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LA DISOCCUPAZIONE, DURANTE E OLTRE LA CRISI.

PREVISIONI PER I PROSSIMI ANNI


NOTA 4 SULLA CRISI. 26 giugno 2009.

di Michele Nobile

Indice.
1. La disoccupazione negli Stati Uniti e negli altri paesi a capitalismo avanzato.
2. La crescita della forza lavoro mondiale: tendenze e contraddizioni dei tassi di partecipazione e della
distribuzione settoriale della forza lavoro.
3. Livelli e ritmi della disoccupazione nei paesi a capitalismo avanzato, 1973-2003.
4. Accumulazione e disoccupazione. Le differenze tra Usa ed Europa e il Nairu.
5. Gli scenari della disoccupazione secondo la Ocse e la International labor organization.
6. Stime dell’ordine di grandezza della crescita della disoccupazione nei prossimi anni, sulla base
dell’esperienza storica.

Grafici e tabelle
Grafico 1 – Tassi di disoccupazione durante le recessioni, Usa, 1948-2009.
Grafico 2 – Tassi di crescita dei salari orari nominali, Usa, dicembre 2006-maggio 2009.
Grafico 3 – Tassi di disoccupazione in Europa, aprile 2009, destagionalizzati.
Tabella 1 - Distribuzione settoriale della forza lavoro mondiale, mondo e regioni, 1998-2008.
Grafico 4 – Tassi di disoccupazione, Europa, Giappone, Usa, 1969-2009.
Tabella 2 – Scioperi, profitti e disoccupazione, 1974-1989.
Grafico 5 – Costo del lavoro, paesi a capitalismo avanzato, 1971-2006.
Grafico 6 – Tassi reali di crescita del capitale fisso, area dell'euro, Germania, Giappone, Italia, Usa, 1983-
2007.
Tabella 3 - Occupazione e tassi di crescita annuale dello stock di capitale nel manifatturiero, 1960-1992.
Tabella 4 – Tassi di disoccupazione, Ocse 2008-2010. Confronto tra le previsioni Ocse del novembre 2008
e del marzo 2009.
Tabella 5 – Scenari della disoccupazione, Ilo, tassi (%) e valori assoluti (V.A., milioni).
Tabella 6- Tassi, valori assoluti e variazioni della disoccupazione, paesi a capitalismo avanzato 1973-
2005.
Tabella 7 – Scenari della disoccupazione dal 2009, sulla base dell’esperienza storica. Tassi, incrementi e
valori assoluti, paesi a capitalismo avanzato.
Allegato – Grafici dei tassi di disoccupazione standardizzati di alcuni paesi europei 1969-2009 (Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Irlanda, Grecia, Spagna, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Danimarca,
Finlandia, Norvegia, Polonia, Ungheria).

1. La disoccupazione negli Stati Uniti e negli altri paesi a capitalismo avanzato.

Negli Stati Uniti, cuore dell’economia mondiale, tra dicembre 2007, l’inizio ufficiale della
recessione, e maggio 2009, i disoccupati sono aumentati di 7 milioni fino a un totale di 14,5
milioni1, un incremento del 47,6%. Nello stesso intervallo di tempo il tasso di disoccupazione è
aumentato dal 5% al 9,4% (8,9% in aprile), mentre il rapporto tra occupati e popolazione è
diminuito dal 62,7% al 59,7%.
Dall’inizio della recessione il manifatturiero ha perso 2 milioni di lavoratori (tasso di
disoccupazione al 12,6%) e l’edilizia 1,8 milioni di posti di lavoro (tasso di disoccupazione al
19,2%). In aprile i disoccupati sarebbero stati più numerosi in assenza dei 72 mila assunti dal
settore pubblico, quasi tutti dal governo federale e a tempo determinato, in preparazione del
censimento del 2010. Ma a maggio l’effetto censimento è terminato e i dipendenti del governo

1
Bureau of labour statistics, The employment situation: may 2009, 5 giugno 2009.
federale sono diminuiti di 15 mila unità, mentre rimanevano invariati quelli degli Stati: nel
complesso, i perdenti lavoro del settore pubblico sono ca. 700 mila. Il contributo positivo alla
crescita dell’occupazione continua a venire dai servizi sanitari ed educativi.
A causa della composizione di genere dei settori più colpiti, il tasso di disoccupazione per i
lavoratori maschi ha già raggiunto il 10,5% (2,5 punti sopra quello femminile); gli
afroamericani sono il segmento etnico della forza lavoro più colpito, con un tasso al 15%,
seguiti dai latini con il 12,7%, mentre per i lavoratori bianchi il tasso è allo 8,6%. Per i giovani
teenagers tra i 16 e i 19 anni il tasso di disoccupazione di maggio è il 22,7%2.
Il peso del manifatturiero incide sulla distribuzione spaziale della disoccupazione nei diversi
Stati costitutivi degli Usa: a maggio il tasso era il 14,1% nel Michigan, il 12,4% nell’Oregon, il
12,1% nel Rhode Island e nel South Carolina, tra l’11% e l’11,5% in California, Nevada e
North Carolina, oltre il 10% in Florida, Distretto di Columbia, Kentucky, Illinois, Indiana, Ohio,
Tennessee3.
Anche le ore di lavoro settimanali sono diminuite, del 7% sul maggio 2008, due punti in più
che nella recessione del 1981-1982.

L’incremento dei disoccupati in maggio è stato circa la metà che nei mesi precedenti, ma c’è
poco da consolarsi.
Innanzitutto, è preoccupante, ma coerente con il crollo dell’investimento, la velocità con cui è
aumentata la disoccupazione.
Il grafico 1 mostra i tassi di disoccupazione durante i periodi di recessione negli Stati Uniti tra il
1969 e il 2006: per quanto il livello massimo del novembre-dicembre 1982 (10,8%) non sia
stato (ancora) raggiunto, dopo 17 mesi dall’inizio della recessione il tasso di disoccupazione è
aumentato di 4,5 punti, mentre per i 18 mesi della recessione 1973-1975 l’incremento fu di
4,1 punti e di 3,6 nel 1981-1982. E’ vero che i mesi compresi tra le due recessioni dei primi
anni ottanta videro la stabilizzazione del livello di disoccupazione più che una sua riduzione
significativa (che fu di soli 0,6 punti; ed era ancora al 10% nel luglio 1983), sicché lo scarto tra
il 1980 e il 1982 è pure di 4,5 punti; ma resta il fatto che se il tasso complessivo dovesse
raggiungere il 10% anche nella recessione in corso, come è probabile, l’incremento sarebbe il
più ampio del secondo dopoguerra.

2
ibidem, tavole A-1. Employment status of the civilian population by sex and age; A-2. Employment
status of the civilian population by race, sex, and age; A-3. Employment status of the Hispanic or Latino
population by sex and age.
3
Bureau of labour statistics, Regional and State employment and unemployment summar, 19 giugno
2009.
Grafico 1- Tassi di disoccupazione durante le recessioni, Usa, 1948-2009
12

1981-82
10
2007-09
1973-75
8 1948-49
1980 1957-58
1990-91
6
1969-70

2 1953-54

0
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
mesi
novembre 1973-maggio 1975 gennaio-luglio 1980 luglio 1981-novembre 1982
luglio 1990-marzo 1991 marzo-novembre 2001 dicembre 1969-novembre 1970
dicembre 2007-maggio 2009 novembre 1948-ottobre 1949 luglio 1953-maggio 1954
agosto 1957-aprile 1958 aprile 1960-febbraio 1961

Fonte: Bureau of labor statistics. Elaborazione dell’autore.

In secondo luogo, occorre considerare anche la velocità con cui si ristabilisce il livello
dell’occupazione precedente l’inizio della recessione. Il periodo necessario a riportare il tasso di
occupazione al livello pre crisi tende a crescere a partire dal 1973: per il settore privato fu
mediamente di 21 mesi tra il 1945 e il 1969, di 30 nelle crisi successive, di 51 mesi dal marzo
20014. Questo equivale a chiedersi quanto tempo sarà necessario perché si abbia una ripresa
sostenuta dell’investimento e quale meccanismo possa metterla in moto. Il problema, con
l’attuale gravissima recessione negli Usa, è che non pare possibile che possa aver luogo una
ripresa tirata dal consumo: i lavoratori statunitensi sono ora pesantemente indebitati e non
possono più neanche beneficiare della garanzia collaterale costituita dalla crescita del valore
delle case; i benefici dello stimolo fiscale sono in gran parte dedicati al pagamento dei debiti,
mentre la domanda aggregata è ridotta non solo dalla minor spesa conseguente dalla crescita
della disoccupazione, ma anche dalla pressione al ribasso sulla crescita dei salari nominali
anche degli occupati (grafico 2).

4
Lawrence Mishel, Jared Bernstein, Heidi Shierholz, The state of working america 2008/2009, Economic
policy institute, Cornell university press, 2009.
Grafico 2 – Tassi di crescita dei salari orari nominali, Usa, dicembre 2006-maggio 2009.

QuickTime™ e un
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Fonte: Heidi Shierholz, Jobs picture, June 5, 2009, Economic policy institute.

In terzo luogo, la popolazione complessiva e la forza lavoro degli Stati Uniti continuano a
crescere, rispettivamente, tra dicembre 2007 e gennaio 2008, da 233 a 235,5 e da 153,8 a
155,1 milioni di persone: delle 787 mila persone in più che in maggio cercavano lavoro quasi il
45% è costituito dall’aumento della forza lavoro.
In quarto luogo, se oltre ai disoccupati in senso stretto si considerano anche coloro che sono
esclusi dal computo delle forze di lavoro (e quindi da quello del tasso di disoccupazione;
indicati come marginally attached workers) ma che hanno cercato lavoro in un periodo
compreso tra i 4 e i 12 mesi precedenti la rilevazione, il tasso di sottoimpiego sale dal 7,6%
dell’ottobre 2008 al 10,6% di maggio 2009; e se a questi si aggiungono coloro che lavorano
part-time contro la loro volontà, il tasso di sottoimpiego passa dal 12% al 16,4%5.
In totale, tra disoccupati e sottoimpiegati, si tratta di circa 25,8 milioni di persone.

Grafico 3 – Tassi di disoccupazione in Europa, aprile 2009, destagionalizzati.

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Fonte: Eurostat, release 2 giugno 2009.


