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LE DOMANDE DI GIOBBE

E IL SILENZIO DI DIO

Relatore: Prof. Gaspare Mura

Conferenza del 14 ottobre 2011
Don Mario Pio: Carissimi, questa sera riprendiamo il nostro ciclo annuale di
Conferenze del Venerd iniziando con la conferenza del Professor Mura, che vedete qui
presente.
Come risulta dalla locandina, il tema riguarda Le domande di Giobbe e il silenzio di
Dio di fronte alla sofferenza.
Il Professor Gaspare Mura nato a Nuoro, ma si Laureato in Filosofia e Storia
allUniversit La Sapienza di Roma, ha conseguito poi il Magistero in Sacra Teologia
alla Pontificia Universit Lateranense, ed infine ha completato gli studi per il dottorato
in Teologia alla Pontificia Universit San Tommaso di Roma, dove si laureato il
beato Giovanni Paolo II e, modestia a parte, anchio.
Vive a Roma ed Professore Ordinario Emerito nella Facolt di Filosofia della
Pontificia Universit Urbaniana, dove ha insegnato Storia della Filosofa Antica,
Filosofa della religione, Ermeneutica Filosofica; stato Direttore dell' Istituto
Superiore per lo Studio dell'Ateismo della Pontificia Universit Urbaniana (dal 1993 al
2001); Direttore dell Urbaniana University Press (dal 1997 al 2007) e della rivista di
Filosofia e teologia Euntes docete; stato anche Direttore editoriale della Casa Editrice
Citt Nuova di Roma; dal 1993 a tuttoggi Consultore del Pontificio Consiglio della
Cultura; attualmente docente di Ermeneutica Filosofica presso la Pontifcia Universit
Lateranense (carica che ricopre dal 1986) e la Pontificia Universit della Santa Croce di
Roma; dal 2007 Presidente dell Accademia di Scienze Umane e Sociali(A.S.U.S.) di
Roma, che raccoglie numerosi docenti di universit laiche ed ecclesiastiche, che
collaborano per una pi efficace testimonianza della cultura cristiana, sia in ambito
accademico che nel contesto del dialogo interculturale ed inter-religioso.
Su Internet, alle voci Gaspare Mura e Accademia di scienze umane e sociali (A.S.U.S.),
possibile conoscere gli ambiti di ricerca e i titoli delle pubblicazioni del Professore;
vengono altres indicate le importanti iniziative culturali dellAccademia, alle quali si
pu liberamente partecipare se si interessati, semplicemente segnalando la propria
mail alla Segreteria dellA.S.U.S. (segreteria@asusweb.it) per ricevere gli inviti.
Nel dare la parola all ospite, disponiamoci allascolto di una tematica che ci interpella
come uomini e ancor pi come cristiani.

Relatore: Grazie vivissime, don Mario Pio, sia per avermi invitato che per le sue
cordialissime parole; e ringrazio anche tutte queste persone che non mi aspettavo di
incontrare cos numerose e cos attente. La conversazione alla quale mi ha invitato don
Mario Pio, questa sera, una conversazione molto profonda ma anche complessa, nel
senso che si tratta di affrontare un testo della Bibbia quale appunto il Libro di Giobbe.
Perch interessante questo libro? Perch molti autori, anche letterati famosi, lo
ritengono uno dei pi bei libri della letteratura universale. Vi leggo a mo di esempio
qualche giudizio. Victor Hugo scriveva : "Domani, se tutta la letteratura dovesse essere
distrutta e fosse dato a me il compito di salvare un solo libro, sceglierei il Libro di
Giobbe"; ugualmnete Gustave Flaubert definiva il Libro di Giobbe : " Il pi bel libro
della letteratura universale; mentre Alfred Tennyson lo considerava "... la pi grande
poesia, della letteratura antica o moderna"; per non parlare del grande filosofo Sren
Kierkegaard, il quale scriveva: Se non avessi Giobbe! Io non lo leggo con gli occhi
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come si legge un altro libro, me lo metto per cos dire sul cuore... Come il bambino che
mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione
quando al mattino si sveglia, cos la notte mi porto a letto il Libro di Giobbe. Ogni sua
parola cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima .
Autori antichi e moderni, credenti e non credenti, considerano il Libro di Giobbe tra i
pi belli e profondi della letteratura universale. E questo perch lo giudicano soprattutto
- anche se non solo - da un punto di vista poetico, e certamente il Libro di Giobbe
anche unopera letteraria di grande valore. Possiamo tuttavia chiederci: perch il Libro
di Giobbe, che fa parte dei libri entrati nel canone della Sacra Scrittura, viene
considerato un testo poetico e letterario? Perch di fatto il Libro di Giobbe non un
racconto storico, ma un romanzo, unopera letteraria e poetica che contiene un
messaggio. Giobbe non mai esistito realmente, ma il personaggio di un romanzo, di
un racconto. Alcuni esegeti hanno persino dubitato che lo stesso autore del Libro di
Giobbe fosse un ebreo, perch nel testo ci sono delle espressioni cos forti nei confronti
di Dio, del silenzio di un Dio che sembra non rispondere alla sofferenza di quest'uomo
innocente, che questi studiosi autori hanno detto: " Forse l'autore non un israelita, che
ha sempre un rispetto grandissimo per l'Altissimo, e mai oserebbe discutere con Lui";
Giobbe invece discute continuamente con Dio, contesta il suo modo di agire nei
confronti degli uomini e proclamandosi innocente mette in discussione il
comportamento di Dio che lo fa soffrire. E da precisare comunque che oggi gli esegeti,
sia ebraici che cristiani, sono concordi nel ritenere che, essendoci nel Libro di Giobbe
molti riferimenti ai Salmi e anche ai Libri dei Profeti, certamente l'autore un israelita
che conosce la Scrittura; anche se, come scrive uno studioso non strettamente legato al
credo popolare del tempo che riteneva la sofferenza frutto diretto del peccato (Brown).
