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fortuna orgoglio e morte

Uscii a fare due passi. Albeggiava. Laria di quella frescura estiva che provoca un brivido di timore e piacere sulla nuca. Fa stranamente luce presto in questa stagione. Un flash che immortala lo splendore dogni quotidiano arricchendo le figure che lo assembleranno. Alcuni secondi, ed allazzurro del cielo mabbaglio anchio. Un passo, laltro e laltro ancora fino a dieci, cento, altri cento. Di quelle sequenze distinguo il suono. Cadenze uguali e diverse. Le strade sono libere. Passano i camion dellimmondizia a questora. Prelevano i contenitori con un artiglio ad agganci laterali. Scuotere per svuotare dai rifiuti ripristinando la funzione. Una pulizia di maniera da farsi ogni giorno, assolutamente necessaria per non ritrovarsi talmente sporchi da fare schifo, in uno di quei giorni. Pensavo ai miei, di bidoni. Ricolmi di sacchi di rabbia, ipocrisia, menzogna, indolenza, cinismo, e stoltezza buttata in ognuno. Che bella tinta hanno le facciate dei palazzi del centro storico. E il bianco delle case minime di una volta, sbirciando dalle finestrelle, si ravviva unendosi ai resti delle coperture a cannizzu. Paiono rivivere tornando indietro nel tempo. Ritoccandolo. Anche lei, la pietra al naturale, si imbelletta a festa. Talvolta abbasso la testa sul nero pece della chianca lavica, dorso di vecchio asino che non raglia pi da decenni. Assuefatto al servizio, non sa pi arrabbiarsi, preferisce zittire e riposare dominato dal padrone che lo aggioga e costringe il capo a star basso. Mi sento un filo di cotone a doppia mandata che si infila nellimbocco dei vicoli trasformandoli in crune daghi. Appena il tempo di passarci dentro e sei gi fuori ad esplorare un nuovo squarcio di paese che si apre nuovo per te. E successo a me. Duecento passi appena per esplorare centottanta gradi di visuale completa come fossi io, il centro di un goniometro infilzato dalla punta di un compasso perfetto che gira guidato da dita che lo accarezzano e inchiodano al suo

posto lasciando quella libert. I miei occhi mutano in sguardo da cannocchiale e puntano e passano attraverso lo sventolio della bandiera tricolore, il disegno nel pavimento con le colonne romane e la testa del cervo, le quinte che inquadrano la piazza, i sedili di pietra a sfilza, una fontana di marmo con lacqua che scorre sciogliendo nomi e luoghi scolpitigli addosso. Santi da calendario, in quei fiumi, vedo a migliaia. Tronchi mozzati portati via dalla corrente. Alberi. Tanti. A sembianza di linee di soldati schierati a guardia dalluna e laltra parte della piazza, adombrano le panchine. Quindici, diciotto. Una grande chiesa che accoglie. Dun tratto la volont mi smuove, arrestando il senno e la sua porzione di fantasia che, liberata, stava imponendosi. I passi rallentano. Sornioni, decelerano come avessero paura di mostrare qualcosa o forse, timore di gustare quel qualcosa. O semplicemente per non osar disturbar gli uccelli che hanno il mare per dimora. L immenso spiazzo durato mezzora. Ora sono al fermoventre che blocca incollando le cosce al carparo grezzo, ed il cervello, di nuovo assennato, riprende la corsa. Maffaccio allinimitabile terrazzo vista mare, messo l per osservare la meraviglia di un seno penzolante a ponente adornato di schifarieddi e paranzi sistemati in fila nelle due sponde. Righi di quaderni elementari vuoti. Guardando quel panorama mozzafiato, imitando le teorie dei gabbiani in volo, liberandomi, mi incanto. Rivedo ogni amante la citt con le braccia poggiate sul muro che para il petto a sventagliare ricordi lanciati come ami da una canna o seduto da un fianco sul marmo verdone, ove ancora, dando vita alle venature, infinite giovani coppie si innamorano ignare. Inevitabili volatori, quegli aerei bianchi ultraleggeri mollano gli ormeggi, lasciandosi andare dopo la bria imposta da esili ginocchia che slanciano a catapulta. Trainano un cavallo senza occhi che sente nella memoria ridondare alcune parole di libri di glorioso passato locale: fortuna, orgoglio,

morte. Sorti differenti e scompigliate che savvicendano implacabili spettando a singhiozzo alle citt di mare, la cui storia specchia fedele la salute del porto, che intristito, fissando la testa in uno sfocato villaggio da pescatori, sto ammirando. Quel cavallo grigio e chiaro, utilizzando la fantasia degli uccelli di cui si compone, balza indietro nel tempo, iniziando la corsa verso una strana linea dombra su cui, in bilico, ci si barcamena vivendo. E vivo mi sento, vivace e contento, ritrovato al tempo in cui, per le Indie, le genti facevano valige qui, e per trentanni almeno, la ventura di un luogo straordinario fu felicemente segnata da traffici sani e barche di persone che andavano e venivano da parti sperdute di mondo, iniettando culture nuove e ricchezze dogni tipo e dogni dove. Termine la lunga galoppata di fortuna, io, animale, divenni bestia che violenta agnelli indifesi e paurosi inchiodandoli al muro con le spalle e puntandogli contro ferraglia assassina. Un tempo amaro e sanguinoso in cui l orgoglio esasperava allimpazzire e spietatamente e stupidamente riusciva a prevalere sulla ragione contro luguaglianza, imponendo ferocemente, a fratelli, la superiorit di una razza inferiore perch capace soltanto di condurre allodio e allo sterminio, azzerando la bellezza della variet delle pelli. Scrollate le aquile aggrappatesi a forza sulla schiena, scappando via da quel putiferio insensato e da quella marmaglia criminale organizzata, sguinzagliai uno stallone che galoppa fascinosi tragitti di verde pianura e cielo sereno. Un percorso conducente verso tetri orizzonti di scenari industriali disgustosi e selvaggi oltre natura, conseguenti una corsa sconsiderata e frenetica. Quella vista, impregna di dolore. Un prodigio della creazione obbligato ad essere inguardabile come lagonia alle soglie della morte, a cui, quella malinconica cartolina col timone di pietra innalzato al cielo, ricollego. Niente e nessuno morir mai completamente. Ed ogni pancia di donna conterr comunque un neonato puledro che vorr alzarsi in piedi e poi

trottare a briglia sciolta e poi correre animosamente verso una nuova realt senza memoria. Verso un futuro da raggiungere con la traiettoria di chi ha imparato a volare, e scorda tutto, per ricominciare. Gi, riprendere da capo come si principia una bella giornata. La mia. Una delle tante inevitabilmente poche, alla soglia della linea dombra. Mi volto indietro, ed ogni cosa cambiata. Non conto pi i passi, tra la gente. Nel rumore il silenzio non si sente. Non mi tocco pi. S, sono cambiato anchio come il colore del cielo, come il levare del vento, come la luce del sole, da cui se non mi lascio illuminare, se ne va.

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