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Schopenhauer e la storia
Il pensatore di origini prussiane (1788-1860) nella sua filosofia storica si oppone alla concezione
hegeliana, affermando che "il mondo stesso il tribunale del mondo", non la storia. Rifiuta l'idea
dell'umanit come un tutto e anche un ruolo positivo della storia (Mandeville, Kant, Hegel) in quanto
per lui non c' giustificazione alcuna al male.
Egli va contro la filosofia del suo tempo, contrastando anche Spinoza nell'idea che Dio sia il mondo
(mondo e male sono sinonimi), in quanto non spiega cosa sia il mondo, cos come che la storia abbia
un qualche disegno divino; solo l'individuo reale, il resto sono astrazioni, come lo spirito hegeliano.
Illuminista e antidogmatico, crede nel progresso ma non in un futuro roseo: nel suo pensiero,
discordia e dolore sono ineliminabili.
la stessa espressione, oggettivazione della volont che porta allo scontro, tanto che per lui inutile
aspettare una pace che sarebbe gi dovuta arrivare; certo l'egoismo si pu vincere con la
compassione, ma essa merce rara e destinata a pochi. In lui avviene quindi uno scontro interiore tra
il pessimismo metafisico descritto e la lotta continua al male e alla menzogna.
Tornando alla storia, egli non la definisce una scienza in quanto questa un sistema di concetti, che
trattano di ci che sempre, e inoltre passa dal generale al particolare; la storia invece tratta di ci che
stato una volta sola, e tratta dell'individuo, non su pu parlare di conoscenza generale in quanto essa
soggettiva, quindi superficiale.
Allo stesso modo, la conoscenza filosofica si eleva al di sopra di quella storica poich la pi
generale ed importante, che parla di ci che sempre uguale, nelle sue diverse manifestazioni, d le
conclusioni. La storia invece si riduce a storia del singolo, di un intreccio transitorio del mondo
umano in continuo movimento, nulla quindi di assoluto o generale.
Per Schopenhauer la stessa storia dei popoli varia solo in nomi e date, il contenuto lo stesso
ovunque: per questo dice che chi legge Erodoto ha gi studiato abbastanza storia. La filosofia ricerca
la profondit dunque, va oltre il racconto dei fatti. La storia ci fa conoscere pi gli uomini che l'uomo,
non entra nell'essenza di quest'ultimo; in questo senso preferibile l'arte alla storia.
Negli eventi storici, tolto ogni disegno divino, dunque determinante il caso; lo scorrere delle
vicende umane solo un fenomeno, una forma esteriore casuale della vera idea che c' sotto, come
casuali e indifferenti sono le forme che le nubi assumono in confronto alle nubi stesse.
Detto ci, critica dunque la tendenza folosofica del suo tempo che culmina in Hegel, la quale
confonde l'essenza con il fenomeno, l'essere con la manifestazione. Cita poi Platone, dicendo come
l'idea sia eterna, oggettivazione della volont, e lo stesso uomo singolo da considerare come reale,
ben definito nella sua singolarit.
Il suo pensiero pone al centro di tutto l'individuo, che reale rispetto al genere umano, a quella
molteplicit che non reale, ma mero fenomeno; la vita di ogni singolo ha significato, un
insegnamento morale, un microcosmo che rappresenta il macrocosmo.
Sono i processi interni, guidati dalla volont, ad essere reali, quelli esterni sono solo manifestazione di
questi. Ecco perch va contro chi vede la storia come un tutto prestabilito; parlare di genere umano, di
popoli o spirito del popolo solo astrazione, finzione.
Facciamo un breve salto alla filosofia di Kant, Hegel e Marx per meglio capire il pensiero di
Schopenhauer.
Kant dice che sarebbe sconfortante pensare che non ci sia un fine per l'uomo, una provvidenza; per
quanto giudichi temerario per la mente umana comprendere il disegno divino, possibile (per lui
auspicabile) pensare che ci sia, pur rimanendo nel piano della possibilit, sostenendo l'autonomia della
Montaigne (1533-1592)
L'aspetto pi controverso del francese sta nell'attribuire o meno il suo scetticismo verso la ragione,
che pretende di conoscere il vero, anche verso la fede; alcuni pensano di no, dato che egli seguiva i
principi cristiani, mentre Pascal nella critica ai Saggi ritiene la fede lontana dal pensatore, dicendo
che Montaigne descrive l'uomo naturale.
Se parla di grazia come di dono divino, quindi tralascia la fase relativa all'iniziativa umana, l'oggetto
del suo studio la natura, vista come unica realt, dunque anche come unico oggetto di conoscenza
e riflessione, che porta comunque ad una conoscenza vana, non completa.
Pascal, suo grande critico, se condivide con lui la sfiducia nella ragione (tipica della religione, anche
riformata) vede comunque una finalit nella vita dell'uomo, la redenzione tramite la fede e la grazia,
altro non potrebbe essere il senso della vita. Montaigne invece considera Dio troppo nascosto, tanto
che l'uomo non in grado di ascoltare la sua parola, bisogna cercare il significato della vita: sarebbe
questo, in caso di successo, il capolavoro dell'uomo.
Allo stesso modo, la morale qualcosa di profondamente umano, non deriva dal divino come pensa
Pascal. Montaigne considera fortuna e sorte come elementi ben presenti, che influenzano la libert
nella vita morale dell'uomo; egli parla della saggezza come padronanza di s, come "capacit
dell'uomo di porsi in modo vigile e cosciente nei confronti delle passioni per moderarle" dice Vincieri,
cos come verso le forze esterne per controllarle il pi possibile.
Si nota il suo debito verso la tradizione classica, ancora di pi quando parla di moderazione come
giusto mezzo per vivere bene, ideale derivato dalla ragione e dall'esperienza. Se questa la base dei
Saggi, l'obiettivo analizzare la realt, e capire la natura di pensieri ed azioni. Per fare ci, oltre a
fornire casi reali come esempi, osserva se stesso, in quanto per Montaigne "ogni uomo porta in s la
forma dell'umana condizione".
Questo ideale della moderazione va in crisi nell'esame della realt, perch essa caratterizzata da
diversit e movimento; ci non da vedersi come una contraddizione, in quanto Montaigne non
definisce mai, ma saggia la realt. La stessa ragione che sempre presente in modo positivo, cmq
qualcosa di vago: egli esamina, analizza, distingue, osserva.