Lautore del libro dunque un pio israelita che conosce la Scrittura, i Sami, i Profeti, il
Pentateuco. E tuttavia resta vero che il personaggio Giobbe non un ebreo e questo
molto interessante - ma un uomo del vicino Oriente. C un profondo motivo
teologico per cui il personaggio Giobbe non un ebreo; il motivo - e qui si vede la
grande sapienza d'Israele - che l'autore del libro vuole mettere in bocca ad un uomo,
addirittura un pagano, le domande e i problemi che sono i problemi universali
dell'uomo, quasi a volerci dire che il Dio dIsraele si confronta con ogni uomo e non
solo con lebreo, e che Israele non rifiuta di assumere come proprie le domande che tutti
gli uomini fanno a Dio. C gi qui una riflessione importante da fare: l'autore del Libro
di Giobbe, pur essendo un israelita, utilizza il personaggio Giobbe, che non un ebreo,
ma un uomo del vicino Oriente, per mettere in bocca all'uomo in quanto tale, l'uomo di
un altra cultura e di unaltra religione, gli eterni problemi che affliggono l'esistenza
dell'uomo, nella certezza che solo il Dio dIsraele pu darvi risposta. Perch soffro?
Perch Dio sembra racchiudersi in questo misterioso silenzio di fronte alla mia
sofferenza? Perch non interviene? Sono i problemi che hanno tutti gli uomini, che
abbiamo tutti noi in certi momenti della nostra vita; le domande sul senso della
sofferenza, e sul mistero di un Dio che sembra non dare risposte alla nostra sofferenza.
Quando stato scritto il Libro di Giobbe? Il primo nucleo narrativo risale al IX-X
secolo a.C., mentre secondo gli studiosi la redazione definitiva del Libro avvenuta in
Giudea verso il VI secolo a.C., intorno all'anno 575. I Libro composto di 42 capitoli,
di cui conosciamo tutti la storia: Giobbe, uomo giusto, viene colpito inaspettatamente
da una serie di disgrazie: la morte dei figli, delle figlie, la perdita dei campi, delle
greggi, e infine, dalla malattia della lebbra, che significava per le culture dellantico
oriente un segno di maledizione da parte di Dio; Giobbe viene a trovarsi in una
situazione di abbandono assoluto, di derelizione. Vengono a consolarlo tre amici, Elifaz,
Bildad e Zofar, che cercano di spiegargli il motivo della sua sofferenza: "Se tu soffri
essi dicono in simtesi - perch sicuramente hai peccato"; gli offrono la visione ebraica
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del senso della sofferenza, legata alla legge della retribuzione, secondo la quale Dio
premia i buoni e castiga i cattivi. Per la legge di questo determinismo della retribuzione,
che non sa ancora concepire il senso di una sofferenza innocente, se Giobbe soffre
vuol dire che la sua sofferenza segno che in qualche modo ha peccato. Nel Libro
interviene un quarto amico, Eliu, che cerca in qualche modo di difendere Dio dalle
proteste di Giobbe, ma allo stesso tempo di consolare Giobbe. Ma Giobbe, anche di
fronte ai discorsi teologicamente pi articolati di Eliu, continua a proclamarsi innocente,
e comunque a ritenere che le sofferenze inflittegli non sono commisurate alla gravit
delle sue colpe, e per questo seguita a discutere con Dio. E interessante notare a
questo proposito che S. Tommaso, nel suo Commento a Giobbe, si domanda: E lecito
per luomo Giobbe discutere con Dio?; e risponde: S, perch Giobbe ricerca la verit,
e Dio, che la Verit, ama colui che ricerca la verit; per questo, possiamo aggiungere,
alla fine del Libro Dio si rivolger agli amici di Giobbe dicendo: Non avete detto di me
la verit, come il mio amico Giobbe, e restituir a Giobbe sette volte i beni posseduti
prima della prova.
Ma c nel Libro di Giobbe anche un elemento sconcertante. Il Libro inizia infatti con
un Prologo che appare molto misterioso: Dio radunato in Cielo insieme a tutti gli
Angeli e i Beati, e ad un certo punto s'introduce un personaggio strano, inquietante ,
ovvero Satana, il quale provoca Dio con una scommessa: "Dammi nelle mani Giobbe e
vedrai che non sar pi giusto, che ti maledir" (1,11). La cosa misteriosa, e anche
molto inquietante, che Dio accetta questa scommessa sulla pelle di Giobbe. Perch?
Certamente perch si fida del suo amico Giobbe; ma forse anche per non far vincere a
Satana la sua scommessa, e soprattutto per rivelare, attraverso Giobbe, il nuovo senso
che Dio stesso d alla sofferenza, e che verr rivelato pienamente solo da Ges. Il tema
della scommessa di Dio eserciter comunque un influsso importante sulla letteratura
universale, dal Faust di Marlowe e di Goethe, a Bulgakov a Bergman. Segno che le
domande di Giobbe sono universali, appartengono ad ogni cultura.
Quali influssi ci sono stati nel Libro di Giobbe7 Qui vorrei portarvi su un altro piano,
anche se apparentemente diverso; alcuni anni fa feci una ricerca sulla somiglianza che
c' tra numerosi versetti del Libro di Giobbe e i versetti che sono presenti in altri testi, in
particolare sumero-accadici o egiziani, che risalgono a 1000-1500 anni prima della
redazione del Libro di Giobbe. In particolare mi sono soffermato su un testo sumero-
accadico, detto il Ludluk Ben Nemeki , ovvero "II libro della lamentazione di un uomo
solo di fronte al suo Dio". Ci sono dei versetti che appaiono simili nei due testi. Ne cito
alcuni, che potete ritrovare anche in Giobbe: Il mio dio mi ha abbandonato ed
scomparso....il mio grido elevato ridotto al silenzio...il mio amico s fatto
straniero...invocai il dio, non diede segno di ascoltare...il mio vigore m stato tolto...
una malattia spossante s abbattuta su di me....di giorno sono sospiri, di notte
lamenti...io che incedevo come un nobile, sono mutato in schiavo (Ludluk). Analoghe
espressioni in Giobbe: La sua ira mi lacera, mi perseguita, digrigna i denti contro di
me, il mio nemico aguzza gli occhi su di me (16,9); e poi quest'altra, bellissima:"A
colui che si compiace di discutere con Lui non risponde nemmeno una volta su mille...
