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DI PIOMBO

E D’ACCIAIO

(titolo provvisorio)

Marcella Garau
Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.

L’incapacità di dormire ti logora, ti fa invecchiare presto, mina


la tua salute mentale. Dovetti imparare a vivere contromano. Mi
ci volle del tempo, ma ora ci sono abituata. Per necessità, sono
diventata una creatura della notte, brancolo nell’oscurità come
una falena attirata da una luce.
È curioso addormentarsi all’alba e svegliarsi in pieno giorno,
senza vivere quello stacco notturno che definisce l’oggi dal
domani, il presente dal futuro. Quando vado a dormire, per me il
domani è già cominciato.
Quel maledetto giorno, dicevo, segnò il principio della mia
insonnia e della mia vita sospesa.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Un suono improvviso e indistinto la fece sussultare. D’istinto,
allungò la mano verso il comodino e, a tentoni, dopo un primo
tentativo andato a vuoto, riuscì ad afferrare la sveglia. Le lancette
fluorescenti segnavano le cinque. Ancora frastornata, realizzò che
non poteva essere stato il cicalino della sveglia, puntata sempre
alle sette, e nemmeno la sirena del cambio turno, inconfondibile
per frequenza e intensità.
Fuori era ancora buio. Dai vuoti fra le stecche delle tapparelle
filtrava appena la luce calda dei lampioni. Si voltò sull’altro fianco,
le coperte ben tese fin sopra i capelli, accarezzata dal pensiero di
avere davanti a sé altre due ore di sonno.
Pochi attimi di silenzio, poi ancora lo stesso suono. questa
volta insistente. Di malavoglia, si mise seduta e si concesse a un
lungo sbadiglio mentre con i piedi tastava il pavimento per
individuare le ciabatte. Si infilò la vestaglia di flanella appoggiata
sul bordo del letto, accese la luce del corridoio e si trascinò verso
la porta d’ingresso, massaggiandosi forte le braccia per scaldarsi
un po’.
Quel maledetto trillo le trapanava il cervello.
Sentì pronunciare il suo nome da dietro la porta.
– Dove le hai lasciate questa volta? – sorrise al pensiero che
Adriano dimenticasse le chiavi di casa dappertutto.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Quando sentì ripetere il suo nome, si rese conto che quella
non era la voce del suo compagno, l’accento era meridionale e il
tono sgarbato.
Decise di aprire giusto il tanto per sbirciare fuori, ma fece
appena in tempo a sganciare la catenella e abbassare la maniglia
che qualcuno, da fuori, spalancò la porta e in un lampo Lena,
caduta a terra per il contraccolpo ricevuto, si ritrovò dentro casa
tre sconosciuti in divisa.

Dopo essersi accertati, stanza dopo stanza, che non ci fosse


nessun altro oltre lei, cominciarono a mettere le mani
dappertutto.
– Forza, si metta qualcosa addosso. Ci deve seguire.
Lena riconobbe nell’uomo che frugava tra i libri l’accento e il
tono di chi l’aveva chiamata per nome poco prima: – Dove? E
perché? È successo qualcosa di grave? – sentiva il cuore pompare
più in fretta.
– Ti spiegheremo tutto in caserma. Adesso vestiti e non farci
perdere altro tempo.
Quel dettaglio non le sfuggì. Il passaggio improvviso dal lei al
tu, non negoziato, aveva messo subito in chiaro il suo ruolo
subalterno alla loro superiorità.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Non avevo idea del motivo di quell’irruzione in piena notte,
una scena da film per me, ma assecondai senza fiatare le loro
richieste, confusa da toni e modi che non ammettevano repliche.
Muovendomi con cautela, quasi al rallentatore, mi diressi verso la
camera da letto, seguita da uno di loro, e mi misi addosso le
prime cose che trovai a portata di mano, direttamente sopra il
pigiama per guadagnare tempo.
Nel frattempo, gli altri due uomini continuavano a perquisire
l’appartamento. Sentivo i loro passi. Sentivo il loro odore. Senza
darlo a vedere, seguivo i loro movimenti impacciati dal giubbino
antiproiettile e dalla mitraglietta portata a tracolla. Li vedevo
aprire e richiudere ante e cassetti senza neppure controllare cosa
ci fosse dentro. Afferravano a casaccio degli oggetti, poi li
rimettevano esattamente al loro posto. Non mi rivolsero mai la
parola, né mai mi degnarono di uno sguardo, quei due.
Allora, mi pareva che i loro gesti, così approssimativi, non
seguissero un criterio logico. Oggi, a mente ferma, posso dire con
assoluta certezza che quel modo di fare, in apparenza privo di
senso, aveva la funzione precisa di violare la mia intimità,
mantenere alta la tensione e farmi sentire schiacciata dal peso
della loro autorità.
Indossai il cappotto, presi le chiavi di casa che avevo poggiato
sul tavolo della cucina la sera prima e mi diressi, loro appresso a
me, verso l’ingresso. Mi bloccai alla porta.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Tornai indietro, seguita a distanza da tre paia di sguardi, e mi
avvicinai alla cucina a gas per assicurarmi, toccandole una dopo
l’altra, che le manopole fossero ben chiuse.
Certi comportamenti ossessivi sono duri a morire. Sono
talmente radicati in noi che, inconsciamente, li replichiamo anche
in situazioni estreme. Feci allora quello che facevo tutte le volte
che uscivo di casa. Quando me ne resi conto, mi sentii una
perfetta idiota.
Mentre scendevamo le scale, in un tempo dilatato da un senso
di angoscia mista a incredulità, mi sentivo addosso mille occhi a
scrutarmi attraverso gli spioncini. Immaginavo i miei vicini, al
sicuro dietro le loro porte blindate, chiedersi cosa mai avessi
combinato.
Arrivati in strada, mentre mi caricavano in macchina, sperai
che non lo facesse. Invece lo fece, con buona pace per quella
minuscola parte di me che pregava di sparire da lì senza troppo
clamore. Il carabiniere al posto di guida attivò la sirena e una luce
azzurra squarciò il nero della notte, a intermittenza; poi innestò la
marcia e, con uno stridore di gomme, partì in direzione di Sesto
San Giovanni.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi spinsero dentro una stanza illuminata da una grossa
lampada da tavolo. L’odore di chiuso misto al fumo di sigarette
rendeva l’aria irrespirabile. Sentii un forte senso di nausea, che
ricacciai dentro. Il carabiniere seduto dietro la scrivania mise
subito in chiaro che, come persona informata sui fatti, ero
obbligata a collaborare. Era un uomo sulla quarantina, il
maresciallo Baggiani, con il viso spigoloso e delle enormi mani
ossute che non teneva mai ferme. Mi interrogò sino all’alba.
Volle sapere tutto di me: della mia famiglia, delle mie amicizie,
del mio paese, del perché mi fossi trasferita al nord. Mi sforzai di
essere quanto più precisa possibile, attenta a non urtare
quell’uomo con risposte evasive e un atteggiamento poco
collaborativo. Alle mie spalle, il ticchettio di una macchina da
scrivere seguiva il flusso delle mie parole.
Sollecitata dalle sue domande, arrivai a parlargli di Tùvula. Ero
certa, però, che lui sapesse più di quanto volesse farmi credere. La
presi come una sorta di messa alla prova della mia sincerità e
decisi di offrigli la versione dei fatti più folkloristica, quella che i
continentali si aspettano di sentire quando si parla della Barbagia.
Gli raccontai del mio paese e di come tutto si muove con una
lentezza sfibrante; dei morti ammazzati di faide così antiche da
non ricordarne nemmeno più la causa scatenante; di come la
convivenza sociale sia regolata da codici morali interni e di
quanto lo Stato sia assente e distante.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Ammetto di avere caricato di eccessiva enfasi il mio racconto,
ma in quel frangente mi sembrò una buona idea. In realtà, Tùvula
è un paesino di poco più di mille anime dove non succede mai
niente, e che ci sia stato qualche morto ammazzato non lo rende
certo un posto speciale. È vero un fatto, però. A causa di una
serie di circostanze che a quell’epoca non riuscivo a capire, fu
governato da un commissario prefettizio per un periodo lungo
quanto la mia adolescenza: in quegli anni, chiunque osasse
candidarsi per essere eletto negli organismi comunali veniva
puntualmente dissuaso con argomentazioni inappellabili e mai
bonarie. Di sicuro il maresciallo ne era al corrente, non poteva
essere altrimenti, ne parlarono a lungo anche alla tv, caso quasi
unico in Italia.
Baggiani si concesse una pausa e fumò una sigaretta. Poi, il suo
sguardo si fece più acuto e i muscoli del viso si contrassero in una
strana smorfia. Mi domandai con una certa preoccupazione cosa
gli balenò per la testa. Puntò la lampada verso di me. Il fascio di
luce, accecante, mi impediva di guardarlo in faccia. Arrivò il turno
delle domande sul mio lavoro e sui miei colleghi. Volle sapere
delle mie frequentazioni in acciaieria e di alcuni operai che definì
delle teste calde, disse proprio così, delle teste calde, persone
sempre pronte a infiammare la protesta contro sindacati e
padroni.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Sai che il mese scorso è stato ammazzato un vostro
dirigente?
– Ne ho sentito parlare, ma non lo conoscevo di persona.
– Mi risulta che qualche testa calda però la frequenti.
– A chi si riferisce?
– Dai, che hai capito bene!
Glissai la domanda. Al mio silenzio cambiò registro.
– Ti occupi di politica?
– No.
– Hai partecipato a qualche manifestazione di piazza negli
ultimi tempi?
– No, non sono affari che mi riguardano.
– Si partecipa anche per solidarietà – replicò lui.
Il maresciallo si alzò e si diresse verso lo schedario addossato
contro una parete. Era più alto di quanto immaginassi, a occhio e
croce sfiorava i due metri. Friulano, ipotizzai. Zoppicava
visibilmente. Sfilò una cartellina azzurra da un cassetto e tornò al
suo posto.
– Incidente stradale durante un pattugliamento. Ho una causa
di servizio in corso – quasi mi lesse nel pensiero. Estrasse un
foglio dalla carpetta e lo poggiò sulla scrivania, proprio sotto il
mio naso.
– Hai mai visto volantini simili a questo?
– No.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Strano, ci risulta che se ne vedano parecchi, in fabbrica.
Finsi di esaminare meglio il foglio allungandomi con il collo.
Ribadii il mio no con un gesto deciso del capo.
Conoscevo bene quei volantini, e conoscevo pure qualche
operaio che li distribuiva in fabbrica. A dire il vero, tutti li
conoscevamo, ma si faceva finta di nulla, proprio come si farebbe
a Tùvula, e il fatto non veniva denunciato neppure da chi era
contrario a certe forme di protesta. D’altronde, pensavo, che male
c’era a diffondere dei comunicati che rivendicavano i diritti degli
operai e contestavano i piani di ristrutturazione aziendale?
– Che mi dici di Adriano Marchi?
– Non è un mio collega, lui lavora alla Breda.
– Questo lo sappiamo già. Vi frequentate?
– Ci vediamo qualche volta.
– Dove l’hai conosciuto?
– In pizzeria, abbiamo degli amici in comune.
– Da quanto tempo lo conosci?
– Due anni, più o meno.
– State insieme? È il tuo compagno? – incalzò Baggiani.
– No, è un amico.
– I ragazzi mi hanno riferito di avere visto a casa tua, in bagno,
lamette e schiuma da barba. È roba del Marchi, vero?
– Quella roba, come dice lei, io la uso per radermi le gambe –
replicai stizzita.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Baggiani intercettò il mio disappunto. Accese un’altra sigaretta
e tirò alcune boccate, lente e lunghe. Ripose il volantino dentro la
cartellina e spinse la schiena contro la sedia, stiracchiandosi un
po’. Diede un’occhiata all’orologio che portava al polso,
socchiuse gli occhi e si abbandonò a un lungo sospiro.
Prima di lasciarmi andare mi fece portare una tazza di caffè. La
mattina, a stomaco vuoto, per non risvegliare i bruciori di una
gastrite che non mi dava tregua, bevevo solo il caffellatte. Ma il
caffè era bollente e tanto mi bastò per apprezzare il gesto di
cortesia. Baggiani si raccomandò di tenermi a disposizione, di
stare nei paraggi perché sarei stata riconvocata da lì a qualche
giorno per proseguire, la definì proprio così, la nostra
chiacchierata.

Uscii in strada. Erano le nove, faceva freddo e pioveva forte.


Mi guardai attorno per individuare una cabina telefonica nelle
vicinanze. Dovevo chiamare al lavoro e inventare qualcosa di
plausibile per il ritardo. Vista l’ora, avrei chiesto un giorno di
permesso. Mi strinsi forte le braccia al petto per affrontare meglio
la pioggia e attraversai di corsa la strada. La città sembrava
addormentata: attorno a me né una macchina, né un passante. In
realtà, a quell’ora tutti lavoravano. Le grandi industrie di Sesto, in
quegli anni, garantivano un lavoro sicuro a tutti, anche ai tanti
meridionali strappati alla miseria e alla campagna, ultimo anello

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
della catena sociale di allora. La Stalingrado d’Italia, l’apostrofò un
dirigente sindacale durante una riunione in fabbrica: non ne capii
il significato, ma la definizione mi piacque e la memorizzai.
Non capivo niente, a quei tempi, né di rivendicazioni sindacali,
né di politica. Non ne capivo il linguaggio e la logica, ma tutto ciò
che era nuovo mi affascinava. Volevo imparare presto e subito
ciò che le montagne a scudo del mio paese, impenetrabili, ma per
certi versi rassicuranti, lasciavano appena trapelare dal mondo
esterno.
Mi rifugiai in un bar poco distante dalla caserma. Era il loro
bar. Lo capii da una serie di dettagli sparsi qua e là: il calendario e
alcuni gagliardetti dell’Arma appesi alle pareti; fotografie che
riproducevano immagini di parate da differenti prospettive; dietro
il bancone, incastrata in bella mostra tra due file di bicchieri, la
foto incorniciata di un carabiniere sul podio olimpico, catturato
dall’obiettivo con una coppa stretta fra le mani. Gran ruffiano il
barista, pensai dentro di me.
Grondavo d’acqua e tremavo dal freddo. O forse era
stanchezza. Ordinai un cappuccino, bollente e con molta
schiuma, e chiesi un gettone. Mentre componevo il numero
dell’ufficio, due carabinieri al mio fianco commentavano a bocca
piena la retata di quella notte. Parlavano a bassa voce, ma ho
l’udito fino e sentii perfettamente le loro parole: “trentacinque

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
fermi tra Milano e Sesto”, “questa volta li mandiamo tutti in
galera”.
Intanto che mi gustavo il cappuccino, senza fretta, soffiandoci
sopra prima di ogni sorso, mi venne in mente quell’ingegnere,
ucciso a pochi metri da casa sua da un gruppo eversivo, così si
mormorò in ufficio la mattina dopo. Era un brav’uomo, ci avevo
chiacchierato alcune volte. Quando veniva in amministrazione, a
discutere con gli altri capi, aveva sempre due minuti e qualche
parola buona per noi della contabilità. Frasi di circostanza,
garbate, che ti facevano sentire importante e regalavano attimi di
umanità in un ambiente di lavoro dove tutto era freddo e
funzionale alla massima efficienza.
I morti ammazzati non mi fanno paura, ne ho conosciuti in
passato. Certo, non resto indifferente alla morte, ma il dispiacere
o il dolore, a seconda dei casi, non hanno nulla a che vedere con
la paura. Dalle mie parti, uno sgarro o un’offesa vanno onorati
con il sangue e la vendetta rientra nell’ordine naturale delle cose.
Per quanto sia refrattaria a qualsiasi forma di violenza, credo che
dietro a un omicidio ci sia sempre una ragione, per quanto non
condivisibile e comprensibile. E forse, anche in quel caso, una
ragione c’era.
Non andai al suo funerale, come fecero tanti miei colleghi
leccaculo. I funerali per me sono un atto privato, e quella fugace

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
conoscenza della vittima non avrebbe giustificato la mia presenza
in una circostanza così intima.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Nonostante piovesse ancora e non avessi un ombrello per
ripararmi, decisi di raggiungere viale Italia a piedi.
Di tanto in tanto, mi fermavo per trovare riparo sotto i balconi
e i cornicioni dei palazzi. Me ne stavo lì, appoggiata a un muro,
per un tempo indefinito, ipnotizzata a fissare l’intensità della
pioggia, mentre un flusso di immagini mi vorticava nella mente
senza una logica precisa e senza approdare mai a un pensiero
compiuto. Nessuno di quei flash aveva a che fare con gli
accadimenti delle ultime ore; stavo mettendo in pratica, senza che
me ne rendessi conto, una sorta di processo di rimozione di un
fatto tanto doloroso quanto incomprensibile.
Lungo il tragitto, ne approfittai per fare un po’ di spesa, giusto
due pagnotte e dell’affettato per pranzo. Mi soffermai pure
davanti a qualche vetrina, fingendo interesse verso scarpe maglie
e cappotti sistemati con perizia e buon gusto fra coccarde e
addobbi natalizi.
Arrivai alla fermata del bus dopo una buona mezz’ora di
marcia. Non pioveva più. Mi accomodai sotto la pensilina e restai
in attesa dell’autobus, senza uno stato d’animo diverso dal solito.
Attesi paziente, né più né meno come avevo fatto altre volte.
Il 701 arrivò quasi subito, ma era troppo presto per tornare a
casa e decisi di aspettare il prossimo. Lasciai andare anche il
secondo. Alla fine salii sul quarto autobus. Era quasi vuoto. Due
donne, sedute in fondo, frugando nelle rispettive sporte ai loro

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
piedi, parlavano degli acquisti appena fatti al mercatino rionale e
ne confrontavano i prezzi con quelli del loro paese, giù al sud. Un
uomo anziano, seduto più o meno al centro, leggeva il giornale:
dalla velocità con cui voltava pagina, pensai che si limitasse a
leggere i titoli. Scelsi di sedermi davanti, su un posto in prima fila,
posizione che mi assicurava una visione a centottanta gradi degli
spazi che si aprivano lungo il tragitto verso la periferia. Nulla di
poetico, beninteso, solo un susseguirsi di capannoni ferro-vetro,
enormi, su entrambi i lati della strada. Ma a viaggiare di fantasia, si
poteva immaginare che fossero delle grandi serre piene di piante
di pomodori maturi e profumati.
I fumi densi delle ciminiere formavano una coltre grigia sotto i
banchi di nuvole basse e nere, in un gioco di sfumature tono su
tono. L’aria aveva un odore acido che seccava la narici. Penetrava
dappertutto. Il panorama era desolante, ma tanto mi bastava per
provare un forte senso di libertà davanti a quello spazio
smisurato, e una nostalgia infinita. Ci sono decisioni, nella vita,
che vengono assunte in modo razionale. In quel frangente
pensiamo che siano la scelta più giusta e attribuiamo scarso valore
a quegli aspetti irrazionali, intimi, che, comunque, non ci daranno
mai tregua in futuro, ripresentandosi con un “te lo avevo detto”
nei momenti di maggiore vulnerabilità. Ecco, per me quello era
uno di quei momenti.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
In fondo, alla mia destra, riconobbi il T5, uno dei forni
dell’acciaieria, forse il più grande. Ci lavoravano migliaia di operai,
al Concordia, distribuiti in turni di lavoro massacranti, giorno e
notte, perché quel mostro di fuoco non si spegnesse mai. Ma
loro, i padroni, ci facevano credere di essere, tutti quanti insieme,
una grande famiglia. E per la famiglia, si sa, si fanno sempre
grandi sacrifici.
Mi preparai per scendere. La fermata successiva era la mia,
subito dopo il cancello dello stabilimento. Assieme a me scesero
dall’autobus anche le due donne, io dalla porta anteriore, loro da
quella posteriore. Rallentai perché mi superassero, avere qualcuno
alle spalle mi procura sempre una sensazione sgradevole.
Facemmo giocoforza un tratto di strada insieme, loro qualche
passo davanti a me. Camminavano tenendosi strette a braccetto e
non smettevano mai di parlare, quelle due. Il loro era una
parlottare fitto, concitato. Sono proprio meridionali, dissi fra me
con un pensiero amaro, immaginando che in quel momento
provassero la stessa mia nostalgia.
Svoltai a destra. Il mio appartamento era alla fine della strada,
al secondo piano di un blocco di case a schiera. Scelsi apposta, fra
quelli disponibili, un edificio capofila per godere di una doppia
esposizione: una a sud, per guadagnare un po’ di calore, l’altra a
ovest, da dove avrei potuto ammirare i tramonti.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Su per le scale non incontrai nessuno e di questo fui grata alla
buona sorte: non ero davvero dell’umore adatto per fornire
spiegazioni sull’accaduto. Dalle porte non filtrava né un vociare,
né un rumore; nonostante fosse appena passata la mezza, l’aria
non profumava di cibo cucinato per pranzo. Un estraneo avrebbe
avuto tutte le ragioni del mondo per ipotizzare che l’edificio fosse
disabitato. In realtà, a quell’ora i bambini erano al doposcuola, gli
adulti in fabbrica, e chi aveva terminato le otto ore di lavoro
riposava per riprendere fiato in attesa del turno successivo, come
criceti dentro una ruota che gira all’infinito.
Entrai in casa. Senza nemmeno levarmi il cappotto, feci un
giro di perlustrazione per le stanze - due camere cucina e bagno
distribuiti in cinquanta metri quadri scarsi - per assicurarmi che
tutto fosse a posto. Spalancai le finestre per ricambiare l’aria.
Stavo per esplodere. Dovevo trovare qualcosa da fare che mi
tenesse mente e corpo occupati. Mi concentrai su una fila di libri
di Adriano poggiati su una mensola, riorganizzandoli in ordine
alfabetico, prima per autore, poi per titolo. Non soddisfatta del
risultato, provai a disporli in ordine di grandezza: dal più piccolo
al più grande, poi dal più grande al più piccolo. Mi stufai presto di
quello stupido passatempo. Entrai in bagno e mi applicai a
martoriarmi il viso, di fronte allo specchio, alla ricerca compulsiva
di brufoli inesistenti. Poi ritornò la nausea, la stessa che in
caserma riuscii a ricacciare dentro, questa volta incontenibile. Mi

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
inginocchiai davanti al cesso, abbracciandolo con forza. Restai lì,
aggrappata alla tazza, a vomitare tutta la tensione accumulata nelle
ultime ore. Poi mi buttai sul letto, stremata, ancora col cappotto
addosso, e mi addormentai di un sonno pesante e nero, senza
sogni.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi piaceva piacere. Ero la ragazza più corteggiata di Tùvula e
me la tiravo parecchio: bel viso, corpo tonico, curve giuste,
schiena diritta e sguardo fiero, retaggio familiare, quest’ultimo, da
parte di madre. Possedevo anche una buona dose di narcisismo,
attributo di cui mi prendevo le dovute cure. Al mio paese tutti gli
uomini erano innamorati di me, e se per qualcuno proprio amore
non era, si sarebbe comunque sdraiato volentieri sul mio corpo.
Assecondavo tutto e tutti pur di piacere, volevo essere la donna
giusta per ogni circostanza: brillante, simpatica, disinibita,
esuberante, estroversa, ma anche comprensiva, riservata,
riflessiva, quando necessario. Ero tutto e il contrario di tutto, una
contraddizione in termini nell’inseguire a ogni costo
l’approvazione altrui. Ma, allora, non me ne rendevo conto. E
non potevo nemmeno immaginare che quel comportamento
plastico sarebbe stato la principale causa dei miei guai.
Una sera d’estate, un mio cugino venuto giù per le ferie mi
propose di seguirlo al nord, perché lassù anche per una donna era
facile trovare lavoro. Mi avrebbe ospitato a casa sua, i primi
tempi, sino a quando non fossi stata in grado di gestirmi in
autonomia. Non me lo feci ripetere una seconda volta. Avevo un
diploma di segretaria d’azienda e il mio paese mi stava stretto.
Non che ci stessi male in assoluto, e tutto sommato lì mi sentivo
al sicuro, ma la mia vita non poteva restare relegata in quel
francobollo di terra. C’era dell’altro, al di là delle montagne, c’era

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
altro da fare, nel mondo, oltre le vasche lungo la via principale la
domenica mattina e i balli delle feste campestri. Per giunta ero in
età da marito e le pressioni della mia famiglia affinché mi
scegliessi un bravo ragazzo da sposare cominciavano a pesarmi.
Antonio lavorava come operaio in una grossa acciaieria. Era
anche un delegato sindacale e aveva la tessera del partito
comunista. Dalla sicurezza con cui parlava si capiva che era un
pezzo grosso, uno che contava nel suo ambiente. E con le parole,
poi, ci sapeva proprio fare.
Non riuscì, però, a essere del tutto convincente con i miei
genitori che, in principio, non furono d’accordo con i nostri
progetti. Secondo mio padre, non stava bene che sua figlia, unica
femmina fra cinque maschi, emigrasse in continente per trovare
lavoro, quasi non avesse i mezzi sufficienti per mantenerla, lui.
Cosa avrebbe mai raccontato agli amici in paese? Mia madre,
invece, sosteneva che Milano fosse una città pericolosa per una
ragazza appena maggiorenne e per giunta sola, troppe sparatorie e
troppe bombe. Lei era informata, teneva a rimarcare, perché il
telegiornale lo guardava tutte le sere.
La riluttanza iniziale dei miei sfumò quando il corteggiamento
di Salvatore Sanna, un balordo invischiato in faccende poco
chiare, diventò troppo pressante. Per un maledetto equivoco,
interpretò la mia consueta condiscendenza come segno di resa
alle sue pressanti avance, e un diniego a quel punto avrebbe

