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Ragazzi in gamba

Anche se a volte penso di essere stato un coglione, che avrei potuto studiare, che
testa ne avevo almeno quanto quell’alcolizzata della mia coordinatrice, non rimpiango
il tempo del liceo perché non mi sono mai divertito tanto come allora. Sebbene
abbia fatto il liceo più di merda che ci possa essere, appena un gradino più in su del
riformatorio, ho fatto parte di una compagnia mitica. Quando mi ritornano in mente
Fagiolo, Paganini, il Cugino, Sventola, lo Stupido, Capabianca e altri, mi viene da
ridere come un idiota, come la stupida di fronte a sapete voi che cosa.1 In quegli anni
ci siamo divertiti davvero alla grande e ci penso spesso con grande piacere davanti a
un bicchiere di vino, di tescovină,2 di rachiu 3 di albicocche, di vişinată,4 di secărică 5
o di quello che sia. Come diceva Fagiolo, che ho incontrato proprio nei giorni scorsi:
dalla pipì di vergine in poi, si può bere tutto. Testa ne avevo, ma onestamente me
ne è sempre fregato poco della scuola e adesso me ne frega ancora meno. Avrei
potuto diventare anch’io un ingegnere disoccupato che vuole aprire una friggitoria,
non vi pare? O almeno un capomastro che non ha più niente da rubare in fabbrica
e si mette a scioperare. Avrei potuto diventare un professore di ginnastica, cioè di
conteggio delle formiche, che va a zappare nell’orto del direttore, che gli tiri fuori un
posto anche per l’anno successivo... Per cui non mi dispiace proprio così tanto come
sarebbe giusto. Grazie, posso contare formiche anche senza una laurea, basta il liceo
per quello.

Se sono stato un coglione però, è solo perché quando ho avuto l’occasione non mi
sono trombato Dorina Amicşulesei, che è una stupida patentata e adesso racconta
balle in politica. E non una o due, come qualunque uomo onesto, ma in quantità
industriale, che è meglio abbondare. Se me la fossi trombata ai tempi, avrebbe avuto
un ai chiu più dignitoso, un marito, un figlio e una cucina perfettamente pulita. Non
che io sia maledettamente dotato, ma quando sentivo che stronzate riusciva a tirar
fuori, che merdate aveva per la testa, mi si ammosciava l’appetito, anche se, come si
dice, l’organo non sa né leggere né scrivere. Così, Dorina Amicşulesei è rimasta zitella
e io non posso dire a queste spugne, ehi sfigati, non date retta a Dorina Amicşulesei,
anche se ha lo chignon e sembra chissà chi, che è stupida marcia e se l’è trombata
perfino il Sottoscritto. Ma girava la voce che era persa per me, almeno così dicevano

1
Riferimento all’espressione volgare a rîde ca proasta la pulă (ridere come la stupida di fronte
al cazzo).
2
Bevanda alcoolica ottenuta dalla fermentazione e distillazione della vinaccia.
3
Nome generico di varie bevande alcooliche forti ottenute attraverso la distillazione di vino,
frutta, succhi di frutta fermentati, cereali o con la diluizione di alcool con acqua (ed essenze) senza
l’aggiunta di sciroppo di zucchero.
4
Bevanda preparata con visciole fermentate con zucchero e alcool.
5
Rachiu (v. nota 10) preparato con la segale.

1
il Cugino e Paganini: “ehi, Pagnotta” (questo ero io), “guarda che Holştain 6 ti ha
puntato addosso il binocolo”. Ma con questi non sapevi mai quando facevano sul
serio e quando facevano circo... È vero che, quando mi vedeva, sgranava certi occhi
umidi da vitellina d’importazione, che ti veniva da piangere se la guardavi troppo;
ma io ero segretamente innamorato della Prof-di-romeno: per quanto fossi un duro,
quando la vedevo mi smontavo come la maionese impazzita. Era bella, ragazzi, che
ti mettevi a balbettare, e basta! Avessi visto come passava per i corridoi, impettita
e sorridente allo stesso momento, con i capelli neri come la pece e lunghi fino alle
chiappe, lasciando una scia di profumo, ricevuto dai parenti che vivono in Italia,
che ci andavi dietro come nei cartoni di Tom e Jerry. Ma io, zitto, non dicevo a
nessuno che mi mancava il respiro quando la vedevo. Non che io sappia tenere la
bocca chiusa, sono piuttosto chiacchierone, a modo mio, ma se l’avessero saputo
quelli della compagnia – Fagiolo, il Cugino, Paganini, Sventola e altri – avrebbero
riso di me una settimana di continuo, facendo solo una pausa per un sorso d’acqua.
Insomma, avrebbero fatto un circo da prima pagina, edizione straordinaria! Non
che avessi paura del loro sfottimento, di non reggere lo strapazzo... non ho problemi
di questo genere, che non sono mica nato sotto un cavolo, ma non mi andava di
raccontare a quei minchioni ciò che avevo dentro. E che capperi, non potevo avere
anch’io un segreto? Non me ne importava una mazza che mi prendessero in giro,
questo è certo, che tanto cos’altro facevamo tutto il giorno? Ci sfottevamo, no? Chi
non aveva la battuta pronta oppure si arrabbiava, era finito.
Fagiolo era il più in gamba fra di noi, e di molto. Era una specie di capo,
insomma. Ci dava il la. Credo che si sia preso gioco di sua madre da quando era in
pancia: “arriva quella deficiente di mia madre e mi dice...” parlava solo così. Caspita,
aveva una madre da dieci e lode, faceva certe code da urlo per comprare il salame e
imbottire di panini l’animale a scuola e lui da “quella deficiente di mia madre” non si
schiodava. Era così, malato dove si pettina, che ci puoi fare! Era arrabbiato perché
non lo lasciava fumare in casa, come suo pa’. Per un sacco di tempo non ho nemmeno
saputo come mai lo chiamavano Fagiolo, perché era arrivato dalle medie che aveva
già quel nomignolo. Fino al giorno in cui si era ubriacato alla “Pufoaica ruptă” 7 e ce
lo aveva raccontato. Diceva che sua madre, per tutto il tempo in cui aveva avuto in
pancia quell’animale di suo figlio, non era stata normale. Non aveva né nausea né
vomito, come succede di solito, ma tirava venti a raffica. “Ragazzi, dalla quantità di
venti che tirava sembrava che mangiasse una pentola di fagioli al giorno, sul serio!
Mio papà le voleva comprare il silenziatore, ma temeva di rischiare il porto illegale
d’arma.” E così hanno cominciato a chiamarlo Fagiolino, e poi Fagiolo. “Ohi, e io che
pensavo che ti chiamassero così perché ridi come un idiota e metti sempre i denti8
in mostra” diceva Sventola col suo tono un po’ da zingaro, sorseggiando secărică.

6
È la traslitterazione nel linguaggio orale di Holstein, una razza bovina importata da
Ceauşescu e diventata popolare nella Romania comunista.
7
Letteralmente “Giacca stracciata”. Pufoaica è una giacca da lavoro lunga oltre la vita,
imbottita e trapuntata longitudinalmente, che era fornita dalle aziende ai lavoratori, soprattutto
quelli che erano impiegati nei cantieri.
8
Fasole (fagioli) in originale, che in linguaggio popolare significa anche denti (con probabile
riferimento ai fagioli bianchi).

2
“Senti chi parla di metter i denti in mostra, tu, labbra cabriolet!” si risentiva Fagiolo.
È vero, Sventola aveva certe labbra grosse due dita, che ti veniva sempre voglia di
metterlo a gonfiar palloncini per la festa del 23 agosto.9

La “Pufoaica ruptă” era una bettola lercia dove nessuno ci rompeva le palle, nes-
suno ci chiedeva il libretto e il numero di matricola, con musica di merda e un tanfo
da svenire. In più, era abbastanza lontana dal liceo, non correvi il rischio di incon-
trare il prof di matematica o quello di storia, che anche quelli non alzavano mai il
gomito. Però andavamo là soprattutto quando fuori il tempo era di merda e non
potevamo stare nel parco, al “posto di comando” o nella “stanza dei bottoni”, come
chiamavamo la torretta in questione, o in altri luoghi da scuffia, come la cambusa del
Cugino o lo scantinato del palazzo di Paganini. Questo era il nostro divertimento.
Fare cagnara e ubriacarci e ogni tanto un po’ di festa. Se Fagiolo era il più bravo
a sfottere, Paganini era il responsabile del beveraggio – reggeva l’alcol che non ci
potevi credere, avresti detto che sua madre l’aveva allattato a quartini. Per lui una
bottiglia di Stolichnaya era soltanto l’aperitivo, la birra nemmeno entrava nella cate-
goria delle bevande alcoliche e col vino si sporcava solo quando non aveva altro sotto
mano. Anche Paganini era una specie di capo; c’era, infatti, una sorta di concorrenza
fra lui e Fagiolo. Fagiolo lo prendeva per il culo che ti scompisciavi dalle risate, ma
Paganini gli dava dieci a zero con l’alcol. Noi, gli altri, contavamo di meno, eravamo
più o meno di contorno. Il Cugino, un marcantonio di Pocreaca con modi da bovaro,
era accettato non solo perché rideva come un maiale perfino alle battute più trite e
ritrite, ma anche perché aveva grana da far schifo. Suo padre, che era contabile alla
C.A.P.10 di Cucuieţii din Deal 11 o come cavolo si chiama, e sua madre, centralinista
lì nel paese, gli avevano preso in affitto, all’animale, un monolocale in città, perché,
poverino, non stia con il gregge in collegio, dove l’avrebbe disturbato “ogni sorta di
ripetenti”. Ma il Cugino non era un essere proprio così sensibile, ma piuttosto il
genere di coinquilino che si soffia il naso nel lavandino e poi si pulisce le dita sui
pantaloni, che lascia peli pubici sul sapone dopo essersi fatto la doccia, quando se la
fa. Ma per non essere proprio un cane con lui, devo dire anche che era di una bontà
da restare di sasso, e a fare a botte non aveva rivali. Diceva: “Di sinistro uccido, di
destro ancora di più”. I suoi volevano vederlo professore di non importa cosa, poi
trovare il modo per portarlo da loro, in paese, scovargli una moglie e tenerlo per la
cavezza fino alla vecchiaia, ma non gli era andata bene. Il Cugino aveva scoperto una
palestra di pugilato per principianti e si era iscritto per una prova: con due veloci
cazzotti, con forza bruta da bifolco, aveva scaraventato l’avversario con le gambe
all’aria. Anche se i colpi non erano stati proprio da regolamento, sono rimasti tutti
a bocca aperta quando hanno visto che forza aveva l’animale. Passata una settima-

9
Festa nazionale della Romania fino al 1989. Ricordava gli eventi del 23 agosto 1944 quando
venne deposto il maresciallo Ion Antonescu e la Romania uscì dall’alleanza con l’Asse.
10
La Cooperativa Agricolă de Producţie (Cooperativa Agricola di Produzione) era un’unità
economica socialista autonoma, realizzata attraverso l’associazione dei contadini, basata sulla
proprietà cooperativa dei mezzi di produzione e della produzione.
11
Finto toponimo, ironico, che rappresenta un luogo fuori dal mondo. Letteralmente:
Appollaiati in Collina.