Vuole andare alla radice dell'io proprio tramite l'osservazione di se stesso, anche perch solo chi
conosce il proprio io padrone di s; i Saggi sono dunque un suo viaggio personale dentro se stesso,
per capire cosa d vita a certi pensieri e ci spinge a certe azioni: solo cos si pu capire come siamo.
importante capire che egli si osserva in movimento, in quanto la realt esteriore come quella
dell'anima in costante cambiamento, nulla stabile, fisso; la conclusione cui giunge sar per che
non si pu avere una chiara conoscenza di noi stessi, in quanto siamo formati da tanti pezzetti,
dunque diversi al nostro interno.
Presentando i suoi Saggi come utili solo a se stesso, quasi futili e vili, in realt scover conferme
contro la concezione comunemente accettata di essenza.
Nel particolare, vediamo cosa ci spinge ad agire per Montaigne; egli analizza 3 elementi.
L'indole naturale, ossia le inclinazioni possedute dall'individuo per natura, sue proprie.
L'abitudine, che plasma la prima e si intreccia con essa, tanto che viene difficile separarle; abitudine,
consuetudine, sono una sorta di seconda natura, molto importante sul piano politico e sociale. Da lui
Rousseau prende il concetto di lontananza dallo stato naturale, tanto che diviene difficile
distinguere elementi naturali e acquisiti.
Infine la ragione, che come detto non definisce, ma considera come un qualcosa di pi raffinato e
astratto di ci che era nella semplicit naturale, una ragione metafisica.
Egli per gli affibia una valenza positiva in quanto permette, se ben usata, la padronanza di s; in
questo senso, contrappone la presunzione alla dotta ignoranza.
Attacca le impalcature costruite dai metafisici, contestando l'eccessivo potere attribuito alla ragione;
per lui la filosofia "poesia sofisticata". Montaigne dice come la nostra malattia naturale sia la
presunzione, che ci fa credere di aver capito tutto, mentre invece bisogna sempre agire con umilt
poich non c' verit della ragione che prima o poi non venga contraddetta. Ecco perch ad essa
contrappone la dotta ignoranza, poich la maggior parte degli uomini pensa di sapere e conoscere,
quando invece non comprendono nemmeno se stessi.
Anche lui vede lo stato umano miserabile e meschino, quindi in fondo nota il ruolo positivo della
presunzione (esattamente come Hobbes vede la stima di s) che ci consola; il prezzo da pagare per la
ragione sarebbe il soccombere alle infinite passioni. Si pensi ai danni che il potere di ragionare ci ha
conferito, ad esempio in merito ai mali come la morte, che l'immaginazione e la sfrenatezza di
pensieri aumenta a dismisura. Immaginazione e fantasia, strettamente legati alla ragione, sono causa
prima dei mali umani, gli animali infatti soffrono e vivono in modo molto pi naturale, sopportabile.
chiaro che per lui non c' retta ragione in natura, come dir Hobbes.
Per il discorso del scetticismo, non si trova in Montaigne un legame tra esso e fede religiosa; per
quanto ammetta la fede in Dio, non c' traccia nei Saggi di una presenza divina in noi, tanto che la
coscienza cosa del tutto umana. Allo stesso modo, quando descrive il pentimento (distinguendo, non
insegnando, con discorso ricco e articolato, pieno di aggiunte) dice come sia certo possibile, anche se
molto difficile in quanto il vizio radicato in noi, e pi che toglierlo la coscienza lo tollera: questo a
causa della consuetudine sovrapposta all'indole naturale.
Quando per arriva alla descrizione di s, prende una posizione pi netta; qui pone infine il nostro
operare con il nostro essere, quindi ci che si chiedeva, il cosa smuove pensieri e azioni, non ha una
risposta precisa, ma risiede in noi. Dice infatti che se dovesse rivivere, lo farebbe come ha gi vissuto.
Per lui non ci conosciamo mai del tutto, essendo formati da pezzettini diversi ed in movimento; solo
per presunzione possiamo pensare di essere privilegiati per natura, riportando come esempio la
presunta felicit perduta prima del peccato, che lui chiama fantasticheria.
Nel suo caso particolare parla di indole mite, buona educazione quindi buona consuetudine e fortuna.
Montaigne pone attenzione al male artificiale, quello che l'uomo fa a se stesso ed agli altri, piuttosto
che a quello naturale, che tollerabile; esso non deriva da una impurit di cuore, bens dalla nostra
misera condizione, parla di follia e stoltezza. Ci dimostrato dalle stravaganze stesse della storia,
la nostra stessa vita risibile e paragonabile ad una commedia (simile a Schopenhauer; dice anche M
che sarebbe una sproporzione iniqua ricompensa eterna per vita cos breve).
Lega intimamente morale con psicologia, dicendo come la ragione soggettiva non possa il pi delle
volte distinguere oggettivamente male e bene; dice che meglio affidarsi a Dio, vedendolo per
come lontano a causa della nostra mancata comunicazione col nostro stesso essere, quindi non
possiamo avvertire il suo tocco se non ci conosciamo.
Si cerca di capire, studiando Montaigne, come mai egli nonostante la sua sfiducia nella ragione
conservi una speranza di un suo buon uso; ci si pu spiegare sia con l'influenza dei classici, da cui ha
assimilato i valori dell'umanit, sia dalla sua indole moderata, che odia la guerra e la violenza. Cos si
pu vedere Montaigne come uno che non si rassegna all'idea che la ragionevolezza non possa
prevalere, nonostante la storia lo smentisca di continuo; anzi forse proprio dalla storia e dalla guerra
civile-religiosa deriva la sua sfiducia nella ragione e la convinzione sulla presunzione dell'uomo.
Facciamo allora una sintesi del ragionamento che lo porta a definire l'uomo: essendo noi parte della
natura, abbiamo al nostro interno tutte le passioni contrarie tra loro, la natura stessa nel suo ordine
comprende tutti i contrari. Essendo guidati in direzioni diverse da esse, difficile stabilire quali siano
le regole naturali da seguire, tanto siamo lontani dalla condizione naturale, in cui invece vi erano
semplici e poche regole da seguire.
Essendo quindi la vita stessa movimento, ecco che rispetto alla nozione aristotelica di essenza
Montaigne parla di condizione umana, definizione meno rigida che meglio chiarisce una esistenza
come la nostra, cos varia e turbolenta. Nel particolare, parla di misera condizione.
