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IL MANIFESTO

02 CONTROPIANO
30.12.2009

APERTURA
| di Carlo Lania

CARCERI
Il circuito islamico
Sono 46 in Italia i detenuti accusati di terrorismo internazionale. Per loro è stato creato uno
speciale circuito carcerario con particolari misure di sicurezza. Ecco chi sono e dove si
trovano

Sono considerati pericolosi come i mafiosi e per questo sottoposti a uno speciale regime di
sorveglianza, anche se la maggior parte di loro è ancora in attesa di giudizio. Diversi da tutti
gli altri detenuti, comunque, loro lo sono davvero. Sono appena 46, tutti maschi, i detenuti
islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato
previsto dall'articolo 270 bis del codice penale. Quasi tutti politicizzati, tutti, nessuno
escluso, con una forte motivazione religiosa che a volte rasenta il fanatismo.

Una manciata di uomini ai quali recentemente si sono aggiunti anche Riad Nasri e Abdul bin
Mohammed bin Ourgy, due dei tre presunti terroristi provenienti dal carcere di Guantanamo,
a Cuba, dopo l'accordo raggiunto da Silvio Berlusconi direttamente con il presidente Usa
Barack Obama. Pochi, ma più che sufficienti per costringere il ministero della Giustizia e il
Dap, il Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria diretto da Franco Ionta, a dar vita a
un circuito carcerario apposta per loro e in grado di rispondere alle esigenze di sicurezza
ritenute più adatte per questo nuovo tipo di detenuto. Per questo l'estate scorsa Ionta ha
inviato il suo braccio destro, il direttore generale del Dap Sebastiano Ardita, in giro per le
prigioni d'Italia alla ricerca degli istituti più idonei dove rinchiudere quelli che alcune
procure considerano a torto o ragione pericolosi terroristi islamici. Alla fine sono tre gli
istituti prescelti e nei quali sono stati concentrati quasi tutti i 270 bis. Si tratta del carcere di
Macomer, in Sardegna, dove si trovano 17 presunti terroristi, quello di Benevento, in
Campania, con 15 reclusi e della casa circondariale di Asti, in Piemonte, con 14. Tra di loro
ci sono persone accusate di aver raccolto fondi per finanziare la guerre in Iraq e Afghanistan,
ma anche di aver reclutato combattenti da inviare su quei fronti e, alcuni, di aver progettato
attentati in Italia.

Nuove misure di sicurezza

L'istituzione del nuovo circuito carcerario è stata accompagnata dal Dap con la creazione,
attraverso una circolare (la 3619/6069 del 21 aprile 2009) di un nuovo livello sicurezza,
denominato Alta sicurezza secondo livello (As2), con particolari caratteristiche: isolamento
dagli altri reclusi, colloqui e telefonate in numero ridotto (quattro al mese invece di sei), ora
d'aria da svolgersi in aree particolari, porta della cella blindata sempre chiusa. E inoltre
niente radio né televisione, divieto di leggere giornali arabi, libri e vestiti centellinati, posta
controllata e fornelli del gas consegnati giusto il tempo necessario per cucinare e subito
ritirati. Ma soprattutto nessuna possibilità di entrare in contatto con gli altri detenuti, anche
per evitare il rischio di proselitismo tra gli islamici imputati di reati comuni. «In pratica un
circuito speciale all'interno del circuito speciale ad alta sicurezza», spiega l'avvocato Desi
Bruno, garante dei detenuti di Bologna e difensore di due tunisini accusati di far parte di una
presunta cellula jihadista attiva nel capoluogo emiliano. Contraria, Bruno, anche all'idea di
raggruppare le persone per tipologia di reato. «I detenuti considerano questo modo di
procedere una ghettizzazione e un'etichettatura ingiusta, subita per di più prima ancora di
essere stati condannati».

In qualche modo il 270bis è un regalo di Al Qaeda. Nella sua versione attuale venne infatti
istituito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 alle Torri gemelle, quando la situazione
politica internazionale, con le guerre in Iraq e Afghanistan, radicalizzò ulteriormente
l'attività dei gruppi islamici. La conseguenza fu quella di estendere un reato che puniva gli
atti di violenza compiuti contro lo Stato italiano anche a quelli messi in atto contro altri
paesi. Una scelta confermata dall'attentato alla stazione Atocha di Madrid (11 marzo 2004) e
da quelli successivi compiuti contro tre treni della metropolitana e un autobus di Londra (7
luglio 2005) che dimostrarono drammaticamente la decisione adottata dai gruppi
dell'estremismo islamico di importare il terrore anche in Europa, come dimostrerebbe anche
l'attentato compiuto il 12 ottobre scorso contro la caserma Santa Barbara di Milano da
Mohammed Genco, il primo kamikaze italiano.

