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INDICE
INTRODUZIONE 3
CAPITOLO 1
LA TESI GILLIES-GIORELLO E LA QUESTIONE
DEL RELATIVISMO DEI LINGUAGGI-MONDO 8
CAPITOLO 2
SPIEGAZIONE, COMPRENSIONE E FUNZIONI DEL LINGUAGGIO 38
CAPITOLO 3
FORME DI VITA, INCOMMENSURABILITÀ E RAZIONALISMO CRITICO :
L’INTERPRETAZIONE FEYERABENDIANA DELL’ORESTEA 100
CAPITOLO4
WITTGENSTEIN NEMICO DELLA SOCIETÀ APERTA 119
CAPITOLO 5
IL RELATIVISMO DEL WITTGENSTEIN ANTROPOLOGO
E L’INTERPRETAZIONE DI DIEGO MARCONI 129
CONCLUSIONE 144
ADDENDA 150
2
Mi sembra già sbagliata l’idea di voler spiegare un’usanza, per
esempio l’uccisione del re-sacerdote. Frazer non fa altro che
renderla plausibile a uomini che la pensano come lui [...]. Credo
che l’impresa di dare una spiegazione sia sbagliata già per il
semplice motivo che basta comporre correttamente quel che si sa,
senza aggiungervi altro, perché subito si produca da sé quel senso
di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione [...]. Il
semplice raggruppamento del materiale, in una rappresentazione
‘perspicua’ [...] media la comprensione, che consiste appunto nel
“vedere le connessioni”.
[POPPER (1962), tesi XXI, XXII e XXV, in (1984), pp. 86, 87, 88]
INTRODUZIONE
3
I
1
Usando tale espressione, mutuata da Bouveresse (1975), intendo attirare l’attenzione sulla specifica
prospettiva antropologico-culturale entro cui, come si è sottolineato con sempre più insistenza nel
corso degli ultimi anni, si collocano le analisi wittgensteiniane delle molteplici pratiche discorsive, da
quelle matematiche a quelle religiose, da quelle scientifiche a quelle più propriamente quotidiane; in
tal senso le note a Frazer gettano una luce caratterizzante su quella famiglia di testi (diciamo dal Libro
marrone a Della certezza) che genericamente attribuiamo al cosiddetto ‘secondo Wittgenstein’. A
proposito dell’approccio “antropologico”, poi, Monk ricorda che fu lo stesso Wittgenstein a
confessare a Rush Rhees che esso ha rappresentato per lui il miglior beneficio tratto dalle
conversazioni avute a Cambridge con Piero Sraffa (cfr. Monk 1990, p. 260). Che il Wittgenstein
antropologo, con la sua continua insistenza sugli aspetti pratici, ‘materiali’ dei fenomeni linguistici e
culturali, sia stato ispirato dall’economista marxista amico di Gramsci, non può sorprendere; anzi,
questo fatto chiarisce perfettamente il senso del sentito (anche se generico) omaggio a Sraffa nella
“Prefazione” a RF, p. 4: “Ancor più che a questa critica [scil. quella di Frank Ramsey] [...] la mia
gratitudine va a quella che un insegnante di quest’Università, P. Sraffa, ha per molti anni esercitato
incessantemente sul mio pensiero. A questo stimolo sono debitore delle più feconde idee contenute nel
presente scritto”.
Per quanto riguarda questo aspetto del pensiero di Wittgenstein, rimando in particolare a
Bouveresse (1973) e (1991), e a Marconi (1987), in part. cap. IV, pp. 63-71, (1996) e (1997), in part.
pp. 89-95, dai quali dipendono vari spunti sul problema della ‘spiegazione’ e sul concetto di
‘rappresentazione perspicua’ nelle scienze umane ampiamente discussi in questo libro (anche se da
un’ottica, come si vedrà, alquanto diversa). Ma si vedano anche Williams (1974), Luckhardt (1978) e
(1981) e Broyles (1974), inclusi nella sezione V, intitolata proprio “Da un punto di vista
antropologico”, di Andronico, Marconi, Penco (a cura di) (1988), pp. 275-318. L’introduzione della
Andronico a tale sezione (ibid., pp. 269-274) contiene numerose altre indicazioni bibliografiche. Di lei
si vedano anche Andronico (1995) e (1997).
4
II
2
Cfr. Popper ([1930-1932], 1979), “Exposé [1933]”, § [2], p. XXXIV: “Il libro contiene la prima
discussione d’una certa importanza sul Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, che può essere
caratterizzato senz’altro come la Bibbia del positivismo moderno”. Le critiche a Wittgenstein, sparse
un po’ per tutto il libro, sono maggiormente concentrate nel cap. XI, “Posizioni della pseudo-
proposizione e concetto di senso”, che comprende i §§ 43-46, pp. 287-330; di esse, solo una minima
parte è poi confluita nella Logik der Forschung.
5
spiegare gli scarsi riferimenti espliciti nelle opere di Popper alle Ricerche
filosofiche; tuttavia, come vedremo anche in seguito, si tratta in effetti di un
silenzio apparente, che cela un confronto mai interrotto col pensiero di
Wittgenstein. Si consideri ad esempio il fatto che proprio nel 1953 apparve nei
“Proceedings of the 11th International Congress of Philosophy” il saggio
Language and the Body-Mind Problem, dove Popper, in uno stile di
numerazione dei paragrafi che sembra una parodia del Tractatus, e pur senza
mai menzionare Wittgenstein esplicitamente, regola i conti con le posizioni
della filosofia analitica più strettamente connesse con alcuni dei temi tipici
delle Ricerche filosofiche. Ecco, infatti, come egli esordisce nel § 1.1: «Non si
tratta di un saggio di analisi linguistica (o di analisi degli usi linguistici).
Respingo infatti completamente quanto pretendono certi analisti del
linguaggio, che, cioè, la fonte delle difficoltà filosofiche debba trovarsi
nell’uso scorretto del linguaggio» (in Popper 1963a, cap.12, p. 499). Si
aggiunga che, alla luce di uno dei punti principali del presente libro, e cioè del
problema delle funzioni del linguaggio in Popper e Wittgenstein, è
particolarmente significativo che l’intero, ancorché brevissimo, secondo
paragrafo di tale saggio, che lo stesso Popper annovera tra i suoi “rati allori”
filosofici (ivi, cap. 13, p. 511), sia dedicato a “le quattro principali funzioni del
linguaggio”, e ciò costituisce anche una delle prime apparizioni, in una
pubblicazione, di questa teoria di Popper (preceduta solo da quella che si trova
al termine del cap. 4 di 1963a, risalente al 1948-1949).
Nonostante ciò, non v’è dubbio sul fatto che si sia dedicata una scarsa
attenzione al rapporto che è senz’altro possibile istituire tra il Wittgenstein
antropologo e il Popper dell’evolutionary approach ai problemi linguistici ed
epistemologici. Da questo punto di vista, quello compiuto in questo libro è un
piccolo tentativo di avviare un processo di ridefinizione del rapporto tra
Wittgenstein e Popper su basi concettuali diverse rispetto a quelle tradizionali,
legate quasi esclusivamente ai nodi teorici del neopositivismo e del problema
della demarcazione tra scienza e metafisica3 e ancora pacificamente assunte da
Donald Gillies e Giulio Giorello nella loro pur nuova e stimolante ipotesi di
collegamento teorico tra i giochi linguistici di Wittgenstein ed i programmi di
ricerca metafisici di Popper.
III
3
Cfr. ad es. l’ampia rassegna di interventi su questo tema in AA.VV. (1979).
6
linguaggio, con particolare riguardo al ruolo che essi giocano nella pratica
scientifica e nella ricerca filosofica intorno alla logica delle scienze sociali. Le
conclusioni dell’analisi di tali concetti si possono sintetizzare come segue.
1) L’idea wittgensteiniana che l’indagine filosofica non abbisogni di
spiegazioni, giacché alles offen daliegt (come si dice nel § 126 delle Ricerche)
e che anzi le spiegazioni, in quanto strutturalmente più incerte delle semplici
descrizioni di ciò che si sa già, possono ostacolare la ‘chiarezza’ della
comprensione che si insegue, è insostenibile non solo dal punto di vista del
teoricismo popperiano (noi teorizziamo comunque, e il linguaggio
apparentemente descrittivo è molto più ‘incerto’ di quello delle teorie
corroborate), ma anche dal punto di vista delle stesse analisi wittgensteiniane -
condotte soprattutto nella seconda parte delle Ricerche - sulle componenti
interpretative contenute nelle percezioni.
2) Alla luce della teoria popperiana della ‘comprensione’, identificata
tout court con l’attività - fondamentalmente agganciata al Mondo 3 - del
problem solving per congetture e confutazioni, la concezione presupposta da
Wittgenstein della condizione di possibilità del Verständnis, che consisterebbe
solo in una übersichtliche Darstellung dei fatti linguistico-culturali (di per sé
in grado di permetterci quella ‘visione’ delle connessioni formali che
costituisce propriamente la comprensione), risulta una versione intrisa di
platonismo di quella che Popper ha chiamato bucket theory of mind, e in
quanto tale carica di quasi tutti i limiti della teoria della conoscenza del senso
comune.
3) Il fattore veramente decisivo è costituito dalla valutazione da parte di
Wittgenstein della “funzione argomentativa” del linguaggio (che Popper ha
aggiunto alle tre funzioni fondamentali - quella espressiva, quella segnaletica e
quella descrittiva - già individuate dal suo ‘maestro’ Karl Bühler): mentre
Popper ha identificato la sua emergenza nella storia evolutiva del genere
umano con la nascita della nostra razionalità, e quindi con la nostra stessa
umanità, Wittgenstein da parte sua ha negato ad essa qualsiasi valore euristico
nell’attività di comprensione dei fatti umani in generale e di quelli linguistici
in particolare. Il privilegiamento da parte di Wittgenstein della funzione
meramente descrittiva del linguaggio determina poi il rifiuto
(paradigmaticamente formulato in GF, I, § 71) della possibilità che il
linguaggio stesso possa condurci oltre se stesso (secondo Popper, invece, il
linguaggio fa esattamente questo, in quanto è l’organo biologico esosomatico
che consente al Mondo 2 di ciascun individuo di tenersi agganciato al Mondo
3). In tal senso il panlinguismo di Wittgenstein, in tutte le sue varie
articolazioni, non è che una potente versione di ciò che Popper ha chiamato
myth of the framework.
Tale confronto sistematico delle posizioni di Wittgenstein e Popper
intorno al significato e allo status di questi concetti, permette anche una
reimpostazione del problema dell’eredità wittgensteiniana nelle cosiddette
7
epistemologie post-popperiane (con particolare riferimento a Quine, Kuhn, e
Feyerabend). Per accennare solo al problema della funzione argomentativa del
linguaggio, è cruciale ad esempio il fatto che gli epistemologi post-popperiani,
contrariamente a Wittgenstein e a tutto il suo stile filosofico assai poco incline
al confronto pubblico e critico delle idee (si pensi al suo disprezzo nei
confronti dei ‘professori’ che scrivono sulle riviste filosofiche), ne abbiano al
più soltanto contestato il ruolo (assegnatole da Popper) di garante assoluto
dell’oggettività e della razionalità scientifiche, soprattutto con le loro
insistenze su casi di incommensurabilità e di non intertraducibilità tra ‘forme
di vita’ o ‘paradigmi’ diversi.
Più in generale, la conclusione cui pervengo è che la prospettiva
popperiana consente di ridimensionare drasticamente il ruolo giocato da
Wittgenstein in quei pensatori che, come quelli citati, pure si richiamano a lui
soprattutto contro Popper (a tal proposito il caso di Feyerabend è
emblematico). E ciò spiega, ad esempio, tanto il fatto che sia stato possibile
tentare una reinterpretazione di Quine, Kuhn e Feyerabend (rispettivamente da
parte di Putnam, Stegmüller e Hacking) nell’ambito di una difesa del
razionalismo contro la deriva irrazionalistica delle forme più radicali di
relativismo, quanto il fatto che un’analoga reinterpretazione del Wittgenstein
antropologo - tentata da Diego Marconi nell’importante capitolo finale del suo
L’eredità di Wittgenstein - appaia invece enormemente problematica, proprio
sulla base di una opportuna considerazione delle conseguenze irrazionalistiche
che comporta il rifiuto programmatico da parte di Wittgenstein dell’uso
argomentativo e razionale del linguaggio.
CAPITOLO 1
8
Carnap, ciò che invece non è avvenuto con Wittgenstein. A questo proposito
basterà ricordare tre fatti emblematici.
1) Schlick accettò di pubblicare nella collana Schriften zur
wissenschaftlichen Weltauffassung, che egli dirigeva con Philipp Frank,
un’opera come la Logik der Forschung, che costituì una sorta di cavallo di
Troia per il Circolo, dimostrando così una tolleranza e un’apertura intellettuale
sempre riconosciute e ammirate da Popper.4
2) Carnap accolse pubblicamente in Über Protokollsätze (1933) tanto le
critiche al neopositivismo quanto la teoria dei controlli deduttivi, presentate da
Popper nel primo volume, allora ancora inedito, dei Grundprobleme. In
particolare, Carnap fece propria l’idea popperiana che anche le asserzioni di
controllo (gli enunciati protocollari) hanno un carattere congetturale, e che la
loro accettazione è materia di decisione e subentra a un certo punto della
procedura teoricamente interminabile del loro controllo deduttivo tramite
qualche teoria e altre asserzioni-base che fungono da ‘condizioni iniziali’. Egli
sostenne anche che in un dato linguaggio sistematizzato qualsiasi asserto
empirico può servire da asserto protocollare, proprio perché qualsiasi asserto
protocollare può essere ulteriormente provato per mezzo di altri asserti
empirici con il metodo dei controlli deduttivi di Popper, che egli chiamò
“procedimento B” (Verfahren B) considerandolo il migliore a disposizione.5
3) Il il 26 ottobre 1946, nel corso di una conferenza organizzata dal
Moral Science Club di Cambridge (nello studio di R. B. Braithwaite al King’s
College), avvenne il celebre incontro-scontro tra Popper e Wittgenstein. In tale
occasione emerse, se non altro, l’indisponibilità da parte di Wittgenstein a un
confronto aperto su questioni comunque filosofiche. Ciò si vede soprattutto dal
fatto che Wittgenstein forse non capì che un asserto come “Non minacciare
l’interlocutore con l’attizzatoio!”, era sì un’insinuazione maliziosa da parte di
Popper (egli giocava nervosamente con l’attizzatoio del camino vicino al
quale era seduto e lo usava gesticolando come un direttore d’orchestra per
sottolineare taluni passaggi dei propri interventi), ma costituiva principalmente
proprio quell’esempio di regola morale che egli stesso aveva chiesto per
mostrare che il problema dell’esistenza e della validità delle norme morali era
uno pseudo-problema, e come tutti gli altri (apparenti) problemi filosofici era
generato da un cattivo uso del linguaggio 6 (Popper aveva in precedenza
proposto, come genuini problemi filosofici, la questione delle fonti della nostra
conoscenza e quella dell’esistenza dell’infinito, che Wittgenstein aveva
liquidato rispettivamente come problema logico e come problema matematico).
È significativo, poi, che dopo l’uscita di scena di Wittgenstein, il quale se ne
4
Cfr. ad es. Popper (1976a), p. 92 e (1985), cap. VI, p. 98.
5
Cfr. Carnap (1933), dove peraltro si trova la prima esposizione di alcuni punti del libro di Popper
rimasto inedito fino al 1979. Su tale questione cfr. anche Popper (1934, 1959), § 10, in part. nota 6, p.
37; § 26, pp. 88-91 e § 29, pp. 98-100; (1963a), cap. 11, pp. 432-433; (1976a), p. 93.
6
Cfr. Popper (1976a), pp. 126-128 (com’è noto, non esiste una versione wittgensteiniana dei fatti).
9
andò sbattendo la porta, la discussione sia andata avanti piacevolmente, grazie
anche alla verve di Russell, e che in seguito Braithwaite abbia fatto notare a
Popper che egli «era stato l’unico che si fosse azzardato ad interrompere
Wittgenstein allo stesso modo in cui Wittgenstein era solito interrompere
chiunque altro».7
Quanto detto in quest’ultimo punto illustra abbastanza chiaramente,
credo, il quadro generale dei rapporti sia personali che teorici tra Popper e
Wittgenstein. Tuttavia Gillies e Giorello, nel loro volume su La filosofia della
scienza nel XX secolo, nell’esaminare la questione del significato della
metafisica in riferimento da un lato alle note posizioni negative di Wittgenstein
e del Circolo di Vienna e dall’altro alle critiche ad esse rivolte da Popper, pur
sottolineando la grande distanza che separa l’autore della Logik der Forschung
soprattutto da Wittgenstein, osservano che dal momento in cui «la polvere si
deposita su un’accesa controversia filosofica, è possibile notare come le parti
in causa abbiano in comune più di quanto potessero pensare a quel tempo»
(Gillies e Giorello [1995], pp. 218-219).
In che cosa consiste questo tratto piuttosto ampio che accomunerebbe,
in particolare, il Popper difensore della significatività e dell’utilità (per la
scienza) della metafisica al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche? La risposta
a questa domanda costituisce ciò che da ora in avanti chiamerò “la tesi Gillies-
Giorello”. Questa tesi, «in qualche modo paradossale considerati i difficili
rapporti tra i due filosofi», 8 come riconoscono gli autori, può essere formulata
come segue:
Nonostante le Ricerche filosofiche lascino pochi dubbi sul fatto che
l’ultimo Wittgenstein continuasse a considerare le costruzioni metafisiche
come prodotti delle malattie (o della mitologia annidata nelle strutture) del
linguaggio, e quindi come non-senso liquidabile tramite una terapia
consistente nella semplice descrizione e chiarificazione degli usi effettivi del
linguaggio ordinario (standard di ogni altro linguaggio), tuttavia è possibile
aggirare questo ostacolo mediante una semplice interpretazione letterale della
teoria dei giochi linguistici e del principio per cui ‘significato = uso’, il che ci
consentirebbe non solo di attribuire un qualche significato ai giochi linguistici
metafisici, ma anche di difendere e corroborare la concezione popperiana
secondo la quale le teorie metafisiche sono del tutto in regola in quanto al
significato e talvolta hanno persino avuto un ruolo decisivo nella costruzione
di teorie scientifiche.9
7
Ibid., p. 128. Ad ogni modo, pare che in occasione delle riunioni del Moral Science Club
Wittgenstein riuscisse sempre a litigare con qualcuno, anche se non era presente: cfr. a tal proposito il
racconto di Norman Malcolm su ciò che accadde dopo le due conferenze tenute da Moore nel 1939, in
Malcolm (1958), pp. 47-48 (più in generale, sullo spirito con cui Wittgenstein partecipava alle riunioni
del Moral Science Club, cfr. ibid., pp. 68-69).
8
Gillies e Giorello (1995), p. 30. La tesi è così anticipata alla fine del paragrafo biografico su Popper,
subito dopo il racconto dello scontro tra i due filosofi.
10
Questa, in sostanza, la tesi Gillies-Giorello. Il fondamento su cui essa si
regge, consistente in una sorta di volutamente ingenuo stare al gioco dei giochi
di Wittgenstein, è esibito dagli autori per mezzo di una esemplificazione:
11
cerimonie religiose tra i giochi linguistici, appoggiando così la tesi che il
discorso religioso in generale, e la teologia in particolare, fossero
significanti».11
Nonostante ciò, come accennato, le Ricerche filosofiche nel loro
complesso si caratterizzano per un persistente richiamo al carattere patologico
del linguaggio filosofico tradizionale, al suo inevitabile concrescere su se
stesso in una sorta di schiumosa “vacanza” (§ 38) dagli usi quotidiani, in cui
esso ha la sua vera patria (cfr. § 116), e quindi al suo irrimediabile girare a
vuoto (cfr. § 132), che può essere fermato soltanto mettendo ordine nella
nostra conoscenza dell’uso del linguaggio (cfr. ibid.):
pratico, teorico ecc.) sussista tra questi giochi linguistici. Infatti, è impossibile non pensare subito a
quei ‘giochi di giochi’ costituiti dai loro possibili raggruppamenti: si pensi, per fare solo un esempio,
al ‘gioco’ della scienza, il quale non può non comprendere almeno il descrivere e costruire un oggetto,
il riferire un avvenimento, il far congetture, il metterle alla prova, il rappresentare graficamente i
risultati di un esperimento, il risolvere problemi matematici, e così via. D’altra parte, molti, se non
tutti, i giochi presentati da Wittgenstein potrebbero benissimo essere scomposti in sotto-giochi, e
quindi rappresentare già essi stessi dei ‘giochi di giochi’: si pensi, per rimanere nell’ambito della
scienza, al gioco dell’elaborazione e della prova di un’ipotesi, il quale deve almeno presupporre il
gioco della descrizione e della deduzione logica. Tutto ciò comporta indubbiamente una serie di
difficoltà teoriche connesse con l’idea di ‘gioco linguistico’. A parte l’ovvia questione dello status
delle gerarchie di giochi (se cioè essa sia da intendere in maniera assoluta e oggettiva, oppure in
maniera relativa e soggettiva, vale a dire legata al livello di analisi linguistica in cui siamo di volta in
volta impegnati), il problema forse più importante, che sarà al centro di questo libro, è quello della
relazione logica tra particolari tipi di giochi, come quelli che esprimono sistemi di credenze o teorie
generali sul mondo. A fronte di questi problemi, che coinvolgono, tra l’altro, anche la questione del
relativismo, è chiaro che l’avvertimento metodologico di Wittgenstein risulta quasi del tutto
irrilevante: “I nostri chiari e semplici giuochi linguistici non sono studi preparatori per una futura
regolamentazione del linguaggio, - non sono, per così dire, prime approssimazioni nelle quali non si
tiene conto dell’attrito e della resistenza dell’aria. I giuochi linguistici sono piuttosto termini di
paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro
linguaggio” (RF, § 130).
11
Gillies e Giorello (1995), p. 220. Si potrebbe rilevare qui che i passaggi inferenziali compiuti da
Gillies e Giorello dal pregare alle cerimonie religiose, e da queste al discorso religioso in generale ed
alla teologia in particolare, sembrano un po’ azzardati e per la verità assai poco wittgensteiniani. In
effetti è abbastanza plausibile che Wittgenstein considerasse il pregare un’attività consistente in tutta
una serie di comportamenti rituali - tra i quali solo alcuni, e forse neanche i più importanti, di carattere
linguistico - che possono non avere legami visibili con cerimonie religiose canonizzate, né tanto meno
con una teologia consapevolmente assunta. Cfr. ad es. WCV, p. 107: “È essenziale, per la religione,
parlare? Posso immaginarmi molto bene una religione in cui non esistono dottrine e in cui quindi non
si parla. È chiaro che l’essenza della religione non può essere legata al fatto che si parla, o piuttosto: se
si parla, allora ciò fa parte dell’azione religiosa e non è una teoria. Non ha quindi importanza che le
parole siano vere o false o insensate”.
12
Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di questa scoperta (§§ 118 e
119).
13
umili pratiche discorsive della vita quotidiana, quali sono ad esempio il dare
istruzioni per comprare delle mele rosse, l’ordinare di prendere dei mattoni,
l’insegnare a contare, etc.
Una spiegazione di questo atteggiamento, infine, potrebbe essere
avanzata osservando che il Wittgenstein delle Ricerche era ancora alle prese
con il tentativo di dare una risposta al ‘problema della demarcazione’, cioè lo
stesso problema che costituiva il motivo centrale del Tractatus e al quale, come
visto, era stata data una risposta in termini di capacità, da parte di una
proposizione, di rappresentazione di una situazione possibile; capacità che
veniva poi a costituire non solo un criterio di demarcazione tra scienza e
metafisica, ma un vero e proprio criterio di senso. La sola differenza, secondo
Gillies e Giorello, è che al tempo delle Ricerche Wittgenstein tendeva invece a
far coincidere la demarcazione tra senso e non-senso con quella tra discorso
pratico quotidiano e discorso teorico accademico. In tal modo si potrebbe
ritenere che l’insensatezza della metafisica non sia altro che una conseguenza
immediata del fatto che i sistemi metafisici sono per loro essenza delle
costruzioni teoriche avulse dalle pratiche comunicative più ordinarie. Ma se
così fosse, notano giustamente Gillies e Giorello, ci troveremmo di fronte ad
un palmare errore epistemologico di valutazione del rapporto che intercorre tra
modelli teorici astratti ed applicazioni pratiche. La storia della scienza, infatti,
contiene parecchi esempi di situazioni in cui delle applicazioni pratiche (ciò
che noi oggi chiameremmo la tecnologia) sono state precedute da speculazioni
pure, le quali hanno magari subito una prima ‘interpretazione’ nell’ambito di
teorie fisiche specifiche.13 Dal punto di vista di Wittgenstein, allora, tali
13
Un caso emblematico è ad esempio quello dell’analisi tensoriale, presentata da Ricci-Curbastro e
Levi-Civita (1900): essa è stata dapprima usata da Einstein nella teoria della relatività generale del
1915 e poi applicata per risolvere problemi pratici relativi alla dinamica dei fluidi, alla descrizione dei
campi gravitazionali e degli spazi n-dimensionali e persino alla costruzione dei satelliti (cfr. Gillies e
Giorello 1995, p. 223). Tuttavia ritengo che la congettura di Gillies e Giorello sulla sovrapposizione,
operata dall’ultimo Wittgenstein, della demarcazione tra senso e non-senso a quella tra discorso
concreto e discorso astratto, non colga nel segno, come emerge proprio dalla filosofia wittgensteiniana
della matematica dal Tractatus alle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Già nel
Tractatus, infatti, risulta evidente che formule come “Il Bene coincide con il Bello” da una parte, e
(p∧(p→ q))→q e “2 + 2 = 4”, dall’altra, rappresentano tipi affatto diversi di non-senso. Mentre
quelle del primo tipo risultano pseudoproposizioni metafisiche, prive di senso perché ai loro termini
non è possibile attribuire un significato preciso e univoco (cfr. propp. 4.003 e 6.53), quelle del secondo
tipo rappresentano pseudoproposizioni grammaticali, prive di senso perché istituiscono mere regole di
segni (Zeichenregeln, prop. 6.126), rispettivamente logiche e aritmetiche. Le equazioni matematiche,
pertanto, corrispondono alle tautologie della logica (cfr. prop. 6.22), perché entrambe sono regole di
calcolo che vanno applicate alle proposizioni empiriche usuali, stabilendo così, nel caso si tratti di
argomentazioni o di calcoli pratici, che cosa abbia senso dire (cfr. T, prop. 6.211; OF, §§ 202c e 107a;
OFM, II, § 28c), anche se il procedimento del loro riconoscimento, come mostrerà Wittgenstein dopo
essere venuto a contatto con l’intuizionismo kantiano di Brouwer (1928), è differente: mentre per le
tautologie logiche basta la semplice ispezione dei segni, “nessun esame dei concetti, solo l’intuizione
diretta nel calcolo numerico può rendere accessibile che 3 + 2 = 5 [...]. Infatti quel che ci fa
riconoscere quell’espressione come tautologia non può risultare esso stesso da un esame dei concetti,
ma dev’essere immediatamente discernibile. [...] Ciò che ho detto sopra sull’essenza dell’uguaglianza
aritmetica e sul fatto che un’uguaglianza non è intercambiabile con una tautologia, spiega - io credo -
14
situazioni dovrebbero essere descritte come un passaggio dalla sfera del non-
senso (speculazione astratta e teoria fisica) a quella del senso (uso pratico-
applicativo), il che è assurdo (cfr. Gillies e Giorello 1995, pp. 222-223).
Nel discutere criticamente la tesi Gillies-Giorello intendo mostrare che
essa è sostanzialmente fuorviante in tutti e due gli aspetti sotto i quali può
essere considerata. Escluso naturalmente che Popper si sia ispirato a
Wittgenstein nel battersi a favore della significanza e della fertilità dei
programmi di ricerca metafisici, la tesi Gillies-Giorello dev’essere vista non
come un’ipotesi storico-genetica, ma come una teoria esplicativa, il cui valore
va saggiato nella capacità di gettare luce su di una situazione problematica
costituita da due approcci epistemologici che ci si presentano apparentemente
inconciliabili. In particolare, la tesi si propone di illuminare un nesso teorico
profondo e inaspettato tra il Wittgenstein antropologo e Popper, consistente nel
fatto che la teoria dei giochi linguistici del primo può fornirci una sorta di
‘giustificazione’ della difesa dei programmi di ricerca metafisici da parte del
secondo. Ora, parlare di ‘giustificazione’, in questo caso, può voler dire
almeno due cose: 1) ricondurre, seppur in maniera approssimativa e con le
dovute cautele, la concezione di Popper a qualcosa di simile alla teoria
wittgensteiniana dei giochi linguistici; oppure 2) introdurre nella teoria
wittgensteiniana dei giochi linguistici la componente popperiana relativa alla
valutazione positiva di un certo tipo di metafisica.
I punti precedenti costituiscono a mio giudizio i due aspetti principali
della tesi Gillies-Giorello. Nella discussione che segue io analizzerò
separatamente questi due aspetti e cercherò di mostrare che in entrambi i casi
la tesi Gillies-Giorello porta a conseguenze difficilmente sostenibili soprattutto
alla luce di una considerazione più ampia del pensiero sia di Popper che di
Wittgenstein. In particolare, vedremo come la teoria popperiana dei programmi
di ricerca metafisici da un lato e quella wittgensteiniana del ‘significato = uso’
dall’altro siano il risultato di prospettive metafisiche e metodologiche tra loro
inconciliabili, al punto da rendere pressoché inutile - a meno di forzature
fuorvianti - il tentativo di Gillies e Giorello di mettere in una relazione logica
di implicazione la teoria popperiana e quella wittgensteiniana. Come emergerà
però nel secondo capitolo, allorché tenterò a mia volta di istituire una relazione
logica di diverso tipo tra altri elementi fondamentali delle due posizioni
filosofiche (quali la teoria della comprensione e quella delle funzioni del
linguaggio), una tale inconciliabilità non vuol dire affatto che Popper e il
Wittgenstein antropologo siano ‘incommensurabili’.
II
cosa intenda Kant quando insiste che ‘5 + 7 = 12’ non è una proposizione analitica, ma sintetica a
priori” (OF, §§ 107b e 108a).
15
Utilizzare la concezione wittgensteiniana del ‘significato = uso’ e dei
giochi linguistici per sostenere e difendere quella popperiana della
significatività dei programmi di ricerca metafisici, significa suggerire un
approccio a quest’ultima da una prospettiva che rischia di far perdere di vista
quello che è senza dubbio il suo cardine centrale, e cioè il ‘realismo
metafisico’, connesso con una particolare interpretazione (dovuta allo stesso
Popper) della teoria della verità di Tarski (1936).14
Secondo Popper, il realismo metafisico non è tanto un postulato
metodologico della scienza in senso stretto15, richiesto dallo scopo - che essa si
prefigge e che la contraddistingue in certo qual modo dalle altre attività
culturali - di cercare spiegazioni sempre più soddisfacenti, le quali nel corso
del tempo si susseguono in quella “provincia logica” del Mondo 3 che
chiamiamo conoscenza oggettiva. Esso è piuttosto la condizione più o meno
14
Si noti che il nome di Tarski è totalmente assente dal libro di Gillies e Giorello, malgrado il fatto che
il pensiero di Popper vi sia trattato piuttosto diffusamente. Da parte sua, invece, Popper ha più volte
insistito sull’importanza decisiva del proprio incontro intellettuale con Tarski. Egli lo vide per la prima
volta al Congresso di Praga nell’agosto 1934 ed ebbe modo di mostrargli le bozze della Logik der
Forschung, che aveva portato con sé. Cfr. ad es. Popper (1972), cap. 9, pp. 419-423 e (1934, 1959), §
84, nota *1, pp. 302-303, in cui si trovano le ragioni filosofiche della lapidaria affermazione
dell’Autobiografia: “da Tarski credo di avere imparato più che da chiunque altro” (1976a, § 17, p. 92).
Su questo episodio cruciale per il proprio sviluppo filosofico, Popper è tornato a insistere in tempi
recenti in una importante conferenza tenuta a Brighton il 24 agosto 1988, A World of Propensities, ora
in Popper (1990), pp. 25-54 (si vedano in part. le pp. 27-30).
15
Poiché il realismo è una dottrina filosofica che non può essere né dimostrata né confutata, Popper
preferisce questa espressione all’altra, ‘Realismo scientifico’, che, sebbene equivalente sul piano
filosofico, può ingenerare fraintendimenti sullo status epistemologico del Realismo. Cfr. Popper
(1972), cap. 2, pp. 64-66, e soprattutto ([1956], 1983), parte I, cap. I, § 5, pp. 96-102 (in part. p. 98), §
7, pp. 104-111 e § 16, pp. 167-175. Nei primi due luoghi del Poscritto Popper precisa fra l’altro che
un’asserzione come “Ci sono leggi di natura vere” può essere intesa anche in un senso metafisico
(oltre che metodologico), che la rende equivalente a un’asserzione del tipo “Esistono in natura delle
regolarità”, la quale chiaramante “appartiene a una teoria della struttura del mondo, ad una sorta di
cosmologia generale: è una congettura di una cosmologia metafisica” (p. 98). Tuttavia “si potrebbe
obiettare che, qualunque sia la possibile interpretazione metafisica della nostra asserzione, essa
appartiene ancora essenzialmente alla metodologia o alla teoria della conoscenza. Si potrebbe
controbattere che per cercare leggi vere (così come facciamo), dobbiamo presupporre l’esistenza di
tali leggi nella nostra ricerca. Così, ‘Ci sono leggi di natura vere’ è un’assunzione metodologica. Ma
questa obiezione non è conclusiva, giacché si può cercare benissimo qualcosa che non esiste, e senza
assumere o presupporre o postulare la sua esistenza. Ad esempio, quando controlliamo una legge, le
cerchiamo un contro-esempio. Ma non assumiamo né presupponiamo né postuliamo l’esistenza di tale
contro-esempio. Infatti, potrebbe non esisterne alcuno. La legge che stiamo controllando potrebbe
essere vera. Anche se, allora, non presupponiamo né assumiamo che ‘Ci sono leggi di natura vere’,
possiamo - e questo è, senza dubbio, il caso - crederlo. E forse questa credenza è psicologicamente
importante nella ricerca di leggi vere. Ma nemmeno questa la renderebbe un’assunzione metodologica;
non farebbe che renderla un’assunzione psicologica. Incidentalmente, condivido questa credenza, e la
considero più ragionevole di qualsiasi alternativa di cui io sia a conoscenza” (pp. 98-99). Questa
precisazione consente poi a Popper di tener ben separato il realismo metafisico (una tesi indecidibile)
dalla sua soluzione definitiva del problema dell’induzione di Hume, raggiunta su basi esclusivamente
logiche, metodologiche ed epistemologiche (cfr. p. 100): “Il realismo metafisico non è usato da
nessuna parte a sostegno delle soluzioni proposte nella Logica della scoperta scientifica. [...] Non si
identifica con nessuna delle tesi della Logica della scoperta scientifica, né svolge da nessuna parte il
ruolo di assunzione. E, tuttavia, è molto presente. Esso costituisce una sorta di retroterra che motiva la
nostra ricerca della verità” (p. 104).
16
esplicitamente formulata di tutti i tentativi teorici di spiegare il mondo, i quali
poi possono risultare metafisici soltanto alla luce del criterio di demarcazione
basato sulla falsificabilità empirica. Da questo punto di vista, si comprende
come egli abbia potuto porre sullo stesso piano teorie del non-mutamento
come quelle di Parmenide ed Einstein, o teorie del mutamento come quelle di
Eraclito e Maxwell.16 L’idea di fondo che sta alla base di ciò è che qualsiasi
teoria metafisica, per quanto fantasiosa ed ardita possa apparirci, può prima o
poi ‘precipitare’17 sotto forma di ipotesi controllabile, e dunque scientifica, che
può essere vera e che pertanto costituisce un tentativo di descrizione delle
proprietà strutturali (evidentemente di carattere relazionale e non intrinseco o
essenziale18) della realtà: «Condivido la concezione implicita nella teoria
classica della verità, intesa come corrispondenza secondo cui dovremmo
definire “reale” uno stato di cose se, e soltanto se, l’asserto che lo descrive è
vero. Ma sarebbe un grave errore concludere che l’incertezza di una teoria,
cioè il suo carattere ipotetico o congetturale, sminuisca in qualsiasi maniera la
sua pretesa implicita di descrivere qualcosa di reale. Infatti, ogni asserzione a
equivale a una asserzione secondo cui a è vero. E quanto alla circostanza che a
è una congettura, dobbiamo ricordare che, innanzitutto, una congettura può
essere vera, e quindi può descrivere uno stato di cose reale. In secondo luogo,
se è falsa, essa contraddice qualche stato di cose reale (descritto dalla sua
negazione vera). Inoltre, se controlliamo detta congettura, e riusciamo a
16
Cfr. Popper (1963a), cap.5, in part. § IX, pp. 246-252. Poiché i grandi programmi di ricerca
metafisici determinano in genere le situazioni problematiche da cui poi prendono il via i tentativi
teorici di soluzione, indicando così non solo la direzione della ricerca ma selezionando anche il tipo di
teorie che potrebbero funzionare (cfr. Popper ([1956], 1983), parte I, § 23, p. 208), Popper conclude
l’“Epilogo metafisico” del Poscritto superando lo stesso criterio di demarcazione tra scienza e
metafisica e proponendo addirittura “un criterio di demarcazione entro la metafisica fra sistemi
metafisici privi di valore razionale e sistemi metafisici degni di diventare oggetto di discussione e di
riflessione” (Popper ([1956], 1982b), § 28, p. 213). Egli inoltre sottolinea che “l’aspirazione propria di
un metafisico è quella di riunire tutti gli aspetti veri del mondo (e non solo i suoi aspetti scientifici) in
un’immagine unitaria che può illuminare lui e gli altri e che potrà, un giorno, diventare parte di
un’immagine ancor più comprensiva, di un’immagine migliore, di un’immagine più vera” (ibid.,
corsivi miei).
17
Nel senso del celebre modello dell’evoluzione “quasi-induttiva” della scienza proposto di Popper
(1934, 1959), § 85, p. 307: “Per ottenere un’immagine, o modello, dell’evoluzione quasi-induttiva
della scienza, possiamo visualizzare le varie idee ed ipotesi come particelle sospese in un fluido. La
scienza controllabile è la precipitazione di queste particelle sul fondo del recipiente: le particelle si
depositano in strati (di universalità). Lo spessore del deposito cresce col crescere del numero di questi
strati, ognuno dei quali corrisponde a una teoria più universale di quelle sottostanti. Il risultato di
questo processo è che talvolta idee che prima fluttuavano nelle regioni metafisiche più alte possono
essere raggiunte dall’accrescersi della scienza, e, venute così in contatto con essa, depositarsi. Esempi
di tali idee sono: l’atomismo; l’idea di un ‘principio’ fisico singolo, o elemento ultimo (dal quale
derivano gli altri); la teoria del moto della Terra (al quale Bacone si opponeva ritenendolo fittizio); la
venerabile teoria corpuscolare della luce; la teoria dell’elettricità come fluido (fatta rivivere con
l’ipotesi secondo cui la conduzione dei metalli è dovuta a un gas di elettroni)”.
18
Per questa importante distinzione si vedano in particolare Popper (1934, 1959), Appendice *X, pp.
474 ss. e il capoverso aggiunto alla ristampa di Popper (1957) come § 15 della parte I di Popper
([1956], 1983), pp. 151-167 (cfr. in part. pp. 157-158).
17
falsificarla, constatiamo che c’era una realtà, qualcosa con cui essa poteva
entrare in conflitto».19
Se dunque prescindiamo dalla falsificabilità empirica, che è soltanto un
criterio metodologico che dobbiamo decidere intersoggettivamente di
adottare20 per regolare in maniera più efficace la dialettica della crescita della
conoscenza per tentativi ed eliminazione degli errori, le teorie scientifiche e
quelle metafisiche sono del tutto equivalenti dal punto di vista della verità
oggettiva, dal momento che potrebbero essere vere, anche se con ogni
probabilità sono false nella doppia infinità dell’universo e delle soluzioni
teoriche logicamente possibili per ogni dato problema.21 A giustificare questo
atteggiamento nettamente antipositivistico nei confronti tanto delle teorie
metafisiche quanto di quelle scientifiche, è ancora la concezione tarskiana della
verità: «La teoria della verità oggettiva [...] ci consente di fare asserzioni del
seguente tipo: una teoria può essere vera anche se nessuno vi crede, ed anche
se non abbiamo ragioni di pensare che sia vera; e un’altra teoria può essere
falsa, anche se abbiamo ragioni comparativamente valide per accettarla. [...]
Un’asserzione analoga, che la teoria della corrispondenza oggettiva rende del
tutto naturale, è questa: anche se per caso troviamo una teoria vera, di regola
potremo soltanto supporlo, e può restare per noi impossibile stabilire che è
tale».22 Essa inoltre, in virtù del suo carattere assolutistico, consente di esibire
argomenti decisivi contro chi, come Quine (che peraltro si ispira esplicitamente
al Wittgenstein antropologo, come faranno Kuhn e Feyerabend), ha negato la
possibilità di definire un’idea regolativa oggettiva di verità e verosimiglianza,
sostenendo un relativismo irriducibile dei linguaggi delle culture, nei quali
metafisica speculativa e scienza naturale si confondono inestricabilmente e
istituiscono ontologie esclusive i cui ‘pezzi’ fondamentali possono essere di
volta in volta gli Dei omerici o i nostri comuni oggetti fisici. Popper ha
mostrato come questo tipo di atteggiamento derivi da una mancata distinzione
tra il significato, ovvero la definizione della verità, cui la teoria di Tarski
consente senz’altro di pervenire, e il criterio della stessa verità: «È di decisiva
importanza rendersi conto del fatto che sapere che cosa significhi verità o a
19
Popper (1963a), cap. 3, pp. 200-201. Cfr. anche (1972), cap. 9, pp. 429-430, dove Popper si
riallaccia esplicitamente al passo citato e ne esplicita tutte le implicazioni realistiche consentite dalla
teoria della verità di Tarski.
20
Cfr. Popper (1934, 1959), p. 18.
21
Per quanto riguarda la prima infinità, Popper osserva che uno dei risultati delle critiche mosse nei
§§ 80, 81 e 83 della Logica alle varie teorie delle probabilità induttive (una delle quali, quella della
‘prossimità logica’ di Waismann e Keynes, derivò praticamente dal dominio della prop. 5.15 del
Tractatus: cfr. Popper (1934, 1959), § 48, note 2 e 4, p. 152) è che “in un universo infinito (l’universo
può essere infinito rispetto al numero di cose che vi si possono distinguere, o delle regioni spazio-
temporali) la probabilità di una qualsiasi legge universale (non-tautologica) sarà zero” (ivi,
Appendice *VII, p. 406). Per quanto riguarda la seconda infinità, invece, cfr. ivi, § 43, nota *1, pp.
142-143; Appendice *IX, § *14, p. 474; ([1930-1932], 1979), “Introduzione 1978”, nota 11, p. 500;
([1956], 1983), parte I, cap. I, § 3, XIII, p. 78; (1963), ora in (1994a), pp. 115-151 (si vedano in part.
pp. 143-144).
22
Popper (1963a), cap. 10, § VIII, pp. 386-387.
18
quali condizioni un enunciato è detto vero, non equivale al, e dev’essere
nettamente distinto dal, possedere un mezzo per decidere - un ‘criterio’ per
decidere - se un dato enunciato è vero o falso. [...] Noi, per esempio, possiamo
sapere che cosa intendiamo per ‘carne buona’ e per ‘carne andata a male’; ma
possiamo ignorare come distinguere l’una dall’altra, almeno in certi casi: è
appunto a questo che pensiamo quando diciamo che non abbiamo alcun
‘criterio’ della bontà della carne buona».23
Per la discussione che qui stiamo facendo, è importante rilevare due
punti.
a) Le varie posizioni in qualche modo relativistiche sul nesso
linguaggio-realtà e su quello tra linguaggio osservativo e linguaggio teorico,
come il ‘principio di relatività linguistica’24 di Whorf, la ‘relatività ontologica’
di Quine e l’‘incommensurabilità’ tra paradigmi o sistemi teorici di Kuhn e
Feyerabend, sono state da Popper indicate come esempi recenti di quello che
egli ha chiamato “mito della cornice” (myth of the framework) e che ha
caratterizzato nei seguenti termini:
È possibile formulare il mito della cornice in una sola frase nel modo
seguente. Una discussione razionale e feconda è impossibile a meno che i
partecipanti non condividano una cornice comune di assunzioni di base, o non
concordino almeno su una tale cornice per il bene della discussione [...]. Sono
molti i fattori che possono contribuire a far apparire tale mito come una verità
pressoché evidente di per sé. Uno di essi ... nasce dalla frustrazione
dell’eccessivo ottimismo con cui si guarda ai poteri della ragione, ossia,
dall’aspettativa più che ottimista riguardo al risultato di una discussione. Mi
riferisco all’idea che il dibattito debba portare a una vittoria intellettuale
decisiva e meritata della verità rappresentata da una parte sulla falsità
rappresentata dalla parte avversa. Quando si scopre che non è questo cui la
discussione in genere giunge, la delusione trasforma l’aspettativa più che
ottimista in un generale pessimismo riguardo alla fecondità delle discussioni.
Un secondo fattore che dà forza al mito della cornice e che merita un’analisi
attenta è connesso al relativismo storico e culturale. Si tratta di una concezione
le cui origini possono forse essere rintracciate in Erodoto (Popper [1965],
1976b, in Popper 1994a, cap. II, § 3, p. 58 e § 8, p. 71).
23
Popper (1961a), § 2, nella 4a ed. di (1945), vol. II, pp. 490-491; cfr. anche (1972), cap. 8, p. 405.
24
“Il ‘principio di relatività linguistica’ [...] significa in parole povere che gli utenti di grammatiche
profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazione diverse e
valutazioni diverse di atti di osservazione estremamente simili, e non sono quindi equivalenti in quanto
osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti” (Lee Whorf [1956], p.
178). E ancora: “Noi analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i
tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore;
ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere
organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Sezioniamo la natura, la
organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di
un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica
ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua. L’accordo è naturalmente implicito e non
formulato, ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non
accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula” (Ibid., p. 169).
19
Popper ha criticato duramente tali posizioni sulla base dell’idea che,
benché si dia effettivamente qualcosa come l’‘intraducibilità’ tra singoli settori
di sistemi linguistici scientifici od ordinari (su cui gli autori citati hanno molto
insistito), tuttavia non è possibile «alcuna relatività linguistica riguardo alla
verità di una qualche affermazione» (ibid., § 10, p. 78) Più in generale,
l’argomento di Popper è il seguente:
Whorf e alcuni dei suoi allievi hanno sostenuto che viviamo in una specie di
prigione intellettuale formata dalle regole strutturali della nostra lingua. Sono
pronto ad accettare questa metafora, per quanto debba aggiungere che si tratta
di una strana prigione - normalmente non sappiamo di esservi rinchiusi.
Possiamo diventarne consapevoli attraverso lo scontro tra culture [corsivo
mio]. Ma allora questa semplice consapevolezza ci consente di uscirne. Se ci
proviamo con sufficiente determinazione, possiamo trascendere la nostra
prigione studiando la lingua con cui veniamo in contatto e confrontandola alla
nostra. Certo, il risultato sarà una nuova prigione. E tuttavia, sarà più ampia e
spaziosa della precedente. E di nuovo non ne soffriamo, o piuttosto, quando ci
capiterà di farlo, saremo liberi di esaminarla criticamente, di evaderne e di
passare a una prigione nuova e ancora più ampia. Le prigioni di cui parlo sono
le cornici, e chi non ama restarsene recluso si opporrà al loro mito. Poiché ciò
gli assicura l’opportunità di scoprire le sue insospettate catene, di romperle e
perciò di trascendere se stesso, sarà felice di discutere con chi proviene da un
mondo diverso, da un’altra cornice, sebbene evadere dalla propria prigione non
sia certo questione di routine: non può essere che il risultato di uno sforzo
critico e creativo” (Ibid., § 11, p. 80).25
La nozione di “scontro fra culture” (culture clash), che nel passo citato
abbiamo sottolineato, è importante per capire la totale diffidenza nutrita da
Popper nei confronti di qualsiasi concezione storicistica e relativistica delle
Weltanschauungen sottese alle civiltà storicamente date (si pensi ad esempio a
Spengler, che Popper disprezza come pochi altri, in quanto tipico falso profeta
apocalittico26). Secondo Popper, la nostra stessa civiltà occidentale è il
prodotto di una collisione di culture, cioè di una lenta e complessa
acculturazione a più fasi e multidirezionale che si è rivelata estremamente
fertile, perché ha dato vita al migliore mondo storico di cui si abbia notizia; e
basterebbe solo questo fatto per falsificare tutte le teorie relativistiche sulla
incommensurabilità dei sistemi di credenze e sul carattere chiuso delle civiltà.
Vale la pena a questo proposito leggere il seguente passo tratto da una
conferenza che Popper ha dedicato proprio al culture clash e che ora
costituisce l’ottavo capitolo di Alla ricerca di un mondo migliore:
25
Su questo punto, si vedano anche Popper ([1969],1994b), cap. 6, pp. 181-184; Popper (1970a), in
Lakatos e Musgrave (a cura di) (1970), pp. 126-127; Popper ([1956],1983), parte I, cap. I, § 1, pp. 45-
47 e § 16, pp. 174-175.
26
Si vedano ad es. i vari riferimenti a Spengler contenuti in Popper (1945) (in particolare il primo: vol.
I, cap. IV, § 5, p. 89 e nota relativa, pp. 319-320) e in Popper (1984) (in part. quelli di cap. X, p. 143 e
cap. XV, p. 207).
