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Lo stesso caustico poeta più giù nella stessa satira constata che
l’esempio di Clodio trovò imitatori di poi, nè i misteri della Bona Dea
soltanto venissero profanati, ma quelli pure d’altri numi ed ogni
altare:
La memoria della festa della Buona Dea dovevasi per tali ragioni e
invereconde costumanze nel presente capitolo dell’opera mia
menzionare e molto più ancora perchè si sappia che certamente
degenerasse sempre più col tempo in licenza ed in abbominazioni;
tanto così che il medesimo Giovenale, parlando dei sacerdoti di
essa, li avesse a paragonare a quelli di Cotitto, che si celebravano
egualmente di nottetempo in Grecia fra le più sconce dissolutezze,
onde i Bapti, che così nomavansi i suoi ministri, fossero venuti nel
generale disprezzo de’ concittadini, ed Alcibiade che s’era fatto
iniziare a’ loro misteri, avesse ad uccidere il poeta comico Eupoli,
che di ciò l’aveva canzonato in una sua commedia.
In quel luogo Giovenale accenna che i misteri della Buona Dea si
fossero anzi fin da’ suoi giorni così sconvolti, che non più alle donne,
ma agli uomini si aprissero solamente.
Accipient te
Paulatim, qui longa domi redimicula sumunt
Frontibus, et toto posuere monilia collo,
Atque Bonam teneris placant abdomine porcæ,
Et magno cratere Deam. Sed more sinistro
Exagitata procul non intrat fœmina limen.
Solis ara Dea maribus patet. Ite, profanæ!
Clamatur: nullo gemit hic tibicine cornu.
Talia secreta coluerunt orgia tæda
Cecropiam soliti Baptæ lassare Cotytto [165].
Dissi finalmente, nel cominciar a parlare della festa della Buona Dea,
non già perchè fosse ultimata la storia della prostituzione sacra in
Roma, ma perchè si assomigliassero poi tutti gli altri molti
abbominevoli culti che le più abbiette passioni avevano potuto
immaginare, ed ai quali piegavano anche quelle matrone romane
che pur affettavano schifiltose di non volersi mescere alle orgie di
Venere. Cupido, a cagion d’esempio, aveva i suoi riti; li aveva Mutino
e Pertunda, Persica e Prema, Volupia e Lubenzia, Tulana e Ticone,
ed altri infiniti quanti erano i modi di estrinsecar la lascivia, tutti
oscenissimi iddii che si facevano presiedere ad uffici che il pudore
vieta di qui spiegare.
Alla prostituzione religiosa, tenne dietro ben presto la legale, per
l’affluenza a Roma delle donne forestiere in cerca di fortuna e
massime delle auletridi greche condotte schiave; ma le donne che vi
si dedicavano erano notate d’infamia. Imperocchè le leggi
cercassero sempre di proteggere il costume, tal che le adultere
venissero ne’ primi tempi ad essere condotte all’asino, e dopo
essere state vittima di questo animale, andassero abbandonate al
popolaccio. Ho nel capitolo della Basilica, parlando delle pene
dell’adulterio, fatto cenno di quelle specialmente in vigore in Pompei,
d’una specie di gogna, cioè, che all’adultera si infliggeva
costringendola a percorrere le vie della città a cavalcion d’un asino
col dorso volto alla testa e rimanendo così perpetuamente notate di
indelebile vitupero. Ma il marchio d’infamia non impedì che ne’ tempi
del basso impero femmine libere e di nobile schiatta, si dedicassero
alla prostituzione, conseguendo dagli edili il brevetto relativo, che si
chiamava licentia stupri, il qual consisteva nel farsi iscrivere nei ruoli
meretricii col nome di nascita e con quello che adottavano
nell’infame commercio, e che dicevasi nomen lupanarium e tale
iscrizione che le assoggettava alla vigilanza dell’edile, implicava tal
nota indelebile di infamia, che anco il ritorno alla vita onesta, il
matrimonio, o qualunque potere non avevan forza di riabilitarle
interamente o di farne cancellare il nome dal libro infame.