L'esperienza per gli ha insengato un altra verit, ossia che ci cui gli uomini aspirano, come essere
naturali, la conservazione della vita; questa in primis che da vita alla lotta, che va risolta poi con
le leggi. Allo stesso modo, definisce una necessit quella di unirsi per gli uomini, unione che diventa
legge essendo gli uomini dotati di socievolezza ed insocievolezza.
Quindi il fondamento del diritto proprio questo, conservare la vita; da qui parte la critica alla
societ (ripresa da Rousseau), in quanto i mali maggiori sono quelli che produciamo con l'arte; i
bisogni di oggi sono superflui, al progresso necessariamente si accompagna la corruzione. Gi in
lui appare la scissione derivata dalla societ moderna tra essere ed apparire, centrale in Rousseau;
non quindi con l'arte che miglioriamo la nostra vita.
Con l'esempio dei selvaggi d'America mostra come ognuno giudichi barbarie in base a ci che
estraneo ai propri usi, impone dunque il problema dei nostri artefici che anteponiamo alle opere di
madre natura, tanto da soffocarla; descrive come frivole imprese le nostre rispetto alle sue, si pensi
come sia attuale e come abbia anticipato i tempi.
Egli dice che se i selvaggi sono cannibali, noi invece ci mangiamo vivi; pensa al loro stupore riguardo
la disuguaglianza sociale della nostra societ, che per loro non ha senso.
Ecco che appare quindi lo Stato come elemento funzionale per la conservazione della vita; si dimostra
un pensatore politico moderno quando afferma che le leggi sono sovrane non in quanto giuste, ma in
quanto leggi. contro la tirannia e la guerra, ama la liber intesa come movimento e di coscienza, ma
politicamente contro partiti e fazioni politiche che disgregano lo stato.
Si capisce perch egli dallo Stato desideri sicurezza, perch vuole vivere libero e tranquillo senza
tensioni; non ha ambizioni, si accontenta di ci che la fortuna gli consegna, la cosa pi grande del
mondo per lui saper essere per s.
La sua sfiducia come detto deriva quindi dalla stoltezza dell'uomo che infrange il diritto di tutti alla
conservazione della vita con le guerre, un giudizio il suo che tiene conto della storia. Vede per in una
forma pi alta di ragione la padronanza di s e la libert di giudizio in funzione antidogmatica; tutto
riferito, bisogna ricordarlo, all'individuo, e in questo caso a lui medesimo.
Le vera libert per lui potere qualsiasi cosa su se stesso, quindi si rende conto che non pu
aspettarsi che gli uomini vivano bene, ma nonostante ci egli prova a farlo, senza prescriverlo agli
altri, in modo conforme alla sua indole.
Per fare ci, oltre a seguire la propria indole ed a una discreta dose di fortuna (la sorte quindi ha un
certo peso), deve poi perseguire questo obiettivo convivendo in mezzo alle persone, che spesso
definisce gente o folla. Come fare allora a vivere da saggio in mezzo ai passi? Dato che lo Stato
garantisce sicurezza, non volendo egli sottrarsi al dovere di cittadino, la soluzione cercare uno
spazio proprio per salvare la sua interiorit. La sua una posizione di difesa.
Precisiamo bene, egli non lo fa per un risentimento personale, dato che sempre grato e contento
della vita che ha ricevuto in sorte (ben diversa sar la solitudine di Roussea); eppure notando come gli
uomini nel quotidiano perdano la loro autenticit, di come si "diano in affitto", preferisce quando pu
stare con se stesso.
In definitiva per vivere la vita nel modo migliore si deve perseguire la salute di corpo e anima;
quest'ultima si raggiunge con la conoscenza di s, valorizzando la propria interiorit e anche in una
relazione con gli altri di vera amicizia.
Ma rara la vera amicizia, cos come la virt che non facilmente insegnabile: ecco perch il
pernsiero di Montaigne non prescrittivo, la sua una considerazione su cosa sia meglio fare almeno
per limitare la nostra passivit agli eventi; un invito a non abbandonarsi, che ricorda il
Macchiavelli quando nel cap 25 del Principe mostra tutta la sua convinzione sull'arbitrariet
dell'uomo, quando dice che la fortuna guida solo met della nostra vita, e va imbrigliata con la virt;
cosi come nel cap 9 del terzo libro dei Discorsi considera che per vivere bene l'uomo deve sapersi
adattare ai tempi.
Il progresso si ottiene attraverso la singolarit per lui; solo chi sa intrattenersi con se stesso, sa farlo
come si deve anche con gli altri. Si noti come ancora anticipasse i tempi nel dire che le regole ed i
precetti del mondo sono fatti per spingerci fuori di noi, per l'utile della societ.
Interiorit, vivere per la conoscenza, giusto senso e misura, tutto ci porta a superare non noi, ma la
natura stessa: l'idea dell'eternit, dice Vincieri, un dono degli di per far sentire gli uomini meno
mortali.
Epicuro evidenzia l'imperfezione della natura e la dura realt dell'uomo, quindi si concentra su ci
che pu rendere la vita sopportabile, serenit e tranquillit tramite la ragione.
Lucrezio punta invece pi alla conoscenza del vero, che per si accompagna anche al dolore per
l'abisso che stato rivelato. In lui quindi contrastano un immensa gioia per aver visto l'essenza intima
delle cose, l'ebbrezza suprema del conoscere, con la profonda comprensione della miseria
dell'uomo. Lucrezio non riesce a non vedere che il mondo non fatto per noi.
Si spezza cos il legame tra il bene ed il vero; dovendo noi tornare al nulla necessariamente, meglio
per Lucrezio attendere la morte serenamente piuttosto che affidarsi a beni effimeri, falsi. La gioia
della mente per la conoscenza non si trasmette alla prassi, smorzata dallo stesso oggetto svelato.
Il problema che persino lui rimane sopraffatto dalla scoperta, da non riuscire egli stesso a vivere
sereno, la ragione ha visto troppo; forse meglio vivere nell'ignoranza, senza chiedersi il perch della
vita.
Leopardi (1798-1837)
Il poeta-filosofo fa un uso critico della ragione, sfruttandone le potenzialit per scandagliare il reale,
in ottica antidogmatica. Per notare la vicinanza a Lucrezio, si citano due opere precedenti quello
Zibaldone che esprime il pensiero leopardiano, ossia Storia dell'astronomia e Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi.
Opere di un giovane Leopardi che esalta la ragione come capacit di comprendere la cause delle
cose; egli ammira Copernico, Galileo, Newton per la loro razionalit, mentre da Cartesio carpisce
quella metodologia di mettere sempre tutto in dubbio. Accosta l'ignoranza alla follia, tipiche
caratteristiche del genere umano, poi rischiarato nel secolo illuminato.
Questi saggi gi denotano l'uso critico della ragione di stampo illuministico, con richiami a Lucrezio
per facilit con cui la mente umana si lascia ingannare; la grande differenza mai colmata tra i due sta
nel fatto che il Leopardi vede la ragione come propedeutica alla comprensione del vero, che risiede
nella religione. Come per Newton, scienza e religione non sono in contrasto, anzi la prima oggetto
della ragione, che poi porta allo sbocco della religione, a quell'ordine che espressione della sapienza
divina.
Ma nello sviluppo del suo pensiero, la ragione messa poi sotto accusa perch coglie una realt che
appare brutta; essa va oltre i limiti impostati dalla natura stessa e come Lucrezio vede troppo.
Precisiamo che Leopardi per ragione intende sia la parte calcolante, che la mente intuitiva. Egli in
particolare attacca la ragione matematica, calcolatrice, perch esclude la visione poetica della vita,
e tende ad imporsi come assoluta.
Si visto che Lucrezio rimane nella dimensione del vero, anche quando coglie la distanza tra il bene
ed il vero; la ragione quindi, visto l'abisso, cerca di adattare la vita a tale consapevolezza indicando la
strada della serenit, che poi non ci si riesca un altro discorso che esula dalla dottrina.
Leopardi dopo aver scoperto l'abisso, reagisce a modo proprio: esalta la facolt immaginativa a
discapito di quella razionale, perch nella prima che risiede il lato poetico, bello, della vita. Arriva
cio a dire che le illusioni sono necessarie per la vita, in quanto la conoscenza del vero inaridisce
tutto.
Pensando all'immaginazione degli antichi, cita Omero, arriva alla modernit che ha distrutto le favole
poetiche, in quanto la ragione ha fatto strage di illusioni. Ecco che arriva alla conclusione per cui
l'uomo non era destinato a conoscere il vero. Lo mostra il nesso tra verit e disperazione.
Sviluppa cos la teoria del piacere, per cui la felicit il fine dell'uomo (Aristotele), dicendo che
l'uomo era prima felice, poi diverse cause occasionali (Rousseau) hanno sviluppato la ragione,
ponendoci di fronte al vero.
Pi che ammettere una sorta di contraddizione, per cui l'uomo destinato ad essere infelice, Leopardi
parla di perfezione relativa delle cose, ammettendo solo una sorta di decadenza dell'uomo da una
perfezione originaria. Egli applica la teoria della illusioni, dicendo come l'uomo si perde se vede
troppo, si pensi al peccato originale in cui ha mangiato i frutti della conoscenza; la natura interviene
dunque fornendo le illusioni necessarie a noi mortali per sopportare la vita.
Leopardi vede quindi nella ragione puramente calcolatrice la causa di decadenza, identificata
anche nella storia, che altri filosofi vedevano nelle passioni; la situazione al suo tempo impedirebbe
una risalita all'entusiasmo, essendo stata confutata l'illusione pi grande, quella religiosa.
Si vedr per che il vero nemico da contrastare sar proprio la ragione lucreziana, quella che coglie il
vero.
Dallo Zibaldone si vede come egli dica chiaramente che la natura grande, la ragione piccola; i
grandi uomini per agire devono prendere spunto dalla prima, quindi dalle sue illusioni, perch senn
la ragione ferma tutto. La natura come sorgente di entusiasmo, genera le illusioni e permette di
sopportare la vita nonch di compiere le grandi azioni, mentre la ragione matematica non comprende i
sentimenti, il bello, il poetico, l'armonia.
Leopardi stabilisce un nesso sottile tra immaginazione e ragione, dicendo come anche il filosofo
necessiti della prima per capire il tutto naturale; sostenendo che tutto si alimenta dal suo contrario,
cos necessario il falso al vero. Attenzione al sottile passaggio: l'immaginazione ci vuole per
arricchire la vita, ma dobbiamo sapere che essa tale; Leopardi infatti dice che i poeti ingannano
l'immaginazione dell'uomo, non il suo intelletto (ci che diceva anche Spinoza nel trattato finale,
L'Etica: immaginazione una potenza della mente, diventa difetto se la si confonde con la realt).
La ragione ha quindi bisogno di lasciarsi trasportare dall'immaginare, rimanendo consapevole di
questo, per non essere sopraffatta dal troppo vero che vede.
L'uomo dunque per lui corruttibile, non perfettibile, poich era perfetto prima (perfezione
relativa); ragione acquisita, l'immaginazione naturale, la natura superiore. La soluzione la
compenetrazione tra ragione ed immaginazione, quindi il filosofo deve anche essere poeta, usando
la parte intuitiva della mente.
Se dunque identifica diversi tipi di ragione, primitiva, riflessiva (illumina, scova errori),
matematica-utilitaria, il culmine il cosidetto genio poetico e filosofico; essa al facolt intuitiva
proprio del genio, Leopardi la chiama inventiva (ci ricorda Spinoza), che riesce a cogliere i rapporti
del sistema naturale.
La sua conclusione che immaginazione ed intelletto sono un tutt'uno, che privilegia l'una o l'altra
parte a seconda delle circostanze. Ai filosofi serve quindi l'intuizione propria dei poeti, cita Platone e
Pindaro. In una nota evidenzia come sia mirabile che poesia e filosofia, l'una che ricerca il bello,
l'altra il vero, cio due cose contrarie, siano cos affini tanto che il grande filosofo debba essere anche
poeta e viceversa.
Da questo sviluppo arriva al rapporto tra poesia e vero, chiedendosi se ancora possibile essere poeti;
poich per tutto ci che stato detto, sia il grande poeta che il grande filosofo si rendono conto della
scissione tra il vero ed il bello/bene, Leopardi finalmente ammette l'esistenza di contraddizioni in
natura, proprio come questa.
Sempre nello Zibaldone, dice che la mente di una potenza estrema, si innalza a dio, gli si avvicina;
eppure va oltre, vede ci che non doveva, svela l'abisso e il mistero che il Leopardi non sa spiegare: la
natura nega la felicit, che per per l'uomo l'essenza della vita, quindi come se negasse la vita
stessa. Questa la contraddizione che ammette, ma non spiega (stessa conclusione cui arriva
Schopenhauer).