20
Il mio interesse per la collisione delle culture è legato [al] problema della
peculiarità e dell’origine della nostra civiltà europea. Una risposta parziale a
questa domanda mi sembra risiedere nel fatto che la nostra civiltà occidentale
discende dalla civiltà greca - un fenomeno senza pari - sorta dalla collisione di
culture, delle culture del Mediterraneo orientale. Fu la prima grande collisione
tra culture orientali e occidentali, e fu avvertita come tale. E divenne, con
Omero, motivo conduttore della letteratura greca e della letteratura del mondo
occidentale. Il titolo della mia conferenza, «La collisione delle culture»,
accenna ad un’ipotesi, ad una supposizione storica. Che un tale scontro non
debba condurre sempre a lotte cruente e a guerre distruttive, ma che possa
essere anche causa di uno sviluppo fecondo e favorevole alla vita. Può
addirittura condurre allo sviluppo di una cultura originale, come quella dei
Greci, che in seguito nello scontro con i Romani fu assorbita da questi. Dopo
molti scontri successivi, in particolare con la cultura araba, fu consapevolmente
rivificata nel Rinascimento; e così si tramutò nella cultura occidentale, nella
civiltà europea e americana, trasformando infine, dopo ulteriori scontri, tutte le
altre culture della terra.
Ma la civiltà occidentale è qualcosa di positivo, di degno d’approvazione?
Questa domanda, sollevata sempre di nuovo almeno a partire da Rousseau, e in
particolar modo dai giovani, che certo a ragione ricercano sempre qualcosa di
migliore, questa domanda caratterizza l’attuale civiltà dell’occidente, la civiltà
più capace di autocritica e amante di riforme del mondo. [...]
Credo che la nostra civiltà occidentale, nonostante tutto quello che a buon
diritto si può biasimare in essa, sia la più libera, la più giusta, la più umana, la
migliore di cui abbiamo conoscenza dalla storia dell’umanità. È la migliore in
quanto la più capace di migliorarsi (Popper 1984, cap. VIII, pp. 117-118).27
21
surrettiziamente proprio ciò che intende smontare, vale a dire il concetto di una
realtà neutra non interpretata, di un che di esterno agli schemi che può di volta
in volta essere identificato con il mondo materiale in sé, con ‘il flusso
caleidoscopico delle impressioni’ (Whorf) o con ‘l’esperienza umana in quanto
processo realmente esistente’ (Feyerabend).29 Come Popper, Davidson ritiene
che «un linguaggio può contenere predicati semplici, alle cui estensioni non
corrispondono predicati semplici o addirittura nessun predicato, in qualche
altro linguaggio», tuttavia «ciò che ci consente di fare quest’affermazione in
casi particolari è una ontologia comune ai due linguaggi, con concetti che
individuano gli stessi oggetti. Possiamo chiarire gli errori di una traduzione
quando sono abbastanza localizzati, poiché una conoscenza di fondo di quella
che in generale è una traduzione ben riuscita ci fornisce un metro necessario
per farci capire gli errori» (ibid., p. 161). Richiamandosi infine anch’egli a
Tarski, Davidson conclude che «se ammettiamo il dogma di un dualismo di
schema e realtà, otteniamo la relatività concettuale, la verità relativa a uno
schema. Rinunciando al dogma, questo tipo di relatività vien meno.
Certamente la verità degli enunciati resta relativa al linguaggio, ma è quella
tutta l’oggettività che essa può avere» (ibid., p. 167).30
b) Il “mito della cornice” è presente in maniera paradigmatica nella
concezione wittgensteiniana della realtà ultima e intrascendibile delle forme di
vita rivelate dai giochi linguistici. Essa implica che le diverse forme di vita
costituiscono una costellazione sincronica che è possibile soltanto descrivere e
nella quale possiamo al più individuare e contemplare (con un procedimento di
cui parleremo nel § successivo) una rete di ‘somiglianze di famiglia’
29
Cfr. ibid., p. 159. Ma questa intrusione è inevitabile e tradisce il paradosso del relativismo. Infatti, è
possibile parlare di schemi (ovvero di linguaggi, di ontologie, di paradigmi, di forme di vita etc.)
differenti soltanto dall’interno di almeno un sistema di coordinate comune, quello, in particolare, che
ci consente di riconoscerli tutti come ‘schemi’ (o ‘linguaggi’, ‘ontologie’, ‘paradigmi’, ‘forme di vita’
etc.), ciò che “smentisce la tesi di una drammatica inconfrontabilità tra i vari punti di vista” (ibid., p.
152).
30
Per il riferimento a Tarski, cfr. pp. 163-164. Per strategie argomentative in qualche modo simili
contro il relativismo dei linguaggi-mondo e la loro non intertraducibilità, cfr. anche Newton-Smith
(1982); Lukes (1982); Hacking (1982), e Putnam (1975b), cap. 9, pp. 177-214 (in part. il § sulla
“Relatività ontologica”, pp. 207-209); (1981), cap. III, pp. 57-82 (in part. il § su “Internismo e
relativismo”, pp. 62-64); cap. V, pp. 113-137 (importante, per noi, soprattutto per le discussioni
specifiche su Wittgenstein, Kuhn e Feyerabend); (1990), cap. VII, pp. 241-259, e cap. VIII (= Putnam
[1983-1984]), pp. 261-275.
22
(Familienähnlichkeiten).31 A tal proposito possono considerarsi emblematici i
§§ 94, 95 e 105 di Della Certezza:
La mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della
sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo
sfondo che mi è stato tramandato (der überkommene Hintergrund), sul quale
distinguo tra vero e falso.
Le proposizioni, che descrivono quest’immagine del mondo, potrebbero
appartenere a una specie di mitologia. E la loro funzione è simile alla funzione
delle regole del gioco, e il gioco si può imparare anche in modo puramente
pratico, senza bisogno di imparare regole esplicite.
Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un’assunzione, hanno
luogo già all’interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un
31
È noto che Wittgenstein introduce questa espressione per caratterizzare il modo in cui risultano
imparentati i vari fenomeni che chiamiamo ‘giochi’, oppure i vari tipi di ‘numeri’, e quindi, più in
generale, i diversi usi di un concetto nei diversi giochi linguistici ed infine gli stessi giochi linguistici:
“Non posso caratterizzare queste somiglianze [Ähnlichkeiten] meglio che con l’espressione
«somiglianze di famiglia» [Familienähnlichkeiten]” (RF, § 67). Ma è interessante rilevare che
l’espressione Familienähnlichkeit è stata usata anche da Nietzsche in Al di là del bene e del male, in
un contesto nel quale il “mito della cornice” agisce nella medesima direzione decostruzionistica e
relativistica (il cosiddetto prospettivismo) che stiamo esaminando: “La prodigiosa somiglianza di
famiglia [Familienähnlichkeit] propria di ogni filosofare indiano, greco, tedesco, si spiega in modo
abbastanza semplice. Proprio laddove si presenta un’affinità di linguaggio è del tutto inevitabile che,
grazie alla comune filosofia della grammatica - grazie, voglio dire, al dominio e alla guida
inconsapevoli, realizzati da analoghe funzioni grammaticali - tutto sia predisposto, sin dall’inizio, per
uno sviluppo e una successione omogenea dei sistemi filosofici: così come pare quasi sbarrata la via a
certe diverse possibilità di interpretazione del mondo. Filosofi dell’area linguistica uralo-altaica (nella
quale il concetto di soggetto ha avuto un assai scarso sviluppo) avranno con grande probabilità un
diverso sguardo ‘sul mondo’ e si dovranno trovare su sentieri diversi da quelli degli Indogermani o dei
Musulmani: l’incantesimo di determinate funzioni grammaticali è in definitiva l’incantesimo di
fisiologici apprezzamenti di valore e di condizionamenti razziali” (Nietzsche 1886, § 20).
Si può osservare, a tal proposito, che se è vera la congettura di von Wright, il quale ricollega
il concetto di Familienähnlichkeit a quello spengleriano di Ursymbol (cfr. von Wright 1982, cap. VIII,
p. 251), allora l’idea che una delle fonti di tale concetto sia nietzscheana (oltre che goethiana), almeno
per quel che concerne la sua applicazione al linguaggio, risulta del tutto naturale, perché Spengler,
com’è noto, soprattutto per il suo approccio biologistico all’antropologia culturale, deve molto a
Goethe e moltissimo a Nietzsche. Cfr. ad es. Spengler (1918-1922), “Prefazione all’edizione
definitiva”, p. 29: “Sento [...] il bisogno di nominare coloro ai quali io debbo quasi tutto: Goethe e
Nietzsche. A Goethe devo il metodo, a Nietzsche il modo di impostare i problemi - e se dovessi
condensare in una formula il mio rapporto col secondo direi: dai suoi sprazzi di luce ho tratto una
visione d’insieme”. In relazione all’espressione “Familienähnlichkeit” (la cui prima ricorrenza si trova
in BT, p. 259, dove compare anche il nome di Spengler), è stata richiamata anche l’attenzione sull’uso
spengleriano del termine “Gattung” (‘genere’, ‘categoria’: cfr. Spengler 1918-1922, p. 50): cfr.
Marconi (a cura di) (1997), cap. II, nota 33, pp. 80-81.
Per quanto riguarda Goethe, diversi studi recenti hanno ormai appurato “che il nuovo metodo
di indagine sul linguaggio, per cui la comprensione del modo di funzionare del linguaggio dovrebbe
risultare da una presentazione perspicua dei fatti dell’uso, che ‘fa vedere’ le connessioni tra i diversi
usi, deriva dalla riflessione di Wittgenstein sulla filosofia della natura di Goethe, e in particolare sulla
sua idea di metodo morfologico” (Marconi 1996, p. XXVIII, nota 35, dove compaiono anche alcuni
riferimenti bibliografici). A tal proposito, particolarmente significativi sono il § 889 (consistente
semplicemente nella citazione della frase finale della massima 575 di Goethe, tr. it. p. 119: “non si stia
a cercare dietro ai fenomeni: essi stessi sono la dottrina”) e soprattutto il § 950 di OFP, I (di cui cfr.
anche le dettagliate note relative di Roberta De Monticelli nella tr. it., pp. 251-252 e 268), nonché il
secondo capoverso di NF, p. 29. Su tutta la questione cfr. anche Andronico (1997), pp. 276-282,
23
punto di partenza più o meno arbitrario, e più o meno dubbio, di tutte le nostre
argomentazioni, ma appartiene all’essenza di quello che noi chiamiamo
argomentazione. Il sistema non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto
l’elemento vitale della argomentazione.
nonché Sormano (1998), dove, a partire dal comune richiamo al ‘metodo morfologico’ goethiano (p.
128), viene argomentata un’ipotesi di collegamento tra la sociologia di Weber e l’antropologia di
Wittgenstein sulla base dell’idea che entrambe siano caratterizzate da un approccio ‘grammaticale’ al
senso del “testo di ogni decisione o presa di posizione” (p. 123).
32
Cfr. Popper (1994a), cap. II, § 9, pp. 74-75. Naturalmente qui Popper non si dilunga nella
giustificazione di una siffatta impostazione, dal momento che, com’è noto, quasi tutto il secondo
volume della Società aperta è dedicato ad ampie analisi del pensiero di Hegel (capp. XI e XII), Marx
(capp. XIII-XXII) e Mannheim (cap. XXIII).
24
Carnap), dove ancora una volta il pregiudizio neopositivistico della
imprescindibilità di definizioni chiarificatrici preliminari è fatto risalire a
Wittgenstein e in una nota si rinvia allo stesso luogo della Società aperta.33
Questo fatto, consentendo di interpretare anche il Wittgenstein del
Tractatus (perché è a questo Wittgenstein che Popper fa riferimento nei luoghi
menzionati) alla luce del mito della cornice, ci fornisce una chiave per una
peculiare lettura continuista di tutto il pensiero wittgensteiniano, pur nelle sue
innegabili articolazioni interne.34 Infatti, la cornice della forma di vita su cui
insiste il Wittgenstein antropologo, nella quale ci troviamo a vivere e che non
ci è possibile valicare e oggettivare (neppure per mezzo di un metalinguaggio
fornito di standard argomentativi oggettivi, usato agendo dall’interno di essa
allo scopo di ‘migliorarla’ gradualisticamente, poiché qualunque tipo di
standard è relativo a un gioco linguistico), si potrebbe considerare da un lato il
risultato della pluralizzazione e relativizzazione, e dall’altro un allargamento
totalizzante - ottenuto, diciamo, per riempimento e incarnazione nella praxis
linguistica delle categorie culturali - di quella cornice altrettanto invalicabile e
inoggettivabile costituita dalla forma logica del linguaggio-mondo di cui
parlava il Wittgenstein ontologo. Possiamo dire, allora, che al «Noi non
possiamo pensare nulla d’illogico, perché altrimenti dovremmo pensare
illogicamente» del Tractatus (prop. 3.03), corrisponda, in una prospettiva più
ampia in cui natura e cultura si concretizzano nella praxis di una forma di vita,
una sorta di ‘Noi non possiamo credere a nulla che non sia riconducibile in
ultima analisi al nostro agire (Handeln / acting), che costituisce il fondamento
ultimo ed inesplicabile del gioco linguistico, altrimenti dovremmo avere delle
33
Cfr. Popper (1994a), cap. II, p. 94; (1945), vol. II, pp. 19, 386-388 e 391-394; (1963a), pp. 475-476.
34
Questa ipotesi, occorre ribadire, non è un tentativo di forzare i contenuti del pensiero di Wittgenstein
entro un’interpretazione unilaterale, perché ciò ne mortificherebbe il prezioso, unico e irripetibile
carattere fuzzy. Essa nasce piuttosto da una considerazione molto semplice: dai tempi del Tractatus
(cfr. prop. 5.6: “I limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo”) a quelli del cosiddetto
‘ritorno alla filosofia’ (cfr. OF, § 6: “non è possibile mediante il linguaggio uscire dal linguaggio”),
dalla fase intermedia (cfr. GF, I, § 71d: “Nessun segno e nessun’argomentazione ci conducono oltre se
stesse”) all’ultimo periodo (cfr. DC, §§ 94-99), Wittgenstein compie dei percorsi filosofici sì cloud-
like (come direbbe Popper) e straordinariamente vari (le “vedute di un unico oggetto osservato sotto
angoli diversi” di cui si parla in uno dei celebri abbozzi di prefazione per le Osservazioni filosofiche, o
i molti schizzi da prospettive diverse di uno stesso paesaggio, di cui si parla nella prefazione alle
Ricerche), ma questi percorsi assomigliano, per riprendere la celebre immagine del § 309 delle
Ricerche, a quelli della mosca intrappolata in una bottiglia, intendendo per bottiglia nient’altro che il
linguaggio, da lui sempre considerato intrascendibile sia che venga inteso nel senso ristretto della
‘forma logica’ e della sua purezza cristallina (Tractatus), sia che venga inteso nel senso allargato del
gioco linguistico in cui è depositata la mitologia contingentemente trascendentale che sorregge una
determinata ‘forma di vita’ (Della certezza). In tal senso, dire di Wittgenstein che egli è un ‘filosofo
del linguaggio’ è molto più che dare il suo indirizzo di scuola: è un modo per descrivere esattamente la
sua condizione di prigioniero (per inciso, è significativo che l’idea di ritorcere sul filosofare
wittgensteiniano tout court l’immagine della mosca in trappola, sia proprio di Popper: cfr. Popper
1984, cap. XIII, p. 181, citato più avanti nella nota 176). [Devo questa nota di precisazione a un rilievo
della prof.ssa Roberta Corvi]
25
credenze che stanno al di fuori della nostra storia naturale’.35 Una lettura
comparata di T, propp. 4.12-4.121 e DC, §§ 204-205, rende del tutto naturale
un parallelismo tra le funzioni svolte da due cornici tra loro molto diverse, e
cioè la forma logica, che segna i limiti trascendendali del pensabile, e la forma
di vita, ovvero l’agire che fonda la possibilità del parlare in un gioco
linguistico:
26
e 53), rappresenta una sorta di trait d’union tra il cosiddetto ‘primo’ e il
cosiddetto ‘secondo’ Wittgenstein.
Quest’ipotesi di una articolata continuità tra le varie ‘fasi’ del pensiero
wittgensteiniano poggia dunque sull’idea che il filosofo viennese sia sempre
partito da una concezione totalizzante del linguaggio, nel senso che esso si
trova comunque a giocare il ruolo di realtà ultima che può solo esibire la
propria essenza, sia quando egli ne enuclea la forma generale
(fondamentalissima e intrascendibile) della proposizione (cfr. T, propp. 4.5 e
6), sia quando stabilisce che è possibile solo la descrizione (e mai la
giustificazione) delle molteplici grammatiche d’uso del linguaggio (cfr. RF, §§
109, 496, 497). È possibile allora interpretare tutto Wittgenstein alla luce del
rilievo fondamentale che egli stesso si rivolge in RF, §§ 114 e 115: «Tractatus
logico-philosophicus, 4.5: ‘la forma generale della proposizione è: È così e
così’. - Questo è il tipo di proposizione che uno ripete a se stesso innumerevoli
volte. Si crede di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si
seguono che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine
ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro
linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente». Anche l’analisi
degli usi linguistici è un’immagine, ovvero un modulo euristico, che può
illudere di condurre al cuore essenziale del linguaggio, mentre in realtà ciò a
cui si perviene può essere solo la proiezione su di esso dei contorni netti dello
strumento, i quali finiscono così per trasformarsi (per riprendere l’immagine
che ricorre in DC, § 96) in rotaie trascendentali.
Può essere utile dare qui un piccolo elenco, tratto da Della Certezza, di
espressioni wittgensteiniane riconducibili al concetto popperiano di
framework. Oltre al comune Sprachspiele (naturalmente connesso con
Lebensform)36, troviamo anche occasionalmente:
36
Sull’uso di queste due espressioni da parte dell’ultimo Wittgenstein, cfr. Black (1978), in
Andronico, Marconi, Penco (a cura di) (1988), pp. 241-251. In questo saggio, Black muove dalla
constatazione che, a fronte della grande importanza che la nozione di Lebensform gioca nel pensiero
dell’ultimo Wittgenstein, la parola “Lebensform” compare solo cinque volte nelle Ricerche (I, §§ 19,
23 e 241; II, sez. I, p. 229 e sez. XI, p. 295) e “quasi mai” (p. 241) nelle altre opere. In effetti, in Della
Certezza la semplice ‘parola’ ricorre solo una volta, nel § 358, e per di più, per una sorta di ironia del
caso, in un’osservazione di cui Wittgenstein era tutt’altro che soddisfatto: “357. Si potrebbe dire: «‘Io
so’ » esprime la sicurezza tranquilla, non quella che ancora lotta. - 358. Ora, io vorrei considerare
questa sicurezza, non come qualcosa di affine all’avventatezza o alla superficialità, ma come (una)
forma di vita. (Questo è espresso molto malamente, e, di sicuro, anche pensato malamente [Das ist
sehr schlecht ausgedrückt und wohl auch schlect gedacht])”. Tuttavia, ciò non toglie che le 676
osservazioni che costituiscono Della certezza siano nella stragrande maggioranza una minuziosa
analisi della nostra “forma di vita” occidentale, una forma di vita caratterizzata, tra l’altro, da una
costellazione di tacite cognizioni storiche, fisiche e geografiche e da una ben precisa immagine della
nostra Terra (cfr. §§ 146-147), le quali comportano, ad es., che “ci sentiremmo spiritualmente
(geistig / intellectually) molto distanti” da un uomo convinto che degli uomini siano già stati sulla
Luna (cfr. § 108. Non si dimentichi che Wittgenstein scriveva queste cose tra il 1950 e i primi mesi del
1951). Non a caso, infatti, il termine “vita” ricorre spesso in un senso che presuppone chiaramente
quello di “forma di vita”: “La mia vita mostra che so, ossia che sono sicuro, che là c’è una sedia, una
porta, e così di seguito” (§ 7); “Ora, nella vita, mi accerto di sapere che qui c’è una mano (cioè la
27
1. Bezugssystem / frame of reference: indica la cornice di riferimento da cui
dipende la ‘verità’ di certe proposizioni empiriche (§ 83);
2. Grundsatz der Forschens und Handelns / foundation for research and
action: è la proposizione-guida mai messa in dubbio e talvolta mai
pronunciata (§ 87. Cfr. anche § 551);
3. überkommene Hintergrund / inherited background: si tratta dello sfondo
tramandatoci come visione del mondo, sul quale distinguiamo tra vero e
falso, e che quindi non è possibile sottoporre a controllo critico essendo al
di qua di ogni criterio di controllo (§ 94);
4. Leitung / channel: la “rotaia” trascendentale costituita dalla trama degli
asserti-guida empirico-grammaticali, che funge da sotto-cornice di un
determinato gioco (§ 96);
5. System, Gebäude / system, structure: il sistema, l’edificio delle convinzioni
(Überzeugungen) che, pur non essendo descrivibile, costituisce il sistema di
riferimento tacitamente condiviso in base al quale, ad esempio, ‘sappiamo’
di non essere mai stati sulla Luna (§ 102); esso, dunque, appartiene
all’“essenza” di ciò che accettiamo come procedimento argomentativo, per
cui non rappresenta tanto un “punto di partenza” (Ausgangspunkt)
dell’argomentazione, quanto piuttosto il suo “elemento vitale”
(Lebenselement: § 105. Cfr. anche §§ 134, 137, 141, 142, 144, 410 e 603);
6. Substrat / substratum: è lo status del nostro Weltbild, il quale, prim’ancora
di essere vero o falso, costituisce il “substrato” di tutto il nostro ‘cercare’
(Forschen) e di tutto il nostro ‘asserire’ (Behaupten), e le proposizioni che
lo descrivono “non sono tutte egualmente sottoposte a controllo” (§ 162);
7. Grund / ground: il fondamento ultimo di un gioco linguistico e quindi di
ogni processo di giustificazione, consistente non (come vorrebbe Moore) in
proposizioni la cui verità ci si imponga come immediatamente evidente, ma
nel nostro agire così, e posto pertanto al di qua del vero e del falso (§§ 204-
205. Cfr. anche punto 12 e § 415);
8. Gerüst / scaffolding: è un’“impalcatura”, come la “rotaia”, cioè un asserto
esprimente una credenza [Glauben / belief ] che insieme ad altri viene ad
mia)?” (§ 9); “La mia vita consiste in questo: che sono appagato di alcune cose” (§ 344); “Non devi
dimenticare che il giuoco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: non è
fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì - come la nostra vita” (§ 559: cfr. con l’ultimo
luogo delle Ricerche citato sopra: “Ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - forme di
vita”. Questa frase, peraltro, si trova anche in OFP, I, § 630, e determina l’unica occorrenza del
termine Lebensformen nei 1874 paragrafi che costituiscono i due libri delle Bemerkungen); ma cfr.
anche §§ 117, 138, 338, 651. Come si vede, questi contesti suggeriscono chiaramente che le
espressioni ‘la mi vita’ o ‘la nostra vita’ equivalgono a espressioni come ‘la mia forma di vita’ o ‘la
nostra forma di vita’ (a loro volta equivalenti, dal punto di vista dell’ultimo Wittgenstein). A ragione,
pertanto, Conte (1994, p. x) caratterizza così Della certezza: “Il libro [...] indaga strutture (uso
‘struttura’ come iperonimo di ‘Lebensform’ [...] e di ‘Sprachspiel’ [...]) che sono anteriori ad ogni
processo conoscitivo e che, correlativamente, condizionano quella certezza [...] alla quale il libro [...]
si intitola. Queste strutture non sono un prius trascendentale della conoscenza, ma un primum
intrascendibile”.
28
un certo punto ‘bloccato’ e messo fuori discussione e che, pertanto, viene a
costituire la matrice e il controllo ‘interno’ degli altri asserti che esprimono
le nostre credenze ‘mobili’ (§ 211; cfr. anche §§ 209 e 210);
9. Grundmauer / foundation-walls: è il “muro maestro” - sorretto dall’intera
casa del gioco linguistico - che troviamo quando perveniamo al ‘fondo’
(Boden) delle nostre convinzioni (§ 248);
10. Gemeinschaft / community: si tratta della “comunità” alla quale
apparteniamo; è essa che, tenuta insieme [verbunden / bound together] dalla
scienza e dall’educazione, predetermina l’orizzonte delle nostre ‘certezze’
intorno a qualcosa (§ 298);
11. Angeln / hinges: sono le proposizioni esenti dal dubbio che fungono da
‘perno’ o ‘cardine’ per quelle sulle quali è possibile dubitare e porre
questioni (§ 341. Cfr. anche §§ 343 e 655);
12. Fundament / foundation: il fondamento di tutto il nostro operare
[Operieren/ operating] cognitivo e linguistico, costituito non solo da
proposizioni logiche ma anche da enunciati assolutamente infalsificabili
“intorno ad oggetti” [Aussagen über Gegenstände / statements about
material objects], che non vanno scambiati per quelle proposizioni
empiriche [Erfahrungssätze / empirical propositions] che si possono
tranquillamente rimpiazzare con altre, al pari delle ipotesi falsificate (§§
401-403. Cfr. anche punto 7 e §§ 411, 414, 449, 517, 558 e 614).
29
giochi linguistici, ai quali partecipiamo e dobbiamo inevitabilmente
partecipare».37
C’è un fattore più tecnico che giustifica l’aggancio di Wittgenstein al
mito della cornice e che ci consente di trarre le conclusioni di questo primo
punto della discussione della tesi Gillies-Giorello. Si tratta della stessa teoria
del ‘significato = uso’, che Popper attacca direttamente in due luoghi diversi
ma per noi estremamente significativi.
Nel § 24 della prima parte del primo volume del Poscritto,
appartenente al III capitolo (il cui titolo è proprio “Metafisica: senso o
nonsenso?”), Popper discute fra l’altro la concezione relativistica che nega ciò
che Feyerabend ha chiamato “invarianza di significato” dei termini come
‘atomo’, ‘pianeta’, ‘luce’, ‘movimento’, ‘spazio’, ‘forma’, etc., nei diversi
sistemi teorici in cui ricorrono e in cui vigono diversi standard di
controllabilità. La sua tesi, faticosamente raggiunta, come egli stesso dichiara,
è che mentre la controllabilità di una teoria dipende in parte dal significato dei
termini usati (ma soprattutto dallo stato della nostra conoscenza al tempo in
cui la teoria è proposta), il viceversa in genere non vale, per cui il significato
non dipende dalla controllabilità (cfr. Popper [1956], 1983, p. 225) e quindi
«asserti controllabili e non controllabili (o ‘metafisici’) possono avere la
medesima forma logica. Inoltre le stesse espressioni - parole o simboli -
possono occorrervi (forse in un ordine lievemente diverso) e possono avere
esattamente lo stesso significato. Perciò né la forma logica di un asserto né il
tipo di espressione che vi occorre sono sufficienti a determinare se sia
controllabile o non controllabile» (ibid., p. 212). Se ciò è vero, osserva Popper,
va in pezzi anche la teoria del ‘significato = uso’, che egli ammette di aver
tacitamente e acriticamente accettato dopo aver criticato nella Logica della
scoperta scientifica la teoria neopositivistica (desunta dal Tractatus) del
‘significato = metodo della verificazione’:38
Non mi ero mai interessato al problema del significato dei termini, e avevo
acriticamente, e invero senza pensarci, accettato la tesi alquanto più ampia che
il significato di un termine fosse determinato dal suo uso. Visto che l’uso
scientifico di un termine era spesso influenzato dal suo status rispetto alla
37
Radnitzky (1988), § 4, pp. 114 e 116 (con leggera modifica della traduzione, dove si legge ‘il mito
dello schema’ invece di ‘il mito della cornice’). Come accennato, concordo sostanzialmente con questa
impostazione, anche se nel prossimo capitolo metterò in luce un aspetto del pensiero dell’ultimo
Wittgenstein, relativo alle funzioni del linguaggio consentite nell’attività filosofica, che crea un argine
incolmabile tra lui e, per esempio, Quine Kuhn e Feyerabend, ponendolo sull’orlo delle conseguenze
più catastrofiche del relativismo.
38
Si noti che il capitolo in questione ha come epigrafe un passo tratto dalla prop. 6.53 del Tractatus e
si apre con delle “Considerazioni preliminari (1982)” che ribadiscono il rifiuto di due tesi tipiche del
Tractatus, divenute due ‘programmi’ del neopositivismo : 1) metafisico = non verificabile = privo di
senso, 2) enunciati che contengono termini cui non sia stato attribuito un significato sono privi di
significato (cfr. ibid., pp. 211-212). Alla prima tesi Popper contrappone l’idea per cui ‘metafisico =
non empiricamente controllabile’, mentre alla seconda risponde con la tesi centrale del § 24, esposta
brevemente nel testo relativo alle due note precedenti.
30
controllabilità, sembrava che dei mutamenti in questo status potessero
influenzare il significato del termine in questione.
Fu soltanto come risultato dell’analisi riportata in questo paragrafo che mi
resi conto che tutto ciò era sbagliato; che non è l’“uso” di un termine a
determinarne il significato, ma, in modo molto più ristretto, le relazioni che noi
assumiamo valgano fra le entità denotate dal termine e altre entità. Qui, come
sempre, l’analisi linguistica è errata. Il nostro uso (o le sue regole) può essere
sintomatico delle nostre assunzioni teoriche - può rivelare queste assunzioni -
ma non coincide con esse. E benché le nostre assunzioni siano spesso soltanto
implicite e non facilmente formulabili in modo esplicito, si possono formulare
esplicitamente come congetture su cose. L’uso, d’altro canto, o le regole d’uso,
si possono formulare, nella migliore delle ipotesi, come regole che descrivono
il nostro stesso comportamento.
(Ad esempio, il significato della parola “fra” può dirsi dato dagli assiomi di
Hilbert. Ma questi assiomi sono assunzioni su cose - e su relazioni specifiche
fra cose. Essi non sono regole che stabiliscono dei modi di parlare.) (ibid., pp.
225-226).
31
Per concludere questo primo punto, diciamo che al fine di garantire la
significanza della metafisica, dal punto di vista di Popper non può bastare che
si diano un gioco linguistico e delle regole più o meno precise per la corretta
applicazione di un insieme di termini o concetti. Questo standard, che
rappresenta il massimo che può essere desunto da Wittgenstein per salvare i
giochi linguistici metafisici, per Popper è una condizione minima, che peraltro
si rivela del tutto insufficiente almeno per due motivi. Per prima cosa, tale
standard non rende conto del fatto che i programmi di ricerca metafisici, sia
lecito o no considerarli dei giochi linguistici, sono pur sempre dei tentativi di
spiegare il mondo oggettivo e non un semplice passatempo verbale tra
accademici, magari dotato, Dei gratia, di un qualche significato. Inoltre, e
questo è il punto decisivo, la completezza nella esplicitazione delle regole del
corretto uso delle parole è una rarissima eccezione, conseguibile per di più in
modelli o giochi linguistici estremamente poveri (se poi la parola in questione
è ‘verità’, nessun linguaggio che contenga anche solo l’aritmetica può
possederne un criterio d’uso soddisfacente, come hanno dimostrato Gödel e lo
stesso Tarski40). Di regola, noi ‘usiamo’ continuamente ed in qualsiasi ambito
termini che grosso modo intendiamo, grazie magari a teorie o concezioni varie
sottese al loro impiego, ma per i quali non saremmo assolutamente in grado di
specificare i criteri della loro corretta applicazione. Chiunque abbia una
dimestichezza minima con la fisica delle particelle sa ad esempio abbastanza
bene cosa si intende, su un piano meramente definitorio e secondo le teorie più
recenti, con termini come ‘atomo’ o ‘quark’; così come nel linguaggio
ordinario tutti noi abbiamo familiarità con un’espressione come ‘acqua
potabile’. Tuttavia non esiste la possibilità di indicare le regole che ci
consentano di avere ‘le idee chiare’ sulla loro corretta applicazione, cioè sul
loro uso.41 Naturalmente per Wittgenstein, il quale, soprattutto a partire dagli
compiutamente verificata. Se fissiamo il significato una volta per tutte, abbiamo acquisito anche un
sicuro criterio per la verità dell’asserzione” (WCV, p. 36). Più tardi, com’è noto, questo criterio forte,
così tipicamente positivistico, cederà il posto al più debole ‘criterio d’uso’. Il seguente passo delle
OFM (IV, § 7d), risalente agli anni 1942-1943, costituisce un importante punto di collegamento tra le
due fasi, poiché la sostituzione della ‘verifica’ con l’‘applicazione’ mantiene ancora ferma l’esigenza
della ‘chiarezza delle idee’: “Come è possibile avere un concetto e non avere idee chiare sulla sua
applicazione?”. A proposito della relazione tra filosofia e logica, Wittgenstein, che pure aveva scritto
un trattato logico-filosofico volto a utilizzare i risultati della logica matematica per risolvere
(dissolvendoli) tutti i problemi della filosofia tradizionale, scrive in RF, § 124: “La filosofia ... lascia
anche la matematica com’è, e nessuna scoperta matematica può farla progredire. Un ‘problema-chiave
di logica matematica’ è per noi un problema di matematica, come qualsiasi altro”.
40
Su questo punto si veda ad. es. Popper (1976a), § 32, p. 148.
41
Ciò è connesso con il carattere disposizionale di tutti i termini e con la conseguente fallacia della
distinzione tra termini osservativi e termini teorici, nonché con il complesso problema del riferimento,
per cui rimando (soprattutto in relazione a Wittgenstein), oltre al citato cap. III, parte I, di Popper
([1956], 1983) (che esprime una posizione esplicitamente contraria tanto alla semantica del ‘primo’
quanto a quella del ‘secondo’ Wittgenstein), anche a Kripke (1972) (la cui teoria causale della
denominazione, basata sull’idea di una relazione di designazione rigida tra nome e oggetto, è stata da
più parti assimilata alla semantica del Tractatus: cfr. ad es. Dummett 1974, Marconi 1987, cap. II, pp.
32
anni 1933-1934, aveva ben presente il problema42, ciò significa soltanto che
dobbiamo vigilare di più sulle parole che usiamo, e che laddove trovassimo
delle difficoltà, dovremmo condurre fino al termine il procedimento di
descrizione chiarificatrice degli usi linguistici.
Come si vede, dunque, fondare la significatività dei programmi di
ricerca metafisici su una loro assimilazione ai giochi linguistici
wittgensteiniani conduce inevitabilmente a trascurare, o perlomeno a collocare
in secondo piano, gli elementi decisivi del Realismo metafisico e dell’ideale
regolativo della verità oggettiva, sui quali si basano, secondo Popper, tutti i
tentativi di spiegazione della realtà. La conseguenza più importante della tesi
Gillies-Giorello, per questo suo primo aspetto, sarebbe pertanto quella, per così
43-44; Hintikka e Hintikka 1986, cap. VIII, § 2, p. 260), e a Putnam (1975), in part. capp. 1, 11, 12 e
13 e (1981), capp. I e II, pp. 7-56 (dove il punto di partenza, come testimoniano le celebri ipotesi
fantascientifiche dei ‘cervelli in una vasca’ e della Terra Gemella sulla quale il termine “acqua”
significa XYZ anziché H2O, è costituito dalla semantica antimentalista del ‘secondo’ Wittgenstein, con
la connessa insistenza sulla competenza linguistica pubblicamente accertabile dei parlanti e sulla
divisione sociale del lavoro linguistico). Lo stesso Wittgenstein, cominciando a scorgere i limiti della
nozione troppo rigida di “calcolo” linguistico, mutuata dalla scienza e dalla matematica (su questo
punto cfr. Hintikka e Hintikka 1986, cap. I, § 7, pp. 35-40), anticipa chiaramente, seppure entro la sua
peculiare ottica panlinguistica, quello che nel citato cap. 13 di Putnam (1975) è chiamato “principio
di ragionevole ignoranza” (p. 304): “in generale, noi non usiamo il linguaggio secondo regole rigorose
- né, d’altronde, esso ci è stato insegnato secondo regole rigorose. Invece noi, nelle nostre discussioni,
paragoniamo costantemente il linguaggio ad un calcolo che procede secondo regole rigorose. Questo è
un modo molto unilaterale di considerare il linguaggio. In pratica, ben di rado noi usiamo il linguaggio
come un tale calcolo. Non solo noi non pensiamo alle regole d’uso (definizioni, etc.) mentre usiamo il
linguaggio, ma in molti casi non sappiamo neppure indicarle quando ce lo chiedono. Noi non sappiamo
circoscrivere chiaramente i concetti che usiamo; e questo non perché sia a noi ignota la loro
definizione reale, ma perché una loro ‘definizione’ reale non esiste. Supporre che una definizione reale
debba esservi, sarebbe come supporre che i bambini, ogni volta che giocano a palla, giochino un gioco
secondo regole rigorose” (Libro blu, in LBM, p. 37).
42
In effetti, malgrado la chiarezza esemplare del passo citato nella nota precedente, su questo punto
Wittgenstein è stato piuttosto ambiguo e ha oscillato a lungo sul grado di rigore da attribuire alle
regole dei giochi linguistici, soprattutto nella fase (Grammatica filosofica e Libro blu) in cui il gioco
linguistico è concepito ancora come una forma di notazione che si apprende apprendendo in qualche
modo la spiegazione del significato dei termini coinvolti (cfr. ad. es. GF, I, §§ 23, 24, 26e, 32b, 36 da
un lato e §§ 26c, 29, 73 dall’altro, e LBM, pp. 5-6, 26, 53 da un lato e pp. 37, 40 dall’altro). Ma già a
partire dal Libro marrone, egli perviene all’idea per cui, come scrive Trinchero, “l’apprendimento del
gioco linguistico è preliminare alla comprensione delle parole” (“Nota introduttiva” a RF, p. XII), nel
senso antropologico-culturale che essa manterrà fino agli ultimi scritti (si veda in part. Libro marrone,
II, §§ 3 e 19, in LBM, pp. 173 e 219-220). Si consideri, a titolo di esempio, il seguente passo del Libro
blu, dove Wittgenstein comincia a suggerire l’idea che la possibilità della ‘tabulazione’ delle regole
d’uso dipende dal tipo di situazioni linguistiche concrete con cui si ha a che fare di volta in volta: “I
filosofi parlano molto spesso dell’indagare, dell’analizzare, il significato delle parole. Ma non
dimentichiamo che una parola non ha un significato datole, per così dire, da un potere indipendente da
noi, così che possa esservi una sorta di ricerca scientifica di ciò che quella parola significa realmente.
Una parola ha il significato che qualcuno le ha dato. Vi sono parole con più significati chiaramente
definiti, che è facile enumerare. E vi sono parole delle quali si potrebbe dire: esse sono usate in mille
modi differenti che gradualmente sfumano l’uno nell’altro. Va da sé che non si possano enumerare
regole rigorose per il loro uso” (in LBM, p. 40). Non è superfluo osservare che tra i “filosofi” di cui si
parla qui c’è anche il Wittgenstein di pochi anni prima, come emerge ad esempio da WCV, p. 36
(citato nella nota 39), e come riconoscerà esplicitamente lo stesso Wittgenstein in RF, § 81 (il cui
nucleo si trova già in GF, I, 36, in part. capoversi a, b, c ed e).
33
dire, di far venir meno Popper all’auto-avvertimento che egli stesso si è dato e
che ha chiamato esortazione antiessenzialistica: «Non lasciarsi mai spingere a
prendere seriamente i problemi concernenti le parole e i loro significati. Quel
che deve essere preso sul serio sono le questioni di fatto e le asserzioni sui
fatti: teorie e ipotesi; i problemi che risolvono; e i problemi che sollevano».43
Ed è, questo, esattamente ciò che i giochi linguistici di Wittgenstein non
prevedono, come dimostra il fatto che la caratterizzazione del proprio
filosofare che egli fornisce al tempo del suo ritorno alla filosofia è una sorta di
contro-esortazione essenzialistica: «Il mio modo di filosofare mi è sempre
stato e mi è tuttora nuovo, ed è per questo che devo così spesso ripetermi.
Un’altra generazione, cui esso sarà entrato nel sangue, troverà noiose queste
ripetizioni. - Questo metodo consiste, essenzialmente, nel passaggio dalla
domanda sulla verità a quella sul significato [corsivo mio]» (PD, p. 17 [1929])
III
Per una rapida sintesi di questo ‘passaggio’ da una considerazione rigida a una più sfumata
delle regole d’uso del linguaggio, cfr. anche Perissinotto (1997a), §§ 38-44, pp. 97-105. Per una sua
rilettura teoretica alla luce della modificazione della concezione dei rapporti di forza tra “regole” e
“giochi”, cfr. Hintikka e Hintikka (1986), cap. VIII, §§ 6-11, pp. 281-291, secondo i quali
Wittgenstein sarebbe in realtà passato, a partire dall’epoca del Libro marrone, dall’attribuzione di
priorità assoluta alle regole sul gioco, alla concezione del “primato logico (concettuale) dei giochi
linguistici rispetto alle loro regole” (p. 289), vaghe o precise che fossero; in tal senso lo stesso
procedimento del “seguire una regola può venir compreso solo in base ai giochi linguistici” (ibid.),
sicché “nell’ultimo Wittgenstein i giochi linguistici sono davvero misura di tutte le cose” (p. 287), dal
momento che vengono a funzionare, come mostrano gli Hintikka nel cap. IX, pp. 305-344, da legame
semantico tra linguaggio e mondo, consistendo il loro ruolo soprattutto nell’istituire le relazioni
fondamentali di denominazione tra i nomi che ne fanno parte e gli oggetti.
43
Popper (1976a), § 7, p. 21. Cfr anche (1934, 1959), “Prefazione all’edizione italiana, 1970”, p. XLV,
ed ivi, “Addendum 1968” all’Appendice *X, p. 500.
34
contengano aspetti « che possono essere ricondotti al problema della
demarcazione» (Gillies e Giorello 1995, p. 198). La seconda, implicita nella
tesi, è che questo presunto problema della demarcazione si ponga negli stessi
termini tanto per Wittgenstein quanto per Popper e che pertanto le loro
concezioni della metafisica risultano essere due tentativi - che poi la tesi
assimila - di rispondere al medesimo problema (detto di passaggio, ciò implica
che se così non fosse, come io credo, la tesi, nella misura in cui istituisce una
così stretta relazione tra le due concezioni, perderebbe gran parte del suo
senso).
Ora, a proposito della prima assunzione, si può osservare che è
tutt’altro che semplice enucleare dalle Ricerche quegli aspetti riconducibili al
problema della demarcazione cui alludono Gillies e Giorello, anche perché si
ha la netta sensazione che essi non esistano e che vi possano essere creati da un
approccio interpretativo intenzionato aprioristicamente a trovarveli. Quello che
sembra preoccupare Wittgenstein nelle Ricerche, piuttosto, almeno nelle
sezioni in cui si discutono esempi di giochi linguistici per collaudare la teoria
del ‘significato = uso’, è tracciare una demarcazione non tanto fra scienza e
metafisica, quanto fra pratiche discorsive in cui il linguaggio gira a pieno
regime e (pseudo) pratiche discorsive in cui esso, viceversa, gira a vuoto.
Questi due ambiti, identificabili rispettivamente con quello del senso e con
quello del non-senso, comprendono le più svariate situazioni linguistiche. Il
linguaggio, infatti, può ‘fare vacanza’ non solo nelle tipiche questioni
metafisiche, ma anche nei più comuni comportamenti verbali quotidiani, in
certi approcci teorici (come quello del Tractatus) sulla natura del significato e
della proposizione, oppure, ancora, in certi assunti mitologici sulla natura dei
processi mentali che accompagnerebbero la comprensione e l’uso delle parole,
annidati nelle stesse formule espressive del nostro linguaggio. Tutti questi casi
hanno in comune il fatto che noi siamo in essi prigionieri di certe immagini
pregiudiziali, le quali ci impediscono di vedere chiaramente qual è l’uso
effettivo, la patria, delle parole che usiamo, ed è propriamente tutto ciò che
Wittgenstein indica come “impiego metafisico” del linguaggio:
35
perspicue, o almeno suscettibili di essere rese tali dall’analisi ‘grammaticale’
del linguaggio in cui si esprimono. 44 Si può ricordare, a questo proposito, che
la lista di giochi linguistici in cui Wittgenstein esemplifica l’irriducibile
multiformità delle attività in cui si parla un linguaggio, non contiene soltanto il
comandare, l’agire secondo un comando, il cantare in girotondo, il pregare
etc., ma anche l’elaborare un’ipotesi ed il metterla alla prova, il rappresentare
mediante diagrammi e tabelle i risultati di un esperimento, il risolvere
problemi di aritmetica ed il tradurre.
Tutto questo è di importanza fondamentale per il confronto con Popper.
Da quanto detto emerge subito, infatti, la precarietà della seconda delle
assunzioni rilevate nella tesi Gillies-Giorello: ammesso che sia lecito cercare
nelle Ricerche filosofiche la risposta ad un qualche problema di
demarcazione, certamente esso non coincide con quello affrontato e risolto da
Popper.
Ciò dimostra perlomeno che la tesi si basa su premesse non molto
stabili.
Ma al di là di tali considerazioni, si potrebbe sempre sostenere che
nella misura in cui la perspicuità delle regole di un certo linguaggio è la
condizione necessaria per il funzionamento sensato di quest’ultimo, allora un
accordo ad hoc stipulato da un gruppo di parlanti può consentire di far girare
bene qualsiasi gioco linguistico. Come abbiamo visto nel punto precedente,
però, benché questa situazione possibile sia perfettamente lecita, essa non ha
nulla a che vedere con Popper. In effetti qualcosa di assai simile a una tale
possibilità è prospettata dallo stesso Wittgenstein, come si può vedere
considerando da un lato il fatto che egli includa nella sua lista di giochi
linguistici l’elaborazione ed il controllo di un’ipotesi e dall’altro la sua
peculiare concezione della funzione delle ipotesi esplicative nelle varie
discipline, dalla meccanica alla biologia, dalla psicologia all’antropologia
culturale.
Al fine di giustificare la loro tesi, Gillies e Giorello danno eccessivo
rilievo, a mio giudizio, al senso dell’inclusione del ‘pregare’ negli esempi di
Wittgenstein, mentre io ritengo di gran lunga più significativa la presenza
dell’attività consistente nel formulare e nel mettere alla prova un’ipotesi.
Come abbiamo già visto in precedenza, Wittgenstein è radicalmente
strumentalista per quanto riguarda le teorie della fisica e considera
conseguentemente superstiziosa qualsiasi loro interpretazione realistica già nel
Tractatus (cfr. propp. 6.371 e 6.372). All’epoca delle Ricerche egli usa questa
concezione delle teorie esplicative per giustificare la loro esclusione da tutti gli
44
Peraltro è estremamente significativo che in Della certezza Wittgenstein ammetta la possibilità che
l’immagine del mondo che noi ereditiamo e che costituisce lo sfondo della nostra forma di vita, nel
quale sono depositati a mo’ di regole del gioco i nostri standard di controllo e di verifica, possa essere
descritto da proposizioni appartenenti a una sorta di mitologia: “Die Sätze, die dies Weltbild
beschreiben, könnten zu einer Art Mythologie gehören” (§ 95).
36
altri ambiti di ricerca, sulla base dell’idea che le spiegazioni introducono
l’incertezza costitutiva delle formule ipotetiche nella certezza, conseguibile
attraverso buone ed accurate descrizioni, dei dati che abbiamo già a
disposizione.
Dal momento, quindi, che Wittgenstein considera intrinsecamente
metafisica, per via del suo carattere incerto e inverificabile, ogni asserzione che
si ponga come spiegazione di certi dati esibiti dalle descrizione del materiale
disponibile, risulta evidentemente che la tesi Gillies-Giorello è ovvia, nella
misura in cui afferma che nel Wittgenstein delle Ricerche la metafisica ha un
qualche ‘senso’, e sbagliata, nella misura in cui collega questo fatto con la
posizione di Popper, considerandolo in grado di fornire un supporto
epistemologico alla difesa della metafisica da parte di quest’ultimo. Quando
parla di metafisica, infatti, Popper non si riferisce tanto a singole teorie
esplicative, quanto piuttosto a ‘programmi di ricerca metafisici’ che siano (o
perlomeno siano stati) soprattutto fertili per lo sviluppo della conoscenza nella
direzione della verità oggettiva: esempio lampante e ancora attualissimo in tal
senso può essere considerato il materialismo in quanto concezione generale
della struttura della materia, sia nella versione di teoria della continuità (cui si
devono i tentativi di interpretazione in termini di campo), sia in quella di teoria
della discontinuità atomistica (che è alla base della fisica dei quanti).
CAPITOLO 2
37
conoscitive vere e proprie, cioè nelle discipline scientifiche.45 Il primo
problema, com’è noto, è quello sul quale Wittgenstein si è maggiormente
tormentato negli scritti postumi, pervenendo ad una soluzione che può dirsi per
taluni versi comportamentistica,46 e comunque anti-mentalistica: comprendere
un linguaggio vuol dire possedere la capacità di usarlo in maniera appropriata
in un determinato gioco linguistico.47 Da ciò consegue che un linguaggio ha
una natura essenzialmente sociale (“Nel linguaggio tutto viene reso pubblico”,
dice Wittgenstein in GF, I, § 95c), sicché mentre da un lato la comprensione
del significato di un termine o di una formula linguistica è assimilabile al
modo di manipolare un pezzo degli scacchi nel corso di una partita (e ciò
comporta esercizio e regole da seguire nel contesto di una pratica sociale ben
45
La distinzione tra (almeno) due diversi problemi riflette in realtà il fatto che sussistono differenti
pratiche discorsive relative al comprendere. Le situazioni linguistico-comportamentali in cui parliamo
di comprensione sono infatti le più svariate e includono, insieme a casi intermedi, come l’ascoltare
attivamente una lezione sui generi letterari, casi estremi e pressoché incommensurabili, come la
comprensione dei messaggi che si realizza in una normale conversazione telefonica, da un lato, e,
poniamo, il coglimento da parte di un antropologo culturale delle connessioni tra il mito della
resurrezione di Adone e quello della resurrezione di Cristo, dall’altro. Ed è a questi ultimi, in
particolare, che allude la distinzione proposta.