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
potuto degenerare in disamistade, inimicizia, fra la mia famiglia e la
sua.
Partii con mio cugino quell’estate stessa, alla fine di agosto, su
un traghetto preso d’assalto da turisti congestionati dal sole e da
conterranei che bruciavano di nostalgia già alle prime operazioni
di disormeggio. Passammo la notte, sistemati alla meno peggio, su
un divano logoro nel bar del ponte superiore, fra odori di
umanità, grida di bambini isterici che non prendevano sonno e
comunicazioni di servizio sparate a tutto volume dagli altoparlanti
incassati nella controsoffittatura dei corridoi.
Tutto mi eccitava, tutto era nuovo per me. L’euforia alle stelle
mi aiutò a sopportare il disagio generale e a tenere sotto controllo
la nausea provocata dal movimento oscillante del traghetto.
Dalla stazione di Genova, la mattina dopo, prendemmo il
primo treno per Sesto San Giovanni e in serata, sfiancati dal caldo
e dai cambi, arrivammo al villaggio operaio dove Antonio
condivideva il suo piccolo appartamento con Adriano, suo
compagno di partito. Non sapevo ancora che quei luoghi
sarebbero diventati la mia nuova casa e quell’uomo la mia
condanna.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi svegliai con i crampi allo stomaco. Non si trattava di
tensione, ero semplicemente affamata. Sprofondare in un lungo
sonno è sempre stato terapeutico per me, una vera e propria
catarsi. La cura funzionò anche quella volta. A parte le ossa
indolenzite dalla posizione fetale trattenuta troppo a lungo, mi
sentivo bene, rigenerata, e anche di buonumore. Mi alzai dal letto
e andai in cucina per fare uno spuntino prima di buttarmi sotto la
doccia. Adriano sarebbe passato da me subito dopo il lavoro e
avevo poco tempo a disposizione.
– Cazzo! – esclamai forte.
Solo in quel momento presi in considerazione l’ipotesi che
anche lui fosse stato preso nel mucchio e portato in caserma. I
carabinieri avevano parlato di una retata in piena regola. Mi diedi
dell’idiota per non averci pensato subito. In ogni caso, non
potevo mettermi in contatto con lui, a quei tempi i cellulari erano
pura fantascienza. Dovevo restare calma e aspettare che si facesse
vivo.
Mi piazzai a cavalcioni su una sedia davanti alla tv e presi a
frugare dentro il sacchetto del fornaio. La doccia, a quel punto,
avrebbe aspettato. Telecomando alla mano, alternavo un morso
di pagnotta a una fetta di prosciutto ripiegata più volte su se
stessa per darle maggiore consistenza. Mangiare mi distraeva e mi
aiutava a tenere saldo il timone dell’ansia, sempre latente, pronta a
esplodere al minimo cedimento. D’altronde, mi chiedevo quasi

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
per rassicurarmi, cosa poteva temere Adriano? A parte qualche
furtarello di matrice politica, non era mai andato oltre la
diffusione di volantini in fabbrica.
A proposito di volantini, in casa ne avevo diversi. Per fortuna,
questo particolare non mi venne in mente mentre i carabinieri
perquisivano l’appartamento, perché altrimenti, inquieta com’ero,
avrei rischiato un infarto oltre che una condanna per
favoreggiamento. Li tenevo dentro un raccoglitore ad anelli, tra le
pezze della banca e le bollette pagate. Adriano aveva l’abitudine di
trattenere per sé una copia di quelli che distribuiva, diceva che
erano frammenti di storia, documenti importanti, comunque
sarebbe andata a finire. In effetti, non aveva tutti i torti. Anni fa
lessi da qualche parte che una serie di volantini contrassegnati
dalla stella a cinque punte era stata battuta all’incanto da
un’importante casa d’asta. Originali stampati al ciclostile, forse
ingialliti dal tempo, trovati in una cantina in mezzo a un mucchio
di cartacce destinate al macero. Certo che i collezionisti sono
gente strana, spazzini del passato disposti a spendere migliaia di
euro per quattro pezzi di carta privi di valore reale.
Adriano arrivò nel tempo di coprire in bici la distanza tra i
capannoni della Breda e il villaggio operaio al via della sirena di
fine turno. Erano da poco passate le diciotto. All’inizio non gli
dissi nulla. Aspettai che parlasse prima lui per capire se gli fosse
accaduto qualcosa di spiacevole. Mi parve tranquillo, stanco come

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
nella norma. Le sue parole non andarono oltre l’ordinarietà di una
giornata spesa in fabbrica davanti a una catena di montaggio,
identica a tante altre.
– Sai, stanotte sono venuti i carabinieri e mi hanno portato via.
– Via dove? – mi chiese allarmato.
– In caserma. Mi hanno interrogata tutta la notte.
Sgranò gli occhi e si levò di scatto dalla sedia, facendola
rovesciare per terra. Volle sapere tutto nei minimi dettagli.
Incalzata dalle sue domande, gli feci un resoconto preciso
dell’accaduto, attenta a mantenere un tono di voce pacato per
non alimentare la sua agitazione. Mi ascoltava in silenzio, senza
smettere di andare avanti e indietro per la cucina, le braccia dietro
la schiena, com’era solito fare quando doveva riflettere su
qualcosa di importante.
– Dove vai? – gli chiesi mentre si infilava il giubbotto.
– Devo fare qualche telefonata.
– La cabina dietro l’angolo è fuori servizio. Devi arrivare in
viale Italia.
– D’accordo.
– Tornerai?
– Non lo so – mi rispose mentre mi dava un bacio affrettato
sulla guancia. – In ogni caso, tu fai le tue cose e non aspettarmi
per cena. Tornerò appena possibile.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Amavo anche questo di lui. Amavo il suo modo di farsi carico
delle responsabilità che assumeva, il forte senso del dovere, la
totale dedizione verso una causa che era diventata ragione della
sua vita. Non mi sentivo messa da parte per questo, anzi. Adriano
era una persona speciale, sapeva il fatto suo - un po’ come me, o
come mi illudevo di essere - e tanto mi bastava per farmi sentire
orgogliosa di lui.
La mia serata proseguì senza altri colpi di scena: una spazzata
al pavimento, una doccia calda, finalmente, e un piatto di
spaghetti per cena. Mi concessi solo mezz’ora di tv prima di
andare a dormire, ché l’indomani sarei tornata al lavoro e
intendevo presentarmi in perfetta forma fisica.
Lui quella sera non tornò.

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dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Antonio mi organizzò un colloquio di lavoro con il suo
direttore del personale. Erano in ottimi rapporti, loro due.
D’altronde, in quegli anni i delegati sindacali rivestivano un ruolo
chiave all’interno delle fabbriche, mediatori preziosi nella
risoluzione delle istanze dei lavoratori.
Optai per un abbigliamento sobrio, sui toni del marrone, e un
filo di trucco, giusto il tanto per nascondere il pallore di una
influenza incipiente. Imprigionai i capelli, sempre troppi e
indomabili, dentro un berretto di lana e mi avvolsi il collo con un
triplo giro di sciarpa. Mancava un quarto alle quattordici quando
uscii di casa.
Il cielo era scuro, così basso e pesante che sembrava dovesse
precipitare da un momento all’altro; la nebbia, talmente densa da
poterla afferrare con le mani, rendeva tutto indistinto, opacizzato.
Sui lati della strada si intravedevano piccoli mucchi di neve mista
a fango. Nell’aria si percepiva, leggero ma acre, l’odore di
ammoniaca rilasciato da un’azienda chimica nei paraggi.
Faceva freddo e piovigginava, ma per fortuna non dovevo fare
molta strada e non correvo nemmeno il rischio di perdermi.
Antonio mi disse di costeggiare il muro che separava la fabbrica
dal villaggio. Non c’era da sbagliare. L’acciaieria occupava un’area
smisurata alla periferia di Sesto. A ridosso, senza soluzione di
continuità, negli anni Cinquanta fu costruito il villaggio operaio
per offrire un alloggio economico ai tanti immigrati attratti dalla

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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
prospettiva di un lavoro sicuro. Quel muro di mattoni costituiva
l’unico elemento di separazione tra vita privata e lavorativa delle
famiglie operaie.
L’appuntamento era stato fissato a cavallo fra due turni di
lavoro, lo capii quando arrivai in prossimità della cancellata. Fui
risucchiata dentro una massa di uomini in tuta blu che avanzava
disordinata per guadagnare l’uscita. Procedendo controcorrente
rispetto al loro senso di marcia, incrociavo corpi appesantiti dalla
fatica, visi congestionati dal troppo calore respirato per otto ore
filate a squagliare metallo, sguardi bassi come di chi ha appena
ricevuto una cattiva notizia. Era un lavoro sporco e monotono, il
loro, che imponeva la ripetizione continua dello stesso gesto,
spiato e cronometrato dal capo reparto, perché in fabbrica la
produttività veniva sempre prima del benessere e della salute dei
lavoratori.
Scoprii presto che a muovere quella processione di corpi lungo
viale Italia, in una direzione o in quella inversa, a seconda dei casi,
e a scandirne i ritmi della giornata erano le sirene delle fabbriche
che annunciavano la fine di un turno e l’inizio del successivo, in
un ciclo infinito e inarrestabile.
Riuscii a guadagnare terreno, scansando quei corpi molli e
sfiancati, sino ad arrivare in prossimità del caseggiato che ospitava
gli uffici amministrativi. Tinteggiato di rosa e disposto su due
piani, l’edificio offriva l’unico tocco di umanità in quel girone

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Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
infernale. In alto, tra le due falde del tetto, spiccava a grandi
lettere in rilievo il nome della fabbrica, lo stesso del fondatore.
Entrai. Gli interni erano curati e l’ambiente confortevole, si
percepiva un delicato profumo di lavanda e gli spessi muri
perimetrali impedivano al rumore esterno, assordante e metallico,
di disturbare quel clima ovattato.
Fui accolta con garbo di circostanza dal direttore del
personale, un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta. Il
colloquio fu breve ed essenziale, poco più di una formalità. Mi
fece firmare un contratto di tre mesi per sostituire un’impiegata
che per motivi familiari aveva chiesto un periodo di aspettativa.
L’assunzione a tempo indeterminato scattò subito dopo. Con una
qualifica di impiegata di quinto livello, fui accolta nella grande
famiglia della più importante acciaieria italiana.
Feci un breve periodo di affiancamento con Marisa, la capo
contabile, una donna dai modi ruvidi che non perdeva occasione
per mettere in evidenza l’efficienza dei suoi metodi di lavoro e,
nel contempo, la mia goffaggine. Solo quando lei ritenne che
l’apprendistato potesse considerarsi concluso, mi fu assegnata una
scrivania tutta mia in un ufficio in fondo al corridoio del secondo
piano, dirimpetto alla direzione del personale. La stanza, ampia e
luminosa, aveva soffitti alti decorati con stucchi finto stile liberty
e una finestra a doppia anta dalla quale si scorgeva il T5, il grande
forno, che per imponenza e forma architettonica richiamava la

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
facciata di una cattedrale. Avrei condiviso quello spazio con
Milena, di qualche anno più grande di me. Il mansionario che mi
fu consegnato prevedeva una serie di attività che non
richiedevano particolari competenze, se non la precisione
certosina di trascrivere in bella grafia su un grosso registro verde
una sfilza di numeri ricavati dai bollettari.
Milena fu anche la mia prima amica. Fu lei ad aprirmi le porte
alle relazioni sociali in una città dove mi sentivo una perfetta
estranea. Abitava a Sesto con i suoi genitori, in una casa di
ringhiera di un quartiere residenziale. Era di una spanna più alta
di me e sottile come una canna di giunco. La pelle, bianchissima,
lasciava trasparire ramificazioni gonfie e bluastre sul dorso delle
mani ossute. Socievole ma nello stesso tempo riservata, parlava
poco di sé e molte cose su di lei le appresi nel tempo. A dispetto
della sua corporatura, aveva una voce bassa e potente, quasi
baritonale, in netta dicotomia con quella struttura esile che
richiamava la grazia di un fenicottero.
Prendemmo l’abitudine di andare al cinema, io e lei, tutti i fine
settimana. La prima volta che entrai in una sala, la prima in
assoluto in vita mia, restai folgorata dalla sorpresa. Quel piccolo
mondo dominato dal grande schermo, dove le voci e i suoni si
propagavano amplificati in ogni direzione e ti avvolgevano fino a
trascinarti dentro una storia sempre diversa, presto si tramutò in
vero amore.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mossa da quella nuova passione, convinsi Milena a iscriverci in
un cineforum affiliato a una sezione del Pci. Ogni giovedì sera era
prevista la proiezione di una pellicola a tema. L’ambiente era
spartano, le sedie scomode e l’audio disturbato dal ronzio del
proiettore piazzato su un treppiedi alle nostre spalle. Non avevo
un particolare interesse per quel genere di film, sempre a sfondo
sociale e troppo impegnati per i miei canoni, ma l’ingresso
gratuito era un’ottima ragione per assistere alla visione di certi
mattoni per i quali non avrei speso manco cinque lire. D’altronde,
ai quei tempi la politica si respirava dovunque: nelle scuole, nelle
università, nelle fabbriche, nelle periferie, nelle piazze, come pure
fra le donne, gli studenti, i lavoratori. La politica si manifestava
nelle letture, nel modo di vestire, negli interessi, persino nello
sport preferito delle persone. Il tennis, per esempio, era uno sport
di destra, riservato ai borghesi, il calcio e la boxe di sinistra; gli
scarponcini scamosciati erano di sinistra, i mocassini di destra.
Ci trattenevamo anche per il dibattito finale, non per reale
interesse, anzi, quelle chiacchiere mi procuravano parecchi
sbadigli, ma che si facessero di me l’idea di una ragazza
superficiale che andasse lì solo per guardare un film a scrocco,
fatto peraltro vero, proprio non mi andava giù.

Un giorno Milena mi propose di andare a mangiare qualcosina


con alcuni suoi amici. Gente simpatica e alla mano, mi disse, ti

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
troverai bene. Ricordo che era di sabato. Ci trovammo alle venti
alla solita fermata del 701, e da lì raggiungemmo a piedi la pizzeria
“Vesuvio”.
Il locale aveva l’aspetto di un tunnel illuminato a giorno da una
sfilza di lampade al neon. In fondo al corridoio centrale, tra le due
file di tavoli addossati alle pareti, tre uomini infarinati e madidi di
sudore si davano un gran da fare dietro un lungo bancone di
marmo protetto da pannelli trasparenti. Alle loro spalle si apriva a
mo’ di cratere la bocca del forno a legna, enorme. Dagli
amplificatori della filodiffusione uscivano le note smielate di una
canzone napoletana.
Una parte della comitiva aveva già preso posto a sedere. Io e
Milena occupammo due sedie affiancate fra quelle ancora libere.
La sorte decise che la mia postazione fosse perfettamente
speculare a quella di Adriano. Nonostante entrambi fossimo
ancora ospiti di Antonio, le rare volte che lo incrociai dentro casa
non andammo mai oltre un saluto fugace e qualche frase di
circostanza tra la cucina e il corridoio.
Quella sera, in pizzeria, fu la prima volta che lo guardai
davvero. Aveva i capelli rossi tagliati cortissimi e le sopracciglia
folte; ai lineamenti del viso, decisi e affilati, facevano da contrasto
tante minuscole lentiggini brune. Lo sguardo restava serio,
immutabile, anche quando sorrideva, come se avesse sempre
qualcosa di troppo importante a cui pensare. A un certo punto mi

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
resi conto che lo stavo osservando con sfacciata insistenza,
mentre lui cercava un appiglio attorno a sé per eludere il mio
sguardo. Continuai a fissarlo per tutto il tempo, catturata da quel
volto curioso e nello stesso tempo intrigante, senza curarmi del
suo evidente imbarazzo. Seduti l’uno di fronte all’altra, non ci
rivolgemmo mai la parola. Quando uscimmo dalla pizzeria, senza
dircelo facemmo la strada di casa insieme, in silenzio e con i
pugni in tasca. L’aria mi pungeva il viso. A metà tragitto si voltò
di scatto verso di me e mi baciò, e io lo baciai, come se fosse la
cosa più naturale che potessimo fare. Continuammo a baciarci
per tutto il tempo, fin sotto casa. Quella stessa notte, e per tutta la
notte, facemmo l’amore. E da allora decidemmo di stare insieme,
senza dircelo.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Erano le tre del mattino quando il campanello di casa suonò.
Balzai giù dal letto e corsi ad aprire la porta senza nemmeno
mettermi addosso la vestaglia. Ero certa che fosse Adriano.
Mi trovai di fronte gli stessi tre carabinieri della notte
precedente. Tenni botta e li feci entrare senza dire nulla, perché
nulla c’era da dire. Mi misero fra le mani un foglio che non lessi,
forse un mandato di perquisizione o qualcosa di simile, e
iniziarono a girare per la casa, proprio come il giorno prima,
stanza dopo stanza. Ogni tanto il loro sguardo indugiava su un
oggetto a caso, come se al suo interno cercassero le prove dei
miei crimini. Aprirono e chiusero le stesse ante e gli stessi cassetti
che avevano aperto e chiuso la notte prima. Li lasciai fare,
chiedendomi se poi li avessi dovuti seguire ancora una volta in
caserma. Il fatto che continuassero a rovistare senza dire una
parola mi faceva ben sperare.
Andai in cucina e misi sul fuoco un pentolino d’acqua. Da un
cassetto della credenza sfilai il raccoglitore ad anelli. Decisi di
mettere in pratica la stessa strategia che utilizzavo con mia madre
per sviare i suoi sospetti da qualcosa: mettergliela sotto il naso. Mi
sedetti su una sedia e presi a sfogliare il corpo del reato,
fingendomi occupata a sistemare qualche foglietto fuori posto. I
volantini di Adriano erano ben nascosti fra gli estratti conto della
banca. L’espediente funzionò perché i tre non mostrarono
interesse verso il mio armeggiare in quel portadocumenti. Si

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
trattennero poco, giusto il tempo che l’acqua andasse in
ebollizione, ma abbastanza per farmi perdere il sonno.

Mentre inzuppavo le gallettine nella camomilla bollente


cercavo di dare un senso a quella seconda perquisizione, ma
davvero un senso non riuscivo a trovarlo. Quel modo di rovistare
così sbrigativo mi suonava strano, come se in realtà non
cercassero niente. Poi mi venne il dubbio che, piuttosto che
cercare qualcosa, cercassero qualcuno. Feci mille congetture.
Immaginai che Adriano fosse stato denunciato da un suo collega
per via dei volantini. Per non parlare, poi, di quei maledetti
espropri proletari, come li chiamava lui. Forse qualcuno l’aveva
riconosciuto. Una volta ne parlammo, io e lui, dei rischi che
avrebbe potuto correre se lo avessero scoperto. Partecipazione a
banda armata o, nella migliore delle ipotesi, favoreggiamento. In
entrambi i casi, il carcere era assicurato.
Uscii di casa molto presto, sentivo il bisogno di prendere una
boccata d’aria per scacciare via i pensieri negativi. Mi preparai
velocemente e imbucai la porta senza nemmeno curarmi di
controllare le manopole del gas. Quando arrivai in strada, però,
mi resi conto che era troppo presto per presentarmi in ufficio.
Quell’eccessivo anticipo avrebbe potuto destare curiosità, se non,
peggio ancora, qualche sospetto. Per fare orario, decisi di
gironzolare nei paraggi. Era ancora buio. A oriente i primi

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
barlumi dell’alba si percepivano appena. Mi lasciai guidare per le
strade del villaggio dalla luce complice dei lampioni. Lungo la
strada principale incrociai una donna imbacuccata in un pesante
cappotto scuro. Al suo passaggio fui raggiunta da un delicato
profumo di pane appena sfornato. Indugiai qualche attimo,
solleticata da quella fragranza ancora sospesa nell’aria, indecisa se
fare anch’io un salto nella panetteria di Mariano. Proseguii per i
miei passi.
Quella mattina, per la prima volta, mi soffermai a osservare
meglio l’architettura del villaggio, a cui non avevo mai prestato
particolare attenzione. Non si potevano definire brutte case, anzi,
erano ben costruite, solide e confortevoli; semmai erano troppo
rigorose nelle loro forme squadrate e nei colori spenti degli
intonaci. Non ricordo di avere mai visto l’azzurro intenso del
cielo o il verde brillante dei prati, né lì, né altrove: forse erano
colori troppo impertinenti e sfacciati per quei luoghi. Dominava il
grigio, nelle sue differenti sfumature. Tutto era grigio come la
pelle di un tabagista incallito. Erano grigie anche le persone,
sempre misurate, taciturne, quasi intendessero mantenere un
profilo basso per non creare disturbo, ospiti di una città che
garantiva loro un lavoro, ma che non gli apparteneva. Avevano
una casa dove dormire, certo, e tutto sommato conducevano una
vita dignitosa, ma quasi mai sorridevano. Ho sempre pensato che
quel villaggio operaio, costruito come un prolungamento naturale

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
della fabbrica, avesse la funzione precisa di controllare anche la
vita privata di quella piccola comunità, api operaie indotte a
condividere spazi, consuetudini e appartenenza sociale. Ogni
giorno il lavoro in fabbrica rubava loro brandelli di vita; nei loro
occhi era frequente leggere la rassegnazione di un’esistenza
ordinaria dedita al sacrificio e alla fatica, quasi che il loro fosse un
destino irreversibile. Chissà, forse non era del tutto sbagliato
sognare un mondo migliore e più giusto anche per loro, come
spesso mi diceva Adriano.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Raggiungimi in bagno. Ti devo parlare.
Milena mi sfiorò la schiena con una mano mentre passava alle
mie spalle per guadagnare la porta. La seguii con lo sguardo senza
capire il motivo del suo tono grave. Quella mattina era strana,
diversa dal solito, sembrava di cattivo umore. Ogni tanto mi
lanciava uno sguardo veloce dalla sua scrivania, come se volesse
indagare nei miei pensieri. Chissà, forse anche io quella mattina
apparivo strana ai suoi occhi, percepiva la mia preoccupazione e
provava a capirne i motivi. Da due giorni non avevo notizie di
Adriano. Lasciai trascorrere una decina di minuti prima di
raggiungerla.
Era seduta per terra, la schiena lunga contro il muro e le
gambe raccolte sul petto, accanto alla finestra aperta del bagno. Si
accese una sigaretta.
– Hai incrociato qualcuno lungo il corridoio?
– No – risposi meravigliata della domanda.
– Chiudi la porta.
– Mi spieghi quest’aria da mistero?
– Sai qualcosa di ieri notte?
– A cosa ti riferisci?
– Ieri notte c’è stata una retata a Sesto, la seconda in due
giorni. Molti compagni sono stati trattenuti in caserma.
– Ma di cosa parli? – domandai.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Quando una situazione è poco chiara è buona norma non
sbilanciarsi mai troppo e fare in modo che sia l’interlocutore a
esporsi per primo. È una regola che dalle mie parti si impara
presto, e che applicai in quel frangente.
– Senti, non te lo dovrei dire, ma è giusto che tu lo sappia.
Adriano è entrato in clandestinità.
– Ma che significa? Tu come lo sai?
– Lo so e basta.
– Adesso è un latitante?
– Non poteva fare altrimenti. Un collega l’ha denunciato.
Solo allora mi resi conto che, per quanto ci frequentassimo da
due anni, della vera Milena sapevo ben poco. Chi era in realtà
quella ragazza che si abbigliava da educanda, come le dicevo, per
sfotterla, quando esagerava con i toni pastello? Che cantava nel
coro della parrocchia e amava leggere romanzi d’amore, che
sognava il principe azzurro e che mai e poi mai l’avrebbe data
prima del matrimonio? Non potei fare a meno di chiederglielo.
– Io non sono nessuno.
– Non raccontare balle. Come fai a sapere queste cose?
– Non adesso. Ne riparleremo in un altro momento.
Si accese un’altra sigaretta. Era sorprendente quanto riuscisse a
trattenere il fumo dentro i polmoni, in apnea, quasi volesse
prolungare il piacere il più a lungo possibile. Quando espirava,
una nuvola biancastra ristagnava nell’aria attorno al suo viso e lei,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
con la mano, la scacciava con lo stesso gesto con il quale si
allontana una mosca. Spense la cicca per terra, finendo di
spappolarla con il tacco della scarpa. Si alzò, mi diede una lieve
carezza sulla guancia e senza aggiungere altro uscì dal bagno,
lasciandomi lì, impalata come una deficiente.
Ero frastornata. Cominciavo a percepire una sensazione di
pericolo. Senza rendermene conto, mi ero cacciata in una
situazione complicata, coinvolta in una rivoluzione che a me,
davvero, non interessava. Dovevo reagire e trovare un modo per
starne fuori.
Tornai nel mio ufficio e per tutto il giorno non le rivolsi né
uno sguardo, né una parola. Decisi che, da quel momento in poi,
Milena ai miei occhi sarebbe diventata invisibile. Non mi
interessava sapere altro da lei. Provavo una profonda rabbia: nei
suoi confronti, perché non era stata sincera; verso me stessa, che
in tutto quel tempo mi ero lasciata trascinare dagli eventi senza
assumere mai una posizione precisa.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Erano da poco passate le diciotto. Al suono della sirena vidi
arrivare in ordine sparso i primi operai specializzati:
camminavano rapidi, con ampie falcate, come impazienti di
raggiungere l’uscita. Subito dietro di loro, gli amministrativi,
impeccabili nei loro abiti da grande magazzino. Superati i cancelli,
si ammassavano a grappoli sulla carreggiata di viale Italia, sempre
più numerosi, aprendosi a ventaglio un attimo prima di
disperdersi, a piedi o in sella a una bici, ciascuno per la propria
strada. Era una babele di storie e di dialetti diversi, dove le parlate
meridionali, mischiate a quelle venete e delle valli, sembrava che
formassero una lingua nuova, universale.
Mi spostai dall’altro lato della strada per guadagnare visuale,
dirimpetto ai cancelli della fabbrica. I fari piazzati ai lati della
cancellata creavano due potenti coni di luce che, incrociandosi,
illuminavano a giorno un ampio tratto di marciapiede. Da quella
posizione avrei individuato Antonio senza difficoltà. Infatti, lo
vidi superare il cancello e gli andai incontro.
– Lena! Come mai sei già fuori?
– Ho chiesto mezz’ora di permesso per aspettarti all’uscita.
– Hai una faccia… Che ti succede?
– Non qui.
Iniziai a rilassarmi quando ci ritrovammo soli, dentro la sua
macchina parcheggiata lungo una stradina laterale del viale ancora
affollato. Distesi la schiena e allungai le gambe, irrigidite dal

