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LA CRISI E IL SUO “DOPO”

Alla crisi finanziaria in corso – la maggiore dell’ultimo secolo -


sta seguendo, come era inevitabile, una contrazione della domanda
e della produzione, con conseguente crisi occupazionale. Sullo
sfondo sono già all’opera, però, una crisi ambientale anche
maggiore, che si manifesta – ma non solo – nei mutamenti climatici
indotti dai combustibili fossili, e il picco prossimo venturo del petrolio.
L’importanza del petrolio nei processi produttivi (fonte energetica e
materia prima), negli usi civili (riscaldamento e generazione elettrica),
in agricoltura (fertilizzanti e carburanti), nel trasporto, e l’impossibilità
di sostituirlo con fonti di pari potenza e versatilità rendono
drammatica questa strozzatura.
Il mondo di domani non assomiglierà a quello di oggi e non
uscirà da queste crisi senza profonde modifiche di equilibri
internazionali e assetti interni, il cui esito è esposto a gravi rischi:
migrazioni di massa, guerre, carestie, dittature, svolte autoritarie,
aumento di discriminazioni ed emarginazione, rancore sociale. Una
riconversione di apparati produttivi, modelli di consumo e
distribuzione delle risorse a livello internazionale e interno è
ineludibile. Ma per imprimerle una direzione sostenibile occorre
attrezzarsi e definire per tempo orientamenti e indirizzi condivisi da
larghe maggioranze di soggetti e gruppi sociali eterogenei che
delineino almeno l’embrione di un programma. Si tratta di un
bagaglio in larga misura già disponibile:
Primo: passaggio da un’economia dei combustibili fossili a un
mix di fonti diverse, in cui prevalgano le rinnovabili; passaggio
indissolubile da un impegno nell’efficienza energetica per eliminare
ogni fonte di spreco. Secondo: accrescimento, almeno uguale
all’aumento della produttività del lavoro perseguito e realizzato negli
ultimi due secoli, della produttività delle risorse (fattore 10):
contenimento dei consumi superflui, allungamento della vita dei
prodotti, riduzione del loro peso e ingombro, riciclo degli scarti della
produzione e del consumo (rifiuti zero), passaggio da un’economia
del possesso di beni a un’economia dell’accesso a servizi. Terzo:
riforma della mobilità di persone e merci; riduzione delle distanze da
percorrere, specie nell’approvvigionamento di materie prime e
semilavorati (riciclo e agricoltura di prossimità) e nei movimenti
pendolari (densificazione urbana), riduzione del numero degli
spostamenti richiesti (servizi on-line: bit al posto di atomi),
potenziamento di trasporto pubblico, intermodalità e mobilità
flessibile (cioè condivisione del veicolo da parte di passeggeri e
merci che effettuano percorsi compatibili per origine, destinazione e
orari: trasporto a domanda e city-logistic). Quarto: sicurezza
alimentare (agricoltura biologica, rispettosa della biodiversità e degli
equilibri ambientali, diversificata, multifunzionale, di prossimità ai
centri di trasformazione e di consumo degli alimenti: chilometri zero).
Quinto: lotta al dissesto idrogeologico del territorio e riassetto
dell’impianto urbano dei centri abitati: policentricità, accessibilità,
vivibilità, cultura della manutenzione. Prioritaria la ricostruzione di reti
idriche efficienti, differenziate per i diversi usi della risorsa, gestite
nell’interesse della collettività. Infine, riqualificazione dell’educazione:
nuovi contenuti e metodologie, integrando le istituzioni dedicate
(scuola, università e centri di formazione) con l’educazione continua
nei luoghi di lavoro e il recupero di un ruolo formativo dei mezzi di
comunicazione: radio, stampa, TV, internet.
Processi così impegnativi non possono essere avviati senza
meccanismi, estesi a tutti i soggetti interessati, di salvaguardia di un
reddito adeguato a sostenere costi e modalità del passaggio dai
settori dismessi alle nuove attività. Questi meccanismi, insieme agli
strumenti di promozione dei nuovi interventi, dovranno in gran parte
far capo alla finanza pubblica: con imposizioni fiscali aggiuntive, fondi
sottratti ad altre destinazioni o in deficit spending. Gli stanziamenti
destinati a coprire i default finanziari di banche, fondi e aziende non
muovono l’economia perché vengono utilizzati a saldo di debiti già
contratti o immobilizzati in attesa di farvi fronte. Le riduzioni fiscali per
chi ha capacità di risparmio – la panacea dei liberisti di ogni scuola -
fanno la stessa fine: non alimentano domanda aggiuntiva, che può
essere sostenuta solo dall’integrazione dei redditi più deboli, che si
traduce subito in spesa, o dal finanziamento di progetti cantierabili.
Finché il sistema finanziario non tornerà a immettere risorse in quello
produttivo il deficit spending, anche oltre i vincoli istituiti in un
contesto completamente diverso, non crea inflazione.
I governi centrali e i grandi gruppi multinazionali sono
assolutamente inadeguati a gestire o dirigere processi del genere: le