46
Cfr. ad es. RF, § 281: “«Ma il risultato di quello che tu dici non è che non esiste, ad esempio, dolore
senza comportamento tipico del dolore?» Il risultato è che soltanto dell’uomo vivente, e di ciò che gli
somiglia (che si comporta in modo simile) si può dire che abbia sensazioni”. La posizione di
Wittgenstein è in verità ben più sofisticata: come egli ha osservato, l’iter metodologico che conduce
all’‘iconoclastia’ behaviouristica mostra che quest’ultima è solo il rovescio della medaglia
dell’‘iconolatria’ mentalistica, e quindi, giacché nasce dallo stesso approccio al problema della mente
(il tentativo di dare una risposta in termini di oggetto-designazione alla pseudo-domanda: ‘Che cosa
c’è dietro i comportamenti?’), è anch’essa un mito filosofico (cfr. RF, §§ 307 e 308; cfr. anche L
1930-1932, pp. 71). Su questo punto cfr. Perissinotto (1997a), § 49, pp. 111-112. Sulla posizione di
Wittgenstein, il cui antimentalismo non comportamentistico andrebbe caratterizzato nei termini di un
‘espressionismo’ basato su criteri primari di tipo fisiognomico (in senso lato), cfr. anche Casati (1997),
pp. 212-220, le cui perplessità possono tuttavia essere sciolte alla luce dell’interpretazione degli
Hintikka (che Casati non cita tra le proprie fonti): cfr. Hintikka e Hintikka (1986), cap. X, § 8, p. 366,
§§ 10-12, pp. 370-382 (per l’idea che tra sensazioni e correlati espressivi fisiognomici sussista un
legame logico-semantico primario e incorreggibile, piuttosto che un legame contingente od epistemico
secondario, intendendo “primario” e “secondario” nel senso di RF, I, § 282 e II, sez. XI, pp. 283-284),
e cap. XI, §§ 3-9, pp. 391-411 (per la distinzione e le interrelazioni tra giochi linguistici primari e
secondari). Un’interessante ricostruzione ‘filologica’ della questione, basata sul contesto del § 307
delle Ricerche (“‘Allora sei un cripto-behaviorista. In fondo non dici che all’infuori del
comportamento umano tutto è finzione?’ - Se parlo di una finzione, allora si tratta di una finzione
grammaticale”) così come appare nella fonte manoscritta (MS 124, p. 5 s.), si trova in Rosso (1988),
pp. 54-55: secondo Rosso, i manoscritti non lasciano dubbi sul fatto che Wittgenstein non credesse
nell’esistenza di esperienze private intese come oggetti ontologicamente definiti, le quali
costituirebbero il significato, nel senso del Tractatus, delle espressioni di sensazioni.
47
L’antimentalismo è formulato da Wittgenstein piuttosto lucidamente già in GF, I, § 65c: “Se l’uso
della parola ‘rosso’ dipende dall’immagine che la mia memoria riproduce automaticamente al suono di
questa parola, allora sono in balìa di questa riproduzione proprio come se avessi deciso di determinare
il significato consultando una tabella; con il che mi arrenderei incondizionatamente a quello che ci ho
trovato” (I, § 53d); e ancora: “Quando parliamo del pensiero e della sua espressione, il pensiero non è
una specie di stato d’animo che viene suscitato dalla proposizione, come da una pozione. E l’intesa per
mezzo del linguaggio non è il processo del suscitare in un altro, con un tossico, il medesimo dolore che
provo io”. Come nota Putnam, “da tutto ciò segue che (a) nessun insieme di eventi mentali (immagini
o evenienze e qualità mentali più ‘astratte’) costituisce la comprensione; (b) nessun insieme di eventi
38
collaudata), dall’altro cadono le fantasie sui possibili linguaggi privati ad uso
esclusivo e magari intimistico, oppure quelle sulle regole che possono essere
seguite una sola volta (si vedano ad es. RF, §§ 150,199-206 e 243-272)48.
Per quanto riguarda invece il secondo problema, in questo capitolo
cercherò di mettere in luce un approccio diverso da parte di Wittgenstein alla
‘comprensione’ filosofica di un oggetto d’indagine (linguistico, estetico,
antropologico, etc.).
Al fine di affrontare questo punto, occorre però esaminare dapprima più
da vicino il problema della ‘spiegazione’.
Qual è il ruolo che Wittgenstein assegna alle ‘spiegazioni’ nel proprio
metodo analitico? Qui egli, perlomeno sul piano delle semplici intenzioni
programmatiche, è molto chiaro ed insolitamente esplicito:
39
Questo programma metodologico fondato su una eliminazione radicale
dei modelli esplicativi nelle indagini filosofiche sul linguaggio, è esteso da
Wittgenstein anche alla psicologia e all’antropologia culturale in un passo
importante delle Note a Frazer:
origine gli uomini si siano familiarizzati con le 4 operazioni nel modo solito. Poi cominciarono a far
calcoli con espressioni tra parentesi, e anche con espressioni della forma (a - a). Allora si resero conto
che le moltiplicazioni (per esempio) diventavano ambigue. Questo avrebbe dovuto gettarli in una gran
confusione? Avrebbero dovuto dire: ‘Ora la base dell’aritmetica sembra vacillare’? - E che cosa
richiedono mai quando esigono una prova di non contraddittorietà, perché altrimenti ad ogni passo
correrebbero il rischio di cadere nel pantano? - Ebbene, esigono un ordine. Ma non c’era nessun
ordine, prima? - Ebbene, esigono un ordine che li rassicuri. - Ma sono forse come bambini, che basta
cantargli la ninna nanna? [...] Descrivere, non spiegare. Ecco quello che vogliamo!”.
50
È il caso di ricordare che proprio il tentativo di spiegare le crudeli e insolite leggi che regolavano la
successione dei re-sacerdoti custodi del santuario della Diana Nemorensis, situato nei pressi dell’antica
Aricia, costituisce il motivo conduttore di tutto il monumentale Ramo d’oro: cfr. Frazer (1922),
“Prefazione”, p. 17 e cap. I, p. 22. (Quella citata è la versione ridotta - in volume unico - dei 12
dell’edizione maggiore, usciti tra il 1911 e il 1915. Wittgenstein, che pure possedeva e usava per conto
proprio l’editio minor, cominciò a leggere il Ramo d’oro insieme all’amico Maurice O’ C. Drury
partendo dal primo volume dell’edizione maggiore, preso in prestito dalla Cambridge Union Library
tra il 1930 e il 1931. La cosa però non andò avanti per molto, per via dei continui commenti critici con
cui Wittgenstein interrompeva la lettura. Cfr. l’introduzione di Rhees a NF, pp. 11 e 13, e Monk 1990,
parte III, cap. 14, p. 309). La regola per la successione dei sacerdoti di Diana (versione italica della
feroce Artemide Taurica, di cui parla Euripide in una delle due tragedie dedicate a Ifigenia) è così
illustrata da Frazer: “All’interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i
rami. Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se riusciva
nell’impresa, acquistava il diritto di battersi con il sacerdote e, se lo uccideva, di regnare in sua vece
col titolo di re del bosco (Rex Nemorensis). Stando a quanto dicevano gli antichi, la fronda fatale era
quel Ramo d’Oro che, per ordine della Sibilla, Enea colse prima di affrontare il periglioso viaggio nel
mondo dei morti” (Frazer 1922, cap. I, p. 22. Per l’allusione a Enea, cfr. ad es. Virgilio, Eneide, VI,
136 ss., e Ovidio, Metamorfosi, XIV, 113-118). Vale la pena però leggere anche il seguente passo,
tratto sempre dal primo capitolo, in cui Frazer esplicita il presupposto metodologico dell’intera ricerca:
“se riusciremo a dimostrare che una barbara usanza come quella relativa all’ufficio sacerdotale di
Nemi vigeva anche altrove; se riusciremo a scoprirne le motivazioni; se riusciremo a provare che
queste motivazioni erano largamente, forse universalmente, diffuse nel contesto sociale e che, in
circostanze diverse, davano vita a una serie di istituzioni singolarmente differenti ma analoghe nel loro
insieme; se, infine, riusciremo a dimostrare che proprio quelle motivazioni, e alcune delle conseguenti
istituzioni, erano ancora valide in epoca classica, ne potremo dedurre con relativa certezza che, in età
più remota, furono quelle stesse motivazioni a dare vita alla regola sacerdotale di Nemi. In mancanza
di notizie attendibili e dirette circa la nascita di quel tipo di sacerdozio, la nostra illazione non potrà
mai divenire dimostrazione; rimanendo, però, pur sempre probabile a seconda che essa risponda più o
meno totalmente ai presupposti indicati. Salve restando, quindi, tali condizioni, questo libro si propone
di ricercare una probabile spiegazione del sacerdozio di Nemi” (pp. 21-22). Alla luce di queste
dichiarazioni di metodo (generalmente trascurate dagli estimatori delle Note a Frazer, i quali tendono a
dare per scontata la pertinenza delle critiche di Wittgenstein: cfr. ad es. Bouveresse 1973, cap. V, pp.
40
Poiché, dunque, in discipline quali l’analisi (wittgensteiniana) del
linguaggio, la psicologia, l’antropologia culturale, ed anche l’estetica e la
religione, «la teoria non ha alcun valore» (WCV, p. 107 [= LC, p. 26]), dal
momento che per risolvere i problemi che in esse si pongono «abbiamo
bisogno di certi confronti - di raggruppare certi casi» (LC, p. 98), Wittgenstein
deve affrontare la questione del modo in cui si realizza in tali discipline la
‘comprensione’ da parte del ricercatore. A questo punto, si può rilevare subito
un fatto curioso. Con la sua netta separazione metodologica e gnoseologica tra
le ‘scienze della natura’ (dominate dal paradigma meccanicistico che realizza
un certo tipo di comprensione per mezzo della spiegazione di un dato
fenomeno alla luce di un modello collaudato e consacrato dai successi pratici),
e le ‘scienze umane’ (le quali, come vedremo, procedono per confronti e
raggruppamenti sinottici), Wittgenstein finisce col riproporre una concezione
assai simile a quella diltheyana (poi ripresa, in ambito ermeneutico, da
Heidegger e soprattutto da Gadamer), laddove sembra accettare il tipico
pregiudizio storicistico consistente, come nota Popper, nel ritenere che «il
positivismo o scientismo sia la sola filosofia appropriata alle scienze
naturali»51. In un’ottica di questo tipo, posto che il paradigma di ogni scienza
184-201 e 1975, passim; Valent 1989, cap. II, pp. 157-158), in cui si ha l’onesta esibizione di un
approccio insieme congetturalista e comparativista, certe osservazioni particolarmente sprezzanti di
Wittgenstein nei confronti sia di Frazer che della cultura razionalista ed evoluzionista dell’Inghilterra
della prima metà del secolo, sembrano davvero eccessive (cfr. ad. es. NF, pp. 17-19, 23, 28), al punto
che forse ha ragione Di Nola quando rileva che esse, più che smascherare i limiti epistemologici del
Ramo d’oro, tradiscono soprattutto un “pesante tono anglofobo” (Di Nola 1992, p. 12).
51
Popper (1972), cap. 4, § 11, p. 241. Vale la pena rilevare qui che il paragrafo del quarto capitolo di
Conoscenza oggettiva da cui è tratto il passo citato ha come titolo “La comprensione (ermeneutica)
nelle discipline umanistiche”, e costituisce, insieme al 5 e al 12, una delle rare occasioni in cui Popper
polemizza (seppur indirettamente, dato che i suoi bersagli espliciti sono Dilthey e Collingwood) con
l’ermeneutica heideggeriano-gadameriana (nella prima nota del paragrafo 12 egli alluderà al “famoso
problema che Dilthey e altri chiamavano ‘circolo ermeneutico’: il problema che il tutto (un testo, un
libro, un’opera filosofica, un periodo) può essere compreso solo se comprendiamo le parti costitutive,
mentre queste parti a loro volta possono essere comprese solo se comprendiamo il tutto”, ibid., p. 253).
Secondo Popper, “elaborare la differenza fra scienze e discipline umanistiche è stato a lungo una moda
ed è divenuto noioso. Il metodo di risoluzione dei problemi, il metodo delle congetture e confutazioni
è praticato da entrambe. È praticato nel restauro di un testo danneggiato, come nella costruzione di una
teoria della radioattività” (ibid., p. 242). Ora, il celebre passo di Verità e metodo, in cui Gadamer
osserva che “chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più
immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E
anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate.
La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto
preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore
penetrazione del testo” (Gadamer 1960, parte II, cap. II, § 1, sez. a: “Il circolo ermeneutico e il
problema dei pregiudizi”, punto α: “La scoperta heideggeriana della precomprensione”, p. 314), ha
suggerito a qualcuno l’ipotesi di un possibile accostamento tra Gadamer e il Popper della theory-
ladenness of perception e del metodo per trial and error (cfr. ad es. Brianese [a cura di] 1988, p. 81,
nota 3). Ma questo è un errore, perché, anche se Gadamer assimila il circolo ermeneutico a un processo
di apprendimento per congetture e confutazioni, a tenerlo lontanissimo da Popper è il fatto che egli
non crede che un tale processo di comprensione avvenga anche nella scienza, di cui ha invece
41
naturale è la meccanica newtoniana, al punto che «se la gente immagina una
psicologia, loro ideale è una meccanica dell’anima»(LC, p. 97), e che i modelli
meccanici sono dei meri strumenti per unificare in un qualche ordine i dati a
disposizione e per effettuare predizioni sempre più accurate, risulta evidente
che quella fornita dalle scienze naturali è in realtà una pseudo-comprensione e
che le ‘leggi’ e le ‘spiegazioni’ di cui queste si servono non trasmettono alcuna
conoscenza oggettiva del mondo.
La capacità conoscitiva di cui le scienze naturali sono private
radicalmente è così trasferita da Wittgenstein alle scienze umane, le quali
realizzano, o dovrebbero realizzare, la comprensione dei fatti di cui si
occupano in maniera autentica e peculiare. A tal proposito egli si serve del
concetto di “rappresentazione perspicua” (übersichtliche Darstellung), cui
attribuisce un ruolo decisivo nel processo di comprensione dei fenomeni
linguistici, estetici, religiosi o culturali in senso lato. L’idea metodologica di
fondo che sta alla base di questa nozione è adombrata nell’ultima frase della
precedente citazione dei §§ 108 e 109 di RF e viene resa più esplicita nel §
126:
un’immagine negativa mutuata dalle degenerazioni scientistiche di certo positivismo. In altre parole,
mentre Popper assimila ‘scienze della natura’ e ‘scienze dello spirito’ sotto l’aspetto metodologico,
considerando entrambe delle avventure ermeneutiche sempre aperte, Gadamer, separando le “verità”
extrametodiche (come quelle dell’esperienza artistica) dall’ambito delle scienze naturali e del loro
“metodo” (inteso in senso strettamente positivistico), crea storicisticamente, heideggerianamente e
wittgensteinianamente un margine incolmabile tra ermeneutica e filosofia da un lato ed epistemologia
e scienza dall’altro. E infatti, che la questione cruciale risieda non tanto nell’interpretazione delle
‘scienze umane’ (che accidentalmente Popper e Gadamer condividono, per cui ogni accostamento da
questo punto di vista risulta fuorviante), quanto piuttosto in quella delle scienze della natura, è Popper
stesso a dircelo in un fugace, ancorché illuminante confronto con Gadamer contenuto nella “Lettera” a
Klaus Grossner, che ora costituisce il cap. VI di Popper (1984): “In verità sono tanto lontano dal
positivismo quanto lo è (ad esempio) Gadamer. Ho scoperto - e su questo si fonda la mia critica al
positivismo - che la scienza della natura non procede con criteri positivisti, ma impiega essenzialmente
un metodo che lavora con ‘pregiudizi’ [...] Dunque, ciò che mi distingue da Gadamer è una migliore
comprensione del ‘metodo’ delle scienze naturali, una teoria logica della verità e la posizione critica.
Ma la mia teoria è altrettanto antipositivista della sua, e ho dimostrato che l’interpretazione testuale
(ermeneutica) lavora con gli stessi metodi delle scienze naturali” (p. 99: si noti l’accenno finale ai
luoghi del quarto capitolo di Conoscenza oggettiva cui sopra abbiamo fatto riferimento). D’altra parte,
è significativo che in una nota della “Prefazione alla seconda edizione” (1965) di Verità e metodo
Gadamer scriva che “il concetto di Sprachspiele elaborato da Wittgenstein, di cui nel frattempo sono
venuto a conoscenza, mi pare del tutto legittimo” (cit., p. 15), adombrando così un accostamento tra il
panlinguismo relativistico del Wittgenstein antropologo e la propria ontologia ermeneutica sulla base
del comune approccio fenomenologico all’analisi dei giochi linguistici (“L’essere che può venir
compreso è linguaggio” si legge in un altro luogo celebre di Verità e metodo, parte III, § 3: “IL
LINGUAGGIO COME ORIZZONTE DI UN’ONTOLOGIA ERMENEUTICA ”, sez. c, p. 542; e più avanti, nella penultima
pagina dell’opera, Gadamer, quasi contraddicendo la dichiarazione sopra riportata sul periodo del suo
incontro con il concetto di Sprachspiele, scrive addirittura: “Giochi linguistici sono quelli con cui
impariamo [...] a capire il mondo”, p. 558). Sul rapporto tra l’ultimo Wittgenstein e Gadamer, si
vedano anche l’“Introduzione” e la “Postilla 1983” di Gianni Vattimo alla tr. it. di Verità e metodo, in
part. pp. III, XXVIII-XXIX, XXXIII, XXXIV, e Perissinotto (1997b), § 3, pp. 322-324 e § 6, pp. 331-
333.
42
La filosofia si limita ... a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce
nulla. - Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare. Ciò che è
nascosto non ci interessa. “Filosofia” potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è
possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione.
Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non
vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. - La nostra grammatica manca
di perspicuità. - La rappresentazione perspicua rende possibile la
comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi ‘vediamo connessioni’.
[corsivo mio] (Die übersichtliche Darstellung vermittelt das Verständnis,
52
Cfr. anche il seguente passo di WCV, pp. 105-106 [17 dicembre 1930](= LC, p. 25): “La sociologia
deve descrivere tanto le nostre azioni e valutazioni quanto quelle dei negri. Essa può riferire solo ciò
che accade. Ma nella descrizione del sociologo non deve mai comparire la proposizione: ‘Questo
significa un progresso’ ”. La futilità di un approccio di questo tipo, rispetto ad esempio a una
valutazione delle culture (ovvero delle teorie che esse incorporano) dal punto di vista dell’adattamento
biologico, emerge chiaramente dall’esempio ‘antropologico-culturale’ fornito di passaggio da Popper
in (1963a), cap. 1, § VII, pp. 93-94: “L’atteggiamento critico può considerarsi il consapevole
tentativo di far sì che siano le nostre teorie e congetture a subire, al posto nostro, le conseguenze della
lotta per la sopravvivenza del più adatto. Esso ci dà la possibilità di sopravvivere all’eliminazione di
un’ipotesi inadeguata, allorché un atteggiamento più dogmatico eliminerebbe quest’ultima eliminando
noi stessi. Esiste una commovente testimonianza di una comunità indiana che è scomparsa perché
credeva nel carattere sacro della vita, inclusa quella delle tigri. Otteniamo così, nei limiti delle nostre
possibilità, la teoria più adatta, attraverso l’eliminazione di quelle meno adatte” (corsivo mio); e “con
‘adatte’ - aggiunge Popper in nota - non intendo riferirmi soltanto all’utilità, bensì anche alla verità”.
43
welches eben darin besteht, daß wir die ›Zusammenhänge sehen‹) Di qui
l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi (Zwischengliedern).
Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato
fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo
le cose. (È, questa, una ‘visione del mondo?’).
53
J. Bouveresse (1975), in NF, p. 69. Per ‘la spiegazione estetica’, cfr. ibid., p. 70 e Moore (1959), pp.
345-348, oltre naturalmente alle “Lezioni sull’estetica”, in LC, pp. 53-109.
44
impensabili prima della loro comparsa, ma come semplici mezzi in vista di un
riordinamento di un corpus di fatti noti e sempre disponibili mirante a produrre
nuove connessioni analogiche tra gli stessi fatti (è questo, io credo, il senso del
sopracitato § 126 delle Ricerche). Ecco perché, per esempio, «la spiegazione
storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere i
dati - della loro sinossi. È ugualmente possibile vedere i dati nella loro
relazione reciproca e riassumerli in una immagine generale che non abbia la
forma di un’ipotesi sullo sviluppo cronologico» (NF, p. 28). Se così stanno le
cose, non c’è nulla che assomigli al controllo oggettivo di un modello
esplicativo, quali ad esempio l’ipotesi evolutiva e la Traumdeutung freudiana.
Il senso dei fenomeni che ci stanno davanti non è qualcosa da scoprire
mediante spiegazioni causali o genetiche, ma è ciò che emerge
immediatamente quando descriviamo perspicuamente i fatti ricorrendo magari
a paragoni azzeccati che possono risultare illuminanti. 54 Un esempio di questo
procedimento insieme descrittivo e analogico è stato fornito dallo stesso
Wittgenstein in un passo divenuto celebre:
Non dev’essere stata una ragione da poco, anzi, non può essere stata neppure
una ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato una quercia, ma
semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una
comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non per scelta, ma per essere
cresciute insieme, come il cane e la pulce. (Se le pulci sviluppassero un rito,
riguarderebbe il cane).55
54
È appena il caso di ricordare che Wittgenstein attribuiva esplicitamente una funzione rivelatrice alle
similitudini, in consonanza con la propria metodologia della rappresentazione perspicua e delle
connessioni formali. Cfr. ad es. PD, pp. 18 (1929) e 82 (1941): “Una buona similitudine ravviva
l’intelletto”; “È incredibile come possa essere utile una nuova casella messa al posto giusto nel nostro
schedario”. Tuttavia l’analogia è un’arma a doppio taglio, perché se una buona analogia illumina la
mente e consente la chiara e rasserenante comprensione delle cose, una cattiva può farci confondere e
precipitare nell’inquietante labirinto delle oscurità grammaticali, che di solito scambiamo per problemi
filosofici della massima profondità (cfr. BT, § 87, pp. 408-410, ora in F, pp. 9-15).
55
NF, p. 35. Gargani ha intitolato proprio “Le pulci nel pelo dei cani” il § 11 della sua “Introduzione”
a LBM (cfr. p. XL).
45
accettiamo come spiegazione sufficiente. Naturalmente questo senso di
soddisfazione (che va dalla persuasione intellettuale ed emotiva che può
suscitare una mitologia come la psicoanalisi, a quella religiosa che può
suscitare un missionario che converte degli indigeni56) può estendersi a una
collettività che condivide una particolare forma di vita; in tal caso esso si
oggettivizza nella fiducia intersoggettiva accordata ad un particolare Weltbild
(che potrebbe anche essere ancora una volta una mitologia!), la cui struttura
ontologica fondamentale si trova espressa ed istituita in un gruppo di enunciati
che, come visto, vengono bloccati per un certo tempo e usati come asserti di
controllo per le asserzioni nuove che possono emergere nell’ambito del gioco
linguistico praticato, funzionando così come un argine che ‘controlla’ il corso
del fiume ed impedisce che le acque si disperdano in mille rivoli caotici:
Con la verità del mio enunciato si controlla (Man prüft) la mia comprensione
(Verständnis) di quest’enunciato.
Che cosa debba essere considerato come controllo sufficiente (ausreichende
Prüfung) di un enunciato - appartiene alla logica. Appartiene alla descrizione
(Beschreibung) del gioco linguistico.
La verità di certe proposizioni empiriche appartiene al nostro sistema di
riferimento.
Una proposizione assertoria (Behauptungssatz), che fosse in grado di
funzionare come ipotesi, non potrebbe essere usata anche come principio
(Grundsatz) della ricerca e dell’azione? Cioè, non potrebbe essere
semplicemente sottratta al dubbio, anche se ciò non avviene in conformità con
una regola esplicita? Semplicemente, la si accetta come un’ovvietà
(Selbstverständlichkeit / truism), non la si mette mai in questione e forse
neppure la si enuncia.
Può darsi, per esempio, che tutta quanta la nostra ricerca sia orientata in
modo che certe proposizioni, ammesso che vengano mai formulate, stiano al
riparo da ogni dubbio. Stanno fuori della strada lungo la quale procede la
ricerca. 57
56
“Freud fa riferimento a vari miti antichi e pretende che le sue ricerche abbiano spiegato ora come sia
potuto accadere che qualcuno abbia pensato o proposto un mito di quella sorta. In realtà, Freud ha fatto
qualcosa di diverso; non ha dato una spiegazione scientifica dell’antico mito: ha proposto un nuovo
mito. Per esempio, l’attrattiva che esercita la suggestione di considerare ogni angoscia come una
ripetizione dell’angoscia del trauma della nascita è solo l’attrattiva di una mitologia. ‘È tutto il
risultato di qualcosa accaduto molto tempo fa’. Quasi come far riferimento a un totem”
(“Conversazioni su Freud”, in LC, p. 139). E ancora: “Dove s’incontrano effettivamente due principî
che non si possono riconciliare l’uno con l’altro, là ciascuno dichiara che l’altro è folle ed eretico. [...]
Al termine delle ragioni (Gründe) sta la persuasione (Überredung). (Pensa a quello che accade quando
i missionari convertono gl’indigeni)” (DC, §§ 611-612).
57
DC , §§ 80, 82, 83, 87, 88. Cfr. anche §§ 94-99. Alla luce del § 87, si noti come in questo contesto
antropologico confluiscano e si riformulino in chiave peculiarmente irrazionalistica il
convenzionalismo e lo strumentalismo epistemologici tipici del Wittgenstein dei primi anni ’30. Cfr.
ad es. OF, § 231 (= GF, I, Appendice, § 7, pp. 185-186): “Se ho deciso che da una certa parte di una
mia ipotesi non si deve derogare, qualunque sia l’esperienza da descrivere, ho fissato un sistema di
rappresentazione e quella parte dell’ipotesi è divenuta un postulato. Un postulato dev’essere tale che
nessuna esperienza pensabile lo possa smentire, per quanto straordinariamente scomodo sia attenersi
ad esso”. Sullo stretto legame tra irrazionalismo epistemologico e giustificazionismo deluso, cfr.
Popper ([1956], 1983), parte I, cap. I, § 2, sez. I, p. 50, sezz. IV-V, pp. 56-57.
46
Finché un gioco linguistico non cambia, gli asserti-guida non possono
essere a loro volta controllati da altri asserti. A capo della catena dei controlli
possibili, c’è solo un modo di agire infondato in cui tali asserti apparentemente
empirici, messi al di fuori dell’ambito di ciò che l’esperienza potrebbe
confutare, hanno una funzione analoga a quella delle proposizioni
matematiche, ed è solo questa quella loro peculiare certezza che ingenera
l’illusione - in cui è caduto Moore nei suoi A Defence of Common Sense (1925)
e Proof of an External World (1939), da cui, com’è noto, Wittgenstein prende
le mosse in molte delle osservazioni più tarde, e in particolare in quelle che
costituiscono DC - di essere in possesso di certezze soggettive fondate
empiricamente, vale a dire di un sapere che si avverte tra sé e sé come provato
al di là di ogni ragionevole dubbio scettico. «Se la proposizione 12 x 12 = 144
è sottratta al dubbio», si legge in DC, § 653, «allora devono essere sottratte al
dubbio anche certe proposizioni non-matematiche». Come Wittgenstein
precisava a Norman Malcolm nell’estate del 1949 a Ithaca, «non tutte le
proposizioni esperienziali hanno lo stesso status logico. Per alcune di esse,
delle quali diciamo di sapere che sono vere, possiamo immaginare circostanze
in base alle quali dovremmo dire che si sono rivelate false. Ma per altre
proposizioni, non esistono circostanze in cui dovremmo dire che ‘sono risultate
false’. Questa è una osservazione logica e non ha nulla a che vedere con quanto
dirò tra dieci minuti. Le proposizioni di Moore - ‘So che sono un essere
umano’, ‘So che la terra esiste da molti anni’, ecc. - hanno la caratteristica che
è impossibile pensare a circostanze in cui dovremmo ammettere di avere prove
contro di esse. [...] Certe proposizioni appartengono alla mia ‘cornice di
riferimento’. Se dovessi rinunciare ad esse, non sarei in grado di giudicare
nulla. Prendi l’esempio della terra che esisteva da molti anni prima della mia
nascita. Quale prova potrebbe esservi contro di ciò? Un documento?» (in
Malcolm 1958, pp. 103-105 ). L’esistenza di queste proposizioni-cornice
(come ad esempio quelle sull’incompatibilità logica dei colori, nel senso
specificato già nella proposizione 6.3751 del Tractatus), che pur avendo un
contenuto apparentemente empirico fungono in realtà da norme grammaticali,
è ribadita in OC, III, §§ 19 e 348:
E non devo ammettere che certe proposizioni siano spesso usate ai limiti tra
logica ed empiria, cosicché il loro senso venga a trovarsi ora al di qua e ora al
di là di questo confine, ed esse ora siano l’espressione di una norma, ora
possano venir trattate come espressione dell’esperienza?
Infatti ciò che distingue la proposizione logica dalla proposizione empirica
non è per nulla il ‘pensiero’ (ossia un fenomeno psichico collaterale), ma un
impiego (ossia, ciò che la circonda).
47
che siano false, devo necessariamente non fidarmi più di nessuno dei miei
giudizi.
58
Per la nozione di ‘commutazione di Gestalt’ (Gestaltwechsel / Gestaltswitch), e in particolare per le
sue implicazioni epistemologiche, cfr. von Hayek (1952), Hanson (1958) e soprattutto Kuhn (1962,
1970), cap. IX, pp. 111-112, cap. X, pp. 139-165 e cap. XII, p. 182. Nel primo luogo cui abbiamo
rimandato, Kuhn fa una precisazione assai significativa (per quanto riguarda in particolare il ruolo
dello scienziato) a proposito del parallelismo, introdotto da Hanson, tra la logica della rivoluzione
scientifica e il fenomeno psicologico della commutazione di Gestalt: “Questo parallelo può essere
fuorviante. Gli scienziati non vedono qualcosa come qualcos’altro; al contrario, semplicemente lo
vedono. [...] Inoltre, lo scienziato è privo della libertà, che il soggetto della Gestalt possiede, di
muoversi avanti e indietro tra diversi modi di vedere. Nondimeno, la libertà di movimento della
Gestalt, particolarmente perché è oggi così familiare, rappresenta un utile prototipo elementare per
indicare quello che succede quando un paradigma muta su larga scala” (p. 112). Per un approccio
differente ai fenomeni di commutazioni di Gestalt, che sottolinea il ruolo attivo della mente grazie alla
sua interazione col Mondo 3 (da cui segue a fortiori il ruolo assolutamente attivo dello scienziato nel
passaggio da una teoria a un’altra, o addirittura da un programma di ricerca a un altro), cfr. Popper e
Eccles (1977), in part. vol. I, cap. P3, § 18, pp. 85-87; § 24, p. 113; § 27, p. 124. Una panoramica
abbastanza ampia sulla theory-ladenness of perception si può trovare in Gillies e Giorello (1995), cap.
7, § 3, pp. 170-181 e Giorello et al. (1994), cap. I, § 4, pp. 46-53.
48
Noi sappiamo che la Terra è rotonda. Noi ci siamo definitivamente convinti
che è rotonda. Rimarremo di quest’opinione, a meno che non cambi tutto
quanto il nostro modo di vedere la natura (Naturanschauung). «Come fai a
saperlo?» - Lo credo.
Esperimenti successivi non possono smentire (lügenstrafen) quelli precedenti.
Al massimo possono cambiare tutto quanto il nostro modo di vedere
(Betrachtung).
Analogamente con la proposizione : « L’acqua bolle a 100° centigradi».
Così ci convinciamo, questo si chiama « esserne convinti a ragione ».
Dunque, in questo senso non si ha una prova (Beweis) della proposizione?
Ma il fatto che la stessa cosa sia accaduta una seconda volta, non è una prova;
noi però diciamo che ci dà il diritto di assumerlo.
Questo chiamiamo «fondazione empirica (Erfahrungsmäßige Begründung)»
delle nostre assunzioni (DC, §§ 63, 65, 170, 291-296).
II
49
Innanzi tutto occorre analizzare più a fondo alcuni aspetti
epistemologici della la concezione di Wittgenstein. Sulla base di quanto
sembra emergere dai passi riportati sopra, il ‘processo di comprensione’
secondo Wittgenstein si snoderebbe nei momenti seguenti:
Proviamo ora a leggere questi passaggi alla luce dei punti nei quali
Popper, in Conoscenza oggettiva, ha raggruppato le “cose sbagliate” di quella
che lui ha chiamato ‘teoria della mente come recipiente’ (bucket theory of
mind), soffermandoci in particolare sul terzo punto:
50
pregiudizio: devo purificare la mente da fonti di errore (Popper 1972, cap. 2, §
12, pp. 90-91).59
Come si vede, non è difficile rendersi conto che nel caso di Wittgenstein ci
troviamo di fronte a un curioso miscuglio della teoria della conoscenza del
senso comune (nella versione baconiana e cartesiana) con reminiscenze della
teoria platonica della conoscenza delle idee (si pensi alla ‘visione’ delle
connessioni dialettiche delle idee al termine di un processo di purificazione del
nostro oculus mentis dai residui empirici60). Possiamo dire, infatti, che per
Wittgenstein la comprensione è lo stato mentale, diciamo così, omeostatico,
che si raggiunge al termine di un percorso euristico culminante nel vedere
globalmente l’ordine delle reciproche connessioni di una costellazione di
oggetti quotidiani che ci sono dati una volta per tutte e che ci stanno sempre
sotto gli occhi. Di conseguenza, ciò che possiamo chiamare la non-
comprensione (o la confusione) consiste nel fatto che noi non riusciamo a
vedere tali connessioni chiaramente a causa dell’incantamento della nostra
mente, provocato dal cattivo modo di usare il linguaggio che abbiamo ereditato
dai filosofi. Come si vede, il procedimento è del tutto analogo a quello
platonico, solo che è seguito in un certo senso al contrario, cioè dall’alto verso
il basso (o dal ‘mondo vero’ delle essenze incantate al ‘mondo apparente’
veramente reale, come direbbe Nietzsche61): ciò di cui dobbiamo purificarci
non sono i disiecta membra dei dati sensibili, ma certi pregiudizi essenzialistici
che ci spingono alla ricerca di un Super Ordine (platonico, appunto) tra Super
Concetti. Questa rotazione di 180 gradi, tuttavia, lascia intatti alcuni pregiudizi
della concezione intuizionistica e mistica della conoscenza (propria di Platone)
che sono stati ereditati poi da quei sostenitori della teoria della conoscenza del
senso comune impegnati in un compito fondazionalistico tanto sul versante del
razionalismo (Cartesio e Spinoza) quanto su quello dell’empirismo (Locke,
Berkeley, Hume, Russell e Moore).62 Il più importante di tali pregiudizi è
quello per cui la contemplazione passiva di dati immobili e immutabili (siano
59
Per la bucket theory of mind, cui Popper contrapponeva già dagli anni ’40 una searchlight theory of
science (“teoria della scienza come faro”), cfr. anche ibid., pp. 88-90; ivi, Appendice, §§ I-IV, pp. 445-
453; (1963a), cap. 4, p. 220; ([1956], 1983), parte I, cap. I, § 9, p. 121 e ss.; ([1969], 1994b), cap. I,
pp. 26-28. Anche Bouveresse chiama in causa la bucket theory of mind, ma per dire che alla luce delle
analisi wittgensteiniane delle figure ambigue come la testa anatra-coniglio “la ‘bucket theory of mind’,
così chiamata da Popper, è una concezione del tutto inaccettabile” (Bouveresse 1973, cap. IV, p. 173).
Ora, io condivido in pieno questo punto di vista per quanto riguarda sia il Wittgenstein della seconda
parte delle Ricerche sia quello antimentalista della teoria del ‘significato = uso’; tuttavia, come ho
anticipato in precedenza, a me pare che sia possibile individuare un aspetto della teoria della
‘comprensione’, quello cioè relativo all’attività conoscitiva nelle scienze umane (e in particolare
nell’analisi filosofica del linguaggio), in cui Wittgenstein sembra ricadere in una posizione
contemplativa ed elementistica della conoscenza, e cioè in una versione platonico-berkeleyana della
teoria della mente come recipiente.
60
A tal proposito è interessante che in Repubblica, VII, 537c6, Platone istituisca l’equazione
συνοπτικòς = διαλεκτικóς. Ma cfr. anche Fedro, 265d-266d e Sofista, 253c-255e.
61
Cfr. Nietzsche (1889), cap. IV, pp. 75-76.
62
Cfr. Popper (1972), cap. 2, § 3, p. 62; § 22, pp. 108-112; § 34, pp. 138-140.
51
essi di volta in volta assiomi, idee semplici o esperienze sensibili), benché
elementari e terra-terra nel senso del § 97 delle Ricerche, sarebbe in grado di
ingenerare in noi soddisfazione e comprensione. Il concetto di übersichtliche
Darstellung, in effetti, costituisce una specie di versione platonico-berkeleyana
di quella che gli Stoici antichi chiamavano ϕαντασια καταληπτη (o visum
comprehendibile, come traduceva Cicerone63), la quale ha perso lo status di
criterio della verità ed è rimasta semplice condizione della possibilità della
comprensione. Esso condivide inoltre la fiducia baconiana nella veracitas
Naturae e quella cartesiana nella chiarezza e distinzione del simplex come
sigillum veri, com’è testimoniato indirettamente da una parte dalla prop.
5.4541 del Tractatus, dove viene asserito che le soluzioni dei problemi logici,
essendo chiamate a costituire lo standard della semplicità, devono disporsi
simmetricamente in un quadro (Gebilde) conchiuso e regolare, e dall’altra
dalla seguente sorprendente autoesortazione formulata nel 1941: «Non lasciarti
guidare dall’esempio altrui, bensì dalla natura!» (PD, p. 84).
Dal punto di vista dell’epistemologia di Popper, c’è un’altra
componente della concezione wittgensteiniana della comprensione che risulta
radicata nella teoria della conoscenza del senso comune. Mi riferisco all’idea,
cui ho accennato brevemente alla fine del capitolo precedente e che si trova
espressa nel passo delle Note a Frazer citato all’inizio di questo capitolo,
secondo la quale «la spiegazione è troppo incerta rispetto all’impressione che
ci fa l’evento descritto». La descrizione di un evento, stando a tale idea,
produce da sé un’impressione di certezza che viene meno con il subentrare di
un’ipotesi esplicativa; di conseguenza, quest’ultima è superflua, se non
addirittura dannosa, perché la soddisfazione che cerchiamo si trova già in ciò
che sappiamo, o giungiamo a sapere, per mezzo della descrizione.
Ora, tutto ciò, come ha mostrato Popper (e, paradossalmente, come ha
mostrato lo stesso Wittgenstein per altri aspetti che più avanti vedremo), non
esiste. Noi non sappiamo alcunché con piena soddisfazione, né tanto meno
qualcosa che possa essere esibito in descrizioni perspicue, le quali dal canto
loro devono presupporre senza discussione le assunzioni teoriche incorporate
nel linguaggio descrittivo. Se una qualche ‘soddisfazione’ (razionale e
oggettiva) c’è, allora essa può trovarsi solo nelle teorie corroborate, e cioè
nelle ipotesi esplicative che finora hanno avuto successo nei controlli
intersoggettivi. Questo fatto è addirittura spiegabile in termini logici. Il grado
di ‘certezza’ o di ‘corroborazione’ di un asserto particolare p (sia esso una
descrizione oppure un’ipotesi con grado di universalità basso a piacere) non
63
Cfr. Cicerone, Academici, I, 40-41: “Quam ille [Zenone stoico] ϕαντασιαν, nos visum appellemus
licet. [...] Visis non omnibus adiungebat fidem sed is solum quae propriam quandam haberent
declarationem earum rerum quae viderentur; id autem visum cum ipsum per se cerneretur,
comprehendibile; [...] quoniam enim alio modo καταληπτον diceres?”. Si noti che la nozione di
ϕαντασια καταληπτη indica la rappresentazione in quanto oggetto, mentre quella (ben più nota) di
ϕαντασια καταληπτικη indica l’atto rappresentativo capace di comprendere del soggetto. Cfr. anche
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VII, 248-257 e VIII, 396; Diogene Laerzio, Vite, VII, 50-54.
52
può mai superare quello della teoria T cui appartiene, ovvero da cui è
logicamente deducibile. Se T, a un certo tempo t, possiede un alto grado di
corroborazione, allora esso si estende a tutte le proposizioni della sua classe-
conseguenza. Ciascuna di queste proposizioni, però, può possedere un tale
grado di corroborazione solo nella misura in cui è considerata parte del
contenuto logico della teoria. Considerata da sola, p può raggiungere in genere
un grado di corroborazione assai inferiore - a causa del suo basso contenuto
informativo, e quindi della sua bassa controllabilità - rispetto a T. Ad esempio,
«con la corroborazione della teoria di Newton e la descrizione della terra come
pianeta rotante, il grado di corroborazione della proposizione p “Il sole sorge a
Roma ogni 24 ore” è molto aumentato, perché, per parte sua, p non è molto
ben controllabile; ma la teoria di Newton e la teoria della rotazione della terra
sono ben controllabili. E se esse sono vere, anche p sarà vera».64
Per il semplice fatto, dunque, di fare un uso automatico e acritico di
teorie non esplicitate né sottoposte a controllo, il linguaggio descrittivo è
molto più incerto di quello delle teorie.
Detto questo, si può rilevare come aspetto davvero sorprendente del
pensiero dell’ultimo Wittgenstein il fatto che in esso coesistano da un lato le
fondamentali analisi sul carattere interpretativo della percezione (che stanno
alla base dell’idea della theory-ladenness of perception, variamente ripresa da
Hanson, Kuhn e Feyerabend) e dall’altro l’osservazionismo più ingenuo,
spinto, come visto, fino al paradossale rifiuto delle spiegazioni teoriche
congetturali. A tal proposito il § 66 delle Ricerche filosofiche è emblematico.
In esso Wittgenstein invita perentoriamente il proprio “lettore modello”65 a fare
esattamente ciò che l’‘ascoltatore modello’ di Popper non può fare
nell’esperimento da lui immaginato nel corso della sua Herbert Spencer
Lecture (tenuta ad Oxford il 30 ottobre 1961): «Il fatto che l’osservazione non
può precedere tutti i problemi può essere illustrato da un semplice esperimento
che desidero realizzare, con il vostro permesso, con voi stessi come soggetti
sperimentali. Il mio esperimento consiste nel chiedervi di osservare, qui ed
ora. Spero che voi tutti cooperiate e osserviate! Tuttavia, temo che almeno
alcuni di voi, invece di osservare, sentiranno fortemente l’impulso di chiedere:
“Cosa vuole che osservi?” Se questa è la vostra risposta, allora il mio
esperimento ha avuto successo. Infatti, ciò che cerco di illustrare è che, allo
64
Popper (1972), cap. 1, § 8, pp. 40-41. Cfr. anche ivi, cap. 2, § 2, p. 59, dove è implicito che le
‘descrizioni illuminate’, cui conducono osservazioni magari accurate, non bastano, perché quello che
occorre sono teorie che controllino continuamente i propri presupposti basati sul senso comune; e cap.
5, pp. 257-260, dove è precisato il rapporto tra spiegazione e ‘soddisfazione’ rispetto alla
controllabilità. Per le fondamentali interconnessioni tra contenuto informativo, controllabilità e
corroborabilità, si veda in particolare Popper (1934, 1959), § 34, p. 117; § 36, p. 121; § 43, pp. 142-
145; §§ 82-83, pp. 295-298 e Appendice *IX, p. 444.
65
Nel senso di Eco (1979), cap. 3, § 5, p. 61 e (1994), cap. 1, pp. 30-31, dove il passo in questione è
esaminato alla luce dei concetti di “Lettore Modello” e di “Autore Modello” utilizzati dalla
semiologia delle strategie testuali.
53
scopo di osservare, dobbiamo avere in mente un problema definito che
potremmo essere in grado di decidere mediante osservazione [...] Né
“osserva!” (senza l’indicazione di che cosa) né “osserva questo ragno!” è un
imperativo chiaro. Ma “osserva se questo ragno si arrampica in su o in giù,
come mi aspetto che faccia!” sarebbe abbastanza chiaro».66 Da parte sua
Wittgenstein presume che sia possibile semplicemente ‘vedere’ il linguaggio
come una costellazione di giochi linguistici disparati e imparentati tra loro in
vari modi da una rete di somiglianze di famiglia, e per ‘mostrare’ ciò egli si
serve del noto esempio dei giochi veri e propri:
54
analogia, la nuova prospettiva filosofica raggiunta da Wittgenstein, che
rappresenta il rovesciamento radicale (simmetrico rispetto a una forma di
essenzialismo regolativo) dell’essenzialismo platonico del Tractatus,67 dove
egli aveva pensato di poter fornire la allgemeine Form des Satzes (la ricerca
della quale, come egli dichiara ora nello stesso § 65, gli aveva dato dei grossi
grattacapi). Il problema di trovare conferme alla nuova concezione, inoltre,
esercita una ‘pressione selettiva’ sui casi che è possibile addurre come esempi
a favore; da questo punto di vista l’esempio dei giochi risulta essere ad hoc:
esso dimostra che Wittgenstein non ha vigilato criticamente sul proprio punto
di vista - nel senso che lo ha considerato (a causa del suo pregiudizio anti-
teoricistico) non una interpretazione congetturale, magari fertile e in grado di
illuminare aspetti importanti della prassi comunicativa, ma una mera
descrizione del linguaggio allo stato naturale - ed è così rimasto in qualche
modo impigliato nel metodo verificazionistico.
Un approccio critico al suo nuovo antiessenzialismo avrebbe potuto
condurlo, invece, alla ricerca e alla valutazione dei possibili esempi a sfavore,
che il punto di vista essenzialistico, dal canto suo, è in grado di fornire in
abbondanza. Un platonico, infatti (e forse anche lo stesso giovane
Wittgenstein), saprebbe molto bene come spiegare e chiarire il proprio punto di
vista, ovvero la teoria che riconduce l’innegabile somiglianza tra i diversi
fenomeni linguistici al fatto che tutti partecipano di una essenza o ‘forma’
comune, che è ad essi ‘anteriore’ e ‘superiore’ sul piano sia logico che
ontologico,68 e dalla quale derivano per una mimesi governata da regole
67
Si noti che è stato lo stesso Wittgenstein a evocare Platone nel corso della sua battaglia
antiessenzialista. In particolare, egli fa riferimento a un passo del Teeteto dove, alla domanda di
Socrate “Che cosa credi che sia conoscenza?”, Teeteto risponde elencando esempi di conoscenze,
come la geometria, l’astronomia, la musica, l’aritmetica, l’arte del calzolaio e quelle degli altri
artigiani; ma con questa risposta perfettamente wittgensteiniana, egli delude l’aspettativa
essenzialistica di Socrate-Platone, il quale non chiedeva “una enumerazione di conoscenze ... bensì ...
che cosa è la conoscenza in sé” (cfr. Teeteto, 146 c-e, in Platone, Opere complete, vol. II, Roma-Bari,
Laterza, 19915, p. 86). Ebbene, osserva Wittgenstein, “l’idea, che, per comprendere il significato di un
termine generale, si debba trovare l’elemento comune a tutte le sue applicazioni, ha paralizzato la
ricerca filosofica: non solo non ha riportato alcun risultato, ma ha anche indotto il filosofo a
respingere, come irrilevanti, i casi concreti, l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarlo a comprendere
l’uso del termine generale. Quando Socrate pone la domanda: ‘Che cos’è la conoscenza?’, egli non
considera neppure una risposta preliminare un’enumerazione di casi di conoscenza. Se io volessi
scoprire quale sorta di cosa sia l’aritmetica, riterrei del tutto soddisfacente aver indagato il caso di
un’aritmetica dei numeri cardinali finiti. Infatti: (a) ciò mi condurrebbe a tutti i casi più complicati, (b)
un’aritmetica dei numeri cardinali finiti non è incompleta, non ha lacune che siano poi colmate dal
resto dell’aritmetica ” (Libro blu, in LBM, p. 30; cfr. anche ibid., p. 39 e GF, I, § 76c).
68
Ciò naturalmente riguarda soprattutto le idee platoniche, ma a ben vedere vale anche per
[ ]
p , ξ , N ( ξ ) , la matrice wittgensteiniana delle proposizioni introdotta nella prop. 6 del Tractatus.
Lo stesso Wittgenstein dirà nel 1946 - in un contesto in cui sta discutendo il caso di un enunciato come
‘Questo è bello e questo non è bello’, che, pur essendo sintatticamente contraddittorio, ha tuttavia un
suo uso ordinario perfettamente lecito quando è accompagnato dai gesti dell’indicare: “Il difetto
fondamentale della logica di Russell, così come della mia nel Tractatus, è che il concetto di enunciato
viene esemplificato con un paio di frasi fatte, e poi viene dato per scontato, presupponendo che sia
stato universalmente compreso” (OFP, I, § 38). Il nuovo approccio antiessenzialistico conduce
55
operative ben precise. Egli, ad esempio, potrebbe argomentare nel seguente
modo:69
Wittgenstein semplicemente a tabulare vere e proprie differenze di specie tra enunciati, come in una
sorta di biologia descrittiva, sicché ‘Questo è bello e questo non è bello’ “è un enunciato di specie
diversa da, poniamo, ‘Il sole sorge’; ciò che è molto diverso è il modo in cui viene utilizzato. Ma di
differenze come questa ce n’è davvero a bizzeffe nel regno degli enunciati” (ibid., § 39). Sul metodo
platonico della spiegazione della somiglianza attraverso il ricorso alla comune origine, cfr. Popper
(1972), cap. 5, pp. 262-263.