Il dichiararsi cortigiana e farsi iscrivere tale nei registri dell’edilità
sottraeva l’adultera alle severe pene dell’adulterio, e sotto l’impero
— incredibile a dirsi — furon viste figlie e mogli di senatori
inscrivervisi sfrontatamente. Le matrone poi per abbandonarsi alla
vita dissoluta e sottrarsi al rigore delle leggi, vestivansi da schiave e
prostitute, esponendosi a que’ publici oltraggi cui le schiave e le
prostitute non avevano dritto a reclamo. Si sa di Messalina moglie di
Claudio imperatore, per l’episodio che di sfuggita accennai più
sopra, narrato da Giovenale, ch’essa, togliendosi al talamo
imperiale, sotto le vesti ed il nome di Licisca, si offerisse nel più
lurido lupanare di Roma agli abbracciamenti di schiavi e mulattieri, e
così spinse la impudenza nella libidine, che durante un viaggio
dell’imbecille marito, immaginò di contrarre publicamente un
secondo imeneo con Silio, lo che peraltro costò a quest’ultimo la
testa. Nè più savia fu l’altra moglie di Claudio, Urgalanilla; nè migliori
erano state quelle altre impudiche imperiali, che furono Giulia,
Scribonia e Livia; nè la Ippia, moglie del senatore Vejentone, che
abbandonando marito e figli seguì delirante Sergio, il guercio
gladiatore, comunque coperto di schifose deformità; nè Domizia,
adultera con Paride istrione.
Giovenale, nella succitata Satira sesta, denunzia che non poche
mogli di cavalieri, di senatori e di più illustri personaggi si
abbandonassero a’ gladiatori ed istrioni, che avevano saputo piacer
loro, e nella terza satira accenna alla deplorevole introduzione nelle
primarie famiglie de’ frutti di questa infame prostituzione, quando
toccando della legge d’Ottone che nell’anfiteatro aveva assegnato i
posti alle varie classi di spettatori, grida:
Exeat inquit,
Si pudor est, et de pulvino surgat equestri,
cujus res legi non sufficit; et sedeant hic
Lenonum pueri quocumque in fornice nati.
Hic plaudat nitidi præconis filius, inter
Pinrirapi cultos juvenes, juvenesque lanistæ [166].
e certa Teja, che dimorava nel boschetto Tarpeo e che ne’ bagordi
avrebbe sfidato il più fiero bevitore,
Candida; sed potæ non satis unus erat [173],
si pose con esse sul letto tricliniare a mensa, serviti dallo schiavo
Ligdamo di vino di Metimno, e facendo accompagnar l’orgia dai
suoni della tibia e dal tamburello, suonata la prima da garzone
egizio, il secondo da donzella di File, isola tra l’Egitto e l’Etiopia. Non
mancava nell’intermezzo il nano buffone co’ suoi lazzi, colle sue
capriole e colle castagnette che scuoteva.
Ma la lampada non dava la fiamma vivace, la tavola cadde, e
quando si pose a giuocar coi dadi, sempre gli usciva il cane, cioè il
punto più disgraziato: indizii tutti codesti di non lieto augurio.
Intanto le baldracche, eccitate dal vino, cantavano alla distesa e si
scoprivano il petto lascivamente a provocare il Poeta; ma Properzio,
sempre il pensiero alla sua Cinzia, non curante di esse, viaggiava
col cuore a Lanuvio.
Quand’ecco, stridono i cardini della porta, s’ode un parapiglia, è
Cinzia, ella stessa che rovescia l’uscio, furibonda si scaglia in mezzo
all’orgia, e primieramente caccia le unghie in faccia a Fille. Teja non
attende che la tempesta si scaraventi pur su di lei, si precipita a fuga
gridando acqua, quasi si trattasse d’incendio, ed a Properzio, che
attonito aveva lasciato cader tosto la tazza colma, Cinzia fa sfregio
al volto colle mani, addenta e sanguina il collo e più specialmente,
come quelli che sieno i più rei, cerca offendergli gli occhi. Quindi fa
sbucar dal letto, dove disotto s’era accovacciato, Ligdamo lo
schiavo, gli strappa di dosso gli abiti e chi sa cosa gli stava per
toccare, se il Poeta supplichevole non ne avesse frenata la furia.
Cinzia allora porge a Properzio, in segno di perdono, a toccare il
piede; ma detta al tempo stesso le seguenti condizioni di pace:
E buttossi allora ad altri e più volgari amori, senza che per altro ne
impegnasse seriamente il cuore. Scrisse sulle ginocchia di queste
figlie del piacere quel codice di voluttà, che intitolò Artis Amatoria,
ma eran lascivie estranee al sentimento; perocchè ai teneri amori
avesse, come dissi, veramente detto addio per sempre e chiusa la
carriera di essi, dicendo:
e l’altro: