Sei sulla pagina 1di 21

Coordinamento di Modena

FORUM CULTURA E SAPERE


SINTESI per direzione provinciale
17/11/2008

Investiamo sulle persone, investiamo sulla Formazione


Rilanciare l’Università per rilanciare il Paese
Senza Cultura non c’è futuro

Coordinatore forum
Roberto Franchini

Responsabili forum settoriali

Roberto Alperoli
Carlo Maria Bertoni
Investiamo sulle persone
Investiamo sulla formazione

L’istruzione pubblica è uno degli strumenti decisivi affinché ogni persona


possa godere pienamente dei diritti di cittadinanza: imparare a convivere con
gli altri, ridurre gli eventuali condizionamenti dipendenti dalle proprie origini,
migliorare il proprio reddito, concorrere alla definizione delle scelte che lo
riguardano e al miglioramento della comunità cui appartiene.
L’istruzione pubblica, dunque, come per altro il sistema di welfare nel suo
complesso, non può essere considerata un costo ma una elemento
complementare alla crescita sociale, civile ed economica del Paese.
In una economia sempre più basata sulla conoscenza il possesso e il
mantenimento di competenze di base e di competenze tecnico-professionali è
condizione indispensabile per un esercizio attivo della cittadinanza, per inserirsi
in modo qualificato del mondo del lavoro, per sostenere lo sviluppo e la
crescita professionale, affinando la capacità di imparare per tutta la vita
quale condizione indispensabile per rimanere nel mondo del lavoro in modo
competente e per rimanere attivi più a lungo possibile.

Il Governo sostiene che il nostro sistema scolastico costa troppo (troppi


fannulloni, troppe scuole, più bidelli che carabinieri…) ed interviene a tagliare
per fare cassa, agendo in modo indiscriminato ed indifferenziato senza indicare
criteri e punti d’arrivo se non il risparmio.
Sappiamo che la configurazione della spesa del sistema di istruzione è
correlata al numero degli insegnanti per alunno che, a sua volta, dipende da
molteplici fattori: la numerosità delle classi, le caratteristiche della rete
scolastica nel territorio, la diffusione di scuola dell’infanzia, del tempo pieno e
prolungato che funzionano col doppio organico, le modalità di integrazione dei
disabili, il numero complessivo degli indirizzi....
Dal punto di vista dei costi, esistono margini per rendere più efficiente il
sistema scolastico, ma occorre intervenire in modo differenziato, premiando i
territori virtuosi, e definendo una organizzazione più efficace.
Per fare ciò, occorre coinvolgere tutti i soggetti che hanno responsabilità nella
definizione della rete e che sono precisamente individuati nel Titolo V della
Costituzione, ancora largamente inapplicato. L’attuale Governo si sta
muovendo unicamente con una proposta di politica finanziaria di tagli
indifferenziati di risorse umane e finanziarie, senza rispettare le disposizione
del Titolo V. Mancano un progetto e una proposta organica che definiscano
obiettivi, percorsi, tempi e modalità di coinvolgimento delle parti interessate.

E’ fondamentale definire in maniera uniforme qual è lo standard di


sapere che vogliamo garantire per i nostri ragazzi e i livelli appropriati di
prestazioni che le nostre scuole devono garantire in maniera uniforme in tutto
il Paese.
Sulla base di questa definizione si devono stabilire le risorse necessarie e non
inseguire sempre le emergenze. Così non si razionalizza la spesa.

A nostro parere occorre operare affinché:


- lo Stato rafforzi il suo ruolo di garante dei diritti all’istruzione di tutti i
cittadini, definendo appunto lo standard di sapere uniforme che si vuole
raggiungere;
- le Regioni assumano effettivamente la competenza nella
programmazione territoriale della rete scolastica, a partire dalle risorse
umane e finanziarie stabilite in modo rigoroso dallo Stato;
- le istituzioni scolastiche possano giovarsi di una piena autonomia
didattica, organizzativa, di sperimentazione e ricerca , mai di fatto
decollata;
- nei territori si faccia sempre più ampio ricorsi a patti, reti, accordi che
vedano scuole ed enti locali dialogare nella cogestione del sistema di
istruzione, come già accade con buoni risultati di tenuta nella nostra
provincia. Anche insegnanti, genitori, studenti dovranno essere coinvolti
in questa forma larga di governance, in quanto ciascuno di questi
soggetti non è identificabile solo come utente ma è portatore di interessi
verso il sistema di cui fa parte.