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
freddo. Sentii la tensione sciogliersi lenta. Il buio dell’abitacolo mi
facilitò il compito di raccontargli tutta la verità.
– Perché non mi hai mai detto che stai con lui?
– Adriano pensava che fosse prematuro fartelo sapere e io gli
ho dato retta.
– Ma tu hai idea di quanto sia pericolosa la situazione? – mi
disse, scuotendomi forte il braccio con la mano tanto da farmi
male.
– Forse non del tutto.
– Bene, allora te lo spiego bene io. Questi sono tempi difficili,
in cui bisogna decidere da che parte stare.
– Parli come se io avessi deciso qualcosa.
– Lena, tu hai una storia con una persona che ha sempre avuto
simpatie per i sovversivi. Ora, addirittura, è diventato uno di loro,
un regolare. Sai che significa?
– Credo di sì.
– Quella tipa, poi, la tua collega, se è a conoscenza di certi
fatti… Stanne alla larga.
Antonio si accese una sigaretta e si schiarì un paio di volte la
gola, quasi volesse caricare di pathos quel momento. Fece qualche
tirata prima di aprire bocca. Lo strappo con Adriano avvenne sei
mesi prima. Fino ad allora aveva sempre soprasseduto alle sue
posizioni troppo accondiscendenti verso le ragioni della lotta
armata. Che gli operai avessero diritto a migliori condizioni di

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
lavoro dentro le fabbriche era legittimo, se ne poteva discutere,
mi spiegò, ma da qui a imbracciare le armi... I loro erano punti di
vista differenti, passavano intere nottate a confrontare le
rispettive ragioni, senza per questo mettere in discussione
l’amicizia che li univa. Una mattina, alcuni colleghi videro
Adriano piazzare uno di quei maledetti volantini negli spogliatoi
della fabbrica. La notizia, sussurrata di bocca in bocca, arrivò
presto negli ambienti del sindacato. Anche Antonio lo venne a
sapere. Decise, così, di affrontarlo. Lo fece la sera stessa, a casa.
Non lo avrebbe denunciato, gli disse, per amicizia innanzitutto,
ma anche per timore di fare la stessa fine di Guido, il compagno
ammazzato a Genova l’anno prima. Convennero che la
convivenza fosse ormai incompatibile con l’abisso che si era
creato fra loro. Entrambi avevano deciso da che parte stare, in
maniera netta, e si trattava di scelte opposte. La mattina dopo
Adriano fece le valigie e lasciò la casa di Antonio.
– Devi cambiare aria per un po’. Domani andrò a parlare con
Baggiani, è una brava persona, lo conosco bene. Mi farò spiegare
la tua situazione.
– Mi ha detto di non allontanarmi da Sesto. Pensi che potrò
tornare lo stesso a casa per Natale? Ho già il biglietto…
– Domani lo sapremo. Prepara la valigia e tieniti pronta, in
ogni caso. Se tutto andrà come spero, ti accompagnerò io stesso
alla stazione.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Nei periodi di festa i traghetti che collegano la Sardegna al
continente sono presi d’assalto da chi, come me, vive la
condizione cronica di immigrato nostalgico e approfitta anche di
pochi giorni di ferie per tornare al proprio paese. Feci i biglietti
con un buon margine di anticipo: un posto in seconda classe sul
diretto Milano Genova, poi la lunga traversata giù sino alla mia
terra. Comprai anche dei regali: alcuni importanti, per i miei
familiari, altri di valore simbolico, per qualche antica amicizia che
continuava a resistere, nonostante la distanza e le rare occasioni di
incontro.
Nel mio paese il dono assume significati che vanno oltre il
mero messaggio di amicizia e di affetto che in genere gli viene
attribuito. Ricevere un dono, come pure non riceverlo, viene
considerato un fatto sociale, strumento che unisce o divide
persone e gruppi, che rafforza o annulla legami all’interno di una
comunità. Anche la più feroce disamistade tra due famiglie può
essere sanata, d’un colpo solo, con il semplice atto di donare
qualcosa, e che il gesto derivi da un interesse personale o da un
obbligo sociale ha scarsa rilevanza. Per quanto mi riguarda, fare
regali era il mio modo per custodire legami e relazioni, per
sentirmi e farmi percepire ancora parte viva della comunità in cui
ero nata e in cui avevo vissuto sino a due anni prima.
Sistemai con cura i pacchetti fra un indumento e l’altro, per
evitare che qualche scossone potesse danneggiare quelli più fragili

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
durante il viaggio. Mi infilai il cappotto, diedi un’ultima
controllata alle manopole del gas e uscii di casa trascinandomi giù
per le scale una valigia pesantissima, manco l’avessi caricata di
sabbia. Antonio era già arrivato, riconobbi il rombo della sua auto
smarmittata mentre scendevo le scale.

L’inserviente mi accompagnò in cabina, una doppia esterna in


esclusiva. Con un inconfondibile accento campano tenne a
precisare che il mare era calmo e che saremo arrivati al porto di
Olbia in perfetto orario. Mi colpì quella premura. Forse colse una
certa mia apprensione, che imputò alla traversata, e si sentì in
dovere di tranquillizzare una giovane donna, per giunta sola. Lo
ringraziai e mi chiusi dentro. Da lì non sarei uscita sino
all’indomani mattina.
Dei traghetti non sopporto la puzza. È inconfondibile, unica,
un misto di gasolio, olio bruciato e cera che ti assale non appena
superi la scaletta di imbarco; ti insegue dovunque, ti tallona anche
nei ponti esterni, quando cerchi rifugio nel profumo di salsedine e
nel vento di maestrale. È un odore che penetra così in profondità
nei vestiti e nella pelle che continuo a percepirlo a distanza di
giorni. L’esperienza mi ha insegnato che l’unico rimedio per
sconfiggerlo è quello di sigillarsi dentro una cabina e munirsi di
un buon deodorante per profumare l’ambiente.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi organizzai come se dovessi partire per un campeggio
selvaggio, autosufficiente in tutto e per tutto: fornelletto a gas e
moka per la colazione, pane e companatico per cena, due banane,
acqua e un quarto di vino rosso che avevo travasato in una
bottiglietta di vetro.
Qualche ora più tardi il traghetto cominciò a beccheggiare.
L’oscillazione, per quanto lieve, aveva un significato
inequivocabile: eravamo lontani dalla costa. Mi lasciai andare a un
lungo sospiro di sollievo. Non era tanto la distanza fisica in sé a
procurarmi benessere, quanto piuttosto quella condizione
mentale alla quale ti disponi quando un pericolo si allontana e ti
senti al sicuro.
Io con quella rivoluzione non avevo proprio nulla a che
vedere. Lo stesso Baggiani non manifestò dubbi al riguardo. Fu
chiaro con Antonio: le perquisizioni e l’interrogatorio avevano
avuto lo scopo di stanare Adriano, verso cui c’erano forti sospetti,
ma non elementi di prova sufficienti per incastrarlo.
Quella notte, nonostante mi sentissi al sicuro e in pace con il
mondo, non riuscii comunque a chiudere occhio.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Fui svegliata di soprassalto da un fastidioso acciottolio di
piatti. Mi ci volle qualche frazione di secondo per realizzare dove
fossi e da dove provenisse quel fracasso. Sorrisi alla solita vecchia
tattica di mia madre per buttarmi giù dal letto: funzionava ancora.
Passai in rassegna il mobilio della stanza: l’armadio a due ante,
il cassettone, lo scrittoio, due sedie, il letto sul quale giacevo, così
alto da terra che per saltarci su dovevo mettermi sulle punte dei
piedi e fare leva con i palmi delle mani sul materasso. Fu un
lascito di una sorella di babbo che, prima di piegarsi alle
tentazioni della carne, fece voto di castità in segno di devozione
alla Madonna. Austero, di legno scuro e massiccio, conferiva alla
stanza l’aspetto di una cella monastica.
Le persiane accostate lasciavano filtrare un raggio di sole che
attraversava la coperta di lana lavorata ai ferri e proseguiva la
corsa lungo la parete di fianco al letto. A guardare bene dentro
quella sottile lama di luce, riuscivo a inseguire le traiettorie del
leggero pulviscolo sospeso nell’aria, in perenne movimento.
Mia madre, giù in cucina, borbottava qualcosa fra sé mentre
continuava ad armeggiare con le stoviglie. Un certo languorino e
il profumo di sugo di pomodoro fresco - quello buono che solo
lei sapeva fare, cotto a lungo e a fiamma bassa - mi spinsero a
tirarmi su dal letto e raggiungerla dabbasso.
– Cos’è questa storia che la notte non dormi?

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Stress, credo – le risposi mentre intingevo un pezzo di pane
nel sugo che sobbolliva sul fornello acceso.
– Tu lì non ci dovevi andare. Sei deperita. Hai il colorito di un
morto.
– Non esagerare. È solo stanchezza. Dov’è babbo?
– Arriva a momenti. È andato a fare legna in montagna.
– E gli altri?
– I tuoi fratelli? Dove vuoi che siano? In campagna. Anche
loro arrivano a momenti. Comunque, Lena, non cambiare
discorso.
– Ti ho già risposto. Ho solo bisogno di riposo e di aria
buona.
– Sarà… Più tardi però vado a comprare il parasangue di
cavallo. Hai bisogno di una bella cura ricostituente.
– È appena arrivata e già la tormenti? – l’ingresso di mio padre
fu provvidenziale. Interruppe sul nascere la solita pappardella di
mia madre sugli effetti terapeutici del succo della carne equina
cucinata a bagnomaria.
– Compra delle grosse bistecche con l’osso, invece del
parasangue, che babbo stasera ce le prepara alla brace.
Per tutta risposta mia madre mi girò le spalle e proseguì nelle
sue faccende, ignorando la mia proposta.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
L’atmosfera natalizia si percepiva in tutto il paese. I camini
pompavano legna dalla sera alla mattina e l’aria era pregna di
quell’odore di affumicato, tipico dei paesi di montagna in inverno.
Le donne più affiatate fra loro si organizzavano in piccoli gruppi
per cooperare nella preparazione di pasta, pane e dolci
tradizionali. Deciso il luogo dove riunirsi, si disponevano al
lavoro e alle chiacchiere attorno al grande tavolo della cucina,
l’una accanto all’altra. La ripartizione dei compiti era precisa,
l’esecuzione rigorosa: una ben collaudata catena di montaggio su
scala ridotta. Si trattava di momenti di socialità molto forti,
importanti per rafforzare legami e dissipare piccoli screzi.
Quella volta non mi sottrassi al lavoro di gruppo, come avevo
sempre fatto in passato, e chiesi a mia madre di partecipare alla
preparazione della pasta tipica del mio paese. È una pasta simile ai
maccheroni, dai quali prende il nome, ma dal diametro più sottile.
Ci riunimmo un pomeriggio nella cucina della mia casa familiare.
Mia madre, la più esperta del gruppo, si preoccupò di lavorare
l’impasto, stirandolo con le mani prima in un verso, poi nell’altro,
con un’energia sorprendente. Io e le altre tre donne del gruppo,
due parenti e una vicina di casa, ci occupammo di dare forma ai
maccarrones, modellandoli da pezzetti di impasto grandi quanto
uno gnocco. L’abilità di ciascuna di noi consisteva nel rispettare
lunghezza e spessore stabiliti. Non si parlava molto, giusto veloci
scambi di battute sulle recenti vicende paesane. Il lavoro

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
richiedeva la massima concentrazione. Porto ancora un vivido
ricordo del clima di complicità che si innescava fra di noi in quei
momenti, dentro quella stanza dove tutto profumava di buono e
la bellezza delle cose semplici ti scaldava il cuore: le pentole di
rame appese alle pareti in ordine di grandezza, gli utensili da
cucina in legno di ulivo, le erbe aromatiche e officinali, il forno a
cupola ricavato in un angolo, fra due pareti imbiancate a calce
perché, si sa, la calce disinfetta e tiene lontane le formiche.

Trascorsi le mie vacanze tra alti e bassi, con picchi di


buonumore alternati a fasi di profonda tristezza. Quella
particolare fragilità mi disponeva a una visione romantica di
alcuni aspetti del mio paese che avevo sempre odiato, ritenendoli
corresponsabili di una certa chiusura mentale. Rivalutai quelle
montagne, così impenetrabili e aspre, quella lingua antica, che
solo noi siamo capaci di parlare e capire, quella lentezza, che non
è indolenza, ma prendersi il tempo giusto per dare valore anche ai
gesti più semplici.
La notte non dormivo. Immobile sul letto, gli occhi sbarrati,
facevo i conti con i miei demoni. Adriano, innanzitutto. Mi
mancava. Mi chiedevo se l’avrei più rivisto. Pensare a lui mi
procurava sofferenza, ma anche rabbia e delusione. Aveva fatto la
sua scelta, estrema e irreversibile. Aveva deciso di seguire i suoi
ideali, tanto nobili e grandi da non lasciare spazio a nient’altro,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
tantomeno a me. Era sparito nel limbo della clandestinità, di
colpo, senza nemmeno un cortese vaffanculo di commiato. Mi
sentivo spiazzata e desolatamente sola. In futuro avrei potuto
contare solo su Antonio, mio cugino. Cancellati Adriano e Milena
dalla mia vita, a Sesto non avevo nessun altro che potessi
considerare amico o di cui mi potessi fidare.
La risalita dagli abissi cominciava lenta ai primi bagliori
dell’alba, e solo allora riuscivo a prendere sonno; quando il sole
era alto, al mio risveglio, avevo riacquistato vitalità sufficiente per
dispormi al nuovo giorno con una buona dose di ottimismo,
come se quella sfera incandescente avesse il potere magico di
trasferire su di me parte della sua energia.

Il giorno prima della mia partenza decisi di salire in montagna


con mio padre. La sveglia trillò alle sei in punto. Nonostante non
ne avessi bisogno, presi l’abitudine di puntarla tutte le notti. Era
un espediente per non alimentare discussioni con mia madre,
sempre all’erta sul mio stato di salute.
Quando andai giù in cucina, trovai mio padre che si dava da
fare a sistemare alcuni arnesi dentro uno zaino. Tra una sorsata di
caffellatte e l’altra, sollevavo gli occhi per osservare i suoi gesti.
Nonostante avesse mani ruvide e callose, il suo tocco sembrava
una carezza su quegli attrezzi da lavoro, quasi maneggiasse
qualcosa di frangibile e prezioso.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Montammo sulla vecchia jeep che era già chiaro. Da tre giorni
tirava un vento teso di tramontana. Il cielo era di un azzurro
assoluto. Il paesaggio che si apriva di fronte a noi era
perfettamente definito nei contorni, tanto da riuscire a
distinguere, a distanza, le falesie che precipitano a valle sul
costone orientale del monte e alcuni ruderi in pietra, tracce di un
antico passato nuragico.
Ci allontanammo dal paese tagliando per una stradina sterrata
che puntava diritta verso la periferia, proseguiva per alcuni
chilometri attraverso i campi coltivati a cereali, per poi
restringersi, sin quasi ai limiti della percorribilità, alle pendici del
monte. L’odore di formaggio dentro l’abitacolo mi dava la nausea,
tanto da costringermi a tenere il finestrino socchiuso per l’intero
viaggio nonostante l’aria mi pungesse il viso. Profumo di soldi, mi
corresse mio padre con una strizzata d’occhio quando gli suggerii
di lavare più spesso la macchina, stando a intendere che quello era
il frutto del suo lavoro e l’unica fonte di reddito della famiglia.
L’ovile si apre su un piccolo terrazzamento perfettamente
piano a ridosso della parete di roccia calcarea, seminascosto da
una fitta vegetazione di lecci e ginepri. Da quel punto, e in
giornate terse come quella, lo sguardo si allunga sull’intera vallata
sino ai tetti del paese, perfettamente distinguibili se si è dotati di
vista acuta.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Dopo aver misurato la stagionatura di alcune forme di
formaggio con sonori colpi di nocca sulla crosta, mio padre si
mise a lavorare sodo su un tratto di staccionata corrosa dalle
intemperie. Il sole era ancora basso e la brina della notte non si
era sciolta del tutto fra gli arbusti in ombra. In attesa che la
giornata si scaldasse di qualche grado, ne approfittai per
guadagnare tepore fra le pietre e i tronchi di ginepro della pinnetta
di nonno Bastiano.
Lo ricordo bene. Era alto, imponente, e i suoi capelli,
bianchissimi, facevano un tutt’uno con la lunga barba,
perfettamente curata. Profumava di muschio. Ricordo anche la
sua storia; tutti, in Barbagia, conoscono la storia di Bastiano
Pinna. Era poco più che un ragazzino quando decise di mettersi
in proprio, affrancandosi dal ruolo di servo pastore al servizio di
un potente allevatore del paese. Con i risparmi messi da parte
comprò le prime capre, una decina in tutto. Poche, ma sufficienti
per garantirgli la libertà e un piccolo reddito per tirare avanti. Il
suo carattere riflessivo, la spiccata empatia e la maturità degli anni
lo resero uomo saggio e pacato; suscitava rispetto e stima in
chiunque lo conoscesse, tanto da assumere un ruolo primario
nella ricomposizione dei conflitti all’interno della comunità. A lui
ci si rivolgeva per trovare soluzione a un’ingiustizia, a un danno, a
un’offesa, e le sue decisioni erano sempre misurate e prudenti.
Mai nessuno osò mettere in discussione la sua autorevolezza.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Eccetto una volta.
Erano gli anni della rinascita sarda, così li chiamavano. Nella
pianura di Ottana le industrie nascevano e si moltiplicavano
grazie ai generosi contributi pubblici. Lo Stato aveva deciso di
sradicare la cultura pastorale di quel territorio, e con essa il
fenomeno del banditismo, offrendo l’illusione di nuovi posti di
lavoro e di una qualità della vita migliore. Furono in tanti a
crederci, e furono in tanti quelli che ne approfittarono. Nel 1972
fu inaugurato un caseificio industriale. I pastori della zona furono
sedotti acquistando il loro latte a prezzi particolarmente
vantaggiosi. Quello che in principio sembrò un buon affare per
tutti, presto si rivelò un inganno. L’azienda, in maniera del tutto
arbitraria, decise da un giorno all’altro di dimezzare il prezzo del
latte e a nulla valsero le proteste dei pastori. Contro
quell’ingiustizia alcuni chinarono la testa, altri risposero con i fatti.
Una notte, furono date alle fiamme tre autocisterne e la macchina
di servizio del direttore dello stabilimento. I responsabili non
furono mai trovati, ma qualcuno fece circolare voce che
l’istigatore del sabotaggio fosse Bastiano Pinna. Quel qualcuno
aveva un volto e un nome, non fu difficile risalire a lui. Mosso
dall’invidia o da antichi dissapori mai sanati, fu Giovanni Melas, il
suo vecchio padrone, a mettere in giro quella terribile calunnia.
L’anziano allevatore fu trovato qualche giorno dopo nel suo
ovile, steso a terra, morto ammazzato da una rosetta di pallettoni.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Della vicenda se ne occuparono a lungo le forze dell’ordine.
Furono setacciate le campagne, perquisiti ovili e abitazioni,
interrogati amici e parenti della vittima, ma tutte le piste utili
andavano a cozzare contro un muro di omertà inespugnabile. Le
indagini furono chiuse un anno dopo senza un nulla di fatto.
Mio nonno, quando venne a conoscenza dell’accaduto, salì sul
monte e da quel giorno non mise più piede in paese. Quale che
fosse la verità, sono convinta che lui si sentisse comunque
responsabile di quell’omicidio. Morì di polmonite qualche anno
dopo, proprio dentro la pinnetta che costruì con le sue mani
cinquant’anni prima, scegliendone con cura ogni pietra, ogni
ramo di ginepro. Non volle nessuno accanto a sé, decise di
morire in solitudine, nell’abbraccio di quella montagna che fu la
sua prima vera casa. E, come sempre, la sua decisione fu
rispettata da tutti.

Quando mi svegliai, parecchie ore dopo, mio padre era seduto


accanto a me. Mi osservava. Aveva uno sguardo magnetico,
profondo. Quando ero bambina, mi raccontava divertito che il
colore dei suoi occhi cambiava a seconda dell’umore.
Guardandolo, in quel momento, provavo a decifrare il suo stato
d’animo nelle striature grigie sul verde dell’iride, più marcate del
solito.
– Da quant’è che non dormi come Dio comanda?

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Mi sono appisolata una decina di minuti – tentai di
giustificarmi.
– Figlia mia, hai dormito tutta la mattina – mi rispose. –
Guarda che io l’ho capito che di notte non dormi. Puoi
coglionare tua madre… non me.
Non era un rimprovero, il suo. La sua voce, piuttosto,
esprimeva compassione, condivisione della mia sofferenza, che
evidentemente capiva più di quanto lasciasse intendere, proprio
lui, in apparenza sempre così concentrato sulle attività manuali.
– Non ti chiedo di raccontarmi cosa ti tormenta – mi disse. –
Sei una persona adulta, ormai. Deciderai tu, se e quando vorrai
parlare. Ma tieni a mente che c’è sempre una soluzione per tutto.
Non aggiunse altro. Babbo continuò a parlarmi con lo
sguardo, senza un battito di ciglia, quasi a voler esaminare ogni
minuscola, impercettibile contrazione del mio viso.
Non ho idea di quanto restammo lì, in silenzio, l’uno accanto
all’altra, raccolti nel calore della pinnetta di nonno Bastiano.
Ricordo bene, però, che a un certo punto mi ritrovai aggrappata a
lui, racchiusa fra le sue braccia, a piangere tutta la mia
disperazione sulla sua giacca che sapeva di latte.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Ho studiato e memorizzato date, fatti e personaggi degli anni
di piombo. In qualche misura, è un periodo che mi riguarda,
anche se io non ho fatto la storia, semmai l’ho subita. Oggi
ripercorro le dinamiche che hanno segnato quel periodo con il
giusto distacco emotivo. Non condanno e non giudico. Mi
attengo ai fatti. Condanno invece la mia superficialità, questa sì, e
non mi concedo l’attenuante dell’età ancora acerba. Sono
consapevole dei miei errori, della frivolezza con la quale afferravo
tutto per non apparire inadeguata, dell’ottusità che mi impediva di
capire quanta prudenza fosse necessaria, allora, per vivere a Sesto.
Nessuna indulgenza, quindi, signori giurati, per questa giovane
donna di campagna prestata alla città.
A volte mi capita di domandarmi che scelta avrei fatto se
avessi avuto più coraggio e una maggiore consapevolezza di ciò
che mi accadeva attorno. Mi sarei unita alla lotta armata? Avrei
seguito Adriano sino in fondo? So che non può esserci risposta, e
le cose per me non sarebbero potute andare diversamente, ma mi
piace comunque immaginare quale direzione avrebbe preso una
Lena diversa, più matura e cosciente.
Quell’anno non compilai la lista dei buoni propositi. Non
avevo obiettivi particolari per il prossimo futuro. Non avevo
nemmeno qualcuno con cui condividere quel gioco frivolo di fine
anno. Un desiderio, però, lo avevo: vivere in santa pace, ma per
ricordarmelo non fu necessario appuntarlo su uno stupido pezzo

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
di carta. Era l’unico mio obiettivo per l’anno appena cominciato e
ce l’avrei messa tutta. Mai avrei potuto immaginare che il peggio,
per me, doveva ancora arrivare.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Al mio rientro da Tùvula i controlli dei carabinieri divennero
sempre più frequenti, sino a diventare quotidiani. Mormile ci
andò giù pesante. A me non importava, comunque non dormivo.
E nemmeno mi turbavano quelle incursioni notturne. D’altronde,
si trattava di una decisione del magistrato per via delle mie passate
frequentazioni con Adriano, ancora latitante. Niente di più. Alla
fine ci feci l’abitudine, anzi quasi ci contavo: divennero un
diversivo che mi aiutava a spezzare la monotonia delle mie notti
in bianco. Aspettavo i carabinieri in cucina, di fronte alla tv
accesa, la moka pronta sul fornello per offrire loro un caffè, se lo
avessero gradito. Si presentavano in tre, sempre gli stessi,
annunciandosi con cinque squilli di campanello brevi e
ravvicinati, quasi fosse un segnale convenzionale fra loro e me.
Erano molto giovani e si muovevano dentro casa con discrezione,
come si conviene a un ospite. Uno di loro faceva Calia di
cognome, era delle mie parti e forse per questo motivo
dimostrava maggiori riguardi nei miei confronti. Anche gli altri
due venivano dal sud. Ci chiamavamo per nome e ci davamo del
tu: la loro frequentazione giornaliera della mia casa ci dispose, nel
tempo, a una misurata confidenza. Non portavano la mitraglietta,
né il giubbino antiproiettile. Si trattenevano poco, una decina di
minuti o poco più, il tempo di fare un giro rapido per le stanze e,
qualche volta, accettare un caffè e qualche biscotto.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Salutati i ragazzi con un arrivederci, certa che l’indomani la
scena si sarebbe ripetuta, davo inizio ai rituali di fine giornata:
chiudere a tripla mandata la porta di ingresso, abbassare le
tapparelle e controllare la tenuta delle finestre, passare in rassegna
le manopole del gas. Solo dopo essermi assicurata di non aver
tralasciato nulla, mi trascinavo assieme al carrello della tv in
camera da letto e mi dedicavo alla scelta di una videocassetta dalla
mia collezione. Spesso accendevo una candela profumata che
tenevo sempre sul comodino, accanto alla sveglia. Mi piaceva il
profumo di sandalo, è ancora la mia fragranza preferita, e mi
piaceva quel gioco rassicurante di luci e ombre che quella
fiammella creava nella stanza. Stesa sul letto, restavo di fronte alle
immagini di un film di cui conoscevo a memoria scene e dialoghi.
In genere, durante i titoli di coda riuscivo a conquistare un sonno
leggero, breve, ma comunque sufficiente a garantirmi la carica
necessaria per la giornata che stava per cominciare.
Il videoregistratore fu un regalo di Antonio, il suo regalo del
Natale appena passato e di quello prossimo, mi disse divertito
quando venne a casa a portarmelo. Gli costò un botto, ne sono
sicura, era uno tra i primi in commercio. Ricordo ancora la marca:
Jvc. Era tutto nero con degli inserti color argento nella parte
frontale e pesava quanto un blocchetto di calcestruzzo. Presi
l’abitudine di registrare i film dalla tv, per risparmiare; di alcuni,
invece, compravo l’originale in videocassetta. Nel giro di qualche

