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UNA PIA ILLUSIONE: LA CRISI ECONOMICA COME CATARSI POLITICA.

NOTA 3 SULLA CRISI. Giugno 2009.

di Michele Nobile

Indice
1. Stato e mercato, finanza e capitale produttivo.
2. Uno schema macroeconomico degli squilibri mondiali.
3. Le previsioni di crescita per i prossimi anni.
4. Un’epoca di sovrapproduzione a partire dalla fine degli anni Sessanta e il mercantilismo neoliberista.
5. Ostacoli a un nuovo New deal. La crisi non è abbastanza grave.
6. Ostacoli a una nuova Bretton Woods: non esiste uno Stato mondiale.
7. Ostacoli a un nuovo New deal. La burocrazia sindacale e la crisi come opportunità di attacco ai
lavoratori.
8. L’inconsistenza dell’idea della fine della centralità del dollaro e degli Usa.
9. Perché la crisi è occasione per un nuovo attacco ai lavoratori? L’inconsistenza della tesi
sottoconsumista.
Tabelle e grafici.
Diagramma – Lo schema macroeconomico degli squilibri mondiali.
Grafico 1- Saldi finanziari del settore privato, saldi delle partite correnti, deficit pubblico, in % del Pil, Usa
1970-2006.
Grafico 2 - Saldi finanziari del settore famiglie Usa, 1955-2006.
Tabella 1 – Tassi di crescita del prodotto, 2008-2010. Confronto tra diverse previsioni, Fmi, Ocse.
Grafico 3 - Investimento reale, tassi di crescita, USA 1948-2008.
Grafico 4 – Tassi di profitto netti del settore manifatturiero, USA, Giappone, Germania, 1949-2001.
Tabella 2 - Quota del profitto nel settore privato, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Usa, 1960-2002.
Grafico 5 – Tassi di crescita del Pil, reali, 1971-2008.
Grafico 6 – Tassi di disoccupazione standardizzati, Usa, Giappone, Germania, Francia, Italia, Regno Unito,
Spagna, Svezia. 1969-2007.

1. Stato e mercato, finanza e capitale produttivo.


La crisi attuale è spesso caratterizzata, non solo da studiosi eterodossi o sulla stampa di
sinistra, come il fallimento di fatto del «modello anglo-sassone» di capitalismo e del
«neoliberismo»1.
Alla base di tale caratterizzazione è la nozione che la crisi sia essenzialmente conseguenza di
della deregulation del settore finanziario e di un regime monetario internazionale dis-ordinato,
caotico, in preda a flussi speculativi a breve termine. I bassi tassi di crescita del prodotto
interno, gli alti tassi di disoccupazione, la crescita dell’ineguaglianza nella distribuzione del
reddito, l’attacco alle «garanzie» dei lavoratori e ai diritti socio-economici dei cittadini
risulterebbero essenzialmente dall’egemonia della finanza» sull’economia «reale» e sul primato
del mercato sulla regolazione statale.
A fronte dell’autonomizzarsi del «mercato», in particolare degli istituti e dei mercati finanziari,
dai controlli e dalla regolazione politica, l’alternativa al «neoliberismo» verte quindi sulla linea
opposta: reincorporare il «mercato», in particolare il settore finanziario, nell’economia «reale»,
rafforzare i controlli statali e la regolazione pubblica. La prospettiva di fondo è quella di un
nuovo New deal o di una nuova conferenza di Bretton Woods: su questo tema sono ammesse

1
Rimando anche a Michele Nobile, «La crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama. Nota 1
sulla crisi», 8 marzo 2009, pubblicata nei Quaderni del Craet n. 9, marzo 2009, in rete nel sito
www.craet.it.

1
molte variazioni circa le forze sociali protagoniste del cambiamento, le forme politiche dello
stesso, il contenuto sociale e ecologico di un nuovo orientamento.
Non ci sono dubbi sul fatto che negli ultimi trenta anni l’instabilità finanziaria sia stata
notevole, che il settore finanza-assicurazioni-immobiliare abbia goduto di una posizione
cruciale, che la rendita finanziaria sia crescita in modo considerevole rispetto ai profitti del
settore non-finanziario, che alti livelli di disoccupazione, di precarizzazione e di sottoimpiego
del lavoro abbia contribuito alla stagnazione della domanda aggregata.
L’interpretazione centrata sulla finanziarizzazione dell’economia e sulla prospettiva della ri-
regolazione presenta però diversi problemi.
Innanzitutto, ad aver fatto «fallimento» non è solo il «modello anglo-sassone» ma anche il
«modello tedesco» o, più precisamente, l’orientamento politico-economico tedesco, mentre
persistono le differenze cristallizzate dalla storia tra i diversi capitalismi europei e
l’ineguaglianza dei loro livelli di sviluppo, competitività ecc. La linea della Bundesbank tedesca
è stata estesa a tutta l’Europa nel processo di unificazione monetaria, nella prassi della Banca
centrale europea (Bce) e dei governi: contenimento della domanda e del costo del lavoro, tagli
della spesa sociale, riduzione del disavanzo pubblico, l’inflazione come nemico pubblico numero
uno. Il tutto conseguente da una moderna linea «mercantilista il cui obiettivo è la competitività
internazionale, a costo di livelli alti e persistenti di disoccupazione. Il risultato è la stagnazione
continentale. Questo orientamento di fondo delle autorità monetarie e politiche tedesche
precedette l’avvento del cosiddetto «neoliberismo» con le vittorie elettorali della Thatcher e di
Reagan.
In secondo luogo, la crisi non è solo il fallimento del «neoliberismo». E’ anche il fallimento di
fatto della politica della «terza via», l’ennesima in un secolo, che segna il punto d’approdo
finale, in termini di degenerazione ideale, programmatica, etico-politica, ma non
necessariamente elettorale e organizzativa, grazie all’integrazione nello Stato, ai finanziamenti
statali, alla spettacolarizzazione della politica, degli apparati partitici e sindacali della sinistra
europea. I risultati delle elezioni europee del 2009 testimoniano lo sbandamento di questa
sinistra e la sua mancanza di credibilità a fronte della «destra»: il che è comprensibile se si
considera che, in effetti, la cosiddetta «terza via» non è che una delle forme dell’orientamento
complessivamente dominante.
Le presidenze reaganiane furono una controffensiva di classe e imperialistica totale. Il
cosiddetto «shock monetarista», a partire dal novembre 1978, determinò l’esplosione della
crisi del debito internazionale dei «paesi in via di sviluppo» e di diversi paesi sedicenti
«socialisti», e precipitò la più grave recessione del dopo guerra (fino ad allora). Quella crisi
approfondì lo spostamento dei rapporti di forza tra le classi a favore dei capitalisti, già
realizzato dai governi di «sinistra» o con il concorso dei partiti di «sinistra» negli anni
precedenti e restituì agli Stati Uniti la leadership mondiale tra gli Stati dominanti. Negli anni
Ottanta la sinistra governativa europea subì, in diversi paesi, sconfitte e arretramenti

2
elettorali. Ma nei suoi centri di direzione essa non subì quel che si evoca con il «neoliberismo»
come qualcosa di alieno.
Infatti, già nelle politiche economiche degli anni Settanta dei governi laburista nel Regno Unito,
socialdemocratico in Germania e di «unità nazionale» con il sostegno del Pci in Italia si possono
identificare aspetti centrali di quel che sarà poi detto il «neoliberismo». Negli Stati Uniti fu il
democratico Jimmy Carter, non il repubblicano Ronald Reagan a porre Paul Volcker, il
principale responsabile «shock monetarista», alla testa della Federal reserve nell’agosto 1978.
Ora Volcker è consigliere economico di Obama e da quella storica svolta nei rapporti tra le
classi non siamo ancora usciti. E’ sulla base dei disastri politici e sociali di quei governi più o
meno di «sinistra» che la «destra» poté ottenere i suoi successi elettorali.
Se non si tiene conto dei precedenti citati non si potranno definire le ragioni di fondo del
percorso che ha portato alla definizione della fumosa «terza via» del capitalismo
compassionevole e competitivo e del perché anche la «sinistra» sia stata protagonista attiva
nella formulazione di politiche di attacco ai diritti socio-economici, differenziandosi dalla
«destra» essenzialmente per il concorso delle organizzazioni sindacali e per la capacità di
cooptazione di partiti «verdi» o «rossi». Sul piano europeo questo ha trovato espressione nel
cosiddetto «dialogo sociale», sia bilaterale tra organizzazioni sindacali e imprenditoriali (con la
bellezza di 33 comitati settoriali), sia a tre, con le istituzioni comunitarie. Sostenere che
l’involuzione della sinistra di governo sia effetto di una deriva «culturale», più o meno
conseguente a cambiamenti sociologici e della «composizione di classe», presuppone che
questa stesa «sinistra» possa rigenerarsi, almeno in parte ed essere, nonostante tutto, una
sponda «amica» per i movimenti sociali.
In terzo luogo, il cosiddetto «neoliberismo» nelle sue versioni di destra e di sinistra non ha
favorito solo la rendita finanziaria del capitale monetario. Il capitale produttivo ha usufruito
dell’arretramento generale del potere contrattuale dei salariati, avendo sempre più mano libera
nello sfruttamento del lavoro, nell’intensificazione dell’estrazione di plusvalore, sia relativo,
attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa sia, assoluto, mediante l’intensificazione
dei ritmi, l’allungamento del tempo e della vita di lavoro, la compressione salariale.
L’apertura e la liberalizzazione dei sistemi finanziari non ha avuto come conseguenza solo
l’intensificarsi dei movimenti di capitale a breve termine, di portafoglio e di natura speculativa:
ha anche agevolato l’investimento diretto delle società multinazionali (Ide) e
l’internazionalizzazione del capitale produttivo e commerciale. Il ritmo e le dimensioni degli
investimenti diretti (ma non la loro dispersione geografica) sono aumentati, in particolare negli
ultimi quindici anni, per quattro ragioni principali.
La prima, ma non la più importante, è che, poiché le politiche relative agli Ide sono state
liberalizzate, ma non esiste un mercato «globale» del lavoro, l’organizzazione internazionale
del processo di lavoro permette di sfruttare i differenziali salariali e normativi dei diversi
mercati del lavoro nazionali.
La seconda e più importante ragione della crescita degli Ide è la penetrazione dei mercati

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nazionali e regionali, in particolare dei paesi a capitalismo avanzato. La regionalizzazione della
produzione in funzione delle vendite è strategia più innovativa della parcellizzazione
internazionale della produzione e della delocalizzazione in funzione della riduzione dei costi.
La terza, è costituita dai processi di concentrazione mediante fusioni e acquisizioni e gli accordi
di collaborazione tecnologica.
La quarta è data dai processi di privatizzazione di imprese e servizi pubblici. Il grande boom
dell’investimento diretto della seconda metà degli anni Novanta fu caratterizzato da un ondata
senza precedenti di fusioni e acquisizioni piuttosto che dalla costruzione di nuovi impianti e
strutture, in gran parte nel settore dei servizi, e realizzate attraverso lo scambio di azioni.
Furono indispensabili la collaborazione tra capitale produttivo e monetario (che guadagnò da
commissioni e consulenze) e la combinazione di processi di privatizzazione, di revisione della
normativa sugli investimenti e di liberalizzazione finanziaria2.
In tutti questi processi il settore finanziario non ha una funzione meramente «parassitaria» ma
di sostegno al capitale produttivo. Ovviamente non ci sono solo vincitori e non mancano le
contraddizioni, Ma quella che può apparire superficialmente come «egemonia della finanza» è
piuttosto «egemonia» del capitale sociale sui lavoratori.
In quarto luogo, bisogna chiarirsi sul «fallimento». Se con ciò si intende dire che si è chiusa
un’epoca, allora credo che si rimarrà delusi. Il problema di fondo dell’economia mondiale
capitalistica non è costituito solo dall’evoluzione (o involuzione) delle politiche ma anche, e più,
dall’evoluzione che la sua struttura ha avuto nel corso dei decenni dopo la Seconda guerra
mondiale. C’è una bidirezionalità tra il ri-orientamento delle politiche economiche e sociali nel
corso degli anni Ottanta e Novanta e le trasformazioni dell’economia mondiale, ma le forze che
agiscono nell’interazione non sono di eguale potenza: la storia delle prime può, in questa
prospettiva, essere interpretata come un adattamento alla storia delle seconde. Intendere la
crisi come crisi del «neoliberismo» e della deregulation significa prendere per buona l’auto-
rappresentazione spettacolare, che si vuole «globale» e ispirata alla «libertà» dei rapporti
contrattuali di mercato in opposizione al comando e alla gerarchia statuali, che è propria della
classe dominante e dei suoi apologeti.
In quinto luogo, strettamente connesso al precedente, la trasformazione strutturale
dell’economia mondiale di questi decenni, che non è riconducibile ad una sua globalizzazione»,
costituisce un ostacolo potente a un nuovo New deal (peraltro mitizzato). Come l’economia
mondiale non è cambiata per mera volontà politica, ma in forza delle sue contraddizioni
intrinseche, allo stesso modo non è sufficiente la volontà politica (ammesso, e non concesso,
che esista) per trasformare l’economia mondiale.
Le misure d’emergenza dei governi a sostegno delle imprese, i salvataggi e le revisioni delle
normative e della supervisione del settore finanziario non possono modificare la struttura

2
Per l’analisi e i dati si vedano, in particolare, World Investment Report 2000. Cross-border mergers and
acquisitions and development, e World Investment Report 2002. Transnational corporations and export
competitiveness, e World investment report 2004. The shift towards services, United Nations, pubblicati
dalla United Nations conference on trade and development (Unctad).