69
In questa parafrasi del § 66 delle Ricerche utilizzo l’esempio del “letto” per alludere ad un noto
passo del decimo libro della Repubblica di Platone (597a1 ss.), in cui l’esempio dei passaggi
ontologici dal letto in sé forgiato dal dio al letto costruito dall’artigiano, e infine al letto dipinto dal
pittore, serve per dimostrare come la mimesi artistica sia lontana di tre gradi dalla verità.
56
una ‘dimostrazione’ dell’antiessenzialismo nel campo dei fenomeni
linguistici.70
D’altra parte, una critica all’osservazionismo ingenuo su cui è basato il
cruciale § 66 può essere formulata servendosi di argomentazioni interne tratte
proprio dalla teoria della percezione che si trova elaborata nella seconda parte
delle Ricerche. Se infatti paragoniamo il linguaggio alla testa anatra-coniglio
(per cui cfr. RF, II, sez. XI, p. 256):
si trovi in molti luoghi di un libro, per esempio di un trattato. Nel testo che
accompagna questa figura si parla, ogni volta, di qualcosa di diverso: una volta
70
Ciò perché, come avverte Popper, “se un esperimento o osservazione sembra sostenere una teoria,
ricordate che ciò che esso fa in realtà è indebolire qualche teoria alternativa - forse una cui non avevate
pensato prima” (1972, cap. 7, § 2, p. 352).
57
di un cubo di vetro, un’altra volta di una cassa aperta e capovolta; ora di
un’intelaiatura di filo che ha questa forma; ora di tre tavole che formano un
angolo solido. Ogni volta il testo dà un’interpretazione dell’illustrazione.
Ma potremmo anche vedere quest’illustrazione ora come l’una ora come
l’altra cosa. Dunque l’interpretiamo; e la vediamo come l’interpretiamo (RF, II,
sez. XI, pp. 255-256).
58
interpretazione oggettivistica dell’indeterminismo. A tal proposito sarà
sufficiente riportare una pagina molto chiara ed esauriente di un saggio letto a
una conferenza tenutasi ad Alpbach nell’agosto del 1982, che costituisce ora il
primo capitolo di Popper (1984):
59
di più. Fino ad allora, è la sequenza degli stati precedenti che costituisce il
“processo”, ed è il lavoro di criticare lo stato raggiunto (cioè, di produrre
argomenti critici da terzo mondo) che costituisce l’“attività”. O, per metterla
diversamente: l’attività del comprendere consiste essenzialmente, nell’operare
con oggetti del terzo mondo.
L’attività può essere rappresentata da uno schema generale di soluzione di
problemi con il metodo delle congetture immaginative e della critica, o, come
l’ho spesso chiamato, con il metodo delle congetture e confutazioni. Lo schema
(nella sua forma più semplice 72), è questo:
P1 → TT → EE → P2
60
confutazioni, proprio come le teorie scientifiche. Da ciò derivano due
conseguenze rilevanti.
La prima è che la comprensione non è uno stato contemplativo e
appagante della mente che si raggiunge tutto in una volta, ed il sentimento di
soddisfazione (sul quale insiste Wittgenstein: si pensi al § 234 di Zettel citato
più sopra), in quanto fattore soggettivistico, vi gioca un ruolo del tutto
secondario; essa è piuttosto un processo attivo ancorato a oggetti del Mondo 3
(quali soprattutto i problemi, le teorie, le argomentazioni e le confutazioni), e
comporta inoltre dei gradi di profondità.
A tal proposito vale la pena fare qui un accenno all’importantissima
nota 17 (p. 249), dedicata alla distinzione tra “gradi” e “certezza” della
comprensione. Secondo Popper, il miraggio della certezza della comprensione
(un’idea “del tutto sbagliata”), inseguito nel sapere scientifico e confuso con la
profondità della comprensione, ha tratto in inganno due filosofi tanto diversi
come Dilthey e Carnap, i quali non hanno visto che una certezza della
comprensione alta a piacere può essere sempre congiunta con un grado di
comprensione estremamente basso. Se infatti ammettiamo con Carnap (ed
anche con la prop. 4.024 del Tractatus) che una proposizione la si comprende
quando si sa a quali condizioni essa sarebbe vera, possiamo dire di
comprendere con ‘certezza’ tutte le proposizioni del linguaggio che parliamo,
perché, come ha mostrato Tarski, per ogni proposizione P di un linguaggio
oggetto L vale, nel metalinguaggio M usato per quest’ultimo, il principio che “
‘P’ è vera se e solo se p”, dove ‘P’ è un nome di P in M e p è l’espressione in
M dell’evento descritto da P. Ciò vuol dire semplicemente che di tutte le
proposizioni del linguaggio che parliamo sappiamo a quali condizioni esse
sarebbero vere, e quindi, stando al criterio carnapiano della comprensione, che
noi comprendiamo con certezza tutte le proposizioni che vogliamo; “e questo”,
conclude Popper, “è in realtà vero per un grado di comprensione estremamente
basso” (ibid.).
A mio giudizio, questi rilievi decisivi contro il criterio neopositivistico
della comprensione del senso di una proposizione valgono anche per la teoria
generale della comprensione del Wittgenstein antropologo. Se infatti noi
comprendiamo una proposizione quando comprendiamo un linguaggio, e
comprendiamo un linguaggio quando siamo padroni di una tecnica (cfr. RF, §
199), così come comprendiamo le istruzioni sulle mosse di un pezzo degli
scacchi quando possiamo vederle nel quadro globale delle mosse degli altri
pezzi e di tutta la tecnica del gioco, noi possiamo dire di aver raggiunto tutta la
comprensione che ci serve non appena siamo in grado di interagire
linguisticamente con gli altri e di saper cogliere le connessioni tra le
proposizioni che usiamo e l’insieme del linguaggio che padroneggiamo; ma
questo, ancora una volta, vale per un livello minimo di comprensione, per
quanto certo esso possa risultare.
61
Prendiamo ad esempio una proposizione come “777 × 111 =
68.427”77, che nello schema precedente funge da TT. Noi possiamo procedere
attraverso le seguenti tappe che aumentano sempre più il grado di
comprensione raggiunto:
1) le nostre nozioni elementari di aritmetica ci consentono di capire
‘semplicemente’ di che cosa si tratta: un prodotto tra due numeri ed il suo
risultato;
2) possiamo poi pensare che la nostra uguaglianza sia la soluzione di un
problema, e quindi individuare P1;
3) comprendiamo che P1 può essere qualcosa come: “Quanto fa 777 per 111?”;
4) la comprensione del problema ci permette di controllare il risultato tramite il
noto algoritmo della moltiplicazione e di comprendere che esso è falso (EE);
5) EE, che presumibilmente è stata effettuata operando con carta e penna, ha
comportato la sostituzione di P1, una moltiplicazione, con P2, tre
moltiplicazioni più semplici e un’addizione. Si comprende dunque che si è
avuto uno ‘slittamento di problema’ (problemshift, nel senso di Lakatos78), ma
questa volta regressivo, dal momento che l’esempio comporta procedure di
controllo standardizzate e miranti alla facilitazione del compito.
Come osserva Popper, «possiamo imparare moltissimo dal nostro
semplicissimo esempio [...] Ogni volta che cerchiamo di interpretare o
comprendere una teoria o una proposizione, anche una banale come
l’equazione qui discussa, solleviamo in effetti un problema di comprensione e
questo finisce sempre per essere un problema intorno a un problema, cioè un
problema a più alto livello».79
Quest’ultima osservazione ci conduce alla seconda conseguenza
rilevante della teoria. Nel processo di comprensione vanno separati nettamente
due livelli: quello dei problemi e delle soluzioni da comprendere e quello dei
problemi e delle soluzioni di chi cerca di comprendere. Quest’ultimo muove in
genere da un ‘problema di comprensione’ che riguarda una certa TT: rispetto a
quest’ultima, esso è pertanto un meta-problema (meta-P1). Il ‘tentativo di
soluzione’ del meta-problema è un’asserzione tramite la quale è formulata una
congettura intorno al problema P1 di cui TT è la soluzione proposta: si tratta
quindi di una meta-teoria (meta-TT). La meta-teoria procede allora da TT a P1,
cerca di ricostruire i controlli e le critiche cui è stata sottoposta TT, giungendo
così ad EE, ed infine perviene al nuovo problema P2 generato dalla
77
Cfr. ibid., § 8, pp. 224-226. Ho modificato leggermente l’esempio per rendere più succinta
l’esposizione.
78
“Se il nostro tentativo di soluzione non risolve il nostro problema, può risolvere un problema
sostitutivo. Ciò porta alla relazione da terzo mondo chiamata ‘spostamento problematico’ da I.
Lakatos, che distingue fra spostamenti problematici progressivi e degenerativi” (ibid., § 6, p. 221). Per
questo concetto di Lakatos, cfr. Lakatos (1970), in part. § 2, punto c: “Il falsificazionismo
metodologico sofisticato contro il falsificazionismo ingenuo. Slittamenti-di-problema progressivi e
regressivi”, in Lakatos e Musgrave (a cura di) (1970), p. 193 e ss.
79
Popper (1972), cap. 4, § 8, p. 226.
62
confutazione di TT. Nell’individuazione di questi momenti la meta-teoria può
imbattersi in una serie di difficoltà che ne smascherano l’inadeguatezza - la
ricostruzione di P1, ad esempio, può non riuscire a rendere conto delle
argomentazioni mosse contro TT. Ciò conduce alla sua eliminazione (meta-
EE) e ad una nuova formulazione del meta-problema di comprensione (meta-
P2).80
Possiamo schematizzare tutto ciò dicendo che il processo di
comprensione è costituito dalla interazione per feedback tra due livelli,
entrambi appartenenti al Mondo 3:
OGGETTO DI COMPRENSIONE : P1 → TT → EE → P2
Da quanto detto risulta chiaro, infine, che tali sequenze sono delle
ipersemplificazioni di un processo che può risultare molto più complicato81 e
che può comportare delle modifiche notevoli. Abbiamo visto, ad esempio, che
esse non procedono in maniera perfettamente parallela: il meta-problema,
infatti, riguarda quasi sempre TT, ed è solo attraverso il problema di
comprendere TT che scopriamo il soggiacente P1 ed infine EE e P2.
Questa teoria della comprensione, come si evince anche dal modo in
cui Popper la introduce,82 può essere considerata una sotto-teoria della teoria
dei tre Mondi. Ora, la mia tesi di fondo è che la teoria della comprensione di
Popper è più potente di quella di Wittgenstein, perché ci consente non solo di
interpretarla, ma anche di valutarne i limiti, mentre il contrario non può
avvenire.
Dal punto di vista della teoria di Popper, dove il ruolo preminente degli
oggetti del Mondo 3 si esplica tanto nell’attività quanto nell’oggetto della
comprensione, quella di Wittgenstein sembra agganciata a qualcosa di simile al
Mondo 3 per quel che riguarda solamente gli oggetti della comprensione,
mentre per quanto riguarda l’atto della comprensione essa, consistendo in un
particolare Erlebnis (l’‘omeostasi’ della mente di cui si parlava sopra), poggia
pressoché interamente sul Mondo 2. Si può dire allora che essa si colloca in
una posizione intermedia rispetto alla teoria della comprensione di Popper da
un lato, e a quella degli storicisti come Dilthey e Collingwood dall’altro: per
questi ultimi, infatti, possiamo dire schematizzando un po’, l’attività del
80
Cfr. ibid., § 9, pp. 233-235. Su questo punto cfr. anche Popper (1976a), § 29, p. 138, punto 5.
81
Ciò perché una situazione problematica è costituita non solo da P1, ma anche da uno sfondo, che
come minimo consiste, come visto, di un linguaggio già di per sé carico di teorie. Inoltre vi sono altri
oggetti del Mondo 3 con cui possiamo entrare in contatto nel corso del processo di comprensione,
come ad esempio le relazioni logiche fra le teorie ed i problemi, “aspetti di congetture, interpretazioni
e posizioni filosofiche, [...] confronto o contrasti o analogie” (Popper 1972, cap. 4, § 6, p. 221).
82
Cfr. ibid., § 5, pp. 217-218.
63
‘comprendere’ (Verstehen) consiste principalmente in un Erlebnis che si
articola nel ‘rivivere’ (Nacherleben) e nel ‘riprodurre’ (Nachbilden), nel
Mondo 2 dello storico, gli Erlebnisse del passato, che sono ancora oggetti del
Mondo 2.83
Gli oggetti della comprensione di Wittgenstein, in quanto esibiti
descrittivamente nelle rappresentazioni perspicue, hanno due importanti
caratteristiche da Mondo 3. La prima è l’oggettività, la quale si traduce in una
disponibilità per tutti: essi si offrono alla contemplazione emergendo dalle
strutture di una forma di vita sotto l’aspetto di asserti ‘ultimi’ e
‘grammaticali’ del relativo gioco linguistico. La seconda è la loro totale
indipendenza rispetto a connessioni di carattere psicologico. Ciò è legato al
rifiuto dello psicologismo quale modello esplicativo sia da parte di Popper che
da parte di Wittgenstein, anche se a tale rifiuto fanno seguito due approcci
differenti. Mentre, infatti, fra gli oggetti di Wittgenstein sussistono connessioni
di natura formale, ovvero superficialmente strutturale, per cui la categoria
ermeneutica fondamentale diventa quella dell’‘analogia’, che è di carattere
spiccatamente descrittivo, Popper predilige la scoperta di “relazioni proprie
del terzo mondo”84, che sono di carattere assolutamente logico, anche se non
mancano, come abbiamo visto, i ‘confronti’ e le ‘analogie’.85
Tuttavia, proprio perché non si tratta di problemi, teorie,
argomentazioni etc., che per Popper sono gli abitanti più importanti del Mondo
3, gli oggetti di Wittgenstein non sarebbero oggetti rilevanti nel Mondo 3 di
Popper. Il loro status, piuttosto, è simile a quello delle idee platoniche,86
perché al pari di queste ultime essi sono oggettivi, inesplicabili e (beninteso
relativamente ad una particolare forma di vita) immutabili, mentre alla
trascendenza iperuranica è subentrata l’immanenza nella forma di vita relativa.
Quest’ultima però resta attingibile, come abbiamo visto, tramite un processo
gnoseologico culminante in un atto contemplativo in larga misura ancora di
tipo platonico, perché - come per Platone il problema della conoscenza è il
problema di come recuperare e riammirare con un training dialettico ciò che
già sappiamo per averlo visto direttamente e senza veli di Maya nella nostra
condizione di anime pure - per Wittgenstein il problema della comprensione è
il problema di come discernere e ridisporre (si pensi ai §§ 109 e 122 delle
Ricerche) ciò che ci sta continuamente sotto gli occhi:
83
Cfr. ibid., p. 218; § 6, p. 219; § 11, p. 239 s. e soprattutto § 12, pp. 243-245. (È appena il caso di
ricordare che le mie considerazioni su Wittgenstein sono un’aggiunta a quelle di Popper su Dilthey e
Collingwood.)
84
Ibid., § 9, p. 235.
85
Cfr. ibid., § 6, p. 221.
86
Per il Mondo 3 delle Idee platoniche, cfr. Popper (1972), cap. 3, pp. 149-150 e 170-174; cap. 4, pp.
210 e 212-215; cap. 8, pp. 395-396; ([1969], 1994b), cap. 3, pp. 69-70; (1976a), § 38, p. 188 e p. 191;
nonché Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P2, § 13, pp. 60-63, e cap. P5, § 46, II, p. 203.
64
Per scendere nel profondo non è necessario andare lontano; anzi, per farlo non
devi abbandonare il tuo solito ambiente, i luoghi che conosci meglio.
Sul fatto poi che non vi sia nulla da scoprire, essendo tutto davanti a
noi nella grammatica del linguaggio ordinario, in una discussione del 9
dicembre 1931 coi membri del Circolo Wittgenstein baserà una critica al
Tractatus importantissima, le cui implicazioni oscurantistiche sul piano
metodologico sembrano però essere sfuggite ai commentatori. Nella prop.
5.55, infatti, allorché si asserisce che poiché al momento “non possiamo
indicare il numero dei nomi di significato differente, noi non possiamo
neppure indicare la composizione (die Zusammensetzung) della proposizione
elementare”, è adombrata “la concezione secondo cui vi sarebbero domande
alle quali si troverà una risposta in seguito”; ebbene, tale concezione, riconosce
lo stesso Wittgenstein, rappresenta l’errore più pericoloso del libro, ancor più
pericoloso dell’arroganza delle affermazioni dogmatiche di cui esso è
intessuto: «vorrei combattere quella concezione sbagliata secondo cui saremmo
in grado di scoprire qualcosa che oggi non vediamo ancora, di trovare qualcosa
di nuovo. Questo è un errore. In realtà noi abbiamo già tutto e lo abbiamo
attualmente, non abbiamo alcun bisogno di aspettare. Ci muoviamo
nell’ambito della grammatica del nostro linguaggio comune e tale grammatica
c’è già. Quindi abbiamo già tutto e non abbiamo bisogno di aspettare il futuro»
(WCV, pp. 171 e 172 ; ma cfr. anche pp. 173-175). Spostandoci verso la fase
successiva del pensiero di Wittgenstein (cui queste pagine sono collegate, fra
l’altro, mediante l’allusione all’idea, che sarà poi ribadita con forza nel § 128
delle Ricerche, secondo la quale non possono esserci in filosofia tesi
controverse e problemi teorici aperti alla discussione, ma solo ovvietà
grammaticali che ognuno non può non riconoscere come tali), possiamo
osservare che tutto ciò paradossalmente rovescia il rapporto, rispetto a un certo
platonismo (quello, intendo, per cui non c’è un conoscere che si produce o
acquista, ma un conoscere che si ri-acquista), tra l’essenzialismo formale del
Tractatus e l’antiessenzialismo fenomenologico dei giochi linguistici. Mentre,
infatti, il vecchio Wittgenstein, seppure all’interno della cornice chiusa delle
condizioni logico-ontologiche trascendentali dettate dal criterio di senso, finiva
per lasciare aperto almeno un problema logico-philosophicus (la ricerca delle
87
PD, p. 99 (1946) (= OFP, I, § 361). Cfr. anche PD, pp. 26-28 (1930), e BT, § 89, p. 419, ora in F, p.
40 (testo ted.) e p. 41 (tr. it.). A proposito del parallelismo con la teoria platonica della conoscenza,
cfr. la seguente testimonianza di Malcolm (1958), pp. 65-66: “Durante una lezione Wittgenstein rilevò
una volta che la sua concezione della filosofia (per esempio: ‘I problemi si risolvono non già
producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto’, Ricerche, § 109; ‘Il lavoro
del filosofo consiste nel mettere insieme ricordi, per uno scopo determinato’, ivi, § 127) ha qualche
somiglianza con la dottrina socratica secondo la quale conoscenza è reminiscenza; benché egli
ritenesse che nella conoscenza siano impliciti altri elementi”.
65
proposizioni elementari - con il conseguente programma neopositivistico
mirante alla costituzione di quella classe delle asserzioni scientifiche vere che
lo stesso Wittgenstein faceva coincidere con la Scienza88), il Wittgenstein
antropologo, malgrado l’apparente apertura ai linguaggi-mondo possibili,
chiude di fatto qualsiasi possibilità di produrre non solo nuovi contenuti
conoscitivi, ma anche più genericamente nuove esperienze filosofiche in
qualche modo significative, traendo così le conseguenze estreme di quella
concezione epifanica della grammatologia dei linguaggi naturali annunciata già
a partire dal 1930.
III
88
Cfr. l’allusione all’Aufbau carnapiana in WCV, p. 171, che ricorre quasi negli stessi termini in GF, I,
Appendice, § 4-Ac, p. 172
89
Questi luoghi si ritrovano anche in GF e OFP, secondo la seguente corrispondenza: Z, §§ 605-606 =
GF, I, § 64c [primi due capoversi]; Z, § 607 ≈ GF, I, § 64a; Z, §§ 608, 609, 610, 611, 612, 613 =
OFP, I, §§ 903, 904, 905, 906, 908, 909. Sul problema cfr. anche Libro blu, in LBM, p. 13 e ss.
90
“Delle frasi che scrivo solo una ogni tanto fa un passo in avanti; le altre sono come lo scatto delle
forbici del barbiere, che deve continuamente muoverle per dare un taglio al momento giusto” (PD, p.
126 [1948]).
66
ammettere che fianco a fianco del corpo esiste un’anima: una nebulosa entità
spirituale (§ 611).
67
metafisica dinamica e che Wittgenstein mutuerebbe dalla complessa analitica
dell’atto e dei vari generi di potenza (dýnamis) compiuta da Aristotele nella
Metafisica (V,7,1017b 1-8 e soprattutto IX, 1-9, 1045b 27 - 1051a 23). In tal
modo Wittgenstein adotterebbe l’unica metafisica possibile per un approccio
schiettamente fenomenologico alle varie attività cognitive connesse con l’uso
comunicativo del linguaggio: la mente è nient’altro che una struttura di
capacità il cui “veicolo” accidentale è il cervello ed il cui “possessore”
esclusivo è l’uomo; queste capacità sono potenze che si attualizzano in primo
luogo in altre potenze costituite dalle varie abilità (ad es. quella di suonare il
pianoforte), le quali a loro volta sono «disposizioni ... il cui esercizio consiste
nelle corrispondenti attività delle scienze, delle arti e dei mestieri».92 Se così
stanno le cose, osserva Kenny, allora « nel senso della metafisica dinamica,
Wittgenstein è assai vicino ad Aristotele. Egli infatti considera possibile una
pura anima aristotelica, una entelechia, che opera senza alcun veicolo
materiale: una causa formale e finale alla quale non corrisponde alcuna causa
mentale con ciò che caratterizza chi usa un linguaggio; e se sono validi gli argomenti di Wittgenstein, i
linguaggi non possono essere privati. [...] Il cogito portava alla conclusione che la mente è meglio
conosciuta del corpo. L’argomento del linguaggio privato porta, potremmo dire, alla conclusione che si
conosce meglio il corpo della mente” (tr. it. in Andronico, Marconi, Penco [a cura di] 1988, p. 259). In
effetti, prosegue Kenny, è chiaro “che se una res cogitans cartesiana usa un linguaggio, debba essere
un linguaggio privato, nel senso definito da Wittgenstein” (ibid., p. 260). Su quest’ultima conclusione
concordano senz’altro gli Hintikka, i quali però notano che se separiamo l’eventuale semantica del
linguaggio della res cogitans cartesiana (la quale sarebbe fatalmente basata sul modello ‘oggetto e
designazione’, che comporta un riferimento diretto del nome alla sensazione privata in sé e che
Wittgenstein respinge come mera “finzione grammaticale”: cfr. RF, §§ 293, 304 e 307) dalla stessa res
cogitans, la posizione wittgensteiniana è ancora riconducibile a una metafisica della mente di tipo
cartesiano: “col famoso ‘argomento sul linguaggio privato’ Wittgenstein non modifica la concezione
cartesiana della nostra vita interiore [...]. Tale concezione non viene modificata, nella misura in cui
essa non comporta alcuna assunzione sul modo di funzionare del linguaggio. Wittgenstein critica qui la
semantica, non la metafisica cartesiana” (Hintikka e Hintikka 1986, cap. X, § 5, p. 359); e ancora: “la
filosofia del linguaggio di Wittgenstein non implica che non esistano oggetti privati, o che non se ne
possa parlare. Essa implica solo che possiamo usare il linguaggio per denominarli, descriverli, ecc.
esclusivamente servendoci di una struttura pubblica. [...] Non abbiamo dunque ragioni per pensare che,
secondo Wittgenstein, non si possano avere esperienze private in senso del tutto cartesiano. Il
problema sta solo nel modo in cui parliamo di esse. Le sensazioni (dolori, pruriti, vampate di calore,
sensazioni di piacere, ecc.) non permettono definizioni ostensive private. Io non posso riferirmi ad esse
senza con ciò stesso permettere anche a te di farlo. Ma dalla natura pubblica del quadro di riferimento
di cui mi devo servire, non segue che le esperienze stesse siano pubbliche, o che esse non abbiano
alcun ruolo nei giochi linguistici pubblici” (ibid., § 13, p. 386; cfr. anche ibid., p. 382 e cap. XI, § 10,
pp. 416-417). Del resto lo stesso Wittgenstein considera così ovvia l’esistenza del mondo sensoriale da
relegare la questione della sua privatezza nel campo della logica (alla quale, come sappiamo,
appartiene tutto ciò che descrive la cornice stessa di un gioco linguistico: cfr. ad es. DC, § 56), in un
passo stranamente non citato dagli Hintikka a sostegno della loro tesi: “La proposizione: ‘Le
sensazioni sono private’ è paragonabile a : ‘Il solitario si gioca da soli’ ” (RF, § 248). Tutto ciò
costituisce naturalmente un sostegno indipendente alla nostra idea, cui siamo pervenuti percorrendo
una strada differente, che sia possibile attribuire a Wittgenstein la concezione dell’esistenza
‘separata’ di ciò che Popper chiama Mondo 2 (lo stesso Popper, per inciso, difendendo da una
prospettiva evoluzionistica l’ipotesi dell’esistenza di una sfera emergente di eventi o stati mentali, si
riallacciava esplicitamente alla tradizione cartesiana: cfr. Popper 1972, cap. 6, § XXIII, p. 328).
92
Kenny (1995), in Egidi (a cura di) (1996), p. 44.
68
efficiente meccanicista ».93 A riprova di ciò Kenny conclude chiamando in
causa l’altrimenti misteriosissimo finale del § 283 delle Ricerche filosofiche:
Solo di ciò che si comporta come un uomo si può dire che ha dolori. Questo
infatti si deve dire di un corpo; o, se vuoi, di un’anima che ha un corpo. E
come può un corpo avere un’anima ?
69
per difendere una concezione almeno dualistica ed interazionistica nel dibattito
sul problema del rapporto mente-corpo, contro l’imperante monismo
riduzionistico che a suo giudizio si ispira, fra gli altri, allo stesso Wittgenstein
delle Ricerche (ma su quest’ultimo punto ritorneremo): «Si potrebbe dire forse
che, nel momento in cui scrivo, il materialismo o il comportamentismo radicali
sembrano essere la concezione relativa al problema mente-corpo che più è di
moda tra la più giovane generazione degli studiosi di filosofia»96.
La teoria dei tre mondi consente di valutare appieno il fatto che
Wittgenstein non sia riuscito a portarsi al di là di quel Mondo 2 che egli stesso
ha individuato, peraltro assai efficacemente, nei passi citati di Zettel.
Viceversa, il punto di vista aristotelico, troppo aristotelico, impedisce a Kenny
di rilevare come, proprio per essersi limitato ad ossessive analisi riguardanti i
diversi atti percettivi e cognitivi del e nel Mondo 2, Wittgenstein sia rimasto
dentro il pregiudizio soggettivistico (di lontanissima matrice aristotelica,
appunto) che fa coincidere i contenuti della conoscenza con gli atti mentali che
producono la conoscenza stessa, e che nella terminologia di Kenny consiste,
come visto, nell’identificazione delle attualizzazioni delle disposizioni mentali
con le attività tecnico-scientifiche e artistiche.97
In tal senso, ad esempio, si comprende dove stia la forza (ma anche il
limite) delle tanto discusse sezioni delle Ricerche sul ‘seguire una regola’(§§
139-242). Se noi guardiamo le regole matematiche e la loro interpretazione
solo in quanto fissate dalla e nella pratica, cioè solo in quanto esibite in atti del
Mondo 2 (come la comprensione cognitiva) sul Mondo 1 (come la produzione
dei calcoli con carta e penna), allora risultano perfettamente leciti i dubbi
sollevati da Wittgenstein tanto sulla presunta capacità della nostra mente di
pre-vedere magicamente tutti i possibili passaggi di un comando come:
‘Costruisci una successione aggiungendo sempre 2 a partire da zero’, quanto,
di conseguenza, sul fatto che se uno scolaro cui fosse stato dato tale comando,
giunto fino 1000 ‘correttamente’, proseguisse scrivendo 1004, 1008, 1012 ...,
noi dovremmo poter correggerlo sulla base dell’assunto che quando gli
abbiamo dato il comando, intendevamo, ovvero sapevamo già a priori e con
certezza (tutta soggettiva) che dopo 1000 egli doveva scrivere 1002.
Wittgenstein ha ragione nel far osservare che solo un fraintendimento della
grammatica delle parole “sapere” e “intendere” può indurci a credere che la
nostra mente sia in grado di ‘volare’ in avanti sopra ogni possibile passaggio
prima che lo scolaro pervenga fisicamente a un punto qualsiasi della
successione. Il nostro ‘sapere già che ...’, infatti, lungi dall’essere una
96
Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P3, § 16, p. 71. A proposito poi della “nozione di veicolo di una
potenza o abilità”, che Kenny pensa di “introdurre” (Kenny 1995, in op. cit., p. 45), cfr. Popper e
Eccles (1977), vol. I, cap. P4, § 33, pp. 146-148.
97
Si veda a questo proposito Aristotele, De anima, Γ, 5, 430a20:
αυτο εστιν η κατ ’ ενεργειαν επιστηµη τϖ πραγµατι, nonché la discussione popperiana di
questo passo in Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P5, § 52, p. 238.
70
conoscenza epistemica fondata su una rappresentazione mentale dei passaggi
futuri, può voler dire soltanto che se ci avessero chiesto quale numero lo
scolaro avrebbe dovuto scrivere dopo il 1000, noi avremmo risposto ‘1002’,
mentre lo scolaro avrebbe potuto benissimo interpretare il nostro ordine in
modo tale che la sua esecuzione si sarebbe discostata dalle nostre aspettative a
partire dal successore di 1000: «Non ci servirebbe a nulla il replicare: ‘Ma non
vedi dunque ... ?’, - e ripetergli le vecchie spiegazioni e i vecchi esempi. - In
un caso del genere potremmo forse dire: quest’uomo è portato per natura a
comprendere il nostro ordine, con le relative spiegazioni, come se fosse stato
formulato così: ‘Aggiungi sempre 2 fino a 1000, 4 da 1000 a 2000, 6 da 2000 a
3000, ecc.».98 È questo il famoso ‘paradosso scettico’ individuato da
Wittgenstein e rielaborato da Kripke (per tale motivo esso è noto come
paradosso di Kripkenstein). Se dunque non sussiste alcuna relazione di
determinazione logica tra la regola rappresentata da una formula algebrica e i
passaggi dei calcoli che eseguiamo applicandola, dal momento che “qualsiasi
modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola” (RF, § 201), che tipo
di nesso potrà mai esserci allora tra le nostre comuni formule e i nostri comuni
modi di applicarle? Una risposta parziale è abbozzata da Wittgenstein in RF, §
190 (che troviamo anche come § 2 di OFM, I):
Si può dire: «Il modo in cui la formula viene intesa determina quali passaggi
si debbano compiere». Qual è il criterio per stabilire in che modo viene intesa
la formula? Forse il modo e la maniera in cui la usiamo costantemente, il modo
in cui ci è stato insegnato ad usarla.
Per esempio, a uno che usi un segno a noi sconosciuto diciamo: «Se con ‘x!2’
intendi x2 ottieni questo valore di y; se con quel segno intendi 2x, ottieni invece
quell’altro». - Ora chiediti: Come si fa, con « x!2 », a intendere l’una o l’altra
cosa?
Così dunque l’intendere può predeterminare i passaggi.
71
nulla che un’intelligenza superiore potrebbe conoscere, ad eccezione di quel
che faranno le generazioni future. In matematica ne sappiamo quanto Dio»
(LFM, Lez. 11, p. 106).
Ora, tutto ciò sarebbe abbastanza plausibile, ma solo nella misura in cui
si presupponesse che la questione della matematica (e del linguaggio in
generale) debba rimanere confinata entro i limiti del Mondo 1 delle
realizzazioni pratiche (necessariamente finite) e del Mondo 2 delle
rappresentazioni e delle capacità mentali (necessariamente limitate). Ma le
cose, assai presumibilmente, non stanno affatto così. Naturalmente,
dall’interno del proprio approccio antropologico-relativistico, in cui i
programmi di ricerca matematici, come del resto le altre ‘tentazioni’
speculative, vengono ridotti al rango di semplice oggetto di indagine da parte
di un’apposita psicologia delle tentazioni che spingono a usare un determinato
modo d’espressione, Wittgenstein può tagliar corto affermando che «ciò che un
matematico è propenso a dire, per esempio, sull’oggettività e la realtà dei fatti
matematici, non è una filosofia della matematica, ma qualcosa che la filosofia
dovrebbe trattare», dal momento che «il filosofo tratta una questione [...] come
una malattia» (RF, §§ 254-255). Come ha mostrato Popper, tuttavia, una teoria
(oppure un sistema di regole come la teoria dei numeri naturali), una volta che
sia stata prodotta dalle menti umane, diventa subito un oggetto del Mondo 3, e
quindi acquista una dimensione in massima parte oggettiva e indipendente dal
suo stesso creatore, poiché comporta sempre conseguenze impreviste e
problemi nuovi che scaturiscono principalmente in forza del carattere
atemporale delle relazioni logiche tra gli oggetti del Mondo 3 (e non degli
oggetti stessi100) e che pertanto possono essere oggetto di congetture e di vera e
propria scoperta: l’ipotesi di Goldbach, ad es., la quale prevede che ogni
numero pari maggiore di 2 possa essere scritto come somma di due numeri
primi, se dovesse essere vera, descriverebbe una proprietà oggettiva e non
prestabilita dell’insieme N dei numeri naturali (un tipico prodotto umano) in
ogni mondo possibile, anche se ‘la mente di Goldbach’ e ‘la mano di
Goldbach’ non avessero mai formulato e reso visibile nel Mondo 1 ‘l’ipotesi di
Goldbach’. Malgrado ciò, nota Popper, «ci sono dei comportamentisti i quali
pensano che la verità di ‘2 x 2 = 4’ sia spiegabile in termini di convenzioni tra
importante delle attività della nostra vita; così, per esempio, il contare e il far calcoli non sono
semplici passatempi. Il contare (vale a dire il contare in questo modo) è una tecnica che si impiega
quotidianamente nelle più svariate operazioni della nostra vita. E proprio per questo impariamo a
contare nel modo in cui impariamo: con esercizio infinito, con spietata esattezza; proprio per questo si
insiste inesorabilmente sulla necessità che tutti diciamo ‘due’ dopo ‘uno’, ‘tre’ dopo ‘due’, e così via. -
‘Ma allora questo contare è solo un uso? A questa successione non corrisponde anche una verità?’ - La
verità è che questo contare ha dato buoni risultati. - ‘Vuoi dunque dire che esser vero significa essere
utilizzabile (essere utile)?’ - No, voglio solo dire che della successione naturale dei numeri - così come
del nostro linguaggio - non si può dire che è vera, ma soltanto che è utile, e, innanzi tutto, che viene
impiegata”.
100
Su questa distinzione cruciale, che determina il carattere peculiarmente antiplatonico del Mondo 3
di Popper, cfr. Popper (1976a), § 38, p. 191.
72
gli uomini: che questa equazione sia vera perché l’abbiamo imparata a scuola.
Ma non è così: essa è una conseguenza del nostro sistema numerico ed è
traducibile in tutte le lingue, purché non siano troppo povere: è una verità
invariante rispetto alla convenzione e alla traduzione».101 Dal punto di vista
wittgensteiniano, invece, non possiamo neppure sapere cosa possa mai voler
indicare un concetto come quello di “verità invariante rispetto alla
convenzione”. Certamente noi abbiamo parecchia familiarità con ciò che
possiamo chiamare l’oggettività della matematica, ma in tal caso si tratta
semplicemente dell’inesorabilità di una tecnica empirica ben precisa elevata
(tramite l’accordo comunitario completo esibito dall’agire così) al rango di
paradigma e di criterio di giudizio, e perciò sottratta a ogni dubbio scettico:
73
determinato gioco linguistico. Nell’esemplare GF, I, § 18 - che anticipa il
contenuto di RF, §§ 193-194 (in gran parte paralleli a OFM, I, §§ 122-125), in
cui Wittgenstein porta alla luce la mitologia filosofica che ci induce a pensare
che una macchina abbia in sé (come un’ombra) la possibilità del suo
movimento - si legge infatti (ma cfr. anche GF, I, § 77 b):
74
questo, come visto, anche Wittgenstein converrebbe - può essere considerato
un vero e proprio campo di disposizioni (disposizioni ad agire, ad apprendere,
a fantasticare, etc.). Il Mondo 3, infine, è anch’esso disposizionale, perché le
connessioni logiche che sussistono tra i suoi oggetti (teorie, argomentazioni,
problemi, istituzioni, opere d’arte, etc.) rendono possibili - soprattutto in
termini di conseguenze logiche - infinite realizzazioni in ogni direzione e
modalità. In tal senso, l’esempio wittgensteiniano del re degli scacchi può
essere rovesciato: il re, infatti, è disposizionale sia in quanto oggetto fisico
appartenente al Mondo 1 (e questo è ovvio, perché è vero in primo luogo per il
materiale con cui può essere realizzato) sia in quanto oggetto logico
appartenente al Mondo 3. Pertanto Wittgenstein ha ragione quando dice che le
disposizioni del re ad essere usato in determinati modi non risiedono né nel re
in quanto oggetto del Mondo 1, né nell’intenzione del giocatore, che è un
oggetto del Mondo 2 (cfr. Ricerche, § 197). E mentre egli risolve il problema
collocandole in una dimensione sociale (che è frutto di un’interazione tra i
mondi 1 e 2), cioè «nell’elenco delle regole del giuoco, nell’insegnamento
degli scacchi, nella pratica quotidiana del giuoco» (ibid.), Popper, per il quale
invece tali disposizioni ineriscono al re solo in quanto oggetto del Mondo 3,
può fornire indirettamente una spiegazione-valutazione del punto di vista
wittgensteiniano servendosi dell’esempio dell’oggetto-libro:
103
Popper (1972), cap. 3, § 3, pp. 161-162. A proposito dell’“intenzione”, occorre ricordare che
Wittgenstein ha esitato molto sul suo status prima di pervenire alla soluzione antropologico-culturale
delle Ricerche. Fino all’epoca del Libro blu, quando credeva convenzionalisticamente che la
comprensione corretta di un simbolismo presupponesse una spiegazione che eliminasse i
fraintendimenti, egli ha pensato che essa fosse effettivamente la sede delle regole che noi seguiamo
nell’esecuzione di quei compiti che si configurano come ‘giochi’ o ‘calcoli’ che richiedono l’uso di un
sistema simbolico ben definito nella sua struttura grammaticale (dal parlare al copiare una cosa
qualsiasi, dal costruire una serie aritmetica al suonare leggendo una partitura, etc.), e che in quanto tale
essa costituisse il momento veramente essenziale nel procedimento dell’esecuzione di tali compiti. Cfr.
su questo punto OF, § 20c, e L 1930-1932, p. 56 e p. 60.
75
ammettere entro certi limiti, il peculiare costruttivismo difeso da Wittgenstein
in sede di filosofia della matematica:
IV
76
non in senso logico, ma nel senso in cui sono in qualche misura ‘identiche’ due
diverse connotazioni dello stesso oggetto (es. “La stella del mattino” e “La
stella della sera” per Venere). Nei termini della teoria popperiana dei tre
mondi,
77
fisiologica? Se questo manda all’aria il nostro concetto di causalità, ebbene
allora era ora che qualcosa lo mandasse all’aria.
se lo si fissa per un certo tempo interpretandolo in uno dei due modi possibili
(ad es. considerando anteriore la faccia posta più in basso), ad un certo punto
esso si commuta improvvisamente e incontrollabilmente nell’interpretazione
opposta (la faccia anteriore diventa quella posta più in alto). Un fenomeno del
genere potrebbe sembrare una conferma notevolissima del parallelismo,
perché, come risulta anche dalla teoria dell’isomorfismo psico-fisico di
Wolfgang Köhler, esso dipende dall’avvicendamento di Gestalten ‘fisiche’ nel
cervello. Tutto ciò, osserva Popper, spiega perché il parallelismo psico-fisico
78
sia un pregiudizio bene fundatum ed anche piuttosto convincente, pur essendo
chiaramente ancorato, come mostra Wittgenstein nel citato § 611 di Zettel, ad
una maniera animistica di giocare con i concetti psicologici. 104
Uno sguardo alla critica rivolta da Popper contro l’interpretazione di
questi fenomeni in termini parallelistici ci fornirà la chiave per intendere la
ragione fondamentale del limite delle considerazioni di Wittgenstein cui si è
accennato. In tal modo entreremo nell’ultima parte del presente capitolo,
dedicata al problema delle funzioni del linguaggio, che io considero cruciale
per una valutazione critica della filosofia wittgensteiniana nel suo complesso.
L’argomentazione di Popper consiste in una rilettura dell’esperimento
della sequenza delle percezioni ‘identiche’. Egli rileva come l’interpretazione
in termini atomistici (secondo cui gli stati di coscienza possono essere pensati
come sequenze di elementi, denominati di volta in volta, a seconda del
paradigma teorico presupposto, “idee semplici”, Gestalten etc.), che porta alle
varie forme di parallelismo (da quello dell’empirismo classico, per cui a
stimoli percettivi uguali corrispondono uguali dati elementari di coscienza, a
quello della Gestaltpsychologie, per cui a uguali Gestalten cerebrali
corrispondono uguali Gestalten mentali), sia basata su un fraintendimento
palmare dei resoconti verbali e dei processi cognitivi implicati
nell’esperimento:
104
Cfr. Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P1, § 8, pp. 37-38 e cap. P3, § 24, p. 113. Si noti peraltro
che secondo Popper un certo “carattere primitivo” pesa ancora sulle “nostre concezioni moderne
relative alla coscienza” (ibid., cap. P5, § 45, p. 195) a causa dell’intrinseca e peculiare difficoltà del
problema, e ciò può forse spiegare perché le teorie omeriche, o comunque pre-ioniche, relative al
rapporto mente-corpo “sono più vicine alle concezioni moderne e ai problemi moderni di quanto non
siano le teorie pre-ioniche e perfino le teorie ioniche della materia” (ibid., pp. 194-195).
79
Questo importante argomento si ritrova in forma leggermente diversa
nei capitoli 2 e 3 di Popper (1994c),105 risalenti agli anni 1972-1974, cioè al
periodo immediatamente precedente a quello cui risale L’io e il suo cervello.
Nel cap. 3 si trovano ulteriori osservazioni sul rapporto mente-cervello, che
gettano una luce interessante sulla posizione assunta da Wittgenstein nei citati
§§ 608-612 di Zettel. Scrive Popper:
benché io sia disposto ad ammettere che non ci sono processi di pensiero nel
Mondo 2 senza che ci sia un qualche processo cerebrale nel Mondo 1, mi
sembra che tutto parli a favore del fatto che non ha luogo nessun effettivo
parallelismo. E’ piuttosto qualcosa di simile al rapporto di un contenuto-di-
pensiero nel Mondo 3 e della sua materializzazione nel Mondo 1, diciamo un
libro o una conferenza. Nel senso del Mondo 3 la mia conferenza rimane la
stessa se parlo più velocemente o più lentamente, a voce più alta o più bassa.
Può anche essere tradotta abbastanza esattamente in un’altra lingua. E un libro
può essere stampato in modo molto diverso in edizioni differenti.
Naturalmente, tutte le diverse edizioni e traduzioni avranno qualcosa in
comune; ma non esiste nessun coordinamento biunivoco e perciò nessun
effettivo parallelismo” (Popper 1994c, cap. 3, § II, pp. 99-100).
80
questi due ambiti della fisica con le forze nucleari. Non abbiamo nessun
modello ‘meccanico’ per queste relazioni; ma non si può mettere in dubbio il
fatto che questi diversi ambiti siano in interazione - che, per esempio, la
pressione gravitazionale nel sole induca l’azione di forze nucleari, che a sua
volta trasforma nuclei di idrogeno in nuclei di elio» (Popper 1994c, cap. 3, pp.
100-101).
Come si vede, Wittgenstein e Popper pervengono al medesimo
risultato: il parallelismo psico-fisico, in tutte le sue varie forme, da quelle
antiche e puramente speculative a quelle recenti ed epistemologicamente più
raffinate,106 fornisce una soluzione metafisica primitiva al problema del
rapporto mente-corpo (o, più esattamente, mente-cervello), e benché non possa
essere empiricamente confutato, essendo in grado di avanzare ogni sorta di
reinterpretazione ad hoc dei casi apparentemente contrari, risulta in realtà
privo di quella base empirica che sembra sostenerlo. Ma come pervengono
Popper e Wittgenstein a questo risultato? Una analisi della logica della loro
106
Si noti che Popper considera, anche se in varia misura, delle mere versioni del parallelismo
(metafisico) non solo l’epifenomenismo, il panpsichismo e il cosiddetto “monismo neutrale” (cioè la
teoria, sostenuta in vario modo da Hume, da Mach, dal primo Russell e da alcuni neopositivisti, del
“parallelismo epistemologico” tra ordine fisico e ordine mentale, i quali verrebbero costruiti da noi a
partire da un materiale sensoriale unico, puro e originario, e quindi trascendentale rispetto alla
distinzione tra fenomeni fisici e fenomeni psichici), ma anche la teoria dell’identità psico-fisica,
considerata come un caso “degenerato” o limite di parallelismo (allo stesso modo in cui due rette
coincidenti possono essere viste come due rette parallele con distanza uguale a zero): cfr. Popper e
Eccles (1977), vol. I, cap. P3, § 22, pp. 104-105, e cap. P5, § 54, pp. 242-244; per il “monismo
neutrale”, cfr. ibid., § 53, pp. 238-242 e Popper ([1956], 1983), parte I, cap. I, § 8, pp. 111-115. Da ciò
risulta che “qualsiasi cosa possa apparire come una prova a favore della teoria dell’identità è anche uno
dei casi che sembrano suffragare il parallelismo” (Popper e Eccles 1977, vol. I, cap. P3, § 24, p. 112),
e, viceversa, qualsiasi cosa possa apparire una prova a sfavore del parallelismo è anche uno dei casi
che sembrano confutare la teoria dell’identità. In sostanza, la strategia argomentativa di Popper è la
seguente. Indicando con I la teoria dell’identità e con P quella del parallelismo, possiamo scrivere che
I → P (si pensi, per maggiore semplicità, a I come se fosse un’asserzione del tipo “Tutte le orbite dei
pianeti sono cerchi perfetti” e a P come se fosse analoga a “Tutte le orbite dei pianeti sono ellissi”).
Ciò vuol dire che P, avendo un campo logico [ted. Spielraum, ingl. range] più ampio, è una
conseguenza più probabile, ed è quindi più difficile da falsificare rispetto ad I, perché tutto ciò che
corrobora I corrobora anche P, ma non viceversa, essendoci casi che corroborano P ma falsificano I
(nel nostro esempio, se trovassimo un’orbita con eccentricità pari a 10 -6 avremmo confutato I, che
predice eccentricità sempre nulle, ma corroborato P, che predice valori per l’eccentricità compresi tra 0
incluso e 1 escluso). In altri termini, il contenuto logico di I, cioè la sua classe-conseguenza, è una
sottoclasse propria del contenuto logico di P, mentre il contenuto empirico di P, cioè la classe dei suoi
falsificatori potenziali, è una sottoclasse propria del contenuto empirico di I. Se vogliamo attaccare I in
maniera radicale, pertanto, dobbiamo cercare di falsificare P, sfruttando così la ritrasmissione della
falsità (o perlomeno della criticabilità, come è nel nostro caso, in cui si ha a che fare con teorie non
falsificabili) del modus tollens. Ecco perché Popper, criticando la teoria dell’identità in quanto forma
di parallelismo, può concludere: “Per inciso, alla luce delle presenti considerazioni, la teoria
dell’identità cervello-mente, si rivela un caso speciale dell’idea del parallelismo, perché anch’essa è
basata sull’idea di una correlazione uno-a-uno: è un tentativo di spiegare razionalmente questa
correlazione uno-a-uno che esso dà, acriticamente, per scontata” (Popper e Eccles 1977, ibid., p. 117).
Per tutto ciò, cfr. Popper ([1930-1932], 1979), § 15, p. 147 e ss., e (1934, 1959), §§ 36 e 37, pp. 120-
123.
81
‘prova’ mostra che essi presuppongono teorie delle funzioni del linguaggio
assolutamente inconciliabili.
82
cui parliamo del mondo. Se, quindi, per la teoria dell’identità il Mondo 2 di
Popper costituisce una provincia del Mondo 1 (per cui la sua interazione
causale con i processi del Mondo 1f diventa un fatto del tutto ovvio), per
Wittgenstein, potremmo dire, il Mondo 2 coincide con quel campo di
disposizioni cognitive (posto per ‘naturale assunzione’, come si afferma
esplicitamente in Z, § 608) che rappresenta il referente semantico delle
descrizioni fenomenologiche delle percezioni e degli atti mentali, e che si trova
in una relazione forse casuale (Popper direbbe cloud-like) con il cervello.
Inoltre, come emerge dai testi di Zettel citati, Wittgenstein è del tutto
coerente con la propria metodologia di ricerca elaborata nelle Note a Frazer e
nelle Ricerche filosofiche. Essa, come abbiamo visto, è basata
fondamentalmente sulla prescrizione di un uso meramente descrittivo del
linguaggio, sostenuto magari da un ricorso ad analogie acute, ardite e
rivelatrici. Egli pertanto, a rigor di termini, non argomenta (perlomeno
esplicitamente) né contro il parallelismo né a favore dell’emergentismo, ma
procede dapprima assumendo un punto di vista (quello per cui tra processi
mentali e processi cerebrali potrebbe sussistere un rapporto casuale e non di
coordinazione) e poi adducendo esempi (il riconoscimento di una persona vista
tempo prima e la riproduzione di un testo udito eseguita con l’ausilio di
annotazioni che non costituiscono una scrittura) ed analogie (quella,
straordinaria, del rapporto tra il seme e la pianta).