Le ricerche internazionali ci dimostrano che, nel miglioramento dei sistemi


scolastici, hanno un peso determinante:
- l’autonomia delle scuole, se sostenuta da monitoraggio e valutazione;
- gli esami centralizzati e standardizzati;
- la formazione dei docenti;
- le forme integrative e differenziate di retribuzione dei docenti;
- le risorse per attrezzature e materiali didattici.

Occorre, quindi, investire a sostegno dell’autonomia anche finanziaria delle


scuole, supportando il monitoraggio delle azioni ed introducendo forme di
valutazione.
Quello della valutazione di sistema è un tema molto delicato che ha creato
tensioni nelle scuole e diffidenza relativamente alla sua efficacia, quando non
addirittura alla sua stessa utilità.
Sappiamo che sistemi nazionali di valutazione possono creare meccanismi
perversi nelle scuole e addirittura impoverimenti nell’azione didattica, tesa solo
a far superare i test e ad emarginare degli studenti più deboli.
Sappiamo altresì che non è possibile prescindere da un sistema serio di
valutazione, partendo dalla costruzione di un sistema nazionale autorevole ed
intervenendo a livello di ogni singola scuola a partire dagli standard effettivi di
funzionamento per costruire percorsi valutativi orientati al miglioramento
continuo. Questo potrebbe servire per riconsegnare ai Collegi dei Docenti la
effettiva titolarità della programmazione e della valutazione degli interventi.

L’altro tema centrale è quello formazione dei docenti, da collegarsi


necessariamente all’incremento della loro retribuzione media, ancora troppo
modesta, e agli interventi sulle forme della progressione retributiva che, in
Italia, è troppo lenta e, soprattutto, indipendente dal merito.
In un progetto che vuole guardare lontano, al futuro dei nostri giovani e delle
nostre imprese, ma nello stesso tempo tenere lo sguardo vicino a terra così da
incrociare gli sguardi di tutti, le priorità sono proprio i giovani e i
lavoratori e noi dobbiamo avere la capacità di investire risorse, energie e le
nostre migliori intelligenze in istruzione, formazione e sapere: dai nidi
all’Università, dalla formazione professionale all’educazione degli adulti.

La qualità dell’apprendimento dipende in grandissima parte dalla precocità


dell’intervento educativo e dal sapere della popolazione adulta ed è per questo
che, soprattutto in una fase di grave crisi economica, al centro delle politiche e
delle strategie del PD, vanno messi gli investimenti nei servizi educativi per la
prima infanzia, nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale e
nell’Università, perché l’investimento in un futuro possibile passa attraverso la
valorizzazione delle risorse umane.

Va assunta come elemento cardine la persona, i bisogni che esprime e le sue


caratteristiche se si vuole investire sul mantenimento e il miglioramento della
competitività delle imprese e del sistema economico.

Nel nostro territorio il sistema scolastico presenta ancora una


buona tenuta, sia sul piano quantitativo che sul piano qualitativo.
Gli obiettivi quantitativi relativi alla percentuale di popolazione che entra nel
sistema scolastico, fissati da Lisbona per i Paesi membri, sono raggiunti ed in
qualche caso superati. Per quanto riguarda gli obiettivi qualitativi (risultati di
apprendimento, dispersione e abbandoni) il nostro territorio si colloca a livello
delle aree europee più avanzate. Questo, grazie ad un pluridecennale
intervento degli enti locali sulla qualificazione del sistema scolastico, sulla
costruzione di rapporti interistituzionali, sugli investimenti in edilizia scolastica
e sul sostegno al funzionamento delle scuole.
Ad esempio, si può citare la questione dell’integrazione dei ragazzi disabili,
che nei nostri territori viene sostenuta sempre di più dai Comuni con sforzi
ingenti e problemi sempre più gravi di sostenibilità. E, ancora, la riduzione del
tempo scuola, che colpirà le classi funzionanti a tempo pieno e prolungato e
produrrà nuova domanda sociale oltre che educativa: tale domanda non potrà
che ripercuotersi su enti locali nuovamente in difficoltà.

Il Partito Democratico ritiene indispensabile investire maggiormente risorse


culturali, umane e finanziarie con l’obiettivo di qualificare, migliorare e
integrare i sistemi d’istruzione, di formazione professionale e di educazione
permanente.