Il suo pensiero quindi che l'esistenza dovrebbe coincidere con il bene, se cos non fosse la vita una
assurdit. Si arriva cos al supremo interrogavito metafisico, qual' il senso dell'essere, senza perci
trovare risposta.
L'interrogativo esprime l'uso critico della ragione, che per Leopardi differenzia la filosofia moderna da
quella antica: la prima infatti tende a scovare gli errori accumulati, senza sostituirli: risultato, una
realt vera che per non porta da nessuna parte.
L'immensa potenza della mente porta al nulla, perch tutto appare per quello che , dunque si
demolisce il bello ed il grande; essenziale per il processo conoscitivo il dubbio, lo si detto, che si
esprime nell'assunto per cui chi dubita sa; vi un solo assoluto, che tutto relativo. Uomo e cosmo
sono solo grandezze evanescenti, che nascono e muoiono, ecco Lucrezio in Leopardi.
L'infelicit il sentimento di fondo di tutte le Operette Morali, ed significativo che il Dialogo
della Natura con un Islandese termini con una domanda di quest'ultimo lasciata senza risposta, chi
felice cio di questo ciclo di produzione e distruzione. La differenza tra i due sta proprio qui,
Lucrezio risponde dicendo che cos , e ci si deve accontentare. Leopardi pensa invece che l'uomo
non ama la vita in s, ma la felicit che essa dovrebbe portare, e se cos non , meglio non esistere.
Per lui non desiderabile il semplice essere, ma l'essere felice, da qui si definisce il fine dell'uomo
con il bene, la felicit, altrimenti la morte supera la vita in pregio (conclusione del Dialogo tra fisico e
metafisico).
Lucrezio portato verso la fine delle cose, mentre per Leopardi esse tornano da dove sono venute,
cio nel nulla, passando cos ad un piano metafisico. Scopo del Leopardi, nella critica alle idee
platoniche, sar conciliare la sua dottrina, per cui tutto relativo, con il ruolo di Dio.
Se nelle Operetta morali si parla di infelicit, nei Canti si parla di belt, ed ecco anche qui esplicato il
pensiero leopardiano: la mente si fa un idea della belt, che per non corrisponde alla materia, al vero.
La filosofia leopardiana si concentra tutta sul domandare (ricorda Montaigne che distingue, pi che
definire precisamente, allontanandosi quindi dal determinismo), che colmo di risentimento per
quello che all'uomo dovrebbe essere dovuto. Sempre si chiede le cose, e sempre finisce per pensare
che non comprende come l'essere possa coincidere con l'infelicit.
Come si legge nelle note, se Leopardi confuta le idee platoniche, troppo assolute, e dio stesso, cosa d
forma agli aggregati atomici? Ecco ancora la domanda senza risposta; qui si dice, tramite la critica di
Severino, che Leopardi rappresenta la punta estrema del nichilismo, ossia il pensiero occidentale
moderno. Teniamo presente per che la contraddizione nasce in Leopardi perch lui pone come base
di partenza il fatto che il fine dell'uomo sia la felicit, se si contesta tale concetto allora non c' quella
contraddizione tra natura e ragione.
Citando Heidegger, noi possiamo solo restare col pensiero in attesa, ben disposti ad accogliere la
luce che proviene dall'essere, mentre Leopardi ha il risentimento che deriva dalla pretesa di una
risposta alla nostra domanda, proprio perch deriva dalla tradizione metafisica che vedeva un fine
nelle cose.
poich ci porta allo scetticismo; per lui la causalit legata all'intelletto, che condiziona il mondo
reale, esterno. Teniamo presente che durante la sua opera il concetto di realt si evolve.
Dunque in Schopenhauer la sensibilit il punto di partenza, l'intelletto ha un ruolo determinante nel
processo conoscitivo, lo distingue dalla ragione che propria solo dell'uomo. (gli animali avrebbero
un certo grado di intelletto). stessa tripartizione di Kant nella Critica alla ragion pura.
l'intelletto a stabilire i rapporti di causa-effetto agli oggetti, rappresenta la conoscenza intuitiva e
immediata (Aristotele); la ragione poi forma i concetti astratti e di conseguenza i giudizi.
Sembra dare un ruolo secondario alla ragione, in realt non cos; essa forma una conoscenza
riflessa, diversa da quella intuitiva, propria degli uomini che legano appunto la ragione con il
linguaggio che porta alla consapevolezza della propria morte.
Restando ancorato all'esperienza dell'uomo, critica tutta la filosofia che ha come base concetti astratti
(essenza, dio, infinito...); il suo attacco ad un certo uso della ragione non diminuisce l'importanza per
lui della conoscenza riflessa, che permette l'autocoscienza: il senso interno proprio dell'uomo.
Questo senso interno carpisce il corpo come volont, e il senso effimero di tutte le cose, come
l'esperienza insegna.
L'importanza della filosofia, che non deve cadere nella mistica e nella rivelazione di verit assolute,
quella di elevare a concetto partecipabile a tutti ci che a noi noto in concreto, tramite sensibilit
ed intuizione. questa la capacit unica nell'uomo di guardare il mondo come spettatore, come dice
Vincieri "per sopportare la vita l'uomo si pone di fronte ad essa come se non gli appartenesse";
proprio tale distanza che va a costituire, in una delle sue forme, il miracolo dell'arte, quelle illusioni di
cui parla anche Leopardi.
Vediamo la critica al materialismo di cui si detto; di coloro cio che tentano di indagare la natura,
da Talete primo filosofo a Democrito ed Epicuro, a Giordano Bruno.
Il materialismo parte dallo stato primitivo della materia, pervenendo poi di passaggio in passaggio
allo stato attuale, in cui la conoscenza ultimo anello, ma dando per presupposto di partenza, come
dato, il principio di causalit, senza spiegarlo. Tale modo scientifico di procedere (ricorda Aristotele,
in cui scienza disposizione per le dimostrazioni, che parte da principi noti a tutti o cmq dati), che
coglie le relazioni tra le cose, non ne coglie per l'essenza intima, non spiega il come si passati da
uno stato all'altro.
Per cogliere tale intima essenza si deve andare oltre la rappresenazione, allargare la nostra conoscenza
tramite quel senso interno di autocoscienza che fa percepire il corpo come oggettit della volont.