Legenda: EA 16 (area dell’euro) comprende: Austria (AT), Belgio (BE), Cipro (CY), Finlandia (FI), Francia (FR), Germania (DE),
Grecia (EL), Irlanda (IE), Italia (IT), Lussemburgo (LU), Malta (MT), Paesi Bassi (NL), Portogallo (PT), Slovacchia (SK), Slovenia
(SI), Spagna (ES). EU27 comprende gli Stati precedenti più: Bulgaria (BG), Danimarca (DK), Estonia (EE), Lettonia (LV), Lituania
(LT), Polonia (PL), Repubblica Ceca (CZ), Regno Unito (UK), Romania (RO), Svezia (SE), Ungheria (HU).

5
Bureau of labour statistics, tabella A-12. Alternative measures of labor underutilization, dati disponibili
dal 1995.
Il grafico 3, ripreso dal comunicato Eurostat del 2 giugno, fotografa la situazione dei paesi
europei ad aprile 2009. Il tasso di disoccupazione ufficiale dell’Unione Europea (secondo criteri
della Ilo, per 27 paesi) era l’8,6%, quello dell’area dell’euro il 9,2% (ma mancano i dati più
recenti per l’Italia, la Romania e la Grecia, che dovrebbero alzare la media).
Considerando il livello medio, in Europa la disoccupazione è aumentata più velocemente che
nelle recessioni degli anni Novanta e dei primi del XXI secolo.
I fatti più importanti sono però altri.
Primo. La crescita della disoccupazione europea è partita da un livello medio minimo rispetto a
quelli prevalenti a partire dal 1982 ma che è, tuttavia, elevato: il 7,2% a marzo del 2008 (area
dell’euro; 6,7% nell’Unione Europea). In assoluto, i disoccupati europei erano a marzo 20
milioni, quanti nel 2002, di cui 14,6 milioni nell’area dell’euro, già oltre il precedente picco del
2005.
Secondo. In alcuni paesi ha avuto luogo un vero massacro del lavoro dei giovani: in Spagna
(tasso di disoccupazione giovanile 36,2%, aumento di 14 punti di percentuale su aprile 2008),
in Svezia (26%, +7,3 punti), Slovacchia (25%, +6 punti), Ungheria (24,5%, +5 punti) e nei
paesi baltici (dati di marzo, incrementi su aprile 2008) Estonia (24%, +16 punti), Lettonia
(29%, +18 punti), Lituania (28%, +16 punti). Il tasso di disoccupazione tra i giovani sotto i 25
anni nell’Unione Europea è più alto che negli Stati Uniti (18,5% contro il 16,7%; ma è
cresciuto meno velocemente).
Terzo. Il quadro europeo è fortemente differenziato sia per quel che concerne i livelli che i ritmi
di crescita della disoccupazione. Lettonia e Lituania svettano sia per il livello che per il ritmo
(+11,3 e +12,5 punti su aprile 2008). Con il 18% la Spagna del socialista Zapatero ha il triste
primato del tasso di disoccupazione più alto e di 4 milioni di disoccupati, che si prevede
salgano a 5 nel 2010, ma un incremento meno forte di quello dei paesi precedenti (+8,1
punti). In Danimarca il livello di disoccupazione è relativamente basso ma presenta, insieme
alla Svezia, la crescita più veloce della disoccupazione tra i paesi sotto il livello del 10%
(rispettivamente (+2,4 e +2,8 punti sul aprile 2008), con l’eccezione della Slovacchia (nella
quale, però, il tasso medio di disoccupazione nel 1999-2004 era il 18%).
Tra i «grandi», Francia e Regno Unito hanno avuto gli incrementi maggiori (+1,3 e +1,8
punti). Una nota dell’Ufficio statistico federale tedesco (Destatis) del 3 marzo comunicava, con
un certo compiacimento, che per la prima volta in 16 anni il tasso di disoccupazione a gennaio
2009 (il 7,3%) era inferiore a quello statunitense: chi si contenta gode ...
Temo non per molto, però, perché se il governo di coalizione democraticocristiani-
socialdemocratici prevedeva per il 2009 un contrazione del Pil a -2,5%, quando istituti
indipendenti ritenevano invece che esso potesse crollare a -4%, la caduta comunicata il 29
aprile è stata del -6%, uguale al dato per il Pil reale degli Usa nel primo quadrimestre del
2009. Nei primi anni del XXI secolo l’economia tedesca è stata più che mai orientata dal
«mercantilismo neoliberista»: la crescita della spesa per consumi rasentava lo zero, mentre tra
il 2000 e il 2008 l’avanzo commerciale aumentava da 7 a 225 miliardi di dollari, il saldo delle
partite correnti in percentuale del Pil passava da -1,8% a 6,4% (il 7,7% nel 2004) e le
esportazioni contavano per oltre il 40% del Pil. Ora, però, le previsioni puntano verso una
contrazione delle esportazioni del 20%.
Sul periodo corrispondente del 2008 il Pil dell’area dell’euro nel primo quadrimestre del 2009
si è contratto del 4,8% e del 4,5 nell’Unione europea, o del -2,5% e -2,4% sull’ultimo
quadrimestre del 2008. Anche per il Pil i massimi negativi spettano a Estonia (-15,6%),
Lettonia (-18,6%), Lituania (-11,8%). Tra i «grandi» la contrazione più forte è quella della
Germania (-6,9%; al secondo posto nell’intera Unione è la Svezia, -6,4%), seguita dall’Italia
(-5,9%), dal Regno Unito (-4,1%), Francia (-3,2%) e Spagna (-3%)6.
Nell’area dell’euro l’investimento segna -4,2%, le esportazioni -8,1%, le importazioni -7,2%, la
spesa per consumi -0,5%; nell’Unione i dati sono rispettivamente -4,4%, -7,8%, -7,8% e -1%.
In Giappone il tasso di disoccupazione è al 4,8% e si prevede che entro l’anno superi il 5,8%7,
il tasso di crescita del Pil è nel primo quadrimestre 2009 è -9,1.

2. La crescita della forza lavoro mondiale: tendenze e contraddizioni dei tassi di


partecipazione e della distribuzione settoriale della forza lavoro.

Stando ai dati della International labour organization (Ilo), la forza lavoro mondiale conta oggi
circa 3 miliardi di persone, un miliardo in più del 1980. Il tasso medio annuo di crescita della
popolazione attiva è stato il 2,2% tra il 1980 e il 1990 e l’1,6% tra il 1990 e il 2005, riduzione
in gran parte dovuta ad un minor grado di partecipazione dei giovani e delle donne8.
Oltre il 36% della forza lavoro mondiale si concentra nell’Asia orientale e sud-orientale, regione
che presenta il più alto tasso di partecipazione del mondo (73,9%), nonostante esso si sia
ridotto di 2,6 punti di percentuale tra il 1980 e il 2005. Tendenza opposta mostra, invece, il
gruppo costituito dall’Europa centrale e orientale e dalla Csi9: in questo caso nell’ultimo quarto
di secolo non solo si è ridotta la quota regionale sulla forza lavoro mondiale (dal 10% al 6%),
ma si è ridotto drammaticamente anche il tasso di partecipazione (dal 68% al 59%). Senza
dimenticare che si tratta di dati aggregati, nel complesso essi possono essere interpretati come
indicatori della contraddittorietà del processo di transizione dal «socialismo di Stato»
burocratico a una forma poco dinamica di capitalismo: i risultati sono imputabili alla crescita
della disoccupazione e alla rinuncia a cercare lavoro.
Molto contraddittoria è la situazione della regione Medio oriente-Africa settentrionale: tra il
1980 e il 2005 la forza lavoro è cresciuta del 149% (al tasso annuo del 3,7%; dal 2,6% al 4%

6
Fonte: Eurostat, release 3 giugno 2009. Ma dati più recenti indicano per la Spagna una contraione del -
3,6%, cfr. «Spagna in recessione fino al 2011», Il Sole 24-ore, 16 giugno 2009, 9. 13.
7
The economist, «When jobs disappear, 14 marzo 2009.
8
Steven Kapsos, «World and regional trends in labour force participation: methodologies and key
results», Economic and labour market papers, International Labour Office, 2007, p. 13. La maggior parte
dei dati seguenti sono tratti da questo studio.
9
Csi: Comunità di Stati indipendenti, comprende le repubbliche ex sovietiche tranne gli Stati baltici e,
ora, la Georgia.
del totale mondiale), ma nel 2005 il tasso di partecipazione era ancora il più basso del mondo,
il 54%, in gran parte a causa della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Contraddittorie sono anche le tendenze nell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale. Nella
prima regione la forza lavoro è aumentata velocemente (al tasso del 2,7% tra il 1980 e il
2005, dallo 8% al 10% della forza lavoro mondiale), ma il tasso di partecipazione è diminuito,
pur restando il più alto del mondo; l’Asia meridionale, invece, contava il 10% della forza lavoro
mondiale nel 2005, ma un tasso di partecipazione basso, relativamente alle altre regioni dei
paesi «sottosviluppati» e in forte riduzione: dal 63% al 59,7%. Dal punto di vista demografico
ciò si deve all’alto tasso di fertilità delle giovani donne e al declino del tasso di partecipazione
femminile, tendenza contraria a quella prevalente nel resto del mondo. Il tasso di
partecipazione delle donne in Asia meridionale è di 46 punti di percentuale al di sotto del tasso
maschile.
In un quarto di secolo la forza lavoro dell’America latina è raddoppiata, fino a raggiungere i
257 milioni nel 2005, passando dal 6,5% allo 8,4% della forza lavoro mondiale; su scala
mondiale, l’America meridionale ha registrato l’aumento più forte del tasso di partecipazione
(di 10 punti, al 67,9% nel 2005), essenzialmente grazie al dimezzamento della differenza tra
tassi di partecipazione maschili e femminili (il tasso di partecipazione dell’America centrale e
caraibica è invece aumentato di poco più di 3 punti, al 60,4%). Dopo il Medio oriente e il Nord
Africa la differenza tra i tassi di disoccupazione maschili e femminili è però la più alta del
mondo.
Infine, se la forza lavoro dei paesi a capitalismo avanzato è aumentata in valore assoluto (da
375 a 480 milioni tra il 1980 e il 2005), la sua quota sul totale mondiale si è ridotta dal 19,4%
al 15,7%. Ma tra il 1980 e il 2007, mentre negli Stati Uniti il tasso di partecipazione al mercato
del lavoro è aumentato dal 63% al 66% (con una tendenza al calo nei primi anni del XXI
secolo, pur restando ai livelli massimi dal 1929)10, nell’«Europa sviluppata» esso si è ridotto di
0,5 punti (al 56,4%, superiore solo a quello del Medio oriente-Africa settentrionale). Benché
tra il 1991 e il 200711 le donne abbiano contribuito a più del 60% della crescita
dell’occupazione nei paesi «sviluppati», le differenze più marcate nei tassi di partecipazione tra
l’«Europa sviluppata» e l’insieme dei «paesi sviluppati non-europei» sono quelle relative alle
giovani donne nelle coorti d’età dei 15-24 anni e 24-29 anni (che in Europa si è molto ridotto,
nonostante la crescita della partecipazione femminile nelle altre coorti d’età), e alla
partecipazione dei lavoratori maschi nelle coorti dei 15-29 anni e oltre i 55 anni.
Le tendenze della distribuzione settoriale della forza lavoro.
Eric Hobsbawm ha scritto che «il mutamento sociale più notevole e di più vasta portata della
seconda metà del secolo, quello che ci taglia fuori per sempre dal mondo del passato, è la

10
Economic report of the President, Washington, 2009, tabella B–35.—Civilian population and labor
force, 1929–2008.
11
Ilo, World of Work Report 2008. Income inequalities in the age of financial globalization, Ilo, Ginevra
2008.
morte della classe contadina»12. Alla lettera la tesi è iperbolica, ma dalla tabella 1 è evidente la
tendenza alla riduzione dei lavoratori agricoli, fino a 1/3 della forza lavoro mondiale, forte e
veloce nell’Asia orientale e meridionale, le aree più popolose del mondo.