Da parte sua, Popper sviluppa una complessa argomentazione. Come
abbiamo visto nella nota 106, egli ha di mira soprattutto la teoria dell’identità
psico-fisica elaborata da Schlick e Feigl, e per criticarla in maniera
epistemologicamente efficace mostra innanzi tutto la sua relazione logica con il
parallelismo. Essendo la teoria dell’identità (I) un caso particolare di
parallelismo (P), è chiaro che essa lo implica logicamente (I → P) , per cui
ogni prova a suo favore è anche una prova a favore del parallelismo (modus
ponens). Ciò consente a Popper prima di esplicitare le prove empiriche più
forti di cui la teoria dell’identità disponga e di girarle al parallelismo, e poi di
produrre prove contro il parallelismo, che si ripercuotono automaticamente
contro la teoria dell’identità (modus tollens). In tal modo egli fornisce un
esempio paradigmatico dell’uso critico della logica, che così funge da standard
oggettivo dell’argomentazione.108
108
Una chiara e sintetica esposizione della filosofia popperiana della logica si può leggere in Popper
(1972), cap. 8, § 4, pp. 400-401: “Sono contrario a considerare la logica come un gioco. So dei sistemi
di logica cosiddetti alternativi e ne ho inventato in effetti uno io stesso, ma i sistemi di logica
alternativi possono essere discussi da punti di vista molto differenti. Si potrebbe pensare che sia una
questione di scelta o di convenzione quale logica si adotta. Non sono d’accordo con questo punto di
vista. - In breve la mia teoria è questa. Considero la logica come la teoria della deduzione o della
derivabilità, o comunque si preferisca dire. La derivabilità, o deduzione implica, essenzialmente, la
trasmissione della verità e la ritrasmissione della falsità: in un’inferenza valida la verità è trasmessa
dalle premesse alla conclusione. Questo uso può essere seguito soprattutto nelle cosiddette ‘prove’. Ma
la falsità è anche ritrasmessa dalla conclusione ad (almeno) una delle premesse, e questo uso è seguito
nelle controprove o confutazioni, e soprattutto nelle discussioni critiche. - Abbiamo delle premesse e
83
Queste due strategie critiche, come si è accennato, hanno alla base due
differenti teorie generali delle funzioni del linguaggio, sulle quali dovremo ora
soffermarci più dettagliatamente.
Nella sua analisi delle situazioni comunicative, Karl Bühler109 aveva
individuato tre funzioni principali del linguaggio, e cioè: 1) quella espressiva o
sintomatica (Kundgabefunktion / expressive o symptomatic function), per cui
noi manifestiamo i nostri stati interiori, 2) quella segnaletica o stimolativa
(Auslösefunktion / signalling o stimulative function), per cui noi liberiamo
certe reazioni verbali o comportamentali nel destinatario e 3) quella descrittiva
(Darstellungsfunktion / descriptive function), per cui noi trasmettiamo
informazioni intorno a qualcosa. Ma a queste tre funzioni distinte dal suo
“maestro”, Popper ha aggiunto una quarta (e fondamentale) funzione, e cioè
quella argomentativa o esplicativa (argumentative o explanatory function),
grazie alla quale noi discutiamo pro o contro una qualche proposizione (che
spesso è di tipo descrittivo) usando criteri di controllo come la ‘verità’
(standard già apparso con la funzione descrittiva), il ‘contenuto’, la
‘verosimiglianza’ e soprattutto la ‘validità’.
Questa quarta funzione comporta due conseguenze che Popper
considera “di somma importanza”:
1. Senza lo sviluppo di un linguaggio descrittivo esosomatico - un linguaggio
che, come uno strumento, si sviluppa al di fuori del corpo - non può darsi
nessun oggetto per la nostra discussione critica. Ma con lo sviluppo di un
linguaggio descrittivo (ed inoltre, di un linguaggio scritto) può emergere un
terzo mondo linguistico; ed è solo in questa maniera, ed unicamente in questo
terzo mondo, che possono svilupparsi i problemi e gli standard della critica
razionale.
2. È a questo sviluppo delle funzioni superiori del linguaggio che noi dobbiamo
la nostra umanità, la nostra ragione. Difatti, i nostri poteri raziocinativi non
sono altro che i poteri della nostra argomentazione critica.
una conclusione; e se mostriamo che la conclusione è falsa, e assumiamo che l’inferenza è valida,
sappiamo che almeno una delle nostre premesse deve essere falsa. In questo modo la logica è usata
costantemente nelle discussioni critiche, perché in una discussione critica tentiamo di mostrare che
qualcosa non è in accordo con qualche asserzione. Tentiamo di mostrarlo; e possiamo non aver
successo: la critica può essere validamente controbattuta dalla controcritica. - Ciò che desidererei
asserire è (1) che la critica è uno strumento metodologico di particolare importanza; e (2) che se voi
rispondete alle critiche dicendo, ‘non mi piace la vostra logica: la vostra logica può essere del tutto
giusta per voi, ma io preferisco una logica differente, e secondo la mia logica questa critica non è
valida’, allora potete mettere in pericolo il metodo della discussione critica. - Ora dovrei distinguere
fra due usi principali della logica, cioè (1) il suo uso nelle scienze dimostrative - cioè le scienze
matematiche - e (2) il suo uso nelle scienze empiriche. - Nelle scienze dimostrative la logica è usata
per lo più per far prove - per la trasmissione della verità - mentre nelle scienze empiriche è quasi
esclusivamente usata criticamente - per la ritrasmissione della falsità. [...] Così nelle scienze empiriche
la logica è usata soprattutto per la critica; cioè per la confutazione. (Ricordate il mio schema P 1 → TT
→ EE → P2).” Per il riferimento iniziale alle logiche alternative e al calcolo inventato dallo stesso
Popper, cfr. (1963a), cap. 15, § 1, nota 8 e testo relativo, pp. 545-546.
109
Cfr. in part. Bühler (1934), pp. 25-28. Per una più ampia rassegna di scritti di Bühler su questo tema
si veda la nota 13 di Popper (1982c), in Popper (1992), p. 54.
84
Questo secondo punto mostra la futilità di tutte le teorie del linguaggio
umano, le quali concentrano la propria attenzione sull’espressione e sulla
comunicazione (Popper 1972, cap. 3, § 4, pp. 167-168).110
110
Gli altri luoghi più notevoli in cui Popper tratta delle quattro funzioni del linguaggio sono: ivi, cap.
6, §§ XIV-XVII, pp. 307-315; (1963a), cap. 4, pp. 231-233 e cap. 12, § 2, pp. 502-503; ([1969],
1994b), cap. 4, pp. 113-139; (1976a), § 15, pp. 77-81; Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P3, § 17, pp.
76-79; (1982c), § XII, in (1992), pp. 42-47; (1984), cap. I, §§ VIII-IX, pp. 31-32; (1994c), cap. 4, § II,
pp. 112-114; ([1983], 1997), in Petroni e Viale (a cura di) (1997), pp. 1-37 (cfr. in part. p. 26 e ss.).
Un’esposizione della teoria delle tre funzioni del linguaggio si trova anche in Copi (1961),
cap. II, § 1, pp. 32-36), dove però non è mai fatto il nome di Bühler, né quello di Popper, che pure ha
esposto la propria teoria delle quattro funzioni sin dalla fine degli anni ’40 (cfr. il primo dei due luoghi
di Popper 1963a citati sopra). La cosa per noi interessante è però il fatto che Copi citi il § 20
dell’Introduzione del Trattato di Berkeley (dove c’è un accenno wittgensteiniano ante litteram ai
diversi “scopi” non comunicativi del linguaggio) e il § 23 delle Ricerche di Wittgenstein (dove c’è il
noto elenco dei diversi esempi di espressioni verbali implicanti differenti giochi linguistici). Ora, a suo
avviso, le tre funzioni principali del linguaggio costituiscono una semplificazione non banale della
famiglia di usi possibili indicata da Wittgenstein: “Si può mettere un certo ordine nella vacillante
varietà degli usi del linguaggio, dividendoli in tre categorie molto generali. La triplice divisione delle
funzioni del linguaggio che qui si propone è senza dubbio una semplificazione, ma non proprio, direi,
una super-semplificazione. In ogni caso è stata ritenuta utile da molti studiosi di logica e del
linguaggio” (p. 33). Questa osservazione conforta quanto diremo in seguito a proposito delle
conseguenze filosofico-metodologiche dell’invito wittgensteiniano a ignorare la funzione
argomentativa del linguaggio. Possiamo rilevare inoltre come, nel caratterizzare la funzione
“informativa”, Copi metta curiosamente sullo stesso piano la funzione descrittiva di Bühler e una
versione generica di quella argomentativa di Popper: “Quando il linguaggio è usato per affermare o
negare proposizioni o per presentare argomenti [corsivo mio] si dice che essa assolve la funzione
informativa. In questo contesto, usiamo la parola ‘informazione’ in un senso inclusivo anche
dell’informazione inesatta: per le proposizioni false e per quelle vere, per gli argomenti corretti e per
quelli scorretti [corsivo mio], il discorso informativo è usato per descrivere il mondo e per ragionarci
sopra” (ibid.). Ciò forse è una riprova del fatto che in genere i filosofi del linguaggio (e Wittgenstein
in particolare), anche laddove si preoccupano di individuare i differenti livelli funzionali del
linguaggio (com’è qui il caso di Copi), non mostrano alcuna consapevolezza del carattere
evolutivamente emergente (rispetto al livello meramente descrittivo) della funzione argomentativa, né
tantomeno delle conseguenze epistemologiche di questo fatto, sulle quali invece Popper ha insistito
così tanto.
85
falsa significa emettere un giudizio critico sulla teoria. L’idea di validità è
quindi correlata all’idea di funzione argomentativa o critica nello stesso modo
in cui l’idea di verità è correlata all’idea di funzione descrittiva o informativa:
dire che una critica o un’argomentazione è valida o non valida significa anche
emettere un giudizio critico su di essa. Con l’idea di validità dobbiamo però,
per così dire, fare un passo avanti nella critica, e giudicare criticamente le
nostre argomentazioni o le nostre critiche al fine di stabilirne la validità o non
validità.
Per riassumere. Le due funzioni basse del linguaggio sono molto più
profondamente trincerate nella composizione genetica del patrimonio ereditario
umano rispetto alle altre funzioni. Vi sono pochi dubbi, tuttavia, che la
funzione descrittiva, e con essa la capacità di apprendere regole grammaticali
in genere - sebbene non una particolare grammatica, che è cosa tradizionale e
istituzionale - e anche tradizioni quali il racconto di storie abbiano una base
genetica assolutamente specifica. E qualcosa di simile può dirsi anche della
funzione argomentativa, sebbene in questo caso le differenze individuali
sembrino essere molto più grandi, come mostra la presenza di geni matematici.
Tale funzione critica o argomentativa è divenuta immensamente importante
con la nascita della scienza nella scuola ionica, approssimativamente al tempo
di Talete - attorno al 500 a. C. Da allora la conoscenza oggettiva è divenuta
conoscenza scientifica (Popper [1969], 1994b, cap. 4, pp. 123-124).
Tutto ciò può essere riassunto tramite la seguente tabella, che Popper
usa per la prima volta nel luogo di Popper e Eccles (1977) citato nella nota
precedente:
funzioni valori
86
Si noti innanzi tutto l’ulteriore suddivisione del livello della funzione
descrittiva in una fase animale - che potrebbe partire già con la danza delle api
- e in una fase tipicamente umana, nonché il fatto importante che al sottolivello
‘animale’ appartenga solo lo standard della verità: ciò vuol dire che la funzione
descrittiva vera e propria, che renderà poi possibile la ricerca tentativa della
verità, poté nascere solo nel momento in cui un essere umano fu in grado,
poniamo, di gridare un “Al lupo!” di troppo (cfr. il luogo di Popper [1983],
1997 citato nella nota precedente). Inoltre, osserva Popper, il fatto che le due
funzioni inferiori appartengano sia al linguaggio umano che a quello animale
(e persino a quello vegetale, se si pensa che alcune piante non solo esprimono
il proprio stato, ma lanciano addirittura dei ‘segnali’ agli insetti), connesso poi
alla circostanza che esse risultano sempre presenti quando sono in gioco quelle
superiori, ha indotto molti al facile esercizio riduzionistico degli approcci
esclusivamente semiologici e fisicalistici al linguaggio umano. Il guaio però è
che tutto ciò, benché dettato da una assoluta buona fede intellettuale, può
condurre a conseguenze non intenzionali affatto irrazionalistiche, e quindi
esiziali dal punto di vista politico-culturale:
111
A proposito dell’approccio al linguaggio umano inteso come “verbal behaviour”, ovvero come
strumento espressivo e stimolativo, piuttosto che come veicolo di argomentazioni e contenuti oggettivi,
cioè di comunicazione razionale, cfr. l’aneddoto del “visitatore antropologico di Marte” - il quale
partecipa a un dibattito pubblico non per prendere parte attiva alla discussione, ma semplicemente (e,
aggiungerei io, wittgensteinianamente) per osservare i modi e le strategie linguistico-comportamentali
con i quali i parlanti interagiscono (impressionandosi, influenzandosi, prevaricando, cedendo etc.),
onde salvaguardare la propria assoluta obiettività - raccontato in Popper (1962), la celebre conferenza
inaugurale del congresso della Deutschen Gesellschaft für Soziologie tenutosi a Tubinga nell’ottobre
1961, che diede origine il cosiddetto Positivismusstreit tra Popper e la Scuola di Francoforte. Il testo
della conferenza è poi apparso anche nel volume Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie
87
Più sopra abbiamo argomentato contro l’idea popperiana che l’ultimo
Wittgenstein possa collocarsi tra i comportamentisti radicali, almeno per quel
che concerne il problema del rapporto mente-corpo. Tuttavia è difficile negare
il fatto che le interminabili analisi compiute da Wittgenstein sul linguaggio
umano nel suo uso quasi esclusivamente pragmatico, connesse poi con la
teoria dei giochi linguistici (i quali vengono a costituirsi come linguaggi-
mondo chiusi), siano esposte proprio al pericolo ravvisato da Popper. D’altra
parte l’atteggiamento riduzionistico di Wittgenstein emerge già nell’importante
pagina del Libro blu in cui egli fornisce la prima chiara (benché ancora
rudimentale) caratterizzazione della funzione euristica dei semplici “language
games” esemplificativi:
(1969), curato da H. Maus e F. Füstenberg (in Appendice all’ed. ingl. del 1976 è stato ristampato
Popper 1970 - ora cap. III di Popper 1994a - che contiene, fra l’altro, importanti puntualizzazioni
critiche sulla poca limpidezza di impostazione della prima ed. tedesca.) e costituito, oltre che dagli
interventi di Popper e Adorno al congresso, da una lunga introduzione polemica di Adorno e da vari
altri scritti (tra cui quelli del vivace dibattito tra Jürgen Habermas e Hans Albert seguito all’incontro-
scontro tra Popper e Adorno) non presentati al congresso. Il testo della conferenza di Popper
costituisce ora il cap. V di Popper (1984) (il passo sull’antropologo marziano si trova nella decima
tesi, pp. 78-80. Cfr. anche ivi, cap. VI, in part. pp. 100-104, dove si trova un abbozzo delle critiche ad
Adorno e Habermas compiutamente formulate in Popper 1970).
88
altro possibile uso del linguaggio, può essere ciò che Wittgenstein dice in GF,
I, § 135, che per taluni versi è un po’ inquietante:
89
Il paradosso è ancor più evidente se riuniamo i §§ 126-128 apponendo
le giuste connessioni logiche che si celano sotto le apparenze: poiché in
filosofia non occorrono spiegazioni e deduzioni, cioè argomentazioni, dal
momento che non v’è alcunché da spiegare, essendo tutto lì in mostra (cfr. §
126) e consistendo conseguentemente il lavoro del filosofo nella semplice
raccolta di memorie per uno scopo determinato (cfr. § 127), allora si deduce
che se in filosofia qualcuno volesse proporre ‘tesi’, non sarebbe possibile
discuterle, perché tutti sarebbero naturalmente d’accordo con esse (cfr. § 128),
trattandosi in realtà dell’esposizione, sotto la falsa apparenza di una
congettura, di ciò che ognuno sa, o dovrebbe sapere se vedesse rettamente le
cose. Come si vede, anche se in forma quasi aforistica, nel giro di questi
paragrafi Wittgenstein sviluppa una vera e propria argomentazione in favore di
una ‘tesi’ ben precisa, la tesi, cioè, che nella filosofia del linguaggio, dell’arte,
della religione, della psicologia, della matematica e della cultura, non
dovrebbero essere avanzate tesi, congetture, teorie esplicative ecc., ma soltanto
descrizioni perspicue, che il ricercatore dispone in maniera sinottica per
cogliere analogie morfologiche, somiglianze d’usi, connessioni funzionali e
così via. Ora, però, è del tutto evidente che questa non è una tesi con la quale
tutti saranno d’accordo, già per il semplice fatto che essa non esprime cose
superficiali e note a tutti, e poi anche perché le discipline menzionate
presentano, nelle loro storie in vario modo differenti, un ginepraio di tesi che
non possono essere d’un colpo accantonate come pura mitologia. Wittgenstein,
quindi, argomenta contro la possibilità delle argomentazioni, al pari di uno che
in una normale conversazione volesse convincere l’interlocutore che entrambi
sono in realtà dei sordomuti. Sicché, sulla base di un elementare teorema di
logica, secondo cui un asserto è falso se da esso segue la propria negazione: (a
→ ∼ a ) → ∼ a (si tratta della regola metalinguistica della prova indiretta, nota
anche come Consequentia Mirabilis), si può dire che la ‘tesi’ di Wittgenstein,
se è vera, è falsa (perché almeno essa stessa è già un’argomentazione), dunque
è falsa. Risulta chiaro, in altri termini, che la difficoltà principale consiste nel
fatto che Wittgenstein enuncia una metodologia della ricerca e una connessa
teoria della comprensione basate sulla esclusione radicale della funzione
argomentativa del linguaggio, ma nel far questo egli si serve proprio della
funzione argomentativa.112
112
Si ripete in tal modo la situazione di autocontraddittorietà di taluni snodi cruciali del Tractatus, così
come è stata evidenziata da Popper nell’importante nota 8 al cap. XXIV della Società aperta.
Esaminando la logica della prop. 3.332: “Nessuna proposizione può enunciare qualcosa sopra se stessa,
poiché il segno proposizionale non può essere contenuto in se stesso (ecco tutta la ‘Theory of Types’)”,
e della prop. 4.11: “La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle
scienze naturali)”, Popper rileva che esse sono non prive di senso ma semplicemente false
(contrariamente a ciò che dichiara lo stesso Wittgenstein nella prop. 6.54, adombrando l’idea
pericolosamente autoprotettiva, poi ammessa esplicitamente da Heidegger a proposito delle proprie
“domande e risposte relative al nulla”, che si tratti comunque di un nonsenso profondamente
significativo: cfr. Popper 1945, vol. II, cap. XII, nota 87, p. 416). Tali proposizioni, infatti, si
presentano come quella versione del paradosso del mentitore che consiste propriamente non di
90
Che ciò sia inevitabile, del resto, lo si può mostrare prendendo in
considerazione due esempi di ‘argomenti’ wittgensteiniani logicamente molto
‘forti’. Il primo stabilisce l’ineluttabile contingenza dei fatti interni al nostro
linguaggio-mondo (nel senso di T, prop. 5.6), trasferendo così la necessità sul
piano esclusivamente logico-grammaticale113; il secondo, invece, è il noto
argomento dei ‘coleotteri’, con il quale Wittgenstein confuta la concezione
della semantica dei termini psicologici che sta alla base dell’idea dell’esistenza
di un ‘linguaggio privato’.
A) L’argomento di Wittgenstein contro la possibilità di dire, nel
linguaggio, qualcosa che riguardi le proprietà essenziali del mondo, ovvero di
descrivere fatti necessari, può essere desunto dalle Lezioni 1930-1932, dove
91
egli osserva: «Il linguaggio può esprimere un metodo di proiezione in quanto
opposto a un altro. Esso non può esprimere ciò che non può essere altrimenti.
[...] Ciò che è essenziale del mondo non può essere detto del mondo; perché
allora quest’ultimo potrebbe essere diverso, così come ogni proposizione può
essere negata» (L 1930-1932, p. 53). Servendoci di alcune assunzioni
formulate da Wittgenstein poco prima, possiamo ricostruire l’argomento nella
forma seguente:
92
solita veste della semplificazione analogica esso nasconde una sottile
argomentazione in forma di reductio ad absurdum, ed è proprio in questa che
risiede la forza irresistibile del passo, facendocelo apparire come una
confutazione pressoché definitiva dell’idea che possa esistere qualcosa come
un linguaggio privato nel senso preciso specificato nel § 243 (un linguaggio,
cioè, le cui parole «dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere
conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private»):
parlarne in modo interpersonale. Dato che, per ipotesi, ogni coleottero* può essere visto solo dal suo
proprietario, tali confronti potrebbero avvenire solo tramite una qualche struttura o quadro di
riferimento pubblico [...]; ma ciò che conta è che la necessità di ricorrere ad esso non pregiudica
affatto la realtà delle esperienze private, né la nostra capacità di parlarne e di riferirci ad esse, di
descriverle e di nominarle” (ibid., § 4, pp. 355-356. Ho modificato la traduzione sostituendo, per
motivi di coerenza terminologica, “scarafaggio” con “coleottero”). Si consideri, in effetti, che allorché
Wittgenstein nel § 243 introduce il problema del linguaggio privato, dà per scontato che noi nel
linguaggio ordinario riusciamo ad esprimere le nostre “esperienze vissute interiori”, cioè i nostri
sentimenti, umori, ecc.
93
1. Assunzione naturale: i partecipanti al gioco si intendono sulla parola
“coleottero” (In uno studio dentistico, si suppone, ognuno sa abbastanza bene
cos’è il proprio ‘mal di denti’ o quello degli altri pazienti).
2. Assunzioni di sfondo: a) nessuno può guardare nella scatola dell’altro;
b) le scatole possono contenere oggetti diversi; c) ciascuno dà per scontato che
il proprio coleottero faccia parte del gioco comunicativo.
3. Problema: com’è stabilito il significato della parola “coleottero”?
4. Ipotesi: il significato di “coleottero” è fissato secondo una Bezeichnung
diretta e privata: ciascuno usa il proprio coleottero per definire ostensivamente
la parola “coleottero”.
5. Conseguenze deducibili dall’ipotesi:
5’) - (in congiunzione con le prime due assunzioni di sfondo) nessuno
potrebbe intendere l’altro quando pronuncia la parola “coleottero” se
“coleottero” significa solo “il mio coleottero”. Ma questo contraddice la 1.
5’’) - se ci si intende comunque, allora ciò avviene indipendentemente dal
coleottero di ciascuno, che così esce fuori dal gioco comunicativo. Ma ciò
contraddice la terza assunzione di sfondo.
6. Conclusione: l’ipotesi è in ogni caso inammissibile (per reductio ad
absurdum).
Cosa emerge da tutto ciò? Per limitarci al secondo esempio (ma il discorso vale
naturalmente anche per il primo, anche se esso è stato ricavato da un materiale
testuale sparpagliato e non di prima mano), considerato che la dimostrazione
dell’inesistenza della Bezeichnung nelle pratiche comunicative ordinarie è la
premessa decisiva per la conclusione dell’impossibilità del linguaggio privato,
tutto il PLA di Wittgenstein è importante e potente proprio perché è un
argomento nel senso schiettamente logico e critico del termine. Malgrado le
intenzioni esplicite e la forma apparentemente rapsodica e descrittiva, in esso è
celato un raffinato e stringente schema di confutazione che ha ben poco da
invidiare, ad esempio, al celeberrimo ‘argomento’ popperiano dei ‘cigni
bianchi’ contro l’induzione, posto in apertura alla Logica della scoperta
scientifica116; o a quello, sempre di Popper, contro la possibilità delle profezie
storiche, schematizzato in cinque passaggi inferenziali nella “Prefazione”
all’edizione del 1957 di Miseria dello storicismo.117
116
“Si è soliti dire che un’inferenza è ‘induttiva’ quando procede da asserzioni singolari (qualche volta
chiamate anche asserzioni ‘particolari’) quali i resoconti dei risultati di osservazioni o di esperimenti,
ad asserzioni universali, quali ipotesi o teorie. - Ora, da un punto di vista logico, è tutt’altro che ovvio
che si sia giustificati nell’inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose
siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per
quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la
conclusione che tutti i cigni sono bianchi” (Popper 1934, 1959, § 1, pp. 5-6).
117
“1) Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana [...]
2) Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della
conoscenza scientifica. [...]
3) Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.
94
Non è un caso, del resto, che, presentando l’‘argomento’ dei cervelli in
una vasca (altra Consequentia Mirabilis, questa volta sull’ipotesi: “Noi siamo
cervelli in una vasca”), Putnam dichiari: «questo argomento mi venne in mente
per la prima volta quando stavo pensando a un teorema della logica moderna,
ossia il teorema di Skolem e Löwenheim, e improvvisamente intravidi un
legame tra tale teorema e alcuni argomenti delle Ricerche filosofiche di
Wittgenstein».118 Ed è significativo che lo stesso Putnam, nello stesso libro,
discutendo criticamente la teoria relativistica dell’insuperabilità della prigione
intellettuale costituita dalla ‘cultura’ o, wittgensteinianamente, dalla ‘forma di
vita’ di appartenenza, evochi proprio il metodo popperiano
dell’argomentazione e della critica:
4) Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza sociale
storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo
storico che possa servire di base per la previsione storica.
5) Lo scopo fondamentale dello storicismo [...] è, quindi, infondato. E lo storicismo crolla” (Popper
1944-1945, pp. 14-15).
118
Putnam (1981), cap. I, pp. 13-15. Sul nesso tra il teorema di Skolem e Löwenheim (che riguarda la
possibilità di interpretare un qualsiasi formalismo in infiniti modi ‘sensati’, corrispondenti ad
altrettanti mondi possibili) e, ad es., l’argomento sul seguire e interpretare una regola (il famoso
‘paradosso di Kripkenstein’, di cui abbiamo parlato sopra), cfr. anche ivi, cap. III, p. 75.
95
96
CAPITOLO 3
119
In effetti, di fronte alla sterminata serie di semplici esempi di espressioni comuni di cui sono
costellati gli scritti postumi dell’ultimo Wittgenstein, si ha talvolta la sensazione che tutta questa
ostinazione da entomologo nell’analisi sintattica e semantica di forme espressive ordinarie abbia alle
spalle un equivoco di fondo: quello cioè di trascurare che se viene trattato con gli strumenti analitici di
un osservatore così consumato, il linguaggio comune perde inevitabilmente tutta la sua
multidimensionale e imprevedibile vividezza biologica e finisce col non comunicare più nulla che non
siano i codici ideologici istituzionalizzati e cristallizzati, dal momento che, come notava Marcuse
(1964, p. 210), “in tale trattamento analitico del linguaggio comune, quest’ultimo è veramente
sterilizzato ed anestetizzato”. Sul problema del carattere conservatore, se non addirittura reazionario,
della filosofia del linguaggio comune dell’ultimo Wittgenstein, si vedano inoltre Abbagnano (1953),
pp. 445-456; Gellner (1959); Miceli (1982), pp. 155-156 e 195-196; Nyíri (1988), pp. 91 ss.; per
ulteriori indicazioni, cfr. anche Valent (1989), p. 266.
97
assoluta’, possiamo disporre.120 Ma tutte queste cose, dal punto di vista di
Wittgenstein, dipendono da standard interni a un determinato gioco linguistico
e sono pertanto dotate di una ‘logica’ relativa al tipo di accordo più o meno
tacito su ciò che costituisce una teoria accettabile, ovvero una spiegazione
soddisfacente. Poiché, dunque, i modelli esplicativi e le asserzioni di controllo
fanno parte del corredo culturale che noi ereditiamo con la forma di vita, non è
possibile lamentare il fatto che Wittgenstein non abbia proposto strategie
analitiche e categorie metodologiche per uno studio storico e per una eventuale
critica trascendente dei giochi linguistici più generali (e magari
istituzionalizzati e usati come strumenti di pressione propagandistica e di
egemonia ideologica dalle classi o dalle forme di vita dominanti - qual è, ad
esempio, la forma di vita costituita dalla “grande corrente” della Zivilisation
euro-americana, dalla quale, come vedremo, Wittgenstein dichiarava di sentirsi
radicalmente estraneo), dal momento che tali strategie e categorie si porrebbero
inevitabilmente su di un piano metalinguistico avulso da un contesto di
pratiche d’uso culturalmente determinate, e in quanto tali destinate a girare a
vuoto. Wittgenstein, quindi, non può essere criticato tanto per il fatto di non
aver svolto analisi storico-genetiche, né tanto meno per non aver indicato il
modo in cui svolgerle, quanto, piuttosto, per aver elaborato (e di fatto
praticato, seppur nei limiti della paradossalità rilevata sopra) una metodologia
di ricerca per le cosiddette ‘scienze umane’ che esclude strutturalmente un
approccio storico in grado di espletare una funzione critica oltre che
strettamente teorico-conoscitiva.
Nell’ultimo capoverso dell’ ampio passo de La teoria del pensiero
oggettivo che abbiamo citato nel capitolo precedente, in cui Popper enuncia la
propria teoria del processo di comprensione, si trovano rapidi riferimenti sia al
concetto di “sfondo”, costituito almeno dal linguaggio usato, sia alle ricerche
di Whorf, le quali vengono discusse più ampiamente ne Il mito della cornice in
relazione agli (in qualche modo) analoghi punti di vista di Quine, Kuhn e
Feyerabend. Una riconsiderazione di questo dibattito alla luce delle analisi che
abbiamo condotto sul tema delle funzioni del linguaggio, ci darà modo di trarre
delle conclusioni riguardanti specificamente il senso che assumono in
Wittgenstein le “conseguenze disastrose” degli approcci riduzionistici al
linguaggio umano paventate da Popper.
120
Sull’importante equazione “oggettività = controllabilità intersoggettiva”, cfr. in particolare Popper
([1930-1932], 1979), § 9, p. 68 (dove l’equazione ricorre testualmente) e § 11, pp. 93-94; (1934,
1959), § 8, p. 27; (1944-1945), § 32, pp. 136-137; (1945), vol. II, cap. XXIII, pp. 285-286; (1962), ora
cap. V di (1984), in part. le tesi VI e X-XIV, pp. 75-76 e 78-83; (1963a), cap. 1, “Appendice”, punto
12, p. 113. Un’efficace sintesi di tale nozione si trova nel seguente passo di ([1956], 1983), parte I,
cap. I, § 3 (X), p. 75: “L’oggettività non è il risultato dell’osservazione disinteressata e senza
pregiudizi. L’oggettività, ed anche l’osservazione imparziale, sono il risultato della critica, compresa
quella dei resoconti osservativi, giacché noi non possiamo eliminare o sopprimere le nostre teorie, o
impedire che influenzino le nostre osservazioni; possiamo però tentare di riconoscerle come ipotesi, e
di formularle esplicitamente, così che possano venire criticate”.
98
Secondo Popper, è bensì innegabile che noi non partiamo mai da nulla.
Il nostro punto di partenza è sempre almeno una conoscenza di sfondo che
momentaneamente, per le esigenze specifiche della ricerca nella quale siamo
impegnati, poniamo al di là della critica. Tale sfondo consiste di solito di parti
della conoscenza del senso comune, della situazione problematica entro la
quale emerge il problema da cui prendiamo le mosse, di teorie che risultano
ben corroborate al tempo in cui ci si trova, nonché di quella che, con lo stesso
Wittgenstein, possiamo anche chiamare la ‘mitologia’ che giace nella
grammatica del linguaggio di cui ci serviamo.121 Ma uno sfondo siffatto,
benché possa in qualche modo predeterminare inizialmente la prospettiva o la
“cornice” ontologica e categoriale entro cui organizziamo la nostra esperienza
quotidiana, formuliamo le teorie scientifiche ed eseguiamo i controlli
sperimentali, non può costituire ipso facto una sorta di carcere kafkiano già per
il semplice motivo che riusciamo a prenderne consapevolezza e a descriverlo
(almeno in parte) in termini oggettivi. A trasformarlo in un carcere
trascendentale, in un orizzonte quasi teologico e irrimediabilmente invalicabile
(finché si rimane entro lo stesso gioco linguistico), concorre soprattutto una
forma di “scetticismo radicale”122 e ostinato che rinuncia irresponsabilmente a
porre l’ideale regolativo della verità oggettiva come guida delle nostre capacità
creative e critiche, le quali sole ci permettono di superare l’insoddisfazione per
121
Come si legge in una delle Note a Frazer, “nel nostro linguaggio si è depositata un’intera mitologia”
(NF, p. 31 = BT, § 93e, p. 434, ora in F, p. 83). Ma si veda anche BT, § 90, pp. 422-425 (ora in F, pp.
51-61). È stato osservato che questa idea wittgensteiniana si ritrova quasi alla lettera in Nietzsche: cfr.
ad es. Nietzsche (1878), vol. II, parte II, af. 11 (dove fra l’altro si parla di eine philisophische
Mythologie in der Sprache versteckt, “una mitologia filosofica nascosta nel linguaggio”) con OF, §
24b; Z, § 211; GF, I, § 18b (luoghi, questi, in cui ricorre l’espressione Mythus des Symbolismus, a
indicare qualcosa di misterioso ed essenziale che in filosofia siamo tentati di introdurre invece di dirci
semplicemente quel che ognuno di noi sa) e con RF, §§ 97 e 116. Su questo punto si veda anche
Gargani (1983), in LBM, p. XXX. Per un confronto Nietzsche-Wittgenstein sulla base del comune
atteggiamento anti-platonico nella critica radicale dei fondamenti logici e metafisici delle strutture del
sapere occidentale, cfr. Cacciari (1976), cap. 2, pp. 56-98; sul rapporto di Nietzsche (1873a) con tutta
la problematica contemporanea del relativismo ontologico, sollevata a partire dagli approcci più
diversi - dal kantismo scettico al ‘pensiero debole’, dall’ipotesi Sapir-Whorf alle epistemologie post-
popperiane, per arrivare fino al decostruzionismo -, cfr. le osservazioni contenute in Eco (1997), 1.9,
pp. 30-37. Vale la pena poi ricordare che una menzione diretta, anche se non esplicita, di Nietzsche
(1878) si trova in una nota del 1947 di PD, p. 115: “Nietzsche scrive da qualche parte che anche i
migliori scrittori e pensatori hanno scritto cose mediocri e brutte e che da queste hanno poi sceverato
appunto le cose buone”, per cui cfr. Nietzsche (1878), vol. I, af. 155.
Per la nozione popperiana di “conoscenza di sfondo”, cfr. Popper (1934, 1959), Appendice
*IX, pp. 452 e 456; (1963a), cap. 3, § 5, p. 194; cap. 10, § XV, p. 408 s.; cap. 11, § 6, p. 491;
Addenda, 2, pp. 661-664; (1972), cap. 2, § 2, p. 59; § 7, pp. 75-78; § 17, p. 100; § 22, p. 111; cap. 4, §
10, p. 237; ([1956], 1983), parte I, cap. IV, § 31, pp. 250-258; § 32, p. 266 s.; parte II, cap. I, § 7, pp.
308-311; cap. II, § 10, pp. 321-325; Addendum 1981, § II, pp. 354-356; ([1969], 1994b), cap. 6, pp.
178-180.
122
Nel senso in cui usa tale espressione Imre Lakatos in Il tradimento della ragione da parte degli
intellettuali (breve saggio di incerta datazione, comunque anteriore al 1967, pubblicato per la prima
volta come cap. 10 di Lakatos 1996, pp. 321-325): “Per lo scettico radicale ‘crescita della conoscenza’,
‘standard intellettuali’ [sono] frasi vuote. La storia delle idee è stata la storia di credenze concorrenti,
prive di razionalità oggettiva. Il ‘comportamento verbale’ [è] mera autoespressione” (p. 321).
99
un certo ordine di cose prestabilito (riguardante la politica, la società, le
credenze, la scienza e persino il linguaggio stesso) immaginando, vagliando e
selezionando - col metodo per prova ed errore - alternative ardite tramite la
discussione razionale.
Come mostrano le critiche avanzate da Popper contro le tesi di Lee
Whorf, Quine, Kuhn e Feyerabend concernenti soprattutto
l’incommensurabilità dei linguaggi-mondo e l’indeterminatezza ineludibile
della traduzione da un linguaggio-mondo a un altro, il relativismo cui
pervengono queste posizioni è per molti versi il frutto di un pessimismo
epistemologico troppo arrendevole di fronte a reali problemi filosofici di
carattere linguistico ed ontologico. Tale relativismo, infatti, non consegue
logicamente dall’idea che il riferimento a una data realtà e la stessa procedura
di verifica sono in gran parte interni a uno schema concettuale e classificatorio
culturalmente predefinito, vale a dire alla specifica ontologia di un linguaggio
naturale oppure a un paradigma scientifico prodotto da una data civiltà in una
determinata fase storica.
Per mostrare questo fatto sarà utile vedere più da vicino la posizione
assunta da Hacking (1982). Tale posizione è particolarmente interessante per il
tentativo teorico che stiamo compiendo di individuare e sottolineare quel
fattore epistemologico che isola e rende fondamentalmente estranea la
metodologia del Wittgenstein antropologo da tutti quegli approcci che più o
meno esplicitamente si richiamano ad essa. Hacking, infatti, pur avendo come
scopo principale quello di scongiurare il relativismo, nondimeno si dichiara più
vicino a Feyerabend che a Popper, sulla base dell’idea che l’“arci-
razionalismo” da lui stesso proposto, caratterizzato da una estrema tolleranza
nei confronti delle diverse possibili ragioni (che egli chiama “stili di
ragionamento”), sia più compatibile con l’“anarco-razionalismo” piuttosto che
con il “razionalismo critico” - viziato, a suo dire, da velleità imperialistiche. 123
Contro gli schemi concettuali di Quine, i paradigmi di Kuhn e i sistemi teorici
incommensurabili di Feyerabend, che comportano l’attribuzione di un valore
di verità a un corpus più o meno rigido di asserzioni, Hacking introduce la
nozione di “stile di ragionamento”, all’interno del quale non vengono tanto
assegnati valori di verità, quanto create le possibilità per la verità-o-falsità di
quel gruppo di enunciati il cui senso dipende dallo stile di ragionamento stesso.
Uno stile di ragionamento, pertanto, non stabilisce quale nucleo di asserzioni
sia da considerarsi vero; esso, piuttosto, stabilisce gli standard per le
procedure di verifica e di assegnazione dei valori di verità. Questa nozione
consente ad Hacking di risolvere in termini antirelativistici sia il problema
dell’incommensurabilità che quello dell’intraducibilità. Per prima cosa, egli ne
spezza l’interdipendenza reciproca: «la tesi dell’incommensurabilità afferma
che non vi è semplicemente nessun modo di tradurre uno schema in un altro.
123
Cfr. Hacking (1982), tr. it. in Egidi (a cura di) (1988), pp. 187 e 202.
100
Di conseguenza, essa spinge in una direzione esattamente opposta a quella di
Quine. La tesi dell’indeterminatezza afferma che vi sono troppe traduzioni tra
schemi, mentre quella dell’incommensurabilità dice che non ve n’è nessuna»
(ibid., p. 195). Tanto la tesi dell’incommensurabilità quanto quella
dell’indeterminatezza, poi, si basano sull’idea (erronea) che la comprensione di
un corpus estraneo di concezioni presupponga la scoperta di quel nucleo di
verità di tale corpus che si accordi con le nostre concezioni; ora, poiché
l’intraducibilità rende impossibile questa scoperta, esse concludono che non si
dà alcuna comprensione vera tra schemi concettuali differenti. Secondo
Hacking, l’errore sta proprio nell’«idea di una corrispondenza tra enunciati che
preserva la verità» (ibid., p. 196). Comprendere una cultura diversa dalla
nostra non significa penetrare nel suo nucleo di verità, ma, potremmo dire con
Wittgenstein, imparare un nuovo gioco linguistico, seguire nuove regole:
«comprendere quel che è abbastanza insolito significa riconoscere nuove
possibilità di verità-o-falsità e imparare il modo di usare altri stili di
ragionamento riguardanti quelle nuove possibilità. Arrivare a comprendere non
è propriamente una difficoltà di traduzione, anche se stili a noi estranei la
renderanno difficile. Il problema non è certo quello di progettare traduzioni
che preservino il più possibile la verità, perché ciò che è vero-o-falso in un
certo modo di parlare può non avere molto senso in un altro, fino a che non si
sia imparato a ragionare in un modo nuovo. Comprendere è imparare come
ragionare» (ibidem). Dichiarandosi d’accordo con la conclusione, anche se non
con le premesse,124 della critica di Davidson all’‘idea stessa di schema
concettuale’, Hacking riassume la propria posizione nei seguenti cinque punti:
124
“La mia diagnosi è che Davidson, come Quine, presuma che uno schema concettuale è definito in
termini di ciò che vale come vero piuttosto che in termini di ciò che vale come vero-o-falso” (ibid., p.
198).
101
Certo, Hacking riconosce che anche in una posizione siffatta si
annidano i “germi del relativismo” (ibid., p. 192). Tuttavia, anche se non è
possibile appellarsi a una meta-ragione che sia in grado di giustificare, e di
porre così al di sopra degli altri, un determinato stile di ragionamento (come
ad esempio quello galileiano, entro cui si trova ancora oggi ad operare la
scienza), dal momento che qualsiasi giustificazione agisce dall’interno di uno
stile di ragionamento - una via d’uscita dal relativismo, secondo Hacking,
esiste. Finché i nostri scopi continueranno ad essere quelli della ricerca
razionale della verità, allora non vi è dubbio che lo stile galileiano, arricchito
dalla metodologia popperiana delle congetture e confutazioni e da quella
lakatosiana dei programmi di ricerca scientifici, può essere considerato l’unico
stile di ragionamento che finora ha dato i frutti migliori, e non perché si sia
dimostrato un infallibile cacciatore di verità, ma perché è costitutivamente
aperto a sempre nuovi problemi e a sempre nuove modalità di ricerca e di
soluzione. E questo deve riconoscerlo anche l’anarco-razionalista impegnato
nella strenua difesa della libertà di proliferazione di ogni altro stile diverso dal
nostro.125
Tutto ciò dimostra, se non altro, che il modo di presentarsi di talune
posizioni relativistiche post-wittgensteiniane permette di operare una
reinterpretazione sulla base della quale, utilizzando in parte la loro stessa
grammatica epistemologica,126 è possibile disinnescarne le implicazioni più
125
Cfr. ibid., pp. 201-202. È chiaro che alla luce del punto di vista sostenuto in questo libro, una tale
conclusione è difficilmente conciliabile con l’idea, avanzata da Marconi, secondo cui ciò che Hacking
chiama ‘stile di ragionamento’ “è molto simile a quel che Wittgenstein aveva in mente quando parlava
del rapporto tra senso e regole del gioco linguistico” (Marconi 1987, cap. VII, § V, p. 136, nota 13). Su
questo punto dell’interpretazione di Marconi torneremo più avanti, nel cap. 5.
126
In tal senso sono particolarmente significativi due tentativi. (a) Quello, compiuto da Wolfgang
Stegmüller (al quale peraltro si devono diversi lavori su Wittgenstein, tra cui quello, citato in Addenda,
1, punto IV, in cui è analizzata l’eredità wittgensteiniana nelle epistemologie relativistiche e
strumentalistiche che considerano la scienza uno Sprachspiel come un altro), di conciliare
dialetticamente Popper e Kuhn a partire da una ‘concezione strutturalistica delle teorie’
dichiaratamente più kuhniana che popperiana, in nome di un’immagine razionale della scienza
normale e delle rivoluzioni scientifiche, e contro l’irrazionalismo, il soggettivismo ed il relativismo
(con risultati, per la verità, assai simili a quelli di Lakatos). Cfr. Stegmüller (1979), in Egidi (a cura di)
(1988), pp. 69-85. C’è da dire, però, che tale tentativo è convincente più per la reinterpretazione
razionalistica di Kuhn (ed è questo che qui ci interessa maggiormente) che non per le presunte
correzioni apportate all’epistemologia di Popper. Stegmüller, per esempio, si avventura in una
“giustificazione logica” della non confutabilità empirica delle teorie, condotta sul calco di quella
formulata da Popper per la non verificabilità: “l’uomo può solo fare un numero finito di tentativi.
Nessun numero finito di tentativi falliti di sviluppare con successo una teoria in un reticolo di leggi
costituisce una prova conclusiva del fatto che tale reticolo non esiste. Esso poteva sì esistere ma non
essere stato scoperto” (ibid., p. 75). Con ciò egli vuole fornire una dimostrazione rigorosa del fatto,
messo in luce da Kuhn, “che nello sviluppo della scienza non vi è nessuna procedura che abbia la più
pallida somiglianza con il modello della falsificazione proposto da Popper” (ibid., pp. 71-72. Cfr.
anche Kuhn 1962, 1970, cap. VIII, pp. 103-104 e cap. XII, pp. 177-178). Ma così facendo Stegmüller
mostra di accettare in maniera del tutto acritica il Popper di Kuhn, cioè lo stereotipo del
‘falsificazionista ingenuo’ che, come Popper ha dimostrato chiaramente, non è mai esistito se non nella
mente di Kuhn (cfr. a tal proposito Popper [1956], 1983, “Introduzione 1982”, § I, pp. 11-12 e § IV,
pp. 20-23; ma si veda anche § II, pp. 14-19, dove Popper, pur negando di aver mai sostenuto che si
102
irrazionalistiche e ricondurle su di un piano in cui diventa inevitabile il
riconoscimento di regole del gioco argomentativo oggettive e imprescindibili
per una discussione razionale.
II
103
rivoluzione ideologica è addirittura ‘messa in scena’ al termine del
‘dibattimento’ (nelle Eumenidi) sulla sorte di Oreste: si tratta del passaggio -
per usare categorie antropologico-culturali ormai di uso comune - da un ordine
matriarcale, in cui vigeva il diritto naturale del sangue e della vendetta
incarnato dalle Erinni (tipiche divinità ctonie e ‘uterine’), a un ordine
patriarcale, in cui vige invece il diritto positivo del Logos e dell’Areopago,
voluto da Apollo e Atena (divinità solari e ‘virili’ per eccellenza).128
Ebbene, come si articola questo “passaggio” nella struttura logica che
soggiace alla sequenza delle azioni tragiche dell’Orestea, dall’assassinio di
Agamennone da parte di Clitennestra ed Egisto (Agamennone) alla vendetta di
Oreste (Coefore), e dal folle peregrinare di quest’ultimo, incalzato dal furor
delle Erinni, fino alla sua ‘assoluzione’ da parte del tribunale di Atene
(Eumenidi)? Facendo propria l’idea - espressa da Aristotele in un celebre passo
della Poetica (1451 b 5-6) - secondo cui la tragedia è più filosofica della
storia, Feyerabend rileva che
104
spaventoso di quello che è chiamato a vendicare. Pensiero e azione sono
paralizzati, a meno che non mutino le condizioni che dettano che cosa si deve o
non si deve fare e un tale cambiamento si profila effettivamente verso la fine
della trilogia. Osserva la forma dell’“argomentazione”: c’è un ventaglio di
possibili azioni. Ogni azione conduce alla propria impossibilità. Così la nostra
attenzione si rivolge verso il principio da cui l’azione è richiesta e che, tuttavia,
la dichiara impossibile. Il principio viene smascherato e viene suggerita
un’alternativa. Argomentazioni di questa forma sono rintracciabili in Senofane
e più tardi, in forma ancor più esplicita, in Zenone (con i suoi paradossi del
movimento). Inoltre, sono alla base anche di alcuni moderni paradossi logici,
come quello di Russell. Allora possiamo dire che la trilogia combina il
resoconto fattuale sulle condizioni sociali con la critica di queste condizioni e
il suggerimento di un’alternativa (ibid., pp. 71-72: corsivi miei). 129
105
come Feyerabend al di qua del baratro di quelle conseguenze irrazionalistiche e
veramente relativistiche cui non può sfuggire l’ultimo Wittgenstein col suo
rifiuto della validità epistemologica della funzione esplicativo-argomentativa
del linguaggio. Cosa potrebbe voler dire, infatti, che c’è incommensurabilità
tra l’ideologia matriarcale e quella patriarcale, così come emergono nell’analisi
di Feyerabend?132 La legge delle Erinni e quella di Apollo sono due diverse
ideologie basate ciascuna sulla propria teoria biologica; tali teorie, inoltre,
risultano tra loro logicamente incompatibili, e quindi non incommensurabili.
La terza legge, invece, quella cioè di Apollo e Atena, che dà origine a una
“forma di vita” in cui le Erinni diventano Eumenidi (ovvero le “Benevole”) e
sono elette a patrone della città di Atene, può essere interpretata come una
sorta di sintesi dialettica delle prime due, poiché «le antiche differenze furono
mantenute quali differenze di approssimazione» (Feyerabend 1996, p. 37). In
maniera del tutto analoga, rileva lo stesso Feyerabend, l’ordine planetario di
Newton, basato su una legge per principio indipendente da fattori spazio-
temporali, conservò talune differenze del sistema di Copernico (la necessità di
critica e un confronto dei vari quadri [frameworks] è sempre possibile” (ibid., p. 193. Cfr. anche p.
226, nota 128, p. 227, nota 130, e p. 235). Il testo di Popper discusso da Feyerabend, e da cui è tratto il
passo citato, è La scienza normale e i suoi pericoli, uscito in Lakatos e Musgrave (a cura di) (1970) (il
passo è a p. 127). La più ampia e dettagliata confutazione da parte Popper degli argomenti relativistici
basati sulla incommensurabilità delle cornici [frameworks] culturali e sulla theory ladenness of
perception si trova in Popper ([1965], 1976b), ora cap. II di Popper (1994a): cfr. in part. i §§ 13-16,
pp. 83-92, dove, dietro Kuhn, che Popper attacca esplicitamente ma di cui accetta le
controargomentazioni (cfr. la nota 19, p. 94), sono facilmente riconoscibili come veri bersagli polemici
anche i mai menzionati Wittgenstein e Feyerabend.