3
na, dopo averli stesi tutti, che dovevi metterci l’orecchio per vedere se respiravano
ancora, nessuno voleva più fare allenamento con lui. Di sicuro, non sapeva stare allo
scherzo, il ragazzo, picchiava e rideva come uno stupido; e di nuovo picchiava e di
nuovo rideva come uno stupido. Dopo la Rivoluzione, ho letto, da qualche parte,
un’intervista al Cugino, che aveva vinto non so che campionato in Italia. Quella
del giornale gli ha chiesto quale fosse il segreto della sua forza, se beveva qualche
tisana, se prendeva pillole o cagate del genere. Sai cosa ha detto, il ragazzo? A me è
piaciuto tanto: “Non c’è nessun segreto, signorina, se zappi l’orto, porti fuori letame
e batti fagioli per almeno una decina d’anni, è impossibile non vincere il campionato
italiano.” E immagino che si sia messo a ridere come uno stupido, anche se non
c’era niente da ridere. Lo chiamavamo il Cugino perché, incivile com’era, fra noi le
combinava sempre grosse, di merda, e noi gli trovavamo sempre la stessa scusa: per
favore, perdonatelo, è nostro cugino, viene dalla campagna, non si ripeterà mai più,
promesso. All’inizio lo chiamavamo il-Cugino-di-campagna, poi, più semplicemente,
il Cugino. La sua cambusa era il massimo per bevute e feste, ma non era sempre
libera. Siccome era un ragazzo alla mano, tutti i tangheri si approfittavano di lui per
passare di là con le loro troie, per scoparsele a turno o in solitaria, dagli amichetti
pugili, con le facce come bidoni schiacciati, fino a pirlotti macilenti e lunghi come
sciarpe, con la faccia piena di brufoli. “Che cavolo ci fanno sti babbei da te?” gli
chiedeva Paganini, imprecando per un cicchetto, con l’acquolina in bocca, mentre
andava avanti e indietro sul pianerottolo. Il Cugino era fatto così, non gli davano
fastidio nemmeno i buzzurri che restavano oltre l’ora stabilita. Una volta abbiamo
aspettato quasi un’ora che uscisse un aborto di maschio, eh, l’amico del Cugino, con
una baldracca così scalcinata che ci siamo piegati dal ridere; immaginati uno stanga
scheletrica così alta che ti stufavi di guardarla in su, senza nessuna forma, col profilo
a biscotto, con un naso di dodici metri, a cui i vestiti stavano come su un attac-
capanni. Brutta come la fame, stop. “Eeh, per sbattertela questa la devi mettere
con la testa nel lavandino in cucina e con le gambe sul lampadario della camera”
commenta Fagiolo. “Io non me la sbatterei neanche morto” dice tranquillo Sventola,
incollato alla sigaretta, prendendo la cosa sul serio. “Eeh, ma come siete esigenti –
dico io, furbo del cavolo bollito – che mi pare già di sentirvi che le dedicate una sega
stasera in bagno.” “Ehi, Pagnotta, parla a modo, non fare il bovaro, si dice lasciarle
un autografo sulle piastrelle, vedi di ricordarti almeno questo, che diavolo! Domani
o dopodomani ti sposi e non sai dire nemmeno sta cosa a tua suocera” dice Fagiolo.
“Lascialo stare, dai,” interviene Paganini, “che non ha studiato a Oxford come te.”
“Eh bravo, difendilo, Paganini, io voglio fare di lui un ragazzo di classe, e tu ti ci
metti come la mosca nel culo del cavallo.” “Ehi, ma così vi hanno insegnato a parlare
a Oxford, il culo del cavallo?” dico ripagandolo con la stessa moneta. “Nella parte
posteriore dell’equino” interviene calmo Sventola, serio come se fosse il rappresen-
tante locale dell’università di Oxford.
Non so più come abbiamo continuato a spernacchiarci, ma mi ricordo che abbia-
mo bevuto una bottiglia di rum di prima qualità, al bacio, come si dice, e abbiamo
preparato la festa più mostruosa di tutta la storia di merda del liceo. Fagiolo mormo-
rava che il Cugino si sarebbe preso un po’ di grana da quelli che trombavano da lui
nel porcile, correva voce che il tizio di Pocreaca se lo fosse lasciato scappare davanti

4
a un bicchiere di matrafox,12 ma io credo che fosse una balla. Da come tiene l’alcol
Fagiolo..., credo piuttosto che sia stato lui a sparare a nastro di tutto e di più, e non
il Cugino. Oppure che il Cugino gliel’abbia detto tanto per dir qualcosa, così, per
prenderlo in giro, e che quello scemo di Fagiolo abbia abboccato... Non ne ho idea!
Secondo la mia mente da quattordici carati, dico che se gli stalloni erano ragazzi per-
bene, gli lasciavano una bottiglia di qualcosa e delle sfogliatelle, sennò il Cugino si
ritrovava solo con fluidi rinsecchiti che disegnavano la cartina dell’URSS sul lenzuolo.
Che mi venga un colpo se ho mai capito perché il Cugino lasciava passare tutti quei
sifilitici tra le sue lenzuola!

Una volta sola ha messo il divieto sul suo alloggio, come si fa per la pesca. Per
il periodo in cui è stato insieme con una che noi chiamavamo Palmolive... Una
ragazza sgaia, conciata con ogni genere di belletti, creme e ombretti d’importazione,
provenienti soprattutto dalla Germania e dalla Polonia, carina da farti uscire gli
occhi dalle orbite, con una carcassa di prima classe, che pareva fatta per far dispetto
al cazzo. Una sorpresa per noi che ci aspettavamo che il Cugino uscisse con una
racchia da vomitarsi le budella, una zozza qualunque coi capelli da presa di corrente,
che impazziva per la musica popolare, stupida sotto il livello del mare. Ma il Cugino
no, arriva con Palmolive, che forse di vero nome faceva Olivia, se la memoria non
mi gioca brutti scherzi, e ci lascia con la bocca aperta, come dal dentista, con gli
occhi spalancati e con le mani in tasca a cercar di calmare la furia nei pantaloni.
“Ehi Cugino, hai avuto un gran culo, animale, mi tiro quattro sberle da solo se
non è vero. Credo che tu abbia mangiato merda col mestolo quando eri piccolo,
sul serio!” gli diceva sempre Fagiolo, per aprire la discussione, che forse sputava
qualcosa e la piantava col suo mutismo del cavolo. Ma il Cugino niente, neanche
il numero di scarpa ci voleva dire, figuriamoci quelle cose lì, le porcherie, che a noi
interessavano moltissimo. E anche con abbondanza di particolari, se era possibile.
Il Cugino aveva cominciato a farsi vedere di meno, trombava come un assassino,
almeno questo era il nostro parere. Visto che non c’era, era normale sparlare di
lui. Dovevamo pur ridere anche i ragazzi, no? Un po’ di sano divertimento, e che
capperi! “Ehi, Pagnotta, ci ha smerdati, il bombardiere! Anche se ce lo dipingiamo
a strisce dorate, a noi un bocconcino così non ci viene sotto i denti neanche se ci
reincarniamo enne volte, stanne certo!” diceva Fagiolo davanti a un bicchiere di
vino, di tescovină, di rachiu di albicocche, di vişinată, di secărică o di quello che
fosse. “Ehi compare, ma chi gli diceva: senti Cugino, prendi e attaccati a una con
due gambe, non sprecare le cartucce, goditi la vita, che fotti o non fotti il tempo
della minchia se ne va, eeh? Ti ricordi?” rincaravo la dose io. “Certo che dicevo così,
che la bocca ce l’ho per quello. Ma il campagnolo non capisce lo scherzo! Va avanti
come un panzer, e basta!” “Non ti sta più bene adesso, eh? Ti viene la bava alla
bocca solamente a vederla, figurati se te la lascia toccare con un dito!” lo aizzavo io
come si fa coi cani, per tener viva la discussione. “Ma come sculetta pericolosamente
la dragonessa, hai notato? Da prenderti a schiaffi con le ciabatte, come minimo!”

12
Bevanda superalcolica fabbricata in fretta con ciò che si ha a disposizione. Ad esempio: alcol
etilico, zucchero bruciato, cumino. Nelle carceri si usano anche profumo, dentifricio ecc.