Tabella 1 - Distribuzione settoriale della forza lavoro mondiale, mondo e regioni, 1998-2008.
Agricoltura Industria Servizi
1998 2008 1998 2008 1998 2008
Mondo 40,8 33,5 21,1 23,2 38,1 43,3
Paesi sviluppati 5,8 3,7 27,9 25,1 66,3 71,2
Europa centrale- orientale (non-Ue) - Cis 26,8 18,7 27,7 25,3 45,5 56,0
Asia orientale 47,6 36,6 24,4 28,3 28,0 35,1
Asia sud- orientale e Pacifico 50,1 44,3 15,5 19,3 34,4 36,4
Asia meridionale 59,5 46,9 15,4 22,6 25,1 30,4
America latina e Caraibi 21,4 16,2 21,8 22,9 56,8 60,9
Medio oriente 20,8 16,8 25,4 24,8 53,8 58,4
Africa settentrionale 35,9 32,4 20,0 23,6 44,1 43,9
Africa sub-sahariana 67,6 61,7 9,5 10,3 22,9 28,0
Fonte: Ilo, Global employment trends, 2009, tavola A6. I dati per il 2008 sono stime preliminari.

Ed è vero che, da un punto di vista «tecnico», è questa immensa trasformazione ad essere il


fatto fondamentale dell’evoluzione di lungo periodo della struttura socio-economica mondiale.
Ad essa corrisponde, in contrasto con la generalizzazione delle tesi postmoderniste, la crescita
complessiva dell’occupazione industriale, che nell’Asia sud-orientale e meridionale è anche più
dinamica della crescita dell’eterogeneo settore dei «servizi».
Il fatto non è però solo «tecnico». Esso esprime l’estensione del rapporto di lavoro salariato e,
specialmente, l’approfondimento dello sfruttamento propriamente capitalistico del lavoro
attraverso i mezzi tecnici più moderni. L’Asia, la Cina in particolare, sono i poli di crescita
dell’investimento mondiale, ovvero il polo della crescita del rapporto di lavoro salariato. Ma il
dinamismo di questa crescita è strettamente dipendente dalle esportazioni: la contrazione della
domanda aggregata nei paesi a capitalismo avanzato, combinata all’ineguaglianza nella
distribuzione del reddito, non può che tradursi in crescita della disoccupazione.
Inoltre, il maggior peso delle esportazioni industriali sulle esportazioni totali dei paesi detti «in
via di sviluppo» non solo comporta uno scambio ineguale dovuto ai differenziali di produttività
con i paesi avanzati e al fatto che per lo più i Pvs esportano prodotti a basso «valore
aggiunto», ma anche una «concorrenza fratricida» che porta al deteriorarsi dei termini di
scambio, tanto più forte in una situazione di crisi dei paesi avanzati importatori. Ciò può
tradursi in crisi valutarie destabilizzanti.

3. Livelli e ritmi della disoccupazione nei paesi a capitalismo avanzato, 1973-2003.

Il grafico 4 mostra, le curve dei tassi standardizzati di disoccupazione nel periodo 1969-2009
degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Europa, qui rappresentata dalle medie dei tassi di Francia,
Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Svezia. Una scelta diversa per quel che riguarda la

12
Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli 1995, pg. 341.
composizione del campione europeo «occidentale» modificherebbe i livelli ma non la forma
della curva13.

Grafico 4 - Tassi di disoccupazione, Europa, Giappone, Usa, 1969-2009

Europa-media USA Giappone


Nota: il gruppo Europa qui è costituito da Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Svezia. I tassi europei per il 2009 sono
quelli di aprile, tranne che per l’Italia, che è del dicembre 2008, e per il Regno Unito, che è del febbraio 2009.
Fonte: Labour forces statistics 1966-1988, Paris, Oecd 1990 , Oecd Economic outlook e Oecd harmonised unemployment rates, 8
giugno 2009.

E’ evidente il formarsi di un ripido e alto dislivello tra il 1980 e il 1985, sia per gli Stati Uniti
che per l’Europa, che emerge come amplificazione qualitativa della crescita della
disoccupazione dalla fine degli anni Sessanta e, in particolare, dal 1974.
Rispetto al periodo 1964-1973, nel 1983-1992 il tasso medio di disoccupazione in Germania
(Rft) fu sette volte più alto; in Francia si quadruplicò, nel Regno Unito si triplicò; in Giappone e
in Canada raddoppiò: negli Stati Uniti e in Italia, i paesi avanzati che nel 1964-1973 avevano i

tassi di disoccupazione più alti, i rapporti sono 1,5 e 1,914. Nell’area dell’Ocse, tra il 1973 e il
1977 i disoccupati aumentarono di 7,2 milioni, fino a un totale di 18,5 milioni; ma tra il 1979 e
il 1983 il colpo portato all’occupazione fu quasi il doppio: la schiera dei disoccupati si accrebbe
di altri 13,2 milioni, fino a un totale di 31 milioni, mantenendosi nel triennio successivo sul
livello di 29,7 milioni15.
Tassi di disoccupazione uguali o superiori al 9,5% sono stati raggiunti negli Stati Uniti (1982-
1983), Australia (1983), Belgio (1981-1987), Canada (1982-1986, 1991-1996), Danimarca
(1981-1982, 1993), Francia (1984-1988, 1992-1999, 2003-2005; fino al 12%), Germania
(2004-2006; 9,4% nel 1997), Grecia (1996-2005), Irlanda (1981-1997; con punte del 14-15%

13
Si vedano, ad es., i grafici in Duménil e Lévy, Capital resurgent, 2004, p. 54, in cui l’Europa è
rappresentata da Germania, Francia e Regno Unito, e in Unctad, Trade development report 2007, p. 145,
in cui l’Europa è rappresentata da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda. La media di
questi paesi più Belgio, Danimarca, Finlandia, Grecia, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo dà l’8%
negli anni Ottanta; la media dei paesi dell’area dell’euro è il 10% tra il 1993 e il 1997. Uso sempre i tassi
di disoccupazione standardizzati dell’Ocse, quando non diversamente indicato.
14
I rapporti sono ripresi da «The international origins of unemployment» di John Eatwell, in Managing the
global economy, Oxford U. P., Oxford, 1995, a cura di Jonathan Michie e John Grieve Smith.
15
Labour forces statistics 1968-1988, Ocse 1990, tab. 5.1.
nel 1991-1993), Italia (1987-1989, 1993-2000), Nuova Zelanda (1991-1993), Spagna (1980-
2004; media 1990-2004 il 14%, il 19,5% nel 2004), Svezia (1996-1997), Regno Unito (1982-
1987, 1992-1994).

Nella tabella 2 si nota come negli anni Ottanta al forte aumento della disoccupazione e al crollo
della conflittualità corrispose la crescita della quota del profitto sul valore aggiunto.

Tabella 2 – Scioperi, profitti e disoccupazione, 1974-1989.


Scioperia Profitti (manifatturiero)b Disoccupazionec
Tabella ** 1974-1979 1980-1989 1973-1979 1979-1987 1974-1979 1980-1989
Ocse 40 25 -4,2 4,7 4,2 7,4
Europad 42 21 -5,4 5,3 4,4 7,9
Corporativie 11 23 -1,3 3,7 3 4,3
Usa 47 12 -3,0 1,8 6,7 7,2
Giappone 11 1 -13,0 -1,3 1,9 2,5
a: giorni persi in scioperi ogni 100 lavoratori, media annua; b: profitti sul valore aggiunto netto, in punti di percentuale; c: tassi medi
annuali standardizzati, in %; d: Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Svizzera, Regno Unito. e: Austria, Danimarca, Finlandia,
Norvegia, Svezia.
Fonte: Andrew Glyn, «Stability, inegualitarianism and stagnation: an overview of the advanced capitalist countries in the 1980s», in
in G. A. Epstein, H. M. Gintis,, Macroeconomic policy after the conservative era, Cambridge University Press, Cambridge 1995,
tabelle pp. 46-49. Dati da Historical statistics, Ocse, 1990.

Nel grafico 4 è evidente il diverso andamento delle curve della disoccupazione negli Stati Uniti
e in Europa.
La curva del saggio di disoccupazione negli Stati Uniti presenta, a partire dal 1970, un
andamento con picchi e valli profonde, corrispondenti ad ampie variazioni della disoccupazione
in rapporto al ciclo economico. Ma da queste fluttuazioni congiunturali emerge anche, a partire
dal picco del 1982 e fino al penultimo trimestre del 2007, un trend inequivocabile verso la
riduzione della quota dei disoccupati sulla forza lavoro totale16. Indubbiamente, questo trend
nasconde la precarizzazione del lavoro e la crescita della diseguaglianza e della povertà,
aspetti strutturali caratterizzanti il regime di «mercantilismo neoliberista»; eppure esso è tanto
marcato che non si può pensare che sia solo un artefatto statistico.
Dal 1988 al 2007 il tasso medio di disoccupazione negli Usa è stato il 5,4% (5,3% per l’intero
ciclo 2001-2007), oscillando tra la punta massima del 7,5% nel 1992 e il minimo del 4% nel
2000.
Dopo il primo gradino tra il 1975 e il 1980, la curva del saggio di disoccupazione dei paesi
europei ascende rapidamente nel quinquennio successivo, fino a formare un’alta scarpata.
Spiccano due «massicci» tra il 1985 e il 2000, grosso modo eguali e separati da una valle
relativamente poco profonda, le cui «vette» toccano il 10% e l’11%. Anche in questo caso il
trend è inequivocabile: assume la forma di un altopiano «lungo» quindici anni, ad indicare il
cronicizzarsi della disoccupazione strutturale ad un alto livello. L’andamento della
disoccupazione è, per così dire, politicamente «bipartitico»: non c’è motivo di differenziare
qualitativamente, almeno per quel che riguarda questo fondamentale parametro, la gauche

16
Economic report of the President, tavole B-38 e B-43.
plurielle o di «terza via» dalla cd. «destra neoliberista». Nel secondo decennio del secolo
dobbiamo attenderci la formazione di un terzo grande «massiccio».
Sono da notare l’ascesa del tasso di disoccupazione in Giappone, a partire da un livello molto
basso, e la ripresa tardiva e modesta della crescita dell’occupazione nei paesi europei dopo la
recessione di inizio secolo, per lo più a partire dal 2005-2006.