Quindi l'azione altro non che il nostro volere oggettivato; corpo e volont sono un tutt'uno, il
primo ci fa conoscere la volont nel suo velo pi tenue, propria del senso interno.
Ci che si percepisce, tramite coscienza e sentimento, diventa oggetto di riflessione; la conoscenza
riflessa quindi, del ragionamento, si basa su quella diretta. Allo stesso modo, si dice che in virt
del corpo che il soggetto si sa come individuo.
Egli quindi si conforma a Platone in quanto solo le idee sono vero e proprio essere, mentre gli oggetti
nel tempo e nello spazio che noi pensiamo come reali sono solo esistenza apparente, una sorta di
sogno/rappresentazione.
Si pensi alla critica ironica di Leopardi che ritiene inaudito porre lo spirito hegeliano, che non si sa
bene cosa sia, alla base di tutto, della materia stessa; perch allora non il pensiero? Il compito della
filosofia quindi rispondere al "che cosa", trovare l'essenza dei fenomeni, non tanto al "perch".
La volont cieca per Schopenhauer, irragiovevole; si capisce che egli vuole dimostrare l'esistenza di
un disegno in natura (contro determinismo), sebbene non intenzionale.
Vediamo ancora come critica l'atomismo meccanicistico; meccanica, fisica, chimica sono scienze che
mostrano le leggi/regole con cui le forze agiscono, si manifestano. Ma non riescono a definire
l'essenza di tali forze, cosa esse sono. Per capire COSA SONO si deve ricondurre il concetto di forza
naturale sotto quello di volont, cosicch esse appaiono come manifestazioni immediate della volont
nel suo oggettivarsi.
Il fenomeno dunque manifestazione di volont; l'ipotesi da cui parte per dire ci che la causa non
si pu chiedere, cos come non si pu capire il senso della vita, ma si pu capire la sua essenza.
Per lui il materialismo un rozzo sistema che nega la forza vitale, fa risalire tutto al movimento di
atomi, riducendo la domanda "che cosa" al come appare. Il suo un finalismo interno che critica
l'atomistico antico e moderno, per Schopenhauer per noi impercrutabile il perch il mondo esista,
ecco la base di tutto il suo ragionamento, cos distante da quell'Hegel che tanto critica, il quale diceva
possibile comprenderlo tramite per assunzioni contestabili.
L'abisso rivelato il fatto che per noi non c' ragione perch il mondo ci sia, si pu dunque solo
passare alla metafisica spiegando le forze naturali con la nozione di volont, che rimane per
distinta dalla ragione.
Tale pensiero porter alla identificazione delle forze naturali con le idee platoniche, quali
oggettivazione della realt; facile capire il passaggio del filosofo, se consideriamo la precisazione
per cui per assegnare la realt ai fenomeni, va loro assegnata quella realt che sperimentiamo del
nostro corpo. Si capisce come lui spieghi alla fine la natura partendo dall'individuo, il microcosmo
che racchiude tutte le caratteristiche del macrocosmo.
Ecco che l'idea che ogni grado di oggettivazione della volont, e costituisce la forma eterna dei
singoli soggetti, non cambia nel divenire.
[PRESUPPOSTI: -da Kant prende tripartizione conoscenza, coesistenza realt e metafisica;
-tutto parte dal corpo/sensazione, dalla conoscenza diretta si arriva alla riflessa;
-intelletto e ragione sono diversi, entrambi fondamentali;
-sofferenza e dolore dipendono dal divenire, ineliminabili;
-per capire essenza cose, allargare conoscenza, ci porta a dire che corpo
oggettit volont, dunque estende tale consapevolezza individuo a tutta la natura, cosicch tutto
manifestazione della volont, rappresentazione.
-compito Filosofia capire il CHE COSA; il PERCH non si pu sapere,
abisso rivelato, la consapevolezza che per l'uomo il mondo non ha senso.]
Detto ci, vediamo qual il suo sistema, antiatomistico.
L'atomismo errato in quanto cercando le cause, resta fermo alla rappresentazione; concepisce il
mondo come risultato di urti e colpi. Schopenhauer a ci oppone le cause occasionali, che permettono
all'idea di balzare fuori. Pensa alle idee come forze onnipresenti fuori dal tempo, che entrano nella
realt quando si presentano le circostanze (Kant), scostando la forza precedente; contrasta cos ogni
teoria evoluzionistica.
L'origine del male sta nell'ingresso delle idee nel tempo, che per in quanto da noi contemplabili
procurano il piacere estetico. La volont una in senso metafisico, e si oggettiva nelle forze
originarie.
Si richiama dunque a Kant, che fa valere la teleologia del mondo organico, per quanto Schopenhauer
rimanga al di fuori dal suo sistema (Kant vede progresso, passaggio dal male al bene come
Mandeville), ed anche ad Aristotele, facendo emergere un innegabile finalit nella natura, che per
esclude una intenzionalit. Questo non dunque il mondo migliore, anzi il peggiore. Egli dunque
esclude un dio creatore, ma ci non toglie che un ordine esista; Kant supera tale visione perch vede
nell'uomo stesso uno scopo (morale).
In Platone, il demiurgo ordina il mondo (non lo crea, la materia si ritiene eterna) dal caos, quindi
l'ordine/armonia bellezza. Pu non essere perfetto, ma ordinato. Il vertice delle idee il
bene/ordine, lo stesso Aristotele dice che tutte le cose hanno un fine, ed esso il loro bene; dio
lontano, ma l'uomo punta al divino tramite la vita contemplativa, possibile con la sapienza.
Per gli atomisti come Lucrezio, il mondo il risultato di un gioco ad incastro di infiniti atomi, non
ammette divinit n alcun senso. Kant si pone nel mezzo, considerando la teleologia (fine) per solo
riferita all'uomo nel giudizio riflettente.
Si scontrano visione meccanicistica, quella finalistica, e quella organica (dio=natura); in
Schopenhauer l'ordine esistente destino, da qui deriva il sentimento dell'assurdo vista la finalit
senza scopo. Finalit interna, quella dei singoli atti di volont che determinano i singoli organismi, e
invece finalit esterna difficile da cogliere: la riconduce alla volont nel suo insieme, un tutto
unitario il cui unico fine OGGETTIVARSI SENZA POSA.
Lo stesso uomo manifestazione della volont, nel suo grado pi elevato; quando l'uomo con la
riflessione capisce la sua origine senza senso, nega se stesso e il cosmo, da qui nasce il risentimento
tipico di Schopenhauer, per cui male e mondo sono sinonimi.