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
mese disponevo di una discreta videoteca dalla quale attingere
ogni notte, anche se alla fine la mia scelta ricadeva sempre sui
soliti titoli, i miei cinque o sei preferiti.
Era questo il mio ménage di allora. Una vita sottotono, casa e
lavoro, molto lavoro. Nessuna frequentazione, eccetto Antonio,
con cui prendemmo l’abitudine di mangiare una pizza insieme il
fine settimana. Mi andava bene così, allora. Non chiedevo altro
dalla vita se non di stare concentrata su me stessa e lontana da
certi guai.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Il clima in ufficio era teso e il lavoro ne risentiva, tanto che
una mattina il direttore del personale convocò entrambe, me e
Milena, nella sua stanza. Non era mai accaduto prima di allora e il
fatto mi mise in apprensione. Già immaginavo una sanzione
disciplinare, una riduzione dello stipendio o, peggio ancora, il
licenziamento. Niente di tutto ciò. Il direttore ci disse di avere
notato un sensibile rallentamento, oltre che numerosi errori, nella
compilazione dei registri da consegnare alla ragioneria, fatto a suo
dire imputabile all’eccessivo chiacchiericcio indotto dalla nostra
amicizia. Ci comunicò la sua decisione di separarci al più presto,
non appena si fossero create le condizioni per poterlo fare. Mi
sentii sollevata da quelle parole, tanto che, istintivamente, lo
ringraziai, suscitando in lui un’espressione stupita. Tornai nella
mia stanza con l’animo leggero e il buonumore di chi ha appena
ricevuto un complimento inaspettato. Presto sarebbe finito
l’inferno. Via anche Milena dalla mia vista, e con lei il disagio di
condividere per otto ore filate uno spazio con qualcuno che non
vorresti vedere.
Quello stesso giorno, al rientro dalla mensa, sulla mia sedia
trovai un foglietto ripiegato. Lo presi in mano e di riflesso puntai
lo sguardo verso Milena: teneva gli occhi bassi, fissi sui registri
aperti sulla scrivania. Riconobbi subito la scrittura nervosa di
Adriano. Mi chiedeva scusa e mi augurava ogni bene. Non provai
alcun turbamento. Pensai solo che quelle due righe se le sarebbe

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
potute risparmiare, lo stronzo. L’indifferenza con la quale reagii la
interpretai come un buon segno, un piccolo passo in avanti verso
il totale affrancamento da quell’uomo. Accartocciai il foglio e,
fissando Milena come se volessi comunicarle la risposta da
restituire al mittente, lo lanciai verso il cestino della carta,
centrandolo in pieno.
Due settimane dopo mi fu assegnato un nuovo incarico. Ebbi
pure una promozione, imprevista e gradita. Il direttore del
personale, dietro suggerimento di Marisa, mi riconobbe uno
scatto di livello che mi regalò una buona dose di autostima, oltre
che una busta paga più pesante. Fui trasferita nell’ufficio della
capo contabile, avrei lavorato sotto la sua supervisione come
addetta alla prima nota. Milena restò al suo posto a compilare
registri. Non sta bene dirlo, ma devo riconoscere che la faccenda
non mi dispiacque, tutt’altro, la vissi come una piccola rivincita
nei suoi confronti: mentre io facevo carriera, lei restava in
panchina.
Marisa si rivelò un ottimo capo, comprensiva sul piano umano
e generosa nell’insegnarmi le alchimie della partita doppia. Dal
canto mio, dimostrai di possedere una notevole predisposizione
verso i lavori contabili. Mi insegnò a leggere e scrivere i bilanci, a
calcolare gli ammortamenti, a maneggiare con disinvoltura costi e
ricavi per arrivare a un preciso risultato economico, quando la
dirigenza lo richiedeva per motivi che allora non ero in grado di

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
capire. Imparavo presto e bene, tanto che un giorno Marisa mi
rivelò di avere scelto me, d’accordo con il direttore del personale,
come sua sostituta quando sarebbe andata in pensione.
Stavo cavalcando un periodo positivo e mi sentivo piena di
energia. Mi scoprii ambiziosa e competitiva sul lavoro, che
diventò unica mia ragione di vita. Ero riuscita a sconfiggere i
demoni e, piano piano, risalivo dagli abissi in cui ero sprofondata.
– Quella ragazza non mi è mai piaciuta – mi disse una mattina.
– Chi?
– La Milena, la tua ex collega di stanza. È strana.
– Perché?
– È ermetica. Parla poco.
– Anche io parlo poco. Sono strana anche io?
– No, te sei sarda – mi rispose con una grassa risata. – E poi
mica è vero che parli poco. Sei riservata, è diverso. Quella là,
invece, la Milena, sembra che nasconda chissà quale segreto.
– A me non sembra strana.
– Io l’ho notata, sai? È sempre vigile, attenta a tutto, non
perde d’occhio nulla. Si comporta come una spia – incalzò
Marisa.
– Mah, non ci ho mai fatto caso – le risposi mentre riprendevo
in mano il registro della prima nota, come a lasciarle intendere
scarso interesse per quella discussione.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Di questi tempi è comunque bene stare in campana, eh –
disse lasciando sfumare la frase in un lungo sospiro.
Non capii il senso di quella discussione. Forse la sua fu
semplice curiosità verso una persona che non amava raccontarsi e
si aspettava che io le potessi rivelare qualcosa della sua vita
privata. Oppure aveva intercettato in lei delle zone d’ombra,
quelle stesse che io avevo intravisto a malapena, e il suo fu solo
un modo per mettermi in guardia.
Qualunque fosse la verità, con Marisa mi sentivo al sicuro.
Tenuto conto delle sue frequentazioni e delle idee
dichiaratamente destroidi del marito, verso il quale esprimeva una
venerazione assoluta, era chiaro che non potesse nutrire simpatie
verso il terrorismo. Non eravamo amiche e mai lo diventammo.
Fra noi nacque, però, un sodalizio che durò a lungo, sino a
quando non giunse il giorno del suo pensionamento e ci
perdemmo di vista.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Antonio non dormiva più a casa sua. Me lo disse una sera in
pizzeria. Era il 3 aprile del 1981, ho buona memoria per certe
date. Da qualche giorno un sole ancora incerto aveva rubato la
scena alle consuete giornate brumose. Per salutare la nuova
stagione, mi propose di sederci a un tavolo fuori. Faceva ancora
piuttosto freddo, soprattutto la sera, ma assecondai comunque la
sua scelta azzardata.
– Non venire più a cercarmi a casa – mi ammonì.
– Perché?
– È pericoloso.
– Che è successo? – gli chiesi allarmata.
– Ho ricevuto minacce pesanti – mi disse allungandosi verso
di me. Il suo alito sapeva di tabacco misto a liquirizia.
– Da chi? – gli chiesi, abbassando il tono di voce.
– Come da chi? Non ci arrivi?
– Ti riferisci ai terroristi?
– E a chi altrimenti? Sveglia, Lena!
Fu un grido sussurrato, il suo. Un tremolio involontario delle
sue gambe fece tintinnare le posate poggiate sul tavolino.
– Ma tu che c’entri?
– Come che c’entro! Sono un sindacalista, un servo dei
padroni, secondo loro.
La situazione era critica, mi disse con un filo di voce. Dalle
forze dell’ordine era partita una vera e propria caccia all’uomo. Le

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
perquisizioni nelle case e negli uffici erano diventate prassi
quotidiana, i posti di blocco controllavano ogni angolo della città,
giorno e notte, i fermi non si contavano. Il solo comportamento
anomalo di un comune cittadino avrebbe potuto alimentare
sospetti, avviare indagini sul suo conto. C’era da aver paura solo a
respirare. D’altro canto, i terroristi erano schegge impazzite, non
si capiva più quali fossero gli obiettivi della loro rivoluzione,
agivano in modo scombinato come se non avessero più una guida
strategica. Mi raccontò del medico ammazzato due mesi prima, a
febbraio, direttore sanitario del policlinico. Fu giustiziato perché
fece il suo dovere: avviò dei provvedimenti disciplinari contro
alcuni infermieri vicini ai terroristi, responsabili di azioni di
sabotaggio dentro l’ospedale. Lui non voleva fare la fine di quel
poveraccio, mi disse. Profilo basso, sussurrò, dovevamo
mantenere un profilo basso e tenere duro.
Antonio prese l’abitudine di dormire dove gli capitava, a volte
da un amico fidato, altre volte in macchina. Portava sempre con
sé, dentro il bagagliaio dell’auto, un borsone con il cambio per un
paio di giorni. Non dormiva mai due volte di seguito nello stesso
posto. In fabbrica non sospese del tutto l’attività sindacale,
semmai la ammorbidì. Nonostante fosse seriamente preoccupato,
non si volle piegare del tutto alle minacce. Continuò ad arginare i
tentativi di propaganda sovversiva con lo strumento che più gli
era congeniale: il confronto dialettico. Lo doveva al sindacato e

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
agli operai che rappresentava, ma soprattutto a se stesso. Anche
gli operai, d’altro canto, erano preoccupati, pure quelli che fino a
poche settimane prima manifestavano apertamente simpatie per
la lotta armata. Nessuno, in fabbrica, commentava più i fatti di
cronaca nera che riempivano le pagine dei giornali.
– Vieni da me – gli proposi.
– Scherzi? Hai già abbastanza guai di tuo.
– Non vedo dove sta il problema se i carabinieri ti trovano a
casa mia. Sei mio cugino. Conosci anche Baggiani, no?
– Non mi preoccupano i carabinieri. Penso agli altri.
– Ma da me sei al sicuro. D’altronde, sono stata la compagna
di uno di loro.
– Lena, quelli non guardano in faccia nessuno. A proposito,
quello stronzo si è fatto più sentire?
– No, per fortuna no.
– Mi auguro che lo prendano presto, per il suo bene. Meglio
marcire qualche anno in galera che beccarsi una pallottola in
fronte.
Quella notte accettò di dormire da me. Solo per una notte, mi
disse. Durante il tragitto verso casa non smise mai di controllare
lo specchietto retrovisore, di guardarsi attorno, sospettoso, le
mani strette forte sul volante. Era provato e aveva una paura
fottuta che esprimeva in ogni suo gesto, nello sguardo, nel viso

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
contratto in una smorfia che lo faceva sembrare dieci anni più
vecchio.
Arrivati a casa, si fece subito una doccia. Attese il tempo di
una sigaretta che il vapore acqueo liberasse la superficie dello
specchio, poi si sbarbò usando il rasoio e la schiuma da barba
lasciati in eredità da Adriano. Quando mi raggiunse in cucina
aveva riacquistato il suo aspetto solito, il viso disteso e rilassato si
era ricomposto nella sua espressione naturale. Indossava una mia
vecchia tuta da ginnastica, gialla, comprata apposta di due taglie
più grande per stare comoda in casa. Seduti di fronte a un buon
bicchiere di vino rosso, mi raccontò di come gli fosse arrivata la
minaccia, del tipo che gli si accostò in strada, qualche settimana
prima, del suo modo di fare arrogante e delle sue parole: stai al
tuo posto se ci tieni alla salute. Si alzò in piedi e mimò il gesto
finale del balordo: si puntò il dito indice sulla tempia e disse: –
Click.
Poi, come per cercare un registro più morbido alle nostre
chiacchiere, si mise a parlare di Tùvula e di alcune recenti
faccende locali di cui era stato informato. Roba di poco conto,
stupide beghe di vicinato che avevano comunque ravvivato, per
qualche giorno, la discussione all’interno della nostra comunità.
Riuscimmo anche a riderci su.
Restammo a parlare a lungo, scambiandoci ricordi e aneddoti
divertenti che scaldavano il cuore e ci disponevano a uno stato di

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
grazia, pronti ad accogliere i nostri tre giovani ospiti che
sarebbero arrivati da lì a poco.
Quella notte, invece, i carabinieri non si presentarono. Poco
male, a parte l’inutile attesa che mi impedì di chiudere occhio
anche per un solo momento. Pensammo a un cambio di
programma dell’ultimo minuto o che, finalmente, si fossero
stufati di me e di quegli inutili controlli. Nel frattempo, si fece
giorno. Era un bel sabato mattina di sole.
– In giornata chiamo Baggiani – mi disse sull’uscio di casa.
– Aspettami, metto la giacca e mi dai uno strappo in centro.
– No, è meglio di no.
– Ma che vuoi che succeda in pieno giorno?
– Pensi che quelli aspettino la notte per uccidere? – mi disse
con un mezzo sorriso mentre afferrava il borsone da terra. – Ti
cerco io non appena so qualcosa.
Antonio si chiuse la porta alle spalle. Sentii i suoi passi
scendere le scale, il motore dell’auto avviarsi al terzo tentativo. Lo
immaginai percorrere a passo d’uomo il tratto di strada sino
all’incrocio con la via principale. Aveva sempre avuto una guida
prudente. Pochi attimi di silenzio, poi tre spari. Ravvicinati.
Fortissimi.

Quando la notizia arrivò in caserma, io ero già lì, seduta di


fronte a Baggiani che ricostruiva le dinamiche dell’agguato. La

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
telefonata giunse alla redazione di una radio locale alle dieci in
punto. Una voce maschile rivendicò il fatto, liquidandolo con
poche frasi stereotipate. Una donna vide tutta la scena dalla
finestra, mi disse. Due uomini a bordo di una moto, il volto
nascosto dai caschi, affiancarono l’auto di Antonio non appena
superato l’incrocio; quello seduto dietro gli puntò la pistola
contro. Un proiettile lo colpì alla spalla, gli altri due lo centrarono
poco sopra l’orecchio sinistro. Morì all’istante.
Della morte di Antonio Pinna i giornali ne diedero riscontro ai
margini, in un trafiletto nella sezione di cronaca nera. L’articolo di
apertura, l’avvenimento più importante del giorno riguardava la
cattura di un componente di spicco dell’organizzazione, latitante
da nove anni. Quell’uomo, responsabile morale di avergli
strappato la vita, gli rubò anche la scena finale.
I suoi colleghi organizzarono una colletta in fabbrica, qualcosa
l’aggiunse l’azienda, e un’agenzia di pompe funebri si preoccupò
del trasporto del feretro in paese. Il mio battesimo dell’aria lo feci
assieme ad Antonio, tre giorni dopo, sul primo volo diretto a
Olbia, io seduta lato finestrino tra le prime file a guardare il
tappeto di nuvole sotto di me, lui dentro la stiva in mezzo a una
catasta di valigie.
Se la storia non gli rese onore, il paese non si dimenticò di lui.
Arrivarono in tanti a Tùvula, da tutta l’isola. Il sindaco decretò il
lutto cittadino e le saracinesche dei negozi restarono abbassate

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
per due giorni. Eccetto gli impegni legati alla cura del bestiame,
improcrastinabili, furono sospese tutte le attività. Il corteo
funebre si mosse ai primi rintocchi delle campane a morto. Fu un
avanzare lento, rispettoso, disturbato solo dal fruscio di migliaia
di passi che si muovevano all’unisono. Tra la gente vestita a lutto
e i fazzoletti neri che coprivano il capo delle donne spiccavano le
bandiere rosse e i pugni alzati dei compagni di partito e di
sindacato. Mi accodai per un breve tratto, poi imbucai una
stradina laterale e tirai diritta verso i campi. Il sole era ancora alto
e avrei raggiunto l’ovile di nonno Bastiano prima del tramonto.
Odio i funerali. E trovo patetici certi rituali delle nostre
tradizioni che tendono a rendere ancora più greve l’evento
luttuoso. I rinfreschi organizzati in onore del morto di turno, per
esempio, durante i quali amici e parenti si confortano a vicenda
tra abbracci lacrime e pasticcini, oppure le cantilene strazianti di
quelle donne vestite di nero, abilissime nel ripercorrere in versi
improvvisati i pregi e le virtù del defunto. Quella volta, in
particolare, non avrei tollerato le domande sul come e sul perché
che in tanti mi avrebbero rivolto, unica fra i presenti in grado di
soddisfare la loro curiosità.
Il cibo non mancava mai all’ovile. Nella pinnetta c’era una
vecchia madia tarlata con viveri sufficienti per fronteggiare le
situazioni di emergenza. Su una mensola di legno, appoggiata di
sghimbescio su due grosse pietre sporgenti, erano disposti alla

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
rinfusa alcuni arnesi da lavoro e una scodella sbeccata. La parete
di fronte era occupata da una branda con la fodera strappata e da
uno sgabello su cui erano ripiegate due grosse coperte di orbace.
L’ambiente era spartano e lo spazio ridotto, ma si respirava una
buona energia e tutto profumava di bosco.
Accesi un fuoco discreto sul pavimento in terra battuta,
proprio al centro della pinnetta, e improvvisai uno spuntino a base
di formaggio, melanzane sott’olio, una manciata di olive e qualche
foglio di pane carasau ammorbidito nell’acqua. Poi, annebbiata dal
vino e dalla stanchezza, disposi una coperta per terra, fra le braci
ancora accese e la porta spalancata, e mi sdraiai di fianco, le spalle
a favore del fuoco, cercando l’angolazione migliore per osservare
il sole mentre scivolava dietro le montagne.
Fui svegliata dal latrare dei cani. Mi affacciai per dare
un’occhiata all’esterno e, nel buio cieco di una notte vestita a
lutto, scorsi due fasci di luce paralleli che avanzavano
sobbalzando.
– Ero sicuro di trovarti qui – disse mio padre mentre si
sfregava forte le mani l’una contro l’altra vicino alle braci tiepide.
– Tua madre ti manda qualcosa da mangiare – proseguì indicando
con un cenno del capo il cestino poggiato per terra.
– Qui c’è tutto quello che serve, lo sai.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Lo sa anche lei. Ma è fatta così, non c’è mai abbastanza da
mangiare – mi rispose sorridendo. – Cosa pensi di fare? –
proseguì dopo qualche minuto di silenzio, facendosi serio.
– E che devo fare? Dopodomani torno a Sesto.
– Ora sei sola.
– Non sono sola. Ho il mio lavoro, qualche amicizia – gli
risposi. Non gli sfuggì, però, il mio tono di voce che raccontava
altro.
– Hai anche i tuoi guai – aggiunse.
Con movimenti lenti, come se volesse cristallizzare quegli
attimi, si versò del vino in una tazza di ferro smaltato e venne a
sedersi accanto a me. Non smetteva di fissarmi negli occhi. Il suo
sguardo mi mise all’angolo. Mi fu subito chiaro che quella volta
non sarei riuscita a sottrarmi alla sua richiesta di un chiarimento.
Decisi di offrirgli una versione dei fatti edulcorata. Gli raccontai
di quanto fosse problematica la situazione al nord a causa della
lotta armata e di qualche amicizia sbagliata che mi aveva
complicato la vita. Gli parlai del senso di solitudine, delle
difficoltà di relazione e della nostalgia che affiorava soprattutto in
certe giornate che partono storte fin dal primo mattino. Mi
guardai bene dal raccontargli di Adriano e del nostro rapporto, né
tantomeno dell’interrogatorio e delle perquisizioni. In pratica,
non feci un fiato su ciò che realmente mi opprimeva. Mentre

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
parlavo, cercai di trattenere, per quanto mi fu possibile, il mio
profondo malessere per non alimentare le sue preoccupazioni.
Mi ascoltò paziente, senza un battito di palpebre. Poi disse la
sua. Definì la lotta armata senza troppi giri di parole: un’illusione
tragica. Non mise in discussione il diritto sacrosanto degli operai
di lottare per un giusto salario e per una migliore qualità della vita.
Pure lui, in passato, fece le sue battaglie per motivi analoghi,
senza mai oltrepassare i limiti della legalità, tenne a precisare.
Piuttosto, criticò i metodi spietati dei terroristi, l’uso delle armi, la
strumentalizzazione della classe operaia, il clima di terrore di cui
erano corresponsabili, i troppi morti ammazzati lasciati lungo la
strada della loro rivoluzione. Era gente, secondo lui, che parlava
una lingua infarcita di troppa ideologia e che aveva commesso
gravi errori. Anche l’omicidio di Antonio fu un grosso errore, lo
disse con un tono alterato dalla rabbia, perché lui prima di tutto
era un operaio, uno di quelli per i quali dicevano di combattere. Si
erano spinti troppo oltre, vedevano il nemico dappertutto, e
nessuno li avrebbe più seguiti nei loro progetti deliranti. Presto
tutto sarebbe finito, mi rassicurò accarezzandomi i capelli. Fece
una breve pausa. Poi, come per mettere un punto fermo a quel
discorso, mi parlò di alcuni recenti fatti accaduti in paese,
dilungandosi in particolari di poco conto e spingendosi sin quasi
al puro pettegolezzo, fatto inusuale per lui. Se il suo intento fu
quello di trasmettermi serenità, colpì nel segno. Rimasi ad

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
ascoltarlo, rapita più dalla sua voce calda e pacata che dalle sue
parole, e quel breve momento di intimità mi fu d’aiuto per
scacciare i cattivi pensieri e riacquistare, almeno in parte, la
sicurezza e la tranquillità di cui avevo un disperato bisogno.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Adriano fu arrestato l’estate di quello stesso anno, nel corso di
una retata che decimò le fila del nucleo eversivo milanese. Seppi
della sua cattura dal quotidiano che trovai ripiegato sulla mia
scrivania, al rientro dalla mensa, un giorno che cominciò uguale a
tanti altri. Non fu necessario scorrere i nomi evidenziati in
neretto nell’articolo. Riconobbi subito il suo viso, nonostante la
barba sfatta e i capelli più lunghi, tra le foto segnaletiche stampate
sotto il titolo a sei colonne in prima pagina.
Non ne fui dispiaciuta, tutt’altro. Ricordo che tirai un lungo
sospiro di sollievo. Perché era stato arrestato, e non ammazzato,
prima di tutto. E poi, pensai, la sua cattura avrebbe posto fine ai
controlli notturni, che in tutta sincerità cominciavano a
sfiancarmi.
Fu Milena a mettere il giornale sul tavolo. Non poteva essere
altrimenti. Marisa quel giorno non era in ufficio, aveva preso un
giorno di permesso, e in ogni caso non avrebbe avuto motivo di
fare una mossa simile. Milena, al contrario, ne aveva tutte le
ragioni. Da quando decisi di escluderla dalla mia vita, non smise
mai di lanciarmi segnali per un riavvicinamento, che io
puntualmente ignoravo. Ogni volta che lei si avvicinava, la
respingevo. Se capitava di incrociarci in ufficio, lungo un
corridoio o dentro una stanza, e lei mi lanciava un sorriso, non
contraccambiavo. Se in mensa trovava posto al mio stesso tavolo,
mi alzavo, prendevo il mio vassoio e mi spostavo altrove. La sua

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
vicinanza faceva scattare l’allarme rosso e io, all’istante, mettevo
in pratica la strategia dell’evitamento.
Molti fra i terroristi arrestati si dichiararono pentiti, alcuni per
reale convinzione, altri per confidare in uno sconto di pena. Ogni
pentito valeva una manciata di nuovi arresti. Si creò, in questo
modo, un effetto moltiplicatore che, nel tempo, avrebbe messo in
ginocchio l’intera organizzazione.
Adriano non si pentì mai, né si dissociò dalla lotta armata,
nemmeno quando un anno dopo la sua cattura passò in
Parlamento la legge sui pentiti, che davvero prevedeva forti sconti
di pena per i collaboratori di giustizia. Il fatto non mi stupì e, a
dirla tutta, in qualche modo ne fui anche orgogliosa. D’altronde,
lui era fatto così, rigoroso più di un monaco certosino. Fu
catturato in piena notte, mentre dormiva, assieme ad altri due
compagni di lotta, in un covo alla periferia di Milano.
Nell’appartamento furono trovati soldi, armi e documenti falsi.
Dal telegiornale della sera seppi che il suo nome di battaglia era
Sebastiano, lo stesso di mio nonno, e che nella sua camera da
letto trovarono una serie di libri sul fenomeno indipendentista
della Sardegna di cui nessuno se ne faceva una ragione.
Quella sera non brindai, c’era poco da festeggiare, ma ero ben
disposta a trattarmi un po’ meglio del solito. Mi sentivo più
leggera al pensiero di non dover subire altre perquisizioni. È vero
che ci avevo fatto l’abitudine, ma era comunque una situazione

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
imbarazzante. Non osavo nemmeno immaginare che idea si
fossero fatti di me i vicini di casa. Aprii una bottiglia di vino e
tirai fuori dal freezer un vassoio di lasagne al forno che mi regalò
Marisa qualche settimana prima. In ufficio erano note le mie
pessime doti culinarie e circolava voce che mangiassi in modo
disordinato a suon di surgelati e cibo in scatola. Quando me le
diede, decisi di metterle da parte per un’occasione speciale che
finalmente era arrivata.
Apparecchiai la tavola come se dovessi ricevere ospiti di
riguardo, con piatti e bicchieri del servizio buono al posto delle
solite stoviglie usa e getta, tovagliolo in tessuto abbinato alla
tovaglia e candela profumata che faceva tanto atmosfera. Mi
sedetti di fronte alla tv e, tra un cambio di canale e l’altro,
affrontai la mia cena con inusuale appetito, partendo da alcuni
antipasti sott’olio preparati da mia madre, proprio come si
conviene nelle occasioni speciali.
Era quasi mattina quando mi stesi sul letto, un po’ stonata dal
troppo vino, di fronte alle immagini in bianco e nero di un
vecchio thriller di Hitchcock. Quella volta, come avevo previsto, i
carabinieri non vennero.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
La stanza in cui mi fecero entrare era piena di luce, con mobili
di legno pregiato che profumavano di cera e un’enorme pianta
accanto alla finestra, alta fin quasi al soffitto. Aveva l’aspetto di
un ufficio dove si prendono decisioni importanti, con tanti quadri
appesi alle pareti e un grosso crocefisso accanto al ritratto in
bianco e nero di Sandro Pertini.
Un uomo sulla cinquantina, di bell’aspetto, mi venne incontro
portandosi appresso un odore nauseabondo di dopobarba al
mentolo. Mi accolse con un sorriso generoso. Dava l’impressione
di una persona sicura di sé. Indossava un completo grigio chiaro.
Il taglio era sartoriale e il tessuto di qualità, ma i bottoni della
giacca sarebbero potuti esplodere da un momento all’altro. Forse
negli ultimi tempi era ingrassato, pensai. Mi strinse la mano con
una presa vigorosa e mi invitò ad accomodarmi. Portava la fede al
dito. Brillava ancora.
Baggiani era in piedi, accanto alla finestra protetta da una
spessa inferriata, unica nota stonata di quell’ambiente così
raffinato. Mi salutò con un leggero cenno del capo. Fu proprio il
maresciallo a telefonare in ufficio qualche giorno dopo l’arresto di
Adriano per convocarmi in caserma. Prese la chiamata Milena e
lui ebbe la delicatezza di presentarsi come un amico, un semplice
amico. Anche di questo gli sarò grata in eterno.
L’uomo mi invitò a sedermi e si accomodò di fronte a me, sul
lato opposto del tavolo, su una poltrona di pelle nera con lo

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
schienale enorme. Il suo tono di voce era gradevole. L’accento,
per quanto contaminato dalla parlata locale, rivelava tracce
evidenti di un vissuto meridionale. Avviò una conversazione di
circostanza, studiata per rompere il ghiaccio e mettermi a mio
agio, come se fosse un’impresa facile rilassarsi in una caserma dei
carabinieri. Poi passò al vero motivo della convocazione.
– Immagino che sia a conoscenza dell’arresto del suo
fidanzato, signorina Pinna – esordì il magistrato.
– Mi scusi, a chi si riferisce?
– Adriano Marchi non è forse il suo fidanzato?
– Ah, Adriano. Fidanzato è una parola grossa. Non è mai stata
una storia importante – in quel momento mi sentii più infame di
Giuda.
– Quando lo ha visto l’ultima volta?
– Non ricordo con precisione. Sono passati mesi…
– Comunque sia, non siamo qui per stabilire l’intensità del
rapporto fra lei e il Marchi – tagliò corto. – Abbiamo bisogno
della sua collaborazione –, disse allungandosi verso di me quasi a
invocare complicità.
Assentii con un cenno del capo.
– Il Marchi le ha mai parlato della sua attività eversiva?
– No. Se l’avesse fatto l’avrei liquidato all’istante.
– È sicura che con lei non abbia mai espresso una certa
simpatia per la lotta armata?

