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Racconto presentato al concorso 2017-2018 a cura della Società Dante Alighieri - Comitato di Brindisi, pubblicato sulla raccolta intitolara "però, che storie" edizione 2018 de Il Raggio Verde
Racconto presentato al concorso 2017-2018 a cura della Società Dante Alighieri - Comitato di Brindisi, pubblicato sulla raccolta intitolara "però, che storie" edizione 2018 de Il Raggio Verde
Racconto presentato al concorso 2017-2018 a cura della Società Dante Alighieri - Comitato di Brindisi, pubblicato sulla raccolta intitolara "però, che storie" edizione 2018 de Il Raggio Verde
Ore 13:00, si apre il cancello, ingresso consentito.
Anche quel venerdì superai la guardiola e la sbarra d’acciaio per l’accesso al viale. Percorsi il lungo tratto di strisce pedonali che fiancheggia la pista rotonda per gli elicotteri, intrapresi per l’ascensore più prossimo, il solito, chiusi gli occhi prima di guardare la pulsantiera, e pigiai a caso per il piano di destinazione. A quell’ora tutti avevano già pranzato, ed erano svegli per le visite d’occasione, un’ora sola prima degli arrivederci e del riposo pomeridiano. Avevo deciso di far visita a qualunque ammalato da quando mia moglie mi aveva lasciato. Le avevo ceduto la nostra casa felice e provvedevo al sostentamento della famiglia. Erano trascorsi quindici mesi, ed anche i nostri figli, alle prese con le turbolenze dell’adolescenza, oramai mi consideravano un pazzo da internare come lei aveva sempre professato. A volte lo credevo anch’io, lo avevo creduto spesso, in passato, specialmente quando occupavo letti sconosciuti caldi d’amore, o declamavo parole non pensate, o quando ridevo a denti stretti di fronte allo specchio e poi scappavo a ballare nel salone dimenandomi sul tappeto, e tante, tante altre volte in cui mi ero chiesto cosa avevo fatto e perché stavo vivendo tanta estraneità. Mi sentivo un folle anche tutti i giorni a quest’ora, quando intraprendevo la quotidiana abitudine di ricercare conosciuti malati d’ospedale, alternando questa pazzia col mio lavoro da libero professionista, il circolo tennis ed il restauro di oggetti antichi, biciclette comprese, passioni che mi catturavano le ore a disposizione imbrigliando le ansie. Non potevo farci nulla, la mia mente mi imponeva routine che duravano da più d’un anno distogliendomi dalla malinconia, oppure trascinandomi alla ricerca di un fiato amico che avesse potuto sussurrarmi una frase vera in risposta a discorsi di conforto recitati a memoria. Nelle corsie d’ospedale si viaggia come in un aeroporto senza aerei, per una destinazione sconosciuta, a un certo punto si apre uno sportello d’accesso ad un vano, e si entra senza poter tradurre la scritta in rosso maiuscolo. Quel giorno afoso di inizio estate, entrai nella stanza 28B del Reparto Chirurgia, settimo piano, e mi arrestai incredulo davanti al primo letto. Riconobbi immediatamente i suoi tentacoli ricci adagiati sul guanciale, e mi immersi negli occhi scuri nascosti nel fondo di occhiaie incupite. Avvicinandomi di più mi accorsi delle spine infilzate negli avambracci per calmarle il dolore e fornirle nutrimento. Le gocce della flebo correvano ininterrottamente, lente come una pioggia che non può bagnare. Sul comodino oggetti alla rinfusa e una pianta di gigli arancioni, animaletti adesivi per scolaretti e un libretto per scrivere le didascalie delle foto che amava fare. Una passione proveniente dalla scuola media, ove mi ricordo giungeva puntualmente munita di macchina fotografica a tracolla e piccola matita nella tasca. Moira, esclamai, ch’è successo? Non aveva forza per parlare, e anelava singhiozzando frasi comprensibili a malapena. Quando mi riconobbe fu contentissima di vedermi, di rivedermi, per l’esattezza. Credo fossero più o meno cinque anni, che