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dell’economia mondiale, né si muovono nella direzione di un’articolazione tra Stato e spazi
economici nazionali e internazionali paragonabile a quanto emerso dai disastri della
depressione degli anni Trenta e dalla catastrofe della guerra mondiale.
In sesto luogo, «più Stato e meno mercato» non significa affatto meno mercificazione. Non
significa neanche che l’economia mondiale capitalistica sia per questo meno ineguale o
dominata da Stati imperialisti. Durante la guerra del Vietnam gli Stati Uniti non erano
«neliberisti»: al contrario, l’intervento militare diretto ebbe inizio sotto la presidenza
kennediana, la prima che possa dirsi soggettivamente «keynesiana». E nel «1968» non ci si
batteva contro uno Stato «neoliberista» ma contro uno Stato interventista, che con la sua
burocrazia appariva colonizzare autoritariamente la vita sociale piuttosto che ritirarsi per far
spazio al «mercato», e nello stesso tempo contro la pseudo libertà del «consumismo». Una ri-
regolazione della finanza e dei «mercati globali» non può che porre su nuove basi il processo
mondiale di estensione del mercato e della mercificazione.
L’ultima osservazione presuppone, teoricamente, la critica della politica economica dello Stato
capitalista in ogni sua forma; politicamente è un richiamo a sostenere l’autonomia politica dei
movimenti sociali a fronte dello Stato e dei partiti che ne sono apparati di mediazione.
Il sesto punto indica la prospettiva da cui è scritto questo intervento, che è dedicato allo
sviluppo dei primi quattro.

2. Uno schema macroeconomico degli squilibri mondiali.


Il diagramma sintetizza le relazioni macroeconomiche e politico-economiche degli ultimi
decenni tra Europa (leggi, in particolare, Germania), Giappone e Usa, il cuore dell’economia
mondiale capitalistica e, nella sua parte inferiore, il contributo alla dinamica complessiva dei
paesi «in via di sviluppo» e di nuova industrializzazione (asiatici, in particolare, tra cui la Cina).
Poiché una coerente interpretazione dell’epoca deve poter spiegare tutte le fasi del ciclo, ho
isolato le linee causali che presiedono all’espansione e alla contrazione dell’attività economica
segnandole, rispettivamente, in rosso e in blu3.

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Alla base del diagramma è l’analisi di Robert Brenner, The economics of global turbulence. The
advanced capitalist economies from long boom to long downturn, 1945-2005, Verso, London e New York,
2006, aggiornamento di quanto già pubblicato in un numero monografico della New left review nel 1998,
e The boom and the bubble. The US in the world economy, Verso, 2002. Il libro di Brenner è il più
importante pubblicato da tre decenni a questa parte sull’interpretazione del capitalismo contemporaneo,
sicuramente in ambito marxista e, forse, non solo in esso. Non rischio di esagerare, giacché questo è
riconosciuto anche da diversi critici di Brenner, per almeno tre ragioni che, caso unico, si danno tutte
insieme: a) l’arco temporale coperto, dal primo dopo guerra al XXI secolo; b) l’analisi simultanea della
dinamica delle tre maggiori potenze capitalistiche; c) l’ampiezza della documentazione statistica. A
prescindere da valutazioni di merito, i libri che gli si possono accostare sono solo il Il capitale
monopolistico di Baran e Sweezy (1966), Late capitalism di Ernest Mandel (prima ed. tedesca 1972) e
Régulation et crises du capitalism, di Michel Aglietta (1976). Il primo e il terzo sono però centrati solo
sugli Usa; il secondo è essenzialmente teorico e argomentato in termini di valore, mentre il testo di
Brenner è essenzialmente storiografico e basato su prezzi: due approcci, però, che dovrebbero essere
visti come da integrare, non da contrapporre. E malgrado le grandi differenze, Mandel e Brenner hanno in
comune due punti importantissimi, che li distingue dagli altri: la visione del capitalismo come economia
mondiale caratterizzata dallo sviluppo ineguale e combinato, cosa ben diversa dalla «globalizzazione»; e
le implicazioni per la lotta anticapitalistica nei paesi a capitalismo avanzato, cosa diversa dal

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Diagramma – Lo schema macroeconomico degli squilibri mondiali.
Relativa convergenza della
produttività e della
competitività tra i paesi Mercantilismo neoliberista Neocorporativismo Attacco ai diritti
a capitalismo avanzato socio-economici
(Riduzione dei tassi di crescita)
Sovrapproduzione Concorrenza Riduzione Riduzione Disoccupazione alta e persistente
«fratricida» dei tassi di profitto dell’investimento (Europa)

Crescita della quota Crescita «flessibilizzazione» Riduzione Contenimento della


del FIRE FDI del lavoro della produttività domanda interna
share-holder value (entrata-uscita) (Europa, Giappone)
Riduzione del salario reale
Esportazioni scambi intra-regionali
Aumento della quota dei (Europa, Giappone)
redditi da capitale

Disavanzo pubblico (USA) Attivo commerciale


Espansione del credito (USA) (Europa, Giappone )

Crisi del sistema Bolle speculative Espansione domanda interna USA Deficit
monetario internazionale (collateralizzazione) sostenuta dall’indebitamento commerciale (USA)
(crisi 1973-75) e fondi esteri (domanda per esportatori)
Innovazione finanziaria (domanda mondiale)
riregolazione Rivalutazione
Aumento dei tassi di Posizioni Ponzi ESPANSIONE del cambio degli
Interesse esportatori
(crisi 1980-82) Aumento dei tassi
Caduta collaterale Contrazione Contrazione delle
Insolvenza della domanda esportazioni
USA
Instabilità finanziaria
Crisi del debito estero Crescita incertezza
(PVS, «socialisti») restrizione credito CRISI

programmi di aggiustamento Apertura dei sistemi Flussi e deflussi di


Fmi-Bm (SAL) finanziari capitale speculativo
entrata FDI
Crescita Concorrenza deterioramento saldo Politiche
export-led (Pvs) dei e tra PVS commerciale restrittive
Perpetua lo scambio ineguale con i paesi avanzati

Legenda: FIRE: settore che comprende finanza, assicurazioni, immobiliare; FDI: investimenti diretti all’estero (in uscita) e
dall’estero (in entrata), volti a costruire nuove imprese produttrici di beni e di servizi o all’acquisizione di imprese già esistenti. Le
linee nere a sinistra sono tratteggiate perché indicano nessi causali tra eventi storici; ma alti tassi di interesse e il peso del debito e del
servizio del debito sono fenomeni che attraversano l’intero periodo. La riduzione dei tassi di profitto nella riga in alto va riferita
innanzitutto al settore manifatturiero, più esposto alla concorrenza internazionale.
Per posizioni Ponzi si intendono quelle posizioni di imprese e famiglie nelle quali i flussi di reddito non correnti non sono sufficienti
a ripagare debito e interessi; il concetto di «concorrenza fratricida» è ripreso da James Crotty, «Rethinking marxian investment
theory: Keynes-Minsky instability, competitive regime shifts and coerced investment», in Review of radical political economics, n.
25, 1993.

Nel diagramma sia le fasi di espansione che quelle di contrazione dell’economia mondiale sono
una funzione dello stato della domanda interna statunitense.

terzomondismo vecchio e nuovo (specie in formato Ong) o dalla formulazione di politiche economiche
«alternative». Da notare che questi testi, che nel resto del mondo sono considerati punti di riferimento
fondamentali nella discussione sul capitalismo contemporaneo, non sono stati tradotti in italiano e, di
fatto, sono estranei alla cultura politica dei militanti della sinistra italiana, governista o antagonista che
sia. In effetti, in una sinistra che da quasi mezzo secolo è intellettualmente e politicamente diseducata da
versioni e mutazioni dell’ingraismo e dell’«operaismo» negriano, con marcate simpatie togliattiane e
perfino staliniane, questi libri non hanno mercato, né economico né politico, a dispetto delle «svolte
epocali» e delle pretese di rinnovamento.

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La domanda interna Usa costituisce a sua volta domanda estera per paesi e aree esportatrici:
Giappone, Europa, Cina. Nello schema il settore Fire (finance, insurance, real estate),
l’espansione del credito e i flussi di capitale speculativo a breve termine giocano un ruolo
fondamentale tanto per l’espansione ciclica che per la riduzione del tasso d’investimento e
l’instabilità finanziaria.
Oltre al disavanzo del governo federale, per la crescita della domanda statunitense è decisiva
la creazione di moneta di credito (a cui corrisponde un debito) da parte del settore finanziario
privato. La revisione della regolazione del settore ha promosso la tendenza endogena del
settore all’innovazione di processo (della prassi, dei criteri di erogazione del credito, la
desegmentazione dei vari comparti, la formazione di un sistema «ombra») e di prodotto.
L’espansione del credito e la formazione di bolle speculative sono a loro volta indissolubili dalla
politica monetaria della Federal reserve (Fed, la banca «centrale» Usa).
Il ruolo crescente dell’indebitamento del settore privato (imprese e famiglie) era già emergente
negli anni Settanta. Negli anni Ottanta esplose il deficit pubblico mentre l’indebitamento del
settore privato nel suo insieme ebbe fluttuazioni cicliche molto ampie e il deficit delle partite
correnti raggiunse livelli senza precedenti a metà decennio. Negli anni Novanta, mentre
l’amministrazione Clinton contraeva la spesa pubblica e «modernizzava» ulteriormente la
regolamentazione del settore finanziario, fu la crescita dell’indebitamento del settore privato
nel suo insieme a sostenere la domanda aggregata Usa e, quindi, la domanda mondiale. Ma a
partire dal 1992 e fino alla crisi in corso l’indebitamento delle famiglie è cresciuto
costantemente (grafici 1 e 2; le curve dopo il 2006 sono proiezioni).

Grafico 1- Saldi finanziari del settore privato, saldi delle


partite correnti, deficit pubblico, in % del Pil, Usa 1970-2006.

Deficit pubblico

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Fonte: Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou, Gennaro Zezza,


«The U. S. economy: what’s next?», Levy economics institute,
Strategic analysis, aprile 2007.
Saldi finanziari del settore privato
Saldi delle partite correnti
Deficit pubblico

7
Grafico 2 - Saldi finanziari del settore famiglie Usa, 1955-2006.

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Fonte: Robert Parentau, «U.S. household deficit spending. A rendez vous


with reality», Levy economics institute,, Public policy brief n. 88, 2006.

I circuiti ciclici dell’espansione e della contrazione del diagramma non si discostano dalla tesi
prevalente circa la funzione dell’insieme di fenomeni indicati come «finanziarizzazione»
dell’economia, associati all’egemonia del capitale monetario e a un orientamento a breve
termine anche delle società per azioni del capitale produttivo, che privilegiano i rendimenti
finanziari e gli azionisti (share-holder value) rispetto all’investimento tradizionale.
L’interpretazione rappresentata dal diagramma si discosta da quelle prevalenti a sinistra per la
posizione determinante attribuita al successo dell’«inseguimento» della Germania e del
Giappone (in particolare, tra i paesi a capitalismo avanzato) nei confronti degli Stati Uniti,
manifesto nella riduzione progressiva dei divari nei livelli di produttività e di competitività delle
esportazioni di prodotti industriali. Le frecce tratteggiate indicano il nesso causale che va da
questo processo alla fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods e alla crisi
degli anni Settanta. E’ implicito in questa interpretazione che né la crisi degli anni Settanta né
il periodo storico successivo possano spiegarsi per motivi essenzialmente politici e istituzionali,
come crisi di un «modo di regolazione» e avvento di un diverso indirizzo politico
«neoliberista»4.