Grido a Te e Tu non rispondi(19,7) ; e infine: "Tutti si scostano e hanno schifo di me.
I notabili cessavano di parlare e si mettevano la mano sulla bocca..., e invece adesso
non cos" (30,1-10)
Perch ho voluto segnalare, a mo di esempio, queste particolarit? Non tanto per fare
una discussione esegetica, ma per evidenziare che nella Bibbia si raccolgono i problemi
di tutta l'umanit. La grandezza dei testi biblici, in particolare di Giobbe ma anche degli
altri, che la Bibbia non disprezza, ma raccoglie, fa proprie, tutte le domande, tutti i
perch dell'uomo, di ogni cultura, di ogni religione, di ogni civilt, per offrire la risposta
che il Dio dei popoli, come viene chiamato nel Deuteronomio, vuole dare non solo sul
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piano teorico, ma esistenziale concreto a tutti gli uomini. Va certamente precisato che la
risposta che il Libro di Giobbe d al senso della sofferenza qualitativamente e
religiosamente diversa da quella di altri testi antichi, ma essa si innesta su domande che
sono le stesse, perch sono le domande dell'uomo. Se il Libro di Giobbe pone, nei
riguardi del problema della sofferenza dell'innocente, problemi teologici e dottrinali pi
profondi e forse anche a volte pi inquietanti di quanto ne ponga il testo sumero-
accadico, questo segno di una riflessione religiosa e teologica incomparabilmente pi
matura e profonda, perch frutto anche di una ispitazione divina.
Qual l'etimologia del nome Giobbe? "Giobbe", secondo molti esegeti, significa
etimologicamente: "Dio il Padre?", oppure: "Dov' Dio?". Nomen omen: Giobbe
interpella un Dio silenzioso, un Dio che non risponde.
E allora Giobbe esclama: Parler nell'angoscia del mio spirito... nell amarezza dell
anima mia (7, 11); Ho avuto in eredit mesi di delusione, notti di angoscia sono il
mio retaggio (7, 3); e ancora: m'ha preso l'angoscia (3, 26); se si pesasse la mia
angoscia... (6, 2); mi assalgono terrori divini (6, 4). Dobbiamo qui notare che
Giobbe usa il termine angoscia, che un termine molto moderno, che non c' per
esempio nei testi accadici ma che nel Libro ritorna spesso. Questo un altro elemento
che ci mostra la grandezza e la modernit del Libro di Giobbe, perch molti filosofi
contemporanei hanno riflettuto proprio sul senso dell'angoscia; penso non solo a
Kierkegaard , che ha scritto un libro dal titolo: II concetto dell'angoscia, ma anche a
filosofi come Heidegger, che assegna alla tonalit affettiva fondamentale dellangoscia
la capacit di rivelare alluomo nella chiara note del Nulla, la luce dellEssere. La
tematica dell'angoscia una delle tematiche pi forti della filosofia
contemporanea, e la troviamo sosprendentemente proprio nel Libro di Giobbe. Anche
questo ci dice che la Parola biblica, io direi ogni parola autentica espressa dalla grande
poesia, ma in particolare la parola biblica quando si riveste di poesia, attraversa i tempi,
i luoghi, le et, le culture. una parola che non muore, una parola che noi sentiamo
riecheggiare continuamente, perch ci porta delle verit che sono imperiture, che sono le
verit dell'uomo. La parola poetante racchiude la verit, essa , come ha scritto un poeta
contemporaneo, il volo di un pensiero eterno.
Ci che caratterizza tuttavia l'angoscia di Giobbe, che la rende particolare e
religiosamente unica, che Giobbe avverte che questi dolori, questa angoscia voluta
da un "Tu" personale che gliela manda. Questa la vera angoscia di Giobbe: "Me ne
stavo tranquillo e Lui mi ha rovinato" (16,12); Giobbe se la prende con Dio: Spietato
mi trapassa il cuore, sparge a terra il mio fiele" (16,13); Giobbe si trova a lottare a tu
per tu con Dio: Mi ti sei fatto un aguzzino, col vigore della mano mi osteggi; mi scagli
in aria e mi fai precipitare (30, 21-22). Possiamo meditare qui su una dimensione
dell'esistenza religiosa autentica. Perch l'uomo religioso non luomo indifferente, a
cui infondo non gli interessa di Dio, o ha con lui soltanto un rapporto di rispetto a
distanza; ma luomo che, come Giacobbe che lotta con langelo nella notte, in un
continuo rapporto con Dio, perch vuole che Dio non sia silenzioso e assente ma
continuamente presente nella sua vita, e grida a lui quando scompare e tace. Se noi non
siamo capaci di questa lotta con Dio, anche espressa nella forma del grido di Giobbe,
forse non abbiamo mai incontrato veramente l'Altissimo.
Giobbe avverte che la sua angoscia inviata da un "Lui" che lo obbliga a guardare in
faccia al suo destino per la morte: "Il mio avversario mi aguzza contro gli occhi. Sulle
mie palpebre incombe la notte. Non mi resta che il sepolcro. I miei giorni terminano
senza speranza, mi ha chiuso la strada, sul mio sentiero spande la tenebra" (19,9).
Giobbe desidera alla fine di non essere nato: "Perch non sono morto nel seno materno?
Perch Egli ha dato la luce a un infelice? Oh, se Dio mi schiacciasse! Per me non c'
proprio aiuto e ogni salvezza mi sottratta" (3.11.16).
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Il dramma del Libro che, mentre gli amici dicono a Giobbe: "Guarda che se tu soffri
vuol dire che hai peccato", Giobbe ha la consapevolezza di non aver meritato con la sua
vita, per quanto fossero stati grandi i suoi peccati, un dolore cos grande e per questo si
proclama innocente. Il Dio degli amici di Giobbe il supremo Controllore del
funzionamento delle leggi morali e naturali; quando lo vedono soffrire, lo riterranno
abbandonato da Dio ed essi stessi lo abbandoneranno, cos come abbiamo visto nel testo
accadico: "Contro di me spalancano le fauci, si raccolgono contro di me" (16,10); per
questo Giobbe li sente estranei e si sente disprezzato: "Adesso si ridono di me... di me
hanno schifo e mi stanno da lungi e non mi risparmiano gli sputi" (30,1-10).
Il finale del Libro di Giobbe veramente straordinario, perch capovolge e rivoluziona
tutto il significato del testo. Alla fine del Libro di Giobbe avviene qualcosa di
incredibile, perch Dio stesso si manifesta a Giobbe e in una grandiosa epifania in cui
gli mostra le meraviglie della creazione, di fronte alla quale Giobbe ammutolisce
esclamando: Mi metto la mano sulla bocca(40,4), Dio si rivolge agli amici di Giobbe
dicendo: "Non avete detto di me la verit come il mio amico Giobbe" (42,7) . Qui
risiede il nuovo contenuto teologico del Libro di Giobbe: il sofferente Giobbe, di fronte
al manifestarsi di Dio, comprender il significato della sua sofferenza e dir: "Io ti
conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono non pi da straniero" (42,4).
Il passaggio attraverso la notte dell'angoscia fa risorgere Giobbe ad una vita spirituale
nuova, ad una concezione religiosa nuova, ad un rapporto con Dio non pi da straniero,
ma da amico. Alla fine il Libro di Giobbe diventa un libro di trionfo, del trionfo della
vita che Dio dona a chi, pur soffrendo e pur discutendo con Dio come Giobbe, non
cessa di avere fiducia in lui. Non si pu non ricordare qui laltissima preghiera trovata
nelle tasche di un ebreo ucciso nel ghetto di Varsavia: Dio ha fatto di tutto per spezzare
la mia fede in lui...Ho seguito Dio anche quando mi ha respinto...Lho amato e lo amo
anche se mi ha torturato fino alla morte, mi ha ridotto alla vergogna e alla
derisione...Ma io creder sempre in te e muoio come ho vissuto, in una fede incrollabile
in te. Giobbe alla fine trionfa proprio attraverso lo scandalo della sofferenza, e Dio
moltiplicher i beni di Giobbe, restituendogli sette volte di pi di quello che possedeva
prima, in figli e figlie, campi, buoi e greggi, che erano anticamente il simbolo della
ricchezza vera di un uomo o di un popolo. Il Libro di Giobbe sembra profetizzare qui,
come indicano alcuni esegeti, il mistero della resurrezione.
E tuttavia ci rimane ancora un interrogativo: che significato ha questo silenzio di Dio
racchiuso nel Libro di Giobbe? Perch Dio tace? Quali sono i significati del silenzio di
Dio?
Qui vorrei, attraverso alcuni autori ebraici e cristiani, riflettere con voi sui vari
significati che sono stati attribuiti al silenzio di Dio.
Il primo significato che ci viene in mente, se abbiamo letto i testi della mistica cristiana,
fa riferimento alla "notte oscura" di San Giovanni della Croce. Nelle sue opere, il
grande mistico cita molto frequentemente i passi del Libro di Giobbe, per mostrare
come la salita al Monte Carmelo, ovvero lunione mistica dellanima con Dio, debba
necessariamente passare attraverso la notte oscura della purificazione, in cui lanima,
di fronte allo splendore di Dio che la sta unendo misticamente a s, non sente pi la
presenza di Dio, ma avverte tutta la propria miseria, e di fronte alla pienezza dellessere
e della luce di Dio, avverte di essere quasi un nulla e nelloscurit. Scrive S. Giovani
della Croce nella Notte oscura: Quando la contemplazione purificativa opprime
lanima, essa sente molto vivamente lombra e i gemiti della morte e i dolori
dellinferno, che consistono nel sentirsi senza Dio, castigata, rigettata e indegna di Lui e
nel credere che Egli sia sdegnato contro di Lei...sente poi il medesimo abbandono e
disprezzo da parte di tutte le creature, specialmente da parte degli amici (6,2.3); e
ancora: In questa fucina lanima si purifica come loro nel crogiuolo, perci sente
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liquefarsi grandemente nella sua stessa sostanza, consumandosi quasi nellestrema
povert....con tali pene Dio umilia grandemente lanima per innalzarla poi molto (2,6).
Linterpretazione che la grande mistica cristiana ha dato al silenzio di Dio sperimentato
da Giobbe quello della notte oscura, che non segno dellassenza di Dio, ma di una
sua presenza pi intensa, di un amore esclusivo che vuole elevare unanima eletta ad
unaltissima unione con Lui. E quello che hanno sperimentato S. Teresina del Bambin
Ges e la beata Madre Teresa di Calcutta.
Voglio tuttavia offrirvi anche altre interpretazioni del silenzio di Dio che completano
linsegnamento di Giovanni della Croce. E traggo questi significati da un testo che
stato scritto come documentazione di un colloquio che avvenuto nel 1992 presso la
Cattedra dei non-credenti , diretta allora a Milano dal Cardinale Martini, e che stato
pubblicato con il titolo "Chi come te tra i muti? Chi come te tra i silenziosi? L'uomo
di fronte al silenzio di Dio". Il Card. Martini fece riflettere sul tema del silenzio di Dio
diversi studiosi, ebraici e cristiani, che con grande sapienza hanno articolato tutti i
possibili significati del silenzio di Dio che si possono trarre dalla Scrittura. Un
rabbino , ad esempio, traduce il versetto 15.11 di Esodo "Chi come te tra gli di?"