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– No, non mi ha mai parlato di queste cose. A me, poi,
proprio non interessano.
– Sappiamo che il Marchi ha partecipato a diverse rapine in
città. Le risulta?
– Non mi ha mai parlato nemmeno di rapine – risposi in
maniera sicura. Ecco saltare fuori quei cazzo di espropri proletari,
come li chiamava lui.
– Alcuni testimoni sostengono di averlo visto mentre fuggiva
da un supermercato, in centro. Ne sa qualcosa?
– No, le ripeto – insistetti.
– Guardi, signorina, la posizione del Marchi è compromessa a
sufficienza. I capi di accusa nei suoi confronti sono piuttosto
pesanti, quindi confermare che abbia partecipato a una rapina
non gli cambierà la vita.
– Ma io non la posso aiutare. Non ne so nulla.
– Potrebbe confermarlo comunque – replicò con un tono di
voce ammiccante.
– Vuole che dica una bugia?
– Non è una bugia. Un testimone lo ha riconosciuto. Come
persona informata sui fatti, lei mi deve solo dire: “Sì, mi raccontò
di avere partecipato alla rapina del supermercato Cispo”, e tutto
finisce qui. Inutile aggiungere che terremo conto della sua
collaborazione.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi rifiutai di accettare quella forma di ricatto, continuai a
sostenere la mia posizione, non arretrai di un solo passo, e il
nostro colloquio si concluse con una fredda stretta di mano. Nel
suo sguardo lessi un lampo di stizza.
Baggiani si congedò dal magistrato e mi accompagnò verso
l’uscita della caserma. Arrivati in strada, decise di allungarsi sino
alla fermata dell’autobus. Non so perché lo fece, forse in virtù
dell’amicizia con Antonio, o forse perché gli facevo compassione.
Fatto sta che mi parlò da amico. Mi disse che, in realtà, l’unica
testimone che riconobbe Adriano da una foto segnaletica era una
cliente del supermercato, anziana e per giunta molto miope. La
sua testimonianza era debole, e tale sarebbe rimasta senza
ulteriori prove. Ciò che disse Mormile era vero. Su Adriano
pendeva un capo d’accusa pesante, associazione a banda armata,
ma il magistrato intendeva contestargli anche il reato di furto
aggravato. Per questo motivo contava sulla mia deposizione. Era
un uomo senza scrupoli, aggiunse, e se non gli avessi dato retta
mi avrebbe rovinato l’esistenza.
Arrivati alla fermata, il maresciallo mi salutò con una forte
stretta di mano - ebbi persino l’impressione che volle reprimere
un abbraccio - e l’invito a riflettere bene sulla richiesta del
pubblico ministero, per me stessa e per il mio futuro, perché
quello di Adriano, ormai, era già segnato.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Hai svaligiato il supermercato? – domandai sorpresa, mentre
Adriano trascinava in cucina due buste piene di spesa.
– No, Lena. Esproprio proletario – esclamò strizzandomi
l’occhio.
– E cosa sarebbe?
– Abbiamo deciso di riprenderci quello che ci spetta. Siamo
entrati nel market di Cispo e ci siamo serviti.
– Avete rubato? – chiesi allibita.
– Ehi, non scherziamo. L’esproprio proletario non è un furto,
ma una ridistribuzione della ricchezza prodotta da noi operai –
rispose con tono piccato.
– Punti di vista. Secondo me è un furto bello e buono.
– È un atto politico, ti ripeto.
– Un furto politico, semmai – quella sera decisi di
punzecchiarlo.
– Mi arrendo. Forza, sistemiamo i viveri e cuciniamo qualcosa.
– Io quella roba non la mangio.
– Perché?
– Perché non voglio diventare complice di un furto.
– Ancora? Non riesci proprio a capire, eh? C’era bisogno di
cibo per dei compagni in clandestinità che non possono lasciare la
base. E visto che eravamo lì, abbiamo preso qualcosa anche per
noi.
– E chi sarebbero questi clandestini?

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Sono compagni che hanno cambiato identità per rompere
con il passato e muoversi più agevolmente nel territorio.
– Dalle nostre parti li chiamiamo latitanti.
– Non confondiamo i banditi con i militanti rivoluzionari, per
favore. La clandestinità è una scelta politica.
– Che ne sai tu? Da noi, a volte, si diventa latitanti per
necessità – decisi di non mollare la presa. In realtà, avevo ben
chiaro il suo punto di vista.
Adriano prendeva tutto troppo sul serio. Quando si
affrontavano certi argomenti, poi, il gioco e l’ilarità erano fuori
discussione. Giorno dopo giorno imparavo a conoscerlo,
ascoltavo avida tutto ciò che c’era da sapere sulla lotta di classe e
sul potere operaio. Volevo condividere tutto di lui, anche le idee.
Amavo il suo forte senso della giustizia sociale. D’altronde, non ci
trovavo grosse differenze con le rivendicazioni dei nostri pastori
contro gli industriali che imponevano il prezzo del latte o contro
lo Stato.
Mio padre amava ricordare spesso i fatti di Pratobello, quando,
alla fine degli anni Sessanta, i pastori si opposero allo scippo di
un’area civica destinata da sempre a pascolo. Il Ministero della
Difesa intendeva farci un poligono militare permanente.
L’ennesimo. Come se lo Stato non ci avesse già rubato
abbastanza terre.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Lo ricordo bene, babbo, seduto davanti al camino acceso, in
cucina, lo sguardo fisso sul fuoco come per non darci modo di
riconoscere l’emozione nei suoi occhi. Ci spiegava, a me e ai miei
fratelli, che da generazioni quei pascoli garantivano il pane ai
pastori e alle loro famiglie. La ribellione fu un atto dovuto - a
questo punto del racconto la sua voce saliva di tono e si caricava
di intensità - e i pastori non furono lasciati soli: montò una rivolta
generale che coinvolse l’intera popolazione della zona. Migliaia di
persone, solidali, si opposero all’occupazione militare, oltre
tremila uomini fra esercito, carabinieri e polizia. Babbo amava
ricordare, soprattutto, la rabbia e la tensione scolpite sui visi delle
donne, fiere, che avanzavano verso le campagne contese
trascinando i propri figli stretti per mano. Fu una resistenza
passiva di un intero popolo, che costrinse i militari alla resa e il
governo centrale a mediare con i pastori.
Perché, invece, la lotta operaia doveva sfociare nella violenza?
Perché si chiedeva agli operai di imbracciare le armi? Adriano,
paziente, mi spiegava come la lotta armata fosse l’unico mezzo
per colpire lo Stato, e che non si poteva fare una vera rivoluzione
solo a parole o con atti simbolici.
– Sai che non pratico la violenza, non ho mai preso un’arma in
mano. Aiuto come posso.
– Fai anche troppo.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Se penso ai compagni che hanno rinunciato agli affetti, agli
amici, alla propria identità, mi sento un codardo.
– Ti riferisci ai clandestini?
– È una scelta irreversibile, la loro. Se vinceremo, saranno
degli eroi. Se vincerà lo Stato, l’ergastolo non glielo leverà
nessuno.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Adriano era romagnolo, figlio di braccianti cresciuto a pane e
barbabietole. La sua famiglia, da generazioni, occupava un
vecchio casale a guardia della tenuta di una ricca azienda locale,
una fra le prime a introdurre la meccanizzazione agraria e la
coltivazione intensiva dei terreni.
Detestava il lavoro nei campi. Detestava la paziente attesa di
un raccolto incerto e l’impotenza dell’uomo di fronte
all’imprevedibilità delle stagioni. Non amava nemmeno vivere in
quei luoghi, imprigionato in uno spazio attorno a cui le campagne
si allungavano a tutto spiano, senza soluzione di continuità.
Quando ci lasciavamo andare ai ricordi, abbracciati sotto le
coperte dopo aver fatto l’amore, mi raccontava spesso questo suo
disagio giovanile, non senza esprimere un senso di ingratitudine
verso suo padre, che su quelle terre ci aveva costruito un’intera
esistenza.
Prese a lavorare molto presto, subito dopo la licenza media,
nella piccola officina metalmeccanica di un conoscente. Era
povero a tal punto che per andare al lavoro usava la vecchia bici
del nonno, sgangherata e senza freni. Le suole dei suoi scarponi,
consumate sul ruvido dell’asfalto nell’azione di governare la
velocità nei tratti in discesa, erano sottili come carta velina.
In quello stesso periodo, spronato da un collega poco più
adulto di lui, intraprese la militanza fra i giovani comunisti.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Dopo alcuni anni di attività politica, cominciò a stargli stretta
anche la sede del partito dove si era fatto le ossa. Era una piccola
sezione di provincia, per lo più frequentata dai compagni anziani
che la sera si sfidavano in interminabili partite a scopone. Mentre
nelle grandi città esplodeva l’epoca delle contestazioni giovanili e
delle rivendicazioni operaie, dalle sue parti non accadeva mai
nulla. Le notizie gli giungevano mediate dai giornali e dalla
televisione, mai di prima mano e spesso con qualche giorno di
ritardo.
Aveva alcuni anni più di me, una decina in realtà, e la giusta
maturità per desiderare di vivere in prima linea quella stagione di
grande protesta sociale. Dopo il servizio di leva decise di spostarsi
più a nord, verso Milano. Partì quasi all’avventura, con tanto
entusiasmo e pochi soldi in tasca. Non aveva né amici, né parenti
che lo potessero ospitare, ma fu accolto come un fratello da
alcuni compagni di partito che gli diedero una mano a trovare un
lavoro e un alloggio. Fra questi, Antonio, mio cugino.
Era l’autunno caldo. Gli operai, in un crescendo di scioperi e
manifestazioni di piazza, rivendicavano un nuovo contratto di
lavoro che prevedesse condizioni migliori dentro le fabbriche e
salari più giusti. Gridavano forte la loro rabbia, incontenibile, e
l’onda della protesta non si sarebbe conclusa con un nulla di
fatto. Non quella volta. Adriano, che nel frattempo era stato
assunto alla Breda come operaio saldatore, si unì subito alla lotta,

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
impaziente di potersi rendere utile, in qualche maniera, a una
causa che considerava sacrosanta. Finito il turno di lavoro, si
fiondava nella sezione del partito per partecipare ai direttivi,
predisporre gli striscioni, stampare in ciclostile i volantini,
organizzare le squadre che si sarebbero occupate dell’affissione
dei manifesti. C’era sempre da fare, tanto da fare, mi raccontava
con una punta di nostalgia, ma la tenacia e l’entusiasmo erano
inesauribili.
Una sera volle preparare da solo la colla per l’attacchinaggio.
Lo aveva visto fare diverse volte dai compagni, quindi, certo di
riuscire nell’impresa, si organizzò di secchio, soda caustica, farina
e acqua. In principio, gli sembrò che tutto andasse per il verso
giusto, ma più mescolava e più quell’impasto biancastro e
appiccicoso si induriva, sino a diventare solido come un blocco di
gesso. Il risultato finale fu disastroso e l’affissione dei manifesti
venne rimandata al giorno successivo, con buona pace dei
compagni che arrivarono in sezione alle venti in punto per
prendere in consegna colla e manifesti. Questo è uno dei tanti
episodi buffi che Adriano amava rievocare, divertito, e che
ripeteva spesso, forse perché non ricordava di avermelo già
raccontato o forse perché era quello che riteneva più spassoso. E
io, tutte le volte, più per amore che per il fatto in sé, mi sbellicavo
dalle risate.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mi parlò a lungo delle bombe e delle stragi; e, poi, ancora,
della strategia della tensione e della lotta armata; dei cortei degli
operai che occupavano le piazze, della guerriglia urbana tra
celerini e manifestanti, dei lacrimogeni e delle bottiglie molotov
lanciati ad altezza d’uomo. Attraverso i suoi racconti, Adriano mi
spiegava, paziente, le dinamiche di un periodo storico a me del
tutto sconosciute. Memorizzavo le sue parole per soddisfare la
mia sete di conoscenza, assorbivo tutto e mi appropriavo delle
sue idee senza mai metterle in discussione, quasi fossero verità
incontrovertibili. Allora, non assumevo mai una mia opinione e il
mio punto di vista coincideva sempre con il suo. Oggi, che ho
maturato le mie convinzioni e parlo con cognizione di causa,
volgo indietro lo sguardo a quella giovane donna che ero io un
tempo, con una punta di tenerezza e tanta rabbia.
Adriano non approvava i metodi della lotta armata, pur
condividendo che molte cose, in Italia, dovessero cambiare.
Piuttosto, il suo modo di combattere trovava espressione nel
dialogo e nell’ascolto, e su questo punto era in perfetta sintonia
con Antonio, di cui divenne amico fraterno.
Il suo avvicinamento al progetto politico della militanza
armata fu graduale; più si faceva dura la lotta tra le organizzazioni
rivoluzionarie e le forze di polizia, più cresceva la sua convinzione
che quella fosse davvero l’unica strada per neutralizzare lo Stato
borghese e capitalista. L’adesione al gruppo sovversivo, per

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
quanto osteggiata dal suo intimo rifiuto della violenza, alla fine fu
inevitabile.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
La convocazione dell’autorità giudiziaria mi venne notificata di
primo mattino da due carabinieri. La mia collega assistette alla
scena basita, con il grissino che teneva in mano sospeso a
mezz’aria nel gesto di morderlo.
La voce si propagò in un’eco impietosa che raggiunse tutti gli
uffici nel tempo di un sospiro. Ricordo bene quella giornata
interminabile. Venivo scansata da tutti come una lebbrosa. Anche
Marisa, che pure era donna pratica e non dava mai credito ai
chiacchiericci di corridoio, quel giorno decise di tenermi a
distanza di sicurezza. Ogni tanto, dalla sua scrivania, mi lanciava
certi sguardi indagatori da farmi desiderare di smaterializzarmi
all’istante. Mi vergognavo come un infame della peggior specie.
Nessuno osò chiedermi una spiegazione, né uno straccio di
chiarimento, quasi preferissero restare nel dubbio piuttosto che
avere conferma di una risposta che nelle loro menti si era già
definita. Gli sguardi mi trafiggevano come spine e
quell’attenzione, costante e morbosa, mi faceva sentire davvero
colpevole di qualcosa.
Andai comunque in mensa. Con un colpo d’occhio individuai
subito un tavolo libero, addossato a una parete. Mi sedetti
volgendo le spalle alla sala. Avevo lo stomaco chiuso, l’odore di
arrosto mi dava la nausea e ogni boccone che mandavo giù era
come pietra, ma mi sforzai di consumare il pasto e di sostenere,
con dignità, il profondo disagio che mi dilaniava. Milena, che non

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
perdeva mai occasione per mettere in pratica le sue tattiche di
avvicinamento, pure lei quel giorno si guardò bene dall’avvicinarsi
a me.
Mi concentrai sul colloquio con il magistrato. Per un momento
presi in considerazione il consiglio di Baggiani. Scacciai subito
quel pensiero. Pensai anche ad Adriano, rinchiuso dentro una
cella. Per lui, come per la maggior parte dei terroristi arrestati
quella stessa notte, scattò subito la carcerazione preventiva.
Sapevo delle rapine, ogni volta mi raccontava tutto con dovizia di
particolari, con la stessa fierezza di un guerriero che torna
trionfante da una battaglia, ma non potevo comportarmi da
carogna, non me lo sarei mai perdonato. D’altronde io ero pulita.
Cosa avrebbero potuto farmi? No, mi ripetevo come un mantra,
non lo avrei mai tradito, dalle mie parti il tradimento è un’offesa
imperdonabile.
Quando arrivai in caserma, in netto anticipo rispetto all’orario
stabilito, mi sentivo forte abbastanza per affrontare il nuovo
colloquio. Mi fecero aspettare per più di un’ora in un corridoio
spoglio e privo di sedie, lungo il quale si aprivano delle porte a
vetri da entrambi i lati. Si percepiva un odore di disinfettante,
uguale a quello degli ospedali. Sul soffitto erano fissati in serie dei
tubi al neon che emettevano una luce discontinua e tremolante.
Uomini in divisa e in abiti civili entravano e uscivano dagli uffici,
in un continuo aprire e sbattere di porte. Sembrava che avessero

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
tutti molta fretta e un gran da fare. Da una stanza sentivo il
ticchettio lento di una macchina di scrivere, tipico di chi batte sui
tasti con due sole dita, una per mano. Dopo un’attesa estenuante,
fui accompagnata nella stanza elegante, quella delle decisioni
importanti.
Il magistrato prese il discorso alla lontana. Dapprima, si lanciò
in un panegirico sulle qualità morali e sull’onestà intellettuale dei
sardi che io, a dirla tutta, trovai privo di senso e fuori contesto.
Poi arrivò al dunque. Mi allungò un foglio dattiloscritto e mi
chiese di firmarlo in calce, così, finalmente, ce ne saremo andati
tutti a casa. Mi rifiutai. Non potevo firmare il falso, gli ripetei.
Fece una smorfia di disappunto, poi sbuffò forte. Da una cartella
di cuoio nuova di zecca tirò fuori un altro foglio che poggiò sopra
l’altro, con precisione millimetrica.
– Questo, invece, è obbligata a firmarlo. Le consiglio di
cercarsi un bravo avvocato.
Lessi il foglio, ma non riuscivo a capire bene quelle formule
giuridiche zeppe di vocaboli di cui conoscevo a malapena
l’esistenza. Guardai il magistrato e poi di nuovo il foglio. Quando
Baggiani, intercettando la mia difficoltà, tradusse in parole
semplici il contenuto della notifica, mi mancò l’aria. Da semplice
testimone mi ritrovai addosso, di punto in bianco, l’accusa di
favoreggiamento. Non potevo allontanarmi da Sesto, mi spiegò
Baggiani, e dovevo comunicare all’autorità di polizia, cioè a lui, gli

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
orari e i luoghi dove essere reperita per i controlli di routine. In
ogni caso, la notte non avrei mai potuto lasciare il mio
appartamento.
Mormile restò indifferente di fronte alla mia incredulità. La sua
espressione sembrava addirittura compiaciuta per il risultato
ottenuto dall’improvviso cambio di programma. Sembrava che i
suoi occhi mi dicessero: “Eccoti servito il conto”.
A causa sua, avrei dovuto difendermi nell’aula di un tribunale,
come un comune delinquente. Non avrei potuto lasciare Sesto
sino alla fine del processo, cioè per un tempo indefinito, se mai
fossi stata prosciolta dall’accusa.
Ci vollero alcune ore per sbrigare le formalità, tempi morti
compresi, e Baggiani ebbe la delicatezza di trattenersi con me per
tutto il tempo. Era quasi mezzanotte quando uscii dalla caserma.
Fuori non si muoveva un filo d’aria. Le strade erano deserte. La
città dormiva a quell’ora, sembrava che riprendesse fiato,
profittando del silenzio e dell’oscurità della notte, prima di
ritornare operativa al richiamo delle sirene delle fabbriche.
L’odore pungente di ammoniaca sospeso sotto la densa cappa di
umidità mi irritava la gola e le narici. Faticavo a deglutire.
Alla fermata dell’autobus, seduta sotto la pensilina, trovai
Milena ad aspettarmi. Era più pallida del solito e indossava un
completo giacca pantalone di colore molto chiaro. Aveva
l’aspetto di una creatura eterea. Non si trattenne a parlare con me,

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
né io avevo intenzione di avviare una conversazione con lei. Mi
allungò un biglietto da visita che sfilò con un gesto rapido, quasi
furtivo, dalla borsetta.
– Chiamalo, – mi disse, – è un bravo penalista.
Mi cinse in un abbraccio imbarazzato che mi lasciò addosso il
profumo dolciastro dell’acqua di colonia che le regalai per il suo
ultimo compleanno. Quando si voltò per allontanarsi la sentii
sussurrare: – Buona fortuna.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
I miei genitori arrivarono a Sesto qualche giorno prima della
vigilia di Natale. Mia madre detestava viaggiare. Per lei, che in
tutta la sua vita non era andata oltre Nuoro, e mai di buon grado,
era solo una perdita di tempo perché, sosteneva, in paese c’era
tutto ciò di cui aveva bisogno. Mio padre, invece, si considerava
un uomo di mondo. In realtà, le sue trasferte nella penisola si
potevano contare sulle dita di una mano sola. A parte il servizio
militare, che fece a La Spezia e a Taranto, partecipò due o tre
volte a delle manifestazioni di protesta organizzate dal
movimento dei pastori, di cui era delegato di zona. Si vantava di
conoscere Roma almeno quanto la Barbagia, ma la sua familiarità
con la capitale era limitata al percorso del corteo, da stazione
Termini a piazza di Montecitorio, passando per via Barberini.
Non mancava mai di spedire una cartolina a mia madre, e ogni
volta sceglieva per lei improbabili tramonti capitolini dai colori
innaturali, tutti accomunati dallo skyline della Basilica di San
Pietro, come se quello fosse l’unico panorama possibile.
Decisero di arrivare via mare, su questo punto mia madre fu
irremovibile. Le possibilità che un aereo precipitasse, a suo
avviso, erano ben superiori a quelle di un ipotetico naufragio. E
in ogni caso, lei era in grado di nuotare, ripeteva infastidita a chi
tentava di farle cambiare idea, ma non sapeva ancora volare.
Quante risate con babbo quando mi raccontò i retroscena del
viaggio!

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Li accompagnò Boele, mio fratello maggiore, che per
l’occasione sfidò le leggi della fisica e mise a dura prova le
capacità di carico della sua vecchia 127 sport, stipata di ogni ben
di Dio.
Non potei fare a meno di raccontare la verità ai miei familiari.
Le misure cautelari mi vietavano di allontanarmi da Sesto e non
c’era altro modo per motivare la mia assenza in paese durante il
periodo natalizio. Ormai era da quasi un anno che non mettevo
piede a Tùvula. Scrissi loro una lettera, cui seguì, qualche giorno
dopo, una telefonata di mio padre in ufficio. La conversazione fu
brevissima e lui non fece alcun riferimento al mio scritto. Dopo
essersi accertato del mio stato di salute, mi annunciò che, quella
volta, sarebbero “saliti” loro, lui e mia madre, da me, e che
avevano già provveduto a fare i biglietti, come a farmi intendere
che la decisione era ormai presa e che da parte mia non erano
ammesse repliche.
Arrivarono in una tiepida domenica di sole. L’aria era talmente
tersa da far apparire bello anche il paesaggio urbano circostante, o
forse l’arrivo dei miei genitori mi dispose a uno sguardo meno
severo del solito. Ero felice e impaziente di vederli. Dalla finestra
li vidi svoltare dall’incrocio con la strada principale. L’auto
avanzava incerta. Di tanto in tanto rallentava sin quasi a fermarsi,
forse controllavano i numeri civici delle palazzine.