4
Il punto è molto delicato, e mi propongo di trattarlo in una nota successiva. Qui posso solo dire che, a
certe condizioni, che non sono solo nazionali ma internazionali (rilevanti, ad es., il «contenimento del
comunismo» e le guerre d’Indocina per la storia del Giappone, Taiwan, Corea del Sud e «tigrotti»), le
politiche statali possono essere decisive nel disciplinare l’orientamento del capitale produttivo e
monetario e nella promozione dello sviluppo capitalistico. Ma il punto fondamentale è che una spiegazione
centrata sulla «regolazione» pone in secondo piano le contraddizioni intrinseche alla riproduzione
allargata del capitale, sempre operanti, anche nel successo. Quel che ne risulta non è una spiegazione
unitaria dei processi economici e politici ma la riduzione dell’evoluzione storica dell’accumulazione ai
momenti di svolta della regolazione, spesso combinata alla riduzione della dinamica complessiva del
rapporto sociale capitalistico a quella delle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro. Sicché al
riduzionismo «istituzionalista» si affianca un riduzionismo «operaistico» che, in fondo, non è che una
rielaborazione di sinistra del determinismo tecnologico.
La critica più approfondita e completa di mia conoscenza all’approccio «regolazionista» è quella di Robert
Brenner e di Mark Glick, «The regulation approach: theory and history», in New left review n. I/188,
luglio-agosto 1991; e il citato Turbulence dello stesso Brenner è, di fatto, anche una confutazione del
regolazionismo. Quel che vale per la «scuola della regolazione», a cui si deve la costruzione scientifica dei
concetti di regime di accumulazione e di modo di regolazione «fordisti» e i cui lavori sono tra i migliori
prodotti nella ricerca teorica ed empirica eterodossa, vale a maggior ragione per le chiacchere politico-
giornalistiche, pseudo filosofiche e pseudo sociologiche, su fordismo e post-fordismo, homo faber e

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Un’espansione del gruppo esportazioni-scambi regionali mostrerebbe come la generalizzazione
dell’orientamento modernamente mercantilistico della Germania, incarnato dalla politica della
Banca centrale europea e dai criteri di Maastricht, abbia avuto un effetto depressivo sulla
domanda interna europea, oltre che tedesca, a tutto vantaggio, però, delle esportazioni
tedesche; mostrerebbe, anche, la regionalizzazione dei flussi dell’investimento diretto, sia in
Europa sia nell’area asiatica, tra Giappone, paesi Asean e Cina. In modo analogo potrebbero
espandersi altri gruppi di variabili, in particolare quello comprendente crescita del settore Fire,
bolle speculative, riduzione della quota dei profitti del settore manifatturiero destinata
all’investimento, a favore dei dividendi e del riacquisto di azioni.

3. Le previsioni di crescita per i prossimi anni.


Da questo schema si possono trarre tre considerazioni per il futuro.
La prima è che se il «disaccoppiamento» della crescita economica delle altre aree dalla
locomotiva nord americana nel primo decennio del nuovo secolo si è rivelato un sogno, allora
la formazione di uno schema macroeconomico mondiale diverso da quello prevalente da tre
decenni richiederà, nel migliore dei casi, un «aggiustamento» lungo e, per i lavoratori,
doloroso; né, del resto, pare che emerga un orientamento politico-economico che sia
alternativo, piuttosto che meramente terapeutico, rispetto a quello da lungo tempo prevalente.
La tabella 1 mette a confronto le previsioni del Fmi tra luglio 2008 e marzo 2009, insieme alle
ultime della Ocse, circa la crescita del prodotto.
Tabella 1 – Tassi di crescita del prodotto, 2008-2010. Confronto tra diverse previsioni, Fmi, Ocse.
FMI FMI FMI FMI FMI Ocse
7-2008 10-2008 11-2008 1-2009 3-2009 3-2009
2008 2009 2008 2009 2008 2009 2008 2009 2010 2008 2009 2010 2009 2010
Globale 4,1 3,9 3,9 3,0 3,7 2,2 3,4 0,5 3,0 3,2 -1,0 1,5 -4 0,0
-0,5 2,5
Avanzati 1,7 1,4 1,5 0,5 1,8 -0,3 0,8 -3,5 0,0 -4,1 -0,3
-3,0 0,5
Usa 1,3 0,8 1,6 0,1 1,5 -0,7 1,1 -1,6 1,6 1,1 -2,6 0,2 -5,3 -0,2
Area euro 1,7 1,2 1,3 0,2 1,2 -0,5 1,0 -2,0 0,2 0,9 -3,2 0,1 -4,3 -0,4
Germania 2,0 1,0 1,8 - 1,7 -0,8 1,3 -2,5 0,1 -6,6 -0,5
Italia 0,5 0,5 -0,1 -0,2 -0,2 -0,6 -0,6 -2,1 -0,1 -4,4 -0,1
Giappone 1,5 1,5 0,7 0,5 0,5 -0,2 -0,3 -2,6 -0,1 -0,7 -5,8 -0,2
G-7 0,8 -2,0 0,2
Emergenti 6,9 6,7 6,9 6,1 6,6 5,1 6,1 1,5 3,5
e pvs 2,5 4,5
Africa 6,4 6,4 5,9 6,0 5,2 4,7 3,2 -1,0 1,5 -5,6 0,7
-0,5 2,5
Europa 4,6 4,5 4,5 3,4 4,2 2,5 0,8-3,5 0,0 -0,3 3,8
centr. or. -3,0 0,5
Russia 7,7 7,3 7,0 5,5 6,8 3,5 6,2 -0,7 1,3 1,1-2,6 0,2 6,3 8,5
Brasile 4,9 4,0 5,2 3,5 5,2 3,0 5,8 1,8 3,5 0,9-3,2 0,1
Cina 9,7 9,8 9,7 9,3 9,7 8,5 9,0 6,7 8,0
Fonti: World Economic Outlook Update 17 luglio 2008; World Economic Outlook, ottobre 2008, table A1 - Summary of World
Output; World Economic Outlook Update, 6 novembre 2008; Nota dello staff del FMI per la riunione del G-20, Londra 13-14
marzo 2009: OECD, Economic outlook, interim report, marzo 2009, summary of projections.

«uomo flessibile», Impero e moltitudini ecc.. Tra le due cose c’è un abisso culturale. Per inciso: proprio in
forza del suo originale istituzionalismo, il punto di vista della scuola della regolazione è essenzialmente
nazionale: nel libro sugli Stati Uniti di Michel Aglietta, «padre» teorico della scuola, è esplicitamente
esclusa l’analisi del capitalismo Usa come imperialismo.

9
Il ridimensionamento delle aspettative è clamoroso: per il prodotto mondiale nel 2009 si passa
dal +4,1% di luglio 2008 a una forchetta tra il -1% e il -0,5%. La cosiddetta «ripresa» prevista
per il 2010 consisterebbe in una crescita zero. Tra i paesi del G7 l’Ocse prevede le cadute più
forti del prodotto nel 2009 proprio nei grandi esportatori, la Germania e il Giappone, e il
dimezzamento della crescita della Cina rispetto al 2007.

Quel che conta veramente non è la fiducia dei consumatori, ma dei capitalisti che, investendo,
creano occupazione e reddito. Ma la fiducia di questi ultimi è legata all’aspettativa che
l’investimento renda un profitto. Nel primo quadrimestre del 2009 l’investimento privato reale
negli Stati Uniti è complessivamente diminuito del 51,8%, quello fisso non residenziale del
37,9% e quello residenziale del 36%; i valori corrispondenti per l’ultimo quarto del 2008 erano
-23%, -21,7% e -22,8%. Il crollo dell’investimento è quasi interamente responsabile della
«decrescita» complessiva del Pil (-8,8 punti) seguito a distanza da spese e investimenti
pubblici (-0,81), mentre i consumi e il saldo della bilancia commerciale contribuiscono
positivamente (rispettivamente con 1,5 e 1,99 punti)5.
Nel grafico 2, che mostra l’andamento dell’investimento privato negli Stati Uniti tra il 1948 e il
2008, si evidenzia come esso sia la variabile che oscilla in modo più ampio e violento: le curve
possono essere continuate mentalmente con i dati più aggiornati. Gli anni tra il 2007 e il 2009
sono già i peggiori del dopo guerra e, per le ragioni esposte più avanti, una ripresa sostenuta è
improbabile. Se si considerano solo i tassi di crescita del Pil, allora la recessione potrà, forse,
essere dichiarata conclusa in qualche punto del 2010: ma perfino le previsioni Ocse e Fmi per il
2010 non superano lo 0,5% di crescita complessiva per i paesi a capitalismo avanzato.
Dati e previsioni sono dunque tali da ridicolizzare i «barlumi di speranza» che capi di governo e
di Stato hanno affermato di intravedere nelle prime settimane della primavera6.

5
Bureau of economic analysis, news release del 29 aprile 2009.
6
Sulla copertina dell’Economist del 25 aprile 2009 campeggia il disegno di un pesce abissale dai lunghi
denti che, grazie a un fotoforo, attira verso le sue fauci spalancate alcuni ingenui pesciolini. Due frasi
esplicitano il senso dell’allegoria: a glimmer of hope? e the world economy and the perils of optimism. Il
rischio è che «i barlumi di speranza siano male interpretati come l’inizio di una forte ripresa quando ciò
che essi mostrano è il rallentamento del tasso di declino.»

10
Grafico 3 - Investimento reale, tassi di crescita, USA 1948-2008

50

40

30

20

10

0
1948

1950

1952

1954

1956

1958

1960

1962

1964

1966

1968

1970

1972

1974

1976

1978

1980

1982

1984

1986

1988

1990

1992

1994

1996

1998

2000

2002

2004

2006

2008
-10

-20

-30

Investimento privato fisso non residenziale residenziale

Fonte: Bea, National Income and Product Accounts, table 5.3.1. Percent change from preceding period in real private fixed
investment by type.

Le misure adottate dalle banche centrali e dai governi possono essere tali da scongiurare una
depressione del tipo del 1929 (anche perché ben diversa è la struttura complessiva
dell’occupazione e il peso della spesa pubblica nel reddito nazionale), ma non un periodo
prolungato di stagnazione dell’investimento e della domanda aggregata. Né sono tali da
scongiurare gravi crisi, vere fasi depressive, in paesi che non fanno parte del «centro»
dell’economia mondiale, la cui crescita economica è strettamente legata alla domanda delle
economie a capitalismo avanzato. E’ vero che questi paesi se la stanno cavando, per ora,
relativamente bene rispetto al centro, ma l’«aggiustamento» alla stagnazione della domanda
nei paesi a capitalismo avanzato sarà un processo lungo e penoso anche per molti di essi.
La conclusione «tecnica» della recessione non implica né una significativa ripresa
dell’investimento né una riduzione della disoccupazione: questa, anzi, si assesterà a un livello
elevato per alcuni anni. La crescita della disoccupazione a breve termine si traduce in crescita
dei disoccupati per periodi lunghi, specialmente per i lavoratori con basse qualifiche, e in
maggiori difficoltà per il lavoro giovanile, nonché nella crescita del sottoimpiego complessivo
delle capacità di lavoro, includendovi coloro che rinunciano a cercare lavoro e coloro per cui il
lavoro a tempo determinato o atipico diventa fatto cronico. Ciò è vero specialmente per
l’Europa.

4. Un’epoca di sovrapproduzione a partire dalla fine degli anni Sessanta e il


mercantilismo neoliberista.
Lo sviluppo post bellico dei paesi a capitalismo avanzato in Europa e in Giappone fu
caratterizzato tanto dall’ineguaglianza nei livelli di partenza, specialmente a fronte degli Stati
Uniti, quanto dal suo carattere combinato: con ciò si intende, ad esempio, l’assimilazione e la

11
rielaborazione della tecnica nordamericana ma anche la crescita del commercio internazionale,
in particolare di quello intra-industriale, tra paesi avanzati, e del commercio regionale, nonché
la crescita dell’investimento diretto delle multinazionali Usa in Europa.
A proposito dei rapporti tra capitalismo Usa e capitalismi e Stati Europei, Nicos Poulantzas
osservò che:

«L’attuale internazionalizzazione del capitale non abolisce e non mette in corto circuito gli Stati nazionali,
né nel senso di una pacifica integrazione dei diversi capitali “al di sopra” degli Stati – dato che l’intero
processo d’internazionalizzazione avviene sotto la dominanza del capitale di un determinato paese – né
nel senso di una loro estinzione sotto il super-Stato americano, quasi che il capitale americano
inghiottisse in modo puro e semplice le altre borghesie imperialiste»7.

Il nocciolo di questa argomentazione è che le borghesie europee non rispondono né al modello


della borghesia compradora asservita al capitale estero né a quello della borghesia «nazionale»
unita e autonoma. Quella che Poulantzas definiva «borghesia interna» dispone di una propria
base di accumulazione sia interna che internazionale, ma presenta tali legami con lo sviluppo
del capitalismo nordamericano da essere internamente disunita e soggetta alle contraddizioni
del primo. Queste si esprimono anche come lotte intestine alla «borghesia interna», ma non
tra questa nel suo insieme e il capitale americano nel suo insieme.
Quanto pubblicato nel 1974 va oggi aggiornato, ma nel complesso la tesi di Poulantzas mi pare
abbia retto nel tempo. L’unificazione monetaria non ha portato alla costruzione di un super-
imperialismo europeo né ad una vera e propria «americanizzazione» dell’Europa; costituisce,
semmai, una forma di adattamento alla persistente centralità e al dinamismo (relativo) del
capitalismo statunitense. Questo è manifesto anche nell’obsolescenza del riformismo della
sinistra politica e sindacale di matrice sia socialdemocratica che staliniana.

Dopo la ricostruzione, ciò che conferì un aspetto «miracoloso» ai tassi di accumulazione del
capitale giapponese, tedesco, o italiano, che era nello stesso tempo un’ampia e profonda
trasformazione sociale, non fu la domanda interna di beni-salario e una crescita «equilibrata»
tra produttività del lavoro e salari, ma la crescita delle esportazioni manifatturiere; nel caso
italiano la crescita tirata dalle esportazioni aggravò gli squilibri territoriali e settoriali.
La crescita export-led permise di superare i limiti posti dalla domanda interna, assicurando alti
tassi di crescita del capitale fisso e di accumulazione di lavoro vivo, crescenti rendimenti di
scala e progressi tecnologici.
Il boom economico fu tale perché, allora, la funzione trainante delle esportazioni non era in
contraddizione con la crescita dell’occupazione e del salario reale e dei consumi dei lavoratori
(ragion per cui i rapporti tra esportazioni e Pil dopo la seconda guerra mondiale, erano
inferiori, ma progressivamente crescenti, rispetto a quelli dei primi del Novecento), ma questi

7
Nicos Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, Etas, Milano 1975, pp. 61-62.

12
furono variabile dipendente e subordinata alla competitività nei mercati internazionali: le
autorità monetarie e i governi agirono con decisione, in Germania, in Giappone e in Italia, per
impedire una crescita «eccessiva» della domanda interna.
Ma, proprio perché i «miracoli» in Europa e in Giappone comportavano la riduzione dei
differenziali di produttività rispetto a quelli degli Usa e, oltre la crescita della domanda interna
risultante dal processo di trasformazione sociale, avevano nella crescita delle esportazioni (e
nella crescita del commercio regionale, intra-europeo e asiatico) il fattore più dinamico, la
quota del mercato mondiale detenuta dalle società statunitensi non poteva non ridursi
progressivamente, con il risultato del sorgere di pressioni alla rivalutazione del marco e dello
yen ed alla svalutazione del dollaro. Nello stesso tempo, a causa delle dimensioni
dell’investimento diretto delle multinazionali Usa in Europa, della normativa fiscale Usa,
dell’internazionalizzazione del capitale bancario e delle decisioni dei governi (laburisti)
britannici, a Londra si sviluppava il mercato dell’eurodollaro.
La contraddizione presente nello sviluppo combinato e ineguale dei paesi a capitalismo
avanzato, che non prevedeva alcun meccanismo di aggiustamento automatico tra paesi in
surplus e paesi in deficit e nel quale il dollaro svolgeva il duplice ruolo (che tuttora conserva) di
moneta nazionale e di moneta-chiave internazionale, rimase latente proprio a causa dei forti
dislivelli iniziali, palesandosi mano a mano che questi si riducevano. Il risultato finale fu la fine
del sistema di Bretton Woods, la dicharazione di inconvertibilità del dollaro e la svalutazione
dello stesso: quest’ultima era necessaria proprio per restituire competitività alle esportazioni
Usa, mentre la flessibilità dei cambi avrebbe dovuto aumentare i margini di manovra delle
politiche economiche nazionali. Si svilupparono così il mercato dell’eurodollaro, i nuovi prodotti
finanziari che avrebbero dovuto offrire garanzie contro le oscillazione dei cambi e dei tassi di
interesse, e un sistema creditizio privato internazionale, a cui corrispondeva un crescente
indebitamento dei governi dei «paesi in via di sviluppo» e di diversi paesi «socialisti» europei.
Questo, però, non risolse il problema della sovrapproduzione conseguente al successo dello
sviluppo nei paesi a capitalismo avanzato in Europa e in Giappone.
La sovrapproduzione produce «concorrenza fratricida» che comprime i tassi di profitto nei
settori esposti alla concorrenza internazionale e, conseguentemente, i tassi di investimento e
di crescita dell’occupazione. Nel grafico 4 è evidente la grande differenza nel livello dei tassi di
profitto del settore manifatturiero tra gli anni Cinquanta-Sessanta e quelli dopo il 1970, e
anche le differenze tra le curve dei tassi delle tre maggiori potenze capitalistiche.
Le curve degli Stati Uniti e del Giappone, in particolare, appaiono opposte e complementari. La
caduta simultanea dei tassi del profitto nei primi anni Settanta si presta male a una
spiegazione in termini di esaurimento delle possibilità tecnologiche e organizzative del
«fordismo» come «regime di accumulazione» centrato sulla domanda interna: in tal caso il
declino dei tassi avrebbe dovuto essere non simultaneo, riflettendo i diversi tempi di
«maturazione» di quel «modello».

13
Grafico 4- Tassi di profitto netti del settore manifatturiero, USA, Giappone, Germania, 1949-2001.

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Fonte: Robert Brenner, The economics of global turbulence. The advanced capitalist economies from long boom to long downturn,
1945-2005, Verso, London e New York, 2006, p. 7.

Si noti che per la Germania il tasso del profitto manifatturiero iniziò a cadere dalla seconda
metà degli anni Cinquanta e anche più velocemente nella prima metà degli anni Sessanta, in
corrispondenza dell’ascesa di quello del Giappone e della ripresa del tasso Usa, che raggiunse il
picco postbellico nel 1965: espressione precoce del successo del «miracolo» negli altri paesi
europei (e in Giappone), della rivalutazione del marco (1961) e della ripresa della competitività
delle esportazioni Usa. Negli Stati Uniti, tra la fine degli anni Cinquanta e nell’era kennediana
ebbe luogo un duro attacco del padronato alla forza contrattuale dei lavoratori, che ridusse di
circa 5 punti di percentuale i lavoratori sindacalizzati e quasi dimezzò il tasso di crescita delle
retribuzioni orarie reali nell’industria, mentre il tasso di disoccupazione aumentava dal 4%
dell’agosto 1957 al 6,9% del febbraio 1961.
Per i tempi e per le caratteristiche, anche l’ondata di conflittualità operaia alla fine degli anni
Sessanta può essere interpretata come una risposta, in condizioni favorevoli del mercato del
lavoro, agli interventi di contenimento dei consumi e del costo del lavoro e di intensificazione
dello sfruttamento nel processo di lavoro, che si erano verificati negli anni precedenti proprio a
causa delle contraddizioni emergenti sul piano internazionale (si può ricordare la stretta
creditizia della Banca d’Italia dall’estate 1963 e la recessione nel 1964-65, e la recessione
tedesca nel 1966-67). Si deve tener conto che negli anni Sessanta, in diversi paesi, sindacati e
partiti di sinistra praticarono, o tentarono di praticare, politiche dei redditi: nel Regno Unito i
laburisti furono al governo nel 1964-1969; la Spd nella grosse Koalition in Germania dal 1966;
il Psi dal 1963. La conflittualità aggravò le tensioni e impedì che queste venissero
immediatamente «scaricate» sui lavoratori, ma non può essere la causa del declino di lungo
periodo dei tassi del profitto manifatturiero, a meno di non aderire alla spiegazione
«ortodossa» che rimanda alle rigidità del mercato del lavoro, al livello dei sussidi di
disoccupazione ecc. Del resto, e non a caso, i tassi di profitto tornarono ai livelli dei primi anni
Settanta nel corso del successivo decennio, ma senza raggiungere i picchi del boom e con
tendenza declinante per il Giappone a partire dagli anni corrispondenti all’accordo del Plaza

14
Hotel (1985) e della successiva ripresa delle esportazioni Usa, e in Germania negli anni del
processo di unificazione monetaria.

Il quadro complessivo è dunque questo: la pressione internazionale della concorrenza


internazionale conseguente dalla «maturità» dei paesi a capitalismo avanzato si traduce nella
deflazione dei prezzi e nella compressione dei tassi del profitto del settore manifatturiero; la
condizione di sovrapproduzione è aggravata dal ritmo relativamente lento della svalorizzazione
dei capitali delle imprese meno produttive e, specialmente, dall’ingresso di nuovi competitori
(la Cina è l’ultimo di questi) e dal privilegiamento del rendimento per gli azionisti rispetto
all’investimento produttivo. La compressione dei tassi del profitto comporta una pressione
costante sul lavoro vivo e il salario diretto e indiretto; la crescente ineguaglianza nella
distribuzione del reddito è, a sua volta, un fattore che aggrava la congiuntura.
La tabella 2 mostra l’aumento della parte del profitto nella ripartizione del reddito del settore
privato, misura inversa della crescita del salario reale.
Nel complesso questi dati smentiscono la tesi ufficiale secondo cui l’alto livello di
disoccupazione in Europa risulti dalla rigidità dei salari. Si noti la forte crescita della quota del
profitto in Francia e in Italia, paesi dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10%;
notevoli gli incrementi durante la presidenza Mitterand e nel periodo dei governi Prodi-
D’Alema.

Tabella 2 - Quota del profitto nel settore privato, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, USA, 1960-2002.
Francia Germania Italia Regno Unito USA
1960-64 - 36,27 - 30,97 28,15
1965-69 33,11 36,02 - 30,66 30,74
1970-74 33,46 33,05 - 29,17 30,61
1975-79 29,17 32,45 28,68 28,89 32,59
1980-84 28,04 31,86 29,46 29,88 32,21
1985-89 33,41 35,32 33,16 32,03 33,06
1990-94 36,92 33,66 33,40 31,16 33,44
1995-99 38,96 33,85 38,65 33,05 35,12
2000-02 39,15 35,88 38,98 - 34,59
Fonte: Engelbert Stockhammer, «The rise of european unemployment: a synopsis», in The rise of european
unemployment. A keynesian approach, Edward Elgar, 2004, dati OECD Employment Outlook. Per la Germania: 1985-
90 e 1991-94, a causa dell’unificazione; per il Regno Unito la quota è relativa a tutta l’economia.

Il capitalismo contemporaneo non è lo stesso di quello d’anteguerra: il peso strutturale del


settore statale in tutti i paesi a capitalismo avanzato non è limitato come negli anni Trenta, e
oggi i governi e le banche centrali hanno imparato la lezione della Grande depressione quanto
basta ad evitare, almeno, gli errori più grossolani. Questo ha impedito che si realizzasse il
meccanismo della svalorizzazione brusca e massiccia di capitale come negli anni Trenta, dando
invece luogo a un lungo processo di ristrutturazione nel quale la deliberata compressione della
domanda in Europa (e la stagnazione in Giappone) si combina con un’espansione ciclica della
domanda negli Stati Uniti, sostenuta dall’indebitamento delle imprese e delle famiglie:
l’espansione del consumo e del credito regge fino a quando continua la crescita dei prezzi dei

15
titoli finanziari e degli immobili che sono il collaterale del debito. L’innovazione di processo e di
prodotto del settore finanziario, assicurativo e immobiliare (il Fire), ha infine portato alla
«tempesta perfetta» dell’assemblaggio dei mutui immobiliari in prodotti finanziari strutturati e
«assicurati», creati e venduti su scala internazionale.
Come aggregato, l’andamento dei principali indicatori economici per l’insieme dei paesi a
capitalismo avanzato è peggiorato di decennio in decennio a partire dagli anni Settanta. Ma,
come già si vede dal grafico sui tassi di profitto del settore manifatturiero, non in modo
omogeneo. Nel complesso, se si considerano i tassi di crescita del prodotto interno,
dell’investimento, della produttività e dell’occupazione, la posizione degli Stati Uniti è
decisamente migliore di quella dei grandi paesi europei e del Giappone. Il capitalismo mondiale
resta caratterizzato, anche per quel che concerne i rapporti tra i paesi più avanzati, il suo
centro imperialistico, dallo sviluppo ineguale e combinato, non dal «livellamento» in un’unica
entità «globale», direttamente mondiale.

Grafico 5 -Tassi di crescita del Pil, reali, 1971

10

8
6

2
0
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991

1996
1992

1997
1993

1998
1994

1999
1995

2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
-2
-4

USA Giappone Germania Italia Francia Euro zona

Fonte: elaborazione su dati Ocse, Economic outlook, tabella 1 - Real GDP, percentage change from previous year

16
Grafico 6- Tassi di disoccupazione standardizzati, 1969-2007

25

20

15

10

0
1969

1971

1973

1975

1977

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

2005

2007
USA Giappone Germania Francia Italia
Regno Unito Spagna Svezia

Fonte: elaborazione su dati Ocse, Economic outlook, tabella 14 - Standardised unemployment rates.

Tutti i dati statistici si possono discutere: ad esempio, un punto molto discusso è l’effetto
dell’introduzione della tecnologia informatica sui tassi di crescita della produttività Usa, in
particolare nei servizi. E certamente i dati aggregati circa la disoccupazione non rendono
affatto bene il livello reale del sottoimpiego, della precarizzazione e dell’ineguaglianza sociale.
Fatte queste qualificazioni, devo dire che la forma della curva dei tassi di disoccupazione della
Spagna nel grafico 6 è identica a quella media europea, di cui mostra il corso amplificato (quel
che differisce è il livello: nella media i picchi si collocano al 10%). Dalla metà degli anni
Ottanta la tendenza della curva Usa è decrescente, il tasso di disoccupazione medio nel 1990-
2007 è il 5,4%; la tendenza europea mostra invece una sorta di altopiano ondulato,
espressione della persistenza della disoccupazione a un alto livello: la media per 15 paesi
dell’Unione Europea nel 1990-2007 è l’8,6%, per la Germania l’8%.