(Elim) con "Chi come t tra i muti?" (Illemim). Illem vuoi dire muto, El vuoi dire
divinit. caratteristica del modo di fare esegesi del midrash ebraico scavare nella
parola, in tutti i significati anche pi particolari della parola. Allora, il: "Chi come te
tra gli di?" diventa: "Chi come te tra i muti?". Questa interpretazione ci offre un
primo significato del silenzio di Dio. La potenza della parola di Dio viene accostata al
silenzio, alla presenza di Dio nel silenzio, come nel Libro dei Re in cui scritto: "Non
nel fuoco il Signore; e, dopo il fuoco, una sottile voce di silenzio (I Re 19,11-13). Cos
commenta Benedetto Carucci Viterbi, rabbino della comunit ebraica romana: La voce
che non si interrotta una tenue voce di silenzio che prosegue allinfinito. E non a
caso il luogo deputato, sia per Mos che per Elia, il deserto: midbar, il luogo del
silenzio che contiene dentro di s la Parola, davar, e le Dieci parole, aseret ha-
dibberot. Ecco allora un primo significato del silenzio di Dio, il silenzio come una
condizione di nascondimento in cui solo possibile incontrare Dio. La voce
commenta ancora il rabbino- una sottile voce di silenzi e Dio nascosto; quale che
sia il motivo, nascosto e fa parte della nostra identit lesperienza del nascondimento
di Dio. Il Talmud afferma che chiunque non nella condizione del nascondimento di
Dio, chiunque non testimone del silenzio non fa parte del popolo di Israele.
A questo si congiunge un altro significato del silenzio di Dio: quello di cercare la
flebile voce del silenzio che rimbomba. Dove rimbomba? Nella Torah, nella Scrittura.
l il luogo della voce silenziosa di Dio. Sono gli uomini di ogni generazione che,
studiandola, cercando di comprenderne il senso, i sensi, con le loro parole svelano il
significato di quella voce. La voce di Dio che si nasconde nel silenzio, la Parola di Dio
ha bisogno della voce degli uomini per diventare vita. C' una bellissima frase del
commentario Super Job di San Gregorio Magno che dice cos:: Divina eloquia cum
legente crescunt - Le divine parole crescono (e diventano vita) con colui che le legge (le
ascolta, le assimila, le medita, le vive). Scrive ancora un ebreo: "I maestri d'Israele,
nelle pi tremende sofferenze, come sotto l'occupazione romana o nei campi di
sterminio, hanno sempre continuato a studiare la Parola di Dio, nella convinzione che
questo era l'unico modo, delle loro generazioni, di ascoltare la voce di Dio". Ecco un
modo per rompere il silenzio di Dio: ascoltare la voce e la parola della Scrittura, questa
splendida voce nel silenzio.
Anche per noi cristiani vero che se non siamo capaci di ascoltare la parola di Dio nel
silenzio forse non riusciamo mai ad ascoltarla veramente. Il silenzio la condizione
religiosa e spirituale che ci permette di incontrare autenticamente la sottile voce del
silenzio, la sottile voce della parola di Dio che ci parla. Dio non grida nelle piazze, ci
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parla nel silenzio. questo il senso della preghiera, il senso della meditazione, il senso
del raccoglimento, dell'adorazione. Possiamo affermare che uno dei contributi pi
preziosi del pensiero ebraico del Novecento- da Rosenzweig a Lvinas, da Jabes a
Neher, da Buber a Wiesel- preziosi anche per il pensiero cristiano che se ne pone in
continuit, e indispensabili ad unumanit che sembra sempre pi allontanarsi dalla
condizione di poter ascoltare la Parola nel silenzio, la sua ininterrotta meditazione
sulla Parola che risuona nel silenzio.
Ma poi c' un secondo significato interessante che lesegesi ebraica ha tratto da quel
termine illemim, cio muto, silenzioso; e cio che il termine Illein, ci avverte il rabbino,
pu essere letto anche alim: forte, resistente, prepotente. Dio allora diventa Colui che
si trattiene, Colui che fa violenza a Se stesso per non reagire, Colui che non si affretta a
punire. In questo senso viene spiegato lo stesso verso dell' Esodo in un altro passo
rabbinico, in cui si mette in risalto la non reazione di Dio di fronte all'oltraggio, alla
bestemmia di Tito contro di Lui, quando entr nel Santo dei Santi con una prostituta.
Abb Hanan dice: Chi come Te Dio forte (Sal. 89,9), chi come Te forte e duro,
poich tu ascolti la bestemmia e linsulto di quel malvagio e stai zitto. Ma soprattutto, il
midrash del silenzio di Dio, che stato menzionato allinizio, viene oggi interpretato
come: Chi come te tra i silenziosi che vedi l'offesa e la sofferenza del popolo e taci
non facendo niente. Questa dunque la prima possibile spiegazione del testo
midrashico, la prima dimensione del silenzio di Dio: Egli silenzioso di fronte alla
sofferenza dell'uomo, non fa nulla per salvarlo o per alleviarne il male.
C' un bellissimo libro di Andre Neher, L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al
silenzio di Auschwitz, in cui l'autore dice che Dio si trattenuto dall'intervenire a salvare
il suo popolo nella Shoah, nel grande olocausto della II Guerra Mondiale. Si
trattenuto... E allora una meditazione sofferta, quella sulla Parola, nel pensiero ebraico
contemporaneo, temerariamente resistente anche nelloscurit di un silenzio che sembra
minaccioso e ostile. Meditazione che non si vuole interrompere nemmeno quando il
silenzio di Dio ha coperto lincomprensibile e il non dicibile, la non parola della
shoah, che grida a Dio il suo perch come il moderno Giobbe. E il silenzioso
perch di Giobbe, che si appella a Dio nonostante il suo silenzio e che per questo,
come scrive Elena Loewenthal, pi sapiente, pi credente dei suoi amici.