non ci incontravamo, da quel periodo di alcuni mesi in cui feci la spola tra il mio paese e la città in cui lei si era trasferita per motivi di lavoro e d’amore. Sì, l’amore, quella forza dirompente a cui ognuno di noi dà la propria interpretazione, attribuendogli un significato diverso a seconda di uno o dell’altro incontro, a seconda di una o di un’altra età che si sta vivendo. Ci eravamo frequentati intensamente, avevo fatto il trasfertista andandola a trovare due volte a settimana, turni a casa sua di sei ore circa, sino a tarda sera, fino a quando avrei smontato perché lei doveva riprendersi la figlia parcheggiata a casa dalla nonna, addetta ai compiti e alla cena. Veniva da una sconfortante separazione maturata nei primi anni di crescita della sua bimba, una rottura concretizzatasi col capire di non amare l’uomo che non sapeva starle accanto nei momenti di bisogno. Ovviamente, io tradivo nascondendomi da entrambe, inventando scuse banali tipo corsi di formazione per ingannare mia moglie e crisi matrimoniale per convincere l’amante, una brutta fissazione perpetrata con varie donne d’occasione. I viaggi all’estero erano una storia a sé, un circo in cui liberavo l’animale in me sfrenandomi saltando da un trampolino all’altro della gabbia a luci rosse. E tutto si risolveva elargendo una mancia infilata nel bikini di pizzo per ripagare una prestazione di ghiaccio. Ho fatto il ladro fin quando non sono stato colto in flagrante, al che mia moglie, arrabbiata e delusa dalle mie menzogne e dalla mia faccia finta, mi ha gettato la fede contro come si fa con un piatto da voler rompere e non aggiustare più. Quindici mesi fa, appunto, quando com’ho detto principiai a ricercare effimeri affetti esplorando nei letti d’ospedale dalle 13 alle 14 di ogni santo, sacro, giorno. Da allora le mie mani non avevano più toccato un corpo di donna, nemmeno sfiorato, a dire il vero, sentendosi indegne al pari della mia persona. Ma lei, Moira, mi invitò a sedere al suo capezzale come fossi un ragazzino immaturo che ha bisogno di farsi lisciare i capelli, e fece scivolare la sua mano scarna e bianca sulla mia lunga e scura, lambendola tipo uno straccio di seta la base da spolverare. Tutti, prima o poi, capiamo di dover parlare a un altro per impedire il dolore alla sua voce, uno spasmo interiore che risuona anche quando si accenna una risata. Dopo una conversazione durata esattamente sessanta minuti, appresi, confrontando le parole con lo scritto riportato in calce alla cartella clinica appesa ai piedi del letto, che le avevano asportato le ovaie e l’intero utero per togliere tutto il male possibile che stava consumandole la pancia, quel rigonfiamento lieve e duro su cui lei posava dolcemente i polpastrelli per ammorbidire. Tornai da lei il giorno seguente, il suo quinto di ricovero, come mi aveva obbligato a fare salutandomi al nostro precedente incontro. Il miglioramento di 24 ore si notava sul suo sorriso, da cui si stagliavano i grandi denti d’avorio. Mi sedetti, col permesso acquisito ieri, mettendomi affianco al comodino per parlarle sottovoce, mentre intanto, prima la mia mano e poi il mio sguardo, in modo oramai innaturale per me, incapparono nel suo piccolo piede nascosto come uno scoiattolino sotto le lenzuola. Le chiesi scusa spostando la vista sui seni assenti, reminiscenza delle mammelle gonfie d’ardore che mi avevano ammantato il torace come una coperta di lana bollente strisciata su e giù dalla leva incardinata nel turgido anfratto. Rammentavo perfettamente quei turni interminabili d’allenamento fisico e quel sapore di sudori mischiati come marmellate di uva. E pensare che in classe avevo sempre ignorato il suo corteggiamento considerandola un po’ sovrappeso ed inseguendo uno stupido stereotipo da modella di quegli anni che occupava il banco in prima