L’instabilità finanziaria di questa nuova configurazione dell’economia mondiale è grande: ma è


pure un dato di fatto che essa sia durata, come minimo, quanto la cosiddetta «età d’oro» e dei
«miracoli economici». L’insieme dei processi indicati come «finanziarizzazione» e
mercantilismo neoliberista hanno una loro contraddittoria funzionalità nella determinazione di
un andamento ciclico nel quale si alternano fasi di espansione e di contrazione della domanda
aggregata.
Il punto è che le politiche di contenimento della domanda (in Europa) e di precarizzazione e
flessibilizzazione del lavoro, da una parte e, dall’altra, l’indebitamento, le bolle speculative,
l’apertura e la liberalizzazione dei sistemi finanziari e i flussi di capitale a breve termine e
dell’investimento diretto, entrano nella costituzione di una nuova configurazione, ma non

17
costituiscono, da soli, le cause primarie della bassa crescita del prodotto e dell’alto livello della
disoccupazione. Nell’insieme sono una forma di «adattamento» ad una persistente condizione
di sovrapproduzione mondiale: ne sono un effetto, ma anche il modo attraverso cui essa si
riproduce e si aggrava, manifestandosi nel crollo di processi finanziari che moltiplicano a
dismisura posizioni «alla Ponzi» e nel «contagio» trasmesso attraverso i prodotti e i canali della
«nuova architettura finanziaria». E’ in questo contesto che la crescita delle esportazioni
«divorzia» dalla crescita del salario reale, e l’investimento estero dalla crescita
dell’investimento interno: il mercantilismo neoliberista presuppone livelli elevati di
disoccupazione, in Europa, e la combinazione di bassi salari, indebitamento e «effetto
ricchezza» indotto dalle bolle speculative negli Usa.
La seconda considerazione che può trarsi dal diagramma è dunque che lo stato di
sovrapproduzione è il problema meno trattabile e il fattore determinante nel limitare
un’eventuale «riforma» capitalistica dall’alto che vada oltre il contenimento degli «eccessi»
della speculazione finanziaria
I salvataggi e le semi-nazionalizzazioni temporanee, le misure volte a impedire l’avvitarsi su
se stessa della deflazione e a stabilizzare l’attività economica, costituiscono di per sé una
garanzia per le stesse imprese, finanziarie e non, che passata la tempesta si potrà ricominciare
a navigare grosso modo come prima.

Alla conclusione precedente si può obiettare che essa sia troppo pessimistica circa le possibilità
di una qualche «riforma» del capitalismo che conduca oltre il «neoliberismo». Altri
obietterebbero, invece, che il capitalismo è al crepuscolo, e che, considerando la storia dei cicli
egemonici, si avvicini il momento di un nuovo scontro per l’egemonia mondiale. Così la pensa,
ad esempio, Immanuel Wallerstein:

«Quel che sta accadendo è la disintegrazione del capitalismo come sistema mondiale, non perché non
possa garantire benessere alla grande maggioranza (non ha mai potuto farlo) ma perché non può più
assicurare che i capitalisti continuino l’accumulazione senza fine di capitale che è la loro raison d'être.»8

L’esperienza storica del capitalismo, in particolare del XX secolo, ci dice che lo scontro
catastrofico per l’egemonia mondiale non può essere escluso: gli arsenali nucleari sono una
realtà, e quel che esiste può essere usato, a rischio di distruggere la specie umana o il mondo
come lo conosciamo. E’ anche una realtà che la spesa militare Usa sia, grosso modo,
equivalente a quella del resto del mondo. Sono pure una realtà le catastrofi ecologiche locali e
il deteriorarsi degli equilibri planetari: al di là delle previsioni sul clima mondiale, non è
logicamente concepibile la sostenibilità ecologica del sistema a lungo termine.

8
The nation, 23 marzo 2009.

18
Ma la stessa esperienza storica insegna quanto il capitalismo sia capace di riprodursi e
rinnovarsi, passando attraverso crisi anche catastrofiche, di spostare le sue contraddizioni, che
non significa annullarle né renderle inoperanti, nel tempo e nello spazio.
L’idea che per qualche interno meccanismo economico il capitalismo raggiunga una condizione
per cui non sia più in grado di assicurare la propria riproduzione allargata è fuorviante: una
delle funzioni obiettive delle crisi economiche è abbattere gli ostacoli alla ripresa
dell’accumulazione, con un prezzo pagato dalle classi dominate.
Solo una rivoluzione sociale può fermare l’accumulazione senza fine del capitale e delle sue
contraddizioni, nazionali e planetarie.

5. Ostacoli a un nuovo New deal. La crisi non è abbastanza grave.


L’incertezza è reale e tanto più grande quanto più si pretende di fare previsioni a 20-30 anni o
più. Qui il mio interesse è più modesto e più ristretto l’orizzonte temporale: diciamo, grosso
modo, che sono limitati a quel che potrà accadere nel prossimo lustro. A questo proposito
ritengo che, benché «tecnicamente» concepibile e possibile, oggi esistono tre potenti ostacoli a
un nuovo New Deal: e, visti i richiami retorici allo stesso, mi tocca fare qualche richiamo
storico. Gli ostacoli di cui prima sono strettamente connessi, ma due si riferiscono ai rapporti
inter-capitalistici, il terzo ai rapporti tra le classi sociali. Per tutti occorre considerare sia le
tendenze economiche che quelle politiche.

La mia posizione non è affatto «catastrofista», e neanche stagnazionista «di principio». Al


contrario, i primi due argomenti si riassumono nel fatto che, nonostante sia la più grave del
dopo guerra, la crisi in corso non lo è abbastanza, né dal punto di vista economico né dal
punto di vista politico, per costringere le classi dominanti a cambiare l’orientamento politico di
fondo e a promuovere, o tentare di promuovere, una nuova configurazione dell’economia
mondiale.
Il primo argomento è già stato segnalato: il settore pubblico e le politiche delle banche centrali
e dei governi costituiscono un pavimento alla spirale deflazionistica ma, nello stesso tempo e
per questo stesso motivo, sono un ostacolo a misure di riforma profonde.
Questo non è adeguatamente concettualizzabile mediante le categorie correnti. Perfino nel
campo della finanza internazionale, il settore che più si presta alla funzione di paradigma del
mercato unico integrato e globale e della deregolazione, i massicci interventi diretti degli Stati
Uniti e degli altri Stati capitalistici per contenere le crisi finanziarie di questi anni, oltre che per
determinarne le condizioni di formazione, sono forse la prova più evidente della vuotezza
dell’espressione «neoliberismo» e della genericità del termine «globalizzazione». Se si assume
come reale l’equazione più mercato = meno Stato, allora gli apologeti del capitalismo saranno
sempre intellettualmente superiori, oltre che superiori nel potere, rispetto ai loro critici. Gli
apologeti potranno sempre sostenere che c’è ancora troppo Stato e troppa regolazione
extraeconomica, oppure che i parziali «fallimenti del mercato» (market failures) non inficiano

19
la bontà delle istituzioni capitalistiche, ma che sono necessarie norme per correggere
l’imperfezione dell’informazione e l’assunzione di rischi eccessivi.
La crisi ha già modificato il panorama del settore finanziario statunitense e impone revisioni
normative, in un settore che è sempre rimasto tra i più regolamentati, nonostante la
deregulation. E’ possibile superare la frammentazione funzionale delle agenzie predisposte alla
supervisione di istituti finanziari che hanno già oltrepassato i confini tradizionali tra i diversi
rami del settore, passando a una supervisione per obiettivi (Australia, Olanda) e proporre
nuove agenzie di regolazione responsabili della stabilità del mercato9 (Stati Uniti), costituire
un’agenzia unica come la Financial services authority del Regno Unito; è possibile modificare i
criteri di retribuzione dei managers affinché siano scoraggiati dal seguire strategie
d’investimento ad alto rischio, rafforzare le norme prudenziali e controllarne più strettamente
l’applicazione, arrivare a forme di coordinamento internazionale della supervisione dei mercati
finanziari. Tutto ciò, però non costituisce di per sé un superamento del «mercantilismo
neoliberista» e dello schema ciclico indicato nel diagramma, ma una correzione dello stesso,
dopo che nel primo decennio del XX secolo il modello originate-and-distribute ha «raschiato il
fondo del barile» con i mutui subprime, concessi perfino a soggetti simpaticamente detti ninja,
acronimo della meno simpatica condizione di no income, no job, no assets, prodotto una
enorme quantità di prodotti finanziari strutturati e costituito un «sistema ombra» di entità fuori
bilancio. Come ha dichiarato il governatore Draghi, presidente del Financial stability board:
«dobbiamo mantenere i vantaggi di mercati finanziari globali e integrati»; e, posto che è
necessaria più supervisione, che occorre «contenere un eccessivo indebitamento» e
provvedere ai casi di market failure, «la regolamentazione non deve impedire l’innovazione
necessaria per ampliare il processo di scelta dei consumatori e un più ampio accesso al
credito»10. Come dicevo prima, si tratta di curare i «fallimenti del mercato» e rimediare alle
sue imperfezioni, argomento ortodosso perfettamente accettabile da qualunque liberale che
non sia un ultras ideologico e un militante del «fondamentalismo di mercato» (la cui visione è
così lontana dal mondo reale che non sarà mai soddisfatto e sempre avrà modo di prendersela
con l’invadenza delle norme statali): l’argomento non implica affatto una nuova forma di
articolazione tra Stato ed economia e un ri-orientamento storico della politica economica e
sociale. Su questa base si può dire che i salvataggi già effettuati pongono le basi perché,
normalizzata la situazione, si sviluppino nuove bolle speculative. Il discorso sarebbe diverso
qualora si verificassero nazionalizzazioni permanenti e reali degli istituti finanziari: ma la
gestione della «pulizia» del sistema finanziario negli Stati Uniti è affidata alla collaborazione tra

9
Il Tesoro Usa ha elaborato un modello basato su tre agenzie di regolazione; un market stability
regulator, per la stabilità complessiva del mercato finanziario; un prudential financial regulator, per la
supervisione degli istituti coperti da un fondo di garanzia statale; e un business conduct regulator. The
Department of the Treasury blueprint for a modernized financial regulatory system, The Department of
the Treasury, Washington D. C., marzo 2008, http://www.treas.gov/press/releases/reports/Blueprint.pdf.
Si veda Andrea de Michelis, «Overcoming the Financial Crisis», Oecd Economics department working
papers, n. 669, febbraio 2009, per la discussione degli orientamenti normativi internazionali.
10
Dalla relazione di Draghi, Sole 24 ore, 11 giugno 2009. Il Financial stability board comprende i paesi
del G 20, la Spagna e la Commissione europea.

20
Stato e istituti privati in appositi asset-management funds, in cui è lo Stato ad assumersi la
maggior parte degli oneri e a coprire i rischi. Su scala più ampia, questo è coerente con la
pratica reale del mercantilismo neoliberista, già vista all’opera negli anni passati in situazioni
critiche, come nel 1998 o nello scandalo Enron.
Né oggi si vede l’ombra di un programma nel quale lo Stato svolga la funzione di datore di
lavoro di ultima istanza, almeno per una quota significativa dei disoccupati. D’altra parte, la
spiegazione corrente della persistenza di elevati livelli di disoccupazione offerta dalla ipotesi
dominante del «tasso di disoccupazione al quale il tasso di inflazione è costante» (non-
accelerating inflation rate of unemployment, acronimo Nairu) e le politiche connesse praticate
da governi di «destra» e di «centrosinistra», non si basano sull’idea ottocentesca e
classicamente liberista della disoccupazione come fatto volontario e microeconomico, ma
ammettono che essa sia involontaria e determinata da fattori istituzionali a livello
macroeconomico. Questo approccio è abbastanza elastico da permettere il coinvolgimento delle
burocrazie sindacali in procedure «neocorporative», che per i lavoratori risultano in uno
«scambio politico» fortemente ineguale ma che consente agli apparati sindacali di continuare a
svolgere un ruolo di rappresentanza istituzionale, e anche di beneficiarne finanziariamente.
Né all’orizzonte si vede anche solo lo spettro di una forza politica in grado di «disciplinare» il
capitale nazionale e internazionale: certo non la cosiddetta «sinistra» europea di «terza via»,
che in diversi paesi ha fatto, a suo tempo, il grosso del lavoro «sporco» avviato negli Usa e nel
Regno Unito dalla new right: è il caso, in tempi e con modalità diverse dell’Australia, della
Francia, della Germania, della Grecia, dell’Italia, della Spagna, della Svezia11.
Per inciso, chi negli ultimi lustri ha ripetuto in continuazione la favola della svolta epocale della
«globalizzazione» e della de-territorializzazione del capitale, facendo nello stesso tempo parte
di coalizioni e di governi di «centro-sinistra», dovrebbe tacere e ritirarsi a vita privata, se
avesse decenza.
Per fare un paragone: tra il 1935 e il 1941 la Work progress administration impiegò, ogni
anno, tra un minimo di 1,5 e un massimo di oltre 3 milioni di persone in una infinità di lavori
infrastrutturali e sociali: nel 1938 il 6% della popolazione attiva o circa 1/3 dei disoccupati.