4. Accumulazione e disoccupazione. Le differenze tra Usa ed Europa e il Nairu.

La diversità dei trend dei tassi di disoccupazione tra Stati Uniti ed Europa è un argomento forte
a sostegno della spiegazione «neoliberista» della disoccupazione europea, basata su fattori
istituzionali che irrigidiscono il mercato del lavoro: si tratta dell’ipotesi del «tasso di
disoccupazione al quale il tasso di inflazione è costante» (non-accelerating inflation rate of
unemployment, acronimo Nairu)17. Sulla base di questa ipotesi tutto ciò che rende più flessibile
l’occupazione e il salario, diretto e indiretto, accresce l’occupazione senza aumentare la
l’inflazione.
Nelle prescrizioni normative l’ipotesi del Nairu converge con il tradizionale approccio liberista e
con la nozione di «tasso naturale di disoccupazione» del patriarca del monetarismo Milton
Friedman, ma se ne differenzia per importanti aspetti, politicamente rilevanti.
Il «tasso naturale di disoccupazione» implica un processo di aggiustamento tra domanda e
offerta, in mercati del lavoro e dei prodotti perfettamente concorrenziali, fino a raggiungere un
equilibrio in cui tutti i fattori produttivi sono impiegati; quindi la disoccupazione può essere
solo volontaria o frizionale.
Il Nairu, invece, non implica la piena occupazione e si definisce solo a livello macroeconomico,
come un insieme di condizioni che mantengono costante il tasso d’inflazione. La
disoccupazione è spiegata esclusivamente con le condizioni dell’offerta di lavoro, separando
questa dalla domanda nel mercato dei prodotti e dell’accumulazione di capitale.

17
Una recente ed esauriente discussione di questa problematica è Full employment abandoned. Shifting
sands and policy failures, di Willliam Mitchell e Joan Muysken, Edward Elgar, Cheltenham (UK),
Northampton (MA, Usa), 2008. Sul significato di classe del Nairu e il rapporto con il conccetto marxiano di
esercito industriale di riserva: Robert Pollin, «Il Nairu? Una scoperta di Marx, in Surplus n. 6, II, 2000. In
particolare sull’Europa: Engelbert Stockhammer, The rise of european unemployment – a keynesian
approach, Edward Elgar, Cheltenhan (U.K.), 2004. Sui presupposti teorici: Malcolm Sawyer, «The Nairu:
a critical appraisal», in Philip Arestis, Malcolm Sawyer, Money, finance and capitalist development,
Edward Elgar, Cheltenham (Uk), Northampton (Ma, Usa), 2001 e Massimo Pivetti, Economia politica,
Laterza, Roma-Bari 2002, V° capitolo, «Nuova economia keynesiana» e istituzioni del mercato del lavoro.
Osserva Pivetti: «Alla luce dei principali indicatori di flessibilità, l’Italia spicca tra i sette paesi
industrializzati rispetto all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro; ma spicca anche per il
maggior aumento della disoccupazione. Che l’impatto occupazionale della riduzione dei salari reali sia
stato negativo è ciò che si aspetterebbe chiunque non ragioni sulla base dei postulati neoclassici,
condivisi dagli economisti neokeynesiani. In presenza di aumenti della produttività del lavoro, anche la
mera stagnazione dei salari reali comporta una redistribuzione del reddito a favore dei profitti, con un
impatto negativo sulla propensione al consumo dell’intera economia, tanto maggiore quanto maggiore è
l’aumento della produttività (...) Dovrebbe a questo punto essere sufficientemente chiara la lontananza
del punto di vista neo-keynesiano da quello di Keynes. Nell’economia neo-keynesiana è completamente
assente il principio della domanda effettiva, ovvero l’indipendenza degli investimenti dai risparmi, su cui è
basata la spiegazione keynesiana della disoccupazione involontaria», ibidem, pp. 184-185.
Nella «nuova economia keynesiana» ciò che determina la persistenza di un equilibrio di
sottoccupazione o di persistente disoccupazione sono i fattori istituzionali propri del mercato
del lavoro, in quanto l’indebolimento della concorrenza tra occupati e disoccupati (o tra
insiders e outsiders, o tra occupati e giovani in cerca di lavoro) impedisce l’adattamento tra
domanda e offerta di lavoro, mentre alti sussidi di disoccupazione disincentivano la ricerca del
lavoro e la rigidità dei mercati del lavoro e dei prodotti si traduce in un più alto livello di
crescita dei prezzi e dei salari.
Lo studio sul quale si basano le stime attuali del Nairu da parte della Ocse, oltre a confermare
l’importanza degli indicatori usuali di rigidità, sottolinea che la «densità», o la forza dei
sindacati dei lavoratori (misurata come la proporzione dei lavoratori iscritti a sindacati), è un
indicatore statisticamente «robusto» e con un impatto sul tasso di disoccupazione strutturale
anche più alto di quanto precedentemente stimato18. In particolare, questo studio rileva che
nel periodo 1988-2003 la «densità» sindacale si è ridotta in tutti i paesi Ocse (tranne che in
Belgio e, negli anni Ottanta, in Norvegia), contribuendo in genere alla riduzione di 0,25 o 0,50
punti di percentuale del Nairu. Il crollo di 15 punti della «densità sindacale» in Irlanda avrebbe
addirittura ridotto il Nairu di 4 punti di percentuale (p. 32). Dal che si può dedurre che quanto
più basso il tasso di sindacalizzazione, tanto minore il tasso di disoccupazione.
Ma che la densità sindacale in Francia si sia ridotta dal 22% del 1969-1975 all’11% durante gli
anni Ottanta, fino al 7,8% del 2007, non ha impedito tassi di disoccupazione dell’11% nei
Novanta; in Grecia la disoccupazione aumentava mentre la densità sindacale scendeva dal
38% del 1990 al 27% del 2000; parimenti in Germania, dove nello stesso periodo gli iscritti al
sindacato si riducevano dal 31% al 24%, e in Italia (dal 38,8% al 27,7%). Ad un nesso causale
che vada dalla densità sindacale alla disoccupazione si può opporre quello che va dalla crisi,
dalla stagnazione dell’accumulazione e dalla crescita della disoccupazione, da una parte, alla
riduzione della sindacalizzazione dall’altra, per quanto la relazione non sia lineare. In Svezia,
ad esempio, il tasso di disoccupazione si impennò dallo 1,7% del 1990 al 9,9% del 1997: il
tasso di sindacalizzazione aumentò di tre punti fino al 1994, allo 83,7%, per poi iniziare a
ridursi (70% del 2007) mentre la disoccupazione persisteva a un livello quasi triplo rispetto
agli anni Settanta.

L’approccio del Nairu non è puramente liberista o pre-keynesiano, in quanto si ammette che,
oltre alla disoccupazione volontaria e a quella frizionale (presente nel periodo necessario a
stabilire l’equilibrio nel mercato del lavoro) possa esistere anche disoccupazione involontaria.
Si tratta, in effetti, di un’ulteriore evoluzione del bastard keynesianism prevalente nel secondo
dopo guerra, secondo il quale la teoria keynesiana è un caso speciale e particolare, pertinente

18
Christian Gianella, Isabell Koske, Elena Rusticelli, Olivier Chatal, «What drives the nairu? Evidence
from a panel of Oecd countries», Oecd economics department, Working paper n. 649, novembre 2008, p.
6.
solo a condizioni eccezionali di depressione, non al normale funzionamento dell’economia
capitalistica.
Poiché i fattori determinanti del «tasso di disoccupazione al quale il tasso di inflazione è
costante» sono socio-politici, si può dire che essi «riportano il dibattito sulla disoccupazione
nell’alveo dell’analisi della lotta di classe e della distribuzione del reddito e del potere»19: il
Nairu può essere interpretato come una sorta di equivalente funzionale dell’esercito industriale
di riserva di Marx.
E qui arriviamo al «dunque» politico.
Possono esserci modi diversi di applicare le prescrizioni conseguenti da questa impostazione,
che in effetti dipendono dall’insieme delle condizioni politiche ed economiche di un paese. Ma,
proprio per ciò che è caratteristico dell’impostazione, la prospettiva del Nairu si presta bene a
una applicazione di tipo «neocorporativo» e al discorso della «terza via». Essa non comporta
necessariamente l’esclusione della burocrazia sindacale dalla definizione delle politiche. Al
contrario, questa burocrazia può essere benissimo inclusa nelle procedure concertative, nella
costruzione di un «dialogo sociale», di uno «scambio politico» che non esclude momenti di
scontro limitato.

Argomentazioni forte contro la tesi del Nairu sono date dal rapporto tra crescita della
produttività del lavoro e crescita dei salari e dall’evoluzione dei tassi del profitto e dei tassi di
accumulazione. Il grafico 5 mostra le curve del costo del lavoro:

Grafico 5 - Costo del lavoro, Paesi a capitalismo avanzato, 1971-2006

30

25

20

15

10

0
1971 1973 1975 1977 1979 1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005

-5

-10

G-7 Italia Giappone Corea Usa Area euro Francia Germania

Fonte: Elaborazione su dati Oecd, Factbook 2008, unit labour costs, business sector, tassi di crescita annuali in %.