Il timore della morte infondato, in quanto si perde solo l'individualit, non la nostra essenza; diverso
Leopardi, per cui dal nulla torniamo nel nulla. Fa valere il concetto di eternit in contrapposizione
all'immortalit, poich eterna la volont da cui derivano gli individui e a cui fanno ritorno: concetto
dell'Uno-Tutto.
Poich per questo eterno ritorno al nucleo non consola l'uomo, per cui inutile questo eterno gioco,
ecco venire in aiuto l'idea platonica, vista come positiva; ci si pu rifugiare in questo mondo
intelligibile, senza male, che sta poi alla base del mondo dell'arte, un idea di eternit diversa, che
anche Leopardi recepisce.
Volont come massima conoscenza, immanenente poich spiega COSA il mondo , non il perch, che
resta mistero.
Attenzione a tale distinzione: opporre al meccanicismo una visione teleologica diverso dal
considerare le stesse forze originarie di cui parla la visione meccanicistica, come per idee platoniche.
La tipica visione teleologica organica del periodo romantico (Goehte) propone l'idea di natura come
forza creatrice al posto di dio, Schopenhauer modifica tale visione, in cui l'idea ha un senso di
eternit positiva.
Nel terzo libro della sua opera assimila Kant a Platone, anche se ci discusso dai critici, in quanto il
primo parla di fenomeno come conoscenza, per l'altro il fenomeno manifestazione dell'idea, unica
cosa a possedere il vero essere.
Idea come perfetta oggettit della volont, archetipo eterno, come bello intelligibile che il genio
raffigura, oggetto dell'arte. Nel pensiero del prussiano la conoscenza dell'idea, che avviene tramite
intuizione (da qui superirit conoscena intuitiva rispetta alla riflessa), si definisce nel terzo libro, ed
interviene per allietare l'animo umano. Il corpo permette all'individuo di avere coscienza di se, ma
dato che esso e non , poich diviene nel tempo, la stessa sofferenza che ci deriva da esso legata
al divenire, dunque il soggetto conoscente trova un qualcosa di eterno in senso positivo, l idea
platonica.
Soggetto ed oggetto diventano la stessa cosa nella contemplazione dell'idea, che in Schopenhauer non
pu essere realt separata dal soggetto (come in Platone, che la pu solo contemplare).
Prende da Spinoza il terzo genere di conoscenza, attribuendo all'intelletto un altissimo ruolo, dato
che permette al genio di contrapporre una eternit positiva all'eterno divenire, manifestazione della
volont, senza senso. questo il miracolo della conoscenza, vedere il mondo sotto altra luce (terzo
libro percorso da questa pace gioiosa, contro il risentimento del secondo), come cio sarebbe stato se
la volont, il tutto unico, si fosse sotratto alla ruota del tempo, del divenire.
Si deve comprendere questa lotta tra intelletto e volont, tra la visione (idea si contempla) e
l'essere; non mai ottimista nel senso che non concede che l'eternit renda le cose stesse eterne nella
sostanza, quindi si tratta solo di una visione del bello che pu consolare. Questa la metafisica del
bello del terzo libro, il bello eterno, dato che non bello ci che diviene, soggetto al tempo; tramite
tale conoscere che avviene la redenzione dell'uomo, anche se per un tempo ridotto, tanto che definisce
la contemplazione delle idee come breve vacanza. una consolazione metafisica.
Si arriva verso la fine a parlare di storia, in cui lui vede una immutabilit dei caratteri umani, che si
ripetono nel divenire delle vicende storiche; il genio tramite l'intelletto vede che il mondo fatto di
essenze immutabili, soggetti della visione. Ecco finalmente l'arte: sua prerogativa elevare le cose a
idee, rendendole belle; essa le contempla al di l della ragione.
Cito Schopenhauer: "Quindi genialit l'attitudine a contenersi nella pure intuizione, perdersi
nell'intuizione..." continua "...spogliarsi appieno per un certo tempo della propria personalit per
rimanere alcun tempo qual puro soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo"
Il Genio fissa in idee eterne ci che destinato a fluttuare nel divenire; fantasia ruolo importante per
allargare ulteriormente la visione della conoscenza intutiva, che di per se si limiterebbe agli oggetti
presenti. L'illusione quindi la beatitudine della contemplazione, esente da volont.
Definire bella una cosa significa farla oggetto di contemplazione estetica, dunque spersonificarsi e
vederla non pi come oggetto, ma come idea. Si avvicina quindi pi a Platone che a Kant, il quale
Arriva a definirlo come autore della natura, senza per precedenti modelli, quindi in effetti tutto
dipende dalla sua volont; la sua essenza una infinita possibilit che poi si identifica con la
necessit. In realt nel suo continuo dubitare e farsi domande, non risulta essere molto convinto di
questa tesi, che vede Dio racchiudere tutte le perfezioni possibili, che diventano dunque relative; solo
l'idea platonica perfetta in assoluto, e lui la rifiuta, continuando per a chiedere il perch le cose
siano cos e non in altro modo.
Da alcuni scritti, come quello critico su Platone del 1821, cerchiamo di carpire lo sviluppo del suo
pensiero: al centro di esso emerge il contrasto tra l'idea platonica assimilabile alla belt, tema dei
Canti, e l'esistenza segnata dalla sofferenza. Cos recupera le idee platoniche come un qualcosa di
positivo, poich indipendenti da dio, per quanto rimangano nell'ambito del metafisica, della
immaginazione.
Le idee innate sono dunque false, ma solo quando ad esse si attribuisce una vera realt rispetto alle
cose di fatto; un p come l'immaginazione per Spinoza, che una potenza della mente e diventa
difetto quando non capiamo di stare immaginando. L'immaginazione poetica invece le fa sue,
trasformandole in una presenza nella mente con una forza tale da contrastare la realt.
Il fatto poi che Platone mantenga le idee in una dimensione trascendente, dell'ulteriorit, fa pensare al
Leopardi che anche lui vedesse il suo sistema delle idee come un sogno.
Un pensiero del 1823 sempre su Platone spiana la strada alla definizione del pensiero leopardiano;
egli dice come i pi profondi filosofi, gli indagatori del vero con il pi vasto colpo d'occhio, si
distinsero anche per le facolt di cuore ed immaginazione, cio per un genio poetico, Platone su tutti
quelli antichi.
