituata a non avere una vita.
Avevi detto alla mamma che non ti piaceva che io stessi fuori di casa se non per la scuola.
Che il mondo era un posto terribile, come tu sapevi fin troppo bene, come tu sperimentavi
giorno dopo giorno. Che l'unica certezza, l'unica sicurezza era nelle mura di casa.
Dicesti proprio cos: nelle mura di casa. A ripensarci proprio divertente, vero, pap?
E venivi a prendermi personalmente all'uscita di scuola. In silenzio mi riportavi qui. Non
consentivi che camminassi da sola, nemmeno per poche centinaia di metri. Tutti pensavano:
che padre amorevole. Quanto vuole bene a sua figlia.
Tanto bene, vero, pap?
Tutto il bene del mondo.

Non avevo il coraggio. Non l'avevo mai avuto, in realt. Mi accorgevo di quello che stavi
facendo a nostra figlia, di quanto la stessi rinchiudendo in una gabbia senza finestre, di quanto
sarebbe stata incapace di affrontare il mondo se non l'avesse mai conosciuto; ma non eri mai
stato cos fermo e deciso e io non ti avevo contraddetto nemmeno sulle sciocchezze, non avevo la
forza di contrappormi.
Cercavo di parlare con lei, almeno quando tu non c'eri; e avevamo sviluppato un linguaggio
nel silenzio, fatto di cenni, di sguardi alle tue spalle. A lei cercavo di giustificare il tuo pensiero, le
raccontavo delle cose terribili che dovevi sentire ogni giorno, dei detenuti e dei loro atroci delitti
che portavi sulle spalle e nel cuore. Le dicevo che il mondo che dovevi incontrare, tu che eri un
medico, tu che avevi scelto di aiutare gli uomini a guarire, era troppo pesante per le tue fragili
spalle e che noi avevamo almeno il dovere di aiutarti, lasciandoti tranquillo, dandoti un po' di
serenit almeno tra queste mura.
Tra queste mura.
Che Dio mi perdoni.

Pap? Mi ascolti, pap?
Ricordi quando mi portasti lui, qui a casa?
Ero grande, ormai. A scuola non ci dovevo pi andare, e non c'erano pi feste di
compleanno alle quali ero invitata ma dovevo rifiutare, con qualche assurda scusa.
Avevi deciso che ormai ero una donna. Che avevo bisogno di un marito, per fare un figlio,
per darti un nipote. All'improvviso avevi l'ossessione del tempo, la necessit di guadagnarti
attraverso me un pezzo di sopravvivenza dopo la morte.
E mi portasti lui.

Lavorava con te, un tuo assistente, un infermiere. Robusto, alto: forse tratteneva tra le sue
braccia i tuoi folli, sbavanti pazienti mentre tu gli iniettavi medicine nelle vene, per farli
dormire, perch perdessero quel qualcosa di umano che ancora conservavano.
Mi faceva paura, da principio. Poi mi accorsi che anche nei suoi occhi vibrava il terrore che
conoscevo cos bene, la sottoposizione vuota di volont che vedevo ogni giorno negli occhi di
mia madre.
Andai con lui. Una pantomima di matrimonio tra sconosciuti, qualche interdetto parente,
alcuni tuoi colleghi che si scambiavano sguardi irridenti. L'unica fotografia, sulla credenza,
fissa i nostri occhi senza espressione: io, tu, lui. Solo la mamma sembra disperata. Incredibile
quanto ci somigliamo, vero, pap? Quanto ci somigliamo, senza assomigliarci affatto.
Dur poco. Cambiasti idea, quasi subito. Non potevi controllarci a sufficienza, in un'altra
casa; anche se lui come te non diceva una parola, anche se il suo sguardo terrorizzato non mi
sfiorava nemmeno, anche se la mia vita non era cambiata in niente col matrimonio.
Mi riport a casa, una mattina. E poi riport anche le mie cose. Senza una parola, senza una
spiegazione. Ma non ce n'era bisogno, no, pap? Nel tuo sguardo gelido, nel tuo cenno
d'assenso c'erano tutte le spiegazioni necessarie.
Tutto quello che c'era da sapere.