Le curve del grafico 5 evidenziano un cambiamento drastico a partire dai primi anni Ottanta. Di
fronte a un tale crollo del costo del lavoro, e considerando che dagli anni Novanta esso è quasi

19
Robert Pollin, «Il NAIRU? Una scoperta di Marx, in Surplus n. 6, II, 2000.
sempre maggiore negli Usa che nell’area dell’euro, non è plausibile attribuire a questa variabile
la responsabilità dei persistenti e alti tassi di disoccupazione in Europa. Anche in questo caso i
rapporti causali si possono invertire, rispetto all’ipotesi del Nairu: dalla crescita della
disoccupazione e della precarizzazione del lavoro al contenimento del costo del lavoro.
La constatazione di una più marcata flessibilità del mercato del lavoro statunitense in rapporto
al ciclo non spiega nulla, è una tautologia. In Spagna, paese europeo dove più alta è
l’incidenza del lavoro precario, il tasso di disoccupazione è rimasto per molti anni a un livello
superiore al 10%, scendendo allo 8,5% solo nel 2006. Se si assume come indicatore della
precarizzazione forzata l’incidenza dei dipendenti che lavorano a tempo parziale (involuntary
part-time workers) sulla forza lavoro totale, allora si può dire che essa sia più forte in Europa.
Tra il 2000 e il 2007 questa quota è aumentata negli Stati Uniti dallo 0,7% allo 0,8%; nello
stesso periodo in 15 paesi europei è aumentata dall’1,9% al 3%: in Germania dall’1,7% al 4%,
in Italia dall’1,9% al 4% (dati complessivi; per le donne l’incidenza in Europa è tripla rispetto a
quella Usa)20.
La causa fondamentale dei livelli mediamente più alti della disoccupazione rispetto all’epoca del
boom postbellico va cercata nei più bassi tassi di accumulazione di capitale. E, quindi, ciò su
cui occorre interrogarsi è la ragione del più basso livello dell’investimento.

Grafico 6 -Tassi reali di crescita del capitale fisso,


area dell'euro, Germania, Giappone, Italia, Usa, 1983-200

15

10

0
1983- 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
1993
-5

-10

-15

Germania Euro area USA Giappone Italia


Fonte: Elaborazione su dati Oecd, Economic outlook, tabella 5. Real total gross fixed capital formation.

La diversità nei ritmi di accumulazione, nell’andamento quantitativo della crescita economica e


nella sua qualità, è anche la ragione delle diverse tendenze dei tassi di occupazione e di
disoccupazione tra Stati Uniti e Europa: il che rimanda agli squilibri e alle contraddizioni che

20
Online OECD Employment database.
sono propri del regime mondiale di «mercantilismo neoliberista»21. Il nesso tra tendenze
dell’accumulazione e della disoccupazione emerge dal confronto tra i grafici 4 e 6 e la tabella 3.

Tabella 3 - Occupazione e tassi di crescita annuale dello stock di capitale nel manifatturiero, 1960-1992.
Stock di capitale Occupazione
1960-1973 1973-1992 Variazione 1960-1973 1973-1992 Variazione
Australia 5,1 2,2 -2,9 1,4 -0,8 -2,2
Belgio 5,4 2,4 -3,0 0,2 -2,3 -2,5
Canada 4,7 3,4 -1,3 2,0 0,0 -2,0
Finlandia 5,7 3,1 -2,6 3,5 -1,1 -4,6
Francia 5,5 2,3 -3,2 0,8 -1,7 -2,5
Germania 6,0 1,5 -4,5 0,4 -0,6 -1,0
Giappone 13,0 5,6 -7,4 3,1 0,6 -2,5
Svezia 4,5 2,1 -2,4 -1,6 -1,3 0,3
Regno Unito 3,5 1,1 -2,4 -0,1 -2,8 -2,7
Stati Uniti 4,1 2,9 -1,2 1,5 0,0 -1,5
Fonte: Robert Rowthorn, «Capital formation and unemployment», Oxford review of economic policy, vol. 11, n. 1, 1995, p. 33; dati
da Oecd Labour force statistics, Oecd, Flows and stocks of fixed capital. Ho omesso i dati sulla crescita dello stock e
dell’occupazione nei servizi.

Rowthorn osserva che 1 punto di percentuale di crescita nello stock di capitale manifatturiero è
associato a una crescita aggiuntiva dell’occupazione tra 0,48 e 0,61 punti; nota anche che
«l’investimento nel settore dei servizi non sembra avere grande impatto sull’occupazione del
settore. D’altra parte, l’investimento nel manifatturiero ha un effetto significativo
sull’occupazione nei servizi. Ogni punto di percentuale in più nello stock di capitale
manifatturiero è associato a una crescita più veloce nel settore dei servizi tra 0,12 e 0,35 punti
di percentuale»22.
I tassi di crescita della produzione industriale nell’area dell’euro furono il 3,1% nel 1986-1990
(anni di riduzione della disoccupazione), lo 0,5% nel 1991-1995 (anni di crescita della
disoccupazione), il 3% nel 1996-2000 (anni di riduzione della disoccupazione), lo 0,7% nel
2001-2005; nel 2006 e nel 2007 furono il 4,3% e il 3,8% (anni di riduzione della
disoccupazione). Nel quarto trimestre del 2008 il tasso di crescita della produzione industriale
nell’area dell’euro è stato il -9%, e -19,1 e -19,6% in febbraio e marzo (dati Eurostat).
Per Duménil e Lévy la differenza tra i trend della disoccupazione negli Stati Uniti e in Europa è
il risultato del diverso andamento delle variabili che determinano il saggio di occupazione23:
tasso di crescita del capitale (crescita della capacità produttiva)
meno il tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro (meccanizzazione)
meno il tasso di variazione della durata del lavoro.

21
Per questo rimando alle mie precedenti «note sulla crisi», «La crisi nel contesto storico e la neo-
ortodossia di Obama. Nota 1 sulla crisi», 8 marzo 2009, pubblicata nei Quaderni del Craet n. 9, marzo
2009, in rete nel sito www.craet.it, e «Una pia illusione: la crisi economica come catarsi politica. Nota 3
sulla crisi», giugno 2009, sugli stessi Quaderni di settembre 2009.
22
Robert Rowthorn, «Capital formation and unemployment», Oxford review of economic policy, vol. 11,
n. 1, 1995, p. 33.
23
Gérard Duménil, Dominique Lévy, «La disoccupazione strutturale nella crisi di fine secolo. Un confronto
fra l’esperienza europea e quella statunitense», in Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria,
ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, a cura di Riccardo Bellofiore, Biblioteca Franco
Serantini, Pisa, 1998, p. 59.
Secondo questi studiosi,

«la disoccupazione in Europa durante il periodo 1975-1995 corrisponde ad un deficit nella creazione di
posti di lavoro di solo 0,5% per anno. In altre parole, se il tasso medio annuale di crescita dei posti di
lavoro fosse stato mezzo punto di percentuale più alto di quel che è stato per anni, in Europa non ci
sarebbe stata disoccupazione di massa»24.

Un saggio di crescita dell’occupazione più alto di 0,5 punti di percentuale avrebbe creato, in
venti anni, un 10% in più di posti di lavoro rispetto a quelli presenti a fine periodo: sufficienti a
evitare la disoccupazione di massa. A questo risultato si sarebbe giunti se, per esempio, il
tasso di meccanizzazione europeo (Germania, Francia, Regno Unito) dopo il 1974 fosse stato il
2,2% invece che il 2,7% (o se si fosse verificata una distribuzione di quello 0,5% tra le tre
variabili sopra indicate). Negli Stati Uniti, invece, non solo la crescita del prodotto interno è
stata più sostenuta ma, sempre relativamente all’Europa, molto inferiore è stato il tasso di
crescita complessivo del rapporto capitale/lavoro: lì il capitale ha sostituito meno il lavoro
meno che in Europa.
Duménil e Lévy insistono giustamente nel sottolineare che la differenza nella crescita del
rapporto capitale-lavoro spiega la differenza tra Stati Uniti e Europa ma non il salto nel livello
della disoccupazione dagli anni Settanta del secolo scorso: questo è, invece, da rapportarsi al
livello dell’investimento. E quest’ultimo punto va spiegato tenendo presente la condizione di
sovrapproduzione, rispetto alla domanda aggregata mondiale, che comporta tanto una più
accentuata internazionalizzazione del capitale quanto la riproduzione di imponenti squilibri tra i
grandi paesi imperialisti: principalmente tra Stati Uniti come polo importatore (di merci e
capitali) e pilastro della domanda mondiale, da una parte, e la Germania e il Giappone come
poli esportatori, dall’altra.

5. Gli scenari della disoccupazione secondo la Ocse e la International labor


organization.
Nella tabella 4 sono riportate le previsioni della Ocse del novembre 2008 e del marzo 2009
circa i tassi di disoccupazione dei paesi membri: si può notare quanto le prime fossero
ottimistiche. E’ un fatto che i «cervelli» dell’Ocse, ma anche del Fmi, siano arrivati a prevedere
un livello del 10% per i 12 paesi dell’area dell’euro e per gli Usa solo a marzo, quando era già
possibile arrivarci, con un semplice ragionamento, fin dai primissimi mesi della crisi. Ciò, però,
avrebbe implicato spostare l’attenzione dal «salvataggio» delle banche fallite o sull’orlo del
fallimento a una questione che, da molto tempo, non costituisce più una priorità: la
salvaguardia dell’occupazione.

24
Gérard Duménil, Dominique Lévy, Capital resurgent. Roots of the neoliberal revolution, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.), London, 2004, p. 51.
Tabella 4 - Tassi di disoccupazione, Ocse 2008-2010. Confronto tra le previsioni Ocse del novembre
2008 e del marzo 2009.
2007a 2008 2009 2010
Novembre Marzo Novembre Marzo Novembre Marzo
2008 2009 2008 2009 2008 2009
USA 4,6 5,7 5,8 7,3 9,1 7,5 10,3
Giappone 3,9 4,1 4,0 4,4 4,9 4,4 5,6
Germania 8,3 7,4 7,3 8,1 8,9 8,6 11,6
Francia 8,0 7,3 7,4 8,2 9,9 8,7 10,9
Italia 6,2 6,9 6,8 7,8 9,2 8,0 10,7
Canada 6,0 6,1 6,1 7,0 8,8 7,5 10,5
Regno 5,4 5,5 5,7 6,8 7,7 7,2 9,5
Unito
G7 5,4 - 5,8 - 8,2 - 9,6
Ocse 5,6 5,9 6,0 6,9 8,4 7,2 9,9
Area euro 7,4 7,4 7,5 8,6 10,1 9,0 11,7
(12)
Ocse (non 5,5 - 5,6 - 7,8 - 9,4
G7 e non
euro)
Fonti: OECD, Economic outlook n. 84, novembre 2008, tabella 13 - Unemployment rates: commonly used
definitions; OECD, Economic interim projection, marzo 2009, summary of projections.
a: i dati per il 2007 coincidono.