6. Ostacoli a una nuova Bretton Woods: non esiste uno Stato mondiale.
Il secondo argomento è il risvolto internazionale del primo.

11
Per una rassegna critica e comparativa delle politiche economiche e sociali della sinistra al governo in
diversi paesi, si vedano The economics of the Third way. Experiences around the world, Edward Elgar,
Chelenham (Uk), Northampton (Usa), 2001 a cura di Philip Arestis, Malcolm Sawyer, e Social Democracy
in Neoliberal times. The Left and economic policy since 1980, Oxford University Press, Oxford, 2001, a
cura di Andrew Glyn. Per gli Usa di Clinton, e di Bush jr., Countours of descent. U. S. economic fractures
and the landscape of global austerity, Verso, seconda ed. aggiornata 2005, di Robert Pollin. Nel
complesso, non c’è paragone tra il rigore, e anche la durezza, per quel che è consentito agli accademici,
con cui i migliori economisti eterodossi stranieri analizzano e giudicano professionalmente (il che non
corrisponde una prospettiva politica anticapitalistica) le politiche dei loro governi di «sinistra» e i flebili
vagiti che sono la norma dei loro colleghi italiani di sinistra nei confronti dei «governi amici» nazionali.

21
Tra il 1929 e il 1932 il commercio mondiale crollò di circa il 60% in valore e del 35% in
volume, mentre la maggior parte dei paesi abbandonò il tallone aureo e svalutò la moneta. Si
formarono blocchi monetari (area della sterlina, del dollaro, dello yen, intorno alla Germania
nell’Europa centrale e meridionale, il «blocco dell’oro» centrato sulla Francia), si contrasse il
credito internazionale, si moltiplicarono gli accordi commerciali bilaterali e, naturalmente, le
misure protezionistiche. Se la disoccupazione crebbe molto ovunque, sull’intero decennio gli
andamenti della crescita della produzione pro capite furono molto diversi, in diversi casi
superiori a quelli dell’intero periodo 1913-29: in Germania e in Giappone per via del riarmo,
ma anche in Australia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Regno Unito e Sud Africa.
Dunque, mentre la guerra si globalizzava, la relativa «deglobalizzazione» economica spinse a
privilegiare la crescita interna. Ma non sulla base della crescita del consumo dei salariati.
In Germania prima che altrove, e negli Usa dopo, la gravissima depressione ebbe termine solo
in forza dei preparativi per la guerra mondiale o dopo la sua esplosione. Quel che è sicuro è
che la trasformazione strutturale e di lungo periodo del rapporto tra Stati e capitalismi ebbe
luogo nella fornace della crisi e della guerra mondiale, alimentata dalle sofferenze e dalla
morte di decine di milioni di persone. Fu il risultato di quella che probabilmente resta la più
grande catastrofe della storia umana, di un processo nel quale si misurarono in una lotta
all’ultimo sangue le forze gigantesche di imperialismi in conflitto, di un processo costruito
attraverso decisioni parziali e di emergenza, effetti non intenzionali e apprendimento per
tentativi ed errori.
I negoziati anglo-americani svoltisi a Bretton Woods, che diedero origine al cosiddetto
«sistema» omonimo, sono di interesse attuale perché costituirono il primo tentativo di
costruzione deliberata di un sistema monetario internazionale. La delegazione britannica era
guidata da John Maynard Keynes, quella statunitense da Harry Dexter White12: sul piano del
metodo la linea keynesiana è tuttora una lezione utile per quanti vogliono stabilizzare
l’economia mondiale capitalistica riformandone il sistema monetario internazionale.
La preoccupazione maggiore dei britannici era la creazione di un sistema che potesse
correggere in modo quasi automatico gli squilibri nelle bilance dei pagamenti internazionali tra
paesi in deficit e paesi in surplus, in modo da prevenire processi di aggiustamento dall’effetto
depressivo sulla domanda aggregata e sull’occupazione.
A questo scopo la delegazione britannica propose una Unione di compensazione internazionale
(Icu, international clearing union) che avrebbe compensato in modo multilaterale i rapporti
debitori e creditori tra gli Stati. Ciò richiedeva la creazione di una moneta fiduciaria
internazionale, utilizzabile solo dalle banche centrali e dai governi (e da soggetti autorizzati),
detta bancor, rispetto alla quale si sarebbe definito il cambio delle valute nazionali. Il valore
del bancor rispetto all’oro sarebbe stato fisso e le banche centrali avrebbero potuto cedere oro

12
Dexter White morì nell’agosto 1948 per un infarto, dopo aver deposto al Comitato per le attività
antiamericane, davanti al quale respinse l’accusa di essere una spia comunista, come sostenevano alcuni
«disertori». Non ho una posizione in merito, ma se fosse stato un agente sovietico la cosa sarebbe
veramente curiosa, giacché a Bretton Woods sostenne bene gli interessi dell’imperialismo statunitense.

22
in cambio di bancor dall’Icu, ma non sarebbe stata possibile l’operazione inversa, in pratica
demonetizzando l’oro e liberando il sistema internazionale dalla «gabbia dell’oro», cioè dai
limiti alla domanda di liquidità internazionale posti dalla disponibilità di oro. Al contrario, nel
sistema proposto da Keynes, i paesi in posizione deficitaria avrebbero potuto finanziarsi
mediante prelievi allo scoperto (overdrafts) in bancor presso la Icu, al costo di un modesto
interesse sui prelievi eccedenti un quarto della quota spettante a ciascun paese. D’altra parte,
in questo sistema non sarebbe stato conveniente «tesaurizzare» bancor da parte dei paesi con
surplus della bilancia dei pagamenti, sia perché anche questi avrebbero pagato un interesse
nel caso avessero superato la metà della quota assegnata, sia perché non sarebbe stato
possibile convertirli in oro. Sottratto a un rigido standard di riferimento, il sistema avrebbe
spinto anche i paesi in surplus ad adottare, con la consulenza della Icu, misure di
aggiustamento dello squilibrio: o rilanciando la domanda interna e aumentando le
importazioni, o rivalutando la moneta rispetto al bancor, o mediante l’investimento all’estero.
Completato con istituti di finanziamento dello sviluppo e di stabilizzazione dei prezzi delle
materie prime, il sistema era orientato a promuovere il commercio internazionale e la piena
occupazione garantendo, al tempo stesso, l’autonomia delle politiche economiche nazionali e la
prevenzione di squilibri cronici. I prelievi allo scoperto di bancor corrispondono a un
meccanismo di creazione endogena di liquidità: con ciò sarebbe dovuta venir meno la necessità
di politiche mercantiliste, che avrebbero intensificato la concorrenza, per l’acquisizione di oro o
di una moneta chiave.

In effetti gli statunitensi fecero diverse e importanti concessioni: venne ammessa una
«clausola della valuta scarsa» (di fatto relativa al dollaro) che comportava il razionamento
della valuta scarsa da parte del Fondo monetario internazionale e la possibilità di restrizioni
alle importazioni dal paese in cronico avanzo; le risorse del Fmi e il contributo Usa al Fmi
furono più alti di quanto essi avessero inizialmente proposto (ma molto più vicini alla proposta
Usa che a quella inglese); fu ammessa la possibilità di variazioni della parità fissata senza
previa approvazione del Fmi fino al 10% e anche oltre in caso di non meglio precisati «squilibri
fondamentali»; non fu prevista la possibilità che il Fmi ponesse condizioni sulle politiche
interne; le restrizioni commerciali e alla convertibilità delle valute avrebbero dovuto essere
smantellate al termine di un «periodo di transizione», che venne allungato.
Si può dunque parlare del «sistema di Bretton Woods» come di un compromesso, non tra
classi sociali ma tra i due più importanti Stati imperialisti alleati. Ma per quanto importanti
fossero le concessioni nordamericane, non fu un «compromesso keynesiano»: nella lettera e
negli esiti gli accordi furono molto lontani dalle idealizzazioni ora correnti circa un’epoca
«keynesiana». Lo schema keynesiano (senza virgolette) sopra tratteggiato resta un riferimento
per le proposte più avanzate di riforma del sistema monetario internazionale proprio perché il
risultato finale degli accordi di Bretton Woods fu molto lontano da esso. Gli accordi stipulati a
Bretton Woods non prevedevano alcun meccanismo di aggiustamento per i paesi in avanzo;

23
non demonetizzavano l’oro, che rimase convertibile; non creavano una unità di conto
sovranazionale. E, specialmente, ponevano il dollaro come moneta-chiave del sistema
internazionale. Del resto, oltre che essere la potenza militare ed industriale determinante, gli
Usa detenevano il 60% delle riserve mondiali in oro ed erano il paese creditore nei confronti
del resto del mondo. A malincuore, e non senza velleità fino all’impresa fallita di Suez del
1956, l’imperialismo britannico dovette anche accettare la fine del proprio impero territoriale13.
Inoltre, il «sistema», di cui spesso si parla come se fosse stato operativo per l’intero dopo
guerra, in realtà andò a regime solo dal gennaio 1959, quando i 17 Stati membri della Unione
europea dei pagamenti resero convertibili le loro monete; e quasi subito il «sistema» mostrò le
sue crepe e la Francia gaullista protestò per l’«esorbitante privilegio» del dollaro. Per questa
ragione, e anche per altre pertinenti alla cosiddetta «economia reale», l’epoca 1946-1971, in
gran parte coincidente con la cosiddetta golden age «fordista» e «keynesiana», andrebbe
suddivisa in due periodi distinti (o tre, considerando il primo dopo guerra): dal 1946 al 1958 e
dal 1958 all’agosto 1971 (data della dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro).
Furono i fatti a imporre le svalutazioni delle monete europee nel primo dopoguerra e furono gli
Usa, non il Fmi e le istituzioni previste dal «sistema», a fornire la liquidità necessaria, in
dollari, con il Piano Marshall, gli aiuti e le spese militari, il boom connesso alla guerra di Corea,
poi con gli investimenti diretti, la formazione del mercato dell’eurodollaro, le importazioni, la
guerra del Vietnam.
Oggi si può pensare a riformare il sistema monetario internazionale sulla base della lezione
keynesiana, almeno controllando e tassando i movimenti di capitale a breve termine,
introducendo regole che facciano oscillare le valute entro una banda, secondo parametri
contrattati tra gli Stati, e coordinando le politiche economiche in modo da evitare situazioni di
cronico avanzo o disavanzo.
La «lezione» della storia è però che le «soluzioni» di una crisi mondiale di fatto risultano dai
rapporti di potere tra gli Stati e i capitalismi «nazionali» e dall’ineguale evoluzione delle
economie che, nella loro interazione e sovrapposizione, costituiscono il sistema mondiale
capitalistico come processo instabile e contraddittorio. Per quanto a tavolino si possano
elaborare schemi razionali per contrastare le croniche asimmetrie tra domanda e offerta
mondiale, per fare in modo che il peso dell’aggiustamento non ricada solo sui paesi deficitari e
indebitati ma anche su quelli creditori, e si possano proporre norme per ridurre l’instabilità
finanziaria, la realtà dell’esistenza di diversi capitalismi in competizione (le cui sfere d’azione
oltrepassano i confini statali ma non sono svincolate dalle loro basi «nazionali»), il fatto che
l’economia mondiale capitalistica non sia né un unico «campo di gioco» globale né un
«impero», impediscono una soluzione capitalistica organica e collettiva. Come non esiste uno
Stato mondiale (o un suo surrogato fluido e «nebuloso») non esiste una borghesia mondiale

13
Si tratta dell’aggressione all’Egitto, insieme alla Francia e ad Israele, dopo la nazionalizzazione del
canale di Suez. In Francia erano al governo i socialisti, con Pierre Mendès France, ministro guardasigilli
François Mitterrand, già ministro dell’interno nel precedente governo Mollet, all’inizio della guerra
algerina.