Proponiamo pertanto di:


• sostenere l’espansione dell’offerta di posti nido per i bambini da
0 a 3 anni, nella consapevolezza che un inserimento precoce in
percorsi educativi di qualità è protettivo rispetto a situazioni di
insuccesso scolastico e facilita i processi di inclusione dei bambini stessi e
delle loro famiglie, anche migranti, attraverso il supporto ad una
genitorialità competente e capace di utilizzare e allo stesso tempo
promuovere reti;
• rendere effettiva la generalizzazione della scuola dell’infanzia per
i bambini da 3 a 5 anni, funzionale allo sviluppo della loro identità,
delle loro autonomie e competenze; questo obiettivo dovrà essere
perseguito sia attraverso una richiesta forte di impegno dello Stato che
attraverso l’ulteriore implementazione di sistemi misti pubblici-privati
governati - nel rispetto delle differenti autonomie gestionali - dall’ente
locale attraverso convenzioni, forme di supporto, centri unici di
iscrizione;
• garantire il supporto alle scuole primarie e secondarie di primo
grado salvaguardando le quote di classi attualmente funzionanti a tempo
pieno e prolungato e dando risposta ad eventuali ulteriori richieste delle
famiglie; il tempo pieno e il tempo prolungato, da non considerarsi come
meri ampliamento del tempo scuola, sono invece da intendersi come
modelli organizzativi e didattici, funzionali al raggiungimento degli
obiettivi formativi, al contenimento dell’insuccesso scolastico, al sostegno
della socialità, alle pratiche di convivenza fra diversi;
• aiutare i giovani dai 14 e i 18 anni, in una fase in cui l’esperienza
formativa è al centro del personale progetto di vita, con percorsi di
istruzione e formazione professionale, significa assicurare a tutti le
competenze necessarie per leggere, interpretare e comprendere la realtà
lavorativa, politica, culturale e sociale, in modo da poter esercitare a
testa alta e da competenti il proprio diritto di cittadinanza, per affrontare
l’apprendimento per tutta la vita, prevenire l’abbandono dei percorsi
formativi, permettere scelte adeguate alle loro competenze e capacità,
favorire un inserimento qualificato nel mondo del lavoro.
Quest’ultimo obiettivo va visto come condizione per prevenire
fenomeni di espulsione dal sistema produttivo ma anche come
strumento per sostenere, tramite la valorizzazione del capitale umano,
l’innovazione e l’adattabilità delle imprese;
• innalzare l’obbligo di istruzione fino a 16 anni per qualificare le
competenze di base per tutti i ragazzi e portare l’85% dei ragazzi a
diplomarsi e comunque garantire il diritto ad uscire dal sistema formativo
almeno con una qualifica spendibile;
• in continuità con le proposte del governo di centro-sinistra, riordinare il
sistema di istruzione secondaria superiore, potenziando e
rilanciando gli istituti tecnici e professionali, strutturati
organicamente sul territorio attraverso collegamenti stabili con il mondo
del lavoro, con la formazione professionale, con l'università e la ricerca;
• snellire il numero degli attuali indirizzi di studio con appositi
regolamenti ministeriali;
• ridurre il monte ore portandolo ad una definizione sostenibile per gli
studenti: già il precedente Governo aveva previsto una riduzione da 40 a
36 ore settimanali;
• investire nella programmazione e qualificazione dell’offerta di alta
formazione tecnico-scientifica, innalzando e qualificando le
competenze tecniche e scientifiche; potenziare l’investimento
sull’innovazione e sul capitale umano per favorire i processi di
trasferimento delle alte competenze tecnico scientifiche e degli esiti della
ricerca applicata al sistema delle imprese e garantire competitività
all’intero sistema nella prospettiva di una economia della conoscenza;
• dare attuazione alla costituzione dei Centri provinciali per l’istruzione
degli adulti, previsti dalla legge finanziaria 2007, per assicurare il diritto
di accesso al sistema di istruzione e formazione ad un numero sempre
maggiore di adulti, sostenendo lo sviluppo più ampio e coordinato del
sistema attraverso il coordinamento e la riorganizzazione della rete dei
servizi e dell’offerta.
Rilanciare l’Università
per rilanciare il paese

La situazione dell’Università e della Ricerca in Italia diviene


decisamente critica. Nonostante che da quasi un decennio i governi che si
sono succeduti abbiano espresso impegni programmatici rivolti alla società
della conoscenza e allo sviluppo della ricerca come motore dell’innovazione e
della competitività, la politica concreta ha visto completamente disattesi gli
impegni sottoscritti. Anzi le risorse sono calate e le ultime decisioni (DL 112,
trasformato nella L. 133) impongono drastici tagli soprattutto
all’Università, in risorse e personale.

Sono così vistosamente violati gli accordi di Lisbona (2000) per quanto
riguarda la quota del PIL da dedicare alla ricerca (ormai ad uno scarso
1% contro il conclamata esigenza di raggiungere il 3% in tutti i paesi Europei).
Se poi consideriamo che alcuni paesi hanno superato il livello del 3%, in Italia
siamo i fanali di coda del sistema europeo, di cui contribuiamo ad esasperare
le differenze.