101
Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Prima vidi un paio di gambe, poi il corpo di mia madre
divincolarsi per sgusciare dallo sportello dell’auto, troppo stretto
per la sua mole. Indossava un pesante cappotto di montone e un
cappello di lana che le copriva metà del viso. La udii borbottare
qualcosa di incomprensibile mentre si avvicinava al portone che
le indicavo con ampi gesti delle braccia.
– Ma come ti è saltato in mente di venire a vivere così
lontano? – ansimò mentre riprendeva fiato tra una rampa di scale
e l’altra.
L’abbracciai forte e l’aiutai a portare in casa la valigia. Il
vassoio di dolci no, quello l’avrebbe portato dentro lei.
Più che un breve soggiorno, sembrava che avessero
organizzato un trasloco in piena regola. Aspettai paziente che mio
padre e Boele portassero dentro il resto dei bagagli, mentre mia
madre ispezionava la casa, non senza esimersi da commenti sulla
sommarietà delle pulizie e sulla discutibile disposizione di certi
mobili.
Qualche ora più tardi la situazione si tranquillizzò e ci
ritrovammo tutti insieme seduti attorno al tavolo della cucina. Tra
una portata e l’altra, fui aggiornata con dovizia di particolari sugli
ultimi pettegolezzi di Tùvula, fatterelli di vita quotidiana che
nutrivano di nuova linfa le chiacchiere di vicinato. La
conversazione si mantenne sui toni conviviali per tutta la durata

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
del pranzo. Nessuno di loro fece menzione dei miei guai
giudiziari, né tantomeno mi fecero domande al riguardo.
Dopo il caffè e l’ammazzacaffè, con il pretesto di andare a fare
due passi, gli uomini sgombrarono il campo.
– Comunque… hai fatto la cosa giusta, Lena, – disse mia
madre mentre asciugava i piatti.
– Lo pensi davvero?
– Certo! Nella nostra famiglia mai nessuno è passato per
infame. Il tuo avvocato è bravo?
– Credo di sì, gli ho parlato due volte. Secondo lui non ho
nulla da temere.
– Ecco, vedi? Devi solo portare pazienza. Le cose si
aggiustano. E poi, ci siamo anche noi.
– Lo sai che verranno i carabinieri di notte?
– Quando vengono gli offriamo caffè e pasticcini – rispose
strizzandomi l’occhio.
– Qualcuno lo sa in paese?
– Oltre noi? Solo nonno Bastiano, sotto due metri di terra, –
disse con una risata forte.
– Chissà cosa avrebbe detto lui.
– E cosa doveva dire? Che hai fatto bene! Ne abbiamo parlato,
io e tuo padre. Siamo fieri di te. Ti abbiamo cresciuto bene. Hai
solo sbagliato a stare dietro a certa gente. Tu e il tuo maledetto
vizio di dare retta a tutti. Dovevi fare più attenzione. Ma ormai il

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
danno è fatto. Adesso dobbiamo pensare a uscirne fuori con
dignità.
Mia madre era una donna pratica e schietta. La sua filosofia di
vita era improntata sull’agire deciso, odiava tergiversare attorno
alle cose. Aveva sempre una soluzione pronta ai problemi e non
si lasciava intimidire nemmeno dalle situazioni più complicate. A
tutto c’è rimedio, ripeteva, meno che alla morte.
Terza di quattro sorelle, la sua famiglia di origine era la più
ricca di Tùvula, almeno sino a quando il padre, smesso
velocemente il lutto per la morte prematura della moglie, pensò
bene di investire l’intero patrimonio familiare in abiti costosi e
puttane raffinate, riducendo presto le figlie alla fame. Forse anche
a causa del suo vissuto, della sua adolescenza orfana di un
sostegno genitoriale, mise al centro del suo mondo la famiglia,
sacra e inviolabile, come pure l’onorabilità e il rispetto di tutti i
suoi componenti. Nei momenti difficili il nucleo si ricompattava
con una levata di scudi generale, e ciascuno di noi poteva sempre
contare sull’aiuto incondizionato degli altri.
Boele partì la sera stessa, non prima di essersi assicurato - con
la discrezione di un figlio e, nello stesso tempo, la saggezza di un
capofamiglia - che la situazione fosse sotto controllo. D’altronde,
i nostri genitori avevano una certa età, lamentavano i primi
acciacchi, e come primogenito sentiva la responsabilità morale di
prendersi cura di tutti noi. Mi salutò con un abbraccio paterno,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
rassicurante, poi mi guardò negli occhi e mi disse: – Ses una balente
vera, Lena.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mormile decise di puntare sull’effetto sorpresa. Da un giorno
all’altro i controlli divennero saltuari. Ancora oggi non capisco
quell’eccessivo accanimento nei miei confronti, ma quali che
fossero le reali intenzioni, la nuova strategia ebbe su di me un
effetto destabilizzante. Mi sentivo sotto costante pressione e
vivevo le giornate in uno stato di angoscia che non mi concedeva
un attimo di tregua. Capitava che i carabinieri non si facessero
vedere per due o tre giorni, poi all’improvviso piombavano in
casa nel cuore della notte o, peggio ancora, in ufficio, tra gli
sguardi sbigottiti dei miei colleghi.
L’idea di subire un controllo in acciaieria mi faceva provare
vergogna. Quando accadeva, sentivo addosso a me il peso di tutti
i peccati del mondo.
Mi distraevo con facilità e cominciarono a sorgere problemi
sul lavoro. Marisa interveniva, paziente, laddove fallivo. Per
quanto il rapporto con lei si fosse raffreddato, continuava a
nutrire nei miei confronti un atteggiamento quasi materno che la
spingeva a proteggermi. Conosceva la causa dei miei guai, era
presente pure lei quando il direttore del personale mi convocò
nella sua stanza.
– Credo di avere diritto a una spiegazione, signorina Pinna.
– Su cosa, direttore?

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Non giriamoci attorno, per cortesia. È la terza volta che i
carabinieri irrompono nei nostri uffici. Mi spiega di preciso cosa
vogliono da lei?
Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Piazzata davanti
allo specchio del bagno, come un’idiota, immaginavo di trovarmi
di fronte al mio capo. Interagivo con la mia immagine riflessa
usando tono di voce ed espressione del viso sempre diversi, alla
ricerca della combinazione perfetta. Feci parecchie prove e
credevo di essere pronta per affrontarlo. Quel giorno, invece, la
sua domanda diretta mi spiazzò, il respiro mi si chiuse in un
rantolo e a stento trattenni un attacco di panico.
Chiesi a Marisa dell’acqua. Presi tempo per superare la crisi. Al
secondo bicchiere la respirazione tornò regolare e, come un fiume
in piena, raccontai loro del perché mi trovassi nei pasticci, delle
perquisizioni e degli interrogatori, delle misure cautelari e della
paura di non sentire il campanello della porta che mi impediva di
dormire la notte. Poi ebbi un crollo e mi abbandonai a un pianto
silenzioso.
Dovevo avere un aspetto orribile. Mi colava il naso e mi
bruciavano gli occhi, ma dopo lo sfogo stavo decisamente meglio,
alleggerita di un fardello che avevo consegnato nelle loro mani.
Non era più affar mio. Ora sapevano e avrebbero preso una
decisione. Perdere il lavoro, a quel punto della mia vita, sarebbe
stato il meno grave dei problemi.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Il direttore prese tempo. Fumò due sigarette, una dopo l’altra,
poi si voltò verso Marisa.
– Che ne pensa?
– È una storia terribile… – rispose con la voce strozzata,
mentre si tamponava il naso col dorso della mano.
– Se avete intenzione di mandarmi via, sono disposta a firmare
la lettera di licenziamento – intervenni.
– Qui non si licenzia nessuno. Io le credo. Voglio credere alla
sua versione dei fatti, lei ha l’aria di una brava ragazza e poi… poi
avevo profonda stima di suo cugino.
– Ed è anche una brava contabile, direttore – rilanciò Marisa.
– Signorina Pinna, i processi in Italia vanno per le lunghe.
Rischia di restare intrappolata in questa brutta storia per anni.
Pensa di reggere la situazione? Mi spiego meglio, qui si lavora
otto ore al giorno. Sarà dura.
– Ci sto provando.
– Bene. Per il momento le suggerisco di prendersi una
settimana di ferie. Ne avrà bisogno per rimettersi in sesto. Nel
frattempo, cercheremo di parlare con il magistrato. Questi
controlli in ufficio devono finire.
Quando rientrai a casa, quella sera, fui accolta da un profumo
di minestrone che mi fece dimenticare la giornataccia e mi mise in
pace con il mondo. Mia madre, che ormai faceva spola fra Tùvula
e Sesto, si dava sempre parecchio da fare ai fornelli. Secondo lei,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
la bellezza di una donna era direttamente proporzionale alla
generosità dei suoi fianchi e il colesterolo era un’invenzione dei
medici per fare arricchire la categoria.
– Ma come fai a sopportare questa puzza? – borbottò mentre
continuava a rimestare le verdure nella pentola con un grosso
cucchiaio di legno.
– Sono le fabbriche, ma’. Come direbbe babbo, questo è
l’odore dei soldi.
– Spero che non concimino anche i campi con l’ammoniaca.
– Sai, oggi ho raccontato tutto al direttore del personale.
– Tutto cosa?
– Tutto.
– E ti ha licenziato?
– No. Anzi, è stato comprensivo. Mi ha dato una settimana di
ferie per riposare. Mi sento sollevata, sai?
– E ci credo! A dire le cose come stanno si cammina a testa
alta e si vive più a lungo.
Se la sua teoria avesse avuto un barlume di fondatezza
scientifica, mia madre sarebbe dovuta campare altri cento anni.
Priva di un solo briciolo di diplomazia, a Tùvula era temuta da
tutti per la sua schiettezza, sino a risultare per qualcuno donna
sfrontata e irriverente. Invece, non ebbe nemmeno il tempo di
conoscere l’epilogo della mia vicenda giudiziaria, beffata da un
male congenito al cuore che andò peggiorando negli ultimi anni.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Morì senza patimenti, una notte, mentre dormiva accanto al
marito. Ho sempre pensato che il carico di dolore procurato dalla
mia storia personale fosse stato eccessivo anche per una donna
forte come lei. Non me ne faccio una colpa, non sono mie le
responsabilità, e anche nel ricordo di lei mi sono nutrita del
desiderio di vendetta.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Marisa andò in pensione, ma io non presi il suo posto, com’era
nei piani. Quando concluse la sua onorata carriera di capo
contabile, con le congratulazioni dei colleghi e una stretta di
mano del direttore del personale, il mio periodo di preavviso
stava per terminare. Lasciai l’acciaieria qualche settimana dopo,
schiacciata dal peso opprimente del sospetto e dal debito di
sonno che mi svuotava dentro. Fu una decisione tanto dolorosa
quanto necessaria. Procrastinavo di giorno in giorno il momento,
mi alimentavo di quel lavoro, non avevo altro, ma in fondo
sapevo che prima o poi avrei dovuto cedere.
In un anno misi su dieci chili e gli attacchi di panico divennero
la norma. I valori sballati del sangue tracciavano di me lo stato
clinico di una settantenne e sviluppai un disturbo cardiovascolare
che mi procurava dolorosi gonfiori alle caviglie. I medici del
pronto soccorso furono categorici: dovevo cambiare al più presto
stile di vita e, soprattutto, dormire.
I primi mesi da disoccupata feci vita di clausura, uscivo di casa
lo stretto necessario e sempre con una certa resistenza. In
compenso, dormii tanto, tantissimo. Non furono necessari i
sonniferi che mi prescrissero in ospedale, perché, in realtà, io non
soffrivo d’insonnia. Il mio vero problema era non riuscire a
prendere sonno la notte, mentre durante il giorno ero capace di
fare delle tirate di otto ore.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Il piccolo gruzzolo che avevo messo da parte mi consentì di
riprendere fiato e forze senza l’assillo di ritrovarmi presto senza
una lira; al momento giusto, con calma, avrei cercato un lavoro
compatibile al mio stile di vita non conforme ai canoni della
normalità.
Le condizioni di salute lentamente miglioravano. Imparai a
gestire gli attacchi di panico, sempre meno frequenti, e il regime
alimentare che mi imposi di seguire mi restituiva, pezzo dopo
pezzo, il mio corpo di donna.
Intanto che proseguivo la mia cura a suon di cibo sano e
sonore dormite, Baggiani mi raccomandò alla cooperativa di
servizi incaricata delle pulizie in caserma. In tutto quel tempo,
quell’uomo non smise mai di prendersi cura di me, nell’ombra
della sua discrezione.
Durante il periodo di prova fui assegnata alla squadra che si
occupava delle pulizie del tribunale. La prima volta che misi piede
in una di quelle aule, proprio in quella che ebbi modo di
conoscere bene, provai un forte senso di vertigine. Barcollai.
Dovetti aggrapparmi con tutto il mio peso al manico della scopa
per mantenere l’equilibrio. Col tempo ci feci l’abitudine, e vivere
il mio presente da una diversa prospettiva fu, in qualche misura,
anche terapeutico.
Avevo segnato in un’agenda tutte le date: ventitre udienze in
due anni. Non me ne persi una. Le prime si svolsero proprio

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
dove la sera mi ammazzavo di lavoro, poi il processo fu trasferito
nell’aula bunker di fronte al carcere di San Vittore. Ragioni
logistiche e di sicurezza, dissero. Fui chiamata a deporre due sole
volte, gli altri dibattimenti me li sarei potuti risparmiare, ma essere
lì mi dava l’opportunità di rivedere Adriano.
Era un lavorare duro, quello, si faticava molto e si pensava
poco. Condizione perfetta per me, in quel periodo. Si attaccava
tutte le sere alle venti e si proseguiva a oltranza, anche fino alle
quattro del mattino. Rientravo a casa stremata, senza nemmeno
l’energia per fare una doccia. Spesso mi buttavo sul letto con
ancora indosso la divisa azzurrina e un odore pungente di
disinfettante sulla pelle.
Per qualche anno mi portai avanti così, fra stracci bagnati e
spazzoloni, a pulire i grandi uffici della città. Era un lavoro
monotono e scialbo, come la mia vita d’altronde. Poi sviluppai
una grave forma allergica verso i prodotti chimici. Dalle mani il
prurito si propagava per tutto il corpo, in un crescendo
incontenibile. Mio malgrado, mi dovetti licenziare.
Per una seconda volta venne in mio soccorso Baggiani. Mi
presentò a un’anziana donna dell’alta borghesia milanese. Era
vedova e non aveva né figli, né parenti prossimi. Viveva nel
terrore di morire in solitudine, e immaginava che il suo corpo
sarebbe stato ritrovato, decomposto e indecoroso a vedersi, da
qualche amica preoccupata del suo prolungato silenzio. L’orario

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
di lavoro era perfetto. Avrei dato il cambio alla cameriera, che
staccava alle venti e riprendeva servizio il mattino dopo. Accettai
senza esitare.
Donna Letizia era una bizzarra vecchina di stampo inglese,
stereotipo di certi film in bianco e nero che amavo tanto
guardare. Abitava in un piccolo appartamento di un quartiere
bene di Milano, a pochi minuti dal Duomo, pieno zeppo di
soprammobili. Una smisurata quantità di candelabri, portaritratti,
vasi decorati e cofanetti occupava persino l’ultimo centimetro di
un qualsiasi piano di appoggio utile.
Ho sempre dubitato che fosse davvero di nobile lignaggio, ma
i suoi modi erano così raffinati ed eleganti da meritare comunque
l’appellativo aristocratico di cui amava fregiarsi. Piccola e
ingobbita dall’età, i capelli bianchissimi con tenui riflessi violacei,
aggrinzita come una castagna secca, era solita muoversi per casa
vestita di tutto punto, ingioiellata come una santa patrona portata
in processione. Tutte le sere mi accoglieva con un sorriso
complice e un album fotografico stretto forte tra le braccia, quasi
mi volesse rivelare un gran segreto. Sedute su un divano in
tessuto damascato tanto antico quanto scomodo, amava
ripercorrere i bei tempi andati mostrandomi una serie infinita di
vecchie fotografie scolorite. Alle dieci in punto si ritirava nella sua
stanza, e io dietro di lei a vegliare sul suo sonno.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Sapeva tutto di me. Sapeva di me ancor prima che entrassi
nella sua casa e nella sua vita. Gliene parlò Baggiani, innanzitutto,
per dovere di verità. Gliene parlai anche io, per condividere con
lei il peso della mia storia.
Il nostro sodalizio durò parecchi anni e di lei serbo ancora un
affettuoso ricordo. Spesso mi incantavo a guardarla dormire.
Invidiavo quel suo sonno beato, quell’espressione innocente di
bambina in un corpo di vecchia, accartocciato e cadente, come
una bambola dall’aspetto grottesco.
Una domenica si svegliò di buon mattino, volse lo sguardo
verso di me, quasi a sincerarsi della mia presenza, e sorrise
strizzandomi l’occhio, poi si lasciò andare in un lungo sospiro e
richiuse gli occhi. Donna Letizia morì proprio come desiderava,
con qualcuno accanto a sé. Fu una morte delicata, in punta di
piedi, dolce come l’odore della sua pelle che profumava di
cannella e vaniglia.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Dopo quattro lunghissime ore il pubblico ministero concluse
la sua requisitoria. Per riprendere fiato si schiarì un paio di volte
la gola, bevve a sorsate un bicchiere d’acqua e passò alle richieste
di condanna. Con la consueta gestualità da teatrante, elencò i capi
di imputazione e i relativi articoli di legge per ciascuno dei
centododici imputati a processo.
Il magistrato ci andò giù pesante: ottocentoquarant’anni di
detenzione distribuiti fra ergastoli e pene meno severe. Per me
chiese l’assoluzione; per Adriano, su cui pesava l’accusa di
partecipazione a banda armata, nove anni di carcere, il massimo
della pena.
La corte si ritirò in camera di consiglio.
Una settimana dopo l’aula era gremita di gente. Fra i banchi
non c’era un sedile libero. Amici e parenti degli imputati
rumoreggiavano fra gli spalti riservati al pubblico; i cronisti,
attrezzati di taccuino e registratore, sgomitavano fra loro per
guadagnare una posizione privilegiata nell’area riservata alla
stampa.
Mentre il giudice leggeva la sentenza, io guardavo in direzione
delle gabbie bianche. Speravo di incrociare lo sguardo di Adriano
per condividere con lui il momento in cui sarebbe stato
pronunciato il suo nome. Ero accanto al mio avvocato, fra i primi
banchi della difesa, e dovetti allungare il collo per guadagnare

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
visuale. Lo intravidi appena, oltre le sbarre, seduto su una panca,
in disparte, la testa china fra le mani.
Il verdetto fu accolto con un boato da stadio. Gli imputati,
inferociti come belve affamate, da dietro le sbarre inveivano
contro la corte, che nel frattempo abbandonava l’aula. Non
capivo le parole, le loro grida si sovrapponevano in un coro
disarmonico e stonato, ma ne avvertivo la tensione e la rabbia
sorda. Anche dagli spalti si levarono cori di protesta e pugni al
cielo contro una sentenza giudicata troppo severa. Al centro
dell’aula, uomini in toga indifferenti alle urla, feroci avversari sino
a un attimo prima, si consumavano in reciproci complimenti con
vigorose strette di mano e fraterne pacche sulle spalle. Mormile e
il giudice istruttore furono presi d’assalto da giornalisti
febbricitanti per le prime dichiarazioni a caldo.
Uno dopo l’altro, i detenuti vennero presi in custodia dai
poliziotti e scortati sottobraccio fuori dall’aula. Adriano fu uno
degli ultimi a uscire. Ebbi un sussulto nel vederlo con le manette
ai polsi. Si voltò verso di me, che in tutto quel trambusto non mi
mossi mai dal mio posto, pietrificata. I nostri sguardi si
incrociarono appena, disturbati dalle mille teste che ci
separavano, ma riuscii a leggere nei suoi occhi rassegnati tutto il
peso della sconfitta. Poi lo vidi sparire al di là di una porta a vetri.
Dopo quattro anni di calvario ero una donna libera, prosciolta
anche in secondo grado da un’accusa senza fondamento. Avrei

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
dovuto essere felice, fare salti di gioia, invece provavo un forte
senso di vuoto e di solitudine.
Mormile fu protagonista assoluto di un processo epocale,
l’ultimo per lui. Prima di riporre la toga in naftalina per dedicarsi
alla sua nuova passione, la politica, volle concludere in bellezza la
sua brillante carriera forense, anche a costo di rovinare l’esistenza
di chi, come me, con quella storia non aveva mai avuto nulla a
che fare. Prima o poi avrebbe pagato per questo. Lo giurai sulla
tomba di mio nonno.
Nei giorni a seguire si concesse a molte interviste. E ogni
volta non mancava di puntualizzare che solo grazie a lui, alle sue
accurate indagini e alla poderosa istruttoria del suo collega - eh,
ogni tanto si degnava di citare anche lui - poteva considerarsi
finalmente sconfitta la colonna terroristica dell’area milanese. La
verità, invece, è che senza la collaborazione dei pentiti non
avrebbe concluso una beata mazza.
In tutta quella vicenda io ebbi un ruolo da comparsa, ai
margini della scena. Il mio copione prevedeva una sola battuta, mi
avvalgo della facoltà di non rispondere. Eppure, la mia vita andò
comunque in frantumi e ancora oggi, che sono donna matura,
non ho finito di rimettere insieme i pezzi della mia esistenza.
Forse non ci riuscirò mai.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Stentai a riconoscerla. Capelli rosso tiziano, giubbino in jeans e
anfibi ai piedi. È vero che quelli erano anni di grandi mutamenti
sociali, e anche la moda cambiava, ma da lei non mi sarei mai
aspettata una trasformazione così radicale. Non la vedevo da
quando lasciai l’acciaieria, nell’estate dell’83. Era appoggiata a una
Ritmo parcheggiata in piazza Filangieri, poco oltre la ressa di
giornalisti e fotografi che affollava il marciapiede a caccia dello
scoop che avrebbe potuto dare una svolta alla loro carriera.
Aspettava me. Mi propose di andare a bere un drink in un locale,
lei che aveva sempre sostenuto di essere astemia.
Entrammo in un disco pub poco distante da San Vittore. Le
luci della sala erano basse. Due cameriere si agitavano in pista
sulle note di una canzone dei Duran Duran. Sotto la camicetta
bianca plissettata indossavano delle spalline che sembravano
enormi protesi ortopediche. Un uomo appoggiato al bancone, i
capelli unti raccolti in un codino e un mozzicone di sigaro
penzoloni nella bocca, flirtava con loro mentre beveva una birra:
sembrava che quei modi sguaiati lo eccitassero parecchio. I tavoli
erano tutti liberi e scegliemmo quello più distante dalle casse. La
musica, oltre che di pessimo gusto, era assordante. Ordinammo
da bere.
– Sei cambiata – dissi neutra per rompere il ghiaccio.
– Ti piace il mio nuovo look?
– Un po’ troppo aggressivo per i miei gusti.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Senti, mi dispiace per i guai che hai passato.
– Come vedi, sono ancora in piedi.
– Mormile è uno stronzo. Te l’ha fatta pagare, il perché lo sai,
e ti ha usata come figurante nel suo processo.
– Sono ancora in piedi, ti ripeto.
– Immagino che ti sarai chiesta quale sia stato il mio ruolo in
questa vicenda.
– A dire il vero, no. Ho solo pensato che fossi una persona da
evitare.
– Non sei stata l’unica a pensarlo, – rispose con un sorriso
appena accennato. – Molti colleghi credevano che avessi legami
con la lotta armata. Anche Marisa lo pensava. Mi lanciava certe
occhiatacce che sembravano coltellate. In realtà era ciò che
volevo.
– In che senso?
– Non sono mai stata una terrorista.
– Quindi chi saresti?
– In acciaieria lavoravo sotto copertura.
– Seee… Ora mi dirai che sei un agente segreto – la schernii.
– Fuochino.
– Sei davvero un agente segreto? – ripetei con un bisbiglio
allungandomi verso di lei.
– Più o meno.
– Il direttore lo sapeva?

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– Non lo sapeva nessuno.
– Perché mi racconti queste cose?
– La guerra è finita, Lena, e poi tu non andresti mai a dirlo in
giro, sei barbaricina – mi rispose con una strizzata d’occhio.
– Mi hai raccontato una montagna di cazzate.
– Non potevo fare diversamente. Sai quanto mi è costato
passare tutto questo tempo per una verginella timorata di Dio?
Comunque, a parte la mia vera identità, l’amicizia con te era
sincera.
– Quel giorno, in bagno… come facevi a sapere di Adriano?
– C’erano degli infiltrati anche fra i sovversivi. Se è in galera lo
deve anche a me.
– Ah, quindi ti dovrebbe ringraziare? – la schernii ancora.
– Sì, ti potrà sembrare strano ma gli ho fatto un favore. È
stato arrestato prima che combinasse guai peggiori. Sei ancora
innamorata di lui?
– Ho altre cose alle quali pensare.
– Sconterà la pena nel carcere di Opera, quello nuovo, fuori
Milano. Se deciderai di fargli visita, non andarci subito, dagli del
tempo per superare il trauma. La vita di galera non è una
passeggiata per nessuno.
Quando mi salutò, fuori dal bar, con un rigido abbraccio e un
buona fortuna sussurrato, in cuor mio sapevo che quella sarebbe
stata l’ultima volta che l’avrei vista.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Guardai l’orologio, erano appena passate le sedici, cominciava
a imbrunire e il freddo si faceva pungente. Mi aggiustai la sciarpa
sotto il bavero del cappotto e mi diressi verso la fermata
dell’autobus. Donna Letizia, curiosa come una comare della
peggior specie, di sicuro a quell’ora non stava più nella pelle e io,
d’altro canto, sentivo il bisogno impellente di essere accolta dal
suo abbraccio rassicurante.
Ogni tanto l’immagine di Milena riaffiora dal cassetto dei miei
ricordi, custodita tra le tante facce che nel bene e nel male hanno
attraversato la mia vita. La sua amicizia fu importante. Unite in un
vincolo di sorellanza per me inedito, restò al mio fianco nel
difficile processo di emancipazione dalla mia famiglia e da certi
condizionamenti culturali che mi portavo addosso. Ci perdemmo
di vista in un altro momento cruciale della mia vita, quando,
consumati il senso di onnipotenza e le illusioni di cui mi ero
nutrita sino ad allora, cominciavo il mio vero viaggio verso l’età
adulta.