competenze del ceto politico e del management aziendale hanno
dato pessime prove di sé in tutto il mondo; inoltre, tutte le misure
indicate richiedono un diverso tipo di regia: sono interventi diffusi,
altamente differenziati, legati alla specificità del territori e dei contesti;
per essere efficaci richiedono sì risorse cognitive specialistiche –
ormai largamente diffuse in segmenti specifici di ogni comunità – ma
soprattutto conoscenze pratiche del contesti sociali che ha solo chi
vive e opera al loro interno. Ma interventi di questo genere
corrispondono meglio anche ai caratteri di flessibilità, diffusione
territoriale, adattamento e inventiva nelle applicazioni che avevano
fatto la forza del tessuto produttivo italiano e possono ora tornare
fattori di competitività internazionale, garantendo posizioni che non
possono essere difese con le compressioni retributive o la libertà di
inquinare sostenute dall’attuale leadership confindustriale e dal
governo.
L’efficacia della riconversione ambientale richiede contributi -
alla progettazione, alla gestione degli interventi, al controllo dei
processi – inediti; fondati sulla partecipazione di tutte le componenti
potenzialmente interessate al cambiamento: l’associazionismo civico
e ambientalista, le organizzazioni di base dei lavoratori, i centri
sociali e i movimenti che hanno animato il panorama dello scorso
decennio; ma anche gli esponenti più impegnati della
amministrazioni locali – soprattutto dei centri piccoli e medi – che
sono spesso l’ultimo residuo istituzionale di autonomia dallo
strapotere degli apparati statali e dei grandi gruppi; e l’imprenditoria,
attiva o potenziale, interessata a intraprendere nei settori orientati
alla sostenibilità.
Tutte e tre queste componenti sono indispensabili: non si
riconverte l’economia senza imprese e imprenditoria – pubblica,
privata o sociale – né senza avallo e coinvolgimento dei governi
locali, né senza i saperi e l’impegno che solo gli strumenti
partecipativi possono attivare. Questo non significa mettere da parte
la conflittualità tra le diverse componenti di questa aggregazione (tra
lavoratori e imprese; tra comunità e governi locali; tra imprenditoria e
amministrazioni pubbliche), che è sempre la radice ultima di ogni
trasformazione. Tuttavia, al di là - o al di qua - di questa conflittualità,
esiste quasi sempre un tratto di strada condiviso che può essere
percorso insieme. Non si tratta nemmeno sostituire – con un
embrione di governo alternativo - gli istituti della democrazia
rappresentativa, peraltro sempre più vuoti e sclerotici; bensì di
integrarli – anche, e forse soprattutto, in forme conflittuali – con
risorse, saperi e impegni che quelli non sono più in grado di
mobilitare. La partecipazione di queste componenti colloca
progettazione, gestione e controllo degli interventi sul terreno poco
praticato della negoziazione sociale: un meccanismo aperto agli
apporti – la difesa degli interessi; ma anche la messa in comune di
risorse, soprattutto cognitive - di ogni nuovo stekeholder. Ciò le
differenzia dagli schemi fondati sulla cogestione – o anche
sull’autogestione – che tendono invece a rinchiudere ognnuna delle
attività o dei progetti partecipati all’interno di una logica di mercato;
che necessariamente li mette in competizione gli uni con gli altri.
Le Agende 21 locali, spogliate dei loro connotati ritualistici,
sono forse l’organismo più prossimo al modello di partecipazione ai
processi decisionali che la crisi in atto mette all’ordine del giorno.
Funzioni analoghe possono essere sviluppate da Consulte locali o da
organismi come il Forum campano che si è cercato di istituire - senza
successo, per un deficit culturale dei partecipanti - per promuovere il
superamento dell’emergenza rifiuti. Poco conta se questi organismi si
sviluppano per aggregazione dal basso o vengono istituiti dall’alto.
Importante è che il loro funzionamento si uniformi a tre regole
generali: Primo, l’agenda dei temi presi in esame deve essere decisa
autonomamente e non dettata o selezionata dall’alto, come succede
invece nelle leggi e nei procedimenti di consultazione che si ispirano
al modello del Débat public francese. Secondo, questo comporta che
l’organismo abbia una sua continuità nel tempo, strumento di
maturazione (cioè di formazione di una nuova “classe dirigente”) e di
affermazione di una propria autorevolezza, e non si ricominci da
capo ogni volta che viene posto all’ordine del giorno un nuovo tema;
certamente i soggetti coinvolti nel processo potranno cambiare di
volta in volta, a seconda dei temi o dell’ambito territoriale interessati,
ma con un nucleo permanente che dia continuità al processo. Terzo,
deve essere garantito l’equilibrio tra le tre componenti fondamentali:
imprese, istituzioni e associazionismo, evitando sterili lotte per
l’egemonia.

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