C' un autore ebreo del nostro tempo, un grande filosofo che ho avuto la fortuna di
conoscere personalmente, ovvero Emmanuel Lvinas, il quale ha scritto un libro, a
proposito di Giobbe, intitolato: Transcendence et mal, La trascendenza e il male. Per
Lvinas il grido di Giobbe di fronte allincomprensibile ferita di Dio che tace una
lamentazione che anche preghiera. In ogni caso, scrive Lvinas, interpellazione di
un Tu e percezione del Bene dietro il Male. Prima intenzionalit della Trascendenza:
qualcuno mi cerca. Un Dio che fa male, ma un Dio come un Tu. E, attraverso il male in
me, il mio risveglio a me stesso. Un eccesso di male quindi che pone Giobbe di fronte
a che cosa? Di fronte alla scoperta del suo autentico essere di fronte a Dio, un risveglio
della propria coscienza religiosa che non pone problemi teorici, ma solo problemi
esistenziali a cui io non possiamo sfuggire, che non possiamo eludere. Sottile
commentatore talmudico, Lvinas ha costantemente presente la percezione di una
Trascendenza che si manifesta come il Tu assoluto oltre lesperienza del male, e che lo
stesso eccesso del male, come lo chiama Philippe Nemo nel suo libro Giobbe e
leccesso del male, anche un appel, un richiamo. Dal silenzio allinvocazione,
potrebbe essere il commento alle sue parole. A differenza del pensiero erede del logos
greco, che il pensiero che si interroga: perch c lessere e no piuttosto il nulla?
Levinas sembra dirci che inizia con Giobbe il pensiero dell'esistenza, che pone un'altra
domanda pi profonda: "perch c' il male e non piuttosto il bene?", una domanda che ci
coinvolge anche esistenzialmente.
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Ma ci sono altre riflessioni intorno al significato del silenzio di Dio a partire
dallesperienza di Giobbe. Possiamo introdurle con un personaggio che nel Libro di
Giobbe non viene quasi mai menzionato, che apparentemente secondario e invece un
personaggio estremamente interessante. Si tratta della moglie di Giobbe, la quale, nel
secondo capitolo, quando vede Giobbe che si gratta la lebbra con un coccio e sta seduto
sulla cenere, dice: "Rimani ancora saldo nella tua integrit, nella tua fede in Dio?
Maledici Dio e muori!" (2,9). E Giobbe le risponde: "Tu parli come parlerebbe una
stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perch non dovremmo accettare il male?" (2,10). In
modo profondo e profetico lautore del Libro di Giobbe sa che, di fronte al dolore, la
scelta di maledire Dio fatta dalla moglie di Giobbe, pi frequente di quanto sembri. Di
fronte alla sofferenza estrema si pu essere tentati di rifiutare Dio, e scegliere lateismo .
Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, ha saputo esprimere come pochi la tentazione di
ateismo che prende anche luomo credente di fronte alla sofferenza estrema. Rinchiuso
nei campi di Auschwitz, Wiesel ci ha asciato, con il libretto La notte, una straordinaria
testimonianza di ci che pu provare luomo quando sottoposto, come Giobbe, ad una
sofferenza estrema. Il libro racconta che le S.S. , dopo aver trovato in uno dei blocchi
di Auschwitz delle armi, decisero di fare la decimazione: presero un detenuto ogni dieci
per condurlo allimpiccagione. Ascoltiamo Wiesel: in quell alba livida in cui alcuni
venivano portati al patibolo, la disperazione attanaglia le loro anime, facendole
prorompere in un grido di rivolta, in un perch che non ha pi speranza di risposta di
fronte allimpenetrabile e duro silenzio di Dio: Qualcuno si mise a recitare il
Kaddish, la preghiera dei morti, Yitgaddl veyitaddsh shem rabb....Che il Suo
Nome sia ringraziato e santificato....- mormorava mio padre. Per la prima volta sentii la
rivolta crescere in me. Perch dovevo santificare il Suo Nome? L Eterno, il Signore
dell Universo, lEterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo. Ecco, la
tentazione dell'ateismo. Di fronte all'estrema sofferenza, l'uomo pu essere tentato di
rifiuto, di rivolta. Questa tentazione di rifiuto di Dio a motivo del suo silenzio di fronte
alla sofferenza stato magistralmente espresso da grandi scrittori contemporanei.
Scegliamo per tutti Dostoevskij, scrittore cristiano, che mette i bocca ad Ivan
Karamazov, nellomonimo romanzo, di fronte alla morte di un bambino: Che ne
faremo allora dei bambini? (...) se tutti devono soffrire per comprare con le loro
sofferenze unarmonia che duri eternamente, cosa centrano per i bambini? (...) Finch
sono in tempo... mi rifiuto assolutamente di accettare questa armonia eterna. Essa non
vale le lacrime nemmeno di quell unica creaturina che si batteva il petto col piccolo
pugno e pregava il buon Dio nello stanzino puzzolente. Non le vale, perch quelle
lacrime sono rimaste senza riscatto (...) Io non voglio nessuna armonia, per amore dell
umanit non la voglio. (...) Non che io non accetti Dio, Alioscia; soltanto gli
restituisco rispettosamente il biglietto. E poi un autore pi recente, Albert Camus: nel
famoso romanzo La peste il Dottor Rieux, che vive in un paese felice dell'Algeria
(l'Algeria era allora colonia francese), invece di tornare a Parigi dalla moglie , una volta
scoppiata la peste a causa dei topi portati dalle navi, esclama: " meglio restare qui a
combattere contro la malattia e il male, a favore dell'uomo, che guardare in alto, nel
cielo, dove Lui tace. E al Padre Paneloux, un gesuita che cerca di spiegargli, come
fanno gli amici di Giobbe, quali sono le spiegazioni teologiche della sofferenza, il
Dottor Rieux risponde: "No, Padre, io mi faccio un'altra idea dell'amore e mi rifiuter
fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati". Ebbene, per
quanto ci possa sembrare scandaloso, anche su questo rifiuto c una profonda
meditazione da fare. Come scrive il grande vescovo Fulton Sheen: Lateismo, col suo
odio contro Dio, pu essere pi vicino alla fede che non lindifferenza del mondo
occidentale, che non n caldo n freddo e che quindi verr vomitato dalla bocca di
Dio. Qualcosa di analogo scrive lebrea Elena Loewental a proposito del rapporto tra
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silenzio di Dio e non credenza: Chi come te fra i muti?, una domanda che il
midrash pone a Dio. In quell'insormontabile distanza che separa questo Dio muto dal
non credente, c' una metafora che quasi un paradosso. Questo silenzio divino
inesplicabile, quello umano la facolt di chi possiede un lessico, ma non una
grammatica da applicare, di chi conosce ma non sa parlare, di chi legge ma non pu
pronunciare, non pu far altro che ascoltare. Nella distanza di un abisso, entrambi
tacciono. Per cogliere le note estreme di questo silenzio in cui sembrano insieme
distanti e vicini lateo e il non credente, necessaria una grammatica della fede.
Come quella che cerca di formulare il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del
Pontificio Consiglio della cultura, e fondatore del Cortile dei gentili, che prende il
nome dal Tempio di Gerusalemme in cui c'era un cortile esterno dove gli ebrei
incontravano i pagani, che non potevano entrare nel Tempio, facendo conoscere loro la
Torah; l, nel cortile dei gentili, che ha predicato Ges. Ravasi intende il nuovo
cortile dei gentili come luogo dincontro, ma soprattutto di ascolto, da parte del
credente, del grido di dolore, anche se espresso nella forma dell'imprecazione, della
negazione, del dubbio, di tanti uomini che apparentemente sono non-credenti, ma che
in realt, se li si sa ascoltare, stanno cercando, come Giobbe, un pi autentico rapporto
con Dio. Vorrei leggervi, per sottolineare la grammatica della fede del Cardinale
Ravasi che sa leggere oltre il silenzio della non credenza, l'intervista concessa alcuni
giorni fa dal Cardinale in partenza per la Romania: "Ho intenzione, a Bucarest,
d'intervenire in questi grandi eventi su Cioran e su lonesco, figure ideali di un
agnosticismo segnato profondamente dalla domanda". Ecco, ascoltare la domanda
inespressa; cio non mettersi subito a condannare, ma riuscire a capire, a interpretare, ad
ascoltare la domanda; e citando una frase di Cioran: "Mi sono sempre aggirato indomo a
Dio come un delatore; incapace d'invocarLo L'ho spiato", Ravasi precisa: "Vorrei
presentare la figura di colui che si aggira indomo al cortile dei credenti e ne cerca quasi
il centro. Anche se in un altro suo testo giunge al paradosso, Cioran, secondo cui il
nome di Dio il Nulla, cio Tutto. Lui, per tutta la vita quell'opera di spionaggio l'ha
condotta". E poi di lonesco dice: Lo presenterei cominciando da una dichiarazione che
ha fatto in un'intervista, questa: "Ogni volta che il telefono suona mi precipito nella
speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona, o almeno uno dei suoi
angeli di segreteria." In lui c'era continuamente la speranza di una epifania del divino.
Poco prima della morte, lonesco, alla fine del suo diario, nell'ultima riga, scrive una
frase folgorante, che la risposta a quell'attesa : "Pregare non so chi, spero Ges
Cristo".
Esiste ancora un altro significato del silenzio di Dio, che vorrei farvi conoscere.
quello della emunah, la fede. Ce ne parla moltissimo un altro autore ebraico, Martin
Buber. La tesi del libro di Buber intitolato Leclissi di Dio, che noi non riusciamo pi
a vedere Dio quando non Lo incontriamo come un Tu, non abbiamo quindi un rapporto
personale con Lui, ma lo vediamo come un "Esso", una realt neutra, distante e
soprattutto indifferente; allora Dio si eclissa nella nostra vita, sembra nascondersi e
tacere. Per trovarLo, occorre riuscire a penetrare le nubi, attraversare il suo silenzio per
incontrarLo nuovamente come un Tu. Buber il principale filosofo del "Tu", del
dialogo; ma Buber ci parla anche della emunah. Emunah in ebraico significa fede, l'aver
fiducia in Qualcuno nonostante tutto, fiducia nella Sua presenza anche quando sembra
assente. Scrive Buber: "Giobbe lotta contro la lontananza di Dio, contro quel Dio che
infuria e tace, infuria e si nasconde, cio contro quel Dio che si mutato per lui in una
potenza inquietante. La fede di Giobbe, che attraversa la sofferenza, vive nella emunah,
nel paradosso di un Dio presente e che tuttavia si nasconde e inquieta " . Emunah non
solo la fede intesa genericamente come credenza, ma la fiducia in Qualcuno come una
roccia. Buber paragona allora la fede di Giobbe alla mano di Mos che rimane emunah,
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cio saldezza, fedelt, finch non viene riportata la vittoria al tramonto del sole. Vi
ricordate lepisodio biblico di Mos, che aiutato da Aronne, si fa tenere le mani in alto
nella preghiera perch fiducioso che se continua a pregare avr la vittoria? Ecco, la
preghiera di Mos, come quella di Giobbe, ottiene la vittoria, passa l'impenetrabile
silenzio di Dio; questo un altro significato del silenzio di Dio, un'altra sfaccettatura di
questo concetto cos ampio, cos ricco; la fede, la emunah, attesa, preghiera,
fiducia nonostante tutto.
Ma c un ulteriore significato del silenzio di Dio, che ci avvicina alla prospettiva
cristiana. E paradossalmente proprio ancora Elie Wiesel che lo introduce,
raccontandoci lesperienza dellimpiccagione di fronte a migliaia di spettatori di tre
prigionieri, tra cui un bambino, che Wiesel chiama langelo dagli occhi tristi.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto.
All'orizzonte il sole tramontava. "Scopritevi!" url il capo del campo. La sua voce era
rauca, quanto a noi, noi piangevamo. "Copritevi!". Poi cominci la sfilata. I due adulti
non vivevano pi. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era
immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora... Pi di mezz'ora rest cos, a
lottare tra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo
bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli
occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: "Dov' dunque
Dio? Ed io sentivo in me una voce che gli rispondeva: "Dov'? Eccolo: appeso l, a
quella forca".
S, questa testimonianza fa pensare alla croce. Come ha scritto Enzo Bianchi, fa
pensare al Nazareno che, dopo una agonia in cui sentiva angoscia e cadeva sangue
dalla sua faccia, mor in croce con un grande grido inarticolato dopo aver esclamato a
gran voce: Dio mio, Dio mio perch mi hai abbandonato? El El, lem sabactni? (Mt.