24
che possa trattare questi problemi in modo razionale e secondo un «interesse generale» del
capitale sociale mondiale.
Così andò il mondo durante e dopo la Seconda guerra mondiale e le imponenti trasformazioni
dei rapporti tra politica ed economia conseguenti da essa e dalla Grande depressione: quando
più elevate erano la necessità, la volontà e la capacità di «riforma dall’alto» del capitalismo e
massime la possibilità che essa fosse spinta dal basso, dall’aspirazione di decine di milioni di
persone di farla finita con le cause del fascismo e della miseria. Non si capisce perché ora, in
assenza di qualcosa equivalente a quella tragedia che spinse il mondo nell’abisso, a negativo, e
in assenza di un equivalente delle Resistenze antifasciste, a positivo, debba darsi una
trasformazione cooperativa e «guidata» dell’economia mondiale capitalistica da parte degli
Stati imperialisti.
Non si capisce perché gli Stati Uniti, e se per questo anche i paesi esportatori, dovrebbero
accettare la fine del dollaro come moneta-chiave: conviene a tutti che l’economia che fa da
stimolo alla domanda mondiale sia anche quella che gode del privilegio della moneta-chiave.
L’«aggiustamento» degli squilibri mondiali richiede inoltre che l’Europa (e il Giappone) rilanci la
domanda interna, spostando reddito dal profitto e dalla rendita finanziaria ai salariati: ma
perché le classi dominanti dovrebbero accettarlo? Non è invece vero che il Patto di stabilità, la
politica della Banca centrale europea, l’interpretazione delle cause della disoccupazione e le
politiche connesse, puntano verso la «mercantilistica» flessibilità del lavoro? Gli Stati Uniti
sono uno Stato federale, ma un’economia integrata. L’unificazione monetaria europea non ha
portato e non può portare a un’economia integrata del tipo statunitense, perché non esiste uno
Stato europeo, un bilancio e un Tesoro europei con risorse tali da reflazionare l’economia
mediante misure centrali, «federali». Al contrario, l’unificazione monetaria europea è tale da
dare al sistema un orientamento deflattivo, di compressione della domanda interna e di
intensificata concorrenza, che aumenta piuttosto che ridurre le divergenze tra i paesi.

Infine, si può seriamente pensare che la casta dominante cinese o le classi dominanti di grandi
paesi «emergenti» come l’India e il Brasile indeboliscano il loro principale fattore competitivo, il
basso costo del lavoro che attrae gli investimenti dai paesi imperialisti, volendo e riuscendo,
nello stesso tempo, a iniziare un processo che faccia uscire dalla miseria centinaia di milioni di
esseri umani? O che le classi dominanti dei paesi imperialisti siano disposte ad accettare una
marea di importazioni provenienti dai paesi «emergenti», mentre questi riducono il
differenziale tecnologico con i paesi capitalistici avanzati?
E a quale prezzo per i corsi delle materie prime, l’esaurimento di risorse non rinnovabili, gli
equilibri ecologici planetari?
Con le ultime considerazioni i due argomenti precedenti si congiungono al terzo, quello
decisivo e più incerto: l’evoluzione dei rapporti di forza tra classe dominante e dominata nei
principali paesi capitalistici.

25
7. Ostacoli a un nuovo New deal. La burocrazia sindacale e la crisi come opportunità
di attacco ai lavoratori.
Il New deal fu la risposta liberal alla grande crisi: furono i discorsi radiofonici di Roosevelt a
trasformare la semantica (nordamericana) dei termini liberal e liberalism, «da sinonimo di
governo debole e di economia del laissez-faire, nella fede in uno Stato interventista e
socialmente impegnato, un’alternativa sia al socialismo sia al capitalismo senza regole»14.
Nel quadro della riarticolazione dei rapporti tra Stato ed economia, una serie di normative
garantirono la legalità dell’organizzazione sindacale e della contrattazione collettiva: c’è chi ha
visto nel Wagner act e nel paragrafo 7(a) del Nira (National industrial recovery act) il cuore del
New deal. Questa normativa fu un’autentica innovazione dall’alto in un momento critico,
contrastata dal padronato e dai liberali di vecchio stampo.

Ma, a meno di non trasformere il New deal in una leggenda per «progressisti», occorre
considerare che la normativa newdealista favorevole alla contrattazione collettiva era il logico
corollario del principio dell’auto-regolamentazione dei settori industriali, dominati dalle grandi
corporations (al fine di limitare la concorrenza e fermare la deflazione dei prezzi), che era
proprio del Nira (National industrial recovery act): essa lo estendeva alla rappresentanza della
forza lavoro. Il che significa che essa presupponeva e promuoveva la burocratizzazione del
movimento sindacale e la sua subordinazione all’«interesse generale» del capitalismo e dello
Stato imperialistico statunitense.
Se non si coglie la natura capitalistica del New deal sfuggirà la continuità dell’azione
imperialistica dello Stato nordamericano e le sue espressioni interne. C’è una continuità tra la
partecipazione statunitense all’aggressione della neonata repubblica sovietica e la «guerra
fredda»; tra l’arresto (febbraio 1918), di 2000 wobblies, preludio della red scare e di una
«caccia al rosso» che assunse dimensioni di massa, e la caccia al rosso del 1947-1957, il
McCarthyism15. Nell’anticomunismo la classe dominante Usa è stata affiancata, fin dal red
scare del 1919-20, dalle direzioni dei grandi sindacati, dalla Afl prima e dal Cio poi.

Ma un conto è la normativa un’altra la realtà. E la realtà fu che i lavoratori conquistarono il


diritto reale alla rappresentanza e alla contrattazione collettiva con lotte durissime, scioperi
protratti a oltranza, e autentiche battaglie di strada. Come, ad esempio, nel movimento di San
Francisco, iniziato dai portuali, dove si susseguirono scioperi generali e scontri di piazza tra il
maggio e luglio; o con la lotta del 1937 degli operai dell’industria automobilistica, protagonisti

14
Eric Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma 2000, p. 271.
15
Nell’agosto 1917 settemila marines occuparono Vladivostock e la tennero fino al gennaio 1920; altri
5000 marines occuparono Arcangelo tra settembre 1918 e giugno 1919. La dimensione di massa del
concomitante anticomunismo è esemplificata dall’operazione coordinata in settanta città che il 2 gennaio
1920 condusse all’arresto di 10 mila lavoratori. Di questi, vennero liberati senza alcuna imputazione
6500; cfr. Richard O. Boyer, Herbert M. Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 1861-
1955, De Donato, Bari, 1974 (prima ed. 1955), p. 310.

26
di un’ondata di scioperi, occupazioni e scontri, in cui furono decisivi i 44 giorni di occupazione
degli stabilimenti della General Motors di Flint, che si concluse con la vittoria degli operai.
La nuova centrale sindacale su base industriale, non più di mestiere, il Cio, si venne
costruendo in parte sulla base di settori già organizzati nella vecchia centrale Afl, ampiamente
burocratizzata, ma anche più proprio durante e in forza di quelle lotte. Anche il Cio si
burocratizzò, specialmente a causa dello «sforzo patriottico» durante la guerra mondiale, ma
l’influenza delle origini militanti persistette abbastanza da richiedere, nel 1949-50, l’espulsione
di undici sindacati, i più combattivi, quasi un milione di lavoratori, su 6,3 milioni di iscritti del
1946.

Si riesce seriamente a immaginare che le direzioni di un grande sindacato di un paese


avanzato, poniamo la Cgil, abbiano la volontà e la capacità di condurre lotte di tale asprezza,
determinate a vincere e a usare tutti i mezzi necessari per vincere?
Il terzo ostacolo a un new New deal consiste nell’assenza, al momento, di grandi e dure
mobilitazioni di massa e nell’involuzione neocorporativa, questa irreversibile, dell’apparato
burocratico dei grandi sindacati.

Costringendo i governi a sussidiare su ampia scale le imprese finanziarie (in primo luogo) e, in
minor misura (per ora) le imprese non-finanziarie, la crisi mostra apertamente che le tesi circa
la de-territorializzazione del capitale e l’obsolescenza delle capacità di intervento degli Stati
nella cosiddetta economia «globalizzata» sono solo ideologia. Quel che è stato reale è, invece,
un riorientamento delle politiche economiche e sociali a favore del capitale «nazionale», mirate
a flessibilizzare e precarizzare il lavoro. Gli interventi in corso contrastano con l’ideologia
«neoliberista» e la sfrenata apologia dell’efficienza del mercato ma si muovono, comunque, nel
quadro di una neo-ortodossia: rimedi di emergenza intesi come eccezioni in una situazione
straordinaria, risultante da «eccessi» del mercato e da una inadeguata supervisione delle
autorità.
Per quanto riguarda le politiche del lavoro è ribadita, in modo del tutto ortodosso, la priorità
della flessibilità occupazionale e salariale (costi diretti e indiretti del lavoro). Banche centrali e
governi fungono da «prestatori di ultima istanza» per le imprese finanziarie, ma si guardano da
fungere anche da «datori di lavoro di ultima istanza», ponendo la salvaguardia
dell’occupazione al centro della politica economica.
Si consideri, a titolo d’esempio, il sommario delle indicazioni del rapporto Ocse Going for
Growth del 200916:
- allungamento dell’età pensionabile e disincentivazione del pensionamento precoce (Austria,
Finlandia, Francia, Grecia, Lussemburgo, Turchia);

16
Ocse, Going for Growth, annesso 2.A2 Structural policy priorities by country and performance area, pp.
44-48.

27
- riduzione dell’entità e/o della durata sussidi di disoccupazione (Belgio, Germania,
Lussemburgo, Olanda) o maggior rigore nei criteri per l’erogazione (Finlandia);
- riduzione del costo del lavoro per i giovani e i lavoratori poco qualificati (Francia, Grecia);
- riduzione delle garanzie occupazionali (Repubblica Ceca, Corea, Germania, Olanda,
Portogallo, Turchia);
- riforma del sistema di contrattazione perché rifletta meglio le situazioni del mercato del
lavoro locale e sia più flessibile (Belgio; Finlandia, Italia, Lussemburgo, Spagna);
- Incoraggiamento di orari di lavoro più lunghi (Svezia);
- Contenimento della crescita del salario minimo (Turchia);
- riduzione dei sussidi di invalidità per spingere al lavoro i disabili con substantial capacità
lavorativa (Australia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia, Ungheria) e riduzione
dei sussidi sanitari (Svizzera);
- riduzione del periodo di cure materne a favore di sussidi (Slovacchia);
- riduzione del «cuneo fiscale» (Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Grecia, Italia,
Norvegia, Olanda, Polonia, Ungheria);
- misure per ridurre le distorsioni nel mercato della casa (Danimarca, Slovacchia, Spagna,
Svezia).

Ciò significa che il peso delle contraddizioni deve essere «scaricato» sulle parti più deboli del
sistema: che dentro e attraverso la crisi deve aver luogo un processo di ristrutturazione tale da
generare nuove aspettative di profitto e nuovi campi di investimento e che essa costituisce
occasione per rinnovare l’attacco ai lavoratori. La differenza tra «destra» «sinistra» sarà nei
tempi e nei modi. Un processo di «aggiustamento» che sarà lungo, doloroso e pericoloso e che
sfocerà non in un qualche equilibrio ma nel rinnovarsi di quelle condizioni di squilibrio e di
quelle asimmetrie che sono costitutive dello sviluppo ineguale e combinato del sistema
capitalistico mondiale.
L’elemento che può modificare questa tendenza è lo sviluppo di lotte ampie e dure, tali da
innescare una dinamica che non si può, al momento, definire. Ma la sinistra istituzionale
partitica e sindacale è un ostacolo su questa strada.

8. L’inconsistenza dell’idea della fine della centralità del dollaro e degli Usa.
L’idea del collasso del capitalismo ricorre a volte mascherata nell’ipotesi più limitata della fine
della posizione centrale degli Stati Uniti, schiacciati dai debiti, dalla fuga dal dollaro e
sottoposti alla sfida di un potere emergente ora individuato, solitamente, nella Cina, un tempo
nel Giappone.
Si tratta, a mio parere, di un’aspettativa infondata. A volte sostenuta in modo ridicolo. Essa
considera gli Stati, e in questo caso lo Stato e l’economia più potenti del mondo, alla stregua di
una famiglia o di un’impresa che possano fare bancarotta, o di un paese che adotta la moneta
di un altro (la «dollarizzazione»). Ma i confini reali dell’economia statunitense non solo si