Quando la vidi tornare a casa mi successe qualcosa nel cuore.
Avevo sopportato tutto; ho sopportato tutto. L'amore prima, l'inerzia e la paura poi mi
avevano anestetizzato ogni volont, ammesso che ne abbia avuta mai: ma vedere mia figlia,
l'unica cosa bella della mia vita, l'unica dolcezza, l'unica tenerezza che mi era stata riservata
ridotta a un animale senza futuro mi fece trovare una forza che non sapevo di avere.
Ci avevo sperato, quando tu stesso decidesti che doveva avere una sua vita, un marito, una
casa. Che volevi un nipote, qualcuno che desse un futuro a te stesso dopo di te. Avevo sperato che
le toccasse un diverso destino, che avesse un'esistenza lontano dalle tue terribili mani e dalla
follia delle celle oscure che ti aveva contagiato.
E invece era di nuovo l, con l'anima spezzata, tra queste mura. E tu di nuovo col tuo buio su di
lei.
Attesi la notte del tuo turno. L'attesi con freddezza, attenta a non dare a nessun mio gesto una
connotazione nuova, diversa; consapevole della tua diabolica capacit di annusare l'aria, di
riconoscere le emozioni come fossero un sapore, un mefitico odore. Raccolsi le poche cose
necessarie, le misi in una borsa. Pensai che saremmo andate da mio fratello, lontano, anche se
non lo vedevo da anni. Che da l saremmo andate ancora pi lontano, in America, in Africa; che
avremmo provato a vedere se c'era spazio per la vita, nel nostro tempo. Per lei, non per me.
Quando, appena fuori la porta, arrivato il colpo dietro la mia testa ho avuto solo un attimo
per pensare in che cosa mi fossi tradita, da che cosa avessi capito.

Pap? Lo sai, pap? Io me lo aspettavo.
Non ho mai pensato che ci saremmo riuscite. Lo avevo visto, che guardavi le chiavi dello
sgabuzzino appese sull'altro chiodo, a pochi centimetri di distanza da quello solito. Che da
quello, in un lampo, avevi capito che la mamma aveva cercato la borsa grande, l'unica cosa che
poteva volere l dentro. Lo sai, io e te ci assomigliamo. Non solo negli occhi, anche nei
pensieri.

E perch non gliel'ho detto? Facile, pap: perch volevo che ci provasse. Perch se avesse
saputo che c'era una possibilit, una sola, che tu ti accorgessi di qualcosa, non l'avrebbe mai
fatto. vile, la mamma, tu lo sai, pap. Non ha nessun coraggio.
Dovevamo provarci. Lo capisci, pap? Almeno provarci.
Peccato.

Mi sono svegliata qui. La testa mi pulsa, sento il sangue colarmi sul collo. L'odore del cemento
fresco, il buio, il silenzio. Il nastro adesivo sulla bocca mi fa respirare con difficolt, le mani e i
piedi legati toccano pareti attorno. Che posto questo?
Sento l'odore di lei, di nostra figlia. La tocco, a pochi centimetri da me. calma, non si muove,
ma respira regolarmente. Non risponde ai miei gemiti disperati, sento solo il mio mugolio da
gatta, come in quei sogni in cui vorresti urlare e la voce non viene fuori.
Perdo forza. Cado nel vuoto.

Ti ho visto, sai, pap? Apprezzo che, anche legata e imbavagliata, tu mi abbia lasciato
vedere mentre preparavi la calce, i mattoni e il cemento.
E capisco tutto, capisco che lo fai per noi. Che la sicurezza che volevi per la tua famiglia, la
protezione da un mondo folle e disperato pu essere in fondo qui, solo qui.
In queste mura.


Castel Volturno (CE) - I resti di due persone sono stati trovati in una villetta di Castel Volturno dalla Polizia scientifica. Si
tratta dei corpi di Elisabetta Grande e della figlia Maria, scomparse nel 2004. Nella villa vive Domenico Belmonte, marito e padre
delle donne. Maria, la figlia, era stata sposata con Salvatore Di Maiolo, collaboratore del padre, ancora in stretti rapporti di
amicizia con l'ex suocero, gi direttore sanitario del carcere di Poggioreale.
I due corpi erano all'interno di un locale sotterraneo dell'abitazione, erano adagiati l'uno accanto all'altro, in un'intercapedine
che era stata realizzata tra il garage e il pavimento al fine di scongiurare problemi di umidit. Sembra che nella villetta, che ha un
doppio accesso, siano entrate pochissime persone negli ultimi otto anni. Il proprietario di casa, infatti, non aveva rapporti con
alcuno. I vicini lo vedevano solo quando usciva per curare il giardino. Anche gli agenti che hanno fatto irruzione nell'abitazione lo
hanno trovato mentre stava falciando l'erba.
Sul tavolo nel patio antistante la villetta c'era un libro di psichiatria aperto in corrispondenza della sezione relativa ai temi
della depressione.