132
Questo interrogativo vale a fortiori alla luce del seguente passo tratto sempre dal cap. 17 di Contro
il metodo: “è vero che sistemi incommensurabili e concetti incommensurabili possono presentare
molte somiglianze strutturali, ma ciò non toglie che taluni principi universali di un sistema siano
sospesi dall’altro. E’ questo fatto a stabilire l’incommensurabilità, nonostante alcune somiglianze che
si possono scoprire” (Feyerabend 1975, pp. 230-231), poiché nel caso in questione l’accento è stato
posto esclusivamente sui “principi universali” in gioco. Si noti peraltro il tono wittgensteiniano usato
da Feyerabend per introdurre alla nozione di incommensurabilità: “Poiché l’incommensurabilità
dipende da classificazioni nascoste e implica importanti mutamenti concettuali, difficilmente si riesce
mai a darne una definizione esplicita. Né le ‘ricostruzioni’ abituali riusciranno a portarla in luce. Il
fenomeno dev’essere dimostrato, il lettore dev’essere condotto a prenderne coscienza attraverso la
presentazione di una grande varietà di casi e deve giudicare da sé. Questo sarà il metodo che
adotteremo nel presente capitolo” (ibid., p. 187). Ma in che cosa consiste più esattamente
l’incommensurabilità tra due concezioni del mondo A e B? Essa consiste nel fatto “che non possiamo
confrontare i contenuti di A e B. Fatti A e fatti B non possono essere giustapposti, neppure nella
memoria: la presentazione di fatti B comporta la sospensione di principi assunti nella costruzione di
fatti A. Tutto quel che possiamo fare è disegnare immagini B di fatti A. Non possiamo usare
formulazioni linguistiche A di fatti A in B. Né è possibile tradurre il linguaggio A nel linguaggio B.
Ciò non significa che non possiamo discutere le due concezioni: la discussione non può però avvenire
nei termini di una qualsiasi relazione logica (formale) fra gli elementi di A e gli elementi di B. Essa
dovrà essere ‘irrazionale’ com’era irrazionale il discorso di coloro che erano intenti a lasciare A per
accedere in B” (ibid., p. 225). Ora, non è difficile rendersi conto che questo quadro disperante è
inconciliabile proprio con la discussione condotta da Feyerabend intorno all’Orestea, discussione che
non solo si serve di strumenti tratti dalla logica formale per quel che riguarda l’interpretazione del
contenuto del testo, ma implica anche che l’approccio di coloro che allora intendevano comprendere e
cambiare l’ordine istituzionale vigente era tutt’altro che irrazionale. Per importanti precisazioni sulla
nozione feyerabendiana di incommensurabilità, cfr. Corvi (1992), cap. II, § 3, in part. pp. 86-87.
106
talune assunzioni specifiche per il percorso di qualche pianeta - come ad
esempio per il perielio anomalo di Mercurio), che a sua volta aveva conservato
talune differenze del sistema di Tolomeo, basato invece sulla specificità del
calcolo per ciascuna orbita (cfr. ibid., pp. 36-37).
Si può osservare, a questo proposito, che già in Che cos’è la dialettica?
lo stesso Popper aveva riconosciuto allo schema triadico hegeliano la capacità
di costituire in qualche caso una buona approssimazione del metodo per prova
ed errore, in quanto esso «descrive abbastanza bene certi tratti della storia del
pensiero e soprattutto taluni sviluppi di idee e di teorie, e dei movimenti sociali
che su queste sono basati» (Popper 1940, in Popper 1963a, cap. 15, § 1, p.
534), anche se poi «questo fatto non può giustificare l’accettazione del metodo
dialettico come qualcosa di fondamentale, poiché lo stesso può essere spiegato
senza abbandonare il dominio della logica ordinaria, se ricorriamo al
procedimento del metodo per prova ed errore» (ibid., § 2, p. 558).133. Entro
l’ottica - per la verità ormai ben poco hegeliana - di queste limitazioni, è allora
possibile leggere l’intero processo anche in termini in qualche modo dialettici.
Il momento del ‘conservare’ - nell’Aufhebung che si realizzerebbe al termine
della trilogia - può essere ad esempio illustrato con le parole particolarmente
efficaci di Pier Paolo Pasolini (1960, p. 3): «Certi elementi del mondo antico,
appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto,
acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l’irrazionale,
rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (ché poi sarebbe
impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione
producente e fertile. Le Maledizioni si trasformeranno in Benedizioni.
L’incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria
dell’angoscia esistenziale o della fantasia nella società evoluta». Il momento
del ‘toglier via’, invece, cioè l’eliminazione dell’errore che rende
contraddittoria la situazione di Oreste, è proprio la confutazione - tramite il
‘caso’ di Atena - della teoria biologica presupposta dalle Erinni, e la sua
sostituzione con quella, più profonda e comprensiva, di Apollo.
Si può rilevare, inoltre, come la vicenda dell’Orestea costituisca anche
un eccellente esempio in cui la ‘retorica della scienza’ (in questo caso quella di
Apollo) si intreccia con una ‘logica del progresso’ che rispetta quasi alla
lettera le regole di falsificazione e di accettabilità del falsificazionismo
sofisticato di cui parla Lakatos:
107
del contenuto eccedente di T’ è corroborato (Lakatos 1970, § 2, punto c, in
Lakatos e Musgrave [a cura di] 1970, p. 191).
Ora, noi abbiamo una teoria biologica (matriarcale) T che attribuisce alla
femmina il ruolo decisivo nella generazione e nella trasmissione del ‘sangue’.
Questa teoria, pur avendo dalla propria parte un numero esorbitante di
evidenze corroboranti, deve fare i conti con una “anomalia”, e cioè con la
nascita di Atena, vietata da T. Quest’anomalia viene però spiegata con l’aiuto
di una versione più completa del mito, ovvero con ciò che potremmo chiamare
un’ipotesi ad hoc: Zeus è stato una semplice incubatrice, perché Atena è in
realtà nata da Meti, la quale era stata inghiottita dal marito mentre era
incinta.134 In questo modo la teoria sopravvive finché qualcuno non introduce
una nuova teoria biologica (patriarcale) T’, la quale: (1) ha un contenuto
addizionale da cui si deduce immediatamente ciò che per T era una anomalia,
ovvero un fatto escluso; (2) spiega, delimitandone il campo di validità, e
quindi in qualche modo correggendolo, il successo di T, cioè conserva come
verità prima facie il contenuto non confutato di T (in effetti sembra,
dall’esperienza quotidiana che si ha dei parti, che la femmina abbia un ruolo
preponderante nella trasmissione del ‘sangue’); (3) reinterpreta la nascita di
Atena in modo che essa diventi per sé una corroborazione e per T una
“evidenza contraria”, cioè un’istanza falsificante (in Eschilo, si noti, non c’è
alcuna traccia della versione ad hoc della nascita di Atena, e in tale silenzio,
potremmo dire forzando un po’, si mostra l’abilità retorica di Apollo). A
questo punto, la confutazione di T ad opera di T’, per dirla con le parole di
Popper, è «seguita da una ristrutturazione rivoluzionaria e, ciò nondimeno,
conservatrice» (Popper [1956], 1983, p. 20): l’accettazione della teoria di
Apollo come cardine della nuova ‘forma di vita’ istituita da Atena comporta da
un lato l’abbandono della teoria sostenuta dalle Erinni nella sua forma forte,
cioè nella sua pretesa di costituire la vera e unica spiegazione dei meccanismi
riproduttivi, e dall’altro la sua sopravvivenza nel nuovo quadro culturale come
soluzione approssimativa e da ‘senso comune’ al problema biologico della
generazione.
Siamo di fronte, quindi, a un fenomeno di rivoluzione ideologica
interpretabile in gran parte (e nei limiti consentiti dalla nostra fallibilità) in
termini non già wittgensteiniani, gestaltici o kuhniani, ma variamente
razionali. Di volta in volta, infatti, e se si vuole con vari gradi di
comprensione, ci si può servire di moduli analitici oggettivi - cioè da Mondo 3
- tratti o dalla dialettica hegeliana oppure dal falsificazionismo ingenuo (per
134
Cfr. Esiodo, Teogonia, vv. 886-900. Si noti che Esiodo sembra accettare la verità di T, come si vede
anche dal fatto che subito dopo egli narra di come Era generò Efesto senza essersi unita in amore: cfr.
ibid., vv. 927-928. Tuttavia Esiodo è ambiguo, perché al v. 924, per giustificare la gelosia di Era e la
sua volontà di competere col marito, dice che Zeus generò “da solo” Atena, al pari delle altre fonti più
antiche: cfr. Iliade, V, 875 e 880; Inni omerici, III, 307-323 e XXVIII, 4.
108
inciso, si può osservare che Feyerabend ha utilizzato entrambi135), oppure
ancora, come abbiamo appena visto, dal falsificazionismo sofisticato, e così
via. Inoltre, gli stessi interpreti più antichi, ed Eschilo in particolare, come fa
notare assai bene Feyerabend, avevano colto chiaramente non solo le
drammatiche ripercussioni sull’‘attualità’ di un tale rivolgimento, ma anche la
sua logica interna, dai problemi pratici e teorici sollevati dalla situazione
iniziale fino al tentativo di soluzione politica, giuridica, ideologica e religiosa
dell’impasse in cui viene a trovarsi Oreste dopo l’uccisione della madre
assassina.
È ovvio, tuttavia, che le cose non stanno sempre così. La razionalità
non è la regola nelle rivoluzioni ideologiche, così come l’irrazionalità non lo è
in quelle scientifiche. Su questo punto la posizione di Feyerabend sulla
“scienza come arte”, grazie soprattutto al suo riconoscimento razionale del
ruolo giocato dalla logica argomentativa almeno in un caso come quello che
abbiamo visto, ha molta meno strada da percorrere con Wittgenstein che con
Popper, il quale, dal canto suo, proprio in nome dell’unicità del metodo delle
congetture ardite (ovvero non-normali e in qualche modo addirittura
anarchiche - almeno per quel che riguarda la psicologia della scoperta136) e
dell’eliminazione dell’errore, non ha avuto alcuna difficoltà ad asserire, in un
passo che potrebbe benissimo trovarsi negli scritti di Feyerabend, che «la
scienza, dopo tutto, è una branca della letteratura; e il lavoro scientifico è
un’attività umana come costruire una cattedrale» (Popper 1972, cap. 4, § 11, p.
241).
In effetti l’ultimo Wittgenstein, chiuso in un isolamento solipsistico da
entomologo del linguaggio e coerentemente riluttante ad ogni tipo di confronto
aperto di tesi filosofiche in competizione (peraltro ritenute impossibili o, a
limite, banali: cfr. RF, § 128), si trovò a difendere un approccio ai fenomeni
linguistici e culturali che può definirsi olistico, irrazionalistico e conservatore.
135
Come si evince dai passi del Dialogo sul metodo citati, l’analisi di Feyerabend implicherebbe che
l’‘alternativa’ all’ordine matriarcale fu immaginata dopo che in esso venne trovata una contraddizione.
Come emerge invece dalla nostra analisi, l’incoerenza è in qualche modo una ‘scoperta’ dovuta alla
teoria alternativa. Questi due differenti approcci, come si vede, non esprimono altro che il contrasto,
individuato da Lakatos, tra il “falsificazionismo metodologico ingenuo” e quello “sofisticato”.
Naturalmente con questo non si vuol sostenere che Feyerabend sia un falsificazionista ingenuo. Anzi,
ciò che si è detto presuppone in gran parte proprio l’importante idea feyerabendiana (peraltro implicita
nel luogo di Lakatos citato, oltre che naturalmente in Popper: cfr. ad. es. 1972, cap. 2, § 2, p. 60) che
“le ipotesi in contraddizione con teorie ben affermate ci forniscono materiali di prova che non
possono essere ottenuti in alcun altro modo”, sviluppata nel cap. 3 di Contro il metodo.
136
Cfr. ad es. Popper (1934, 1959), p. 11: “Il mio punto di vista si può esprimere dicendo che ogni
scoperta contiene un ‘elemento irrazionale’ o ‘un’intuizione creativa’ nel senso di Bergson”. Questo è
un punto sul quale Popper ha sempre insistito: mentre non esiste, a rigor di termini, una logica, ovvero
un ‘metodo’, né per la scoperta di una teoria scientifica, né per accertarne la verità e neppure per
attribuire ad essa un qualche grado di probabilità (cfr. Popper [1956], 1983, “Prefazione 1956”, pp. 35-
36), tuttavia è possibile delineare l’ideale regolativo di una logica dei criteri di preferenza, ovvero
della scelta razionale, da una pluralità caotica di teorie rivali, di quella meglio corroborata (cfr. ivi,
parte I, cap. I, §§ 2-4, pp. 47-96).
109
Si comprende, allora, come tutto ciò non possa giocare alcun ruolo
significativo nel pensiero di chi, come Feyerabend, educato alla corte di
Popper, ha pur sempre data per scontata, al di là dei sarcasmi e delle invettive,
la possibilità dell’arricchimento conoscitivo offerta dalla libera e attiva
proliferazione di teorie e tradizioni di ricerca, ed ha inoltre accettato la
discussione spregiudicata e pubblica delle idee, con il rischio di radicali
ripensamenti che essa per sua natura comporta (e che, come vedremo, ci sono
effettivamente stati).
Questa tesi sull’effettivo ruolo attribuibile all’insegnamento dell’ultimo
Wittgenstein nell’ambito dell’epistemologia post-popperiana è in contrasto con
il modo abituale di considerare, ad esempio, la posizione di Feyerabend
rispetto a Popper. Di solito, infatti, si è portati a enfatizzare il divario tra i due,
e ciò accade soprattutto quando si prende troppo sul serio il Popper di
Feyerabend (in realtà un mero feticcio su cui egli scaglia le frecce avvelenate
di una polemica spesso astiosa137 e talvolta inutilmente ingiuriosa138) e si
accetta di conseguenza l’idea di vedere nell’uno l’apologeta e nell’altro il
137
Cfr. ad es. le battute iniziali di Feyerabend (1989), I, pp. 3-4, dove fra l’altro si legge: “A. Che cosa
hai da dire contro il razionalismo critico? - B. Il razionalismo critico? - A. Sì, il razionalismo critico,
la filosofia di Popper. - B. Non sapevo che Popper avesse una filosofia. - A. Non stai parlando
seriamente. Sei stato suo scolaro ... - B. Ho ascoltato qualche sua lezione ... - A. E sei diventato suo
allievo ... B. So che così dicono i popperiani ... - A. Hai tradotto La società aperta di Popper ... - B.
Avevo bisogno di soldi ... [...] Popper non è un filosofo, è un pedante - questo è il motivo per cui i
tedeschi lo amano tanto”. Un documento ancora più esplicito dell’atteggiamento ‘tersitesco’ di
Feyerabend nei confronti del vecchio supervisor, è costituito dalla sua corrispondenza con Lakatos, in
gran parte pubblicata in Lakatos e Feyerabend (1995), pp. 171-350 (cfr., a titolo puramente
esemplificativo, le pp. 275, 288, 304-305 e 328). Qualche lettera di Lakatos, poi, è la testimonianza un
po’ imbarazzante del fatto che l’atteggiamento di Feyerabend era anche contagioso. Cfr. ad es. quella
dell’8 gennaio 1972, in part. p. 271, laddove egli dichiara di avere intenzione di coprire una crepa nel
muro del gabinetto con l’ingrandimento di una foto di Popper “in una cornice vittoriana dorata”. Ma si
veda soprattutto quella dettata il 29 gennaio 1974, quattro giorni prima della morte (pp. 343-350),
dove, discutendo e criticando puntualmente la versione dattiloscritta della recensione di Feyerabend a
Conoscenza oggettiva (che sarebbe apparsa lo stesso anno corredata da un ringraziamento a Lakatos
per i suggerimenti), egli sfoggia nei confronti di Popper un sarcasmo da retrobottega, come tra l’altro
si vede in modo lampante dal fatto che il passo di Congetture e confutazioni su Einstein e l’ameba (v.
qui, nota 143) è disinvoltamente bollato come ‘stupido’ (p. 347), mentre nella nota 48 del saggio
Popper sulla demarcazione e l’induzione - scritto poco tempo prima per il volume su Popper curato da
Schilpp (1974) e aperto con le parole “Le idee di Popper rappresentano lo sviluppo più importante
nella filosofia del ventesimo secolo, nella tradizione, e al livello, di Hume, Kant o Whewell. Per
quanto mi riguarda, il debito che ho nei suoi confronti è enorme: egli ha cambiato la mia vita più di
chiunque altro” (Lakatos 1974, in Lakatos 1996, cap. 3, p. 181) - esso viene considerato “interessante”
e degno addirittura di essere riletto alla luce della metodologia dei programmi di ricerca scientifici
(cfr. ibid., p. 211).
138
Discutendo l’affermazione di Feyerabend secondo cui la filosofia di Popper non sarebbe altro che
un “pallido riflesso del pensiero di Mill”, con l’aggravante che è “del tutto priva di quella
preoccupazione della felicità individuale che è così tipica di Mill” a causa dell’“inflessibile
puritanesimo” di Popper (Feyerabend 1975, cap. 4, nota 2, pp. 40-41), Roger James ha fatto osservare
ad esempio che, alla luce di Popper (1945), vol. II, cap. XXIV, p. 312, dove vengono evidenziati i
pericoli insiti nella trasformazione in programma politico del desiderio utopico e romantico di rendere
felici tutti i cittadini, l’accusa di Feyerabend è del tutto fuori luogo e la sua denigrazione “equivale a
poco più che un’ingiuria: l’ultima risorsa di chi avanza degli argomenti che non stanno in piedi”
(James 1980, cap. III, p. 85).
110
denigratore per eccellenza del metodo. Nella sua importante monografia su
Feyerabend, ad esempio, la Corvi osserva che poiché «secondo Feyerabend, gli
scienziati spesso violano le norme previste dai filosofi della scienza e
sostengono le loro teorie più in base a convinzioni metafisiche che non a prove
razionali», e poiché «anche la scienza come qualsiasi altro prodotto umano, è
frutto di intuizione e immaginazione non meno che di ragionamento», allora si
può concludere che «Feyerabend dissolve quello che può essere ritenuto il
problema centrale dell’epistemologia popperiana, cioè il problema della
demarcazione fra scienza e non scienza. Infatti, Feyerabend si rifiuta di
identificare la scienza con il sapere razionale, oggettivo, falsificabile, critico, in
opposizione al sapere non scientifico - metafisica e arte comprese. Non serve
un criterio di demarcazione per il semplice motivo che non c’è niente da
discriminare, poiché ‘una buona scienza è un’arte, non una scienza’»139
Ora, questo modo così rigido di impostare la questione del rapportto
Popper-Feyerabend risulta alquanto inadeguato soprattutto alla luce del
Poscritto (uscito tra il 1982 e il 1983, ma già circolante in bozze sin dalla
seconda metà degli anni ’50), dove Popper difende posizioni che anticipano
non solo le ‘correzioni’ di Lakatos (si pensi alla nozione di “programma di
ricerca metafisico”), ma anche molte delle tesi apparentemente
‘antipopperiane’ di Feyerabend (oltre che di Kuhn, al quale è dedicato tutto il
IV paragrafo dell’ “Introduzione 1982” al primo volume). Si consideri, ad
esempio, un passo come il seguente, dove emerge chiaramente che anche per
Popper l’effettiva storia della scienza è intrisa di tutte quelle idiosincrasie
soggettive tanto care a Feyerabend: «se una teoria di alto potere esplicativo
appare attraente o promettente a qualcuno, per qualsiasi ragione (come apparve
a Galileo la sua teoria non-lunare [delle maree]), allora egli ha ragione di
attenervisi, e di non abbandonare troppo presto le speranze, anche di fronte a
difficoltà interne, e anche di fronte ad apparenti confutazioni empiriche:
nonostante tutto, potrebbe alla fine averla vinta. Altrimenti, egli avrà imparato
tanto più dai suoi errori quanto più grande sarà stato il suo sforzo intellettuale
nel tentativo di affrontare la critica. Una certa quantità di dogmatismo e di
testardaggine è necessaria nella scienza se non vogliamo perdere idee brillanti
che non sappiamo in un primo tempo come maneggiare o modificare» (Popper
[1956], 1983, parte I, cap. I, § 4, pp. 94-95). Senza contare poi il fatto, già
sottolineato (cfr. supra, nota 16), che Popper conclude il Poscritto con un
“Epilogo metafisico” in cui rigetta il criterio di demarcazione tra scienza e
metafisica e propone un criterio di demarcazione, interno alla metafisica, tra
sistemi metafisici che sono dotati di valore razionale (e pertanto degni di venir
discussi e meditati), e sistemi metafisici che non lo sono. Certo, la Corvi non
manca di sottolineare le sfumature e di sciogliere in qualche modo la rigida
contrapposizione, soprattutto laddove osserva, a proposito della questione
139
Corvi (1992), “Introduzione”, pp. 5-6 (la citazione finale è tratta da Feyerabend 1984, p. 53);
osservazione quasi identica in Corvi (1989), p. 172.
111
dell’incommensurabilità, che «l’aspetto singolare della vicenda consiste [...]
nel fatto debitamente segnalato da più di uno studioso, che la dottrina di
Feyerabend è già anticipata [...] nella filosofia popperiana delle ‘congetture e
confutazioni’. A quanto pare, il razionalismo critico aveva in incubazione i
germi dell’irrazionalismo, ed è esattamente quello che Feyerabend intende
sostenere e dimostrare»140. Tuttavia, la prospettiva interpretativa da me assunta,
incentrata su una riconsiderazione del pensiero dell’ultimo Wittgenstein alla
luce della teoria popperiana delle funzioni del linguaggio (la quale ci consente
di ridimensionarne notevolmente il valore epistemologico e la reale capacità di
incidenza sui filosofi post-popperiani), rende possibile rovesciare la
conclusione: gli sviluppi feyerabendiani del popperismo non dimostrerebbero
tanto la presenza in quest’ultimo dei germi dell’irrazionalismo141, quanto
piuttosto il fatto che l’anarchismo metodologico di Feyerabend si muove pur
sempre entro l’orizzonte di una razionalità critica - libertaria e cloud-like
quanto si vuole - la cui condizione di possibilità è garantita dalla funzione
argomentativa del linguaggio, considerata da Popper, nell’ambito del suo
evolutionary approach, la peculiare sede biologica della nostra umanità.
Quanto emerso fin qui depone indubbiamente contro il relativismo. Le
culture, i paradigmi, le forme di vita, i programmi di ricerca, gli schemi
concettuali etc., sono prodotti umani che interagiscono non solo con gli uomini
ma anche tra di loro, e sempre attraverso la mediazione delle menti e dell’agire
pratico e intellettuale degli uomini. Questa interazione, inoltre, ha delle
componenti razionali che possono essere ricostruite e manipolate
oggettivamente sia da parte di chi le vive e comprende dall’interno, sia da parte
di chi tenta semplicemente di comprenderle dall’esterno per esigenze storiche e
speculative. In termini popperiani, possiamo dire che nella misura in cui gli
oggetti del Mondo 3 sono indipendenti dalle menti umane, pur essendone il
prodotto storico-culturale, essi possono essere afferrati dal (e nel) Mondo 2
delle menti umane e compresi razionalmente nelle loro connessioni logiche
oggettive142 tramite un processo che, almeno in prima approssimazione, è
descrivibile per mezzo dello schema della soluzione di problemi per tentativi
140
Corvi (1992), cap. II, § 3, p. 96 (ma cfr. anche ibid., § 4, p. 103 e ss., a proposito delle radici
popperiane di tutta la theory ladenness of perception). Gli studiosi cui fa riferimento la Corvi sono
Pera (1980, p. 116), Negri (1983, p. 19) e Martin (1984, p. 33).
141
Presenza peraltro ovvia ab ovo, se si pensa che lo stesso Popper considerava il razionalismo una
fede e l’irrazionalismo una posizione logicamente più forte del razionalismo, dal momento che, mentre
il razionalista non può tentare di giustificare il razionalismo senza cadere o nel dogmatismo o nel
regresso all’infinito, l’irrazionalista può invece rifiutarsi di fornire giustificazioni per l’irrazionalismo
senza per questo cadere in contraddizione: cfr. Popper (1945), vo. II, cap. XXIV, § 2, pp. 303-305 e
Addendum, § 15, pp. 517-518. Come Popper sottolineava nel 1969 nell’ultima delle sue Kenan
Lectures, tenute all’Università di Emory (Atlanta), “la razionalità non è una proprietà degli uomini, e
nemmeno un fatto che riguarda gli uomini. È un compito che gli uomini devono realizzare - un
compito difficile e fortemente limitato” (Popper [1969], 1994b, cap. VI, p. 177).
142
Su questo punto decisivo, cfr. ad es. Popper (1972), cap. 8, § 2, pp. 392-395.
112
ed eliminazione dell’errore, che Popper estende, nel suo approccio biologico ai
problemi della conoscenza, a qualsiasi livello della scala evolutiva.143
Una riprova di quanto detto può essere la vera e propria palinodia che
l’ultimo Feyerabend ci ha lasciato sul tema del relativismo. Nel corso di un
bilancio della fortuna delle idee principali contenute in Contro il metodo, egli
ha scritto nell’Autobiografia (completata poche settimane prima della morte,
sopraggiunta l’11 febbraio 1994):
Altri miei punti di vista caserecci non sono andati altrettanto bene. Mi
riferisco al mio “relativismo”, cioè all’idea che le culture siano entità più o
meno chiuse con criteri e procedure loro proprie, che abbiano un valore
intrinseco e che non bisognerebbe interferire con esse. In certa misura questo
punto di vista coincideva con quello di antropologi che, cercando di
comprendere la confusa complessità dell’esistenza umana, la dividono in
ambiti (per lo più) non sovrapponentisi, autosufficienti e autoconservantisi. Ma
le culture interagiscono, cambiano, hanno risorse che vanno oltre i loro
ingredienti stabili e obiettivi o, piuttosto, oltre quegli ingredienti che (alcuni)
antropologi hanno condensato in regole e leggi culturali inesorabili.
Considerando quanto le culture hanno imparato le une dalle altre e quanto
ingegnosamente hanno assemblato il materiale così ottenuto, sono arrivato alla
conclusione che ogni cultura è in potenza tutte le culture e che tratti culturali
particolari sono manifestazioni intercambiabili di una singola natura umana.144
143
“Vi è, per così dire, solo un passo dall’ameba ad Einstein” (Popper 1972, Appendice, § IV, p. 453),
dice Popper con una formula divenuta celebre. Per il raffronto ameba-Einstein, che presuppone l’idea -
da Popper stesso ritenuta rivoluzionaria e cruciale per tutta la propria epistemologia evoluzionistica -
che ogni organismo vivente, a qualsiasi livello, possiede, incorporata nel proprio patrimonio genetico e
nel proprio repertorio comportamentale, qualcosa che per omologia può benissimo chiamarsi
“conoscenza”, cfr. anche ivi, cap. 1, § 10, p. 46; cap. 6, § XXI, pp. 321-323; cap. 7, § 1, p. 347 e p.
351; (1963a), cap. 1, § VII, p. 93; e soprattutto (1990), pp. 68 e 82-83. Qui, a p. 58, Popper afferma:
“Io dimostrerò che, a dispetto della sua banalità, l’affermazione che gli animali possono conoscere
qualcosa rivoluziona completamente la teoria della conoscenza così come viene ancora oggi, di regola,
insegnata”.
144
Feyerabend (1994), pp. 170-171. Vale la pena confrontare questo passo con l’ultimo paragrafo,
intitolato “Realismo e relativismo”, del già citato saggio Quale realtà?, soprattutto in relazione al
problema del rapporto di Feyerabend col relativismo e con l’‘approccio evoluzionistico’ di Popper: “un
realismo unitario che dichiari di possedere una conoscenza positiva della realtà ultima ha avuto
successo soltanto escludendo vaste aree di fenomeni o dichiarando, senza dimostrarlo, che esse
possono essere ridotte a una teoria fondamentale che, in questo caso, significa fisica elementare delle
particelle. Un pluralismo ontologico (epistemologico) sembra più vicino ai fatti e alla natura umana. -
Ho appena parlato di un ‘pluralismo ontologico’; come molti, anch’io mi sento responsabile di
riassumere storie complicate in termini semplici, seppur all’apparenza colti. Non ho alcun diritto di
lamentarmi quando altri assumono il termine ‘relativismo’ e mi chiamano ‘relativista’. Ma posso
correggerli nel modo seguente. Tanto per cominciare, non tutti gli approcci alla ‘realtà’ sono di
successo. Come certe mutazioni che non risultano adattive, alcuni approcci durano per qualche tempo -
i loro fautori soffrono e possono anche morire - e poi scompaiono. Quindi la mera esistenza di una
società con certe modalità di comportamento e certi criteri di giudizio circa ciò che è stato acquisito
non è sufficiente a stabilire una realtà manifesta; quello che è anche necessario è che Dio, o l’Essere, o
la Realtà Fondamentale reagiscano positivamente. [...] In secondo luogo, il relativismo tradizionale
assume che le culture siano ‘chiuse’ e ben definite; che possono cioè trattare ogni questione dando a
essa una risposta o vedendola come un non senso. Ma questo non è il modo ‘reale’, in cui reagiscono le
culture. Di fronte ai grandi problemi (o ai duraturi successi) esse cambiano; la società che risolve un
grosso problema non è la società che vi è incorsa, e quindi non può contare come una misura stabile di
113
Se pensiamo all’ultimo Wittgenstein e alla sua idea delle proposizioni-
rotaie irrigidite che descrivono e istituiscono il Weltbild mitologico di una
particolare ‘forma di vita’ chiusa, allora non possiamo non annoverare anche
lui tra gli antropologi di cui parla Feyerabend in questa pagina davvero
sorprendente, anche se forse la sua lealtà nei confronti dell’antico maestro gli
ha impedito di menzionarlo esplicitamente. Ed è curioso osservare come la
“conclusione” alla quale egli confessa di essere giunto al termine della sua vita
coincida quasi alla lettera con la posizione sulla quale l’odiato supervisor
Popper ha insistito instancabilmente sin dagli anni ’60 (si pensi alle sue
critiche al “mito della cornice” condotte sullo sfondo del programma di ricerca
metafisico costituito dal darwinismo, cui anche Feyerabend mostra di ricorrere
nel passo di Quale Realtà? citato nella nota precedente per marcare la
differenza tra il proprio “pluralismo ontologico” e le forme più radicali di
relativismo), se non addirittura sin dall’epoca della Società aperta. Se infatti
l’ultima frase del passo non adombra un’improbabile conversione a un credo
essenzialista, basato su una netta demarcazione ontologica e assiologica tra
‘apparenti’ diversità culturali e ‘reale’ natura umana, unica e immutabile
(conversione che si può tranquillamente escludere sulla base del saggio Quale
Realtà?), allora essa può essere letta alla luce di quell’idea regolativa di una
“razionale unità del genere umano”, difesa da Popper nei capitoli XXIII e
XXIV della Società aperta contro il relativismo culturale e il conseguente
positivismo etico-giuridico cui sfociano le diverse forme di storicismo
rappresentate dall’idealismo, dal marxismo, dalla sociologia della conoscenza e
dalle varie ‘filosofie oracolari’ più o meno direttamente ispirate da esse. L’idea
di una “unità” del genere umano fondata sulla connaturata propensione a uno
sviluppo razionale sempre più adattivo attraverso la spregiudicata discussione
critica, resa possibile dall’affinamento di un organo esosomatico potentissimo
come il linguaggio argomentativo, è infatti l’indispensabile presupposto etico,
prim’ancora che teorico, per l’esistenza stessa non solo della scienza, ma
anche, e forse soprattutto, di una società “aperta” e “libera”, al di là di ogni
provocatorio e retorico “addio alla ragione”. 145
successo; in un certo senso potremmo dire che potenzialmente ogni cultura è tutte le culture” (in La
Vergata e Pagnini [a cura di] 1995, pp. 89-90).
145
Cfr. ad es. Popper (1945), vol II, cap. XXIV, § 2, p. 304 e § 3, pp. 305-316. Sulla possibilità di
scorgere “qualche punto di contatto” tra la “società aperta” di Popper e il “relativismo democratico” di
Feyerabend, cfr. Corvi (1992), cap. IV, § 1, p. 267 e ss.
114
CAPITOLO 4
115
guardare, come il farsi perspicuo di ciò che si guarda, sono fini a se stessi. Non
condannano né celebrano». (Come vedremo, però, Wittgenstein non ha esitato
a trarre una delle conclusioni più innominabili cui può portare un simile
approccio contemplativo e neutrale.).
Pertanto, le forme di vita, che sorreggono i giochi linguistici
fondamentali (quelli, cioè, che costituiscono la trama della comunicazione
ordinaria ai vari livelli) come l’intera casa sorregge il muro maestro (cfr. DC, §
248), sono tali che: 1) vengono a costituire il fondamento ultimo e infondato in
cui svanisce la catena delle giustificazioni; 2) ci sono date e possono quindi
essere solamente descritte; e 3) solo all’interno di esse, in quanto sistemi chiusi
di addestramento pratico-culturale, sussistono schemi euristici standard per le
procedure esplicative e per i metodi di controllo.146 A proposito di una siffatta
concezione olistica e irrazionalistica delle forme di vita e dei giochi linguistici,
Bouveresse (1975, p. 85) nota giustamente che essa «potrebbe somigliare ad
una apologia della sottomissione alle norme stabilite e del conformismo in tutti
gli ambiti». Ma poiché egli non crede che si possa accettare una conclusione
di questo tipo, prosegue rilevando che proprio in virtù del suo carattere di
totalità irriducibile e inesplicabile, una forma di vita può cambiare in toto
attraverso una ristrutturazione gestaltica che permetta di saltare in maniera
discontinua ad una forma affatto diversa. Per suffragare l’idea che
Wittgenstein avrebbe indicato la procedura per come uscire dalla cornice di
una determinata forma di vita, Bouveresse cita OFM, I, Appendice II, § 4:
Ora, alla luce delle considerazioni precedenti, risulta chiaro che questa
presunta alternativa alla stagnazione socio-culturale entro una certa forma di
vita è in realtà perfettamente coerente con l’impressione di “apologia della
sottomissione ... e del conformismo” suscitata dal modo in cui Wittgenstein
parla dei giochi linguistici e delle forme di vita. In effetti, qui ci troviamo di
fronte a un altro esempio cospicuo di ciò che Popper, riferendosi al secondo
146
Per tutto ciò, cfr. ad es. i seguenti luoghi wittgensteiniani (alcuni dei quali già citati): DC, §§ 63-65,
82, 83, 94-97, 170, 192, 204, 205, 212, 225, 248, 253, 291-296, 559, 600, 608-612; RF, I, § 654; II,
sez. XI, p. 295 (qui si legge: “Ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - forme di vita”,
che costituisce anche l’ultima frase di OFP, I, § 630); NF, p. 19; Z, §§ 387 (= OFP, II, § 707), 391,
443.
116
capoverso della proposizione 6.45 del Tractatus (Das Gefühl der Welt als
begrenztes Ganzes ist das mystische), ha chiamato “irrazionalismo olistico”.147
Come si vede dal passo riportato, che von Wright (1982, p. 246)
considera «di grande effetto, anche quando è citato fuori dal suo contesto»148,
per Wittgenstein una ‘forma di vita’ non ha alcuna dimensione temporale.
Essa, cioè, non va vista come un insieme di tradizioni e di istituzioni149 che
possiamo modificare e migliorare dall’interno e gradualmente per mezzo di
interventi tecnologici parziali, i cui effetti indesiderabili e inintenzionali
possano per ciò stesso essere tenuti sotto controllo entro limiti accettabili: una
‘forma di vita’ è piuttosto un tutto di fronte al quale siamo posti nella
irrazionale condizione del ‘prendere o lasciare’. L’esempio dell’automobile,
147
“È sempre la perduta unità della tribù, il desiderio di ritornare al riparo di una comunità patriarcale
e di fare dei limiti di essa i limiti del nostro mondo, che sta dietro a questo atteggiamento mistico.
‘Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico’, dice Wittgenstein. Ma questo irrazionalismo
olistico e universalistico è fuori strada. Il ‘mondo’ e ‘il tutto’ e la ‘natura’ sono tutte astrazioni e
prodotti della nostra ragione” (Popper 1945, vol. II, cap. XXIV, § 4, p. 322). In un passo del capitolo
di BT intitolato Philosophie (§ 90f-g, p. 423), Wittgenstein esprime un’idea di ‘liberazione’ per alcuni
versi analoga, ma facendo ricorso assai significativamente a una terminologia quasi nietzscheana: “Gli
uomini sono profondamente irretiti nelle confusioni filosofiche, cioè grammaticali. E liberarli
presuppone che li si strappi alla straordinaria molteplicità di vincoli nei quali sono incappati. Si deve,
per così dire, riordinare (umgruppieren) l’intero loro linguaggio. - Ma questo linguaggio si è formato //
è divenuto // così perché gli uomini avevano - e hanno - la tendenza a pensare così. Per questo motivo,
lo sradicamento (das Herausreissen) funziona soltanto con coloro che vivono in una istintiva rivolta
(Auflehnung) contro // insoddisfazione (Unbefriedigung) nei confronti // il del linguaggio. Non con
quelli che, seguendo in pieno il loro istinto, vivono nel gregge (Herde) che ha prodotto questo
linguaggio come sua espressione propria. - Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole: la
straordinaria rete di strade sbagliate ben tenute // praticabili //. Così vediamo una persona dopo l’altra
percorrere le stesse strade e già sappiamo (wissen schon) dove uno girerà, dove proseguirà dritto senza
notare la deviazione, ecc., ecc. Dunque, io dovrei mettere dei cartelli là da dove si diramano le false
strade, che aiutino a passare sui punti pericolosi” (F, pp. 55 e 57). A margine di questo passo, si
possono annotare soprattutto due cose: 1) Wittgenstein - contrariamente a quanto farà in seguito,
quando assumerà più consapevolmente un punto di vista più ‘comunitaristico’ (chiaramente presente
nel passo citato nel testo) - sembra credere qui ancora alla possibilità titanico-illuministica della ricetta
trovata da uno solo; 2) applicando il suo stesso fatalismo linguistico, anche noi oggi potremmo dire di
vedere Wittgenstein percorrere una strada ben nota e di ‘sapere già’ dove si può essere condotti da un
linguaggio in cui termini come “istinto” e “gregge” fungono da categorie sociologiche.
148
Questo passo appare improvvisamente in mezzo a una serie di osservazioni critiche nei confronti
dell’applicazione della teoria degli insiemi a quella dei numeri. “Secondo Wittgenstein”, prosegue von
Wright, “la teoria degli insiemi era un cancro profondamente radicato nel corpo della nostra cultura,
che esercitava i suoi effetti deformanti su quella parte di una cultura che è la matematica. Se fosse
vissuto tanto da vedere quale importanza è venuta ad avere la teoria degli insiemi in molti paesi - dove
essa costituisce una base per l’insegnamento della matematica ai bambini - senza dubbio sarebbe stato
disgustato e forse avrebbe detto che ciò era un segno della fine di quel che si era soliti chiamare
matematica” (ibid.). Poiché von Wright non pensa minimamente alla possibilità che Wittgenstein
avrebbe magari potuto cambiare idea di fronte all’innegabile successo conseguito nella didattica della
matematica elementare grazie proprio all’uso propedeutico dei fondamenti dell’insiemistica, la sua
profezia dimostra soltanto che spesso l’oscurantismo dei discepoli supera di gran lunga quello -
talvolta inconsapevole - dei maestri (a questo proposito cfr. von Wright 1955, ivi, p. 58, dove lo stesso
von Wright fa un’interessante osservazione sul forte rischio che i discepoli di Wittgenstein, abbacinati
dall’apparente semplicità e naturalezza del profondissimo e originalissimo pensiero del maestro,
finiscano col diventare degli “epigoni insignificanti”, in possesso soltanto del gergo vuoto in cui la
Dottrina è degenerata. Su questo punto, cfr. anche Malcolm 1958, p. 77).
117
inoltre, evidenzia ancora una volta la totale sfiducia da parte di Wittgenstein
nei confronti di una razionalità autocorrettiva in grado di apprendere dagli
errori e di trovare soluzioni provvisorie specifiche per problemi specifici. Non
è detto, infatti, che l’unica strada per guarire da eventuali malattie provocate
dall’uso dell’automobile sia necessariamente quella di abbandonare
semplicemente (e addirittura del tutto inconsapevolmente, a seguito di un
qualsiasi mutamento irrazionale delle abitudini) l’uso stesso dell’automobile:
come ormai sappiamo molto bene, le automobili - ed anche le forme di vita -
possono essere ‘migliorate’ indefinitamente, al punto da poter fare in modo che
sia la loro stessa struttura a incorporare la capacità di mettere in pratica, per
feedback, i rimedi di cui abbiamo bisogno.
Dire, poi, che la cosiddetta “malattia di un’epoca” (altra tipica categoria
olistica e irrazionalistica, che Wittgenstein mutua da una certa tradizione
storicistica tedesca culminante, com’è noto, in Der Untergang des
Abendlandes di Spengler) si guarisce soltanto cambiando radicalmente la
forma di vita degli uomini, non significa altro che esprimere una filosofia della
politica che potrebbe benissimo essere proclamata dai peggiori tiranni, i quali
sarebbero in grado così di giustificare sia gli interventi ‘terapeutici’ basati sulle
più violente pianificazioni globali150, sia gli eventuali fallimenti catastrofici,
sempre imputabili, magari attraverso una propaganda messianica contro
l’individualismo e la cospirazione interna o esterna, alla inguaribile e malvagia
resistenza che gli uomini oppongono alla palingenesi che il Leader Buono ha
cercato di attuare esclusivamente per il loro Bene autentico.
Che l’adesione a una siffatta antropologia relativistica abbia condotto
Wittgenstein in maniera quasi impercettibile verso il cono d’ombra di
implicazioni socio-politiche pericolosamente ambigue, è testimoniato da
alcune circostanze inquietanti. Una è costituita dal fatto che nel 1931, egli -
che pure era di origine ebraica - ha steso una serie di Vermischte Bemerkungen
149
Nel senso in cui tali espressioni sono usate in Popper (1963a), cap. 4, p. 228 e ss.
150
Cfr. Popper (1944-1945), § 21, pp. 71-72; § 23, pp. 76-82 e § 24, pp. 86-88; (1945), vol. I, cap. IX,
pp. 221-235, e in part. nota 4, pp. 385-387. Si noti che qui Popper discute il contrasto tra l’ “ingegneria
sociale utopica”, basata su un approccio ‘olistico’ che propugna una pianificazione politico-economica
“centralizzata” e “collettivistica” (nel senso di von Hayek 1939), tipica dei regimi totalitari e teorizzata
per la prima volta da Platone nella Repubblica, e l’“ingegneria sociale gradualistica”, basata sul
piecemeal tinkering (‘intervento a spizzico’), che rifiuta per decreto metodologico di perseguire
l’attuazione di un modello o ideale di società che - si crede romanticamente - renderà tutti gli uomini
felici, e si preoccupa invece di intervenire settorialmente a correggere i mali evitabili col metodo per
prova ed errore. Che la prospettiva accennata nel testo sia tutt’altro che una esagerazione, emerge
chiaramente se si pensa che Wittgenstein visitò la Russia staliniana con la speranza di trovarvi un
lavoro manuale in una fattoria collettiva, attratto (come del resto molti altri intellettuali negli anni ’30)
proprio dalla propaganda delle virtù palingenetiche dei piani quinquennali, capaci di instaurare quelle
‘forme di vita’ semplici e laboriose che avrebbero salvato l’uomo occidentale dal suo ineluttabile
declino, causato soprattutto dal modo in cui si sono venute ad imporre la scienza e la filosofia (su
questo punto, sul quale torneremo nel testo, cfr. Monk 1990, parte III, cap. 16, p. 340 e cap. 17, pp.
345 e ss.).
118
vagamente razziste intorno al tema della ebraicità nell’arte e nella vita sociale.
Tali osservazioni, forse sotto l’influenza del ‘gioco linguistico’ istituito e
inculcato dalla martellante propaganda che preludeva al nazismo, sembrano
riecheggiare, come nota con un certo imbarazzo Ray Monk, espressioni tipiche
della «litania di deplorevoli assurdità»151 di cui è intessuto il Mein Kampf
(uscito nel 1925).
Un’altra è costituita dai suoi (quantomeno curiosi) atteggiamenti nei
confronti dei regimi totalitari, e di quello staliniano in particolare. Come
abbiamo già accennato nella nota 150, Wittgenstein visitò la Russia di Stalin
nel settembre del 1935, spinto da una serie di motivazioni che egli stesso, in
una lettera del 6 luglio 1935 a Keynes (il quale si sarebbe adoperato per far
riuscire il viaggio nel miglior modo possibile), definisce «in parte cattive e
persino infantili, ma è anche vero che al di là di tutto ciò si trovano delle
profonde e persino buone ragioni» (LRKM, cit. in Monk 1990, p. 346). Le
buone e profonde ragioni erano legate al suo vago desiderio di stabilirsi in
Russia e di trovarvi un lavoro come ‘semplice’ operaio (la cui condizione,
assai significativamente, egli assimilava a quella del ‘soldato semplice’, da lui
stesso vissuta durante la prima guerra mondiale). Questo desiderio, poi,
scaturiva dal fatto che egli nutriva, come scrisse Keynes nella lettera di
presentazione all’ambasciatore sovietico a Londra Ivan Maiskij, «una forte
simpatia per il modo di vita che crede il nuovo regime abbia instaurato in
Russia» (in LRKM, pp. 135-136, cit. in Monk 1990, ibid.). Il progetto,
comunque, fallì. Wittgenstein si vide offrire o cattedre di filosofia alle
università di Kaz’an e Mosca (tramite Sof’ja Janovskaja, docente di logica
matematica all’università di Mosca, con la quale aveva stretto conoscenza), o
in alternativa posti di lavoro come operaio specializzato (nel settore medico,
per esempio), e non come manovale, com’egli avrebbe voluto, dal momento
che l’unica cosa di cui la Russia di Stalin non necessitava era proprio la
manodopera non specializzata. Tuttavia, la cosa che più ci interessa qui
concerne il modo in cui Wittgenstein guardava alla realtà politica e sociale
della Russia dei piani quinquennali, soprattutto in relazione alle suaccennate
implicazioni della nostra interpretazione del suo approccio antropologico.
Scrive a questo proposito Monk:
151
Monk (1990), parte III, cap. 14, p. 312 (ma cfr. anche pp. 313-315 e cap. 11, pp. 276-277, dove
Monk mette bene in luce il complesso rapporto tra la propaganda nazista, le origini ebraiche di
Wittgenstein, il suo desiderio di ‘purificazione’ e la sua assunzione di un lessico antisemita nelle
Bemerkungen del 1931). Per le osservazioni di Wittgenstein sugli ebrei, cfr. in particolare PD, pp. 47-
52.
119
tanto attenta a quanto gli si insegnava. Probabilmente, però, la ragione
principale della sua simpatia per il regime staliniano va individuata nel basso
tasso di disoccupazione presente in Russia. Come ebbe a dire una volta a Rush
Rhees, “La cosa di gran lunga più importante è che la gente ha lavoro”. E
quando si menzionava l’irregimentazione, oppure gli si faceva presente che gli
operai erano sì occupati ma non disponevano della libertà di cambiare o
lasciare lavoro, Wittgenstein non sembrava molto colpito da questo genere di
argomentazioni. Disse a Rush Rhees facendo spallucce: “La Tirannia non
suscita la mia indignazione”. Suscitava invece la sua indignazione l’eventualità
che il “governo della burocrazia” reintroducesse le differenze di classe in
Unione Sovietica: “Se c’è una cosa che potrebbe far tramontare le mie simpatie
per il regime russo, sarebbe proprio l’instaurarsi delle differenze di classe”. [...]
Tuttavia, nonostante le purghe e i processi del 1936, il peggioramento dei
rapporti tra Russia e mondo occidentale, il patto di non aggressione con la
Germania nazista, Wittgenstein continuò a manifestare le sue simpatie per il
regime sovietico (Monk 1990, pp. 350-351. Le citazioni che ricorrono nel passo sono
tratte da R. Rhees [a cura di], 1984, p. 205).
Alla luce di tutto ciò, non può sorprendere allora che dieci anni dopo,
intorno al 1945, egli abbia potuto osservare - con un candore davvero
sconcertante, benché perfettamente coerente con la Weltanschauung
spengleriana cui si allude nei già discussi RF, § 122 e NF, pp. 29-30 (e che
peraltro viene esplicitata molto bene da Valent nel passo sopracitato) - che
«ragionevolmente non è possibile essere infuriati neppure contro Hitler» (PD,
p. 93).
In effetti, messi di fronte alle ‘forma di vita’, cioè agli ordinamenti
totalitari inculcati dallo stalinismo e dal nazismo attraverso ciò che Popper ha
chiamato ingegneria utopica (messa in atto, ad esempio, dal primo nei piani
quinquennali e nella proletarizzazione dell’intera popolazione, e dal secondo
nella pianificazione della pulizia etnica e nella militarizzazione totale), nonché
agli orrori cui ha condotto la logica inesorabile dell’Handeln che sta a
fondamento del loro ‘gioco linguistico’, ciò che possiamo fare è tutt’al più
constatare che «qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana» (NF, p.