5
“Stai zitto, compagno di sventura! Almeno non ricordarmelo!” stavo al suo gioco
per fargli sputare ogni sorta di scemenze. Cosa che regolarmente succedeva. “Anche
se sei un irradiato di Cernobil, stai tranquillo che per fare un po’ di ginnastica con
Palmolive ti viene duro, giuro!” “E delle gambe cosa pensi, Fagiolo? Che ti farebbe
schifo metterci una zampa sopra...” si svegliava improvvisamente Paganini. “Cosa
vuoi che pensi, compare!” sospirava teatrale Fagiolo, “la farei pedalare in aria anche
domani...” “Ma tu, Sventola, non dici niente? Soffri in silenzio? Ma ce l’avremo
mai noi, in questa vita di merda, la soddisfazione di deliziarci con simili gambe?”
“Probabilmente no!” rispondeva di scatto Sventola, succhiando la sigaretta come un
disperato, senza traccia di sorriso. “Ragazzi, anch’io ho paura che ci daremo dentro
come imbecilli con ogni sorta di donnacce schifose, e i pezzi di pregio se li prenderanno
sempre quelli con la grana. Che vita di merda” diceva demoralizzato Fagiolo e se ne
approfittava per tirar giù a garganella dalla bottiglia. “Basta, ragazzo”, saltava su
Paganini, “vacci piano, che ci sono anche altri disgraziati in questo mondo. Butta
qua la fiasca.”
“Ehi, falla finita con ste aberrazioni, che non gli porta bene al Cugino” dice una
volta Sventola, enigmatico, espirando il fumo fino a Leorda. “Ma perché dici così,
capo, hai notizie fresche? Dai, tirale fuori!” lo incalza Fagiolo, come fa la polizia,
friggendo di curiosità. “Non ho proprio un corno”, taglia corto Sventola. “Allora
come fai a saperlo?” “Lo sento nell’urina, fratellino!” gli risponde lo zingaro senza
fargli capire un accidente.
Non so come Sventola sentiva nell’urina, ma il ragazzo aveva ragione. E da lì si
vede che il piscio di zingaro non è buono solo per salare i semi di zucca,13 ma anche
per prevedere il futuro. Non era passato molto tempo e il nostro pugile sembrava
sempre più malridotto, con l’appetito per i liquidi sotto il limite di funzionamento.
Portava il bicchiere alla bocca senza nessuna voglia, sembrava alla moviola. Al nostro
marcantonio era successo qualcosa. Qualcosa di brutto. Non era il tipo che si perdeva
d’animo per una sciocchezza. Cosa poteva avergli fatto quella mezzasega della sua
ragazza – a lui, che faceva strage sul ring, che quelli là li pestava fino a fargli vedere
le stelle – per ridurlo in quello stato? La faccia gli si era increspata, le orecchie
gli cascavano come pasta frolla, gli occhi gli erano rientrati nelle orbite, che non li
stanavi neanche con la forchetta. Quando Fagiolo gli tirava fuori storie che in altri
momenti l’avrebbero fatto morire dal ridere, non aveva neanche la soddisfazione di
vederlo muovere gli angoli della bocca. “Ehi, Pene Imperatore,14 con roba così fresca
vicino a me io non parlerei più con nessuno. Sarei vanitoso come un asino al mercato”
diceva Fagiolo tentando di svuotare il mare con un cucchiaino. “Metterei il lucchetto
sulla porta e scriverei: chiuso per inventario dettagliato!” si sforzava di strappargli
un sorriso. Ma l’Imperatore Pene non sembrava nemmeno sentire, un pensiero truce
lo tormentava. Le cose parevano veramente molto ingarbugliate, e loro, i ragazzi,
non sapevano come districarle.

13
Credenza popolare molto diffusa: che i semi di zucca venduti per strada, solitamente dagli
zingari, fossero salati con la loro urina. Per questo si raccomandava ai bambini di non comprarli
da loro.
14
Formula ironico-ammirativa che rimanda ai vocativi Verde Împărat, Roşu Împărat (Verde
Imperatore, Rosso Imperatore) ecc. delle fiabe per bambini.

6
Quando dal Cugino c’erano problemi, andavamo da Paganini nello scantinato.
Con una certa precauzione, che non ci beccassero i vicini, dei vecchi scorreggioni,
spioni come i bambini dell’asilo, ex scribacchini di pura merda, toh! palazzo signo-
rile, in miga a tua fadre, tanto per parlare a modo. Lì era fico da morire, perché
Paganini il vecchio era un bravo uomo di casa. Ce ne stavamo tranquilli tra barattoli
di zacuscă 15 e trecce di cipolla, barilotti di verdure in salamoia e cassette di bottiglie
di succo di pomodoro, tuberi interrati nella sabbia e ogni genere di confettura. Stava-
mo là e bevevamo vera vodka russa, alla ciliegia o all’albicocca, secărică e distillati di
vinacce e di vino... “Ehi, basta che non vi venga in mente di piastrare qui” ci avverti-
va inutilmente Paganini, fissando specialmente Fagiolo, che era lui quello che gettava
la spugna. “Oppure piastrate nel sacchetto, eh, come sull’aereo, che è compreso nel
prezzo.” E poi stappavamo qualche bottiglia di succo di pomodoro da bere con la
vodka, e aprivamo ancora un barattolo da quattrocento di zacuscă, che mandavamo
giù senza pane, perché per il pane c’era bisogno della tessera... Che vita, ragazzi!
L’unica cosa brutta era che dovevamo parlare sottovoce perché i vecchi rimbambiti
non si accorgessero di niente... ma ora mi rendo conto che questa era anche una cosa
bella, creava una sorta di intimità, perché ha un fascino particolare sfottersi sotto-
voce, bere vodka direttamente dalla bottiglia, sotto l’occhio clinico degli altri, pronti
a strapparti la giacca a vento se provi a fregarli di un goccio. “Ehi, Sventola, tu non
dovresti avere nemmeno il diritto di toccare la bottiglia con le labbra, eh! Con il tuo
sturalavandini la prosciughi con un sorso” lo sfotteva Fagiolo, sfoderando le labbra
in modo illustrativo. Sventola se ne infischiava, si accendeva le sigarette una con l’al-
tra, col grugno sempre rivolto verso la bocchetta di aspirazione. In quanto ad aprir
bocca, era scazzato da non crederci. Ma quando lo sfottevano da metterlo all’angolo,
col suo faccione da zanzara lobotomizzata, senza nessun riferimento a quello che era
stato appena detto, starnazzava: “Ma va’ a fare in culo, Fagiolo! Meno male che tu
sei intelligente da far morire d’invidia un asino!” Questa era la sua risposta standard
quando si trovava alle strette. “He! He! He! Salute! Ma perché ti sei incavolato
così?” continuava Fagiolo, ma ancora una volta Sventola perdeva di colpo la voglia
di chiacchierare, gli era indifferente tutto ciò che succedeva.
Ma il più pericoloso nel campo dei liquidi non era Sventola, ma Paganini – questo
qui, che mi prenda a sberle Babbo Natale se dico bugie, aveva un imbuto al posto
della gola. Davvero! Era progettato dalla fabbrica con un collettore di liquidi con
prestazioni da record, in modo che il liquido arrivasse, senza nemmeno toccare le
papille gustative, direttamente nello stomaco, se non addirittura dritto nel sangue.
In più aveva delle antennine olfattive, come dei bastoncini incolori, una specie di
radar nasale, con il quale rilevava anche la più piccola quantità di alcol in un raggio
di cinquecento metri; e si era proposto di battere il proprio record di anno in anno,
estendendo la rilevazione a un raggio di seicento metri nel 1985, settecento nel 1986,
ottocento nel 1987 e così via. “Ma per riuscirci bisogna fare allenamento, compagni,
non giocare!” Mi meraviglio che non siamo finiti in galera... Ma probabilmente nes-
suno prendeva in considerazione gente come noi, degli sfigati di merda che bevono

15
Antipasto preparato con melanzane, peperoni, cipolla, ecc.

7
come pantegane in giro per gli scantinati.
Quando i Paganini senior tagliavano la corda, per andare in campagna o non so
dove cavolo, salivamo anche noi in alto come i signori, al secondo piano, nell’appar-
tamento. Si stava benino anche lì, ci si stravaccava come ricconi in poltrone costose
da far schifo, invece di sbevazzare con il sedano nel sedere o con le trecce di cipolla
attorno al collo, come se le metteva Fagiolo quando faceva circo e diceva di essere il
Dalai Lama. Paganini, junior, aveva sempre lo stesso stress in gola: “Ooh, vedete di
non decorarmi i divani, che vi mangio vivi!” ci minacciava. E, naturalmente, guar-
dava con insistenza verso di me. E Fagiolo, campione di sfottò, si alzava di colpo,
portava la mano alla bocca e correva come un pazzo per la stanza, come se non si
potesse più trattenere, lasciando Paganini senza parole, con una faccia buona solo
per la bacheca d’onore. Noi ci defecacavamo addosso dal ridere. Qualche volta suc-
cedeva davvero, ma tante altre gliela davamo da intendere, ridevamo e ci tenevamo
apposta la pancia con una mano come per dire: “Guarda che te l’ha messa nel culo,
ragazzo, hai abboccato come un idiota”. Ma Paganini non si teneva i debiti, quando
beccava Fagiolo con la guardia abbassata gliela ritornava con gli interessi. Ma per
questo bisognava fargli alzare un po’ il gomito, e così lo punzecchiava continuamente:
“Fagiolino caro, è una mia impressione o hai dichiarato guerra ai liquidi?” “Mettiti
gli occhiali, Paganini! E stai attento che l’alcol causa gravemente16 la salute uma-
na.” “Fagiolino mio, guarda che si consuma anche il contenuto, non si lecca solo la
confezione...” “Va bene, Paganuccio caro, ma non fare più sforzi di concentrazione,
che ha detto il dottore che ti si paralizza anche l’altro neurone...” “Ma cosa stai
dicendo? Non si sente bene da qui!” “Ecco, vedi, Paganuccio mio, che aveva ragione
il signor dottore? Ha cominciato già a causarti17 l’udito!” E andavamo avanti così
a cazzeggiare, ora uno, ora l’altro, e ci sentivamo dannatamente bene, non ce ne
fregava niente della scuola, della miseria, delle code, del freddo, della fame e di tutti
i bla-bla di quelli che raccontavano balle a destra e a sinistra.
Un altro divertimento grandioso a casa di Paganini era il telefono. Quando i
vecchi erano fuori, lui era il primo a farsi prendere dalla telefonite. Dopo un po’ di
bicchierini di vodka di quella super, l’appartamento diventava troppo piccolo per i
nostri scherzi geniali, da premio Nobel, e così ci spostavamo su nuovi mercati. Pren-
devamo l’elenco telefonico e cercavamo nomi ridicoli, che sembravano creati apposta
per farci le battute. Un giorno ci son state due scene da sballo. La prima, di Paga-
nini, che ha pescato la famiglia Chiappa. L’animale prende il ricevitore, fa il numero
e con una voce da leccaculo chiede: “Prontoooo, compagna Chiappa?” perché gli
aveva risposto una voce figminile. “Il compagno Chiappa è in casa?” Quella gli dice
di sì. “Ooooh, come sono felice, vuol dire che tutto il culo è a domicilio.” La seconda,
di Sventola. Lo zingaro, con una fortuna da far schifo, trova un nome da sbattere la
testa sul muro, sul serio: Moccolicotti. Chiama, e con la sua voce da vacca con la
polmonite chiede: “Pronto, parlo con Moccolicotti?” Noi eravamo già in stato coma-