Chi Difende Margherita

Margherita si sveglia di botto, col tonfo della porta d'ingresso che si chiude. Sbatte le
palpebre nella luce azzurrina che viene dal televisore, consapevole della bocca impastata e del
divano. Capisce e si alza, avvertendo una fitta alla schiena per la posizione scomoda, ma tardi:
lui in piedi, di fronte a lei.
Guardati, fa dopo un attimo di silenzio. Ma guardati. Fai schifo.
Margherita cerca di parlare, ma lui si gi girato e sta andando verso la cucina. Guarda
l'ora: mezzanotte. Non ricorda di essersi raggomitolata sul divano, non ricorda quale
programma stava guardando, non ricorda a che cosa pensava. Si addormentata di schianto,
come al solito di un sonno buio e senza sogni; un sonno colpevole.
Lo raggiunge mentre lui sta riempiendo un piatto di roba verdastra, da una busta presa dal
congelatore. Non la guarda. Fischietta a fior di labbra, fa sempre cos quando imbestialito.
Scusami, gli dice. Mi sono addormentata.
Mette il piatto nel microonde. Non le risponde.
Com' andata?, gli chiede. E a te che te ne frega, le fa lui. A te non frega niente di niente e di
nessuno. N di me, n dei tuoi figli. Niente.
No, fa lei, questo non lo puoi dire. Io mi spezzo la schiena...
Lo schiaffo le arriva improvviso, sul volto. Le lascia una scia bruciante, gli occhi pieni di
lacrime. La testa fa uno scatto all'indietro, la mano le sale alla guancia.
Zitta, le dice. Almeno abbi il pudore di stare zitta. Tu e il lavoro, tu e il tuo mondo. Tieniti
questo, e non rompermi i coglioni. Non mi venire a chiedere come sto, com' andata la mia
giornata. Dimmi piuttosto com'era vestita tua figlia stamattina, quando l'ho portata all'asilo.
O com' andato il colloquio con i professori di tuo figlio, giacch come al solito non c'eri.
Chiedimi questo. Anzi, non chiedermelo, che non te ne fotte minimamente. Lasciami in pace,
lasciami mangiare.
Al naso di Margherita, insieme all'odore del minestrone che si riscalda, arriva il retrogusto
di un profumo che le sembra di conoscere; un profumo di donna, che viene dal bavero della
giacca di lui. Per un attimo vorrebbe chiedergli come mai rientra a mezzanotte, se chiude lo
studio alle nove. Ma poi sente la guancia che le bolle, e lascia perdere.
Porta a tavola posate e bicchieri. Io con te a tavola non mi siedo, dice lui. Piuttosto mangio
in piedi. E allora Margherita toglie un coperto, e pensa che manger un po' di pane pi tardi,
se le torner la fame: ma ora le si chiuso Io stomaco.
Va nella stanza della figlia: la bambina dorme, abbracciata a un leoncino di peluche. bella,
dolcissima. La vede gi grande, le prende l'ansia: sto perdendo qualcosa, forse l'ho gi persa.
Forse ha ragione lui.
Toglie le scarpe per non far rumore, il cuore in gola. Vuole vedere dormire suo figlio,

sentirsi rassicurata dal respiro profondo, dai sogni che le piaceva immaginare dietro i suoi
sorrisi, quand'era neonato e si addormentava mentre succhiava la vita dal suo seno.
La luce accesa sullo scrittoio, sta chattando al computer. Sei ancora sveglio?, gli chiede. Lui
le lancia un'occhiata distratta e riprende a digitare. Tu pure, sei ancora sveglia. E un'ora fa
russavi sul divano. Io ho lavorato, gli dice: ho lavorato tutta la giornata. Ecco, brava, risponde
lui. E tornaci, al lavoro. Non rompere le scatole a me.
D'impulso prende il filo e toglie la spina. Il computer si spegne con un ronzio. Il ragazzo la
fissa, poi sorride solo con la bocca, e ironicamente applaude. Chi sei? Ma chi sei, tu? Guardati:
il trucco sbavato, la giacca spiegazzata. Una povera vecchia. Mia madre una povera vecchia.
Che si leva la piccola soddisfazione di spegnere il mio computer. Ma a te, mia cara povera
mammina, la spina chi l'ha tolta? Vai a lavorare, vai. Solo questo sai fare: se lo sai fare.
Margherita esce dalla stanza retrocedendo, terrorizzata. Quando era successo, che il suo
bambino era diventato questo mostro cos simile al padre?
Non dorme, stanotte, Margherita. Forse per l'ora di sonno che ha fatto, stremata, sul
divano. Forse per la guancia che bolle, forse per le parole del figlio. Il lavoro, pensa. Tutta colpa
del lavoro. Ma che faccio, di male? Sono meno mamma, meno moglie, meno figlia, meno amica,
se lavoro? vero, ci sono poco. Ma non per divertirmi.
E allora, perch? Per seguire un vecchio sogno che nemmeno ricordo, adesso? Per
l'orgoglio che brillava negli occhi di mio padre, il giorno che mi vide lavorare per la prima
volta? Per avere in tasca due soldi in pi che non ho il tempo di spendere?
Lo sente russare. Si avvicina alla sua giacca, l'annusa. Non si era sbagliata, il profumo che
lei stessa usava un paio d'anni fa e che non usa pi. Assurdamente si sente in colpa, forse
cerca in un'altra un po' della lei che era stata. Va ad affacciarsi alla porta del figlio: adesso
dorme, e sembra di nuovo il suo bambino.
Va in bagno a piangere, Margherita. Sui cocci della sua vita, che le sono ancora cari. E poi si
accoccola sul divano, per rubare un altro po' di sonno alla notte.

