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PREVISIONI SUI TASSI DI DISOCCUPAZIONE NEI PROSSIMI ANNI

NOTA 2 SULLA CRISI. 10 aprile 2009.

di Michele Nobile

1) Alla fine di marzo 2009 l’Ocse ha pubblicato un aggiornamento dell’Economic outlook con le
previsioni circa le principali variabili macroeconomiche. Per l’insieme dei paesi membri
dell’organizzazione si prevedono tassi di disoccupazione pari allo 8,4% delle forze di lavoro nel
2009 e al 9,9% nel 2010. Nonostante la crisi in corso sia caratterizzata dalla stessa Ocse come
la «recessione più grave e la più ampia in più di 50 anni», i tassi e gli incrementi previsti non
sono affatto novità assolute. Anzi, se si considerano le cadute dell’investimento, dell’uso delle
capacità produttive e della domanda mondiale, tassi e incrementi della disoccupazione prevista
sottostimano quelli che, con ogni probabilità, saranno i risultati ultimi della crisi, per quanto
siano senz’altro più realistici di quelli del novembre 2008.
Nella precedente nota sulla crisi scrissi:

«Si tenga presente che nel 1993-1998 il tasso medio di disoccupazione nell’area dell’euro fu il 10,4%,
con tassi persistenti a più dell’11% in Francia (1993-1998) e in Italia (1995-1998), e punte al 12% in
Grecia (1999), 15,6% in Irlanda (1993), 16,8% e 19,5% rispettivamente in Finlandia e in Spagna nel
1994. Dunque, sulla base dell’esperienza recente è ragionevole dire che in un paese come l’Italia il tasso
di disoccupazione possa raggiungere il 12% e rimanere qualche anno a quel livello, con le sofferenze che
ciò implica.» 1

Chi scrive aveva calcolato tassi di disoccupazione vicini (ma superiori) a quelli previsti dalla
Ocse nel marzo 2009 nei primi di dicembre 2008: non li ho fatti circolare prima perchè
pensavo di inserirli in un più ampio testo a stampa.
Questa osservazione non ha lo scopo di vantare una qualche speciale capacità predittiva o
econometrica. Si tratta, semplicemente, di applicare il buon senso: di chiedersi quanto e come
sia cresciuta la disoccupazione durante e oltre le precedenti recessioni, in particolare di quelle
a metà anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta e di assumere che, se quella in corso è la
crisi più grave del dopoguerra, allora i tassi di disoccupazione registrati in quelle lontane
recessioni (che all’epoca furono le più gravi del secondo dopo guerra) costituiscono il livello
minimo su cui ragionare adesso. Io ho effettuato alcuni semplici calcoli, per le ragioni esposte
più avanti, ma per giungere alle stesse conclusioni di massima è sufficiente guardare un
grafico che rappresenti le variazioni del tasso di disoccupazione negli ultimi quaranta anni.
Ovviamente questa semplicissima operazione non può non essere stata fatta anche dagli
economisti dell’Ocse, del Fmi e dai governi. Uno scarto di più di due punti di percentuale tra le
previsioni di novembre 2008 e quelle di marzo 2009 prova che la prospettiva storica e il buon
senso valgono più dei modelli econometrici adottati, a fini pubblici, dalle istituzioni
internazionali e dai governi.
Ma non è questione solo di metodo e di modelli. Obiettivamente, sottostimare l’impatto della
crisi sull’occupazione significa legittimare una determinata politica, quella per cui il salvataggio
degli istituti finanziari virtualmente falliti o a rischio di fallimento ha la priorità sulla
salvaguardia dei livelli occupazionali, e una certa interpretazione della crisi: quella per cui essa
sia, fondamentalmente, risultato di «eccessi» del settore finanziario e di errori di policy.
Nella prossima nota la questione sarà analizzata più ampiamente, anche nei suoi aspetti
politici. Intanto, si possono fare le previsioni che seguono.