16
Gioco di parole derivato dalle avvertenze che si trovano sui pacchetti di sigarette. Per la
precisione dall’incrocio fra Fumatul dăunează grav sănătăţii (Il fumo danneggia gravemente la
salute) e Fumatul cauzează cancer (Il fumo causa il cancro).
17
Vedi nota precedente.

8
toso solo a vedere Sventola con i suoi labbroni a frittella che diceva simili oscenità.
Non so cosa abbiano detto dall’altra parte, ma lui fa, come al mercato: “E quant’è
al chilo?”
Avevamo anche degli scherzi standard, a cui cambiavamo solo il destinatario, ma
con quelli ci si stufava presto. Come quello dell’impiegato del telefono. Per queste
cose il migliore era Fagiolo riusciva a usare un tono secco, quasi stizzito, da ufficiale
che si era alzato con la luna di traverso. Lo scenario era il seguente: “Pronto, famiglia
Ionescu?” “Sì?” “Sono l’ingegner Hanganu, capo servizio della compagnia telefonica,
abbiamo un’emergenza...” “Mi dica!” “La prego di misurare la lunghezza del cavo
dalla spina fino all’apparecchio, ma in fretta, che non c’è tempo da perdere...” Il
malcapitato di turno andava, misurava e riferiva a quell’imbecille di Fagiolo una lun-
ghezza, ecco, diciamo cinque metri. “Ehm, sì... aspetti un attimo che facciamo i
calcoli... Ehm, sì... va bene, è perfetto... Le basta per impiccarsi! Grazie, arriveder-
ci!” A dire il vero ci si sbellicava dalle risate molto di più dopo, quando Fagiolo ci
raccontava come aveva reagito lo zoticone, come lo chiamava lui. Lo scimmiottava,
ci faceva vedere, a casa di Paganini, come il poveretto andava sotto i tavoli col metro
in mano, rapido e veloce, che l’ingegnere stava aspettando, e che faccia faceva alla
fine, quando lo prendeva per il culo alla grande. Teatro, cosa vuoi! Una variante di
questo scherzo era quella dell’idraulico che ti chiedeva di misurare la lunghezza del
tubo di scarico della lavatrice. E potete rendervi conto di che supplizio, di quanto si
dannava il poveraccio per tirar fuori quel ferro vecchio da chissà quale buco perché
un essere insulso gli dicesse di farsene un cappio!
Ma una volta quel criminale di Fagiolo ha esagerato di brutto. Eravamo stufi
degli stessi scherzi triti e ritriti con l’ingegnere della compagnia telefonica e l’idrau-
lico, e cosa gli vomita il cervello al cretinoide? Inventare qualcosa per salvarci dallo
svacco. Prende il telefono e chiama un numero a cazzo. Gli risponde una donna.
Senza dirle né come si chiama né di dov’è, la aggredisce subito così: “Compagna
Tale”, e le dice il cognome, “abbiamo saputo che la sera recita le preghiere, è così?”
Probabilmente quella aveva cominciato a balbettare qualcosa dalla paura. “Non si
nasconda, compagna, noi sappiamo tutto...” Senza volerlo, il deficiente doveva esse-
re sembrato uno della Secu’ 18 oppure uno shogun di partito, o qualcosa del genere.
“Compagna, lei non deve pregare più, che è tutto inutile. Glielo garantiamo noi. E
per farle vedere quanto ci teniamo a lei, le daremo quello che Dio fino adesso non le
ha dato. Le daremo la gobba, una gamba di legno e acqua nei polmoni.” Ma non ha
riso nessuno. Nemmeno Fagiolo. Credo che sia stata l’unica volta in cui, per qualche
giorno, ho avuto la strizza al culo.
Molte volte avremmo potuto trovarci più o meno nei guai, ma a quei cani della
Secu’ probabilmente andava bene che fossimo storditi dall’alcol, che ci dedicassimo
alla grande al cazzeggio e che non ce ne importasse un accidente di altre brutte storie,
come volantinaggio, proteste di piazza e cose simili. Ma noi non avevamo grilli del
genere, non ce ne fregava niente della politica e di Ceaşcă,19 non pensavamo che a
divertirci, cioè bere come spugne, andare a donne e ascoltare musica. Non avevamo

18
Diminutivo di Securitate.
19
Soprannome per Ceauşescu. Letteralmente: tazza.

9
nemmeno bisogno di cibo. Ad ogni festa la parola d’ordine era: mangiare è superfluo,
bere è fondamentale.

Il mistero del Cugino si è sciolto inaspettatamente durante una libagione che è


cominciata in modo tranquillo, ma che alla fine si è trasformata in una maialata da
grandi occasioni. Non entrerò in troppi dettagli perché non ho a portata di mano
una coperta sotto cui nascondermi per la vergogna. Dirò soltanto che certe feste,
spontanee, senza pretese, senza inviti particolari e vestiti d’occasione, sono quelle
che riescono più toste. Certe volte non hai nemmeno bisogno di troppi soldi per tirar
su una cosa del genere. Mi chiama Paganini per uscire a farci una haraşpincă,20 e
io avevo in tasca solo le cocuzze sufficienti per comprare la visiera alla pelata, cioè
nisba. “Offro io un giro e dopo vediamo”, dice lui. Siccome il Dio dei beoni da lassù
veglia sui suoi servi affinché non gli si prosciughi la gola dalla sete, passa da quelle
parti lo Stupido, e Paganini, lumandolo da lontano con i suoi sensori speciali, fiuta
che non è al verde. Dopo un po’ passa di lì anche il Cugino, che gli rodeva il culo fino
all’anima, non di meno! Si siede anche lui, come su cocci di vetro, perché lo stava
aspettando Palmolive a casa. Diceva ogni due secondi che doveva tagliare la corda,
ma se ne stava incollato alla sedia come una ventosa. Aveva voglia di andare a casa
come io di andare alle lezioni di chimica. Come per incanto comincia ad arrivare
sempre più gente. O da una parte o dall’altra saltavano sempre fuori i soldi per un
giro. A un certo punto, il Cugino si alza e con un tono che non ammette repliche ci
dice: andiamo da me! Siamo rimasti tutti quanti interdetti. Lo guardavamo come
una bestia rara. Nella sua cambusa non aveva più messo piede l’ombra di uno di noi
da almeno un mese. “Eeh, speriamo che Palmolive non ci tiri qualcosa in testa” dice
Paganini, con tono giocondo, per dare al povero cristo il tempo di ripensarci. “An-
diamo da me!” ripete deciso il Cugino, sul punto di scattare. Aveva qualcosa che gli
stava sull’anima da quando l’avevo visto. Siccome per il Cugino uno più uno fa due,
cioè non è di quelli che per grattarsi il deretano passano il braccio da sopra la spalla,
si prende e parte prima di tutti. Avvertiamo immediatamente anche Fagiolo che dal
Cugino si stava profilando una rimpatriata come non si era mai vista a Botoshima,21
che doveva venire al volo da noi. All’inizio credeva che lo prendessimo in giro, ma
l’abbiamo tranquillizzato, il pazzoide. È arrivato come una scheggia, che per nulla
al mondo si sarebbe perso una simile occasione.
Quando ci siamo trovati tutti lì, la banda al completo, Palmolive aveva addosso
un tubino rosa da farti venire il diabete, se lo guardavi troppo, ed emanava mille
profumi, ma sembrava fulminata dall’ira. Stava per farlo fuori con un tiro dagli un-
dici metri, di fronte a noi. Il cugino l’ha presa su con un dito e l’ha portata in bagno
dove hanno avuto luogo discussioni libere e democratiche, di categoria pesi mosca.
Probabilmente il Cugino le ha dato il foglio di via irrevocabile perché Palmolive ha
preso su le sue cianfrusaglie, come un automa, e se n’è andata senza dirci nemmeno:
baciatemi il culo. Ci mancava anche quello. Noi siamo rimasti tutti quanti calmini,
mentre lei, furiosa, raccoglieva le sue cose, spostandoci da una parte all’altra, in