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spingono, come per tutti gli altri capitalismi avanzati, ben oltre quelli politici, ma sono più ampi
e più profondamente radicati, in particolare in Europa ma anche in Cina, rispetto a quella che è
la proiezione esterna delle economie degli altri Stati imperialisti.
Il dollaro è la moneta-chiave internazionale: le riserve ufficiali in dollari detenute fuori degli
Usa ammontano a circa il 65% del totale, sopra il 60% del 1995 e un poco sotto la media della
seconda metà degli anni Novanta, mentre quelle in euro sono intorno al 25% e in yen sul 5%;
il corso del dollaro cadde nel corso del 2007 ma si è ripreso proprio dopo il crack del settembre
2008. Il fatto può apparire paradossale, ma non lo è, perché proprio durante una crisi i buoni
del Tesoro statunitense sono un investimento sicuro: la fame di dollari continua nonostante il
calo dei rendimenti. Dal 1999 in poi i paesi «emergenti», specialmente asiatici e la Cina in
primo luogo, hanno acquistato titoli governativi Usa a tutta forza e questo perché, non
finanziando il governo e la domanda Usa, semplicemente non avrebbero potuto fare altro che
buttare nell’Oceano Pacifico gran parte della loro produzione.
Discorso analogo vale per i flussi di capitale dall’Europa agli Usa, con l’ulteriore specificazione
che gli investimenti diretti europei hanno lo scopo tanto di produrre e vendere direttamente nel
più grande e ricco mercato del pianeta (in questo differenziandosi dal commercio triangolare
Giappone e paesi Asean-Cina-Usa), che è l’unico nel quale sono state attuate forme di stimolo
della domanda, per quanto «perverse», quanto di cercare di colmare il differenziale tecnologico
con quella che è, tuttora e complessivamente, l’economia più avanzata anche sotto questo
punto di vista.
In futuro non si può escludere una svalutazione del dollaro; anzi, è proprio quel che dovrebbe
accadere perché abbia luogo una ripresa «sana» dell’economia statunitense, basata sulla
ripresa dell’investimento e delle esportazioni. Che le autorità statunitensi premano sulla Cina
affinché rivaluti il renminbi dovrebbe dirla lunga sul fatto che le prime non temono una
svalutazione del dollaro.
Del resto, in quanto detentori della moneta-chiave internazionale gli Usa hanno il doppio
privilegio di poter pagare in valuta nazionale le importazioni e di poter decidere il tasso di
interesse sul debito estero. La creazione di moneta non può diventare infinita, svincolandosi
del tutto dal lavoro sociale, ma, sia nei rapporti con l’estero sia nel finanziamento della
domanda interna attraverso la spesa pubblica, i margini di manovra degli Usa sono enormi:
possono creare moneta con una libertà che nessun altro Stato imperialista ha.
Perfino una massiccia svalutazione del dollaro avrebbe l’effetto di impoverire il resto del
mondo, mediante la svalutazione degli assets detenuti in dollari e negli Usa, e di arricchire,
viceversa, gli Usa, attraverso la rivalutazione degli assets detenuti all’estero dal capitale
nordamericano e la maggior competitività delle esportazioni. La rivalutazione dell’euro e dello
yen ridurrebbe le esportazioni europee e giapponesi, con ciò determinando, per le ragioni già
esposte, misure di contenimento della domanda e dell’occupazione e, in ultimo, l’inversione
delle tendenze.
Tutto questo manterrebbe sempre gli Stati Uniti al centro dell’economia mondiale.

29
9. Perché la crisi è occasione per un nuovo attacco ai lavoratori? L’inconsistenza
della tesi sottoconsumista.
Può sorgere l’obiezione che scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato sia, da un punto di
vista genuinamente keynesiano, una politica miope perché, riducendo la domanda aggregata,
allunga i tempi della crisi, accresce il livello della disoccupazione e riproduce un persistente
equilibrio di sottoccupazione, in particolare nei paesi europei. Nel quadro delle teorie marxiste
della crisi questa tesi può essere articolata caratterizzando la crisi come conseguenza della
diseguaglianza sociale e dell’iniqua distribuzione del reddito nel sistema capitalistico, ovvero
come conseguenza dell’insufficiente domanda monetaria dei salariati a fronte del plusvalore
incorporato nelle merci17.
Questa tesi rigorosamente sottoconsumistica può dar vita a una prospettiva politica di riforma
del sistema, di un suo spostamento su un modello di sviluppo più stabile, ugualitario,
ecologicamente sostenibile, mediante una profonda ri-regolazione redistributiva. Oppure, si
può ritenere che la contraddizione tra appropriazione privata del plusvalore e consumo dei
salariati sia divenuta irriducibile e inclinare per una posizione del tipo «l’unica soluzione alla
crisi del capitalismo è il socialismo». Una prospettiva che è vera in linea di principio, ma è
politicamente astratta e mal fondata sul piano analitico.

Il punto era già stato definito, a ridosso della prima guerra mondiale, da Rosa Luxemburg, a
torto incoronata regina dei sottoconsumisti da Paul Sweezy. Giustamente Rosa insisteva con
forza sul fatto che il consumo, meno che mai il consumo dei lavoratori salariati, non è lo scopo
della produzione capitalistica, e che «la produzione di mezzi di sussistenza è una conditio sine
qua non della produzione del plusvalore, cioè la riproduzione della forza-lavoro viva, mai un
mezzo di realizzazione del plusvalore»18. Il problema di Rosa non era l’insufficiente domanda di
beni-salario ma quello della realizzazione del nuovo valore prodotto, eccedente la parte
spettante ai lavoratori in forma di salario: era il problema della domanda aggregata e delle
decisioni di investimento dei capitalisti, che in definitiva realizzano il plusvalore, non del
sottoconsumo.
Fu proprio perché rigettava il sottoconsumismo ma non fu capace di risolvere il problema della
realizzazione che Rosa giunse alla conclusione, sbagliata se presa alla lettera ma feconda per
altri versi, dell’impossibilità della riproduzione allargata del capitale in assenza di sbocchi per la
realizzazione del plusvalore in settori sociali e società non-capitalistiche. Da questo

17
Per le teorie sottoconsumistiche si veda Underconsumption Theories. A History and Critical Analysis,
Lawrence and Wishart, London, 1976, di Michael Bleaney, e A history of marxian economics, due volumi,
Mcmillan, London, 1989 e 1992, di Howard e King.
18
Rosa Luxemburg, L'accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica
dell’imperialismo, Einaudi, Torino, 1960, p. 454, corsivo mio. Si veda su questo e altro Riccardo
Bellofiore, «Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg tra economia politica critica e
rivoluzione», in Storia del pensiero economico, n. 33-34, 1997.

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conseguivano la necessità dell’assoggettamento economico delle società non-capitalistiche e
del conflitto inter-imperialistico.

Nei termini più generali, nel caso della Luxemburg, come della maggior pare delle teorizzazioni
marxiste sulle crisi capitalistiche, si riscontrano due errori connessi.
Il primo è l’errore della monocausalità19: che si tratti del rapporto tra crescita del plusvalore (o
del surplus) da realizzare e limiti della domanda di beni-salario, della crescente composizione
organica del capitale e della tendenza a cadere del saggio del profitto, dello squilibrio tra
produzione di mezzi di produzione e produzione di beni di consumo (contraddizione
riconducibile alle precedenti), oppure della saturazione del mercato del lavoro e quindi, del
crescente potere della classe operaia che riduce il saggio di sfruttamento del lavoro e la parte
del profitto nel reddito nazionale, una delle tendenze di crisi viene elevata a contraddizione
sistemica fondamentale e a causa determinante delle crisi.
Il secondo errore è la confusione tra l’analisi delle contraddizioni strutturali del modo di
produzione capitalistico, o delle ragioni per cui è necessario rovesciare il potere della classe dei
capitalisti e dello Stato capitalistico (che non è tale semplicemente perché controllato da
personale e da partiti borghesi), con la spiegazione delle crisi economiche20. Da qui anche la
tendenza ad assimilare crisi economica e crisi politica e a derivare meccanicamente dalla prima
processi di radicalizzazione del conflitto tra le classi e/o il restringersi delle opzioni politiche
capitalistiche, in particolare per quel che concerne l’utilizzo delle burocrazie sindacali e politiche
di sinistra nel neutralizzare la radicalizzazione e nel ricondurla entro margini accettabili dal
sistema in quella congiuntura.
Ovviamente, tra le contraddizioni sempre operanti nel sistema e le crisi economiche esiste uno
stretto rapporto, ma la spiegazione delle seconde non può essere ridotta all’esposizione delle
prime: il problema è comprendere l’intreccio e il «peso» delle contraddizioni in forme
storicamente specifiche e nel quadro di diverse configurazioni spaziali dell’economia mondiale.
Altrimenti, basterebbe ripetere ogni volta qualche citazione di Marx. Il dogmatismo teorico e

19
Sul problema della monocausalità è chiarissimo Ernest Mandel nel primo capitolo, «Laws of motion and
the history of capital», del suo Late capitalism, Verso, London 1975 (prima ed. tedesca 1972). Ritengo
che, caratterizzando il capitalismo come dominato dallo sviluppo ineguale e combinato su tutte le scale,
Mandel abbia dato un contribuito prezioso su due questioni fondamentali per la critica dell’economia
politica: all’idea che il capitalismo non vada concepito come sistema retto dall’equilibrio; e che la
spiegazione dei suoi diversi periodi storici debba essere anche spiegazione dei cambiamenti
dell’articolazione geografica dell’economia mondiale in aree di ineguale sviluppo. Quella di Mandel è
posizione che rientra nella problematica dell’imperialismo, non della globalizzazione. Quanto sia poi
riuscito effettivamente a sfuggire alla monocausalità nella teoria dell’alternarsi di onde lunghe di
espansione e di stagnazione (centrale nel suo libro), in particolare nella determinazione delle seconde, è
un altro discorso.
20
Sulla questione si veda Simon Clarke, Marx's theory of crisis, St. Martin's Press, N. Y., 1994. La tesi
conclusiva di questa analisi delle contraddizioni del capitalismo in Marx e delle teorie marxiste della crisi è
che Marx non aveva una teoria della crisi nel senso che ha avuto tale teoria nel marxismo, ma che le crisi
periodiche sono solo la manifestazione più superficiale della contraddizione fondamentale del modo di
produzione capitalistico, l’accumulazione senza limiti di plusvalore. Questo è un altro modo per
respingere la monocausalità nella spiegazione delle crisi e per sottolineare la tendenza intrinseca nel
capitalismo all’intensificazione dello sfruttamento (in senso marxiano) dei lavoratori.

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politico può essere, nella sua astrazione dall’analisi approfondita del reale, che non è riducibile
ai dati di cronaca, formalmente fedele alla lettera di Marx, ma è teoricamente cieco e
politicamente sterile, benché utile per la costituzione di un’identità ideologica di gruppo.
Le fluttuazioni della domanda monetaria di beni-salario possono avere un ruolo congiunturale,
specialmente se si tratta di domanda estera: è quanto accaduto nelle fasi espansive a partire
dagli anni Ottanta, nelle quali la domanda Usa, alimentata dall’«effetto ricchezza», connesso a
bolle finanziarie, e dall’indebitamento delle famiglie, ha «tirato» esportazioni e investimento
dal e nel resto del mondo. Nel caso della crisi presente, si può dire che essa sia stata innescata
dall’insolvenza dei mutui concessi con criteri e con fini diversi da quelli della tradizionale
pratica bancaria, dando luogo a una sorta di «democratizzazione del credito», concesso perfino
ai ninja anzidetti. Ma si tratta di una constatazione superficiale. Le cause della crisi sono
stratificate: nell’evoluzione della «nuova architettura finanziaria», a partire dalla legge di
modernizzazione finanziaria di Clinton; e al livello più profondo, dalla necessità di bolle
speculative in una condizione di sovrapproduzione mondiale congiunta a processi di ri-
regolazione, de-segmentazione, liberalizzazione, internazionalizzazione e apertura dei sistemi
finanziari.
Il livello della domanda di beni-salario non può però spiegare autonomamente un intero
periodo storico dell’economia mondiale capitalistica.
Lo squilibrio tra la produzione di plusvalore e quella parte del capitale che per i lavoratori
costituisce il salario, è costitutiva del capitalismo ed è la sua forza motrice. Il capitalismo tende
all’espansione tendenzialmente illimitata del plusvalore prodotto: ma tutto il valore realizzato
è, in definitiva, realizzato dai capitalisti stessi, che pagano i salari.
Il profitto lordo del capitale sociale equivale agli investimenti più il consumo dei capitalisti, in
termini di prodotto ai beni di investimento più i consumi di lusso e gli armamenti (se la spesa
per questi ultimi è finanziata dal prelievo fiscale sui lavoratori), mentre i salari e i beni
consumati dai salariati non costituiscono, nella macroeconomia delle classi, realizzazione di
nuovo valore. Dal che è chiaro che è il capitalismo è un sistema fondato sul monopolio di
classe dei mezzi di produzione e di finanziamento, che gli scambi di plusvalore tra le grandi
sezioni della produzione sociale sono, appunto, scambi tra capitalisti che, per una parte del
valore prodotto, sono mediati dalla spesa dei lavoratori.
Il fatto che la parziale e distorta soddisfazione dei bisogni sociali e individuali dei salariati sia
solo un sottoprodotto dello sviluppo capitalistico e che essa sia subordinata allo sfruttamento
del lavoro vivo e all’erogazione di un salario monetario, è la ragione dei conflitti tra le classi e
della necessità del rovesciamento del capitalismo, non la causa prima delle crisi economiche
spontaneamente prodotte dal sistema.
Il che ci riporta al punto che le crisi economiche, sono un’opportunità per attaccare i lavoratori,
ora con la mediazione dei sindacati e della «sinistra» istituzionalista, più e prima che per la
«riforma» del sistema.
Non esiste alcuna ragione per cui i lavoratori debbano farsi carico dei costi di riproduzione del

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sistema: l’autonomia politica e organizzativa e la lotta extraparlamentare sono condizioni
necessarie anche per conseguire obiettivi limitati e difensivi.

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