fila. Si accorse del mio sguardo assorto sul seno e interruppe i miei svaghi ad occhi aperti svelandomi che glielo avevano asportato nel precedente intervento chirurgico, poi sussurrò fiduciosa che presto glielo avrebbero ricostruito com’era prima. Aveva la malattia mortale figlia del buio, cucitagli addosso dal suo destino ineluttabile, Moira, la più piccola di tre sorelle gemelle. Volle mostrarmi alcune foto che aveva scattato il giorno dopo quell’operazione. Immagini della stanza con frammenti del suo corpo immortalati qua e là, pezzi di braccia, di spalla, e pezzi di gambe tagliate ad una strega mingherlina chinata sulla soglia del bagno. Immagini di infermiere col cappello azzurro e bianco simil carta, di altre pazienti senza denti e coi capelli ramati, con le vene sul viso e la testa rasata, con la sedia a ruote per camminare e il respiratore agganciato alla bocca. Nel mio vagare quotidiano, in tutti gli angoli di quelle foto avevo già fatto visita. Sì, perché gli ospedali non sono alberghi, sono strette corsie intrecciate come labirinti, cori di urla volgari e lamenti di cane. Gli ospedali sono luoghi in cui ogni piccolo disagio è un incubo, dove ogni individuo è una presenza singolare, e quello in uscita insegna il da farsi a quello in entrata. Sono fabbricati in cui al piano di sotto si fatica a respirare e da quello di sopra si ode il gemito di una vocina appena partorita. Gli ospedali sono luoghi in cui gli uomini scordano la meschinità e l’apparenza, ed aiutano il simile a vomitare o gli asciugano il sangue col fazzoletto, o indossano un guanto di spugna per ripulirgli il culo dalla defecazione. Sono luoghi in cui la notte si gonfiano i cuori degli anziani e di giorno adulti e bambini tergiversano insieme tra una visita specialistica ed un esame clinico, luoghi in cui i capezzoli delle donne biancheggiano liberi sotto le vestaglie chiare, esprimendo un senso d’amore che non può descriversi. Gli ospedali sono luoghi in cui la pressione sanguigna ribollisce un corpo o ne agghiaccia un altro, luoghi in cui senti la falce della morte ghermirti il collo e staccarsi da te soltanto se ne ha voglia. Sono luoghi in cui la parola di un inserviente gentile vale più del cinismo mestierante del dottore. Sono luoghi che quando ti affacci alla finestra vedi l’autostrada con la campagna di fianco e il cielo sopra, luoghi teneri in cui offrire un cioccolatino e un fiore, o luoghi amari in cui perdere l’identità e la ragione. Gli ospedali sono luoghi che quando esci trasformano le tue gambe in un giardino fievole e tremolante sognato all’alba. È il senso della vita, a scaraventarti dentro, ed è il medesimo senso della vita a spingerti fuori, muovendoti con il silenzio di un passo lieve che sa oltrepassare il cancello. Moira sarebbe stata dimessa all’indomani, ed io, sospinto dalla sua preghiera incessante, sarei andato a trovarla nella palazzina grigia del quartiere di periferia con dentro incastonato l’appartamento popolare di sua madre, vedova di un marito distaccato che collezionò biglietti da concerto, impianti hi-fi e strumenti musicali che non sapeva nemmeno suonare. Nella nostra esistenza si può incappare in persone, poche, capaci in breve tempo di scrivere solchi indelebili sul cuore senza volerlo, o si possono conoscere individui, tanti, incapaci di lasciar traccia dopo una vita intera. Andandomene dopo averla salutata con un arrivederci, percorrendo le scale in discesa mi capitò di inciampare sulle sue ginocchia rannicchiate in su, e di scontrare le mie guance abbronzate con le sue pallide e olivastre, di rasserenarla con i palmi rugosi delle mie mani adagiati sulle sue guance lisce, calici di vetro avvolti per essere consolati. Mi ripresentai da lei per appuntamento dopo due giorni appena, volendola incontrare all’aria aperta del cortile