20
Bevanda alcolica di cattiva qualità.
21
Contaminazione del nome della città di Botoşani con Hiroshima.

10
equilibrio precario, a seconda dei suoi interessi in materia di oggetti personali, come
se non fossimo presenti, come se non avessimo sentito neanche uno strillo dal bagno,
come se non ci rendessimo nemmeno conto di quello che stava succedendo... Solo
Fagiolo ghignava come un oligofrenico, visibilmente incantato dalla messinscena della
dragonessa. Le avrebbe messo molto volentieri una mano tra i cosciotti, da come gli
brillavano le pupille.
La cambusa del Cugino era irriconoscibile. Da quel porcile che conoscevamo, in
cui non ti saresti meravigliato di trovare una fetta di pane spalmata di burro nella
carcassa del telefono o un preservativo ammuffito dietro il termosifone, adesso era
tutto pulito come un uovo. Che quasi ti vergognavi di metterti a bere. Però le len-
zuola rosa, le tende rosa, il paralume rosa, il lampadario rosa e un paio di calzini rosa
appallottolati e finiti sotto il letto ti spingevano a buttar giù un bicchierino per farti
passare la nausea. Proprio quello che abbiamo fatto tutti quanti, fino al mattino.
Quando stava per farsi giorno, il Cugino era ubriaco marcio. Fagiolo era anche lui
in scimmia, faceva battute sempre più di cacca. Anch’io non mi sentivo troppo bene,
mi si erano rammolliti i tutori e la posizione bipede era diventata il mio desiderio
costante. Soltanto Paganini, povero, teneva alta la bandiera e continuava a chiederci
con chi mai poteva bere, perché gli sembrava che noi ci facessimo pregare un po’
troppo. Ad ogni modo, sulle barricate c’eravamo rimasti solamente noi quattro.
Lo Stupido aveva piastrato un tre volte e adesso stava dormendo con i piedi nella
lavatrice e il naso in un posacenere.
Sventola, dopo aver reso omaggio alle pantofole, anche lui, aveva tagliato la corda
verso casa, cantando a squarciagola la Ballata della Giacca a vento, come al solito.
Una canzoncina da quattro soldi che non so nemmeno perché si chiamava ballata.
Fa più o meno così: “Sia che nevichi, sia che piova/ Col cul per terra non mi trova/
Che ho la giacca a vento nuova.” Questo era tutto. E ricominciava da capo finché
non ti faceva girare le scatole e gli dicevi di star zitto che sennò lo prendevi e gli
frullavi la zucca contro il muro. Ti ascoltava docile come un agnellino. Finché non si
dimenticava di quello che gli avevi detto e riprendeva un’altra volta dall’inizio. Gli
piaceva da morire quel rutto di canzone. Probabilmente qualcuno dei suoi antenati
nomadi deve aver avuto in passato una giacca a vento nuova che era stata l’orgoglio
di tutta la sua stirpe, fino al settimo grado. Una giacca a vento così non l’hanno mai
più vista!
Capabianca aveva perso anche lui le forze, l’abbiamo trovato la mattina in ter-
razza che dormiva seduto su un seggiolino da pescatore con la capoccia appoggiata
sul bordo del parapetto. Dicevi che fino a quel momento era stato a guardarsi le
ragazze per strada e che si era soltanto appisolato un attimo, sai com’è.
Gli altri erano andati via da un pezzo.
Io avevo appena fatto un regalo alle anatre perciò ero relativamente vivace, nel
senso che non avevo bisogno di stuzzicadenti per tenere gli occhi aperti.
La situazione sul campo di battaglia si presentava più o meno così quando il
Cugino ha cominciato a raccontare, quando il mistero si è sciolto.
Sembra che Palmolive venisse da una famiglia facoltosa, ragazza beneducata, pu-
lita, di compagnia e con un gran senso dell’umorismo. Non era una sgualdrinella,
una di quelle che la danno via a dritta e a manca, neanche per sogno. Aveva un

11
unico difetto: se per cinque minuti rimaneva senza batacchio – il tempo di andarti
a bere un bicchiere d’acqua o fare la pipì, insomma – quelli erano cinque minuti di
vita perduti. Aveva una tale voglia di fare ginnastica in due da far paura. All’inizio
aveva creduto di essere stato baciato da una fortuna sfacciata. Per qualche giorno
non hanno visto, non hanno sentito, non sono usciti di casa; al cesso ci andavano
solo quando la pressione era al massimo, quando le budella stavano per scoppiare.
Era stato super! Sesso alla grande. Come nei film. Lei diceva di essere finalmente
contenta di come girava la ruota, che aveva trovato qualcuno con cui si intendeva
a meraviglia. Che sognava di andare avanti così fino alla tarda vecchiaia. Che la
sua disgrazia, fino ad allora, era stata quella di non aver avuto in sorte un arnese
giocherellone che la calmasse. Che per questo era sempre stata costretta a correre
in giro in almeno due-tre posti. Però anche lei voleva avere una famiglia. Voleva
una vita rispettabile. Non che la gente la mostrasse a dito come una puttanella. E
canticchiava di gioia in giro per la casa.
Solo che dopo un paio di settimane la fortuna gli ha voltato le spalle. Lui, il
Cugino, grande e grosso come era, si sentiva strizzato come uno straccio, gli girava
la testa perfino quando stava seduto. Non aveva più nemmeno il coraggio di anda-
re agli allenamenti. Con un buffetto l’avrebbe steso a gambe all’aria anche il più
mingherlino di quelli là. Gli si annebbiava la vista, le gambe gli tremavano come a
un cane dal veterinario. Quando vedeva con che occhi vogliosi Palmolive guardava
i suoi muscoli stremati, gli venivano le bolle lungo il filo della schiena. Quando si
accorgeva che si stava preparando per un nuovo attacco, quei due o tre spermatozoi,
che fino a quel momento erano rimasti incolumi, si davano alla fuga con quanta forza
avevano in coda, con il pelo dritto sulla schiena, tremando di paura, cercando di
nascondersi nei posti più bui. Ma non avevano via di scampo! Quando Palmolive
si lanciava coraggiosamente con la bocca su quel pezzo di carne moscia, sembrava
che mettesse in funzione il Panasonic. Per quanto con i loro artiglietti si aggrap-
passero a qualsiasi cosa trovassero sul percorso, venivano strappati via come durante
un uragano e portati sul luogo del delitto. Dopo aver ottenuto un’accettabile ere-
zione dello strumento di lavoro, sorrideva trionfante e gettava nella mischia l’altro
bucorifizio, appiccicaticcio e fremente, così ardente d’impazienza che sembrava non
aver assaggiato un uccello da migliaia di anni. Man mano che passava il tempo i
suoi sorrisi trionfanti si diradavano. Per quanto facesse andare il Panasonic a pieni
giri, il raccolto era sempre più scarso. La popolazione di spermatozoi era calata
drasticamente, come se ci fosse stata un’epidemia. Di tanto in tanto ne beccava an-
cora qualcuno monco o guercio, o qualcun altro vecchio o paralitico, oppure qualche
neonato immaturo... Ma una quantità così misera non le bagnava neanche il becco,
non le bastava nemmeno per un pallido orgasmo, così, di controllo. Come le streghe
che, nelle favole, proclamavano a gran voce che avrebbero mangiato carne umana, lei
reclamava uno spermatozoo giovane e con la codina vispa. Il Cugino aveva le guance
visibilmente scavate, straziato dal continuo succhiare e leccare, devastato da crampi
e giramenti di testa. D’altra parte anche Palmolive era disperata. Con tutto il suo
arsenale di mezzi, uno dei più stupefacenti sulla piazza, aggiornato grazie a fotografie
prese da riviste tedesche, non era più in grado di tirar fuori dal Cugino nient’altro
che un leggero spasmo, come un sospiro, seguito da due-tre gocce di acqua pura,

12
che non sarebbero bastate neanche come collirio. Era livida di rabbia perché i suoi
sogni evaporavano insieme al vigore del fantasma che le stava vicino. Addio famiglia!
Aufvidărzein,22 vita rispettabile!
Quando la femmina aveva cominciato a scaricargli addosso rimproveri dicendo
che i suoi ormoni ballavano la danza della pioggia e chiedevano di essere calmati, che
non aveva un briciolo di pietà di lei, che si prendeva gioco di una ragazza ingenua che
in gioventù era stata vergine, che di trombarsela così fino in tarda vecchiaia gliel’ave-
va solo promesso e altre stronzate del genere, il Cugino non aveva trovato niente di
meglio da fare che trascinarsi da uno che conosceva in città, un suo compaesano, per
cercar di rimettersi in sesto. Si era trascinato come una lumaca. Quando lei si era
allontanata per comprare l’acqua minerale, la lumaca era schizzata via,23 come nella
barzelletta. Ciao bambina, tanti baci e vado in Cina! Grande, grosso e vaccinato
quale era non aveva trovato la forza di prenderla a ceffoni, di darle due pedate nel
culo e spedirla così lontano da non vederla più. Aveva tagliato la corda come una
verginella.
E mentre se ne stava là con il suo compaesano a filare moccoli, che di sicuro non
avevano grandi cose di cui parlare, chi suona alla porta? Palmolive, porco giuda.
Va ad aprire il suo convillico e, quando torna indietro, gli dice, con gli occhi come
due lampeggianti: eehi, io credevo che erano quelli della corrente, ma ti cerca una
di quelle che vedi solo in vetrina. Quando gli ha predicato così, basta! ha capito chi
era. Gli son venuti i brividi, che le palline gli risuonavano come i campanellini delle
slitte. Gli spermatozoi sono entrati in allarme rosso: hanno incendiato le case e dato
fuoco ai raccolti, hanno avvelenato i pozzi e si sono ritirati nelle foreste.24 Il pisello
si è fatto prendere dal panico. Lui è uscito fuori sul pianerottolo per parlare. Lei,
che questo, che quello... Che le dispiace... Tralalì tralalà... Bla bla bla... Tagliando
corto, chiacchiere da femmina. L’ha infinocchiato, il poveraccio. L’accordo è stato
che la teneva a digiuno ancora per un paio di settimane, che anche lui aveva bisogno
di un po’ di respiro e il suo organismo di rifarsi la scorta di vitamine – e dopo si vedrà,
sarà quel che sarà. Palmolive ha cominciato a riempirlo di ogni sorta di ghiottonerie
fregate da casa sua, cose che la sua stirpe non aveva mai mangiato, dalla scimmia in
poi. L’ha ingozzato con fichi e datteri, arance e banane, cioccolata e miele. Quando
gli dava tregua con i dolci, tirava fuori burro e salame di Sibiu, olive e caciocavallo,
insalate e arrosti. Solo carne di coccodrago non gli ha portato. “Dai, mangia che devi
tornare in forze!” gli cinguettava dolcemente solo cose del genere, ogni cinque minuti,
pesticciando i piedi impaziente. Come se uno potesse tornare in forze schiacciando
un bottone. Ma l’accordo è durato solo due o tre giorni. Fino al momento in cui,
avendolo beccato senza camicia, si è lanciata su di lui con gli artigli, l’ha atterrato

