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Traduzioni che passione

Allinizio di una memorabile intervista con Emilio Cecchi, il grande biografo inglese Lytton Strachey (1880-1932) confessava con dolore quanta fatica gli costasse trovare soggetti che stessero entro i limiti del suo temperamento, fatica e dolore che si prolungava poi nella penosa lentezza della redazione, che oggi susciterebbe il riso degli indefessi scrittori di besteseller. I temi in questione venivano dalla recente storia inglese e ne costituivano lasse portante, il fondamento quasi: La regina Vittoria, Eminenti vittoriani. Questa fedelt, in larga misura semplicemente necessaria, a una lingua e a unatmosfera determinate un vero e proprio luogo comune del Novecento europeo. Che presenta naturalmente gradazioni e sfumature diverse: dalla dichiarazione dun Franois Mauriac di sentirsi chiuso alle lingue straniere, alla esibita diffidenza di Roland Barthes verso le traduzioni, passando, fuori dal geloso orto francese, per la incredulit di Thomas Mann di fronte alla scelta di Karl Vossler, amico e corrispondente di Croce, degli studi romanzi, estranei al materno alveo germanico. Pi recentemente il narratore e saggista Gore Vidal, forse il massimo scrittore americano insieme a Philip Roth dopo la morte di Saul Bellow, afferm di avere scelto di abitare a Ravello per pensare in pace allAmerica e di non avere proprio per questo mai voluto apprendere litaliano. Al di l degli eccessi sembra innegabile che gli scrittori debbano radicarsi in un loro intraducibile centro, culturale e linguistico. Da noi le cose sono andate e vanno diversamente. Perlomeno dal 1945, la costruzione di una cultura italiana di

massa ha avuto tra le sue istanze pi rilevanti la rottura del preteso provincialismo entre deux guerres. A questo scopo la traduzione divenuta imperativo categorico. Naturalmente anzitutto in ambito saggistico, il che stato un bene inestimabile. La cosa stata valida anche per la letteratura, anzi a rigore era iniziata prima della guerra, si pensi solo alle benemerite e storiche traduzioni di Cesare Pavese (Moby Dick 1932). Il culmine di questa tendenza stata indubbiamente la traduzione del Faust di Goethe, dovuta a Franco Fortini, che scaturiva appunto dalla doppia motivazione di rendere veramente accessibile al lettore italiano un classico di quella portata e insieme di sottrarlo allombra cui lo costringeva il fastidio con cui lo aveva considerato lopinione letteraria italiana fino ad allora, 1970. Ma Fortini restava comunque fasciato della tradizione linguistica e letteraria italiana. Non sempre le cose sono andate cos bene. Anzitutto, la traduzione come costume generalizzato e terreno comune ha indotto i nostri scrittori alla scelta duno stile medio, di elevata traducibilit, cui non si sono sottratti i pur impeccabili Sciascia, Moravia e Calvino. Tale opzione li ha indotti a desistere proprio dallindispensabile radicamento. Questo fenomeno culminato, anni Ottanta, nel successo internazionale di Umberto Eco e dei suoi libri ad alta tiratura. Oggi la cosa ha raggiunto dimensioni paradossali. Recentemente una nota scrittrice italiana, dopo essersi dichiarata manzoniana, ha affermato alla radio di leggere quasi solo traduzioni. Quanto ai giovanissimi, bisogna ricordare loro di stare leggendo, con fiducia spesso acritica, attraverso una protesi. Decisamente sono passati i tempi nei quali la coscienza di questo problema era tanto proverbiale che Henry James poteva compendiare la immaturit della sua immortale Isabel Archer

nel dileggio che comportava il suo aver letto s i classici, ma in traduzione. La cosa sarebbe persino divertente se non comportasse unovvia difficolt al momento di indicare, proprio ai giovanissimi validi criteri di giudizio. Non si pu pi rispondere: ascolto come fece Gianfranco Contini a chi gli poneva la stessa domanda. Ascoltare si, ma ascoltare cosa? A questo proposito ci limitiamo ad auspicare un ritorno alla chiara coscienza dell'indissolubile radicamento linguistico dellopera letteraria, senza aspirare a un impossibile purismo. Renato Calapso

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