La mattina dopo Margherita siede al suo posto, col solito sorriso: ha cacciato i cattivi
pensieri, chi va da lei ha diritto a una mente lucida e sgombra. Si accomodi, dice alla donna.
Quella si toglie gli occhiali da sole e scopre un occhio gonfio e bluastro. Mi aiuti, avvocato,
dice a Margherita. E scoppia a piangere.

Ex Voto

La trovai dove mi aveva detto, la ventesima panca, la fila di destra. Stava seduta composta,
diritta con le mani in grembo, la testa un po' piegata di lato, come fosse in ascolto di un
mormorio quasi incomprensibile; assorta, concentrata.
C'era fresco, dentro; e l'odore che ti saresti aspettato, la cera fusa delle centinaia di candele
accese, l'incenso, le vecchie tende di velluto dei confessionali Nessun rumore, se non quello
costante del Rosario le cui parole non si distinguevano: quattro donne sedute pi avanti,
verso l'altare. Il loro lamento ritmato. Fuori, nel caldo accecante, la perenne risacca delle
trombe e degli scappamenti arrivava attutita, come la notizia di un uragano dall'altra parte
del mondo.

Mi sedetti sulla stessa panca, non lontano ma non troppo vicino. Non la riconobbi, ma la
faccia qualcosa mi disse: tante fotografie, troppi funerali. Troppe lacrime, troppe urla. Ma
qualcosa mi ricordava. Senza girarsi a guardarmi fece un lieve cenno col capo: un saluto, forse.
Le chiesi cosa voleva, in tono pi brusco di quanto avrei dovuto. Ce l'avevo un po' con lei per
la strada fatta dal giornale a passo svelto sotto il sole ancora forte del pomeriggio, per il
tempo sottratto alle ore pi importanti del mio lavoro, quelle in cui si chiudono le decisioni
sulla composizione, salvo ultime complicazioni, una morte, un delitto, una guerra o un colpo
di stato.
E ce l'avevo anche con me stesso, per non aver saputo resistere a quella voce al telefono.
Novantanove volte su cento, avrei messo gi senza rispondere, senza dare corda. Non si
crederebbe a quante telefonate riceve un caporedattore della cronaca, quanti pazzi o stupidi o
malati di solitudine reclamano attenzione ogni giorno. E questa poi era veramente assurda.
Ma qualcosa in quella voce calma, fredda, lontana mi aveva fatto rizzare i capelli dietro la
nuca. Non saprei dire perch: la donna era sicuramente pazza. Ma vibrava in quella voce
calma, fredda e lontana un antico dolore, un vecchio compagno dell'anima che aveva morso
ferocemente e ora si era acquattato in attesa di nuove prede.
Non avevo mai creduto all'istinto del giornalista: fesserie di chi non vuole rivelare la fonte.
Credevo fermamente, e ci credo ancora, ai fatti che ti aspettano da qualche parte, un angolo di
strada, un androne di palazzo, perfino una chiesa in un pomeriggio di settembre: e che
chiedono solo di essere ascoltati, e portati via. Credo nella capacit di ascoltare: una specie di
orecchio musicale, che hai forse innato ma che affini col tempo e con la professione. L'eredit
di essere spettatore di troppe lacrime e troppi funerali.