E’ evidente che tale scelta accompagna ormai il declino industriale


italiano, il basso tasso di crescita ed innovazione, la nostra tendenziale
rinuncia ad occupare i segmenti produttivi dell’alta tecnologia.

Nel frattempo il sistema universitario era già stato fortemente messo alla prova
dal riordinamento – effettuato a più riprese - dei percorsi didattici (le strategie
internazionali condivise, dette di Bologna ed attuate nell’ordinamento a più
cicli: laurea triennale, lauree magistrali, dottorato di ricerca, divenuto
quest’ultimo solo in questi ultimi anni con evidente chiarezza il terzo ciclo di
studi universitari). Negli ultimi mesi si è abbattuto sull’Università, nella delicata
fase di messa a punto di tale trasformazione, il taglio delle risorse finanziarie,
stimabile almeno in un 15% nel prossimo triennio, che potrebbe ridursi al
10% se le ultime dichiarazioni del ministro Gelmini avranno seguito.

Le risorse dell’Università pubblica italiana ammontano a 12 miliardi di €.


Di questi, 8 provengono dallo stato di cui 7 costituiscono il Fondo di
Funzionamento Ordinario (FFO), 1,5 dalle tasse degli studenti, il resto da altre
fonti prevalentemente pubbliche e in parte private, con particolare rilievo dei
programmi e progetti di ricerca e sviluppo. Per raggiungere gli standard
europei servivano ulteriori risorse (3 miliardi), mentre si prevede una forte
riduzione in tre anni di 1,0 o 1,5 miliardi nel contributo dello stato, che si
tradurrà principalmente in riduzione del personale (docente e non) grazie a
una forte limitazione del turn-over. Non è chiaro chi possa compensare o
sostituire l’intervento dello stato, per evitare un pericoloso ridimensionamento,
o quali strumenti escogitare.

Con i suoi 60.000 docenti, 50.00 tecnici ed amministrativi, 1.800.000 studenti,


l’Università Italiana si è profondamente modificata negli ultimi anni e non ha
trovato ancora un equilibrio tra i nuovi percorsi formativi e l’inserimento dei
suoi laureati nel mondo produttivo. A parte alcune eccezioni, il profilo del
laureato triennale non pare in generale utilizzabile nel mondo del
lavoro, anche dove nel triennio la preparazione è orientata alla
specializzazione. Anzi la domanda esterna pare preferire la formazione di
base, ad ampio spettro e metodologica e non è chiaro se il nuovo profilo 3+2
sia stato accettato o assimilato o compreso. Allo stesso tempo – oltre a non
garantire un inserimento più precoce nel mondo del lavoro – pare che le nuove
carriere negli studi non abbiano risolto il protrarsi dell’iter di studio oltre i
tempi legali. Anzi, con le conseguenze ora positive ora negative, sembra che i
nuovi corsi favoriscano l’abbinamento tra lo studio e le esperienze lavorative
anche temporanee od occasionali.

Con i suoi quattro atenei di origine storica la Regione Emilia-Romagna


ha visto una drastica ridefinizione dei percorsi formativi.
A Modena e Reggio in particolare si è raddoppiato il numero delle Facoltà
negli ultimi quindici anni ed è cresciuta la gamma di corsi di studio e - anche
se si sono evitate le produzioni di corsi eccessivamente estemporanei ed
effimeri come avvenuto in altre sedi – si è giunti al limite di quanto si
possa garantire in termine di risorse di docenti oggi e in futuro e in
termini di adeguati e sensati equilibri tra le numerosità degli studenti
nei vari corsi di studi. L’azione di orientamento degli studenti è certamente
carente, come pure è drammatica la mancanza di una adeguata – anche se al
più possibile non coercitiva – programmazione degli accessi.

Le future carenze di personale docente, anche nelle posizioni


strategicamente necessarie, indotte dalla casualità della riduzione del turn-
over, combinata con i requisiti minimi quantitativi e qualitativi sul numero di
docenti stabiliti dai decreti Mussi del predente governo – a volte anche
eccessivi - , costituiscono un mix distruttivo per una sensata programmazione
del futuro dell’ateneo.