Nell’aggiornamento di maggio del Global employment trends 2009 la Ilo presenta una serie di
scenari, ottimistico, intermedio e pessimistico, per grandi aree, relativamente alla
disoccupazione, ai working poors, ai posti di lavoro più vulnerabili nella crisi. Gli scenari relativi
alla disoccupazione sono riportati nella tabella 5.
Per l’elaborazione degli scenari sono state utilizzate stime dell’elasticità dell’occupazione,
ovvero del modo in cui la disoccupazione varia con il variare del prodotto.
Il primo scenario si basa sulle proiezioni del Fmi circa la crescita del prodotto per il 2009 e
assume come valori dell’elasticità dell’occupazione per ciascun paese quella media nel periodo
1991-2008. Si tratta di uno scenario decisamente ottimistico, anche perché le previsioni sulla
(de-) crescita del prodotto sono molto incerte.

Tabella 5 – Scenari della disoccupazione, Ilo, tassi (%) e valori assoluti (V.A., milioni).
2007 2008 2009
Scenario 1 Scenario 2 Scenario 3
% V. A. % V. A. % V. A. % V. A. % V. A.
Mondo 5,7 180,2 5,9 188,6 6,5 209,6 6,8 219,6 7,4 239
Economie avanzate e U. E. 5,7 29 6,1 30,9 7,7 39,7 7,8 40,3 9,0 46,4
Europa centrale, meridionale, 8,4 14,9 9,0 16 10,8 19,5 10,5 18,8 12,1 21,7
orientale (non Ue) e Csi
Asia orientale 3,9 32,2 4,3 36,2 4,7 39,6 4,6 39,1 5,8 49
Asia sud-orientale e Pacifico 5,4 15,7 5,4 15,8 5,4 16 6,0 18 6,2 18,4
Asia meridionale 5,0 31,8 5,0 32,2 5,0 32,6 5,4 35,7 5,6 37,1
America latina e Caraibi 7,1 19,1 7,2 19,8 8,1 22,6 9,2 25,7 8,4 23,5
Medio oriente 9,5 6,4 9,0 6,3 8,8 6,4 9,3 6,7 11,0 7,9
Nord Africa 10,6 7,4 10,0 7,2 9,8 7,2 10,9 8 11,1 8,1
Africa sub-sahariana 7,7 23,6 7,6 24,2 8,0 26,1 8,4 27,4 8,2 26,9
Fonte: International Labour Office, Global employment trends for women. march 2009 e Global employment trends update, may
2009, di cui ho unito le tabelle B1 e B2, pp. 26, 37.
Lo scenario intermedio si basa sui rapporti tra crescita economica e disoccupazione durante la
peggiore recessione in ciascun paese, applicati alle proiezioni del Fmi per il 2009.
Il terzo scenario è generato ipotizzando che l’aumento della disoccupazione nei paesi avanzati
nel 2009 sia pari al più ampio aumento annuale del tasso di disoccupazione verificatosi in
ciascuno di essi. Per i «paesi in via di sviluppo» è seguito lo stesso metodo, ma dimezzando
l’incremento del tasso di disoccupazione per il 2009, in base all’assunzione che gli effetti della
crisi si manifestino più tardi.
La Ilo ritiene che lo scenario n. 3 possa essere evitato qualora gli interventi dei governi siano
efficaci, con un assestamento della disoccupazione a un livello compreso tra lo scenario
intermedio e quello peggiore.
Nel terzo scenario i disoccupati aumentano su scala mondiale di 59 milioni sul 2007 e di 51 sul
2008, e il tasso di disoccupazione di 1,7 e 1,5 punti di percentuale; gli incrementi maggiori del
tasso di disoccupazione si verificherebbero nei paesi avanzati, nell’Europa centrale e orientale
e nell’Asia orientale.
Ma, in effetti, mi pare che perfino questo terzo scenario sia relativamente ottimistico, in parte
a causa di un’eccessiva aggregazione.
Per i paesi dell’area dell’euro e gli Usa le previsioni Ocse rendono meglio la realtà; si consideri
che il tasso di disoccupazione medio dei paesi dell’Europa occidentale nel 1982 era il 7,8%
(esclusi Lussemburgo, Svizzera e Grecia).
Per l’Europa centrale, meridionale e orientale, un tasso di disoccupazione al 12,1% nel 2009
sarebbe poco superiore a quello medio nel 1998-2001 (11,6%). I tassi di disoccupazione nel
1999 erano 18% in Albania, 14,1% in Bulgaria, 11,9% in Ucraina; nel 2000 18,9% in
Slovacchia, 20,6% in Croazia, 10,8% in Romania, 14,8% in Estonia, 8,4% in Lettonia, 16,6%
in Lituania e 11,4 nella Federazione Russa25. Tra il 2000 e il 2005 il tasso medio della Polonia,
di gran lunga l’economia più ampia degli Stati ex «socialisti» esclusa la Russia, era il 18%.
Il tasso di disoccupazione previsto dalla Ilo nel 2009 per l’Asia sud-orientale è inferiore a quello
del 2004-2005 (6,4%); per l’Asia meridionale è superiore a quello del 2004-2005 solo di 0,3
punti; per l’Africa sub-sahariana è quasi eguale a quello del 2001-2003, mentre nel nord Africa
il tasso superava il 13% nel 1999-2003; in America latina il tasso previsto è inferiore a quello
medio nel 1998-2004 (8,7%)26.

Quel che non mi convince, qualitativamente, è che questa è la prima crisi generale nei paesi a
capitalismo avanzato che ha luogo dopo la formidabile crescita delle esportazioni
manifatturiere dai paesi «emergenti» e il succedersi di grandi ondate di investimenti diretti
dall’estero in quei paesi (flussi niente affatto «globali» in quanto per la maggior parte sono tra

25
Global employment trends 2003, tabella p. 89.
26
Dalla tabella A2. Unemployment rate, world and regions (%), 1998-2008, Global employment trends
update, may 2009, p. 23.
paesi avanzati; i flussi verso i Pvs sono monopolizzati da una dozzina di paesi, in primis la
Cina).
La crisi asiatica del 1997 fu per la regione un colpo durissimo ma temporaneo, perché le
esportazioni furono sostenute dalla crescita della domanda statunitense al culmine della bubble
economy clintoniana, o «keynesismo della borsa», e dalla continuità di quella domanda,
alimentata dall’indebitamento delle famiglie e dalla bolla immobiliare, durante le
amministrazioni di Bush jr. Non a caso, le esportazioni dalla Cina (almeno la metà effettuate
da società miste o estere) hanno assunto una autentica valenza mondiale solo dai primi anni
del nuovo secolo. Ciononostante, nella Corea del sud, in Indonesia e nelle Filippine la
disoccupazione aumentò ininterrottamente nei sette anni dopo la crisi: e, se nelle Filippine il
tasso tornò al livello pre-crisi nel 2005, in Indonesia è al 9%, contro il 4% del 199627 e in
Corea del sud, dopo il massimo del 7% (1998), era ancora al 3,2% nel 2007, contro il 2% del
1996.

Ora, il punto dolente della crisi in corso è che non pare possa ristabilirsi, certamente non in
tempi brevi, lo schema per cui gli Stati Uniti costituiscono il polo trainante della domanda
mondiale; e meno che mai, cosa che getta un ombra sinistra sulle prospettive a medio
termine, i paesi imperialisti europei sono intenzionati ad andare oltre il contenimento degli
effetti più gravi della crisi e ad assumersi l’onere di un rilancio «keynesiano». Il Giappone, poi,
è «fuori gioco» da almeno tre lustri. E l’economia cinese non ha le dimensioni necessarie: le
misure di sostegno della domanda adottate possono servire ad attenuare le contraddizioni
interne di quel gigantesco ibrido sociale, che combina il peggio del «socialismo di Stato»
burocratico e dittatoriale con il peggio del capitalismo nelle «zone» d’esportazione, ma non a
sostenere la domanda mondiale.
Si vedrà se e come da questa crisi emergeranno un nuovo schema dei rapporti
macroeconomici del capitalismo mondiale, una nuova articolazione dei rapporti tra capitale
produttivo e capitale finanziario e un nuovo orientamento della politica sociale e del lavoro.
Nella precedente «nota» ho sottolineato gli ostacoli ad un nuovo New deal e ad una nuova
Bretton Woods. A breve termine la logica del «mercantilismo neoliberista», profondamente
radicata nei rapporti di classe e tra i grandi Stati imperialisti, e infinitamente più potente di
qualsiasi ragionevole proposta di riforma dell’ordine economico mondiale, è un fattore che
prolunga la crisi e che punta nella direzione di elevati e persistenti tassi di disoccupazione, pur
in assenza di una depressione prolungata della produzione come negli anni Trenta. Anche le
prime misure dell’amministrazione Obama, pur più decise e incisive di quelle intraprese nella
vecchia e particolarmente taccagna Europa (si intende che «taccagni», dal loro punto di vista e
per loro buone ragioni, sono i capitalisti europei e le caste politiche di «destra» e di «terza

27
Si veda Özlem Onaran, «From the crisis of distribution to the distribution of the costs of the crisis:
what can we learn from previous crises about the effects of the financial crisis on labor share?», Political
economy research institute. working paper n. 195, marzo 2009, www.peri.umass.edu.
via»), non si spingono, rispetto all’orientamento politico-economico degli ultimi decenni, oltre
una neo-ortodossia da tempo di crisi.
Se il ragionamento precedente è corretto, allora i livelli di disoccupazione nei paesi
«emergenti» dovranno essere più alti di quanto previsto dallo Ilo per il 2009. Già molti paesi
dell’Europa centrale e orientale sono in gravi difficoltà finanziarie; e per gli «emergenti»
dell’Asia, Cina compresa, le prospettive delle esportazioni sono nere e tali da scontrarsi con un
possibile revival di misure protezionistiche e/o di sussidi da parte dei paesi imperialisti. Tutti
negano tale possibilità, ora e ovviamente, ma si vedrà quando la crisi raggiungerà il culmine.
La polemica sulla direttiva buy american nel pacchetto di stimolo statunitense potrebbe
rivelarsi solo un timido inizio.
La casta burocratica cinese concede benevolmente di sapere che il tasso di disoccupazione
urbano nel 2008 era al 4,2%, solo 0,2 punti di percentuale sopra quello dell’anno precedente,
e che il reddito disponibile è aumentato in termini reali dello 8,4% nelle città e dello 8% nelle
campagne28.
In un mare di dettagli non è però dato sapere esattamente quanti siano i disoccupati in Cina.
Giusto per avere un’idea delle dimensioni del problema: posto che nel 2008 gli occupati nelle
città erano 302 milioni, il tasso ufficiale potrebbe significare non meno di 13 milioni di
disoccupati; sul complesso della popolazione attiva, urbana e rurale, di 775 milioni, un
ipotetico tasso di disoccupazione medio del 4% corrisponde a 30 milioni di disoccupati. Ma per
le fonti non ufficiali le stime del tasso di disoccupazione urbano raggiungono il 12%, il che
significherebbe oltre 36 milioni di disoccupati. Occorre considerare, inoltre, che non meno di 20
milioni di lavoratori migranti sono stati licenziati.
Nel 2008 gli investimenti diretti dall’estero in Cina si sono ridotti, ufficialmente, del 27%, in
particolare: -40% nel manifatturiero, -69% nell’immobiliare, -51% nel settore bancario,
mentre le esportazioni di merci, in gran parte prodotte da società miste e multinazionali,
stanno crollando a causa della recessione nei paesi a capitalismo avanzato.
Il miracolo dello «stalinismo di mercato», che combina il peggio di due mondi sociali, sembra
dunque poter svanire, a meno che, in qualche modo, negli anni a venire non venga rilanciato
lo schema macroeconomico mondiale tipico del «mercantilismo neoliberista», nel quale la Cina
rappresenta il polo dell’investimento e gli Stati Uniti quello della domanda29.
I soli sviluppi della crisi cinese sono tali da ridimensionare fortemente i presunti progressi nella
riduzione della quota dei poveri e, quindi, dei working poors su scala mondiale, quali risultano
dalle ottimistiche nuove stime della Banca mondiale. A giugno la Fao stima che gli affamati del
mondo siano aumentati di 100 milioni in un anno, a un totale di oltre un miliardo di persone:

28
Ma Jiantang, National economy: steady and fast growth in 2008, National bureau of statistics of China,
comunicato del 22 gennaio 2009, http://www.stats.gov.cn/english/index.htm.; anche Statistical
communiqué of the people's republic of China on the 2008 national economic and social development, 26
febbraio 2009.
29
Michele Nobile, «Cina: dietro lo sviluppo, lo stalinismo di mercato», intervento per un convegno sulla
Cina organizzato da Red link, Napoli, luglio 2007, inedito.
più della metà si trovano in Asia e nel Pacifico, e 15 milioni nei paesi sviluppati30.

Per farsi un’idea più precisa di quel che potrebbe accadere nella crisi unanimamente
considerata come la più grave dal 1929 (se si fa eccezione da quel che tenta di «vendere» un
imbonitore come Silvio Berlusconi), occorre prendere in considerazione i ritmi di crescita della
disoccupazione nella prima metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. E’ quel che
faccio, limitatamente ai paesi a capitalismo avanzato, nel paragrafo seguente.

6. Stime dell’ordine di grandezza della crescita della disoccupazione nei prossimi


anni, sulla base dell’esperienza storica.

In questo paragrafo mi propongo di definire l’ordine di grandezza che possono raggiungere i


tassi di disoccupazione nei paesi a capitalismo avanzato come effetto della crisi.
Le ipotesi di fondo sono che quella in corso sia la crisi economica più grave del dopoguerra ma
che non raggiunga i livelli della Depressione degli anni Trenta del secolo scorso e che, quindi, il
suo impatto sull’occupazione sia superiore a quello sperimentato nelle recessioni più recenti e
non inferiore a quello delle recessioni del 1974-1975 e dei primi anni Ottanta: allora il tasso di
crescita Pil reale degli Stati Uniti si ridusse, rispettivamente, a -5 e -2 e a -2 nel 1980 e a -1,9
nel 198231. I calcoli, molto semplici, erano già stati svolti nei primi di dicembre 2008, quando
le previsioni Ocse sulla disoccupazione erano piuttosto ottimistiche. Proprio perché chiunque
avesse osservato le curve storiche dei tassi di disoccupazione avrebbe potuto facilmente farsi
un’idea realistica del possibile progredire della disoccupazione, l’ottimismo delle stime fa
pensare a una scelta politica. Sicuramente questo è vero per i governanti, molto più
preoccupati di salvare banche fallite con i soldi dei contribuenti che posti di lavoro.
Il ragionamento che segue si basa su una determinata visione del capitalismo contemporaneo
e un modello qualitativo, ma non su un modello econometrico: è analogico, molto empirico, di
tipo storico, non rientra quindi nei canoni «scientifici» della economics corrente; i calcoli
servono essenzialmente a definire i termini del problema. D’altra parte, per la «scienza
economica» formalistica vale il giudizio di Keynes:

«un grave difetto dei metodi simbolici pseudo-matematici usati per formalizzare un sistema di analisi
economica, è che essi presumono una rigorosa indipendenza fra i fattori considerati e perdono tutta la
loro efficacia ed autorità se questa ipotesi viene abbandonata; laddove, nel linguaggio ordinario, dove
non compiamo manipolazioni alla cieca, ma sappiamo sempre cosa stiamo facendo e quello che le parole
significano, possiamo mantenere “in fondo alla mente” le riserve e le qualificazioni necessarie e gli
aggiustamenti che dovremo compiere in séguito, mentre non possiamo tenere complicati differenziali
parziali “in fondo” a parecchie pagine di algebra che presuppongono che essi scompaiano tutti. Troppa
parte della recente teoria economica “matematica” è pura manipolazione, imprecisa quanto i presupposti

30
Fao, Les victimes de la faim plus nombreuses que jamais, 19 giugno 2009.
31
Erp 2009, tavola B–4.—Percent changes in real gross domestic product, 1959–2008.
iniziali sui quali riposa, che permette all’autore di perdere di vista la complessità e le interdipendenze del
mondo reale in un dédalo di simboli pretenziosi e inutili»32.

Il metodo applicato di seguito è simile a quello su cui si basa il terzo scenario della Ilo,
limitatamente ai soli paesi a capitalismo avanzato, per gruppi (Cee, area dell’euro, G7, Ocse) e
agli Usa, al Giappone, alla Germania e all’Italia.
Nella tabella 6 sono riportati i seguenti dati: sotto MIN il numero di disoccupati nell’anno
precedente l’inizio del periodo di crescita della disoccupazione in valore assoluto, VA, e il
relativo saggio di disoccupazione, per Stati e aree economiche; sotto MAX, il numero massimo
di disoccupati, VA, nell’ultimo anno del periodo di crescita della disoccupazione, con il tasso di
disoccupazione (un anno di riduzione seguito da un anno di crescita del numero dei disoccupati
è stato incluso nel periodo); sotto INCR, l’aumento del numero dei disoccupati tra gli anni di
minimo e di massimo, con l’aumento espresso in percentuale del numero massimo di
disoccupati. Questo valore esprime la forza, nel periodo dato, dell’impulso alla crescita della
disoccupazione.
Riporto poi la durata del periodo di crescita della disoccupazione: sono anni che coprono quelli
di recessione nel tasso di crescita del prodotto, ma non coincidono necessariamente con essi.
In ultimo, INT è il rapporto tra la forza dell’impulso e gli anni in cui ha agito, l’intensità o la
magnitudo con cui si espresso: che per gli Stati Uniti è molto più forte che per l’area dell’euro
e il Giappone.

Si possono distinguere quattro periodi di crescita della disoccupazione: quello della metà degli
anni Settanta; quello della prima metà degli anni Ottanta; quello dei primi anni Novanta;
quello dell’inizio del XXI secolo.
E’ da notare che nei paesi europei la crescita della disoccupazione è un processo più lungo e
meno intenso che negli Usa, ma che tassi alti persistono per anni.
Questione di grande rilevanza sociale e politica non è solo farsi un’idea dei tassi massimi che
possono essere raggiunti durante la crisi, ma del tempo nel quale essi persisteranno anche
oltre la fase recessiva o acuta della crisi. Gli incrementi maggiori della disoccupazione sono
quelli dell’Europa e del Giappone, ma sono distribuiti su più anni, relativamente agli Usa.

32
Keynes, John Maynard, Teoria generale dell'occupazione dell’interesse e della moneta, Utet, Torino,
1978, pp. 465-466.
Tabella 6- Tassi, valori assoluti e variazioni della disoccupazione, paesi a capitalismo avanzato 1973-2005.
MIN MAX INCR DUR INT
VA % VA % VA % anni incr/dur
USA 1973-1975 4,4 4,9 7,9 8,5 3,6 44,9 2 22,5
USA 1979-1983 6,1 5,8 10,7 9,6 4,6 42,8 4 10,7
USA 1989-1992 6,5 5,3 9,6 7,5 3,1 32,2 3 10,7
USA 2000-2003 5,6 4 8,8 6 3,2 36,1 3 12,0

CEE 1973-1986 3,5 2,7 15,7 11,2 12,2 78,0 13 6,0


CEE 1973-1976 3,5 2,7 6,5 5,0 3,0 46,0 3 15,3
CEE 1979-1986 7,5 5,6 15,7 11,2 8,1 51,9 7 7,4
Germania 1973-1976 0,3 1,0 1,1 4,0 0,8 74,5 3 24,8
Germania 1980-1985 0,9 2,6 2,3 7,2 1, 4 61,8 5 12,4
Italia 1974-1977 1,1 5,3 1,5 7,0 0,4 27,5 3 9,2
Italia 1980-1988 1,7 7,5 2,9 9,7 1,2 41,6 8 5,2
Area dell’euro 1990-1994 10,2 8,5 15,1 11,4 4,9 32,5 4 8,1
Area dell’euro 2001-2005 11 7,8 13,1 8,8 2,1 16,0 4 4,0
OCSE 1973-1977 11,3 3,5 18,5 5,5 7,2 38,9 4 9,7
OCSE 1979-1983 17,9 5,2 31,1 8,6 13,2 42,4 4 10,6
OCSE 1990-1993 25,0 5,8 37,3 7,8 12,3 33,0 3 11,0
OCSE 2000-2003 31,7 6,2 37,8 7,1 6,1 16,1 3 5,4
G7 1973-1975 8,7 14,0 5,4 38,3 2 19,2
G7 1979-1983 13,3 23,1 9,8 42,3 4 10,6
G7 1990-1993 17,3 23,1 5,8 25,1 3 8,3
G7 2000-2003 19,3 23,5 4,2 17,9 3 6,0
Giappone 1980-1987 1,1 2,0 1,7 2,8 0,6 34,1 7 4,9
Giappone 1991-2002 1,4 2,1 3,6 5,4 2,2 61,0 11 5,5
Fonti: Labour forces statistics 1966-1988, Paris, Oecd 1990; OECD Factbook 2008; Economic report of the President, 2009. I tassi
di disoccupazione sono quelli standardizzati. Calcoli dell’autore; le cifre nella tabella sono approssimate al primo decimale.

La tabella 7 mostra i tassi di disoccupazione risultanti da diversi incrementi relativamente alle


forze di lavoro e ai disoccupati del 2008, per gli Stati Uniti dai dati di dicembre 2007.