condominiale, uno spazio ampio con la vasca tonda dei pesci rossi e le panchine di pietra disseminate all’ombra degli alberi da frutto. Uscì dal portone con la schiena curva e le falangi conformate al ventre. La presi sottobraccio come una pensionata al semaforo e le feci attraversare il tratto d’asfalto destinato ai pedoni. Ci accomodammo sul marmo ruvido del sedile con le spalle rivolte l’uno verso l’altra e cominciammo a parlare smarrendo la dimensione del tempo. Disegnammo le nostre vite ripercorrendo due disastri annunciati. Mi disse che tra qualche giorno, precisamente il 5 luglio alle ore 9:00, avrebbe dovuto recarsi direttamente in reparto per una TAC specifica all’addome, con la quale i medici avrebbero verificato se nel vuoto creatogli nella pancia si fossero formate altre superfetazioni. Poi aggiunse che la terapia per la riabilitazione prevedeva anche una passeggiata giornaliera sempre più lunga. Oggi erano previsti cinquanta passi, ieri dieci, domani cento e dopodomani duecento, fino al giorno in cui ne avrebbe percorsi mille, la sua meta. Colloquiando meravigliosamente percorremmo insieme i cinquanta passi previsti. La salutai all’imbrunire dopo che mi aveva mostrato le foto scattate al suo gatto il giorno prima, durante il completamento dei dieci passi d’allenamento. Fosse stato per me le avrei fatto visita ogni giorno divagando degli aneddoti della scuola e sulle nostre giornate da amanti, ma temevo di annoiarla, importunarla, di essere pesante, e così mi rifeci vivo il giorno dei cinquecento passi, che lei avrebbe percorso da sola, perché voleva così, affacciandosi alla campagna adiacente il quartiere di residenza. Nel pomeriggio, all’ombra di un piccolo albero d’albicocca, mi mostrò una foto scattata ad un rogo di sterpaglie, con il fuoco che si sparpagliava lento verso i lati senza intaccare la pineta retrostante. Mi esibì anche altre vecchie foto che immortalavano cespugli circolari di capperi e pale scompagnate di fichi d’india, oltre ad una decrepita casetta di campagna di sua proprietà, uno dei suoi cassetti con dentro il sogno di sistemarla per andarci a vivere da marzo ad ottobre. Il mio regalo di quel giorno fu una minuscola piantina con la pelle di lucertola, capace di sfoggiare gemme di velluto giallo in ogni primavera, che lei si impegnò a trapiantare nei grossi vasi fiorati curati dalla madre sul balcone. Non le chiesi del giorno seguente, né lei mi anticipò nulla, ma so che avrebbe percorso esattamente il numero di passi necessari a raggiungere il posto prefissato, mille. E così fece, inviandomi la sera stessa le immagini per dimostrarlo. La grande fontana sprizzava acqua coi colori dell’arcobaleno, e le gocce saltavano gioiose usando le forze del vento, che le slanciava verso i ferri azzurri e tondi che contornavano il tutto come simboli di un’atavica olimpiade. Il viale era il fresco di una dozzina di finte braccia giganti poste a tre metri d’altezza, figure che consegnavano la loro ombra al pavimento arrampicandosi sul pergolato e isolando a meraviglia la luce del sole. Moira aveva ultimato alla perfezione la sua riabilitazione, e il 5 luglio, all’orario prestabilito, qualcuno avrebbe letto la sentenza della sua condanna a morte, quel documento non scritto che ci accomuna tutti tenendoci con le spalle appiccicate al muro, bloccati davanti al medesimo plotone d’esecuzione. Lasciai quell’amica, quell’amante, quel ricordo, quella zattera, alla sua marea, che avrebbe designato la spiaggia su cui farla approdare. Il 5 luglio della mia vita, nella triste tana da cento euro al mese che avevo in fitto, ricevetti la telefonata di mia moglie, che con voce disponibile mi rammentò del nostro anniversario di matrimonio, invitandomi a prendere un caffè nel nostro Bar preferito. Che strano, non le è mai piaciuto il caffè.