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AZZURRO TENEBRA La Germania sta per ospitare limminente edizione dei mondiali di calcio.

Per gli italiani sono bruttissimi ricordi. Trentadue anni fa a Stoccarda, davanti a un pubblico di nostri emigranti avviliti e frustrati la nazionale col a picco miseramente a dispetto della organizzazione faraonica di Italo Allodi e, soprattutto, a dispetto dei suoi campioni. La familiarit con le sconfitte ci contraddistingue, infatti questi sono gli unici mondiali cui, che io sappia, sia stato dedicato un intero romanzo serio, sia pure in forma di reportage. Tre anni dopo quel rovinoso 1974 usc appunto per i tipi di Einaudi (anche questo significativo) Azzurro tenebra, di Giovanni Arpino. Arpino non era un giornalista ambizioso e brillante pervenuto sullonda del successo alla narrativa pura, come Gianni Brera, ma un romanziere en titre, giovanissimo esordiente nei gettoni di Vittorini con Sei stato felice

Giovanni nel 1952, e titolare di una carriera regolare in questo campo (di cui puntuale testimonianza un meridiano uscito lanno scorso in cui sono raccolti i suoi principali romanzi, ma che esclude Azzurro tenebra) di quelle che in Francia sulla cinquantina iniziano a far sperare nella consacrazione accademica e alla pagina culturale del Figaro. Arpino invece, indipendente per vocazione profonda, il suo fauteil lo ebbe s abbastanza presto ma nelle tribune stampa degli stadi, da dove si dette a seguire il calcio per la Stampa di Torino. Anche questa era stata una scelta di libert. A Rolly Marchi che gliene chiedeva ragione ai mondiali del Messico (1970) Arpino rispondeva che la sua attrazione per la realt lo conduceva a seguirne quellunico aspetto sul quale poteva, a conti fatti, dire senza remore ci che voleva. Ci che sarebbe stato impossibile, ad esempio, se avesse seguito la politica italiana, i cui mostri sacri non si potevano allora demitizzare per ovvie ragioni di opportunit. Ci pare che tanto basti per rendere ragione della vera e propria allergia che Arpino manifestava per l establishment italiano. Tale

allergia non era limitata alla politica, tanto che quando Gianni Brera pubblic Il corpo della ragassa nel 1969 egli lo difese con una lettera penetrante e affettuosa dallincomprensione della critica ufficiale. A questo punto il lettore avr gi compreso di poter trovare in questo libro, attualmente non in commercio ma che speriamo ci si affretti a ristampare (esistono comunque le biblioteche) non tanto, o non solo, delle esercitazioni di stile ma un romanzo molto corposo e concreto, nel quale tutto si fa tranne che prescindere dalla comprensione di uomini e cose. Ne scaturisce una galleria di ritratti eleganti quanto veridici dei personaggi centrali del calcio italiano. Lappassionato potr dunque anzitutto godere di un Gianni Brera pi vero del vero che rivive nelle sue reprimende e nei suoi sarcasmi urticanti. Ma poi soprattutto Bearzot e Facchetti, sui quali si apre la scena ritraendoli durante un allenamento nella nebbia rilassato ma in pari tempo disciplinato. I due, mentre Giacinto fa gli esercizi defatiganti scherzano argutamente, complici disincantati e anche un po sommessi. Non si fanno soverchie illusioni. Dopo Haiti

Bearzot riappare, in una stazione di Stoccarda spettrale e notturna, sulle tracce del riottoso Chinaglia. Cos come in fondo di Bearzot lultima parola detta tremando di febbre dopo il terribile acquazzone di Germania-Polonia, su uno smacco che avrebbe dovuto, almeno, imporre a tutti degli stage formativi a pane e acqua davanti alle partite altrui. Ecco, ora che di questo libro si torna a parlare, vorrei indicarne questo aspetto, secondo me, essenziale e un po trascurato. Il Bearzot vincitore dei primi anni Ottanta vi come profetizzato nel suo modo di stabilire legami saldissimi con i calciatori, di dialogare con loro anzitutto umanamente, nella capacit di elaborare razionalmente gli insuccessi e profittarne. Compaiono gia qui tutte le idee e le maniere dagire su cui si fonder la migliore nazionale italiana del dopoguerra. Renato Calapso

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