Una mostruosità giuridica?

Per molti avvocati impegnati nella difesa dei presunti terroristi, però, il 270bis e i successivi
aggiornamenti al 270 rappresentano se non proprio una mostruosità giuridica, almeno una
reazione esagerata. «E' chiaro che lo Stato deve difendersi, ma ho forti dubbi che gli episodi
che ci troviamo a trattare in Italia possano essere inquadrati come terrorismo
internazionale», spiega ad esempio Carlo Corbucci, legale di molti imputati per il 270bis e
autore del libro «Il terrorismo islamico in Italia: realtà e finzione». Ma a preoccupare
Corbucci sono soprattutto le successive modifiche apportate all'articolo 270. «L'ultima
versione, il 270 quinqes, arriva a colpire anche chi scarica materiali, o semplicemente li
visiona, dai siti internet considerati vicini ad Al Qaeda», denuncia il legale.
Se sovraffollamento, scarsa igiene e atti di violenza rendono la vita in carcere dura per tutti,
la presenza di presunti terroristi islamici rende tutto più difficile. Sia per loro che per il
personale penitenziario. E infatti i problemi non mancano.

A Macomer, in Sardegna, l'ex sezione femminile del carcere è stata ristrutturata per ospitare
i 270bis. Attualmente sono 14. In passato, prima di essere estradato in Spagna, a Macomer è
passato anche Rabei Osman Sayed Ahmed, detto Ahmed l'Egiziano, accusato di essere una
delle menti delle strage di Atocha. In Italia Ahmed è stato condannato a 10 anni di reclusione
dalla prima corte d'Assise di Milano per associazione per delinquere finalizzata al terrorismo
internazionale. Oggi, tra gli altri, si trovano reclusi nel carcere sardo gli algerini Rabah
Achour e Samir Tartag, condannati il 13 novembre 2004 dalla Corte d'Assise di Napoli a 6
anni di reclusione con l'accusa di far parte di un presunto gruppo salafita attivo nel
capoluogo partenopeo, ma anche i membri della cellula jihadista di Bologna (il 20 gennaio si
terrà la prossima udienza del processo in corso a Bologna) che, secondo gli inquirenti,
sarebbe stata comandata da Khalil Jarraya, tunisino, 40 anni, soprannominato 'Il Colonnello'
per aver combattuto nelle milizie bosniache dei Mujaheddin durante la guerra nell'ex
Jugoslavia. Con lui, sempre a Macomer, si trovano anche gli altri presunti appartenenti alla
cellula: i tunisini Mohamed Chabchoub, considerato l'informatico del gruppo, 43 anni,
Hechmi Msaadi, 33 anni, Ben Chedli Burgaoui, 34 anni, e il marocchino Mourd Mazi, 33
anni. La loro presenza, e quella degli altri presunti terroristi, è malvista nel carcere e non
solo. Intanto perché - spiegano gli agenti di polizia penitenziaria - nonostante le recenti
ristrutturazioni il carcere non è adatto a ospitare questo tipo di detenuti. «Il problema più
grave è la mancanza di personale - spiegano Michelangelo Gaddeo, della segreteria
provinciale della Fp-Cgil di Nuoro e Sebastiano Poddighe, coordinatore regionale -
servirebbe almeno un 20 per cento di agenti in più in modo da garantire la presenza di un
agente ogni tre detenuti». Ma Macomer non sarebbe adatto anche per altri motivi. Per quanto
si tratti di un carcere piccolo, 90-100 reclusi al massimo - e l'ex sezione femminile sia stata
ristrutturata - la struttura è priva di muro di cinta e di torrette di sorveglianza e non è
possibile effettuare il pattugliamento esterno.

Perquisizioni e Corano

L'estrema politicizzazione e la pratica religiosa dei detenuti inoltre, per gli agenti rende
particolarmente difficile il contatto quotidiano. Un esempio di queste difficoltà sono le
perquisizioni a cui i detenuti devono sottoporsi ogni volta che escono dalla cella e durante le
quali impediscono agli agenti di controllare il Corano che portano sempre con sé. Il risultato
è che spesso, rifiutando la perquisizione, rinunciano anche all'ora d'aria. Stessa cosa per le
visite mediche, puntualmente rifiutate se nell'infermeria c'è un medico donna.
Per la polizia penitenziaria , insomma, al di là delle decisioni del Dap, quella di Macomer
sarebbe una scelta sbagliata. Per motivi che non hanno a che fare solo con il carcere. «Il
nuorese - spiegano ancora Gaddeo e Poddighe - è un territorio particolarmente fragile, con
livello di disoccupazione molto alto. L'arrivo negli anni passati di detenuti accusati di mafia
ha portato con sé anche nuovi reati che prima non esistevano, come il pizzo e l'usura. Non
vorremmo che adesso, con i detenuti accusati di terrorismo internazionale, importassimo
situazioni e reati nuovi per la nostra realtà». Anche per questo il paventato trasferimento a
Macomer dei tre terroristi provenienti da Guantanamo ha suscitato numerose polemiche
anche tra la popolazione.