22
Auf wiedersehen in tedesco.
23
Ossimoro che deriva da una famosa barzelletta: Un ardelean se întoarce cu mâna goală de la
cules de melci: “Păi cum, nici măcar unul n-ai găsit?” îl întreabă nevastă-sa. “Ba da, mai mulţi!”
zice el. “Dar cînd mă aplecam să-l culeg, melcul ţuşti, în tufiş !!!” (Un transilvano torna a casa a
mani vuote dopo essere stato a cercare lumache: “Ma come, non ne hai trovata neanche una?” gli
chiede la moglie. “Come no, ne ho trovate tante!” dice lui. “Ma ogni volta che mi piegavo per
raccoglierne una, la lumaca schizzava nel cespuglio!!!”).
24
Storicamente, in campagna, la reazione alle invasioni dei turchi.

13
sul materasso e ha fatto di lui quello che voleva. Tutte le povere vitamine, che aveva
racimolato con tanto sforzo nei giorni precedenti, sono andate a farsi fottere una
dopo l’altra. E, guarda caso, la colpa era comunque sempre sua, che era lui ad averla
eccitata in quella maniera. Era ridotto a non potersi nemmeno cambiare la camicia,
povero cristo. Noi siamo piombati con tutta la combriccola tipo il giorno dopo che
la pollastrella gliele aveva suonate.
Dopo che l’ha buttata fuori di fronte a noi come una gatta scagazzona, dice che
non l’ha cercato più. Ha tirato un respiro di sollievo. Ma gliel’ho detto al Cugino:
ehi, sei proprio un bietolone se non scrivi un libro su questa storia, questo è un ar-
gomento potente; lo scrivi e lo intitoli Ricordi di giovincazzo. Così, per ridere!
Poco tempo dopo quella festa salvavita, la cambusa del Cugino aveva ripreso il
suo vecchio destino. Da casa sua si poteva vedere uscire ogni genere di energumeni
con le loro orrende bagasce, intrallazzatori bisunti con zoccole truccate fino al buco
del culo, tangheri tosti con baldracche ridacchianti, scioperati paghi uno prendi due
con mignotte di quartiere... Eh! gli amici del Cugino, che il diavolo se li prenda!

Abbiamo avuto proprio una bella compagnia al liceo! Divertimenti e giro di figa,
solo questo ci ronzava in zucca. Perfino le code le facevamo per divertimento, ci
sfottevamo a vicenda con i ragazzi del quartiere, rimorchiavamo puttanelle di ogni
tipo con sceneggiate ad hoc, ridevamo di tutto e di tutti. Giuro, da un bel po’ la
nostra ghiandola del riso si eccitava così facilmente che bastava che qualcuno apris-
se la bocca e scoppiavamo a ridere come cretinoidi, che le vecchiette ci davano dei
posseduti. Quando le scene erano anche divertenti, era la fine del mondo. Ancora
adesso mi ricordo di una matrona impettita che si accalcava in coda per lo zucchero,
da sotto il suo cappotto di agnello dava gomitate a destra e a manca, come l’ultima
disperata. In coda, lo sapete bene, non ce ne fregava niente che uno fosse intellet-
tuale o si rompesse la schiena in fabbrica, che avesse il berretto di nutria o il basco
bisunto, non esistevano cortesie. Tutti erano uguali. E così, anche la nostra matrona
spingeva con decisione. Siccome era più in carne degli altri, alla vendita del primo
pacchetto con i magici cristalli, quando la coda si è trasformata in ressa, la nostra
matrona è sbucata in prima fila, come i pidocchi in fronte. Ma la poveretta non è
riuscita ad assaporare il trionfo perché dalla sommità del cranio le si è sciolto lo chi-
gnon ed è rotolato giù nientepopodimeno che un vasetto vuoto di yogurt, l’armatura
dell’imponente costruzione. Ha cercato maldestramente di fermare il disastro, ma
ha fatto peggio perché ha attirato l’attenzione, il vasetto sembrava essere argento
vivo, le sfuggiva dalle mani, il sacchetto si è rotto e lo zucchero si è sparso in giro,
e il vasetto, dopo aver colpito un paio di vicini ha fatto poc! per terra. La gente
guardava come se fosse al circo scoppiando dal ridere e la commessa si è bloccata
con un chilo di zucchero in mano. Un tizio piuttosto attaccabrighe le ha gridato:
“Aho, dovevi andare a prendere il latte e sei qui a cercar zucchero, vedi ’n po’ tu!” E
giù di nuovo belati, e giù cagnara. Mi sono piegato in due dalle risate, quella volta,
davvero! Mi sono venuti i crampi alla mascella. Ecco perché mi piacevano le code.
Poi vedevi uno, incontravi quell’altro, venivi a sapere che intrallazzi c’erano a scuola,
nelle altre sezioni, chi ha trombato chi, chi ha fatto a cazzotti con chi, chi ha avuto
casini con la matematica o con la fisica, che altri tiri hanno fatto ai prof, quali feste

14
si stavano preparando, che saponi e che spray si vendevano in giro per la scuola e
tutta una serie di cose che se non le sapevi ci facevi una figura di merda.
Qualche volta, al negozio di alimentari in cui andavo a fare la coda io, veniva
anche Dorina Amicşulesei, della quale vi ho già parlato. Accidenti, veniva vestita di
tutto punto e con un profumo che cavolo ne so, non ho idea di cosa fosse, ma credo
uno di quelli cari da morire, e se ne stava là, pia come la Madonna-col-litro-d’olio-
in-braccio, ti guardava con gli occhi come due sfere di cuscinetto in cui si rifletteva
l’Universo, elegante e smorfiosa, filosofa del tubo, che ti veniva voglia di darle due
calci in culo per riportarla alla realtà, che quello non era il ballo della regina, bensì
un gregge di animali affamati e sfiniti, pronti ad azzannarsi per un osso affumicato.
Ogni volta che mi capita di pensarci, mi viene su la rabbia all’istante. Anche se
non credo che sia colpa sua, ma di quella madre malata nel cervelletto che si ritrova,
che voleva maritarla, so io, oppure far vedere che è ricca, non una qualunque, pensa
un po’ ! Che anche nel cesso la mandava in abito da sera. Adesso, quando vedo la
signorina Amicşulesei raccontare balle su disoccupazione o protezione sociale, mi si
gonfiano le vene del collo, ecco. Tira fuori dal gozzo le stesse frottole di un tempo.
Ma guarda un po’ tu che boiate poteva avere in testa! Cosa riusciva a tirar fuori
dalla bocca! Eravamo in coda per..., che cavolo ne so! non mi ricordo di preciso,
ah, ecco che mi viene in mente, per le bombole del gas, e c’era un sole da diventar
cretini. Quando respiravi, sembrava che qualcuno ti infilasse un ferro rovente nel
gargarozzo. Arriva la signorina Amicşulesei, tutta atteggiata, tirandosi dietro con
grazia un vecchio carrellino cigolante, e si mette in coda. Fino qui niente di strano.
Ma quando la guardo meglio, cosa vedo, la dama si era infilata un paio di jeans
d’importazione, nuovi di pallino, così spessi che a tenerli addosso ti facevi la sauna,
e una maglietta con le maniche lunghe, da lasciarci gli occhi, niente da dire, ma io,
vestito con quella roba lì, ci avrei lasciato le penne in un quarto d’ora. Ma insomma,
su questo possiamo anche sorvolare, anche se, secondo me, una persona che sopporta
un tale tormento solo perché i jeans le fanno un bel culo o perché vuol far vedere a
tutti quei buzzurri che razza di maglietta strafica si era comprata allo shop,25 deve
essere internata alla neuro con decreto presidenziale. “Come stai?” le domando io,
perché in fondo eravamo colleghi, che cavolo. “Eeh”, frulla gli occhi rovesciandoli
all’indietro, “sono uscita anch’io a prendere un po’ d’aria.” Non ti viene da sbatterla
con i denti sul lavandino?! Quale aria, cavolo? Quella della Luna, forse, perché sulla
Terra c’era l’inferno di fuoco. E cosa cavolo vuol dire “un po’ ”, visto che per le
bombole bisognava stare in coda un giorno e una notte?! Ma guarda, mi arrabbio
di nuovo! Meno male che insieme alla plebaglia non ci si metteva spesso, che mi
sarebbe venuto un colpo da un pezzo.
Ma i momenti peggiori erano quando in qualche coda arrivava anche la prof di
francese, più o meno mia vicina di quartiere, una dal nome ingarbugliato, di medi-
cinale, un nome che sembra uno scioglilingua con tante z e tante v, non sono mai
riuscito a ricordarmelo, soprattutto perché tra di noi la chiamavamo in un modo
molto più semplice: madame Fichette. Con lei nel plotone non osavamo far cagnara
perché era malvagia e vendicativa, anche se sul momento non ti faceva la morale o