Ecco che si arriva a dire che la ragione calcolante non basta, ci vuole l'elemento intuitivo, anzi arriva a
dire che immaginazione ed intelletto sono un tuttuno, tale facolt intuitiva/inventiva che fa
grandi i filosofi e pensatori (ricorda che anche Aristotele distingue ragione ed intelletto), e da cui
derivano le altre facolt, tra cui la ragione stessa. questo colpo d'occhio che permette di cogliere le
grandi verit, di vedere i rapporti tra le cose e quindi avere la visione dell'intero.
Ricorda che Leopardi conferisce al concetto di immaginazione diversi significati, difficilmente
schematizzabili, ma che si colgono nei suoi pensieri: sentimento, alto sentire poetico, intuizione, ecc...
Poetica e Filosofia come le facolt pi elevate, che per hanno oggetti opposti: se la filosofia coglie
il vero, che risulta poi essere brutto, alla poesia rimane la contemplazione del bello.
In Platone non c' tale contrariet, il vero il bene e quindi il bello, ma questo perch torna dalla
realt al mondo delle idee, al sogno; quindi, almeno per Leopardi, il poeta ha quella capacit di
vedere le cose in due modi che il filosofo non ha necessariamente.
Sposta cos sul piano intuitivo della mente la discussione e ricerca delle cose ultime, che da sempre
occupa la filosofia occidentale; egli dimostra di aver recepito lo spirito della filosofia moderna
quando dice che il bello non una realt suprema che non si pu cogliere del tutto, bens un orizzonte
della mente. Si pensi al giudizio riflettente di Kant, per cui l'uomo si riflette in tutte le cose, o anche
alla gi citata critica di Locke alle idee innate (Soggettivit tipica moderni).
La poesia dunque non da risposte, semplicemente esprime il supremo interrogativo, cosa che la
ratio non pu fare perch il suo compito determinare; dice il mistero, ma non oltrepassa la
materia, semplicemente immagina. Ma proprio tale immaginare ed il sentire poetico ci che rende
viva la vita, strappandola al mero esistere.
Analizzando nello specifico i Canti, si coglie quel risentimento verso la religione e dio stesso, che si
trasforma in critica sociale e politica, giacch la stessa societ permeata dalla visione cristiana.
Leopardi non pu accettare il peccato originale, che porta a quella inversione di valori per cui il dolore
arriva ad avere un ruolo salvifico, concetto inaccettabile come quello della felicit ultraterrena.
Tornando a Platone, nel mito del demiurgo che ordina il caos, cercando di fare il bene, spesso si
leggono anticipazioni di principi cristiani, tanto che proprio il greco visto come il filosofo antico pi
vicino al cristianesimo. Il demiurgo quindi non pu essere oggetto di risentimento, in quanto il male
sta nel caos, nella materia disordinata, che lui invece, inteso come l'Uno, vuole ordinare.
Da qui nascono le idee, che diventano la vera realt cui arriva l'intuizione, rimedio contro il divenire;
nondimanco si afferma cos fortemente che la verit non riesce a scalfirlo, questo il paradiso
platonico, quello del pensiero. Vedi il canto "Il pensiero dominante".
L'amore nei mortali assurge allo stesso ruolo che ha la verit per gli immortali, una illusione diversa
dalle altre che porta alla beatitudine, che permane nel tempo.
Schopenhauer diverso poich alla fine perviene ad una soluzione cristiana, dicendo che il santo
superiore al poeta/filosofo e l'accettazione del dolore, la compassione, l'unica salvezza/redenzione,
in attesa di una non definita ulteriorit, parla di nulla relativo.
Invece per Leopardi l'ancora di salvezza proprio il mondo delle immagini. Si distingue cos dagli
spiritualisti, che avrebbero questa rara intuizione di capire l'enigma, in senso della nostra vita; mentre
lui affida la domanda al sentire poetico, che non riceve risposta. Si pensi al Canto notturno, in cui lo
stesso movimento della Luna esprime l'eterno scorrere senza scopo. La visione della belt contrasta
con la consapevolezza che a noi spetta una vita misera e triste, contrasto questo tutto poetico.
L'ultimo passo capire come intenda il nulla di cui parla, questo eterno ritorno delle cose al nulla da
cui sono venute (critico leoparidano dice che per lui la vita un inferno con un raggio di luce).
Se l'amore per lui il sentimento pi elevato, cos la morte vista come positiva poich pone fine a
tutti i grandi dolori, seppure con un velo di eterna tristezza; anche per colei che distrugge sogni e
speranze, che rende assurdo e vano il nostro esistere, quindi Leopardi ben lontano dalle posizioni di
Epicuro che parla di accettazione serena. La luce di cui parla quella della mente, delle immagini,
non dell'essere; la morte riporta tutto nell'oblio, eliminando anche il ricordo della belt-idea.
Per lui come per Schopenhauer, la poesia ferma il tempo e fissa la natura in immagini belle, di vita; la
grande malinconia del poeta gli fa dire che il gioco della materia non annulla con la distruzione il
mistero, lo prolunga invece nel mondo delle tenebre.
iimportante notare la differenza con Platone per quanto riguarda la moralit, il giudizio morale sui
morti; Platone parla di immortalit dell'anima, Leopardi non fa alcun discorso morale in relazione a
questo.
Insomma, l'idea platonica l'unico elemento positivo nell'eternit del Leopardi, mentre il cosmo con il
suo ordine sono privi di scopo. Il suo nulla anch'esso un arcano, in quanto la materia continuamente
si produce e si distrugge; immagina il nulla come un silenzio ed una quiete altissimi che riempiranno
lo spazio immenso lasciato vuoto dall'universo sparito. un buio assoluto, materia senza forma,
l'esatto contrario dell'idea. Sono questi i due estremi dell'astrazione.
Il pensiero del nulla da sempre presente nel poeta, solo cos si spiega l'insensatezza dell'eterno
divenire, e questo il nichilismo leopardiano diffuso nel nostro tempo; l'ideale occidentale
tradizionale del Dio o dell'Uno da cui tutte le cose nascono sostituito dal nulla, giacch nel primo
caso non si spiegherebbe l'insensatezza delle cose.
Il nulla leopardiano diverso da quello di Schopenhauer perch non nasconde niente, la mancanza
di ogni fondamento, lo svanire di ogni cosa, memoria compresa. Che poi sia silenzio nudo e non nulla
assoluto irrilevante, per Leopardi dopo l'esistenza le forme di discolgono e resta solo il nulla.