E la mia capacit di ascoltare quel sordo ruggito del dolore nascosto mi aveva portato l, ad
aspettare il seguito della storia assurda che avevo sentito al telefono solo mezz'ora prima.

Nell'odore delle candele, col sottofondo della litania delle donne sotto l'altare e col lamento
lontano della citt. rovente, la donna cominci a parlare.

Parlo io perch cos abbiamo deciso insieme, dotto'. Parlo io non perch ne abbia pi diritto
delle altre, n perch ho pi coraggio o pi paura. Non perch ho la faccia tosta o perch stata
un'idea mia. Abbiamo deciso insieme.
Non mi avete riconosciuta, eh? Lo so, lo capisco. Sono passati tanti anni. Per ci sono stati
giorni che questa faccia mia si vedeva sui giornali. Perfino in televisione sono andata, e non una
volta sola. Non a ridere o ballare, per. Non a ridere o ballare.
Sono stata giovane pure io, che vi credete. E una sposa, proprio qua in questa chiesa. Pioveva,
quella mattina. Lo dovevo capire, dotto', che era malaugurio? Lo dovevo capire che avrei pianto
pi lacrime di quella pioggia, nella vita mia? Tenevo un figlio nella pancia, quando mi sono
sposata. Ero poco pi di una bambina e gi aspettavo. E quel figlio lo volevo, quel figlio era la vita
mia. Lo guardavo crescere, mangiare, ridere ed era la vita mia. Tengo negli occhi ogni risata che
ha fatto da quando nato. Tengo nelle orecchie ogni parola che ha detto, sulla pelle sento ogni
respiro che ha fatto.
Non date retta alle fesserie che si leggono, un figlio carne. Ha un odore che una mamma
riconosce pure in mezzo al vento, un figlio. un pezzo. Un pezzo della pancia tua: e cos rimane.
Mio figlio scomparso a vent'anni. Una sera non tornato, e io non l'ho visto pi. E mi sono
fatta vecchia. Cos, dalla sera alla mattina. Sono diventata una vecchia, e una pazza. Se mi
vedevate in quegli anni, dotto', non vi fate capace. Sono andata in tutti i posti, mille volte, dove
poteva andare e dove non poteva essere stato. Ho parlato con tutti gli amici, con tutti i nemici. Il
padre non diceva niente, il padre lo sapeva quello che era successo.

Mi ricordai, all'improvviso. Rino Di Matteo, della famiglia Di Matteo, il figlio di Salvatore.
Lupara bianca, la chiamavamo, gente scomparsa che non veniva pi trovata. Certe volte la
calce, altre un pilone della tangenziale, altre ancora il nostro bel mare blu, una pietra pesante
attaccata ai piedi e salute a noi. Quasi sempre il silenzio, e la famiglia che rispondeva per le
rime all'altra famiglia, o magari un bell'accordo davanti a uno spaghetto allo scoglio in un
ristorante di Villaricca, e tutto a posto.
Invece, quella volta la signora Rosa Di Matteo aveva fatto un casino. Aveva studiato, era
maestra elementare, si presentava bene: e i giornali, la televisione le avevano fatto credere
che se si faceva vedere magari Rino tornava. Perfino a "Chi l'ha visto", era andata. E chiss chi
figlio di buona donna faceva chiamate anonime, l'ho visto qua, l'ho visto l. Uno strazio.
Ero stato proprio io che avevo detto basta, almeno per il mio giornale: mi era venuta la
nausea. Poi si pass appresso, l'attenzione and altrove. Altro giro, altra corsa. Altro sangue,
sangue vero, morti a terra, non telefonate. Ora ricordavo: ma la donna che avevo davanti,
nascosta dalla penombra che sapeva di candele, sembrava la nonna della giovane madre
disperata di dieci anni prima. Dovette leggere la sorpresa e il raccapriccio nei miei occhi.

E s, dotto', sono io. Avete collegato, adesso. Proprio io. Vi state chiedendo come sono diventata
come sono. E io ve lo voglio raccontare, abbiamo deciso cos. Quando mi sono fermata, quando ho
capito che Rino non poteva tornare perch non se n'era andato coi piedi suoi? Guardando in