19), esattamente come avrebbe dovuto fare Frazer - secondo Wittgenstein - di
fronte all’antica e “barbara” usanza dell’uccisione rituale del re del bosco di
Nemi. E questo appunto perché, come osserva senza nulla eccepire Bouveresse
(1975, p. 82), «Wittgenstein ha detto e ripetuto che il ruolo del filosofo non
consiste nel giustificare o screditare [...] modi di pensare o di agire, quali essi
siano [corsivo mio]. Il nostro torto consiste proprio nel voler spiegare e
giustificare laddove non possiamo far altro che constatare e dire: “Ecco il
gioco linguistico che si gioca”[RF, § 654]».
Tuttavia, pur non trovando ragioni per essere infuriato contro Stalin e
Hitler, Wittgenstein ha trovato una ragione ben precisa per dichiararsi
radicalmente estraneo alla civiltà occidentale, il cui “spirito” egli vedeva
esprimersi nell’industria, nell’arte, nel fascismo e nel socialismo degli anni ’20
e ’30 (questa sorprendente mescolanza di elementi politico-culturali così
120
eterogenei sotto una cornice unica, si spiega con quel tipico approccio insieme
storicistico, essenzialistico e relativistico di Wittgenstein). Se tutta la
modernità, nella sua caleidoscopica e apparentemente irriducibile multiformità,
non è altro che la manifestazione esteriore di un’unica essenza spirituale
oggettiva, allora Wittgenstein, che sente di appartenere a uno spirito diverso e
(per il momento) tramontato, non può non considerarsi uno straniero e un
inattuale. A tal riguardo, le celebri versioni della Prefazione alle Osservazioni
filosofiche152 (in genere citate con grande approvazione dagli studiosi di
Wittgenstein) costituiscono non solo il documento più importante per
comprendere questo aspetto della Weltanschauung wittgensteiniana, ma anche
una sorta di manifesto aere perennius in cui è espressa - in termini quasi
perfettamente platonici153 - quella particolare e raffinata ostilità aristocratica
nei confronti della “società aperta” che rappresenta, secondo Popper, la più
pericolosa forma di sublimazione intellettuale dell’“effetto stressante della
civiltà” (the strain of civilization).154 Scrive Wittgenstein in un abbozzo
memorabile (più ampio di quello che Rush Rhees avrebbe considerato
definitivo):
152
Alcune di queste versioni, scritte nel 1930, compaiono ora in PD, pp. 26-29. Quella che costituisce
la “Premessa dell’autore” alle Osservazioni filosofiche, è la versione datata 6 novembre, che a Rush
Rhees è sembrata quella definitiva: cfr. OF, pp. LXXV e LXXVII.
153
Von Wright, ad esempio, osserva che forse Wittgenstein “trovò in Platone attitudini a lui
congeniali, come nel metodo filosofico e nello stile così nel temperamento” (von Wright 1955, in
1982, p. 60. Ma cfr. anche p. 41).
154
“Questo effetto stressante, questo disagio, è una conseguenza del collasso della società chiusa. Esso
è avvertito anche ai nostri giorni, specialmente in periodi di mutamenti sociali. È l’effetto stressante
prodotto dallo sforzo che la vita in una società aperta e parzialmente astratta richiede continuamente da
noi - con l’esigenza di essere razionali, di rinunziare ad alcuni almeno dei nostri bisogni sociali
emozionali, di badare a noi stessi e di accettare le responsabilità. Noi dobbiamo, io credo, sopportare
questo effetto stressante come il prezzo da pagare per ogni accrescimento di conoscenza, di
ragionevolezza, di cooperazione e di reciproco aiuto e, quindi, delle nostre possibilità di sopravvivenza
e dell’entità della popolazione. È il prezzo che dobbiamo pagare per essere umani” (Popper 1945, vol.
I, cap. X, § 2, pp. 248-249. Per questo concetto-chiave dell’intero libro, cfr. anche vol. II, cap. XI, § 3,
p. 37; cap. XII; § 5, pp. 86-87; cap. XIV, p. 130; cap. XIX, § 5, p. 211; cap. XXV, § 4, p. 362). Come
abbiamo visto nella nota 147, Popper attribuisce chiaramente all’effetto stressante della civiltà anche
l’olismo e l’irrazionalismo contenuti nel Tractatus. Pare che l’unica reazione di Wittgenstein di cui si
abbia traccia è una sua lettera a Rhees del 1946, in cui mostra di apprezzare la vis polemica
dell’articolo in cui quest’ultimo aveva criticato la recensione entusiastica di Gilbert Ryle alla prima
edizione della Società aperta: cfr. Rhees (a cura di) (1984), p. 203, e Monk (1990), parte IV, cap. 23,
pp. 474-475.
121
tuttavia la scomparsa delle arti non giustifica un giudizio di condanna per gli
uomini del nostro tempo. Infatti, nature autentiche e forti proprio in
quest’epoca si allontanano dal campo delle arti per indirizzarsi ad altro, e il
valore del singolo trova modo comunque di esprimersi, Certo, non come al
tempo di una grande civiltà. La civiltà è come una grande organizzazione, che
indica a chiunque le appartenga il posto in cui può lavorare nello spirito del
tutto, e la sua forza può a buon diritto essere misurata in base al risultato da lui
ottenuto nel senso del tutto. Ma in un’epoca, come la nostra, di non-civiltà le
forze si frantumano e la forza del singolo viene consumata da forze contrarie e
da resistenze d’attrito, e non trova espressione nella lunghezza della via
percorsa, ma forse nel calore che ha generato superando tali resistenze. Energia
però rimane energia, e anche se lo spettacolo che offre quest’epoca non è
quello del divenire di una grande opera di civiltà, nella quale i migliori
collaborano allo stesso grande scopo, ma lo spettacolo poco edificante di una
moltitudine dove i migliori perseguono solo fini privati, non dobbiamo lo
stesso dimenticare che non è lo spettacolo ciò che più importa.
E per quanto mi sia ben chiaro che la scomparsa di una civiltà non significa la
scomparsa del valore umano, bensì soltanto di certi modi di esprimerlo, rimane
però il fatto che io considero senza simpatia la corrente della cultura europea,
né ho comprensione verso i suoi fini, ammesso che ne abbia. Io scrivo quindi in
realtà per alcuni amici dispersi negli angoli del mondo.
Ogni frase che scrivo intende già il tutto, e dunque di continuo la stessa cosa.
Non sono altro, per così dire, che vedute di un unico oggetto osservato sotto
angoli diversi (PD, pp. 26-29).
122
ricorda curiosamente il Nietzsche del periodo delle Unzeitgemässe
Betrachtungen. «Cultura» - leggiamo per esempio in Nietzsche (1873b), p. 15
- «è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un
popolo. Ma il molto sapere e la molta erudizione non costituiscono un mezzo
necessario della cultura, né un segno di essa, e si conciliano all’occorrenza nel
miglior modo con il contrario della cultura, la barbarie, ossia la mancanza di
stile o la caotica confusione di tutti gli stili».155
A proposito del rapporto di Wittgenstein con Nietzsche e Spengler, von
Wright (1982, p. 250), che pure non nega affatto la notevole influenza di
Spengler, osserva che «nella propria filosofia, Wittgenstein non costruì una
critica della civiltà contemporanea, come, per esempio, Nietzsche; né, come,
Spengler, elaborò una filosofia della storia. Tuttavia potremmo dire che egli
visse il declino dell’occidente». Ma cosa vuol dire vivere il declino
dell’occidente? Se von Wright si riferisce alle due guerre mondiali,
all’olocausto, alla tecnocrazia cui ha condotto, per usare un’espressione
celebre, la ‘dialettica dell’illuminismo’, etc., allora ciò è piuttosto ovvio e può
dirsi per molti altri pensatori e scrittori di questo secolo. Se invece noi
dobbiamo riferirci alla particolare situazione esistenziale di Wittgenstein, per
cui, come lo stesso von Wright ha precisato recentemente, bisogna intendere
«il suo rifiuto della civiltà occidentale contemporanea come riflesso di un
fondamentale atteggiamento verso la vita» (von Wright 1995, p. 5), allora un
tale modo di esprimersi può risultare fuorviante. Il ‘declino’ di un’epoca
qualsiasi non è qualcosa che si possa vivere e insieme manifestare nel modo
ostile di porsi di fronte al proprio tempo. Esso è piuttosto un concetto
oracolare156 che deriva da una ben precisa teoria della storia (in particolare da
155
In quest’ottica, risultano assai significative le occorrenza dei nomi di Nietzsche e Spengler in una
Bemerkung del 1931: “Vi sono problemi ai quali non mi accosto mai, che non si trovano nella mia
linea o nel mio mondo. Problemi dell’universo di pensiero occidentale, ai quali Beethoven (e forse in
parte Goethe) si è accostato e coi quali ha lottato, ma che nessun filosofo ha affrontato davvero (forse
Nietzsche è ad essi passato vicino). E forse sono problemi perduti per la filosofia occidentale, cioè non
vi sarà più nessuno che sentirà e quindi potrà descrivere il procedere di questa civiltà come un’epopea.
O meglio, essa non è più propriamente una epopea, oppure lo è solo per chi l’osserva dall’esterno, ed è
forse questo che ha fatto Beethoven, con preveggenza (come ha accennato una volta Spengler). Si
potrebbe dire che la cultura del progresso deve avere il suo poeta epico in anticipo. [...] Si potrebbe
anche dire: se tu vuoi veder descritta l’epopea di tutta una civiltà, devi cercare fra le opere dei suoi
esponenti più grandi, in un’epoca cioè in cui la fine di quella civiltà poteva essere solo prevista; dopo,
infatti, non c’è più nessuno che la possa descrivere. E per questo non vi è affatto da meravigliarsi se
l’epopea è scritta nell’oscuro linguaggio del presagio ed è comprensibile a pochissimi” (PD, p. 31).
156
È proprio l’uso di un concetto come quello di ‘declino’, applicato a tutta un’epoca, che può
spingere Wittgenstein a formulare nel 1947 una vera e propria profezia apocalittica, in un passo caro a
von Wright (cfr. [1995], p. 24 e [1982], cap. VIII, § 7, pp. 248-249) in cui si allude chiaramente a
Nietzsche: “La vera visione apocalittica del mondo è quella secondo cui le cose non si ripetono. Ad
esempio non è insensato pensare che l’era scientifica e tecnica sia il principio della fine dell’umanità;
che l’idea del grande progresso sia un abbaglio, come anche quella che si finisca per giungere alla
conoscenza della verità; che la conoscenza scientifica non arrechi nulla di buono o di desiderabile e
che l’umanità, mirando ad essa, cada in una trappola. Non è affatto ovvio che le cose non stiano così”
(PD, pp. 109-110. Per un’allusione diretta all’idea nietzscheana dell’eterno ritorno, cfr. Libro marrone,
I, punto 49, in LBM, p. 137). Di fronte a osservazioni di questo tipo, o a quelle sullo “spirito” della
123
uno storicismo organicistico e pessimistico); e una teoria della storia la si può
costruire in prima persona, prendere in prestito consapevolmente e
criticamente da quelli che l’hanno costruita o rielaborata, oppure presupporre
inconsapevolmente e acriticamente. Da questo punto di vista, potremmo allora
dire che Wittgenstein ha semplicemente ripudiato l’epoca contemporanea sulla
base di un concetto strettamente legato a una teoria storicistica che egli ha
assorbito in maniera forse del tutto inconsapevole, proprio come accadrebbe a
ciascuno di noi - a suo modo di vedere - per quel che riguarda lo sfondo
culturale fondamentalissimo sul quale in seguito distinguiamo tra ciò che è
vero e ciò che è falso.157
CAPITOLO 5
civiltà occidentale, è davvero difficile non pensare, oltre ai seguaci dei falsche Propheten di Popper,
anche ai “nichilisti fiammeggianti” ed ai Pathmos Sellers (i “venditori di Apocalisse” descritti
dall’immaginario cibernetico e sociologo albanese Milo Temesvar nell’altrettanto borgesianamente
immaginario saggio omonimo) di cui parlava una volta tra il serio e il faceto Umberto Eco (1964, pp.
361-369).
157
Per questo punto, sul quale ci siamo a lungo soffermati, cfr. in particolare DC, § 94, e il commento
dello stesso von Wright (1982, pp. 212-213) a questo paragrafo e ai seguenti (95-99).
124
IL RELATIVISMO DEL WITTGENSTEIN ANTROPOLOGO E
L’INTERPRETAZIONE DI DIEGO MARCONI
158
In Andronico, Marconi, Penco (a cura di) (1988), Introduzione alla sez. V, § 4, p. 273. Lo stesso
Marconi avverte nella “Prefazione” del libro: “Da un punto di vista teorico [...] il capitolo che
considero più importante è l’ultimo, che si occupa della pluralità dei giochi linguistici in relazione al
dibattito oggi in corso tra relativismo e razionalismo (di solito si dice ‘tra relativismo e realismo’; ma
il realismo in questione è solo una tra varie forme di razionalismo” (Marconi 1987, p. VII).
125
Nella seconda, più significativa, parlando dell’epistemologia
radicalmente strumentalistica (implicante anche l’ipportunità di far ricorso, se
necessario, ad ogni sorta di ciò che Popper chiama “stratagemma
convenzionalistico” e “ipotesi ad hoc”) desumibile ad esempio da WCV, pp.
162-163 e OF, § 231 (= GF, I, Appendice, § 7, pp. 185-186, citato supra, nella
nota 57), Marconi osserva:
Wittgenstein, quindi, sosteneva all’inizio degli anni ’30 idee che siamo
abituati ad associare (soprattutto in forza della ricostruzione della storia della
filosofia della scienza elaborata da Lakatos) con posizioni relativamente
moderne e comunque post-popperiane. La distinzione tra parte postulatoria di
una teoria, che si sceglie di mantenere ferma «come what may», e parte
flessibile, su cui si opera affinché la teoria nel suo complesso non sia
contraddetta dai dati, corrisponde alla distinzione lakatosiana tra ‘nocciolo
duro’ e cintura protettiva di ipotesi ausiliarie. E anche la critica del
verificazionismo, che siamo abituati ad associare al nome di Popper, è
formulata da Wittgenstein nel 1932 in questi termini: «Se dovessi descrivere la
grammatica dell’ipotesi, direi: essa non segue da nessuna proposizione
singolare, e da nessuna quantità di proposizioni singolari. In questo senso essa
non è mai verificata» [...]. Non per questo Wittgenstein simpatizza per il
falsificazionismo: «Una legge naturale non può essere né verificata né
falsificata» (Marconi 1987, p. 66. I passi di Wittgenstein citati da Marconi si
trovano in WCV, risp. pp. 198-199 e 88)
126
pubblicazione del Tractatus, che, almeno nell’uso che ne fecero i
neopositivisti, costituì un rilancio in grande stile del verificazionismo; e fu
proprio l’enorme successo riscosso dall’opera wittgensteiniana nel corso degli
anni ’20 a convincere Popper che le sue intuizioni giovanili, dapprima
considerate banali e del tutto ovvie per qualsiasi filosofo e scienziato (in
quanto implicite nella stessa struttura logica, o ‘grammatica’, delle
proposizioni universali, la quale comporta una radicale asimmetria tra la
verificabilità e la falsificabilità di principio delle medesime), meritavano di
essere rese pubbliche. Fu così che alla fine degli anni ’20, anche dietro
suggerimento di Herbert Feigl, egli decise di scrivere Die beiden
Grundprobleme der Erkenntnistheorie.160
2) Al di là di queste considerazioni storico-cronologiche, ci sono anche aspetti
strettamente teorici che meritano di essere messi in rilievo in relazione al passo
citato. Cosa intende Marconi quando afferma che Wittgenstein non
simpatizzava per il falsificazionismo? Intende forse che nella seconda
affermazione di Wittgenstein da lui riportata c’è in nuce gran parte
dell’epistemologia post-popperiana, basata appunto sul riconoscimento (ad
esempio da parte di Kuhn e Feyerabend) che la falsificazione richiesta dal
criterio di demarcazione proposto da Popper è una pratica pressoché inesistente
nella storia della scienza? Una interpretazione siffatta del passo, per la verità,
andrebbe certamente troppo al di là della lettera del testo, il quale, così com’è,
è perlomeno ambiguo. Le alternative, infatti, sono due: (a) o Wittgenstein
intende dire che una legge di natura, cioè una proposizione universale, non può
essere né verificata né falsificata in linea di principio - e questo sarebbe un
errore, perché una proposizione universale può essere falsificata per ragioni
strettamente logiche (garantite dal modus tollens); (b) oppure, escludendo che
Wittgenstein possa aver commesso un errore logico così grossolano161,
dobbiamo pensare che egli volesse dire che una legge di natura non può essere
né verificata né falsificata definitivamente nella normale pratica sperimentale.
Ma che questa sia un’idea post-popperiana è solo un mito inventato da Kuhn e
diffuso soprattutto dalla vulgata lakatosiana (cui senz’altro si attiene Marconi)
160
Cfr. Popper (1963a), cap. 1, §§ I-III, pp. 62-71; (1976a), §§ 8 e 9, pp. 33-46.
161
Che comunque potrebbe essere connesso col fatto che egli, a partire dal 1929, si rifiutò di
interpretare (come invece aveva fatto nel Tractatus) le proposizioni esistenziali della forma (∃ x).ϕx
come somme logiche e quelle universali della forma (x).ϕx come prodotti logici in ogni caso di
impiego delle parole “alcuni” e “tutti”, in accordo con la raggiunta prospettiva finitistica e
costruttivistica: “Naturalmente non si può più ragionevolmente sostenere la spiegazione di (∃ x).ϕx
come di una somma logica e di (x).ϕx come di un prodotto logico. Essa andava di pari passo con una
falsa concezione dell’analisi logica, perché io forse pensavo che un giorno o l’altro si sarebbe trovato il
prodotto logico per un determinato (x).ϕx. - Naturalmente, è vero che in qualche modo (∃ x).ϕx
funziona da somma logica e (x).ϕx da prodotto; sì, secondo un modo d’impiego delle parole ‘tutti’ e
‘alcuni’, la mia vecchia spiegazione è corretta; lo è - per esempio - nel caso ‘In quest’immagine si
trovano tutti i colori primari’, oppure ‘In questo tema compaiono tutte le tonalità di do diesis’, ma in
casi come ‘Tutti gli uomini muoiono prima di aver raggiunto i 200 anni’ la mia spiegazione non va più
bene” (GF, II, II, § 8, p. 227. Ma cfr. anche WCV, pp. 27-33 e 39-41).
127
dell’epistemologia di Popper, come quest’ultimo ha dimostrato in maniera
definitiva nell’“Introduzione 1982” al primo volume del Poscritto:
128
essa appartiene a buon diritto alla grammatica del linguaggio-mondo che ci
fornisce la possibilità a priori di esprimere proposizioni vere e false, e quindi
di parlare del mondo. In tal modo essa può essere anche vera, e se lo è
effettivamente, allora descrive la realtà (cfr. ivi, p. 25). Ciò implica appunto
che una proposizione per la quale abbiamo solo un criterio di verità e una
proposizione per la quale abbiamo solo un criterio di falsità stanno fuori da
questo gioco-grammaticale-con-implicazioni-ontologiche: la grammatica che
regola il loro uso non è uno “specchio della realtà” (ibid.) ma una ruota che
gira a vuoto nel caso della prima,163 e un calcolo puramente strumentale (come
già sappiamo) nel caso della seconda.
Come ha mostrato Popper sin dal 1930, però, un approccio di questo
tipo, se da un lato condanna la metafisica ad una ineluttabile insensatezza,
dall’altro impedisce alla scienza di esistere come sforzo congetturale di
conoscere la realtà, lasciandole ‘solo’ la gestione totalitaria del descrivibile.
II
129
2. Il relativismo virtuale, secondo cui, «indipendentemente dal fatto che
esistano sistemi di pensiero, schemi concettuali ecc. alternativi, è comunque
pensabile che una comunità umana non faccia propri i criteri di
giustificazione che prevalgono nella nostra (e ne faccia propri altri). Il
relativismo virtuale tende ad evidenziare non solo l’infondatezza, ma la
contingenza del nostro modo di pensare, parlare, fare scienza, e così via»
(ibidem);
130
Dopo aver fatto queste classificazioni e distinzioni, Marconi traccia al
loro interno la mappa della posizione complessiva attribuibile a Wittgenstein:
131
consistente e “intrinsecamente difendibile”, come dimostrano le sue efficaci
argomentazioni contro le critiche al relativismo tout court mosse da Davidson
e Putnam,164 ma esso è assai difficilmente attribuibile al Wittgenstein che
emerge dalla nostra analisi.
Le possibilità entro cui Marconi confina il razionalismo (il dogmatismo
da un lato e il regresso all’infinito dall’altro) sono assai simili a ciò che
Popper chiamava rispettivamente “pseudo-razionalismo” e “razionalismo
acritico o radicale”:
164
Sostanzialmente Marconi contesta la sovrapposizione o confusione (operata in particolare da
Davidson al fine di radicalizzare la posizione dei relativisti) tra la “molto plausibile” (ibid., p. 136) tesi
dell’“intraducibilità” fra teorie, giochi o schemi concettuali alternativi e l’“assoluta indescrivibilità dei
criteri di costituzione e di funzionamento della formazione alternativa” (ibid., p. 139), che poi significa
totale incomprensione di un sistema concettuale diverso dal nostro; com’egli osserva, “il punto non è
che, per esempio, la fisica aristotelica sia radicalmente incomprensibile, intraducibile nel nostro
linguaggio, o che siano indescrivibili i suoi criteri di verità fisica; il punto è che - eventualmente - non
c’è niente nella nostra fisica che corrisponde ad una proposizione della fisica di Aristotele” (ibidem),
allo stesso modo in cui, ad esempio, “non c’è una mossa della dama che ‘corrisponda’ ad un arrocco
degli scacchi, nel bridge non c’è niente che corrisponde ad uno scarto del ramino, e nel ramino non c’è
niente che corrisponde ad un impasse nel bridge” (ibid., p. 136); sicché, conclude Marconi, “se due
teorie, T1 e T2, sono costruite in base a regole diverse (principi di validazione diversi), esse sono
ovviamente intraducibili l’una nell’altra [...] Come può Davidson negare questa ovvietà?” (ibidem).
Tuttavia, si può osservare che se l’intraducibilità tra sistemi teorici è davvero un fatto così ovvio,
allora è anche vero che essa è una constatazione superficiale ed epistemologicamente vacua consentita
dall’analogia con i giochi veri e propri, la quale d’altra parte rischia di far perdere di vista il fatto,
altrettanto ovvio ma carico di implicazioni filosofiche, che chi gioca a ramino gioca a ramino, mentre
chi gioca il gioco della fisica cerca di conoscere il mondo in cui vive, e in questo senso la fisica di
Aristotele va confrontata con la fisica post galileiana sulla base dei livelli di realtà che esse sono in
grado di penetrare con le loro leggi e spiegazioni. E si comprende allora che su questa strada Marconi
non potrà contare su Wittgenstein.
132
Viceversa, la forma critica di razionalismo difesa da Popper ha non
pochi punti di contatto con ciò che Marconi chiama antifondazionalismo,
relativismo virtuale e istanza etica del rispetto dell’Altro (come si può vedere
considerando le argomentazioni dello stesso Marconi contro la forma
radicalmente antietnocentrista del relativismo165):
165
“Si deve sottolineare che la difficoltà del relativismo non deriva affatto [...] dall’impossibilità di
riconoscere coerenze normative aliene: siamo di fatto in grado di descrivere un gioco che non abbiamo
mai giocato e non intendiamo giocare, e di identificare le sue regole come regole, cioè come dotate di
efficacia normativa per quel gioco. Il punto è che il riconoscimento di una coerenza ‘altra’ non la
sottrae al nostro giudizio: una proposizione giustificata da un altro criterio non è perciò sottratta
all’ambito di validità dei nostri criteri (come non lo sono gli stessi criteri ‘altri’). Il relativista (o
almeno, l’antietnocentrista) vorrebbe fare di un sistema di coerenze argomentative un monolito
impenetrabile alla critica, come se proposizioni e comportamenti alieni perdessero la loro oggettività -
e quindi la loro giudicabilità - per il fatto di essere integrati dai loro soggetti in una certa rete di ragioni
e argomentazioni; come se prendessero il colore delle premesse e dei criteri da cui dipendono, e
fossero quindi inavvicinabili da criteri di un altro colore. Probabilmente, il relativista confonde
l’efficacia dell’argomentazione e della critica con la sua praticabilità. Se il mio interlocutore è
profondamente affezionato alle sue premesse e ai suoi principi di ragionamento, è molto improbabile
che un’argomentazione basata sulle mie (diverse) premesse e sui miei (diversi) principi lo persuada. E
questo è esperienza quotidiana, senza stare a scomodare gli schemi concettuali alternativi. Ma
l’improbabile efficacia della mia argomentazione per quell’interlocutore non rende l’argomentazione
stessa impraticabile, o illegittima, o insensata. Forse non convincerò gli Azande che le streghe non
esistono, ma posso mettere in piedi un’argomentazione perfettamente accettabile, che abbia quello
scopo. Chi pensa che le nostre ragioni siano in linea di principio inefficaci, e non probabilmente
inefficaci di fatto, deve fare i conti contro un ‘argomento contro le ragioni private’, che è analogo
all’argomento di Wittgenstein contro il linguaggio privato: ragioni in linea di principio incapaci di
convincere altri non dovrebbero convincere nemmeno noi: se non sono in sé convincenti, perché
dovremmo esserne convinti? Non c’è niente nella nostra posizione nel mondo - a parte i fatti - che
possa mediare tra una ragione e il suo valore come ragione per noi. Come aveva già osservato Lewis
Carroll, non può esserci bisogno di qualcos’altro, oltre alla regola di modus ponens, per convincere
qualcuno di accettare la conclusione di un ragionamento per modus ponens” (Marconi 1987, ibid., pp.
151-152).
133
Il passo di Marconi riportato nella nota 13 dimostra ancora una volta
quanto sia importante - anche ai fini della valutazione del relativismo
attribuibile a Wittgenstein - prendere nella dovuta considerazione il problema
delle funzioni del linguaggio, di cui ci siamo occupati ampiamente nel corso
del secondo capitolo. Nel delineare una difendibilissima forma di relativismo
debole, tollerante e ‘razionale’, Marconi fa giustamente uso di nozioni come
quella di “critica” e di argomentazione “perfettamente accettabile” e “in sé”
convincente, distinguendo anche tra validità (o invalidità) di principio ed
efficacia (o inefficacia) di fatto di un’argomentazione. Ma tutto ciò, mentre da
un lato è perfettamente compatibile con la posizione di Popper (la validità o
l’invalidità in sé di un’argomentazione sono criteri oggettivi da Mondo 3,
mentre la sua efficacia o inefficacia riguardano le modalità soggettive, dovute
a fattori non razionalizzabili, in cui si realizza l’interazione tra un oggetto del
Mondo 3 e il Mondo 2 di un individuo), dall’altro risulta assai lontano da
Wittgenstein, o perlomeno dal Wittgenstein emerso dalla nostra analisi
incentrata sul suo rifiuto esplicito e programmatico dell’uso critico e oggettivo
delle argomentazioni (ovvero della funzione argomentativa del linguaggio).
In effetti, in un passo epistemologico assai vicino all’ordine di idee che
stiamo considerando (e che è istruttivo leggere alla luce del § 78 della Logica
della scoperta scientifica,167 per saggiare come Wittgenstein, al pari di Schlick,
166
Popper (1945), Ibid., § 1, p. 299; § 3, p. 313 e p. 314. Come si vede, questo tipo di razionalismo,
fondato sulla consapevolezza fallibilista della precarietà di qualsiasi conquista razionale (affidata alla
nostra responsabilità e alla nostra decisione di preservarla), non ha nulla a che fare con quello di Apel,
scaturito dall’intento di riformare il pensiero del Wittgenstein antropologo e basato sull’idea
hegeliano-heideggeriana del “gioco linguistico trascendentale”, cioè del “gioco dei giochi” costituito
dalla “comunicazione illimitata” messa in opera comunque dalla comunità dei filosofi. La critica di
Marconi a questa soluzione sarebbe stata certamente condivisa dall’autore della Miseria dello
storicismo: “Quella di Apel è chiaramente una proposta razionalistica: c’è un punto di vista assoluto da
cui giudicare ogni gioco linguistico, anche se esso non è dato come un gioco accanto agli altri, ma solo
come ideale regolativo. C’è quindi, se non un concetto, un’idea di ragione come di un insieme di
criteri capaci di determinare qual è la direzione giusta dei cambiamenti. E c’è addirittura, la pretesa
quasi hegeliana di una coincidenza del processo storico con la progressiva realizzazione di questo
ideale: «In questa storia universale dell’umanità, resa possibile certo essenzialmente dalla civiltà
occidentale, si tratta a mio avviso [...] dell’imporsi progressivo del gioco linguistico ideale, già sempre
presupposto trascendentalmente, nelle forme di vita date e contro le limitazioni irrazionali della
comunicazione in queste forme di vita»” (Marconi 1987, ibid., seconda appendice: “Apel e il «gioco
dei giochi»”, p. 158. La citazione di Apel è tratta da Apel 1972, p. 204). Per il rapporto Wittgenstein-
Apel cfr. anche Perissinotto (1997b), § 4, pp. 324-328.
167
Cfr. in particolare il seguente passo: “Il mondo è o non è regolato da leggi rigorose? Io ritengo che
questa sia una questione metafisica. Le leggi che scopriamo sono sempre ipotesi: e ciò significa che
possono sempre essere soppiantate, e possono essere dedotte da stime di probabilità. Tuttavia, negare
la causalità sarebbe lo stesso che tentar di persuadere il teorico a rinunciare alla sua ricerca: e che tale
tentativo non possa appoggiarsi a nulla che somigli a una prova, l’abbiamo già fatto vedere. Il
cosiddetto ‘principio causale’, o ‘legge causale’, lo si formuli come si vuole, ha un carattere molto
differente da quello di una legge di natura, e io non posso dichiararmi d’accordo con Schlick, quando
dice ‘... la verità della legge causale può essere controllata esattamente nello stesso senso in cui si può
controllare la verità di qualsiasi altra legge di natura’. - La credenza nella causalità è metafisica. Non è
nient’altro che una tipica ipostatizzazione metafisica di una regola metodologica ben giustificata: la
decisione dello scienziato di non abbandonare mai la ricerca di leggi. Dunque la credenza metafisica
134
faccia una certa confusione tra la eventuale fede metafisica dello scienziato
nella causalità universale e la sua ricerca di connessioni causali, cioè di leggi
di natura, per decreto metodologico), Wittgenstein dimostra
inequivocabilmente di aderire a una forma di relativismo che sfocia in
un’assoluta equiparazione degli “stili di pensiero” (nel senso di Hacking, come
abbiamo visto), rendendo vana così qualsiasi ipotesi di un criterio - magari
supportato da considerazioni storiche o biologiche - di preferibilità razionale:
I fisici fanno riferimento alle leggi della causalità nelle loro prefazioni, ma in
seguito non la menzionano più. Non possono dedurre i loro assiomi dalla
causalità, ma credono che una volta o l’altra possa loro riuscire. [...]
Nondimeno, in un modo diverso, la causalità è alla base di tutto ciò che essi
fanno. E’ effettivamente una descrizione del loro stile di indagine. La causalità
rappresenta per il fisico uno stile di pensiero. [...] La medesima cosa avviene
con la creazione. Dio è uno stile; la nebulosa è un altro. Uno stile ci dà
soddisfazione; ma uno stile non è più razionale di un altro. Le osservazioni
sulla scienza non hanno a che fare con il progresso della scienza. Esse sono
piuttosto uno stile, che ci dà soddisfazione. ‘Razionale’ è una parola che ha un
uso simile. [...] Si può chiedere se la totalità è razionale? No: la razionalità si
applica soltanto all’interno del sistema (L 1930-1932, pp. 127-128; corsivi miei).
135
nell’ambito della nostra comunità e del discorso scientifico - applicare leggi
scientifiche» (ibidem), e poiché le leggi scientifiche, in quest’ottica toto coelo
strumentalistica, non possono essere altro che l’«espressione di un metodo» più
o meno comodo per costruire enunciati empirici, allora si comprende perché,
in ultima analisi, «descrizione e spiegazione coincidono» (ibid.; corsivo mio).
Ora, a me sembra che a Marconi sfugga che nel Wittgenstein antropologo
permangono residui di un atteggiamento giustificazionista mascherato da un
convenzionalismo neutrale, proprio nella sua insistenza sul fatto che,
all’interno della cornice ontologica ingiustificabile di un Weltbild, le
giustificazioni per mezzo dell’esperienza debbano aver termine e debbano
convincere (magari attraverso il ricorso ad ogni genere di Schlagwort o
slogan), trasmettendo una sorta di sicurezza tranquilla (beruhigte /
comfortable: DC, § 357), quasi animalesca (animalisch: § 359), posta al di là
del giustificato e dell’ingiustificato (etwas ... was jenseits von berechtigt und
unberechtigt liegt, dice quasi nietzscheanamente Wittgenstein: ibid.) - perché
altrimenti non sarebbero delle giustificazioni. Non v’è dubbio, infatti, che se
riusciamo a mostrare che al termine delle ragioni che ci ‘fanno’ seguire una
certa regola di calcolo matematico, o ci ‘fanno’ accettare un certo corpus di
cognizioni empiriche come un che di assolutamente indubitabile (espresso in
asserzioni che Wittgenstein ama chiamare grammaticali), non c’è un
‘qualcosa’, una ‘causa’, un ‘postulato’, una verità evidente etc., ma soltanto il
nostro ‘agire così’ e basta, con ciò stesso forniamo delle ottime e indiscutibili
ragioni - sui generis, naturalmente - per ogni fenomeno culturale.168
E’ chiaro, tuttavia, che la necessità che la catena delle giustificazioni
debba avere un termine nell’esibizione del fatto che si agisce così, non esiste
dal punto di vista di una concezione che veda nella spiegazione non tanto
l’applicazione, quanto piuttosto la ricerca di leggi nel tentativo di ricondurre
un explicandum noto ad un explicans ancora tutto da controllare e a sua volta
sempre suscettibile di spiegazione ulteriore a un livello più alto di generalità.
Naturalmente, il wittgensteiniano può sempre obiettare che anche questo è uno
slogan o uno Schlagwort che presuppone l’adozione di un gioco linguistico (il
gioco linguistico aperto che ammette il proprio continuo trascendimento per
mezzo della criticabilità e della giustificabilità ad infinitum delle sue
assunzioni empiriche); ma questo dimostra soltanto, come ha riconosciuto
168
Cfr. anche GF, I, § 55a; Libro marrone, II, § 5, in LBM, p. 184; RF, §§ 481 e 485 e soprattutto DC,
§§ 110, 192, 204, 205 e 608-612. I concetti irrazionalistici di “Schlagwort” e “slogan” ricorrono nel §
610 (mai citato da Marconi), laddove Wittgenstein sostiene che essi sono i soli strumenti cui possiamo
ricorrere per sostenere il nostro punto di vista contro chi, come si ipotizza nel § 609 (spesso citato da
Marconi), appartenesse a una tribù che avesse deciso di regolare il proprio modo d’agire consultando
un oracolo piuttosto che le leggi della fisica. E’ strano, allora, che a proposito della ‘tribù’ immaginata
nel § 609, Marconi dica che le asserzioni dei suoi membri basate sulla consultazione dell’oracolo
sarebbero “decisamente false” (p. 129), adombrando l’idea che questa conclusione sia in accordo con il
tipo di relativismo sostenuto dal Wittgenstein antropologo: sulla base delle nostre analisi, invece, la
metodologia di Wittgenstein non può fornire alcun criterio per una simile conclusione.
136
Popper, che l’irrazionalismo ha una certa superiorità logica su qualsiasi forma
di razionalismo, perché ci si può sempre rifiutare di accettare ogni forma di
dibattito senza cadere in contraddizione. 169 Ciò che rimane, allora, è la scelta
etica tra l’accettazione di catene finite di giustificazioni entro cornici
indiscutibili e l’atteggiamento critico verso qualsiasi forma di conoscenza che
si ponga come precostituita e richieda solo di essere esibita perspicuamente.
Si può osservare, infine, che questo contrasto fondamentale emerge
esemplarmente in due passi in cui Wittgenstein e Popper ragionano in maniera
estemporanea su una possibile teologia morale. Trovandosi a commentare un
passo di Schlick (1930, p. 8), Wittgenstein osserva (17 dicembre 1930):
Secondo Schlick nell’etica teologica si danno due concezioni della natura del
bene: secondo l’interpretazione più piana, il bene è bene perché Dio lo vuole;
secondo l’interpretazione più profonda, Dio vuole il bene perché è bene. Credo
169
Cfr. supra, nota 141. Il non acquisire una piena consapevolezza critica di questo fatto puramente
logico, può ingenerare dei facili trionfalismi filosofici che ne occultano, conservandole, tutte le
conseguenze irrazionalistiche e oscurantistiche. Si consideri ad esempio il modo in cui Palmieri (1997,
pp. 41-51) affronta - per la verità con una strumentazione testuale ed epistemologica nemmeno
lontanamente paragonabile a quella di Marconi - il problema del rapporto tra i metodi esplicativi della
scienza e la metodologia descrittivistica del Wittgenstein antropologo. Il capitolo in questione del libro
di Palmieri, intitolato “Lebensformen e scienza”, è emblematico, dal punto di vista assunto nel nostro
lavoro, non solo della sconcertante superficialità con cui spesso si fa riferimento a Popper dall’interno
del (presunto) punto di vista wittgensteiniano, ma anche del pessimo servizio reso allo stesso
Wittgenstein da quegli approcci apologetici al suo pensiero che replicano dilettantescamente la sua
avversione nei confronti della scienza. Palmieri, infatti, in un contesto in cui, seguendo soprattutto il
Wittgenstein dei Pensieri diversi e delle Note a Frazer, delinea “l’immagine della conoscenza
scientifica” denunciandone il carattere “totalizzante” (espresso, manco a dirlo, dal povero Frazer, cioè
da uno studioso di mitologie arcaiche), il privilegiamento dell’astrattezza e della specializzazione
settoriale (con la conseguente autorità accordata ai cosiddetti ‘specialisti’ dei vari settori della ricerca
pura) e soprattutto la fede abbagliante nella futura “conoscenza della verità”, trova modo in nota di
fare riferimento a Popper (e solo a lui!) quale esponente di “quella filosofia che ama definirsi
epistemologica” (anch’essa, peraltro, come la scienza, “preda della generalità” e della “idealità”, e
quindi destinata a girare a vuoto come uno spettro perché nata morta dal linguaggio, già morto per
conto suo, della scienza: cfr. p. 48). Ora, fare il nome di Popper in un contesto in cui si sta eseguendo
il noto scioglilingua contro lo scientismo positivistico di derivazione ottocentesca (allegramente
identificato con la scienza) è già sbagliato per il semplice fatto che Popper, come tutti sanno, ha
combattuto per una sessantina d’anni contro tutte le degenerazioni settorialistiche e autoritarie della
scienza, per non parlare della fede dogmatica nella possibilità della conoscenza della verità (che, per
inciso, i neopositivisti avevano attinto dal Tractatus, dove addirittura la scienza è la sede di tutte le
possibili asserzioni vere). Ma ciò che è veramente significativo è il modo in cui Palmieri nella stessa
nota ricorda lo scontro tra Popper e Wittgenstein al Moral Science Club. Secondo lui esso “illustra [...]
quale fosse la considerazione di Wittgenstein nei confronti di Popper” (p. 49), e per dimostrare questa
asserzione egli cita il racconto dell’episodio fatto da Monk (1990, pp. 486-487). Le cose, però, non
stanno affatto così, perché, pur essendo vero che a Wittgenstein non importava nulla di Popper, il
resoconto più dettagliato che abbiamo dello scontro è quello che si trova nell’Autobiografia di
quest’ultimo (su cui naturalmente si basa Monk, ma Palmieri forse non ci ha fatto caso), il quale
voleva così illustrare quale fosse la sua considerazione nei confronti di Wittgenstein. Infine, per dare
l’idea dell’orizzonte filosofico da cui Palmieri muove per ricostruire e denunciare la logica e lo status
della scienza tout court, basta il semplice elenco dei testi non wittgensteiniani da lui citati nel capitolo
in questione del suo libro: il Discorso del metodo di Cartesio, l’Etica di Spinoza, La Persuasione e la
Rettorica di Michelstaedter, Wittgenstein. Scienza, Etica, Estetica di Bouveresse, La parte maledetta
di Bataille e il già ricordato Wittgenstein di Monk.
137
che la prima concezione sia la più profonda: bene è quel che Dio comanda.
Essa infatti taglia la strada a qualsiasi interpretazione del ‘perché’ sia bene,
mentre proprio la seconda concezione è quella piatta e razionalistica che fa
‘come se’ si potesse ancora motivare quel che è bene. - La prima concezione
dice chiaramente che la natura del bene non riguarda i fatti e quindi non può
essere spiegata. Se c’è una proposizione che esprime quel che voglio dire è la
seguente: Bene è quel che Dio comanda (WCV, p. 105 [= LC, pp. 24-25]).
170
Per questo richiamo cfr. anche Popper (1963a), cap. 7, § 6, pp. 313-316.
138
CONCLUSIONE
139
In un certo senso, potremmo dire che qui ci troviamo di fronte a un curioso e
quasi paradossale “effetto di Edipo”.172 Da un lato Popper ha profetizzato
un’involuzione in chiave esoterica ed elitaria del pensiero wittgensteiniano
basandosi quasi esclusivamente sulle innegabili componenti irrazionalistiche
presenti Tractatus, per cui, ad esempio, Wittgenstein «non propone argomenti
articolati e aperti al dibattito ma propone invece aforismi ed enunciati
dogmatici che devono essere ‘compresi’ o lasciati andare», al punto che ciò
«tenderà in genere a diventare la caratteristica di una scuola esoterica di
iniziati. E, di fatto, questa previsione sembra essere in parte confermata da
alcune delle pubblicazioni che sono uscite dalla scuola del Wittgenstein».173
Dall’altro Wittgenstein, il quale notoriamente non ha mai apprezzato lo
140
scolasticismo prodotto dalle varie esegesi del Tractatus, ha realizzato in pieno
la profezia di Popper nonostante i tentativi quasi ossessivi di allontanarsi il più
possibile da certe direzioni che esso sembrava indicare, e questo proprio col
suo inappellabile e sprezzante rifiuto di ciò che egli considera la più intima
essenza della civiltà occidentale (cioè, in fondo, la fede nelle argomentazioni
critiche e nel progresso mai conclusivo della conoscenza), e col conseguente
appello a quella ristrettissima cerchia di iniziati in grado di condividere, e
quindi di comprendere, lo spirito e il messaggio delle sue analisi.174
Ciò è esattamente il senso dell’idea, sostenuta in questo libro, della
fondamentale estraneità della metodologia filosofica proposta e praticata da
Wittgenstein rispetto al dibattito epistemologico post-popperiano, nonostante
l’esplicito richiamo a Wittgenstein di alcuni dei suoi protagonisti.
Naturalmente occorre tenere ben separati da una parte il fattore tecnico (il
rifiuto dell’uso argomentativo del linguaggio come strumento euristico) che
conferisce alla posizione wittgensteiniana la propria specificità, e dall’altra la
sua valutazione (la quale richiede l’assunzione di standard o criteri di
valutazione). La valutazione sostanzialmente negativa della metodologia di
Wittgenstein che emerge dalla nostra analisi dev’essere considerata quindi il
risultato della esplicita assunzione di una prospettiva assiologica, fornitaci
dalla decisione di considerare preferibile nella discussione filosofica la
proposta popperiana (almeno tacitamente assunta, in fondo, in ogni dibattito
intersoggettivo) di affidare alla comunicazione razionale critica il compito di
veicolare e far progredire i contenuti informativi dei nostri tentativi di
conoscenza. Alla luce di questa prospettiva l’approccio wittgensteiniano
conduce nella direzione esattamente opposta: non c’è possibilità di
comunicazione razionale tra le diverse forme di vita (ovvero tra i diversi giochi
§ 309 di RF: “Non reputo la filosofia una terapia intellettuale (come Wittgenstein), un’attività tramite
la quale si libera la gente dai suoi turbamenti filosofici. Secondo me Wittgenstein - nella sua opera
matura - non mostra (come sperava) alla mosca la strada per uscire dalla bottiglia. Piuttosto reputo la
mosca incapace di uscire dalla bottiglia un calzante autoritratto di Wittgenstein. (Wittgenstein era
palesemente un caso wittgensteiniano, come Freud era un caso freudiano e Adler un caso adleriano)”
(in Popper 1984, cap. XIII, § VI, p. 181).
174
È significativo, peraltro, che quest’ultimo aspetto del pensiero di Wittgenstein venga menzionato
con grande approvazione da qualche moderno studioso di Platone non particolarmente critico nei
confronti della visione esoterica ed autoritaria che quest’ultimo aveva della conoscenza e della sua
fruizione. Si consideri, a mo’ di esempio, Szlezák (1988). Nell’Appendice I, dedicata al ‘dialogo’
come genere letterario per la scrittura filosofica, Szlezák, tessendo un elogio dell’atteggiamento
oracolare assunto da Platone nei suoi dialoghi maggiori, ricorda alcune opere del pensiero occidentale
ispirate dal medesimo atteggiamento. Ed è così che, dopo aver fatto riferimento nel testo alle Massime
capitali di Epicuro, alle Confessioni di Agostino (molto frequentate da Wittgenstein), alle liriche di
Hölderlin, alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, a Così parlò Zarathustra di Nietzsche e ad
Essere e tempo di Heidegger (opere, queste, che per loro intima natura sarebbero rivolte a una
ristrettissima cerchia di iniziati), egli cita in nota il seguente passo wittgensteiniano, definendolo “di
una chiarezza inimitabile” (p. 448): “Il libro deve stabilire automaticamente la separazione fra coloro
che lo capiscono e coloro che non lo capiscono” (tale passo, che prosegue specificando che “anche la
prefazione è scritta [...] per coloro che capiscono il libro”, si trova in un altro abbozzo di Prefazione
per OF: cfr. PD, pp. 28-29).
141
linguistici in cui queste ultime si mostrano)175; non c’è alcuno standard
regolativo oggettivo - come la ‘validità’ - per le argomentazioni critiche (è di
volta in volta il gioco linguistico in cui siamo immersi a stabilire ciò che è
accettabile come argomentazione o spiegazione soddisfacente); ci sono
contenuti informativi che non possono assolutamente essere sottoposti a critica
dall’interno (specialmente se si tratta di quelli delle asserzioni che
costituiscono la trama empirico-grammaticale che sostiene un determinato
Weltbild); non c’è, infine, qualcosa come un tentativo sempre perfezionabile di
pervenire a una conoscenza oggettiva del mondo in cui viviamo, né tanto meno
una tale conoscenza oggettiva (credere il contrario è anzi la superstizione per
eccellenza, poiché il sapere scientifico non è altro che un insieme di tecniche -
matematiche, ingegneristiche etc. - consolidate dall’uso, e in quanto tale esso
costituisce il paradigma di ciò che ‘è sicuro’176).
Il pericolo insito in questa posizione è principalmente quello di
incoraggiare un habitus filosofico in grado di bloccare ogni discussione
attraverso l’uso sistematico di una procedura che, piuttosto che affrontare il
contenuto di un’eventuale obiezione, ne denuncia la genesi patologica (ad
esempio nel cattivo uso del linguaggio o nella condivisione delle superstizioni
metafisico-grammaticali che vi si annidano). Ciò si vede chiaramente se
175
Il punto di vista interpretativo sostenuto in questo libro ci impedisce di condividere l’ottimismo
della Andronico su questo punto: “La solidità dell’adesione al nostro sistema di credenze e di pratiche
non sembra comportare, per Wittgenstein, una relazione di pura e semplice incommensurabilità nei
riguardi di eventuali sistemi alternativi; egli sembra dare per scontato che sia possibile ‘dare ragioni’ a
chi pratica un gioco linguistico incompatibile col nostro [DC, § 612]. E quando dice che ‘al termine
delle ragioni sta la persuasione’ (ibid.) non sembra alludere a una forma di violenza più o meno
mascherata, ma piuttosto all’insieme di mezzi con cui è possibile (anche se nient’affatto garantito) che
si operi un cambiamento di prospettiva: mezzi paragonabili a quelli messi in opera da un insegnante
che fa acquisire a un allievo una tecnica nuova, per esempio quella della moltiplicazione” (Andronico
1997, pp. 263-264). Ma il problema è proprio questo: dal punto di vista razionale, e soprattutto dal
punto di vista etico, il confronto delle opinioni, e magari la vittoria di un’opinione sull’altra, non
possono essere assimilati alla procedura con la quale si ‘addestra’ un allievo a padroneggiare la tavola
pitagorica (cfr. OFM, I, § 22 e soprattutto Z, § 419: “Il fondamento di ogni spiegazione è
l’addestramento. (Su questo dovrebbero riflettere gli educatori.)”, cui rimanda la stessa Andronico). Si
pensi a come sarebbero felici di impadronirsi di un metodo pedagogico di questo tipo i Ministri
dell’Educazione di un partito totalitario salito al potere (magari attraverso regolari elezioni
democratiche maggioritarie). Non sarà stato certamente un caso, infatti, che gli “educatori” fascisti,
nazisti e stalinisti miravano non tanto a spiegare la Dottrina ai giovani nelle scuole, quanto piuttosto
ad addestrarli ad essa sin da piccoli, in modo che sapessero poi ‘sostenerla’ come si ‘sostengono’ le
tabelline.
176
A tal proposito sono significativi i §§ 466-474 di RF (in gran parte paralleli al § 67 di GF, I), dove
Wittgenstein mostra la vacuità essenzialistica di una domanda come “Perché l’uomo pensa?” (e infatti,
“Come si potrebbe scoprire perché pensa?”, § 468) rispetto all’importante constatazione del fatto che
gli uomini pensano e che ciò talvolta dà buoni risultati pratici (come si vede ad esempio nel caso delle
caldaie, che da quando vengono costruite dagli ingegneri esplodono meno di prima), e suggerisce che
la nostra credenza nell’uniformità degli avvenimenti naturali (la quale ad esempio ci dà la sicurezza
che se tocchiamo il fuoco ci bruceremo) non ha assolutamente nulla a che vedere con la conoscenza
scientifica, astratta, dell’ordine delle cose, poiché si tratta soltanto di una risposta comportamentale
analoga a quella che ci fa scansare un’automobile, o sedere quando siamo stanchi o balzare in piedi
quando ci sediamo su una spina (quest’ultima notazione biologica si trova nel paragrafo citato di GF).