Ciò interpella profondamente non solo il governo dell’università, ma


anche gli enti pubblici territoriali, chiamati a rapportarsi secondo modalità
nuove e responsabilità maggiori, se lo stato vien meno alla funzione di
sostegno e governo espresse in precedenza.
Non è pensabile che la Regione si limiti ad interessarsi del solo trasferimento
tecnologico o delle interazioni dell’università con la organizzazione sanitaria –
pur importantissimi – o che il Comune si rivolga prioritariamente al pur
importantissimo campo delle risorse edilizie ed immobiliari. I poteri pubblici
territoriali dovranno affrontare i problemi posti dal fatto che
l’intervento pubblico di base non è più coperto interamente dallo stato.
E così pure le organizzazioni imprenditoriali si troveranno ad avere come
partner un’università il cui metabolismo di base non è più garantito dallo stato.
Un campo serio di confronto università-società è poi costituito dalla
definizione delle specifiche della formazione dei due cicli, e delle successive
specializzazioni (master, ecc. ecc.) che l’amministrazione pubblica e le imprese
richiedono e che l’università può offrire.

Si pensi al problema della formazione degli insegnanti (con i problemi di


programmazione e di migrazioni interregionali indotte), messo a tacere con
tutti i suoi problemi con la soppressione della SSIS, a dispetto dell’ugual
trattamento dei cittadini, che per semplice ragione anagrafica possono trovare
precluso l’accesso all’insegnamento.

Non va dimenticato il terzo ciclo (dottorato) e l’attività di ricerca post-


dottorale di borsisti e assegnatisti di ricerca, che si prolunga oltre i
trentacinque e fino ai quaranta anni. Nell’Università italiana vi sono 38.000
dottorandi di ricerca; raggiungono il titolo ormai 12.000 dottori l’anno (più di
metà di loro nelle discipline scientifiche, nell’ingegneria o nelle materie
umanistiche, meno nelle figure più professionali). Accanto a 13.500 assegnisti
universitari, vi sono borsisti di ogni specie, contrattisti pagati da associazioni
non-profit (ricerca bio-medica), borsisti e assegnisti degli enti di ricerca che
lavorano nei dipartimenti universitari. Sono non solo percorsi ad alta
specializzazione (formazione attraverso la ricerca) ma anche posizioni
lavorative e produttive di alto profilo. Sono reali lavoratori, che meritano un
trattamento retributivo e previdenziale adeguato al livello della
specializzazione, anche se non a tempo indeterminato.

Queste figure, spina dorsale della moderna ricerca scientifica, sono


presenti in tutte le istituzioni scientifiche del mondo ma in Italia sembrano
non avere sbocchi occupazionali esterni al mondo accademico e sono
identificati con il nome di precari. E’ chiaro che buona parte dei dottorandi
dei borsisti e dei ricercatori a tempo determinato non accederanno ai ruoli
docenti universitari, anche nell’ipotesi di vaste improbabili assunzioni future.
Alcuni di loro faranno carriera in università, laboratori o imprese stranieri. Ma
non è garantito un inserimento nel lavoro in posizione qualificate al di fuori
dell’università. Questo mostra una fragilità del nostro sistema
produttivo, che non valorizza il merito e i curricula più dotati e non offre
posizioni – a differenza di altri paesi – nei quadri superiori a queste persone già
messe alla prova nel lavoro, riconoscendone qualità e anzianità. Questo è un
nodo centrale del rapporto università – impresa e università – pubblica
amministrazione, anche nel nostro territorio. Riguarda tutta la filiera alta
formazione – ricerca – innovazione – industria. Il nostro sistema italiano pare
non aver bisogno di profili ad alta qualificazione e svolge il reclutamento solo ai
livelli iniziali!

Il dibattito sul futuro dell’Università nel nostro territorio e


l’elaborazione di alcune proposte a livello locale sono pesantemente
condizionati da quanto sta avvenendo nel nostro Paese, come riflesso ai
provvedimenti del Governo Berlusconi. I decreti della Ministra Gelmini stanno,
inoltre, producendo l’effetto di indirizzare il dibattito e la conseguente protesta
inevitabilmente sul problema dei tagli finanziari, senza permettere una
riflessione reale sulla qualità, sulla funzione, sul valore del sistema
universitario italiano.

Per quanto riguarda l’Ateneo di Modena e Reggio Emilia, appare necessario


istituire un organismo permanente di confronto (e possibilmente di
governo) della formazione universitaria, che veda partecipi l’Università, gli Enti
Locali, le associazioni economiche, le Fondazioni bancarie, i rappresentanti
delle maggiori istituzioni culturali.

La natura “a rete” dell’Ateneo deve spingere le istituzioni locali delle


due Province di Modena e di Reggio Emilia a trovare forme stabili di
coordinamento.
In ogni caso, il PD attiverà una sede di confronto tra tutti gli attori sociali,
pubblici e privati, su alcuni temi che rivestono particolare importanza per il
nostro territorio.