Tabella 7 – Scenari della disoccupazione dal 2009, sulla base dell’esperienza storica. Tassi, incrementi e valori
assoluti, paesi a capitalismo avanzato.
Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione
8% 9% 10% 11%
INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA
VA % VA % VA % VA %
OCSE 12,0 26,1 46,0 17,8 34,3 51,8 25,5 41,0 57,5 29,3 46,3 63,3
totale
- G7 8,1 27,4 29,4 11,7 35,5 33,0 15,4 41,9 36,7 19,1 47,2 40,4
- Altri 4,0 23,8 16,7 6,1 32,3 18,8 8,1 39,1 20,8 10,2 45,0 22,9
Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione
9% 10% 11% 12%
INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA
VA % VA % VA % VA %
Euro area 2,4 17,4 13,8 3,9 25,6 15,3 5,5 32,4 16,7 7,0 38,0 18,4
Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione
8% 9% 10% 11%
INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA
VA % VA % VA % VA %
USA 4,6 37,7 12,3 6,2 44,7 13,9 7,7 50,2 15,4 9,3 54,7 17,0
Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione
5,5 7% 8% 9%
INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA
VA % VA % VA % VA %
Giappone 0,9 24,6 3,6 1,9 40,8 4,6 2,6 48,2 5,3 3,4 57,2 5,9
Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione Tasso disoccupazione
9% 10% 11% 12
INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA INCR INCR VA
VA % VA % VA % VA %
Italia 0,7 26,7 2,3 0,9 34,3 2,5 1,1 40,3 2,8 1,4 45,3 3
Fonti: Economic outlook n. 2, Paris, Oecd 2008; Economic report of the President, 2009; Banca d’Italia, Relazione annuale, maggio
2008, Giappone, Bureau of statistics. Calcoli dell’autore; le cifre nella tabella sono approssimate al primo decimale. VA in milioni.

Calcolato sulle forze di lavoro della metà del 2008, un tasso di disoccupazione medio dello 8%
per i paesi Ocse, 0,4 punti in meno di quanto previsto dall’Ocse per il 2009, corrisponde a 12
milioni di disoccupati in più e ad un totale complessivo di 46 milioni, come nel terzo scenario
della Ilo per il gruppo developed economies. Un incremento percentuale del numero di
disoccupati di poco superiore a quello del 1990-1993 porterebbe il tasso di disoccupazione
Ocse al 9%, 18 milioni di disoccupati in più, per un totale di circa 52 milioni. Si tenga presente
che nel 1992-1995 il numero di disoccupati nella categoria «altri» (smaller countries della
Ocse) aumentò del 39,2%.
Un incremento percentuale del numero di disoccupati di poco inferiore a quello della Ocse e del
G7 nel 1979-1983 porterebbe il tasso di disoccupazione per l’insieme dei paesi membri
dell’organizzazione al 10%, circa 26 milioni di disoccupati in più, ad un totale di circa 57
milioni.
Un incremento percentuale del numero di disoccupati poco superiore a quello degli Usa nel
1973-1975, o equivalente a quello della Cee nel 1973-1976, porterebbe il tasso di
disoccupazione della Ocse all’11%, circa 29 milioni di disoccupati in più, un totale di circa 63
milioni, o 16,6 milioni più del terzo scenario Ilo.
Perché il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro raggiunga l’11%, circa 17 milioni di
disoccupati, è sufficiente un incremento pari a quello del 1990-1994. L’incremento richiesto
perché il numero di disoccupati corrisponda a un tasso del 12% è molto inferiore a quello
verificatosi nel 1973-1976.
L’aumento dei disoccupati negli Stati Uniti è ora già superiore a quelli del 1973-1975 e del
1979-1983; un incremento «reaganiano», dunque, ma con un tasso di disoccupazione
inferiore. Ricordo che a maggio il tasso di disoccupazione era superiore al 12% in quattro Stati
e che in altri nove Stati, tra cui la California, più il District of Columbia, superava il 10%.
Un tasso di disoccupazione federale tra il 10% e l’11% comporterebbe circa 5 milioni di
disoccupati in più rispetto al momento dell’insediamento di Barack Obama, un totale di 16,5
milioni.
Per quel che riguarda il Giappone, la previsione dell’Ocse di un tasso di disoccupazione del
5,6%, di 1-2 decimi superiore a quello del 2002-2003, mi pare molto ottimistica. Se in
Giappone agisce un impulso all’aumento della disoccupazione pari a quello degli altri paesi a
capitalismo avanzato, è più probabile che nei prossimi anni il tasso di disoccupazione si spinga
in quel paese tra il 7% e l’8%.
Ripeto che i calcoli precedenti non hanno alcuna pretesa di precisione «econometrica», che
occorre tener conto delle differenze tra i vari paesi: essi costituiscono un’ipotesi sui livelli
massimi della disoccupazione dal 2008 ad alcuni anni: presumibilmente circa due per gli Usa e
tre-quattro per l’Europa, forse più per il Giappone, con incrementi progressivamente
decrescenti, possibili minime riduzioni del tasso annuale seguite da incrementi.

Ma, se l’analogia con la crisi del 1974-1975 o del 1980-1983 è corretta, allora dobbiamo
attenderci nei prossimi anni un livello medio di disoccupazione nei paesi Ocse intorno al 10-
11%, qualcosa tra i 57 e i 63 milioni di disoccupati, circa 23-30 milioni in più sulle forze di
lavoro del 2008. Io non credo affatto si tratti di una stima eccessiva.
Occorre poi tener conto dell’intervallo di tempo necessario a tornare al livello pre-crisi. Anche
questo richiederà diversi anni e, per la media dei «grandi» paesi europei, questo
significherebbe tornare al livello del 7%, che certamente non può considerarsi di piena
occupazione. Sempre che ciò avvenga: il nuovo minimo potrebbe benissimo essere superiore
al precedente, sia per l’Europa sia per gli Stati Uniti e il Giappone. Il che significherebbe un
allargamento tra il livello di produzione effettivo e il livello della produzione potenziale. Il
fenomeno è quello detto tecnicamente dell’isteresi, che si può cogliere nei grafici che seguono.
Ricordo anche che tassi di disoccupazione del 10% nei maggiori paesi a capitalismo avanzato
non sarebbero affatto una novità: nei sei anni tra il 1993 e il 1998 il tasso medio di
disoccupazione nell’area dell’euro fu il 10,4%, esattamente uguale a quello negli anni tra il
1930 e il 1938 per Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Germania, Olanda,
Norvegia, Svezia, Regno Unito e Usa33.
Si può dunque dire che abbiamo già fatto conoscenza con livelli di disoccupazione da Grande
depressione, proprio nei «ruggenti» anni Novanta, politicamente caratterizzati dalla «terza via»
e dall’interventismo «umanitario», ma senza depressione: qualcosa che segnala la differenza
tra il capitalismo contemporaneo e quello degli anni Trenta.
Questa volta, però, non ci sarà il «keynesismo di borsa» a far respirare l’Europa, il Giappone e
il resto del mondo.

Allegato – Grafici dei tassi di disoccupazione standardizzati di alcuni paesi europei


1969-2009 (Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Irlanda, Grecia, Spagna, Svezia, Belgio,
Paesi Bassi, Portogallo, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Polonia, Ungheria).
Dati Ocse; il dato del 2009 è relativo ad aprile.

33
Angus Maddison, Le forze dello sviluppo capitalistico. Un confronto di lungo periodo, Giuffrè, Milano,
1995, tabella 6.2, pp. 190-191.
0
1
2
3
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5
6
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1969

10
12
11
1971 1969
1973 1971
1975 1973
1977 1975
1979 1977
1981 1979
1983 1981
1985 1983
1987 1985
1989 1987
1989

Fra
1991
1993 1991
1993

Francia - Tassi
German
1995
1997 1995
1999 1997
1999
Germania - Tassi di disoccupaz

2001
2003 2001
2005 2003
2007 2005
2009 2007
2009

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12
11

1971
1969
1974 1971
1973
1977 1975
1980 1977
1979
1983 1981
1983
1986 1985
1989 1987
1989
1992 1991
Ital

1993
1995

Regno Uni
1995
1998 1997
Italia - Tassi di disoccu

1999
2001 2001
Regno Unito - Tassi di disoccupazione,

2004 2003
2005
2007 2007
2009
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20
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16
18
1969
1971 1982
1973 1984
1975
1986
1977
1979 1988
1981 1990
1983
1992
1985
1987 1994
1989 1996
1991

Spag
1998

Irland
1993
1995 2000
1997 2002

Spagna - Tassi di disoccup


1999
2004
2001
Irlanda - Tassi di disoccupazione

2003 2006
2005 2008
2007
2009

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8
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11

11
1969
1983
1972
1985
1975
1987
1978
1989
1981
1991
1984
1993
1987
1995
1990
1997

Svezia
1993
Grecia

1999
1996
2001
1999
Svezia - Tassi di disoccupazione, 19

2003
2002
Grecia - Tassi di disoccupazione, 1983-2009

2005
2005
2007
2008
2009
Belgio - Tassi di disoccupazione, 1 Paesi Bassi - Tassi di disoccupazione,

12
10
11
9
10
9
8
8 7
7 6
6 5
5 4
4 3
3 2
2
1
1
0
0

1969
1972
1975
1978
1981
1984
1987
1990
1993
1996
1999
2002
2005
2008
1970
1973
1976
1979
1982
1985
1988
1991
1994
1997
2000
2003
2006
2009
Belgio Paesi Bas

Portogallo - Tassi di disoccupazi Danimarca - Tassi di disoccupazione, 1

10 10
9 9
8 8
7 7
6 6
5 5
4 4
3 3
2 2
1 1
0 0
1982
1984
1986
1988
1990
1992
1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
2008
1983
1985
1987
1989
1991
1993
1995
1997
1999
2001
2003
2005
2007
2009

Portoga Danimarc
Finlandia - Tassi di disoccupazione, 1 Norvegia - Tassi di disoccupazione, 1

18 7
17
16 6
15
14
13 5
12
11 4
10
9
8 3
7
6
5 2
4
3 1
2
1
0 0
1970
1973
1976
1979

1985
1988
1991
1994
1997
2000
2003
2006
2009

1972
1975
1978
1981
1984
1987
1990
1993
1996
1999
2002
2005
2008
Finlandi Norvegi

Polonia - Tassi di disoccupazione, 1 Ungheria - Tassi d


disoccupazione,

22 13
20 12
18 11
16 10
14 9
8
12
7
10 6
8 5
6 4
4 3
1993

1995

1997

1999
2001
2003

2005

2007

2009

2
1992

1994

1996

1998

2000

2002

2004

2006

2008

Polonia Ungheria

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