faccia il padre, l'ho capito. Non si era rassegnato, no: lui aveva capito. Aveva capito quello che
era successo, l'aveva accettato. Era una cosa terribile pure per lui, ma era successo: si doveva
rispondere, si dovevano fare gesti, cose, guerre.
Io lo guardavo e mi sembrava un altro. Non aveva niente della persona che era stata il mio
compagno, il mio uomo. Non abbiamo parlato pi: e come potevo capire, come potevo superare il
fatto che mio figlio non c'era pi solo perch il padre aveva i suoi affari?
Voi lo sapete bene, dotto', com' questa citt. Lo sapete perch la descrivete ogni giorno, ogni
mattina parlate della notte. Non ci sono pi famiglie o quartieri, non ci sono i confini che c'erano
prima. Ognuno lavora per s stesso, le alleanze cambiano e chi ti era amico ieri oggi ti ammazza
a coltellate. cambiato tutto. E i giovani muoiono come i vecchi, senza essere riusciti a campare
mai.
Io mi misi a letto. Volevo dormire, perch quando dormi non pensi. Ma sogni, per. E io una
notte sognai. Rino nel sogno faceva la prima comunione. Quant'era bello, dotto' col saio bianco e
la croce di legno appesa al collo, serio serio, i capelli sempre sulla fronte che non lo arrivavo a
pettinare che gi stavano in disordine un'altra volta. Scappava avanti, nel sogno, e si fermava
per vedere se lo raggiungevo. E io correvo, mi mettevo paura che lo perdevo un'altra volta. Rino,
Rino, non correre, ma dove stai andando? E lui, mamm', diceva, vieni, ti devo far vedere una
cosa. E a un certo punto stavamo qua dentro, dotto', proprio qua dove stiamo noi adesso. E nei
banchi davanti c'erano cinque bambini vestiti per la comunione, e uno era Rino, si gir un
momento e mi fece ciao ciao con la manina, e la manina era piena di sangue. Lo volevo
raggiungere, ma c'era un vetro e non ci arrivavo. Lo potevo solo guardare.
Quando mi svegliai mi vestii e venni qua. E Rino non c'era. Per, dotto', mi successe lo stesso
una cosa strana: mi sentii tranquilla. Il peso sul cuore c'era, e come no; ma per la prima volta da
quando era successo, provavo un poco di pace.
Da allora venni sempre pi spesso. Non facevo niente, i primi tempi non pregavo nemmeno, mi
mettevo seduta qua e pensavo, ricordavo. Poi cominciai a dire il Rosario, a immaginare quanto
sarebbe bello se uno potesse rivedere le persone care che non ci sono pi. Tutta questa fede io non
ce l'ho mai avuta, dotto'. Ma qua dentro mi sentivo quasi serena, e che male c'era, pensavo, se
una povera madre disperata cerca un angolo di pace per ricordare, per sperare.
Un giorno, mi pare un anno dopo, venne Maria.

Non poteva aver sentito: la voce di Rosa era poco pi di un sussurro, anche da meno di un
metro avevo difficolt a capire le parole. Eppure, come a un segnale convenuto, una delle
donne che stavano recitando il Rosario sotto l'altare si alz e venne a sedersi vicino a noi.

Io non lo so, dotto', se sono stata pi o meno fortunata di Rosa. Se meglio non vedere pi tuo
figlio dalla sera alla mattina, e poterti aggrappare all'assurda speranza di poterlo incontrare, di
vederlo tornare.
Io invece l'ho visto a terra. Lui e un compagno suo, che gliel'avevo detto che non volevo che
usciva con quello, uno che faceva gli affari, che stava in mezzo. Mio figlio invece era semplice, non
ci credeva mai che si poteva trovare in una situazione di pericolo. Gli piacevano le ragazze, le
motociclette, le belle scarpe. E quello se lo portava appresso, perch era bello e faceva figura. E io

l'ho visto a terra, e quanto sangue, ma quanto sangue ci sta, dotto', in un ragazzo? E non si sono
trovati quelli che hanno sparato, figuratevi, e quando si trovano. Un regolamento di conti. Ma
quali sono, i conti che si regolano cos? Che poteva aver fatto mio figlio, per finire con la faccia in
mezzo al sangue suo, con la mano sotto la testa come quando si addormentava in braccio a me?
Si fece qua il funerale. E se lo portarono sulle spalle. Teneva diciassette anni, sono passati otto.
E io sono rimasta qua, dove l'ho visto per l'ultima volta, dentro a una cassa, mentre se lo
portavano. E ho incontrato a Rosa, e abbiamo parlato. Abbiamo parlato.

Il tempo si era fermato e anche l'aria. Da fuori non venivano pi i rumori della citt. Quello
di cui parlavano le donne era terribile, ma il tono era normale, quasi dolce: come se si
discutesse del tempo, della spesa o di scuola dei figli. Ricordo di aver pensato che per loro il
dolore era diventato una compagnia della quale forse non avrebbero nemmeno voluto fare a
meno, potendo.
Come della solitudine disperata che condividevano.
Non fui sorpreso quando anche le altre tre abbandonarono l'altare e si avvicinarono. Parl
la pi giovane, una ragazza di non pi di trent'anni dalla voce roca.