• I nuovi curricula dopo la prima revisione del Bologna Model. Per


comprendere anche a Modena (benché una larga parte della soluzione sia
attivabile con un processo nazionale) se e come “funzionano” corsi,
formazione di base e quella specialistica. Per comprendere come entra
nel mondo del lavoro chi esce dall’università.
• Università, ricerca, sviluppo e trasferimento tecnologico. Questo
tema coinvolge Istituti, enti e consorzi per la ricerca, oltre ai ricercatori
ad alta qualificazione. Riteniamo fondamentale un confronto sul loro
inserimento nella pubblica amministrazione e nel sistema delle imprese.
Per fare del nostro territorio un sistema avanzato occorre che l’università
sia più contigua e sappia “fare sistema” con questo contesto.
• La rinascita e l’evoluzione a Modena e Reggio del segmento umanistico
(scienze della cultura, storia, giacimenti culturali, patrimonio storico-
artistico). E’ un segmento ancora “giovane” e che deve trovare una
propria identità, una propria maturità. Gli Enti Locali debbono proseguire
il lavoro intrapreso assieme alle Istituzioni culturali per contribuire a
definire le direzioni che dovrebbe prendere l’ala umanistica dell’Ateneo.
• L’integrazione regionale del sistema universitario. Il federalismo
prossimo venturo, pur nell’incertezza dell’attuale dibattito politico e
parlamentare, assegnerà nuovi ruoli ai poteri pubblici territoriali. E’
necessario anticipare il nuovo assetto avendo un occhio alle esigenze di
un sistema moderno, avanzato e in rapida trasformazione e l’altro rivolto
alla razionalizzazione forzata delle risorse.
• Diritto allo studio, mobilità e studenti fuori-sede. Riguarda la
connotazione universitaria nelle nostre città e un’università che bene o
male è strumento di integrazione nazionale e inserisce nel nostro
contesto produttivo e civile molte persone che provengono tuttora da
altre regioni.
• Internazionalizzazione dell’università. E’ un fenomeno in crescita,
non solo nelle storie personali degli studenti, ma nella vocazione
dell’ateneo. Così come lo sono state le imprese in passato, l’università ha
grandi occasioni di apertura soprattutto nel mondo extraeuropeo
(estremo oriente, est europeo, America latina).
“Senza cultura non c’è futuro”

Premessa.
Le “comunità naturali”, cioè i paesi e le città così come noi le abbiamo
conosciute, sono morte o moribonde. La globalizzazione, una diversa
percezione del tempo e dello spazio, l’irruzione massiccia della tecnica nella
vita quotidiana, i grandi fenomeni migratori, stanno cambiando radicalmente il
nostro stesso concetto di comunità.
Per costruire nuove comunità, tra diversi, la cultura, le culture, sono
essenziali.

Eppure, l’orizzonte dei valori contemporanei e la tonalità emotiva dominante


della nostra epoca non attribuiscono valore adeguato, né sociale né individuale,
al merito, alla competenza, ai saperi ed alla cultura.
Anzi, nella comune gerarchia dei valori - così come nel sistema
dell’informazione e della comunicazione e più in generale nei comportamenti
diffusi - cultura, capacità e talento non sono considerati importanti. Un
“merito”, in verità, trova riconoscimento pubblico quasi unanime, e
valorizzazione sociale e retributiva: quello di fare soldi e farli fare.

Per noi, merito e competenza sono la capacità di discernere, di cogliere


differenze, e quindi di esprimere valutazioni e giudizi. Quando la cultura è
carente, quando non si sa pensare, cioè attivarsi criticamente, si è
nell’impossibilità di capire il valore, la qualità. Carenza di cultura, in altre
parole, significa vivere nell’indifferenza e nell’indifferenziato.

Il rapporto tra cultura e vita sociale si è fortemente indebolito: presso


la grande maggioranza dei cittadini, la cultura è oggi priva di
“autorità”. Non se ne capisce il valore, il ruolo. Tutto ciò si collega al generale
scadimento del dibattito politico e del discorso pubblico tutto. Ma si collega
anche al più ampio scadimento della qualità della vita: la ricchezza non
sopperisce alla mancanza di cultura; da sola, la ricchezza non basta a godere
dei piaceri, delle cose belle… tutt’al più le compra.
Quindi, malgrado le apparenze, questa non è neanche una società del piacere,
dell’edonismo ma, al massimo, del consumo, indiscriminato e rozzo.
Tutto questo è un ingrediente fondamentale della regressione e depressione
contemporanea del nostro paese.