Ma c'è anche l'altra faccia della medaglia, e sono le denunce di violenze fatte dai detenuti
islamici ai propri avvocati. Nel mirino c'è proprio il carcere di Macomer. A giugno
l'associazione Antigone ha denunciato i maltrattamenti a cui sarebbero stati sottoposti i
presunti terroristi fin dal loro arrivo nel carcere. Presunte violenze confermate anche
all'avvocato Vainer Burani, legale di numerosi imputati di 270bis. «I detenuti mi hanno
riferito di non poter comprare le medicine, che costano molto, perché non hanno la
possibilità economiche e il carcere non le passa. Inoltre non hanno la possibilità di lavorare
in prigione», racconta il legale. «Bisogna tener conto che molti di loro non ricevono soldi né
pacchi dalle famiglie, anche perché spesso si trovano in Italia da soli». Particolarmente dure
le condizioni di carcerazione: «Mi hanno detto che vivono in isolamento continuo, con il
passeggio attaccato alla cella di sette metri quadrati e la porta sempre chiusa - prosegue
Burani - Inoltre non possono avere vestiti personali né possono contattare i volontari, anche
per motivi religiosi». «Questi detenuti sono sottoposti in modo quasi burocratico
all'isolamento», spiega un altro avvocato specializzato della difesa dei presunti terroristi,
Luca Bauccio. «Il dramma è che si è passati da una politica emergenziale a una
normalizzazione dell'emergenza. I 270bis sono trattati con un automatismo burocratico - che
prevede l'isolamento e altre misure - senza che alla base ci sia una valutazione reale dei
rischi e della loro pericolosità».
Proteste in carcere

Il rispetto della religione è uno degli aspetti del problema che l'amministrazione
penitenziaria si è trovata a dover affrontare. Per i detenuti islamici infatti, sia comuni che
accusati di terrorismo, è fondamentale avere un luogo in cui pregare e mangiare rispettando
la propria cultura. La carne, ad esempio, deve essere macellata secondo la tradizione
islamica e naturalmente non deve comprendere il maiale (in alcune casi si è invece arrivati a
distribuire del pane con il lardo). Diritti che ormai sarebbero rispettati in tutti gli istituti ma
che in passato sono stati motivo di ulteriori tensioni. E' quanto sarebbe successo anche ad
Asti, altro carcere del circuito predisposto dal Dap. Qui a settembre scorso i 14 detenuti
accusati di terrorismo internazionale hanno dato vita a una protesta con battitura delle sbarre
per chiedere migliori condizioni di detenzione. Alcune delle richieste riguardavano la
possibilità di poter mangiare secondo la propria tradizione, ma anche quella di poter
effettuare l'ora d'aria in comune. Richieste accolte dal direttore, che in seguito è stato
trasferito.
Nel carcere piemontese i 270bis sono rinchiusi nella sezione isolamento, dove di solito un
detenuto viene tenuto solo temporaneamente. Per tutti c'è solo una doccia e l'ora d'aria
inizialmente era consentita in cubicoli lunghi 6 metri e larghi 3 dove trova posto solo una
persona alla volta. Dopo la protesta le cose sono cambiate ed è stato aperto un passeggio più
grande, in grado di accogliere un numero maggiore di detenuti.

Anche ad Asti, però, la situazione rischia di esplodere. «La loro presenza ha trasformato il
carcere in una vera e propria polveriera, pronta ad esplodere in qualunque momento», si
legge in un documento che la Uil-Penitenziari ha inviato il 15 ottobre scorso al capo del Dap
Franco Ionta. Per gli agenti, i presunti terroristi avrebbero un comportamento provocatorio,
con «atteggiamenti irriguardosi e incivili e purtroppo anche minacciosi contro il personale.
E' il caso di ricordare - denuncia il documento - che la mattina scorsa i detenuti in questione
non hanno permesso al personale di effettuare l'ordinaria battitura delle inferriate,
minacciando con bombolette di gas e accendini».

A chiudere il nuovo circuito carcerario è il penitenziario di Benevento. Qui sono rinchiusi 15


presunti terroristi internazionali, ognuno in una cella singola con una bocca di lupo al posto
della finestra. Anche loro, come gli altri, non possono avere alcun contatto con il resto dei
detenuti.

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