Il mio bambino si chiamava come mio padre. Aveva tredici anni, e stava davanti a un'edicola
per comprare le figurine. Aspettava il turno, perch io cos gli avevo insegnato: devi essere
educato, gli dicevo. Aspetta il turno per parlare. E lui aspettava, con due euro in mano a
monetine, per comprare le figurine. Ve lo ricordate, eh, dotto'? successo a Materdei, due anni fa.
Un fatto che fece impressione. Per due o tre giorni, fece impressione. Poi siete passati appresso,
come al solito.
No, mica vi do torto. La gente si scoccia, di leggere sempre lo stesso fatto. Anche se poi, dotto', il
fatto in realt sempre lo stesso. Cambiano i nomi, le circostanze: ma il fatto sempre lo stesso.
Per mio figlio fu una rapina, non si mai saputo chi stato. Si presero duecento euro,
ammazzarono l'edicolante. I due euro no. Le monetine rimasero a terra, in mezzo al sangue. Me le
ricordo una a una, chiss perch.
Anna e Lucia, qua, inutile che vi raccontano. I figli loro erano amici, passavano il tempo che
non lavoravano fuori a un bar ai Vergini, facevano i muratori e volevano giocare a pallone. Se ne
andarono la stessa mattina, non si mai capito perch. Forse un piccolo affaruccio sbagliato,
uno sgarro, qualche ragazza che non era per loro. Diciott'anni, tenevano. Stavano sempre
insieme. E stanno insieme pure adesso, e per sempre. Magari almeno si fanno un poco di
compagnia, con le anime tenute fresche dalle preghiere delle mamme. Dalle preghiere nostre.

In mezzo a quei dolori perenni e antichi, vestiti di nero, ebbi paura. Mi pareva
assurdamente, da uomo, di essere in qualche modo responsabile, colpevole di quelle morti e
di quelle sofferenze. Che volete da me, chiesi. Perch mi raccontate queste cose. Tutte loro
avevano in mano la coroncina del Rosario. Tutte loro guardavano avanti, verso l'altare. Non si
erano scambiate un gesto, uno sguardo, una parola. Mi rispose Rosa, e il suo sussurro fu come
un'esplosione nel silenzio assurdo della cattedrale.

Due cose tenevano in comune le nostre storie, dotto'. Lo capimmo dopo un anno che stavamo
tutte insieme, ogni pomeriggio. Non ci pensavamo, pregavamo ognuna per conto suo, chi per
poter un giorno rivedere una faccia, chi per trovare pace, chi solo perch non poteva fare
nient'altro. Pregavamo.
Poi, un poco alla volta, ci siamo salutate. Poi parlate, poi presentate. Poi raccontate le nostre
storie. Una delle cose che tenevamo in comune era che gli assassini dei nostri figli non si erano
mai trovati. Mai. Delitti non confessati, archiviazioni. La polizia, i magistrati: brave persone, per
carit. Signo', dicevano, non si deve disperare. Pu essere che tra un mese, un anno o dieci
acchiappiamo qualcuno per una cosa e quello ci racconta qualcos'altro. Pu succedere, succede.
Si deve aspettare.
A noi non ci interessava di vendicarci, dotto'. E che vendetta ti pu dare conforto, quando perdi
un pezzo di te. Non lo vuole la natura, non lo vuole Dio che si perde un figlio. I figli seppelliscono le
madri, le madri non seppelliscono i figli. Non c' vendetta che ti pu dare pace. Ma una cosa ci
interessava, per: di non vedere arrivare qua, in questa chiesa, altre di noi. Di non dover leggere
ancora una volta lo stesso abisso negli occhi di un'altra.
E allora ci mettemmo a pregare insieme. E chiedemmo una grazia.

Il silenzio si tagliava col coltello. Sembrava che nessuno nemmeno respirasse. L'odore delle
candele e dell'incenso mi stordiva, mi pareva di essere ubriaco o di trovarmi in uno di quegli
incubi in cui nuoti disperato e non raggiungi mai la superficie, e senti che l'aria ti comincia a
mancare. Continuando a guardare verso l'altare, parl una delle due donne che sino ad allora
erano rimaste in silenzio.