25
Negozi nei quali le merci erano vendute in valuta straniera.

15
fingeva di infischiarsene delle tue scemenze. Si diceva che fosse maritata con un in-
gegnere edile, gran cazzone sul gippone, alcolista professionista, non un tontolone di
serie B, capitano della squadra dell’ Avîntul Prăbuşirea.26 Madame Fichette, sebbene
intransigente, non è riuscita ad insegnarmi più francese di quella barzelletta in cui
un francese si incontra con uno zingaro. “Parlevu fransé?” chiede il francese; “No,
non spariamo ai francescani” dice lo scuro; “Ui?” ci riprova il parigino; “Neanche
qui!”; “Oh-la-la!” si meraviglia quello; “No, no, no, né qui né là” dice lo zingaro.
Riconosco che sia una barzelletta del piffero, ma dice tutto sulle mie conoscenze di
francese. La madame la chiamavamo così perché, da quel che ho saputo, aveva un
piccolo vizietto: ogni anno metteva gli occhi su un giovincello della quinta, che a lei
sembrava più non-so-come, bastava che non fosse finocchio, e non lo mollava finché
non gli aveva spremuto fino all’ultimo spermatozoo. Non si buttava mai su due gio-
vanotti, era una ragazza di rango, uno solo le bastava. Adesso non potrei mettere
la mano sul fuoco che le cose succedessero proprio così, non ho avuto la fortuna di
essere nel suo mirino, soprattutto perché non era una racchia, aveva tutte le curve al
posto giusto, in più le proporzioni quadravano. Anche se eri in convalescenza, una
botta te la ispirava sempre!
Madame Fichette non veniva a fare la coda a mani vuote, a volte portava anche
la Gatta Vettoriale, la prof di fisica, per avere qualcuno con cui chiacchierare. Que-
st’ultima era una spilungona come Olivia di Braccio di Ferro e si trascinava come la
Pantera Rosa, che ci faceva scompisciare dal ridere. Aveva anche una voce da gattina,
buona per doppiare film porno. Per il resto era una tipa in gamba, non ci rompeva
il cazzo inutilmente, si occupava del suo lavoro a maglia. Quando ti interrogava, con
un occhio seguiva il problema che tentavi di risolvere con sforzi sovrumani, con l’al-
tro lavorava ai ferri sotto la cattedra. Questo quando non applicava il metodo cieco:
la vedevi che ti fissava costantemente per impedirti di copiare durante il compito il
classe e intanto là sotto il pullover era finito. Sferruzzava come una disperata, come
se avesse avuto quaranta bambini che le crepavano di freddo e un centinaio di nipoti.
Per quanto me ne fregassi altamente della scuola e di quelle cacate lì, non mi sentivo
a mio agio quando le prof mi stavano troppo addosso. Be’, venivano molto raramen-
te, quando c’erano banane, cioccolata cinese, caffè, arance, solo per le ghiottonerie,
non si accalcavano certo quando c’erano zampe di pollo violacee e adidas 27 di maia-
le, e solo se la coda era breve. Se era già lunghetta, la scrutavano, tirando il collo,
arricciavano il naso, mettevano la coda tra le gambe e innestavano la retromarcia,
battendo in ritirata. Io non mi facevo certo avanti per lasciargli il posto o cretinate
simili, anche se si usava. Se era possibile, facevo finta di non vederle, flirtavo con
qualche bruttura oppure tendevo l’orecchio verso barzellette o pettegolezzi. Però mi
mancavano i compagni! Il Cugino e Paganini non sapevano che roba era una coda
e dove la si doveva fare, perché i loro vecchi gli facevano trovare tutto sotto il naso,
e Fagiolo stava dall’altra parte della città. Sventola qualche volta veniva a fare la
coda, ma soprattutto per farmi compagnia, soldi i suoi non ne avevano, prendeva un

26
Denominazione ironica, letteralmente: Slancio in Crollo.
27
Zampa di maiale compresa di zoccolo venduta in macelleria nel periodo della dittatura di
Ceauşescu.

16
altro sacchetto di zucchero o di farina per me, dato che comunque se ne dava uno a
testa. Non ho mai visto i suoi vecchi e non sono nemmeno mai stato a casa sua, ma
credo che non avessero neanche gli spiccioli per pisciare nei cessi pubblici. Lui non
ne parlava e io non glielo chiedevo. Avremmo potuto incollarci a qualsiasi genere
di sciroccati, per fare casino, ma non sarebbe stato come nel nostro gruppo, dove
ci conoscevamo bene e ridevamo di cose che per quelli di fuori erano zero assoluto.
Avremmo anche potuto attaccarci a una bottiglia qualsiasi, con uno o con quell’al-
tro, ma gli sfigati si facevano solo di cose tremende, rachiu di pufoaică,28 fatto nella
porcilaia, ţuică di dero 29 o vino di segatura “Dealurile chimiei”.30 Non dico di no,
anche noi eravamo capaci di arrivare a porcherie di questo genere, quando restavamo
a secco, ma almeno non cominciavamo con quelle, per non spappolarci il fegato pro-
prio subito. Perciò, appena avevo finito con la coda, da solo o con Sventola, filavo
in centro a cercare i ragazzi. Non potevano essere che al parco, nella “stanza dei
bottoni”, nella cambusa del Cugino, alla “Pufoaica Ruptă” oppure da Paganini, nello
scantinato. Se non erano in nessuno di questi posti, li trovavamo a scuola. Magari
nel cesso a fumare o sul campo da gioco, come aiuto battifiacca, a grattarsi le palle.
Appena ci vedevamo, cominciava il carosello. “Ehi, Pagnotta, dove sei stato, guarda
che ti stava cercando la Micşuleasca per mostrarti una tetta.” “Dai, smamma, vai a
rompere da un’altra parte.” E così via. Il soprannome di Pagnotta me l’hanno dato
proprio loro. Abitavo dalle parti della zona industriale, vicino a un grande panificio,
piuttosto lontano dalla scuola. Siccome di mattina mi svegliavo tardi, spesso non
avevo il tempo per buttar giù qualcosa. Mi vestivo al volo, mi mettevo la borsa a
tracolla e via! Sempre al volo compravo anche una pagnotta calda nel chiosco davanti
al panificio e ne mangiavo metà prima di arrivare a scuola. L’altra metà me la face-
vano fuori quelli della classe, ci si fiondavano come mosche sulla merda. “Hoo, morti
di fame...” Oppure altre volte nascondevo la pagnotta sotto il giaccone e dicevo che
quel giorno non avevo niente. “Dai, Pagnotta, non raccontare balle!” Cominciavano
a rovistarmi nella borsa, a tastarmi come fa la polizia. Questo succedeva nei primi
due anni del liceo, fino a quando il pane è stato razionato. Dopo mi è rimasto solo
il soprannome, che di pagnotte – un tubo!

A scuola succedevano storie di tutti i colori, una più divertente dell’altra. Que-
sto, quando ce la facevamo a mettere piede anche da quelle parti. Adesso me ne
viene in mente una demenziale, un incontro di grado x tra Fagiolo e Clorofilla, come
chiamavamo il secchione della classe. Fagiolo, ogni volta che incrociava Clorofilla, gli
piazzava un “bacio la mano”, come alle signorine, per mandarlo fuori dai gangheri.
Tempo prima avevano avuto un diverbio e Fagiolo non gliel’aveva perdonata. Per

28
Termine generico usato per i rachiu (v. nota 10) di cattiva qualità prodotti artigianalmente
con ogni genere di strane combinazioni, nel senso che non è escluso che nella fermentazione possa
essere messo anche il materiale sintetico di imbottitura della pufoaică (v. nota 14).
29
Ţuica è propriamente una bevanda alcoolica ottenuta dalla fermentazione e distillazione di
prugne o altra frutta; ţuica di dero è un distillato prodotto con un detersivo molto comune in
Romania, commercializzato con il nome di DERO< detergent românesc.
30
Denominazione generica data a vini di bassa qualità contraffatti chimicamente, letteralmente:
Colline della Chimica.