1
La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama. Nota 1 sulla crisi. 8 marzo 2009, p. 6.
Tassi di disoccupazione standardizzati, database Ocse. Anche il tasso medio di disoccupazione in 12 tra i
paesi capitalistici più avanzati nel 1930-1938 fu il 10,4%: un fatto di cui tener conto nel valutare le
differenze tra il capitalismo degli Stati imperialisti prima e dopo la depressione e la guerra mondiale. I 12
paesi sono: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Germania, Olanda, Norvegia,
Svezia, Regno Unito, Usa. Angus Maddison, Le forze dello sviluppo capitalistico. Un confronto di lungo
periodo, Giuffrè, Milano, 1995, tavola 6.2, pp. 190-191.
Un incremento percentuale del numero di disoccupati di poco inferiore a quello verificatosi nei
paesi membri della Ocse e del G7 nel 1979-1983 porterebbe il tasso di disoccupazione al 10%,
circa 26 milioni di disoccupati in più, un totale di circa 58 milioni.
Un incremento percentuale del numero di disoccupati di poco superiore a quello degli Usa nel
1973-1975 o equivalente a quello della Cee nel 1973-1976, porterebbe il tasso di
disoccupazione della Ocse all’11%, circa 29 milioni di disoccupati in più, un totale di circa 63
milioni.
2) Perché il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro raggiunga l’11%, in valore assoluto circa
7 milioni di disoccupati in più sulle forze di lavoro a metà del 2008, o complessivamente 17
milioni di disoccupati, è sufficiente un incremento percentuale pari a quello del 1990-1994.
Nei più grandi paesi europei il tasso di disoccupazione raggiungerà, con ogni probabilità, il
12%.
3) Il punto non è solo il livello raggiunto dal tasso di disoccupazione sulle forze di lavoro. Oltre
alla riduzione delle forze di lavoro, cioè ai lavoratori e alle lavoratrici che rinunciano a cercare
lavoro, esiste il problema della persistenza di elevati tassi di disoccupazione: ovvero della
persistenza di un «equilibrio di sottoccupazione». In base all’esperienza europea a partire dagli
anni Ottanta, è possibile che un elevato tasso di disoccupazione, di poco inferiore alla punta
massima, possa durare sei anni, persistendo anche dopo la fine della recessione del tasso di
crescita del prodotto. In Europa è possibile che un tasso di disoccupazione medio del 10% duri
fino al 2015.
4) Il quadro di cui sopra è tanto più probabile perché non sembra, a breve termine, che possa
riprendere a funzionare il meccanismo che ha reso possibile le riprese nell’uso delle capacità
produttive e dell’occupazione a partire dalla prima metà degli anni Ottanta: l’impulso della
domanda statunitense. L’elevato disavanzo pubblico degli Stati Uniti, così come le più modeste
misure adottate dai governi europei e giapponese possono impedire la trasformazione della più
grave recessione del secondo dopoguerra in depressione, ma non la crescita dei tassi di
disoccupazione nei termini indicati.
5) La rinuncia a far svolgere allo Stato il ruolo di «datore di lavoro di ultima istanza» mentre si
conferma, nello stesso tempo, il ruolo di «prestatore di ultima istanza» a beneficio delle
imprese, finanziarie e non, costituisce una forma di «neo-ortodossia» rispetto all’orientamento
di politica economica prevalente negli ultimi decenni. Ciò vale anche per misure
dell’amministrazione Obama, che pure sono più incisive di quelle degli Stati europei.
6) In particolare, nel caso dei paesi europei nulla fa pensare, nonostante la deflazione in corso,
a un deciso riorientamento per quel che concerne le politiche del lavoro. Al di là delle misure di
emergenza, volte essenzialmente a evitare il peggio, a salvare istituti finanziari falliti o a
rischio di fallimento e a sussidiare il profitto, la gestione della crisi ripropone la logica del
mercantilismo neoliberista: rilancio attraverso le esportazioni, sulla base della compressione
del costo del lavoro, della flessibilità occupazionale e salariale. Indebolendo ulteriormente il
potere contrattuale dei lavoratori, la crisi è occasione per un’ulteriore riduzione della quota dei
salari sul reddito nazionale e per l’intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori occupati.
7) Le specifiche modalità del «salvataggio» del sistema finanziario comporteranno un alto
costo per le finanze statali: e questo sarà pagato, nei prossimi anni, dai contribuenti, ovvero
dai salariati. La crescita del debito pubblico durante la crisi si tradurrà in politiche di
contenimento della spesa (sociale) e in una maggiore pressione fiscale.
8) La rinuncia a far svolgere allo Stato il ruolo di «datore di lavoro di ultima istanza» (mentre
si conferma quello di «prestatore di ultima istanza» a beneficio delle imprese finanziarie), è
coerente con la riproduzione dell’orientamento politico-economico prevalente e dei rapporti di
potere tra le classi sociali.
Per gli Stati a capitalismo avanzato sarebbe «tecnicamente» possibile svolgere il ruolo di
«datore di lavoro di ultima istanza», dando impulso a una ripresa della domanda aggregata e
quindi dell’investimento privato. Ma questo è politicamente e socialmente inaccettabile, in linea
di principio per le ragioni esposte, 66 anni or sono, da Michal Kalecki: «la “disciplina nelle
fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti» e «le
basi dell'etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a
meno che tu non viva dei redditi del capitale)» («Aspetti politici del pieno impiego», 1943).
9) In termini più storici, la ragione fondamentale della persistenza di alti tassi di
disoccupazione nei prossimi anni non sono diverse da quelle per cui, in particolare nei paesi
europei e in Giappone, essi non sono stati più elevati di quanto fossero nel periodo 1950-1973.
Questa ragione è il successo dello sviluppo capitalistico nel secondo dopo guerra, che ha
portato a una condizione di sovrapproduzione cronica, aggravata dall’ingresso in scena di nuovi
late comers (ultimi arrivati), in ultimo la gigantesca piattaforma d’esportazione cinese.
L’intensificata concorrenza ha avuto l’effetto di deprimere i tassi di profitto delle imprese
industriali, nonostante la stagnazione della crescita dei salari reali: un tasso più basso di
accumulazione di capitale comporta un tasso più basso di accumulazione di lavoro vivo.
La crisi della finanza statunitense implica che, per alcuni anni, gli Usa non potranno sostenere
la domanda mondiale attraverso l’«effetto ricchezza» risultante dalle bolle speculative e la
crescita del consumo trainata dall’indebitamento delle famiglie. E’ anche possibile che si
verifichi una forte crescita delle esportazioni statunitensi e la riduzione del disavanzo
commerciale, come tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta: il che implica alti livelli di
disoccupazione in Europa e in Giappone. In tal caso, L’investimento e con esso la ripresa della
crescita dell’occupazione rimarranno a un basso livello non solo per le difficoltà del credito
conseguenti dai problemi specifici del settore finanziario, ma anche per le aspettative più che
mediocri sulla redditività di nuovi investimenti in condizioni di aggravata sovrapproduzione.
Né, al momento, sembra profilarsi uno schema macroeconomico internazionale alternativo, che
richiederebbe una forte espansione della domanda aggregata in Germania, e nel resto
d’Europa, e in Giappone. Presupposto di un’espansione duratura della domanda aggregata è la
ripresa dell’investimento a tassi superiori a quelli degli ultimi decenni.

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