27, 46 ; Mc 15, 37). Ges - scrive Bianchi- abbandonato da Dio, maledetto da Dio e
dagli uomini, appeso alla croce in una nudit che testimonia la sua qualit di
anthema, fuori dalla citt santa, appeso a un palo, in una situazione di antisacrificio
per eccellenza, avvolto nellignominia e muore choris theou (Eb.2,9).... Come
Giobbe, il Nazareno fuori , fuori dalla citt, fuori dal tempio, dall altra parte
della comune convivenza umana. Io credo che quell'altra parte- scrive Elena
Loewenthal, riferendosi a Giobbe- sia la misura di un dolore che affonda un abisso tra
chi soffre e tutto il resto, quando tale dolore il dolore del perch?. Il letto di un
fiume, un passo d'uomo, un deserto che precipita dentro se stesso, un buco nero, un
dolce declivio, nulla: cos' mai questo abisso di dolore che separa il di qua dal di l,
nella solitudine che esso porta con s? E un abisso di parole o un abisso di silenzio?. Il
teologo cristiano legge il perch del Nazareno alla luce del perch di Giobbe, e del
perch del salmista: Da me non stare lontano, perch langoscia vicina e nessuno
mi aiuta (Sal. 21, 12). E il perch del silenzio di Dio: Dio mio, invoco di giorno e
non rispondi, di notte e non trovo riposo (Sal. 21, 3). E il perch che grida
dallabisso di chi si sente quasi maledetto da Dio: Ma io sono un verme, non uomo,
infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo (Sal. 21,7). Il fuori, il dallaltra parte,
l esilio della parola diviene qui rappresentanza non di un popolo, ma dellumanit
intera, o meglio di un popolo che in uno dei suoi rappresenta lintera umanit di fronte a
Dio.

Potremmo allora concludere con alcune riflessioni

Il silenzio di Dio diviene qui il silenzio dell abbandono che Cristo stesso ha provato
sulla croce, culmine di tutta la sua sofferenza innocente. Al perch di Giobbe, il Dio
crocifisso sembra rispondere non con una tesi teologica, ma con un altro perch,
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quello del suo abbandono sulla croce. Grande il mistero di questo perch, in cui
racchiuso il perch di ogni sofferenza umana, apparentemente senza risposta da parte
di Dio, e su cui si confronta la pi recente riflessione teologica che giunge a parlare del
dolore di Dio. Come scrive S. Bernardo: Se Dio impassibile, non per privo di
compassione, poich niente gli pi inerente dell aver piet e del perdonare. Dunque
bisogna che coloro che sono uniti al Dio della misericordia siano misericordiosi, anche
se sono al di fuori di qualsiasi miseria: liberi dalla sofferenza, essi compatiscono
(Super Canticum, serm. 26, N.5).
In quel perch gridato da Cristo sulla croce, scrive il teologo J. Moltmann, Dio si
rende vicino nello stato di abbandono sofferto da ciascun uomo. Non esiste isolamento e
reiezione che egli non abbia assunto. Anche l uomo abbandonato da Dio e reietto
pu accettarsi l dove conosce il Dio crocifisso, che in lui gi vive e che lo ha
accettato; nellabbandono Dio stesso si umilia e prende su di s la morte del senza
Dio e dell abbandonato da Dio, cos che tutti gli empi e gli abbandonati possono ora
sperimentare la comunione con lui; perch se Dio si assunto la morte, ha pure
assunto l intera vita e lesistenza concreta con l intera e concreta sua morte. Senza
limiti e condizioni, l uomo accolto nella vita e nella sofferenza, nella morte e nella
risurrezione di Dio e prende vitalmente parte alla pienezza di Dio (J. Moltmann, Il Dio
crocifisso).
Le dimensioni della sofferenza dell uomo si illuminano, ed aprono il silenzio di Dio
ad una parola di salvezza, introducendoci alle fonti stesse del mistero cristiano: il
mistero di un Dio che risponde alla sofferenza delluomo prendendo su di s fino in
fondo quella sofferenza, e che se talvolta sembra restare silenzioso e non liberarci dalla
sofferenza perch vuol donarci qualcosa di pi della sofferenza, che la salvezza che
passa attraverso la sofferenza.
Ecco allora la novit della risposta cristiana: se Dio stesso viene affermato con fede
attraverso la sofferenza delluomo, vuol dire allora che il silenzio di Dio di fronte alla
sofferenza rotto dalla parola di Dio che parla attraverso la sofferenza degli uomini, dei
poveri, dei popoli votati alla miseria, degli esclusi, dei senza patria, dei soli, dei
disperati, degli abbandonati. Ascoltare il silenzio di Dio significa allora ascoltare il
suo grido di abbandono nella sofferenza del mondo. Come ha scritto Giovanni Paolo II
in Varcare la soglia della speranza, la risposta che Dio d alla sofferenza dell uomo
non quella teorica e oggettivante del mistero di Dio, ma quella di una verit che si fa
persona, e mostra, nella realt scandalosa di un Dio che soffre, la solidariet di Dio
nella sofferenza di ogni uomo. Il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza dell uomo
non il silenzio della stigh gnostica, incomprensibile e nascosto, ma la presenza di
un amore compassionevole che si fa sofferenza per condividere la nostra sofferenza.
Ascoltare il silenzio di Dio significa allora ascoltare il suo grido di abbandono nella
sofferenza del mondo. Perch se Dio stesso assume la sofferenza delluomo, vuol dire
allora che il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza rotto dalla parola di Dio che parla
attraverso la sofferenza degli uomini, dei poveri, dei popoli votati alla miseria, degli
esclusi, dei senza patria, dei soli, dei disperati, degli abbandonati. Ascoltare il silenzio
di Dio significa allora ascoltare il suo grido di abbandono nella sofferenza del mondo.
Come ha scritto Pascal: Cristo in agonia fino alla fine del mondo.

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