Donna Letizia prese l’abitudine di invitarmi ai suoi pomeriggi


mondani dedicati ai giochi di carte e alle chiacchiere da salotto.
Tra un pasticcino e una tazza di te, poco alla volta mi presentò
alle sue amiche facoltose. Persona capace e discreta, diceva di me,
ragazza irreprensibile, incalzava. E così, con modi eleganti e
disinvoltura meditata, mi introduceva nella sua fitta rete di

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
relazioni sociali. Fu la sua eredità, in qualche modo. Grazie a lei,
crebbe la mia cerchia delle conoscenze “che contano”, e le
opportunità di lavoro, quando venne a mancare, mi si
presentarono a piene mani.
Cambiai case e situazioni, alternandomi tra vecchi incapaci di
badare a se stessi o semplicemente annoiati da una routine
ordinaria e ordinata. Strinsi anche amicizia con alcune persone
che, come me, svolgevano i propri servizi di cura nei lussuosi
appartamenti della borghesia milanese. Ricordo Lucia, in
particolare, un’infermiera della mia stessa età con la quale
condivisi molte nottate al capezzale di una vegliarda, disidratata
come una prugna secca, che non aveva la minima intenzione di
giungere a un accordo con la morte. Sedute l’una di fronte
all’altra, alle sponde opposte del letto, proprio come due fidate
ancelle, facevamo mattina, lei a controllare la flebo, io a leggere ad
alta voce un libro di fiabe popolari dall’epilogo scontato.
Ci capitava di fantasticare, a me e a Lucia, durante le nostre
passeggiate domenicali nei giardini della Guastalla, su ipotetici
mestieri di irrilevante fatica e generosi guadagni. Ci divertivamo a
sognare di vite agiate, di soggiorni da favola in alberghi a mille e
più stelle, di leziose feste mondane trascinate sino a mattina fra
ostriche, champagne e uomini bellissimi che cadevano ai nostri
piedi, consapevoli che, uscite dal parco, avremo ripreso la nostra
vita di sempre, piatta come il mare di settembre. E fu allora,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
proprio durante una di quelle chiacchierate frivole, che restai
folgorata da un’illuminazione.
Il giorno dopo, di primo mattino, mi attivai per prendere
informazioni sui corsi di dizione. A Milano c’era davvero
l’imbarazzo della scelta. Dopo aver sfogliato e ripassato più volte
le Pagine Gialle, ne trovai uno alla mia portata per orari e
portafoglio. Quaranta ore individuali diluite in tre mesi sarebbero
state sufficienti per attenuare l’inflessione e migliorare pronuncia
e impostazione vocale. Nel contempo, per acquisire familiarità
con una certa tipologia di linguaggio, tutt’altro che monacale,
inaugurai un nuovo filone nella mia collezione filmografica.
All’inizio fu dura, ma presto mi si aprì un mondo. Imparai a
discernere e a pronunciare correttamente le vocali aperte e chiuse,
laddove prima non coglievo alcuna differenza. Presi a respirare
con il diaframma e mi applicai a controllare intonazione, ritmo e
pause delle frasi. Per tutta la durata del corso, mi registravo per
poi riascoltarmi. I risultati furono sorprendenti, al di sopra di
qualsiasi aspettativa. A fine corso potevo sfoggiare una voce
nuova, pulita e ben impostata, tutta un’altra storia davvero.
Lucia, che non capiva il motivo di tanta dedizione ai miei
nuovi studi, si mise in testa che volessi tentare la strada del
cinema o del teatro. E io, per non deluderla, glielo lasciai credere.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
L’ultimo martedì del mese, alle otto in punto, raggiungevo la
stazione centrale. Da lì avrei preso il primo dei tre autobus che mi
avrebbero portato alla periferia sud della città. Non era agevole
arrivare sin laggiù. Il nuovo carcere era stato costruito in un’area
isolata, in piena campagna e mal servita dai mezzi pubblici, come
se nella mente di chi l’aveva concepito anche i familiari dovessero
espiare, in qualche modo, le colpe dei detenuti.
L’ultimo tratto di strada, una buona mezz’ora a passo
sostenuto, lo facevo a piedi. Camminare mi aiutava a tenere sotto
controllo gli attacchi di panico e a dispormi nel migliore dei modi
all’incontro, mai facile.
Più mi avvicinavo al carcere, più con lo sguardo riuscivo a
penetrare la nebbia e a definire il profilo degli edifici. Nelle rare
giornate limpide, invece, ne coglievo i dettagli anche a distanza,
fino a distinguere le maglie delle grate alle finestre, con le loro
geometrie tutte uguali. Osservate da quella prospettiva, e con
l’aggiunta di un pizzico di fantasia, le facciate sembravano delle
enormi scacchiere, con le finestre scure che si succedevano a
distanza regolare e ravvicinata sul bianco avorio dell’intonaco. Il
muro di cinta che correva lungo il perimetro della struttura,
impenetrabile e fin troppo levigato anche per la presa decisa di un
geco, definiva la linea di demarcazione oltre la quale il concetto di
libertà perdeva di significato, sino a diventare evanescente.
Varcare la cancellata e sentirsela richiudere alle spalle, con un

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
secco stridore di ferraglia, immancabilmente mi faceva mancare
l’aria.
La procedura di accesso, per quanto richiedesse solo una
perquisizione sommaria e il controllo dei documenti personali, si
trascinava sempre per le lunghe, dilatandosi in un tempo che mi
faceva tornare in mente la lentezza snervante del mio paese. La
guardia carceraria dietro la vetrata antiproiettile sembrava
provasse un piacere sadico nel trattenermi oltre il necessario. Non
perdeva occasione per azzardare apprezzamenti da bar dello
sport, verso i quali l’istinto mi incitava a replicare con un garbato
vaffanculo, ma ogni volta cedevo al buonsenso e me li lasciavo
scivolare addosso con un sorriso falso come un fariseo.
Dalla portineria venivo trasferita in una saletta cieca, arredata
con due panche di metallo inchiodate al pavimento e un tavolino
azzoppato, al centro della stanza, pieno di riviste sgualcite,
proprio come le sale d’aspetto di certi gabinetti medici affidati alla
sciatteria. Non capivo il motivo di quell’attesa, che poteva durare
un’ora e anche di più, ma il luogo e la situazione mi consigliavano
di non porre domande.
L’ingresso nel parlatorio era emozione pura, che nascondevo
fingendomi occupata a sistemare qualcosa fuori posto: una
piegolina della giacca, il contenuto della borsa, una ciocca di
capelli. Adriano era già lì, seduto al tavolo più vicino alla finestra.
Sceglieva sempre quello, come se facesse parte del nostro rituale.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Ci salutavamo con un bacio per guancia, come due cari amici.
Non era facile vincere l’imbarazzo iniziale e per tutta la durata del
colloquio la tensione mi impediva di vivere con naturalezza quel
momento.
Mi sedevo di fronte a lui e tiravo fuori dalla sacca di tela, uno
dopo l’altro, due o tre libri. Lui seguiva con attenzione i miei
movimenti lenti, le braccia incrociate sul tavolo, composto. Gli
occhi gli brillavano come quelli di un bambino che attende
impaziente di scoprire quali regali gli siano stati riservati. Da
qualche anno lavorava nella biblioteca carceraria. Si occupava
della catalogazione dei testi, ma certi argomenti non rientravano
nelle scelte editoriali della direzione. Ciò che non trovava fra gli
scaffali se lo annotava su un taccuino. In carcere era diventato un
divoratore di libri, leggeva tutto ciò che gli passava fra le mani, da
un libro di avventura a un poliziesco a un romanzo di
formazione. Ma ciò che a lui davvero interessava glielo procuravo
io, appuntato in un foglio ripiegato che mi lasciava fra le mani
quando ci salutavamo con un forzato arrivederci.
Passavamo così il nostro tempo: lui a parlare delle sue recenti
letture, io a raccontargli le trame degli ultimi film usciti nelle sale.
Mai un riferimento al passato, né a progetti futuri. Meno che mai
una confidenza. Il tono di voce rivelava un affetto profondo, ma
ogni singola parola era misurata. Per tacito accordo non davamo
spazio ai sentimenti, sarebbe stato troppo doloroso, e quella

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
stanza che puzzava di rimorsi e di rimpianti non era il luogo
adatto per ritrovare l’intimità che avevamo perso da anni. O forse
non l’avevamo mai persa, pensavo, e quello era solo il nuovo
modo che avevamo trovato per amarci, senza dircelo.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
La parola chiave era “intrattenimento”. Imparai presto a
riconoscere gli annunci economici giusti fra quelli pubblicati nelle
ultime pagine di certi quotidiani locali. Non erano richiesti
particolari requisiti se non la maggiore età, una buona dialettica e
la disponibilità a lavorare la notte.
Dopo un giro di telefonate, guidata più dall’istinto che da una
scelta ponderata, feci un primo tentativo. Andai a colloquio da
una donna di mezz’età che mi accolse con l’affabilità e
l’entusiasmo di una vecchia amica che non ti vede da anni.
Indossava un completo rosso che faceva da contrasto al casco di
capelli biondo platino scolpito con l’accetta. Il sorriso, largo e
generoso, le si apriva sul volto da parte a parte e mostrava una
dentatura perfetta, bianchissima. Solo una capsula d’oro
nell’arcata superiore ne interrompeva il candore smagliante.
Profumava di fresie.
Mi ricevette nel suo ufficio, una stanza che poteva sembrare il
salotto buono di un appartamento privato, se non fosse per
alcuni dettagli che restituivano impressioni tutt’altro che castigate.
Nudi femminili e maschili, in esplicite pose lascive e sguardi
languidi che trafiggevano le tele, tappezzavano le pareti tinteggiate
di fucsia. Dal soffitto pendeva un grande lampadario a forma di
pene rivestito da migliaia di brillantini dorati. Sul ripiano di uno
scaffale, una fila di libri strenna era trattenuta ai lati da curiosi falli
di vetro colorato. A quei tempi non avevo informazioni

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
sufficienti per stabilire se si trattasse di cattivo gusto o di arte
moderna. Per non passare per una povera provinciale, mi orientai
sulla seconda opzione e mi sprecai in mille complimenti per
quell’arredamento bizzarro.
Guidata dalla padrona di casa, fui inghiottita da un divano
rosso a forma di bocca piazzato proprio al centro della stanza,
così morbido e avvolgente che ci sprofondai sin quasi a sfiorare il
pavimento col fondoschiena. Ebbi il presentimento che da lì non
sarei riuscita a rialzarmi. Lei si sedette a fianco a me,
perfettamente a suo agio, mimetizzata nel suo tailleur color
rubino.
Se la simpatia fosse misurabile dalla facilità con la quale uno
sconosciuto ti parla, potrei affermare che le piacqui subito. In
realtà, era solo una gran ruffiana. Nel tempo di bere un prosecco
mi raccontò di sé ambizioni e successi professionali. Marilù,
contrazione del meno evocativo Maria Luigia, costruì le sue
fortune con il sesso. Gestiva diverse hot line, un centro massaggi
dietro il quale si celava un fiorente giro di prostituzione e
commerciava all’ingrosso alcune linee di giochi erotici. Parlava
con tale trasporto dei suoi traffici che ne restai affascinata,
impaziente di avviarmi verso un lavoro tutt’altro che virtuoso,
almeno dal mio punto di vista, ma comunque redditizio e
confacente ai miei tempi e alle mie necessità.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Le prime volte non fu semplice. Ci vollero molti giorni di
pratica per superare l’imbarazzo. Marilù, che nella fase di tirocinio
mi stette sempre accanto, mi insegnò i trucchi del mestiere. Poi,
come un bambino che all’improvviso impara a pedalare senza le
rotelle, mi lasciai andare. Mi intrattenevo in discorsi sessuali
espliciti con perfetti sconosciuti, facevo sesso virtuale con uomini
ansimanti, ne assecondavo fantasie recondite e desideri repressi, li
provocavo e li eccitavo con la mia voce educata a modulare
intonazione e pause, e più li tenevo incollati alla cornetta, più
aumentavano i miei profitti.
Era un lavoro a cottimo e le prestazioni si misuravano in unità
di tempo. Tenevo sempre accanto a me un taccuino dove
annotavo la durata delle chiamate che mi venivano passate dal
centralino. Guadagnavo cinquecento lire al minuto e se riuscivo a
intrattenere l’interlocutore per più di mezz’ora scattava un bonus.
In una nottata di lavoro riuscivo a tirare su centomila lire, a volte
anche centocinquanta. Si lavorava in un appartamento in pieno
centro. L’ufficio era organizzato in tante piccole postazioni di
lavoro dotate di telefono: piccole celle chiuse ai lati da pannelli
trasparenti che garantivano a ciascuna di noi la privacy necessaria
e, nel contempo, consentivano alla responsabile di tenerci
d’occhio. In fondo alla stanza, la centralinista dirottava le
chiamate in entrata verso le operatrici libere.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Nei tempi morti mi intrattenevo a chiacchierare con le altre
colleghe in pausa. Legai soprattutto con alcune di loro. Maria, una
studentessa fuori sede al terzo anno di Lettere, che con quel
lavoro si manteneva agli studi; Loredana, madre di famiglia,
separata, che arrotondava gli alimenti del marito per non arrivare
a fine mese strangolata dalle bollette da pagare. E poi Anna e
Germana, disoccupate croniche più per scelta che per malasorte,
in perenne attesa dell’impiego ideale che non arrivava mai.
In quei momenti si creava fra noi un’atmosfera di armonia e di
complicità, la stessa che ricordo di certi pomeriggi d’inverno,
nella cucina della mia casa familiare, con mia madre e qualche
amica di vicinato a preparare i dolci delle feste.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Con Anna ebbi una relazione sentimentale che, tra alti e bassi,
andò avanti per due anni. Secondo i canoni di mia madre, che
misurava la bellezza sulla bilancia, sarebbe dovuta essere una
donna stupenda. In realtà, la sua bellezza rientrava nella norma e
di lei mi colpirono soprattutto l’espansività e l’ottimismo. Mai
come nel nostro caso la tesi che i due opposti si attraggono fu
così vera. Eravamo il giorno e la notte, la gioia e il dolore, il
bianco e il nero; in una trasposizione cinematografica saremmo
potute essere il dottor Jekill e mister Hyde.
Anna aveva una montagna di capelli ricci e corvini che le
sovrastava il viso largo e paffuto. Alta e giunonica, amava il
trucco pesante e teneva sempre sottomano una piccola trousse
per i necessari ritocchi della giornata: con generose dosi di
fondotinta spalmate sul viso era capace di simulare
un’abbronzatura da tropici, che si interrompeva netta all’altezza
delle clavicole.
Si professava lesbica doc, perché lei con gli uomini non c’era
mai stata, diceva con orgoglio, e mai li aveva desiderati; mentre io,
che prima di allora non ero mai stata con una donna, a suo avviso
ero uguale a tutte quelle altre che si definivano bisessuali per
nascondere la propria omosessualità. Quale che fosse la mia
etichetta, in fin dei conti, poco mi importava.
Nonostante la sua profonda repulsione verso il genere
maschile, era la più abile del gruppo. Possedeva la capacità di

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
capire al volo il suo interlocutore di turno e di assecondarne i
desideri con tale trasporto da suscitare l’invidia e l’ammirazione di
tutte noi. Era capace di calarsi nel ruolo di sottomessa o
dominatrice, a seconda dei casi, con la naturalezza di un’attrice
navigata. Marilù, è chiaro, stravedeva per lei.
Non provai mai vero amore per lei, però le volli un gran bene.
Amava la vita. La sua giocosità debordante mi aiutava a
prendermi delle pause dal desiderio ossessivo di vendetta che mi
attorcigliava lo stomaco.
Quando le sue premure divennero pressanti e i suoi desideri
virarono in pretese, arretrai. Non ero pronta per quel genere di
impegno. Divenni scostante. La tradii con uomini e donne, ma le
mie storie non andavano mai oltre il terzo incontro. Al quarto
non mi presentavo. Cercavo solo un po’ di compagnia e di calore,
null’altro. Rifuggivo, invece, qualsiasi coinvolgimento
sentimentale. Su quel fronte, le dissi gelida il giorno in cui decisi
di dare un taglio netto al nostro rapporto, non avevo niente da
offrire. Fui dura con lei, non se lo meritava, ma come spiegarle a
parole il senso di vuoto che mi riempiva a tal punto da non
lasciare spazio per nessuno?

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
L’andirivieni dei camion sollevava nuvoloni di polvere che si
disperdevano nell’aria per decine di metri da terra. Lavoravano
sodo per la bonifica dell’area, ormai ridotta a una campagna piatta
e desolata. Immensa. Sparsi qua e là, scheletri di capannoni che al
minimo soffio di vento producevano sinistri scricchiolii come di
ossa frantumate. Dovunque mi voltassi vedevo ruggine e macerie,
mucchi di macchinari, smontati e ridotti in rottami, inghiottiti da
erbacce secche e vegetazione spontanea.
Il brulicare incessante di uomini in tuta blu e il frastuono
metallico degli impianti lanciati a pieno ritmo appartenevano alla
storia recente: la crisi mondiale dell’acciaio spazzò via tutto,
compresi i sogni e le esistenze di chi, in quella fabbrica, con il
proprio lavoro ci aveva sputato sangue e sudore. Credo che
nessuno potesse immaginare un epilogo così tragico,
quell’industria era sempre stata una certezza e la sua chiusura non
rientrava tra le possibilità dell’imponderabile. Tutti sperarono sino
all’ultimo in un miracolo. Ma i segnali c’erano da anni, eccome se
c’erano. D’altronde, quando sindacati e padroni parlavano di
ristrutturazione aziendale, in tempi non sospetti, non si
cominciava a mettere in discussione la capacità di tenuta della
fabbrica sul mercato?
Una volta presi parte a una riunione sindacale, defilata in un
angolo del salone. Nessuno mi invitò e non so bene nemmeno io
perché ci andai: forse per una sorta di senso di fratellanza o,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
chissà, per semplice curiosità. Fra i partecipanti riconobbi alcuni
miei vecchi colleghi dell’amministrazione. Fu una vera catastrofe.
Da un giorno all’altro, si ritrovarono orfani non solo del proprio
lavoro, ma anche di un modo di vivere e di esistere, di una rete di
relazioni costruite con fatica negli anni, di un senso di
appartenenza ben preciso. Durante l’assemblea molti di loro
gridavano, altri piangevano, altri ancora restavano immobili nella
loro rassegnazione. A nulla valsero le rassicurazioni dei delegati
sindacali. Ammortizzatori sociali, scivolo pensionistico,
ricollocamento dei lavoratori, cassa integrazione: ogni singola
parola che pronunciavano bruciava come sale su una ferita aperta.
Quella fu una delle rare volte in cui mi sentii una persona più
fortunata di altri.
Mentre continuavo a gironzolare in quella desolazione, a
mezzogiorno in punto partì la serena: lo stesso suono cupo, in
crescendo, che per tre volte al giorno annunciava il cambio di
turno in acciaieria, e che a mia madre ricordava l’allarme per i
bombardamenti aerei durante la guerra. Seppi che la maggioranza
dei cittadini sestesi si oppose con forza al suo silenziamento,
dopo la chiusura della fabbrica. Fu riattivata in memoria dei
trascorsi industriali che nessuno, o quasi nessuno, voleva
dimenticare: le autorità locali decisero di farla suonare una volta al
giorno, alle dodici, per sessanta secondi, poi ridotti a venti per via

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
delle ripetute lamentele di qualcuno indifferente a certi rituali
nostalgici.
Nell’arco di vent’anni Sesto si trasformò da città di fabbriche a
città dormitorio. Fu un processo di metamorfosi che ne alterò gli
equilibri economici e sociali. Il cambiamento era evidente agli
occhi di tutti. I luoghi di ritrovo degli operai lungo viale Italia -
bar, circoli dopolavoro, sale biliardo, sezioni di partito e sedi di
sindacato - non c’erano più. Non se ne salvò uno. Al loro posto,
un susseguirsi interminabile di anonime società di informatica,
assicurazioni, banche, agenzie di scommesse, targhe in ottone ai
lati dei portoni dei palazzi a segnalare lo studio di un avvocato o
di un commercialista. Un traffico moderato e composto, tipico
dei luoghi di transito piuttosto che di sosta, si era sostituito alle
migliaia di lavoratori che al richiamo della sirena si riversavano
nel vialone come un fiume in piena, animandolo di vitalità per tre
volte al giorno, tutti i santi giorni.
Pure il villaggio operaio non era più lo stesso. Era più vivace,
per certi aspetti, con quei colori sin troppo brillanti di alcuni
edifici tinteggiati di fresco, le stesse tinte accese che ritrovai nei
graffiti lungo i muri di recinzione delle vecchie fabbriche. Il cielo
era più azzurro e l’aria non puzzava di quell’odore acido di
ammoniaca che bruciava occhi e gola. Ma ad ascoltarne il respiro
più intimo, si percepiva un profondo stato di solitudine e di

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
abbandono, ultima delle periferie di una metropoli che non
dorme mai.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Pranzavamo insieme una volta al mese, l’ultimo martedì del
mese per la precisione, in una trattoria a pochi passi dalla
cooperativa dove lavorava come animatore culturale. Non
avremmo dovuto, il regime di semilibertà glielo vietava, ma il suo
capo chiudeva volentieri un occhio e faceva passare i nostri
incontri per colazioni di lavoro.
Il locale era accogliente, il cibo buono e, si sa, a tavola si
ragiona meglio. Non era il nostro caso. È vero che il disagio
iniziale annegava nel primo bicchiere di vino, ma le nostre parole
erano sempre calibrate. Eravamo come due funamboli su una
corda tesa, attenti a non precipitare nella fragilità dei sentimenti.
Stazionavamo nel presente, lui a parlare di libri, io di film. Il
passato e il futuro erano due dimensioni temporali che non
potevamo o non volevamo considerare. Eccetto quella volta.
– Il mese prossimo mi sposo, Lena.
Non so come ci si senta davvero quando ti travolge un treno,
ma credo che la sensazione che provai in quel frangente ci andò
vicino. Sentii un dolore forte al petto, così opprimente da
togliermi il fiato. Per un momento provai a illudermi di averlo
frainteso. No, era stato chiaro e avevo capito bene, mi aveva
appena annunciato le sue nozze.
– Ti sposi? – flautai mentre trattenevo a fatica un groppo alla
gola.
– Sì, è successo tutto molto in fretta.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
– La conosco? – non trovai nulla di meglio da dire, poi subito
corressi il tiro. – Scusa, che domanda idiota…
– È una mia collega.
– Ma sei in carcere! Come ti puoi sposare?
– Mi hanno concesso uno sconto di pena per buona condotta.
Esco fra due settimane.
Non l’amava, mi disse, ma le si era affezionato. Ci si affeziona
ai cani, sibilai fra i denti. Era una brava ragazza, proseguì senza
curarsi del mio commento piccato, e con lei avrebbe provato a
costruirsi un futuro: una casa, una famiglia, magari avrebbero
fatto dei figli. E poi la villa al mare, le vacanze in montagna, i
pranzi di Natale dai suoceri, il conto in banca. Continuò a parlare
a raffica, sempre più concitato, quasi farneticava. Descriveva con
entusiasmo quel rassicurante stile di vita borghese che aveva
sempre disprezzato. Possibile che fosse cambiato a tal punto da
lasciarsi dietro gli ideali per i quali si era battuto, pagandone un
prezzo altissimo? Oppure la sua fu pura e semplice capitolazione?
Mentre mi raccontava di quanto fosse complicato compilare
una lista nozze che soddisfacesse i gusti di entrambi, realizzai
quanto poco conoscessi quell’uomo nuovo di fronte a me. In
quegli anni non ci perdemmo mai di vista, io non lo persi di vista,
eppure diventammo due sconosciuti, incartati in una situazione
senza vie di uscita. Di lui conoscevo i nuovi gusti letterari, di me
conosceva i film preferiti. Per il resto, buio assoluto, nessun

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
indizio. La nostra storia si concluse quando uscì di casa per non
tornare più. Punto. Il dopo fu un palliativo alle mie pene, uno
struggimento che mi procurava dolore e piacere insieme.
Quel giorno, davanti a una porzione di polenta fumante che
rimase intonsa sul piatto, mi fu chiaro che prendermi cura di lui e
concentrarmi sulle sue esigenze di detenuto rispondevano a una
mia necessità, a un mio preciso bisogno, e ne feci ragione di vita
per andare avanti alla meno peggio. Però, Adriano aveva
sparigliato le carte e a me non restava che cominciare a fare i
conti con me stessa, con i miei errori e il mio passato. Se mai ne
fossi stata capace.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Aveva approfittato dell’ospitalità di Antonio per troppo tempo
ed era giunta l’ora di trovare una nuova sistemazione. Mi disse
così, una sera, mentre mi aiutava a riordinare la cucina prima di
trasferirci in camera da letto. Gli credetti. D’altronde, allora non
avevo informazioni che mi facessero dubitare della sua versione
dei fatti.
Adriano si trasferì nel dormitorio interno alla fabbrica, un
caseggiato con il tetto a due falde che si sviluppava in lunghezza
su un unico livello, costruito alla stregua di una stalla per bovini
da ingrasso. Depositò in casa mia una dozzina di libri e un
cofanetto di plastica dove custodiva, con cura maniacale, le sue
musicassette preferite; il resto delle cose le affidò in conto vendita
a un rigattiere, nella speranza di tirarci su qualche lira.
Imparò a viaggiare leggero, Adriano. Da allora, non accumulò
mai niente che non rientrasse nello spazio del portabagagli di
un’utilitaria; il suo guardaroba, contenuto al minimo sindacale, era
ripiegato dentro un vecchio zaino che faceva la spola tra il
dormitorio e il mio appartamento.
Arrivò a Sesto dieci anni prima di me, eppure in tutti quegli
anni non cercò mai una casa tutta sua. Gli bastava un letto su cui
dormire e uno scrittoio dove studiare, mi rispose quando gli
chiesi se qualche volta avesse desiderato uno spazio solo suo,
inviolabile come i pensieri più intimi e dissoluti. Alla stregua di un