17
questo gli rompeva l’anima sistematicamente. Chissà, forse il muto avrebbe fatto
un passo falso. Di solito, il secchione teneva il becco cucito, come era raccomanda-
bile fare con uno sbiellato come Fagiolo, perché a malapena noi riuscivano a stargli
dietro nello sfottimento. Ma si vedeva che il ragazzo non ce la faceva più, che il
rospo che doveva continuamente ingoiare gli rodeva il fegato. Soprattutto perché era
un tipo pieno di sé che andava in giro a testa alta e petto in fuori, come se avesse
avuto un bastone nel culo. Si credeva il genio del piffero sonoro e, durante la pausa,
passeggiava da solo, con le mani dietro la schiena, vicino al muro di cinta del liceo,
il più possibile lontano dalla marmaglia ignorante. Almeno fosse stato un tipo ben
preparato, con un’intelligenza fuori dal normale, da dire che si mangiava matematica
a colazione e cose di questo genere. Ma neanche per sogno! Era piuttosto di quelli
che si alzano in piedi, chiudono gli occhi e fanno partire il nastro. Se gli staccavi
la spina e lo costringevi a pensare, cascava l’asino. Nisba! Niente! Un cazzo! Lo
sfacelo più totale! Cominciava a balbettare penosamente. Non dico che noi eravamo
i nipotini di Ainştain, che davamo il fumo a tutti, che quando aprivamo il becco i
prof andavano al tappeto, ma almeno non avevamo pretese, andavamo a caccia del
dieci minore31 e finita lì. Quando prendevamo cinque pagavamo da bere. Quando
prendevamo sei eravamo delle celebrità. Ma se ti capitava di prendere sette gli altri
del gruppo non ti parlavano più, ti sospettavano di aver dato un’occhiata alla lezione.
Ma torniamo al nostro secchione. Era di pomeriggio, uscivamo da scuola. Quan-
do fuori faceva caldo, i ragazzi non filavano subito a casa, si fermavano a fare una
chiacchierata in fondo al cortile, sulle panchine. Noi ci eravamo piazzati per primi e
avevamo cominciato a fare commenti su quelli che passavano, a fare il nostro solito
circo. Molti neanche ci prendevano più in considerazione, ci avevano bollato come
handicappati e non sprecavano più neuroni con noi. C’era anche un detto: non pro-
vocare gli stupidi perché hanno la mente a riposo. Altri si erano spalmati sul resto
delle panchine. Un po’ chiacchieravano fra di loro, un po’ ridacchiavano di quello
che dicevamo noi... Arriva Clorofilla, con la sua camminata da genio impagliato.
“Bacio la mano” spara Fagiolo, per attaccare bottone. E davvero non so proprio chi
cazzo gliel’abbia fatto fare, al pivellino, di tirar su la cresta, di mettersi al livello del
nostro schizoide. “Non parlo con i ripetenti” dice, e fa per andarsene. Ma quello era
già stato piu che sufficiente: cominciare a parlare. Con Fagiolo non la passavi liscia
così facilmente. “Quale ripetente, signorina, lei mi offende, ho solo due materie a
settembre...” Cala il silenzio. Un silenzio di quelli in cui potevi sentire come trom-
bano le mosche. Tutti quanti seguivano la scena con il cuore nelle mutande. Cosa
avrebbe detto la “signorina”? Il secchione si era messo nei casini da solo. “O con
i rimandati a settembre, insomma... E almeno questa cosa la dovresti sapere, che
non sono una signorina” dice scocciato. “Mi scusi, ma dal grilletto, se sa cos’è quella
cosa, ritenevo che lei fosse una signorina”. Risatine sommesse qua e là. Il secchione
diventa di tutti i colori. “Io non parlo con...” – e fa per andarsene. Ma Fagiolo
si alza con fare minaccioso e cambia tono. Se solo si lasciava scappare un sinistro,
lo escludeva dal censimento. “Dai, su, Clorofilla, non essere cazzuto, stai anche tu

31
Ovvero il cinque, che nel sistema di valutazione decimale in Romania rappresenta la
sufficienza.

18
con il popolo! Ecco, tu, che sei il migliore della classe, spiega anche a noi, a dei
poveracci come noi, dov’è il grilletto, in fondo alla passera o all’entrata?” Clorofilla
diventa del colore della bandiera bolscevica. Era stata colpita la sua immagine di
onnisciente. “Illumina questi ragazzi, guarda come stanno lì, con la bocca aperta, in
attesa del sapere.” Credo che il malcapitato abbia stramaledetto il momento in cui
si era messo a parlare con Fagiolo. Aveva tutti gli occhi puntati addosso e si sentiva
come un’oliva inseguita da uno stuzzicadenti. Tutti aspettavano da lui una reazione
intelligente. Una risposta che mettesse l’altro al tappeto. Ma Fagiolo non molla:
“Se si tratta di niznai,32 dillo, eh! Non devi vergognarti. Troveremo un ripetente o
un rimandato a settembre, insomma qualcuno che te lo insegni.” Dalle panchine la
gente comincia a suggerire. “In fondo! In fondo!” gli sussurrano alcuni. “All’entrata!
All’entrata!” gli gridano altri. La testa di Clorofilla girava come un lampeggiante,
ora verso questi, ora verso quelli. “Ma tu, da signorina, dovresti più o meno sapere
da che parte è...” lo tiene sulla corda Fagiolo. “In fondo! In fondo!” lo investono
alcuni. “All’entrata! All’entrata!” gli lanciano altri. La sua fortuna è stata che quelli
seduti sulle panchine avevano incominciato a litigare. Si erano divisi in due gruppi
pronti a darsele di santa ragione.
“Ehi, quadrupede, cosa dici, all’entrata, non hai alba!” “Quadrupede sarà il figlio
di tua madre, quello che si chiama Tudor!” “Ma dove cazzo è, se non in fondo?”
“Come in fondo, sei scemo?” “Non sarà mica in fronte, no, cretino!” “In fronte ce
l’avrà tua madre!” “Ma quando lo schiaffi dentro, non sbatti contro il grilletto?” “Ma
va’, sei proprio stupido!” “Ma contro che cazzo sbatti se no, eh?” “Contro il fondo,
no!” “Ma vaffanculo, va’ !” “Fatti un po’ di flessioni vaginali e vedrai!” “Ma stattene
un po’ zitto, ma non ti fa il solletico là in fondo?” “Solo se quello di prima si è
dimenticato il guanto, allora sì che ti fa il solletico!”
Mentre le due fazioni litigavano Clorofilla si era ripreso un po’. E cosa gli frulla
in quel suo cervello così liscio da farci pattinaggio artistico? Di metterli d’accordo!
Neanche a Fagiolo sarebbe saltata in zucca un’idea così stravagante. “Ehi, ragazzi!”
li richiama all’attenzione, “da quel che ne so io, qualche donna il grilletto ce l’ha in
fondo mentre altre ce l’hanno all’entrata!”
Da quella volta molti non l’hanno più chiamato Clorofilla, ma Grilletto.

Eppure, in tutto questo vortice di divertimenti e di baldoria in cui non ce ne


fregava un cazzo di niente e di nessuno, a un certo punto ho sentito che qualcosa
puzzava in questo paese. Vi ho detto della Prof-di-romeno, una tipa esuberante e in
gamba, figa da restare a bocca aperta, di cui mi sono innamorato dal primo istante...
Ero praticamente perso, se devo dire la verità. Avevo iniziato a frequentare tutte le
sue ore e quelli del gruppo avevano cominciato a farsi delle idee strane: eh, il nostro
Pagnotta è malato di fegato (e si battevano l’indice sulla tempia), si sarà preso la
sifilide con tutto il tempo che passa a guardare la foto di Eminescu,33 è una cosa che

32
Dal russo ne znaju (non so).
33
Secondo le credenze popolari, il maggior poeta romeno, Mihai Eminescu, sarebbe morto di
sifilide e non di tubercolosi, come riferiscono le biografie.

19
causa34 il cervello, sul serio! Loro qualcosa l’avevano intuito. Non mi andava neanche
tanto di partecipare allo sfottimento durante le lezioni. Facevo finta di star male per
gli stravizi della sera precedente o di essere stato colpito da una pigrizia elefantiaca
oppure di avere mal di denti. Ma non gliela davo a bere! Ero così diligente da essere
sospetto. Guardavo la prof come la gatta il calendario, non sentivo niente di quello
che diceva, ma vedevo come si muovevano le sue labbra, le sue mani delicate, con
le unghie ben curate, come si appoggiava al banco mettendo in evidenza il fianco.
Sentivo il suo delizioso profumo, che le avevano portato i parenti dall’Italia, lumavo
come un demente, con gli occhi fuori dalle orbite, il movimento bestiale delle sue
gambe, l’ondeggiare dei capelli, la balconata. Un bel giorno, mentre me ne stavo
così, con la bocca aperta, rapito dal paesaggio – mi rendo conto di che faccia da
ebete devo aver avuto – entra la direttrice del liceo, spaventata, e le dice qualcosa
all’orecchio. La prof ci dice che sta via dieci minuti e poi torna, di fare quello che
vogliamo, basta che non si senta cagnara. Fagiolo e il Cugino saltano la finestra
dalla parte del cortile e spariscono. Io ci rimango un po’ male, mi avevano appena
portato via il giocattolo, non avevo voglia di fare casino. Sventola e Paganini erano
in marina. Passano quei dieci minuti e la prof non si vede. Non succederà niente
se faccio una puntatina in cesso, mi dico io. Esco. Prima di entrare in gabinetto, si
apre la porta della sala insegnanti e sento la prof che sputava le ultime parole: “E
lasciatemi in pace con il vostro partito, al diavolo, non mi iscrivo e basta.” Sbatte
la porta e se ne va, non ritorna nemmeno in classe. Incazzata nera, ma con le stesse
gambe da sballo. Da quella volta non l’ho mai più vista. E ho cominciato a sentire
che in questo paese di cacca qualcosa puzza.

Dopo il liceo la compagnia si è sciolta. Ognuno è andato per i cavoli suoi. Di


tanto in tanto vengo a sapere qualcosa di uno o di quell’altro. Il Cugino si è messo a
fare pugilato agonistico e credo che sia pieno di grana. Caspita, penso che alla fine sia
l’unico che ha fatto qualcosa. Fagiolo si è messo anche lui un po’ in proprio, ma non
se la passa tanto bene. Riesce a tirar fuori i soldi per una birra. Paganini è andato
all’università, Meca ha battuto la fiacca per un paio d’anni come ingegnere e dopo
l’assembramento di dicembre35 se l’è filata in Spagna a mettere giù piastrelle e non
so più niente di lui. Sventola si è messo a suonare la tromba ai matrimoni. Pare che
l’abbia reclutato un altro zingaro come lui, un serbo, per suonare in un film a Parigi.
O è ricco sfondato o è in metropolitana che fa l’accattone in francese. Capabianca
andava a prendere macchine in Germania e ha tirato le cuoia in un incidente. Lo
Stupido è diventato funzionario doganale e non mi conosce più. Dorina Amicşule-
sei... ma non so perché voglio incazzarmi, mi si gonfiano le vene del collo soltanto
quando dico il suo nome! Io... Di me cosa posso dire? Anche se a volte penso di
essere stato un coglione, che avrei potuto studiare, che testa ne avevo almeno quanto
quell’alcolizzata della mia coordinatrice, non rimpiango... Ptiu, ma questo credo che
lo sappiate già.

34
V. nota 23.
35
Moti rivoluzionari del dicembre 1989.

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