Pregavamo da un anno, dotto'. Tutte per la stessa cosa, col caldo e col freddo, ogni giorno. Mio
marito si crede che sono diventata pazza, lo so. Ma non mi importa. Quello che stavamo facendo
era importante, pi importante di tutto. Non ci chiedete come potevamo pensare che si potesse
realizzare; il fatto che eravamo, siamo sicure. Se non l'avete provato non lo potete capire:
come parlare a qualcuno che non ti risponde con la voce, ma che tu vedi, che guardi. Lo sai che
c', lo sai che ti sta a sentire. E allora parli, e chiedi.
Un anno dopo, vi dicevo: successe che facemmo tutte e cinque lo stesso sogno. Bello e buono,
all'improvviso, tutte e cinque lo stesso sogno.

Rimase in silenzio, e la donna al suo fianco, l'ultima a farsi sentire, continu. Mi accorsi che
anch'io, ormai, guardavo l'altare immerso nella penombra. Faceva caldo ma avevo la pelle
d'oca.

Ci sognammo il sangue, dotto'. Il sangue. Noi pregavamo ad alta voce, sempre pi forte, e il
vetro si rompeva e il sangue usciva. E usciva per strada, andava per la citt, bussava alle porte e
si faceva aprire. E invece di sporcare puliva. E noi ridevamo e piangevamo, e dietro al sangue
c'erano i nostri figli che ci buttavano baci con la mano.
Nel sogno ognuna riconosceva il suo, ma lo sapeva che gli altri bambini erano i figli delle altre.
E ognuna se li sentiva figli suoi, e ognuna piangeva di gioia. Finalmente.


Segu di nuovo il silenzio. Guardavamo tutti l'altare. Quasi tra me, dissi: le mani
insanguinate. questo, che mi state raccontando? Vennero fuori uno alla volta, senza
spiegazioni, nell'arco di sei mesi. Cinque confessioni spontanee, e chi le aveva mai viste:
nessuno se lo spieg, mi ricordo che per il giornale me ne occupai io stesso. Riserbo assoluto
delle autorit giudiziarie, condanne piene ed esemplari, processi per direttissima.
Solo il primo fu pubblico, gli altri li fecero altrove a porte chiuse. Il primo, ci andai, me lo
ricordo bene. Poco pi di un ragazzo, l'assassino, un boss rampante di Forcella, che aveva
voluto far capire quanto era bravo.
Mi ricordo che piangendo diceva che vedeva le mani che sudavano sangue, non dormiva
pi, non mangiava pi: sangue a litri, che senza sosta gli usciva dai pori della pelle. Pensammo
tutti che provava a far credere di essere pazzo, per avere attenuanti: nessuno gli credette.
Ricordo che anche per gli altri si parl di infermit mentale. Ma diedero tutti i riferimenti,
erano stati loro, non c'erano dubbi. E andarono dentro, e per quanto so stanno ancora l. I
delitti delle mani insanguinate, ci feci una serie di articoli. Sono quelli? Siete state voi? Ma
come avete fatto?

Non noi, dotto'. Lui, stato. Perch glielo abbiamo chiesto, forse. O perch cinque anime,
cinque cuori disperati hanno una potenza che nessuno ha ancora scoperto. Forse la forza delle
nostre menti, unita e canalizzata, arrivata fino a dove nessuno, n la legge n voi con i giornali,
potete arrivare. Ma noi siamo sicure che stato Lui; perch piange insieme a noi per la sua gente,
ogni giorno. E perch sanguina, e continua a sanguinare da tanto di quel tempo che nessuno se lo
pu immaginare.
Non volevamo la vendetta, noi; solo, volevamo che per quelle mani che ci avevano uccise
insieme ai nostri figli non morisse pi nessuno. Solo questo. E abbiamo promesso, ci siamo
promesse, che alla fine con qualcuno avremmo parlato. A qualcuno l'avremmo detto. E a chi se
non a voi, dotto', che avevate scritto delle mani insanguinate? Sappiamo che lo terrete per voi, e
tanto chi ci crederebbe. Per forse lo potrete pure raccontare, come una storia inventata. Per dire
che il sangue pu anche lavare. E sanare le ferite, se sangue santo.
Perch domani il diciannove di settembre.

Non ricordo di essermi alzato, e non ricordo di essere tornato indietro, una volta arrivato
alla fine della navata. Ma ricordo la risposta di Rosa, quando le chiesi: qual era l'altra cosa?
Cos'altro avevano in comune i vostri figli?

Il nome, dotto'. Solo il nome: Gennaro.



EmmeBooks 358

Potrebbero piacerti anche