Non siamo all’“anno zero”.


Naturalmente non siamo all’“anno zero”: le istituzioni educative, la scuola, i
centri di formazione, le Università, gli enti pubblici e privati con scopi culturali,
il vasto mondo delle associazioni, sono vivi, e le iniziative culturali sono
comunque aumentate negli ultimi anni.
Segnaliamo in particolare il ruolo essenziale che hanno assunto negli anni le
Fondazioni, come promotrici o co-promotrici di iniziative, attività e di cultura
nell’accezione più ampia e piena.
Nonostante tutto, però, la cultura ha un ruolo parziale, spesso episodico, o
peggio casuale. In sostanza, se ci sono risorse economiche “si fa cultura”, in
caso contrario nessuno si straccia le vesti.
Troppo spesso la cultura resta ancora una “voce di spesa”, non se ne
comprende in pieno il valore di risorsa e di investimento.
Anche in conseguenza di questo, talora ci si lascia guidare nella scelta degli
eventi e delle attività da criteri di “intrattenimento” ed “abbellimento”, di
impronta televisiva.

Ci sono però segnali positivi, a partire dalla consapevolezza che dobbiamo


costruire insieme la città materiale e quella immateriale, cioè la città delle
relazioni, dell’anima e dei luoghi, del benessere emotivo e relazionale. E’ la
cultura, soprattutto, che costruisce la città immateriale, che rafforza il senso di
ospitalità ed accoglienza.
Il ruolo della cultura.
La cultura è un ingrediente fondamentale del civismo, allarga l’“io” e
ricostruisce il “noi” in questi anni di privatizzazione della vita, incattivimento
sociale, crollo dell’etica pubblica. La cultura è un pezzo importante del
welfare. E’ un antidoto contro l’affievolimento delle relazioni, può costruire
una socialità intelligente, e un’intelligenza dei luoghi. Aiuta a sviluppare
prossimità, coesione sociale, vitalità e solidarietà, il principio del rispetto e
dell’ascolto degli altri, il senso del bene comune.

La cultura è uno dei motori della vita pubblica, perché favorisce le


condizioni di incontro tra le persone, costruisce e ricostruisce le condizioni del
dialogo alla luce della rinnovata composizione sociale delle nostre realtà.
Fornisce alle persone la possibilità di fare esperienze creative, rimette in moto
le energie di una città, di un territorio, rinnovando e valorizzando il suo capitale
sociale, la sua etica pubblica.

La cultura ha anche una sua dimensione fisica, ha a che fare con spazi,
luoghi e nomi. Collocare “al posto giusto” i nomi significa costituire una
geografia sentimentale della comunità, rafforzando l’autostima di un territorio,
l’orgoglio di un’appartenenza aperta, il suo patrimonio immaginario. La cultura
può generare fiducia, anima, sogno, può dare profondità al tempo.
Contribuisce così a creare una dimensione di piacevolezza dello stare e
dell’abitare che aiutano anche la sicurezza ed il senso di sicurezza.
La cultura è capace di produrre il bene più importante di una società, il
senso dello stare insieme, quel “sentimento comune” che è, in estrema
sintesi, una città, una comunità.

La cultura come investimento.


Gli economisti ci dicono che gli investimenti immateriali sono quattro volte più
produttivi degli investimenti materiali. Questo significa che la cultura va
presa sul serio anche come fattore determinante di sviluppo
economico.
Un concetto, questo, che in Italia è tutt’altro che pacifico, vista la modestia
assoluta delle risorse destinate dallo Stato.
Non parliamo solo di attrattività turistica legata alla notorietà degli eventi: se
aumenta la reputazione del territorio, e la cultura è uno strumento formidabile
in questo senso, aumenta anche il valore competitivo delle sue aziende.
La cultura, infatti, sta diventando la materia prima di quel sistema di contenuti
che crea valore in tutti i comparti.
In questo senso, anche la Camera di Commercio, le associazioni di
categoria, le singole aziende, devono avere maggiore consapevolezza e
un ruolo più attivo negli investimenti culturali.

Per una cultura Democratica.