142
pensiamo all’analogia tra lo scopo terapeutico assegnato da Wittgenstein alla
filosofia (cfr. in part. RF, §§ 133, 255, 309) e il metodo psicoanalitico. Questa
analogia, su cui è tornato con forza Kenny (1982) definendola “importante e
fruttuosa”,177 era riconosciuta anche da Wittgenstein, il cui passo forse più
esplicito si trova alla fine del § 87 di BT (in F, p. 12 e p. 14):
Uno dei compiti più importanti è quello di esprimere tutti i percorsi di pensiero
[Gedankengänge] sbagliati in una maniera così caratteristica, che il lettore
dica: “Sì, l’avevo inteso proprio così”. Bisogna mettere in mostra la fisionomia
di ciascun errore.
Il fatto è che possiamo convincere [überführen] l’altro di un errore solo se egli
riconosce che questa è davvero l’espressione del suo modo di sentire [...].
In effetti, è l’espressione giusta solo se egli la riconosce come tale.
(Psicoanalisi).
Ciò che l’altro riconosce, è l’analogia che io gli propongo come fonte del suo
pensiero.
143
repressioni del critico. E i filosofi del significato, a loro volta, non hanno che
da dichiarare che quanto sostengono i loro oppositori è senza significato, il che
sarà sempre vero, dal momento che la ‘insignificanza’ può essere definita in
modo tale che qualsiasi discussione intorno ad essa è per definizione senza
significato» (Popper 1945, vol. II, cap. XXIII, p. 283).
A riprova di tutto ciò, penso si possa concludere citando un passo della
Grammatica filosofica (II, § 25), il cui contenuto occasionale - limitato alla
filosofia della matematica - può essere facilmente generalizzato leggendo “il
filosofo” al posto de “il matematico” e “il linguaggio” al posto de
“l’aritmetica” (lo si confronti infatti con RF, §§ 254 e 255, citati sopra nel
testo compreso tra le note 99 e 100):
178
Cfr. Kenny (1982), in Andronico, Marconi, Penco (a cura di) (1988), p. 210.
144
ADDENDA
145
Darò qui di seguito qualche dettaglio sulla utilizzazione esplicita di Wittgenstein da
parte di Quine, Kuhn e Feyerabend, accennando anche ad alcuni problemi relativi al loro
rapporto con Popper.
I) Per quanto riguarda Quine, si può innanzi tutto ricordare che nel suo saggio
Ontological Relativity, cap. 2 di Quine (1969), egli discute i problemi della intrinseca
inscrutabilità del riferimento e della consequenziale indeterminatezza della traduzione -
risolvibili approssimativamente solo mediante “analytical hypotheses” sulla semantica del
linguaggio esaminato - riprendendo da un lato il suo famoso esempio del “coniglio” e del
“gavagai”, discusso nei §§ 7-12 di Quine (1960), e dall’altro l’esempio wittgensteiniano della
definizione ostensiva apparentemente innocua “Questo si chiama ‘seppia’ ”, la quale può
essere intesa solo se si sa già che con essa si vuole definire un colore e non una forma o un
materiale, e quindi solo se si condividono un gioco linguistico e una forma di vita (cfr. RF, §
30). In Quine (1960), § 16, p. 99, dopo aver osservato che per “enunciati teorici come ‘I
neutrini sono privi di massa’ [...] vale il detto di Wittgenstein: ‘Comprendere un enunciato
significa comprendere un linguaggio’”, egli aggiunge nella nota relativa: “Forse la dottrina
dell’indeterminatezza della traduzione non avrà poi un’aria tanto paradossale per i lettori che
conoscono le osservazioni dell’ultimo Wittgenstein sul significato” (per il passo di
Wittgenstein, Quine rimanda solo al Libro blu [LBM, p. 11], ma è noto che esso ricorre
anche nell’ultimo capoverso dell’importante § 199 di RF).
A proposito del concetto quineano dell’intraducibilità tra sistemi linguistico-
culturali, dopo aver dichiarato di condividere senz’altro le critiche di Quine (che poi, come
visto, sono quelle del Wittgenstein delle Ricerche) alla nozione museale del significato,
senza per questo condividere quella osservazionista e comportamentista (propria di
Wittgenstein e Quine), Popper osserva: “La mia ipotesi è che il lavoro di traduzione sia
questione di congetture e confutazioni - formulare ipotesi a proposito dei problemi e del
bagaglio di conoscenze altrui” (Popper 1994a, cap. II, p. 93, nota 17. Cfr. anche 1976a, § 7,
pp. 25-26). Ed è significativo che sulla specifica questione della traduzione, Wittgenstein
avesse un’opinione assai poco quineana, come testimonia il lucido § 698 di Zettel: “Il
tradurre da una lingua in un’altra è un compito matematico; il tradurre una poesia lirica, per
esempio, in una lingua straniera, è in tutto e per tutto analogo a un problema matematico.
Infatti possiamo benissimo proporci il problema: ‘Come si può tradurre questo motto di
spirito (per esempio) con un motto di spirito nell’altra lingua?’, cioè, come si può sostituirlo;
e il problema può anche essere risolto; ma un metodo, un sistema per risolverlo, non c’era”.
Sulla questione dell’antimentalismo, poi, come nota Kripke, “spesso la filosofia
della mente di Wittgenstein è stata considerata di stampo comportamentistico, ma anche se
Wittgenstein può dimostrare avversione nei confronti dell’‘interiore’, nessuna avversione del
genere va assunta come premessa: deve invece essere argomentata come conclusione. [...]
Esistono molti punti di contatto tra l’analisi di Quine e quella di Wittgenstein. Quine tuttavia
è ben lieto di partire dall’idea che solo i dati del comportamento debbano essere ammessi
nella discussione. Wittgenstein, al contrario, intraprende una vasta indagine introspettiva, i
cui risultati [...] costituiscono l’elemento chiave della sua argomentazione [contro il
linguaggio privato]” (Kripke 1982, cap. 2, p. 21; cfr. anche cap. 3, pp. 50-52). Su questo
punto cfr. anche Voltolini (1997), in Marconi (a cura di) (1997), 1a Appendice, § 2.3, pp.
311-313, dove si trovano altri rinvii bibliografici sul rapporto Wittgenstein-Quine.
II) Per quanto riguarda Kuhn, si può osservare che è stato egli stesso a utilizzare i §§
65-77 di RF per spiegare come vengano usati i paradigmi in una fase di scienza normale: “in
assenza di un corpo completo di regole, che cosa vincola lo scienziato ad una particolare
tradizione di ricerca scientifica normale? [...] Sia pure in un contesto totalmente differente, il
Ludwig Wittgenstein dell’ultimo periodo fornì delle risposte parziali a questo tipo di
domande. Poiché quel contesto è più elementare e più familiare, risulterà più facile
considerare innanzi tutto la forma della sua argomentazione. Che cosa dobbiamo sapere - si
chiede Wittgenstein - per poter applicare termini come ‘sedia’, ‘foglia’, ‘gioco’ in maniera
146
inequivocabile e senza provocare discussioni? [...] Per Wittgenstein, in breve, giochi, sedie e
foglie sono famiglie naturali, ciascuna delle quali è costituita da una rete di rassomiglianze
che si incrociano e coincidono tra loro in molti punti. L’esistenza di una tale rete di
rassomiglianze è sufficiente a spiegare il nostro successo nell’identificare l’oggetto o
l’attività corrispondente” (Kuhn 1962, 1970, cap. V, p. 67).
Per il rapporto tra Kuhn e il Wittgenstein delle Ricerche, è interessante anche quanto
si osserva in von Wright (1982), cap. VI, pp. 217-219, dove viene messo in luce il nesso tra il
concetto di Weltbild usato dall’ultimo Wittgenstein e quello di paradigm introdotto da Kuhn.
Un sostegno indiretto per questa ipotesi di collegamento è costituito senza dubbio dal modo
quasi ‘kuhniano’ ante litteram in cui Wittgenstein delinea all’inizio del § 23 delle Ricerche la
possibile ‘struttura delle rivoluzioni linguistiche’: “Ma quanti tipi di proposizioni ci sono?
Per esempio: asserzione, domanda e ordine? - Di tali tipi ne esistono innumerevoli:
innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo ‘segni’, ‘parole’,
‘proposizioni’. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma
nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri
invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i
mutamenti della matematica.)”.
Sul problema cruciale della logica delle rivoluzioni scientifiche e di quelle
ideologiche (che il wittgensteiniano-kuhniano interpreta in termini irrazionali, ovvero non
riducibili a un modello razionale, come ad esempio quello popperiano), si vedano anche
Popper e Eccles (1977), vol. I, cap. P5, § 43, pp. 182-183, nonché Popper (1975a), ora cap. 1
di Popper (1994a), pp. 17-55. A tale saggio rinvia significativamente lo stesso Popper nel § X
della “Prefazione 1982” al terzo volume del Poscritto, allorché individua nel fattore della
ricostruibilità razionale della situazione (proprio quel fattore su cui ha fatto leva Feyerabend
per entrare nella situazione problematica dell’Orestea!) il vero discrimen tra i propri
‘programmi di ricerca metafisici’ e i ‘paradigmi’ di Kuhn (cfr. Popper [1956], 1982b, p. 47,
nota 42 e testo relativo). Questo punto fondamentale, però, è semplicemente ignorato da
Gillies e Giorello nella loro analisi della differenza, al di là dell’“evidente” analogia, che
intercorrerebbe tra i ‘programmi’ popperiani e i ‘paradigmi’ kuhniani. Dopo aver citato il
seguente passo di Popper ([1956], 1982b), p. 169: “la discussione critica della teoria e dei
suoi risultati può portare a un mutamento del programma di ricerca [...] o alla sua
sostituzione mediante un altro programma”, essi rilevano: “L’analogia con Kuhn [...] è
evidente. Tuttavia, il paradigma kuhniano, per quanto imbevuto di metafisica, struttura la
ricerca normale: è interno all’impresa scientifica. I programmi metafisici di Popper, al più,
fungono da catalizzatore, ma restano esterni all’impresa scientifica propriamente
caratterizzata. Per Popper [...] guai a confondere metafisica con scienza!” (Gillies e Giorello
1995, cap. 12, p. 315). Ma se le cose stessero veramente così, se cioè si trattasse solamente
della questione della collocazione (esterna / interna) di programmi e paradigmi rispetto
all’impresa scientifica, allora si dovrebbe concludere, al contrario, che Popper e Kuhn sono
praticamente indistinguibili, come risulta in maniera inequivocabile dal passo di Popper che
segue immediatamente quello citato e che sembra essere sfuggito a Gillies e Giorello:
“Questi programmi vengono solo occasionalmente discussi in quanto tali: essi sono, più
spesso, impliciti nelle teorie, negli atteggiamenti e nei giudizi degli scienziati” (Popper
[1956], 1982b, ibidem). Ora, alla luce dell’analisi che abbiamo condotto nel primo capitolo
sulle implicazioni della “tesi Gillies-Giorello”, questa circostanza rafforza indirettamente le
conclusioni cui lì siamo pervenuti, dal momento che qui ci troviamo di fronte a una
valutazione del rapporto Kuhn-Popper perfettamente simmetrica a quella vista emergere a
proposito del rapporto Wittgenstein-Popper. Infatti, la medesima mancata insistenza sugli
elementi cruciali che distinguono l’approccio popperiano da quello kuhniano - come la
ricostruibilità razionale delle situazioni problematiche, l’oggettività degli standard critico-
argomentativi ed il realismo metafisico - conduce inevitabilmente Gillies e Giorello ad
assimilare troppo i ‘programmi’ di Popper prima ai ‘giochi’ di Wittgenstein e poi ai
147
‘paradigmi’ di Kuhn, sulla base di una sopravvalutazione di analogie concettuali in realtà
affatto estrinseche.
Non è un caso, d’altronde, che Popper abbia ben presente Wittgenstein (tutto
Wittgenstein, come si deduce da Popper 1963a, cap. 2, nota 8, p. 123) in un contesto in cui
egli critica la versione kuhniana del ‘mito della cornice’, e in particolare l’idea che non
esistano autentici problemi scientifico-filosofici ma solo puzzles entro la cornice
intrascendibile costituita da un ‘paradigma’: “Non so se l’uso che Kuhn fa del termine
‘rompicapo’ [puzzle] abbia qualcosa a che vedere con l’uso che ne fa Wittgenstein.
Naturalmente, Wittgenstein lo usava in connessione alla sua tesi secondo cui non vi sono
autentici problemi nella filosofia, ma solo rompicapo, cioè pseudoproblemi connessi con
l’uso improprio del linguaggio. Comunque stiano le cose, l’uso del termine ‘rompicapo’
invece di ‘problema’ è certamente una spia del desiderio di mostrare che i problemi così
descritti non sono molto seri o molto profondi” (Popper 1970a, in Lakatos e Musgrave [a
cura di] 1970, p. 123, nota 1).
III) Per quanto riguarda infine Feyerabend, le sue professioni di fede per i liberi e
concreti giochi wittgensteiniani contrapposti al rigido e astratto monismo metodologico
popperiano (con l’antiteoricismo che ne consegue), sono abbastanza frequenti: cfr. ad es.
Feyerabend (1975), cap. 10, p. 110, dove si ha l’unica ma significativa ricorrenza del nome
di Wittgenstein (nel brevissimo cap. 13, invece, si fa largo uso della nozione di “forma di
vita” e di quella di “grammatica” nel chiaro senso di ‘gioco linguistico’: cfr. p 133.), e
soprattutto Feyerabend (1984), in part. pp. 30, 50 e 89, e Feyerabend (1989), dove si può
leggere fra l’altro: “C’è molto Wittgenstein in tutti i miei saggi” (p. 4). Sulle Ricerche
filosofiche Feyerabend scrisse nel 1952 un saggio breve ma filosoficamente denso in tedesco,
che la Anscombe, cui egli l’aveva mandato, tradusse in inglese e fece poi pubblicare nel 1955
col titolo Wittgenstein’s Philosophical Investigations (ora in Feyerabend 1981, vol. II, pp. 99-
130). Nel poscritto del 1980, ibid., p. 130, Feyerabend nota di passaggio che quello che noi
oggi chiameremmo kripkeanamente il “paradosso scettico” di Wittgenstein ha conseguenze
disastrose anche sulla logica delle scienze sociali difesa da Popper nella “poor” Miseria dello
storicismo. Su questo saggio si veda anche Feyerabend (1994), pp. 107-108.
Sulle circostanze che portarono Feyerabend a studiare sotto la guida di Popper,
anziché di Wittgenstein, com’egli avrebbe invece voluto (conseguito il Ph.D. a Vienna,
Feyerabend ottenne dal British Council una borsa di studio per andare a studiare a Cambridge
con Wittgenstein, ma la morte di quest’ultimo, avvenuta il 29 aprile del ’51, lo dirottò alla
London School of Economics, dove, a partire dall’autunno del 1952, ebbe Popper come
supervisor), cfr. Feyerabend (1984), p. 84 e (1994), pp. 98-99. Ma si veda anche (1994), pp.
86-87, dove Feyerabend racconta del suo incontro con Wittgenstein a Vienna (raccontato
anche in Feyerabend 1978a, p. 167). Si può notare, a tal riguardo, e al di là delle valutazioni
dello stesso Feyerabend, che anche in questo racconto emerge chiaramente la difficoltà, quasi
connaturata in Wittgenstein, di partecipare serenamente a un confronto pubblico di idee: il
suo brusco “Halt, so geht das nicht!”, con cui pare abbia preso la parola interrompendo il
giovane Feyerabend durante un seminario al quale si presentò quasi volutamente con più di
un’ora di ritardo, concorda assai bene con quanto dice Popper sul comportamento di
Wittgenstein nel racconto dello scontro avuto con lui (per cui cfr. supra, cap. 1, § I). Sulla
formazione wittgensteiniano-popperiana di Feyerabend si vedano anche Corvi (1989), p. 163
e soprattutto Corvi (1992), cap. I, § 1, pp. 21-24 e § 2, pp. 33-43.
IV) Per una panoramica sulla questione del ‘relativismo epistemologico’ più o meno
direttamente ispirato alla filosofia dell’ultimo Wittgenstein, rimando a Phillips (1977),
Stegmüller (1978), Marconi (1987), cap. VII, pp. 121-160 (di cui ci siamo occupati in
dettaglio nel cap. V), Gillies e Giorello (1995), cap. 13, pp. 339-369, Giorello et al. (1994),
cap. II, §§ 7-12, pp. 103-142, e cap. VII, pp. 369-398, nonché a Egidi (a cura di) (1988), che
raccoglie saggi di K. Hübner, W. Stegmüller, P. Feyerabend, G. Radnitzky, L. Krüger, D.
Davidson, H. Putnam, I. Hacking, L. Laudan e R. Rorty. Per un quadro generale sul
148
complesso dibattito nell’ambito della cosiddetta epistemologia post-popperiana, punto di
riferimento imprescindibile rimane ancora Lakatos e Musgrave (a cura di) (1970), compresa
l’ampia e articolata “Introduzione” di Giorello all’edizione italiana, pp. 7-63; ma si veda
anche Coniglione (1978), dove si trovano fra l’altro interessanti e documentate osservazioni
sui limiti del modo in cui Popper ha concepito il rapporto tra Wittgenstein e il Circolo di
Vienna (questione cui facevamo cenno nell’ Introduzione a questo libro): su quest’ultimo
punto cfr. il cap. 1, in part. pp. 17-24.
149
richiamo all’apertura e alla fertilità del metodo per prova ed eliminazione degli errori, allo
stesso Popper (cfr. Hacking 1982, pp. 186 e 201-202).
150
polemica esplicita con l’approccio analitico wittgensteiniano, ha sempre voluto ignorare in
quanto irrilevante per la scienza e per l’epistemologia.
Wittgenstein aveva avanzato un’interpretazione in qualche modo oggettivistica e
razionalistica degli enunciati epistemici nella prop. 5.542 del Tractatus: “è chiaro che ‘A
crede che p’, ‘A pensa p’, ‘A dice p’ sono nella forma ‘‹p› dice p’: E qui si tratta non d’una
coordinazione d’un fatto e d’un oggetto, ma della coordinazione di fatti per coordinazione
dei loro oggetti”. Con tale interpretazione egli si opponeva esplicitamente a Russell e a
Moore, i quali interpretavano soggettivisticamente gli enunciati epistemici postulando una
qualche relazione psicologica tra A e p (cfr. prop. 5.541), cioè tra una persona (con i suoi
pensieri e le sue emozioni) e il contenuto di una proposizione. Rispondendo all’attacco, e
cercando anche di smorzare il contrasto delle posizioni, Russell fece notare nella sua
“Introduzione” al Tractatus che una tale relazione, la quale indubbiamente esiste e
costituisce una componente importante dei meccanismi della conoscenza umana, può essere
ignorata solo in sede di analisi logico-semantica (e cioè in un’opera come il Tractatus), dove
ad essere fondamentale è invece quella tra la proposizione come fatto e il fatto oggettivo che
rende la proposizione vera o falsa. Alla proposizione 5.542 del Tractatus fa riferimento anche
Popper nella nota 20 al medesimo cap. 3 di (1972), p. 204, per dire che essa costituisce il
punto d’arrivo di un tipo di analisi delle proposizioni che parte da Frege e passa attraverso le
pagine citate dell’introduzione di Russell dedicate all’esplicitazione di essa. Ma è chiaro che
egli non può attribuire alcuna importanza a questa soluzione wittgensteiniana, pur avendo un
evidente carattere da Mondo 3 e pur essendo anch’essa rivolta contro quelli che lui chiama i
belief philosophers (cfr. ibid., § 1, p. 150; cfr. anche ibid., nota 22, p. 150, dove Popper cita
vari passi russelliani dai quali emerge l’idea di una strettissima correlazione tra concetti quali
quelli di ‘verità’, ‘credenza’ e ‘giudizio’), dal momento che essa presuppone, fra le altre
cose, una epistemologia - irrimediabilmente errata per Popper - che identifica la totalità
delle proposizioni vere con la totalità delle scienze naturali (cfr. prop. 4.11).
Il Wittgenstein antropologo, invece, ripudia le asserzioni epistemiche sulla base di
un oggettivismo che risulta per un verso fenomenistico, e per l’altro affatto irrazionalistico.
Quello che Moore crede di sapere con certezza - che questa è la mia mano destra, che il
mondo esiste da parecchio tempo, etc. - è in realtà ereditato e accettato passivamente come
fondamento sensorial-linguistico, come condizione di possibilità per il resto del gioco
linguistico in cui consiste la nostra pratica discorsiva ordinaria (assolvendo così una funzione
pratico-cognitiva non dissimile da quella che in ultima analisi vengono ad assolvere in
Berkeley gli input sensoriali di base - e quindi i loro correlati proposizionali - trasmessici
direttamente da Dio). Da questo punto di vista, si comprende perfettamente come
Wittgenstein, discutendo quello che egli stesso ha chiamato “il paradosso di Moore” (il fatto,
cioè, che noi avvertiamo come una cosa affatto assurda il dire qualcosa come ‘Ieri sono
andato al cinema, ma non credo di esserci andato’, anche se ciò che diciamo è del tutto
possibile logicamente: cfr. Moore 1942, p. 543, e Malcolm 1958, p. 81), possa dire in OFP, I,
§ 472: “‹Io credo che p› ha circa lo stesso significato di ‹p›; e il fatto che nel primo enunciato
siano presenti il verbo ‘credo’ e il pronome ‘io’ non dovrebbe trarci in inganno” (cfr. anche i
§§ 477-478), e spiegare la cosa osservando che la grammatica di ‘io credo’ è diversa non solo
dalla grammatica di ‘io scrivo’ (cfr. § 472), ma anche da quella di ‘egli crede’, giacché noi
impariamo a dire ‘io credo che ...’ in maniera affatto diversa dal modo in cui impariamo a
dire ‘egli crede che ...’: “Che lui creda questo e quest’altro a noi risulta dall’aver osservato la
sua persona, ma lui non asserisce ‘Credo che ...’ in base all’auto-osservazione. Ed è per
questo che ‹Io credo che p› può essere equivalente all’asserire ‹p›” (§ 504; cfr. anche RF, II,
sez. X, p. 250-252).
Per una analisi dettagliata dei passi citati (e di altri affini) di OFP, cfr. Malcolm
(1995); un esame interessante dei passi paralleli di RF, II, sez. X, si trova in Marconi (1987),
cap. VII, pp. 153-157.
151
4. Wittgenstein e Popper sull’ipotesi di Goldbach
152
riferisce a una struttura che non potre designare senza conoscerla, perché questo vuol dire
impiegar le parole «dà luogo» senza conoscerne la grammatica. Ma potrei anche dire: quando
le impiego in modo che si riferiscano a un metodo di risoluzione, le parole «dà luogo» hanno
un significato, e quando non le impiego così ne hanno un altro [...] Se applichiamo «dà
luogo» nel primo significato, «L’equazione dà luogo a S» vuol dire: se trasformo l’equazione
secondo certe regole, ottengo S. Così come l’eguaglianza 25 x 25 = 625 asserisce che se
applico a 25 x 25 le regole della moltiplicazione ottengo 625. Ma qui queste regole devono
essere già date prima che le parole «dà luogo» abbiano significato, e prima che abbia senso la
domanda se l’equazione dia luogo a S” (GF, II, § 25, pp. 336-337). Tutto ciò implica che
capire p significa conoscere il sistema in cui il segno ‘p’ ha un uso governato da regole ben
determinate. Ad esempio, chi capisce (e sa controllare) la proposizione ‘sen2x = 2senx cosx’,
perché conosce le regole della trigonometria elementare, non può capire (né può controllare)
la proposizione ‘senx = x - x3/3! + x5/5! ...’, dal momento che in essa il seno ha un significato
completamente diverso da quello che ha nella prima (essendo la trigonometria elementare e
quella superiore due diversi sistemi di regole, le due proposizioni stanno su due piani
differenti, per cui non c’è alcuna ‘mossa’ del gioco dell’una che mi permetta di passare al
gioco dell’altra: cfr. ibid., pp. 337-338).
Nel corso di questa analisi, Wittgenstein immagina un’obiezione del tipo di quella
che gli avrebbe poi mosso Popper, e alla quale fornisce la classica risposta ‘wittgensteiniana’
insieme chiarificatrice e aporetica : “«Tu dici: ‘Dove c’è una domanda, là c’è anche una
strada che conduce alla risposta’, ma in matematica ci sono senza dubbio domande alla cui
risposta non vediamo nessuna strada». - Giustissimo; e di qui segue soltanto che in questo
caso usiamo la parola ‘domanda’ in un senso diverso da quello in cui l’usiamo nel caso
menzionato più sopra. [Wittgenstein ha appena distinto tra il ‘gioco’ matematico in cui si può
chiedere ‘quanto fa 25 x 16?’, dove si dispone di un algoritmo che ci prescrive ogni passo da
seguire nel calcolo, e quello in cui si può chiedere ‘cos’è l’integrale indefinito di sen 2x?’,
dove non si dispone di un algoritmo per eseguire il calcolo, semplicemente perché la
soluzione indica un’infinità di funzioni ‘primitive’] E forse avrei dovuto dire: «Qui ci sono
due forme differenti, e soltanto per la prima vorrei usare la parola ‘domanda’». Ma
quest’ultima frase è inessenziale. Importante è che qui abbiamo da fare con due forme
differenti. (E che se vuoi dire che si tratta, appunto, soltanto di due differenti specie di
domande allora non riesci a raccapezzarti nella grammatica della parola ‘specie’). - «Io so
che per questo quesito esiste una soluzione, anche se non possiedo ancora la specie della
soluzione». - In quale simbolismo lo sai? [...] Questo sapere è un sentimento amorfo, che
accompagna l’enunciazione della proposizione? Allora non c’interessa. E se è un processo
simbolico - ebbene, allora il compito consiste nell’esporlo in un simbolismo chiaro” (ibid.,
pp. 339-340).
Ed è questo punto che Wittgenstein ricorre all’esempio dell’ipotesi di Goldbach per
chiarire che noi, in matematica, accettiamo di credere a una certa proposizione non perché la
credenza, in quanto sentimento soggettivo e ‘interno’, abbia un ruolo significativo e possa
magari incidere sulla proposizione in sé dopo esserne scaturita in qualche modo misterioso,
ma solo perché essa fa parte del gioco dell’euristica matematica e si manifesta all’‘esterno’
nel comportamento della ricerca delle prove: “Che cosa vuol dire: credere all’ipotesi di
Goldbach? In che cosa consiste questa credenza? In un sentimento di sicurezza che proviamo
quando pronunciamo, o udiamo, la proposizione? Questo non c’interessa. Non so neppure
fino a qual punto questo sentimento possa essere stato risvegliato dalla proposizione in sé.
Come incide la credenza su questa proposizione? Andiamo un po’ a vedere quali
conseguenze ha, dove ci conduce [corsivo mio]. ‘Mi conduce a cercare una prova di questa
proposizione’. - Ebbene, ora andiamo un po’ a vedere in che cosa consista, propriamente, il
tuo cercare; allora sapremo che importanza abbia la credenza nella proposizione” (ibid., p.
340). Il passo andrà poi a costituire il § 578 di RF, che è seguito significativamente da questi
due brevi paragrafi: “579. Il sentimento di fiducia. Come si manifesta nel comportamento? -
153
580. Un ‘processo interno’ abbisogna di criteri esterni”. (Su RF, § 580, spesso frainteso
perché citato e interpretato a prescindere dal suo contesto, cfr. l’importante analisi contenuta
in Hintikka e Hintikka 1986, “Prefazione”, p. 10, e cap. XI, § 10, pp. 412-414).
Approfondendo il suo peculiare costruttivismo pragmatico, Wittgenstein sosterrà in
seguito (almeno a partire dalla fine degli anni ’30) che è un errore dire, applicando il
principio del terzo escluso, che l’ipotesi di Goldbach è o vera o falsa. Il fatto che noi non
abbiamo ancora trovato una strada per la dimostrazione della sua verità o falsità, ci dà
tuttavia il diritto di postulare o che essa sia vera o che essa sia falsa, “e la nostra scelta è
determinata in parte da considerazioni pratiche, e in parte da analogie nel presente sistema
della matematica” (LFM, Lez. 14, p. 143). Non esiste infatti, secondo Wittgenstein, alcun
mondo oggettivo e indipendente di entità matematiche che noi possiamo contemplare e di cui
la matematica sarebbe una sorta di fisica. Ciò è provato proprio dal fatto che un matematico è
soprattutto “un uomo che costruisce nuove strade, che inventa nuovi modi di pensare” (ibid.,
p. 144) e che pertanto noi possiamo decidere di costruire una strada piuttosto che un’altra, e
“quale strada costruiremo non è determinato dalla fisica delle entità matematiche, bensì da
considerazioni totalmente diverse” (ibid., p. 143).
154
ci si può bagnare due volte nello stesso fiume ha detto una cosa falsa; ci si può bagnare due
volte nello stesso fiume.) E tale è l’aspetto della soluzione di tutte le difficoltà filosofiche. Le
loro [variante: “nostre”] risposte, se sono corrette, devono essere familiari e abituali
[variante: “abituali e banali]” (in F, p. 19).
Da questo punto di vista, le principali critiche di Wittgenstein alla psicoanalisi
riguardano proprio la confusione operata da Freud tra la nozione di “ragione” o “motivo”
(reason, Grund) e quella di “causa” (cause, Ursache). Secondo Wittgenstein, le loro
rispettive grammatiche sono del tutto differenti, dal momento che una “ragione” può essere
conosciuta e ri-conosciuta (essendo proprio il suo riconoscimento da parte del paziente a
determinare il fatto che essa costituisca la ragione di un certo fatto, come un sogno, un moto
di riso, una perplessità filosofica etc.), mentre una “causa” può essere solo congetturata e non
dipende per nulla dal fatto che il soggetto la ‘riconosca’ come tale, dal momento che la sua
ricerca viene condotta esclusivamente per via sperimentale (cfr. Libro blu, in LBM, p. 24 e
soprattutto L 1932-1935, pp. 39-40, il cui resoconto ‘indiretto’ è in Moore 1954 e 1955, ora
in Moore 1959, in part. pp. 350-351). Sulla base di questa distinzione, Wittgenstein ritiene
che la psicoanalisi possa rivelarsi di enorme interesse (al pari dell’estetica e dell’antropologia
culturale) se riconosce esplicitamente che ciò che essa può fornire, magari per mezzo delle
“eccellenti similitudini” di cui è piena, sono soltanto “ragioni” e non “cause” nel senso delle
scienze sperimentali (come Freud pretendeva). Su questo punto, strettamente connesso con il
rifiuto da parte di Wittgenstein della validità interdisciplinare del metodo delle teorie
esplicative congetturali, cfr. il penetrante cap. IV, intitolato “Le ragioni e le cause”, di
Bouveresse (1991), pp. 113-134, dove la critica wittgensteiniana è sintetizzata così: “Freud
tratta la ragione come una causa, supponendo che essa possa essere congetturata con una
procedura di tipo scientifico e confermata infine dal consenso del soggetto che la riconosce
come fosse effettivamente la sua ragione; e tratta la causa come una ragione, supponendo che
le cause che egli ricerca possano essere conosciute nel secondo modo, che non ha niente a
che vedere con il modo in cui si verificano delle ipotesi causali in una scienza sperimentale”
(p. 118).
D’altra parte, nella nota al passo del cap. XXIII della Società aperta riportato nella
Conclusione subito dopo quello di Wittgenstein, Popper cita Wisdom (1952), il quale
rilevava l’analogia tra il metodo di Wittgenstein e quello psicanalitico in termini
perfettamente consonanti con quelli del passo del Big Typescript: “il trattamento è simile al
trattamento psicanalitico (per allargare l’analogia di Wittgenstein) in quanto il trattamento è
la diagnosi e la diagnosi è la descrizione, la descrizione assolutamente completa, dei sintomi”
(in Popper 1945, vol. II, p. 463, nota 6). Un’analisi epistemologica dettagliata della logica
verificazionista che sta alla base della Traumdeutung freudiana, nonché degli stratagemmi di
immunizzazione contro la critica messi in campo da Freud, è fornita da Popper in ([1956],
1983), parte I, cap. II, § 18, pp. 181-191. Qui basterà richiamare l’attenzione su due passi
tratti dalle famose Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1915-1917 e 1932).
Nella lezione quattordicesima, a proposito del ‘critico profano’ che considera l’esistenza dei
sogni d’angoscia un controesempio alla tesi freudiana che in tutti i sogni debba esserci un
“appagamento di desiderio”, Freud osserva: “Il suo atteggiamento di rifiuto nei confronti
della teoria dell’appagamento di desiderio non è altro, in effetti, che una conseguenza della
censura onirica, un sostituto e una emanazione del suo rifiuto di questi desideri onirici
censurati” (tr. it., p. 194). Nella lezione diciannovesima, poi, Freud arriva ad associare in
maniera involontariamente minacciosa le obiezioni mossegli dall’ambiente scientifico al
modo in cui si manifesta la “resistenza” all’analisi in quei malati di nevrosi ossessiva e di
isteria d’angoscia che risultano particolarmente dotati dal punto di vista delle capacità
critiche: “La resistenza si presenta adesso come resistenza intellettuale, combatte
argomentando, si impadronisce delle difficoltà e delle inverosimiglianze che un ingegno
normale, ma non informato, trova nelle dottrine analitiche. Ci tocca ora udire da questa
singola voce tutte le critiche e le obiezioni che formano il coro assordante della letteratura
155
scientifica. È anche per questo che nulla di ciò che ci viene gridato dall’esterno ci giunge
ignoto” (ivi, p. 262).
Da tutto ciò si può comprendere chiaramente quale sia la differenza specifica tra la
critica di Popper e quella di Wittgenstein a Freud. Bouveresse si mostra giustamente
perplesso di fronte al fatto che quest’ultima sia “ritenuta in genere molto più ‘costruttiva’ di
quella di Popper” (Bouveresse 1991, “Prefazione”, p. IX; cfr. anche cap. III, p. 95 e ss., dove
egli discute le note controargomentazioni di Grünbaum 1984 alla critica di Popper e a quella
“ermeneutica” di Ricoeur e Habermas, per certi versi simile a quella di Wittgenstein). In
effetti, se entrambi cercano di ‘salvare’ la mitologia freudiana, le ricette metodologiche che
le offrono sono assolutamente antitetiche: mentre Popper richiedeva che essa assomigliasse
di più alle scienze teoriche e sperimentali, Wittgenstein voleva assimilarla all’estetica e
all’antropologia descrittiva, negandole ogni possibilità di considerarsi una scienza naturale. È
difficile, pertanto, considerare più costruttiva la critica di Wittgenstein, dal momento che
essa mira ad estromettere la psicoanalisi dal circuito della conoscenza scientifica, la quale
soltanto, anche per ammissione dello stesso Wittgenstein, è suscettibile di autentici progressi
sperimentali. Poiché, quindi, Popper auspicava che la psicoanalisi uscisse dalla dimensione
‘mitica’ concretizzandosi in un programma di ricerca metafisico in qualche modo
controllabile attraverso le teorie empiriche specifiche che se ne potrebbero ricavare (cfr. il
luogo citato di Popper [1956], 1983, in part. p. 189 e Popper 1963a, cap. 1, § II, pp. 68-70),
egli avrebbe criticato a fortiori una psicoanalisi adeguatasi all’invito metodologico
wittgensteiniano di abbandonare le turbolente (ma pur sempre controllabili
intersoggettivamente) congetture e spiegazioni causali in nome delle pacate (ma private,
ovvero governate da un riconoscimento soggettivo) ‘ragioni’ e descrizioni analogiche (sul
contrasto turbolent / ruhig cfr. BT, § 92d, p. 432, in F, p. 76 e p. 77, e Z, § 447).
156
configurazionismo; (c) un convenzionalismo linguistico radicale costruito in opposizione alle
dottrine essenzialiste; (d) l’idea di un “pensiero senza immagine”» (ibid., p. 162).
Ora, è sorprendente che il popperiano Bartley non trovi significativo mettere a fuoco
il ruolo chiarificatore di Popper nel gioco del rapporto tra Bühler e Wittgenstein, anche se
nelle sue critiche a Wittgenstein si serve (senza dichiararlo) di argomenti chiaramente desunti
da Popper (cfr. ad es. Bartley 1973, cap. 2, § VII, pp. 91-92 con Popper [1934], 1959, pp.
XXXV-XXXVI e 1963a, cap. 2, § II, pp. 122-123; e Bartley 1973, cap. 2, § X, pp. 99-100
con Popper 1963a, cap. 11, § 4, pp. 459-460). Egli, infatti, si limita a menzionare solo due
volte il suo nome in due diversi piccoli elenchi di note personalità del mondo culturale
viennese che entrarono nell’orbita rispettivamente del movimento di riforma della scuola e
dell’influenza di Bühler (cfr. ivi, cap. 3, p. 109 e cap. 4, p. 161). Se invece diamo uno
sguardo alle pagine dell’Autobiografia in cui Popper, ricordando gli anni dell’Università,
ricostruisce la storia dei propri rapporti con Bühler e con altri esponenti della scuola
psicologica di Würzburg, nonché le ragioni teoriche che lo spinsero ad andare oltre e a
passare dagli interessi per la “psicologia della scoperta e del pensiero” a quelli per
l’epistemologia, troviamo che il nostro incidentale accostamento tra Wittgenstein e la teoria
bühleriana delle funzioni del linguaggio, anche alla luce della tesi di Bartley, è del tutto
naturale. Scrive infatti Popper: «Un ulteriore passo mi fece vedere che il meccanismo della
traduzione di una dubbia dottrina logica [scil. quella aristotelica di soggetto-predicato] in una
presunta psicologia empirica [scil. quella atomistico-associazionistica di Locke, Berkeley e
Hume] era ancora operante, e presentava i suoi pericoli, perfino in un pensatore di tanto
spicco come Bühler. Nella Logica [Lipsia, 1923] di Külpe, infatti, che Bühler accettava ed
apprezzava moltissimo, le argomentazioni erano considerate come giudizi complessi (e ciò è
uno sbaglio, dal punto di vista della logica moderna). Di conseguenza, non poteva darsi
alcuna distinzione reale tra giudizio e argomentazione. Un’ulteriore conseguenza era che la
funzione descrittiva del linguaggio (che corrisponde ai “giudizi”) e la funzione argomentativa
venivano ad essere la stessa cosa. Bühler non riuscì quindi a vedere che queste due funzioni
potevano essere separate altrettanto chiaramente quanto le tre funzioni del linguaggio che
aveva già distinto» (Popper 1976a, § 15, p. 80). Come si vede, qui Popper rimprovera a
Bühler esattamente ciò che nel testo, sulla scorta anche dell’analisi di Diego Marconi,
abbiamo attribuito a Wittgenstein, e cioè l’identificazione tra descrizione e spiegazione,
ovvero l’assorbimento della funzione argomentativa nell’ambito di quella descrittiva, come
conseguenza della confusione tra “argomentazioni” e “giudizi complessi”. E, fatto oltremodo
significativo, un’analoga confusione tra l’“inferenza” (implicazione logica) e l’“asserto
condizionale” (implicazione materiale), rileva Popper in una nota relativa al passo citato, è
operante anche in alcune parti dei Principia Mathematica, cioè nel testo-chiave per la
formazione del primo Wittgenstein. In tal modo, prosegue Popper, Russell «mi disorientò per
vari anni. Ma il punto principale – che un’inferenza è un insieme ordinato di asserti – nel
1928 mi era sufficientemente chiaro da poterne parlare con Bühler durante il mio esame
(pubblico) per la laurea in filosofia. Egli ammise candidamente di non aver preso in
considerazione la cosa» (ivi, p. 212, n. 93).
Se la tesi di Bartley della grande influenza esercitata da Bühler sul “secondo”
Wittgenstein è plausibile, le osservazioni precedenti ci permettono di concludere che nel
passaggio dalla fase ‘logica’, sotto l’influsso dei Principia di Russell, alla fase
‘antropologica’, sotto l’influsso delle teorie psico-linguistiche di Bühler, Wittgenstein rimase
prigioniero di un’immagine gravemente riduttiva delle funzioni del linguaggio, con tutte le
conseguenze pessimistiche sulle possibilità della conoscenza umana e dell’esercizio critico
della stessa filosofia che essa comporta.
157
In aggiunta a quanto si è osservato nel quinto capitolo a proposito
dell’interpretazione di Marconi, vale la pena fare riferimento anche alla più recente
discussione, dovuta a Putnam, proprio dei §§ 608-612 di Della certezza, sempre in relazione
al problema del (presunto) “relativismo wittgensteiniano” (cfr. Putnam 1992, cap. 8, pp. 162-
171). Il problema che Putnam pone è: “Possiamo accettare quel che Wittgenstein ci dice [nei
§§ 608-612] senza diventare relativisti sino in fondo?” (p. 168). La sua risposta è un sì molto
problematico, soprattutto perché egli è costretto ad ammettere subito che i §§ 610 e 611
(dove si parla di slogan e di accuse di follia ed eresia, cui alla fine non si può non ricorrere
quando i “principi” che regolano due forme di vita risultano inconciliabili) “hanno un tono
sgradevole” (p. 166) per il suo orecchio, e, insieme agli altri, gli hanno procurato in passato
parecchia “costernazione” (p.165). Nonostante ciò, egli preferisce pensare che Wittgenstein
sarebbe stato forse riluttante a usare allerlei Schlagworten per dissuadere, ad esempio, un
amico che gli avesse confessato di credere nei guaritori, perché (ma questo, osservo en
passant, è ovvio per un razionalista come Putnam, non per Wittgenstein), anche se “gli
slogan fanno parte del nostro gioco linguistico”, tuttavia “non ne costituiscono la parte
migliore, né la più nobile” (p. 166). In tal modo Putnam può attribuire a Wittgenstein una
forma di relativismo debole molto vicina a quella che nella classificazione di Marconi
corrisponde al punto 3a, con un’operazione che, ancora una volta, finisce col far dire a
Wittgenstein quello che si vorrebbe avesse detto. “Da quel che abbiamo detto, non ne segue
forse che quando ‘combattiamo’ la tribù che usa un oracolo per far previsioni in campi che la
fisica è in grado di trattare, [...] i nostri discorsi scientifici sono solo ‘veri [o giustificati o
ragionevoli] nel nostro gioco linguistico’ ma non ‘veri [o giustificati o ragionevoli] nel loro
gioco linguistico’ [...] ?” (p. 168) No, dice Putnam, e la “ragione per cui non può essere
questo ciò che Wittgenstein sta dicendo è che dire che è vero nel mio gioco linguistico che tu
stai leggendo questo libro non è dire che stai leggendo questo libro; dire che è vero nel mio
gioco linguistico che sto cenando non è dire che sto cenando; e, ovviamente, Wittgenstein ne
era consapevole” (p. 169).
Ora, si può anche ammettere che Wittgenstein fosse ben consapevole
dell’incoerenza del relativismo assoluto, come dimostra tutto il PLA, da cui emerge che il
‘solipsismo metodologico’ (una variante del relativismo assoluto corrispondente a una
radicalizzazione, nella direzione del privato, del punto 4 della classificazione di Marconi)
non è in grado di distinguere tra seguire una regola e credere di seguire una regola (cfr. RF,
§ 202), o, come dice Putnam, tra avere ragione e pensare di avere ragione (cfr. Putnam
1981, cap. V, pp. 131-135, cui egli stesso rimanda subito dopo l’ultimo passo citato).
Tuttavia, anche qui possiamo osservare che la considerazione del problema del tipo di
relativismo attribuibile a Wittgenstein dal punto di vista della teoria popperiana delle
funzioni del linguaggio, ci permette di individuare chiaramente i limiti della posizione di
Wittgenstein. Non dimentichiamo, infatti, che la “concezione naturalistica” (“anche se non
riduzionistica” precisa Putnam 1992, p. 167) presente in Della certezza non consente a
Wittgenstein di andare oltre un’osservazione come quella contenuta alla fine del § 475: “il
linguaggio non è venuto fuori da un ragionamento” (Die Sprache ist nicht aus einem
Raisonnement hervorgegangen): il che è banalmente vero, ma solo limitatamente alle
funzioni inferiori del linguaggio, o al più fino al livello animalesco di quella descrittiva (cfr.
supra, cap. 2, testo compreso tra le note 109 e 111). Si veda a questo proposito - tra le
innumerevoli discussioni di Popper sul ruolo svolto dalla funzione argomentativa, cioè, in un
certo senso, proprio da ciò che Wittgenstein chiama “ragionamento”, nella storia evolutiva
del linguaggio, e quindi del Mondo 3, e quindi della nostra stessa umanità, così come siamo
abituati a concepirla - Popper ed Eccles (1977), vol. III, “Dialogo III”, pp. 549-562.
158
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
159
La presente bibliografia comprende esclusivamente le opere citate nel libro. Nella sezione A
viene fornita la definizione delle sigle usate per la citazione delle opere di Wittgenstein. Nelle sezioni
A e B le date tra parentesi quadra indicano gli anni (più o meno congetturali) cui risale la stesura dei
testi corrispondenti. I numeri di pagina che nel testo seguono la data dell’opera si riferiscono di solito
all’ultima edizione italiana citata nella bibliografia.
Per quanto riguarda Wittgenstein, le più ampie bibliografie finora uscite sono: V.A. e S.G.
Shanker, A Wittgenstein Bibliography, London, Croom Helm, 1986, e G. Frongia e B. McGuinness,
Wittgenstein. A Bibliographical Guide, Oxford, Basil Blackwell, 1990 (quest’ultima è aggiornata al
1987 e registra 1942 saggi). Ampie rassegne bibliografiche in pubblicazioni italiane si trovano in A.G.
Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1973 (1988 4), pp. 143-191; Andronico,
Marconi, Penco (a cura di) (1988), pp. 319-336; Marconi (a cura di) (1997), pp. 353-388; A. Voltolini,
Guida alla lettura delle ‘Ricerche filosofiche’ di Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 171-188.
Per quanto riguarda Popper, la bibliografia più completa delle sue opere fino al 1974,
compilata da Troels Eggers Hansen, si trova in Schilpp (a cura di) (1974), tomo II, pp. 1199-1287.
Popper (1976a) ripropone (alle pp. 233-240 della tr. it.) quasi tutta la “Bibliography of the Writings of
Karl Popper” di Hansen, aggiornandola al 1976. La tr. it. di Popper ([1969],1994b) contiene (alle pp.
191-201) un’ampia bibliografia aggiornata al 1994 per quanto riguarda gli scritti originali, e al 1996
per quanto riguarda le traduzioni italiane; mentre Popper (1992), nella ried. 1994, contiene (alle pp.
81-88) un elenco accurato degli scritti di e su Popper reperibili in lingua italiana, aggiornato
rispettivamente al 1994 e al 1992. Brianese (a cura di) (1988), alle pp. 225-232 della ried. 1993,
contiene fra l’altro un’agile rassegna - aggiornata al 1991 - delle opere di Popper tradotte in italiano e
della letteratura critica su Popper.
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cura di Fabrizio Funtò, Roma-Bari, Laterza, 1987.
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T - Logisch-philosophische Abhandlung, in “Annalen der Naturphilosophie”, 14, pp. 185-
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Introduction by Bertrand Russell, London, Routledge & Kegan Paul, 1922; 1a tr. it. a cura di
G. C. M. Colombo, Roma, Bocca, 1954; poi in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni
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prima, Un universo di propensioni. Due nuovi punti di vista sulla causalità, pp. 25-54, tenuta
al “World Congress of Philosophy” il 24 agosto 1988, e la seconda, Verso una teoria
evoluzionistica della conoscenza, pp. 55-83, tenuta davanti agli ex alunni della London
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costituisce ora il cap. I di Von Wright (1982), tr.it. pp. 41-61.
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Quarta di copertina
In questo saggio è avanzata l’ipotesi di una rilettura del pensiero dell’ultimo Wittgenstein
alla luce della filosofia di Popper, di cui vengono presi in esame soprattutto il realismo
metafisico, la teoria dei tre mondi e quella delle funzioni del linguaggio. Sulla base di un tale
approccio, finora pressoché inedito nel pur sterminato panorama degli studi sui due grandi
protagonisti della filosofia del ’900, l’autore conduce un’indagine serrata su due piani
differenti, benché teoreticamente connessi: mentre da un lato vengono analizzati quegli
aspetti epistemologici che consentono un valutazione fortemente critica della svolta
antropologica dell’ultimo Wittgenstein, dall’altro viene gettata nuova luce sulla questione -
recentemente molto dibattuta - dell’eredità wittgensteiniana in alcune delle posizioni tipiche
della cosiddetta ‘epistemologia post-popperiana’. La conclusione, per certi versi
sorprendente, è che il ruolo giocato in un filosofo come Feyerabend dall’influenza -
esplicitamente ammessa e talvolta persino ostentata - del filosofo delle ‘forme di vita’
(interpretate come sistemi linguistico-culturali chiusi e incommensurabili), si rivela tutto
sommato trascurabile rispetto a quello giocato dai residui di popperismo pur sempre presenti
nelle sue concezioni più apertamente anti-popperiane.
Marco Trainito (Gela, 1969), Dottore in Filosofia e Dottore di Ricerca in Filosofia e Storia
delle Idee, insegna Filosofia e Storia nei Licei. Il libro che qui si pubblica è la rielaborazione
di una parte della sua Tesi di Dottorato, Ontologie, linguaggi e metodi. Prospettive
popperiane su Wittgenstein, Università di Catania, 1998.
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