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
apolide, insisteva nella precarietà di chi non è ancora nel tempo
giusto per mettere radici.
Prese l’abitudine di dormire da me il fine settimana. Non
sempre, però. Aveva tanto da fare, lui: lo studio, le bevute con i
compagni di partito, i direttivi in sezione. Poi si aggiunsero gli
impegni con i gruppi della sinistra extra parlamentare e, infine,
l’avvicinamento alla lotta armata. Nella scala delle sue priorità, io
sono sempre stata nell’ultimo gradino. A pensarci ora, credo che
considerasse anche la mia casa una sorta di dormitorio, un posto
letto alternativo a quello interno alla fabbrica, solo più caldo e
confortevole. Quando stavamo insieme parlava tanto, non
smetteva mai di parlare, e io pendevo dalle sue labbra.
Scopavamo poco, a volte non facevamo l’amore per settimane,
ma lui sosteneva che non era tanto la quantità, quanto la qualità
che faceva la differenza. La differenza di cosa?, mi chiedo oggi. In
compenso, mi faceva ascoltare tanta musica, la sua musica, quasi
volesse indottrinarmi al suo credo politico anche attraverso le
parole delle canzoni di denuncia che recitava come preghiere.
“Immagina che tutti vivano la propria vita in pace”, suona più o
meno così la traduzione di una delle sue canzoni preferite; in
apparenza, un inno alla pace e alla fratellanza, in realtà il testo è
un vero e proprio manifesto del partito comunista: anti religioso,
anti nazionalista, anti capitalista, anti convenzionale, anti tutto.
Parole di Lennon, non mie.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Mesotelioma pleurico. Non lo vedevo, né sentivo, da anni. Ma
le cattive notizie hanno la proprietà di viaggiare di bocca in bocca,
all’infinito, come quei marchingegni dotati di moto perpetuo che,
una volta avviati, non si fermano più. Non ricordo nemmeno da
chi appresi la notizia. Se ne andò così, Adriano, beffato da un
tumore maligno, effetto collaterale della negligenza di chi, in
fabbrica, avrebbe dovuto tutelare l’integrità fisica del lavoratori. E
pensare che nei dormitori l’amianto veniva addirittura usato per
coibentare i giacigli su cui dormivano gli operai. Anche Adriano
stese il suo bel foglio di fibre tossiche sotto il materasso,
seguendo l’esempio dei colleghi più navigati: scacciava l’umidità e
teneva caldo in inverno, mi disse soddisfatto quando ne
sperimentò gli effetti isolanti. Ignorava che, in realtà, quel
giaciglio era una tiepida cassa da morto.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
L’uccisione di Boele fu una mazzata per tutti noi. Lo
trovarono in campagna, steso a terra lungo un muretto a secco,
sotto un cumulo di pietre e fogliame di lentisco che lo copriva
dalle ginocchia in su. Lo freddarono alle spalle con un fucile da
caccia al cinghiale, di quelli che sparano una palla sola per volta,
precisi e micidiali. Cinque colpi secchi gli spappolarono cuore e
polmoni.
Si sarebbe dovuto sposare il mese dopo, e presto sarebbe
diventato padre. Era felice. Glielo lessi nel tono di voce quando
mi chiamò per darmi la notizia. Mi scelse come sua testimone di
nozze. Piansi di commozione. Mentre mi raccontava i dettagli dei
preparativi, io già mi immaginavo lì, accanto a mia madre, in
cucina, indaffarate a preparare i dolci delle feste, quelli ripieni di
pasta di mandorle e ricamati come tessuti preziosi sulla glassa
bianca. I dolci li facemmo comunque, quelli scuri a base di sapa
però, che sanno di morte, più appropriati per la festa di
Ognissanti e i funerali.
Fu un duro colpo soprattutto per babbo. Per la prima volta lo
vidi anche piangere, lui che riuscì persino a trattenere le lacrime
dinnanzi alla salma della moglie; ma quel Lunedì dell’Angelo gli
strapparono un pezzo della sua carne, il primogenito, il figlio che
amava più di se stesso e a cui aveva affidato il ruolo di guida della
famiglia. Sapeva che prima o poi sarebbe caduto in un agguato
mortale, lo sapevano tutti. Tutti, eccetto me che di guai ne avevo

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
già abbastanza, si giustificarono i miei fratelli quando chiesi
spiegazioni. Fu Boele a uccidere Giovanni Melas, il vecchio
allevatore colpevole di aver calunniato nonno Bastiano. Fu lui a
farsi carico della vendetta, con il beneplacito e la benedizione di
tutta la mia famiglia, e a innescare una faida che non avrebbe
conosciuto termini di prescrizione.
Babbo sapeva anche questo. Il nostro codice parla chiaro: altri
figli, e poi i figli dei loro figli non si sarebbero potuti sottrarre al
dovere morale della vendetta, risucchiati anche loro in una spirale
senza fine di sangue e di morte. Ma lui si fece da parte, era
vecchio e stanco, non avrebbe retto a un altro lutto. Dopo il
funerale di Boele, sprangò porte e finestre di casa e prese la via
del monte, camminando sulle stesse orme di suo padre. Da quel
giorno non mise più piede a Tùvula.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Marilù pianificò ogni cosa alla perfezione. Cedette le attività ai
suoi soci in affari e affidò a un’agenzia immobiliare la vendita del
suo appartamento. Con una parte del ricavato acquistò una villa
sul mare in un tratto di costa a pochi chilometri da Santa Cruz de
Tenerife. Declinai la sua proposta di subentrare nella proprietà
della linea erotica. L’azienda era ben avviata, l’offerta allettante e il
prezzo simbolico, ma non avevo energie sufficienti per stare
dietro alle ragazze e alle grane amministrative. Faticavo già
abbastanza per mantenermi viva. Accettai di buon grado, invece,
di darle una mano durante il trasloco e di accompagnarla a
prendere possesso della sua nuova dimora, il suo buen retiro, così la
definiva quando fantasticava di tiepide mattinate al sole spese a
fissare il mare dalla terrazza con un bicchiere di prosecco
ghiacciato in mano.
Non ero mai stata alle Canarie. A dirla tutta, non ero mai stata
da nessuna parte. Ormai non andavo più nemmeno al mio paese,
perché tornare lì mi procurava un dolore lacerante. Da troppo
tempo mi sentivo stretta al guinzaglio della mia vita ordinaria.
Una pausa era proprio ciò di cui avevo bisogno.
Marilù storse il naso quando passò in rassegna il mio
guardaroba. Solo robaccia, cinguettò, mi occorreva qualcosa di
nuovo: abiti più adatti a un clima mite e colori accesi che
ravvivassero il mio aspetto truce. Lei, che a suo dire aveva buon
gusto e in fatto di moda era imbattibile, si offrì di darmi una

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
mano a svecchiarmi un po’. Faticai a starle dietro tra sandali e
infradito, costumi da bagno e prendisole, vestitini freschi per la
mattina e abiti attillati per la sera. Ogni volta che sfilava un
indumento a caso da un ripiano, aveva la stessa espressione
meravigliata di un bambino nel paese dei balocchi: ne accarezzava
il tessuto con la delicatezza che si riserva alla pelle di un amante,
l’osservava controluce alla ricerca di imperfezioni, ne valutava la
morbidezza, se la rigirava fra le mani con l’occhio severo di un
chirurgo. – Sei ancora una bella donna e il corpo lo devi mostrare
– mi rimproverò mentre tirava su la lampo di un tubino nero che
mi fasciava come guaina liquida.
Il primo giorno fummo accolte da violenti schiaffi di sabbia
giallastra e da un caldo africano che interrompeva il respiro.
Dall’aeroporto di Los Rodeos, il taxi ci portò direttamente a casa,
e fu un miracolo arrivare illese perché la tempesta lasciava appena
intravedere il muso bianco della macchina. Non uscimmo per tre
giorni. La sabbiolina passava attraverso gli stipiti di porte e
finestre chiuse, penetrava dappertutto, sin nei pori della pelle e
giù per la gola. Dalla terrazza, la costa a pochi passi da noi si
poteva solo immaginare, risucchiata nell’abbraccio infuocato della
tormenta. Poi il vento cessò all’improvviso, la temperatura si
assestò a un livello accettabile e, finalmente, potemmo goderci
delle belle giornate di sole.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Durante le nostre interminabili passeggiate al mare, le gambe a
mezz’acqua sino al polpaccio, Marilù mi istruì su come mettere in
piedi una linea erotica in piena regola, senza troppe spese e tutta
mia. La tecnologia ormai permetteva soluzioni veloci e gli aspetti
burocratici erano davvero roba di poco conto, mi spiegò. –
Contatta l’operatore telefonico, attiva un numero a tariffazione
speciale, uno di quelli a pagamento per intenderci, e stabilisci tu la
tariffa. Una percentuale la trattiene l’operatore, il resto è tuo –
chiarì. Avrei potuto esercitare in tutta comodità, nel salotto di
casa mia o in camera da letto, e sarei stata padrona assoluta del
mio tempo. Fu un’idea fantastica.
Non mancarono i momenti di svago e di socialità. Passavamo
le nostre serate mondane tra un lounge bar e un ristorante vista
mare, eccitate come due ninfette che si nutrono degli sguardi
smaniosi di coetanei in piena tempesta ormonale. In realtà,
eravamo due donne mature, tirate a lucido come gommalacca su
di un legno pregiato, che si divertivano un mondo nel provocare
il desiderio maschile trattenuto a stento nelle braghe del
malcapitato di turno.
Grazie a Marilù riemerse la mia femminilità, nascosta fra le
grinze dell’odio che covavo per l’uomo che mi aveva rovinato la
vita. Guadagnai una buona dose di autostima e rivalutai il piacere
di essere corteggiata e desiderata dagli uomini. Quando mi
osservavo allo specchio, di fronte a me non c’era più la solita

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
immagine deturpata dalla durezza: in quel viso segnato dal tempo
e dalla sofferenza riconoscevo una donna ancora bella e piacente
e lo sguardo risoluto di chi, nonostante tutto, non si spezza mai.
Fu una vacanza da sogno, e come tutti i bei sogni finì presto.
Lasciai il buen retiro a malincuore, ma partii piena di energia e di
tanti buoni propositi in serbo per il futuro.
L’indomani, di buon mattino, ero già al lavoro.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
I giornali e la tv parlavano spesso di lui, e io, come un felino
che insegue paziente l’odore della sua preda, non lo persi mai di
vista. Conservo memoria di tutte le tappe della sua carriera, dalla
rapida ascesa al drammatico declino. Fu padre fondatore di un
movimento politico che raggiunse il picco dei consensi verso la
metà degli anni Novanta, quando una serie di clamorosi scandali
mise a nudo un sistema partitico e imprenditoriale corrotto sino
alle viscere. Si muoveva tra Milano e Roma sempre sotto scorta,
inavvicinabile da chiunque, a protezione della sua incolumità. I
suoi nuovi nemici erano dappertutto, subdoli e invisibili, pronti a
colpire come serpi, annidati nelle maglie dei poteri forti, tra fiumi
di denaro che passava da una mano all’altra come merce di
scambio nella spartizione dei grandi appalti pubblici. Altro che il
manipolo di idealisti che dichiararono guerra allo Stato per un
mondo migliore! Quegli uomini, impeccabili nei loro completi
grigio antracite e con il rolex al polso, facevano sul serio. Lui non
se ne rese conto per tempo, accecato dal delirio di onnipotenza.
Fu coinvolto in uno scandalo senza precedenti, non è dato sapere
se a torto o a ragione: un giro di mazzette miliardario che fece
traballare i vertici del suo partito, quello stesso partito la cui unica
ragion d’essere insisteva proprio nella difesa della legalità. Svanì
nel nulla da un giorno all’altro, ricordo che era l’autunno del ’95, e
di lui non seppi più niente. Sino a quella sera.

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNon dormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
Ero certa che prima o poi sarebbe accaduto. Riconobbi subito
la sua voce, inconfondibile nonostante i quindici anni trascorsi e
le parole che mi giungevano appena sussurrate. Il tono, un tempo
carismatico e ricco di enfasi, era inespressivo e restituiva
l’immagine di un uomo rassegnato, ben diverso da quello che
ebbi modo di conoscere. Ma era lui, senza ombra di dubbio era
lui.
Prese l’abitudine di telefonare tutte le sere alla stessa ora, alle
undici in punto. Non chiamava per fare sesso, non ne manifestò
mai l’intenzione, tanto da farmi dubitare che avesse confuso la
mia linea erotica per un servizio di ascolto per persone sole.
Cercava una voce amica per fare quattro chiacchiere prima di
andare a dormire, come farebbe un padre premuroso che telefona
alla figlia lontana per accertarsi che stia bene e augurarle la
buonanotte. Parlava poco, preferiva ascoltare. Mi rivolgeva
domande discrete, spesso banali: impressioni sul tempo, su un
fatto di cronaca, su un personaggio televisivo. Mai una curiosità
sul mio aspetto fisico, mai una domanda che potesse violare la
mia intimità.
Di lui mi feci un’idea abbastanza precisa. Soffriva di una sorta
di invecchiamento psicologico, tipico di certe persone anziane
che hanno perso interesse per la vita. Abbandonato al passato e ai
ricordi, dimostrava avversione per qualsiasi forma di
cambiamento; era abitudinario, emotivamente controllato e le sue

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
relazioni sociali erano contenute allo stretto necessario. Ma,
soprattutto, soffriva di solitudine.
Non fu semplice guadagnare la sua fiducia. Ci volle pazienza.
E io ne avevo tanta. Solo quando ebbi la certezza di avere scalfito
la sua scorza di diffidenza, solo allora mi azzardai a porgli anche
io delle domande. Un po’ per volta, senza fretta. Non volevo
correre il rischio di risvegliare in lui il sospetto, sempre latente.
Con lui violai la prima regola che mi insegnò Marilù: entrare nella
sfera privata del cliente. Ma dovevo sapere. Dovevo scoprire
dove e con chi abitasse, quali fossero le sue abitudini e le sue
frequentazioni. Lo dovevo stanare.
Tornò ad abitare nel suo appartamento milanese dopo la
morte della moglie. Fu il figlio a insistere perché lasciasse il
vecchio casale dove si ritirò in seguito allo scandalo. Lui avrebbe
preferito restare lì, nelle campagne della Lomellina, aveva
imparato ad amare il silenzio e la solitudine di quel luogo, ma
convenne che senza una compagnia o un aiuto esterno non
sarebbe stato più in grado di badare a se stesso.
La mattina usciva di casa alle otto in punto per fare colazione
in un bar di via Brera. Lungo strada si fermava a comprare il pane
e i giornali, qualche volta si intratteneva a scambiare due parole
con l’edicolante. Mentre sfogliava i quotidiani, seduto di fronte a
una tazza di cappuccino, era solito controllare spesso l’orologio,
come se temesse di arrivare in ritardo a un appuntamento

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
importante. Verso le nove, se il tempo era bello, faceva un salto
all’orto botanico. Passeggiava per ore lungo i sentieri del parco,
attardandosi di fronte a un’aiuola o a un pannello informativo
senza reale interesse. A fine mattinata rientrava a casa. Come
impiegasse il resto della giornata, rinchiuso nel suo appartamento,
è un particolare che non seppi mai.
Nei miei pedinamenti mi capitò di passargli accanto, camuffata
dietro grandi occhiali scuri, per osservarlo più da vicino. Secondo
i miei calcoli, avrebbe dovuto avere non più di ottant’anni, ma il
tempo non fu generoso nei suoi riguardi. Gli occhi acquosi si
aprivano in strette fessure su un viso pallido e rugoso, contratto
in una smorfia che pareva esprimesse disgusto. Il passo era lento
e corto, il busto, leggermente flesso su un fianco come se
trasportasse qualcosa di pesante, era chiuso in un impermeabile
sgualcito che indossava anche nelle giornate di sole. Tratteneva i
giornali fra le braccia incrociate sul petto, come per proteggerli da
qualche malintenzionato. Il suo odore sapeva di dopobarba al
mentolo, lo stesso che ricordavo.
Lo tallonai per mesi, per anni. Ogni mattina, appostata dietro
una macchina in sosta, aspettavo che uscisse di casa, lo seguivo a
distanza nel suo percorso sempre uguale; dall’incedere e dalla
postura ne valutavo lo stato di salute: come un medico
scrupoloso che esamina il suo paziente, io mi prendevo cura della
mia preda. Tutti i giorni rinviavo all’indomani una vendetta che

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
meditavo da tempo, ma che non avevo ancora concretizzato in
strategia precisa.

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
All’improvviso hai smesso di telefonare, non uscivi nemmeno
più di casa. Sei sparito in un battito d’ali, come vent’anni fa, senza
lasciare tracce.
Non ho mai creduto che fossi morto. I giornali li compravo
comunque, per scrupolo, tutti i santi giorni. E che sollievo non
trovare il tuo nome stampato sulle pagine dei necrologi. I riquadri
bordati di nero si sarebbero sprecati per te. In passato sei stato un
uomo importante, un personaggio pubblico, inutile negarlo, e in
certi ambienti è un atto dovuto spendere tre righe di cordoglio
anche per una carogna del tuo rango.
Dalle undici a mezzanotte tenevo sempre libera la linea.
Aspettavo la tua chiamata, seduta sul divano rosso a forma di
bocca che mi regalò Marilù, perché mi ricordassi di lei, mi disse
quando me lo fece recapitare a casa. Mi facevano compagnia la tv
e le mille sigarette fumate una dietro l’altra; mi intossicavo l’anima
mentre le lancette dell’orologio scandivano la mia inutile attesa.
Lo squillo del telefono ogni volta riaccendeva la speranza di
sentire la tua voce appena sussurrata, e ogni volta riattaccavo la
cornetta, delusa. Ho perso soldi e clienti a causa tua, perché io di
questo lavoro ci campo. Ti ho maledetto anche per questo.
Ho continuato ad aspettarti sotto casa, tutte le mattine,
nascosta dentro un portone o acquattata dietro una macchina in
sosta, zitta e ferma come un capoposta in una battuta di caccia al
cinghiale. Eri tu la mia preda. Ho rinunciato a preziose ore di

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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
sonno a causa tua, perché, come sai, io la mattina dormo.
Aspettavo che accadesse qualcosa, ma non accadeva mai nulla. Mi
sarebbe bastato un indizio, un solo dettaglio per riuscire a
ritrovarti. Non poteva finire così, mi dicevo. Non potevo lasciarti
andare via impunito, perché meriti una sofferenza pari a quella
che mi hai inflitto; beninteso, una sofferenza proporzionata,
prudente e progressiva, come impone il nostro codice. Si chiama
codice barbaricino, per la precisione, ed è antico quanto la mia
terra. La vendetta, dalle nostre parti, è un dovere morale.
Immagino che queste cose tu le sappia.
Forse avrei dovuto agire prima, piuttosto che attendere tutto
questo tempo; ho tergiversato troppo a lungo, ma il piacere che
mi procurava l’idea di vendetta era forte, forse più della vendetta
stessa.
Un giorno è accaduto davvero qualcosa. L’ho capito subito
che era lui, è identico a te quarant’anni fa. Mi sono avvicinata
mentre svuotava la tua cassetta della posta, giù nell’androne che
profumava di cera appena stesa. Gli ho detto che avevo qualcosa
che ti apparteneva, una sciarpa che ti era scivolata durante una
delle tue passeggiate nel parco, e che ci tenevo tanto a restituirtela
di persona. Lui, cortese, mi ha spiegato la situazione, mi ha
raccontato tutto.
Ora sai come ti ho ritrovato. È stato tuo figlio, proprio lui, a
darmi l’indirizzo di questa lussuosa casa di riposo. Entrare non è

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quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
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sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
stato difficile. Io con i vecchi della Milano bene ci ho lavorato a
lungo, nell’ambiente mi sono costruita una certa reputazione.
Persona capace e discreta, dicono ancora di me. Non puoi
nemmeno immaginare quante padelle e pappagalli ho svuotato,
quante volte vi ho dovuto cambiare da capo a piedi perché la
vostra vescica non è più in grado di trattenere l’urina. Diventiamo
delle larve: consumati dal tempo o divorati da una malattia. Solo
pochi fortunati, estratti a caso dal cappello magico del grande
manovratore, riescono a mantenere integra la propria dignità al
cospetto della morte.
Tu non hai avuto fortuna. Guardati. Un colpo apoplettico ti
ha ridotto a un ammasso informe di ossa e nervi trattenuti a
stento da un involucro di pelle ingiallita. Da due anni non sei
nemmeno più in grado di alzarti dal letto, murato vivo dentro
questa stanza immacolata dove tutto profuma di pulito. Hai perso
anche il lume della ragione. L’Alzheimer ti ha dato il colpo di
grazia. I danni alle cellule cerebrali ti hanno compromesso i
processi cognitivi, i neuroni sono impazziti, non comunicano più
fra di loro. Hai perso la cognizione del tempo e dello spazio, ma
soprattutto hai perduto l’uso della parola, e tu con le parole ci hai
costruito una carriera intera. Tu non vivi, vegeti, un po’ come me.
L’infermiera mi ha detto che di rado hai qualche momento di
lucidità, guizzi di luce in cui riconosci le cose e le persone, prima
di ripiombare nel nulla assoluto. Ecco, io credo che tu in questo

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
momento sia cosciente. Te lo leggo negli occhi. Ti sei
riconosciuto nel mio racconto, ne sono certa, l’ho capito da quel
leggero fremito delle tue labbra. Avresti voluto replicare, dire
qualcosa, ma ora quella bocca raggrinzita è solo capace di
emettere un alito che puzza di morte. Chissà se hai provato
nostalgia quando ti ho ricordato quanto sei stato importante e
famoso. Chissà se provi rimorso per ciò che mi hai fatto,
maledetto. Ti ricordi di me, vero? Rispondimi. Fammi un gesto
con gli occhi. Se non sei riuscito a mettere a fuoco il mio viso,
sono certa che riconosci la mia voce. È sempre la stessa, solo più
educata rispetto a prima. E se proprio non associ questa voce a
quella sciocca ragazza alla quale hai distrutto la vita, certamente
ora ti sarà familiare. Non è la prima volta che vengo a trovarti.
Tuo figlio mi ha dato il permesso. Non gli è sembrato vero che
qualcuno avesse piacere di venirti a trovare. Non mi posso
trattenere mai troppo a lungo, non più di un’ora per volta, i
medici dicono che potresti stancarti. Stancarti di cosa? Delle
piaghe da decubito che ti scarnificano le ossa?
Non fissarmi in quel modo, credi che non abbia capito cosa ti
passa per la mente? Scordatelo. Non è mio compito alleviare le
tue pene, non sono qui per questo e non sono nemmeno una di
quelle pie donne chiamate per dare il colpo di grazia ai
moribondi. Dovrei, invece, augurarti di vivere per altri cento anni,

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
vigliacco, e che negli sprazzi di lucidità possa riconoscere sino in
fondo la miseria umana di cui sei fatto.
A differenza di altri che hai mandato a marcire in galera, io
sconto la mia condanna fuori dal carcere, imprigionata dentro un
passato che non riesco a scrollarmi di dosso. Sei stato il mio
carnefice. Mi hai rubato il sonno e la salute, hai mandato in
frantumi la mia vita, e adesso ti rifugi nella demenza e nella
malattia, come un codardo della peggior specie. Ho vissuto nel
desiderio di vendetta, mi sono nutrita di questo sentimento per
quarant’anni. Ma ora come posso, in coscienza, trovare
soddisfazione in un vecchio che respira a stento e non ragiona?
Quanto vorrei che nonno Bastiano fosse qui, ora. Lui sì che
saprebbe cosa fare in questo momento. È stato un grande
giudice, sai?, capace di trovare un’equa riparazione a qualsiasi
genere di offesa. Era severo e nello stesso tempo misurato
nell’applicare le pene, e non aveva certo bisogno di imporre la sua
autorità: a volte gli era sufficiente uno sguardo o un silenzio per
appianare una lite. Era analfabeta, mio nonno, e credo che non
abbia mai sfogliato un libro in vita sua. Eppure era un uomo
colto e aveva una innata capacità di giudicare, quella che nasce dal
buonsenso e dalla ragionevolezza. Da lui avresti potuto imparare
parecchie cose, maledetto.
Non ti illudere, vecchio, non è compassione. Se ora tengo
premuto il cuscino sul tuo viso è perché non sopporto più il tuo

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Di piombo e d’acciaio – Marcella GarauNondormo mai la notte. È da
quella maledetta notte che non riesco più a dormire. Era il 15
dicembre del 1980, per la precisione. Una data marchiata a fuoco
sulla mia pelle. Brucia sempre, nonostante siano passati il doppio
degli anni che avevo allora.
Quando mi capitò, le prime volte, pensai che la causa fossero i
troppi pensieri. Passerà, mi dissi. Sbagliavo. Trascorrevo le notti
insonne tra un romanzo d’amore e un film in bianco e nero.
Provai anche a stordirmi, ma il vino mi procurava solo feroci
emicranie e bruciori allo stomaco. Il medico si rifiutò di darmi dei
sonniferi: una ragazza sana e forte come me non poteva soffrire
di insonnia. Passerà, mi disse. Sbagliava.
sguardo liquido. È più forte di me. Le mie mani vanno da sole,
sono fuori controllo. E se continuo a premere, con tutta la mia
rabbia, sempre più forte, è perché non posso sentire nemmeno
più il tuo odore, quell’odore ripugnante di mentolo che mi
disgusta, ma che mi ha dato un motivo per continuare a vivere,
nonostante tutto.

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