Fatte queste premesse, si pone il problema della scelta, del discernimento:
tutto va bene? Quale cultura vogliamo? Si può ancora parlare di cultura
“critica”? Ci accontentiamo delle piazze e delle sale piene, ottenute
scimmiottando stereotipi televisivi? Quali sono i criteri/valori sulla base dei
quali orientare le scelte?
Il punto non è solo aumentare il numero dei fruitori/consumatori di cultura, ma
stimolare la partecipazione e gli interessi, facilitare la comprensione, allargare
l’orizzonte delle conoscenze.
Di certo, a noi sembrano centrali alcuni temi: la cultura della vita pubblica
e del mondo comune; l’educazione all’altro e alle pari opportunità; la cultura
ambientale e quella della legalità; il civismo contro il cinismo; la laicità; un
rapporto creativo con le tradizioni e il territorio; un’alfabetizzazione
contemporanea in grado di garantire a tutti il possesso delle tecniche e dei
linguaggi.
Questi ci sembrano i riferimenti guida per la scelta e la costruzione delle
proposte culturali dell’insieme degli enti pubblici, senza dimenticare un altro
aspetto essenziale del loro ruolo: la valorizzazione ed il sostegno delle
iniziative e della creatività dei singoli e delle associazioni del territorio.
La ricchezza culturale del nostro territorio deve molto a questa vitalità diffusa e
plurale.
Il ruolo di Modena.
Per dimensioni, ruolo istituzionale, numero di abitanti, centralità geografica,
oltre che per la storia di questi decenni, Modena merita una menzione a sé.
Già dal Dopoguerra, una città depressa economicamente ha saputo riscattarsi
in forza del lavoro, certo, ma anche di un’intensa attività culturale e formativa,
senza la quale non si sarebbe raggiunta nessuna delle eccellenze che hanno
portato al benessere ed alla vitalità di oggi.
E’ indubbia la centralità del capoluogo come punto di riferimento, motore,
polo d’attrazione e promozione di tutta la provincia anche in ambito di politiche
culturali.
Non sono mancati negli ultimi anni esempi virtuosi in questo senso, dove il
capoluogo è stato compartecipe di eventi policentrici come il Festival della
Filosofia, il Festival delle Bande Militari, VIE – Scena Contemporanea Festival.
Manifestazioni di elevata qualità e richiamo, giocate tra il capoluogo e altre
realtà della provincia. Sicuramente un esempio da replicare anche per altre
attività con attenzione in particolare a moduli formativi, laboratori e percorsi
educativi.
Anche Modena, infatti, non deve abdicare a un concetto di cultura intesa solo
come produzione di eventi rivolta al “consumo”, ma impegnarsi a seminare e
coltivare la diffusione dei saperi.

Per i “contenitori” culturali, sui quali bisognerebbe aprire una riflessione a


parte, per il rapporto stretto con le principali Fondazioni, in quanto sede
principale dell’Ateneo e di tante istituzioni di tradizione e valore riconosciuti,
Modena non può che essere un riferimento obbligato anche per la costruzione
di politiche culturali per tutta la provincia.
Centrale è infine il ruolo di Modena città per la costruzione di offerte turistiche
intelligenti, che siano il cuore di un sistema di promozione esteso all’intero
territorio provinciale.
(un elaborato più dettagliato su Modena è stato realizzato dal forum per la
cultura cittadino)
Serve uno sguardo d’insieme.
La nostra provincia è caratterizzata da servizi e spazi creati per favorire una
socialità intelligente (da quelli consolidati, come le biblioteche ed il sistema
museale, fino ai centri giovani ed ai centri stranieri, …).
E, l’abbiamo già detto, esprime una grande varietà di eventi e proposte, spesso
di qualità. Eventi di valore, alcuni di grande notorietà, che, però, solo qualche
volta creano e sviluppano reti di persone attive tutto l’anno su quei temi.
Scuole di ogni ordine e grado, un Ateneo di qualità e con numerosi corsi di
laurea, pur capaci di esprimere autonomamente talenti e iniziative di valore,
raramente sono coinvolti in modo significativo.

E’ indispensabile un coordinamento adeguato.


Va rafforzata la capacità di razionalizzazione delle risorse e degli eventi, in
relazione al calendario ed alla geografia del territorio.
I vantaggi sarebbero molteplici: minore dispersione e competizione tra
iniziative di centri vicini, maggiore possibilità di valorizzare gli eventi principali
in una dimensione nazionale, condivisione di competenze ed esperienze.
Questo, senza nulla togliere al valore delle tante iniziative, minuscole e non,
radicate nella tradizione e nella memoria dei territori.
Un tale coordinamento necessariamente deve essere svolto dall’ente
provinciale, la sola istituzione che può avere il necessario sguardo d’insieme, e
la potenzialità di interagire con tutti i Comuni del territorio modenese.

Il cuore di questa prospettiva è la capacità di produrre e diffondere i saperi,


accumulandoli in un capitale sociale su cui investire con convinzione e
lungimiranza.

Potrebbero piacerti anche