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LUCI INTERMITTENTI

Era freddo e il mio respiro si condensava in nuvolette vaporose, neanche fossi una teiera fumante.
I passi e il vocio dei passanti creavano una sorta di indistinto involucro sonoro, che mi faceva
sentire ovattato e piacevolmente lontano da tutto. Era domenica sera. Dicembre. Stavo aspettando,
seduto sui gradini di un portone, un mio amico. La gente continuava a fluire per la strada. Il
cosiddetto clima natalizio sembrava pervadere ogni cosa. Tutti erano in compagnia, gruppetti di
amici, fidanzatini, famigliole. Quante coppiette a braccetto che si fermavano ad osservare le vetrine,
a specchiarcisi, a fare risatine! Le donne sembravano felici come solo loro sanno essere. La felicità
delle donne mi è sempre parsa più radiosa di quella degli uomini. Di norma gli uomini si sforzano
sempre di mantenere un certo aplomb, un certo distacco dai sentimenti, per l‟atavica e fasulla
convinzione che l‟esternazione troppo manifesta di emozioni sia il necessario corrispettivo di un
difetto di mascolinità. Le donne invece, quando sono veramente felici, sembrano emanare gioia da
tutto il loro corpo, dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, e ogni loro movimento pare potersi
trasformare, da un momento all‟altro, in un leggero passo di danza. Mentre stavo così rimuginando
ero ovviamente ben conscio del fatto che la mia fosse un‟idea costruita su una linea di massima, e
che per ogni tentativo di classificazione degli umani comportamenti c‟è sempre qualche eccezione,
capace di smentire l‟etichetta appena creata. Continuai ad osservare i passanti. Mi passavano
davanti agli occhi coppie su coppie, caterve di coppie felici, in continuazione. Pensai che il Natale
in realtà non è altro che una congiura, una cospirazione per ricordare ai single che sono soli. Mi
venne da sorridere tra me e me, realizzando quanto fosse complottistica la mia mente e quanto fosse
assurda l‟idea di questo presunto intrigo internazional-natalizio contro i solitari.
Me ne stavo lì seduto con le mani in tasca, sprofondato nel mio giubbotto e nella sciarpa. C‟era un
freddo siderale e avevo il culo gelato. All‟improvviso mi balenò in testa una freddura che avevo
letto non so dove qualche tempo prima: “Sempre meglio avere il culo gelato piuttosto che un gelato
nel culo!”. Quasi non riuscii a trattenere le risate per quella cavolata, che mi parve sul momento,
genialmente divertente. Per non sembrare un matto che ride da solo mi sprofondai nella sciarpa fin
sopra la punta del naso, mascherando il sorriso che increspava incontenibilmente il mio viso. Da
quel momento entrai in uno stato d‟animo frizzante e allegro, che fece brillare le luci della via di
una nuova sfavillante intensità. Voltando gli occhi a terra notai che avevo la linguetta di una scarpa
arricciata in dentro e approfittai del momento di attesa per aggiustarla: “Anche per aggiustarsi le
scarpe bisogna saper cogliere l‟attimo… Scarpe diem!”. Anche questa battuta mi sembrò
divertentissima e pensai che ci fosse qualcosa di paradossale nel fatto che proprio quella sera, con
quel freddo, l‟unica cosa che riuscisse a scaldarmi fossero delle freddure. “Scarpe diem!” mi ripetei
in testa una seconda volta, ridacchiando tra me e me, contento della mia trovata. A quel punto mi
pervase una favorevole disposizione nei confronti delle scarpe e cominciai a concentrarmi sulle
calzature dei passanti. Come facevano alcuni di quei piedi ad andare in giro su dei tacchi che
sembravano delle pertiche, con assoluta nonchalance e senza la minima esitazione? “Alcune donne
devono essere nate trampoliniste per vocazione” pensai, “…o alcune sono talmente basse che usano
i tacchi per evitare di strusciare gli orecchini a terra? …comunque se c‟è una cosa che non ho mai
capito, e forse non capirò mai, è se le donne preferiscono essere prese, comprese o sorprese…
probabilmente preferiscono le scarpe”. Ormai mi ero immerso in uno stato di euforia mentale,
vedevo solo il lato comico del mondo e le battute e le bizzarrie ridanciane cominciavano a montare
e a crescere in me in un susseguirsi privo di riflessione, come se la battuta precedente invitasse il
mondo a fornirmi subito quella successiva, porgendomela su un piatto d‟argento, senza che dovessi
fare alcuno sforzo. Guardai l'orologio. Ero arrivato davvero troppo in anticipo, dannazione! Rivolsi
lo sguardo in alto, verso i tetti dei palazzi e la striscia di cielo che si stagliava sopra la via, ma ad
occultare il buio della notte, appese come dei panni ad asciugare, stavano delle illuminazioni
natalizie luccicanti, che si muovevano come delle piccole cascate di luce. Rimasi a fissare quel
baluginare e sentivo nascere in qualche antro nascosto del mio spirito un familiare mesto
sentimento. Ma dato che ero in una disposizione d‟animo allegra e spensierata, questa volta quel
primo impulso non riuscì a fare breccia e a pervadermi in modo prepotente, rimanendosene invece
imploso, in uno stato germinale, sul fondo del mio essere. Questa lontananza mi fece vedere in
prospettiva quel garbuglio di inquiete sensazioni. E dato che il distacco dalle cose invoglia il
pensiero ad imbrigliarle in una definizione, sentii, per l‟appunto, il bisogno di inquadrare e
ingabbiare con parole precise quella recondita matassa e, per la prima volta, mi accorsi che non
sapevo assolutamente come descriverla. Cercai di sforzarmi, continuando a chiedermi perché le luci
intermittenti mi facessero spesso quel particolare effetto, ma non trovavo soluzione. Era forse
perché tutti quei colori e scintillii mi ricordavano ancora di più la felicità fasulla e plasticosa che
lobotomizzava le menti durante le feste natalizie, quel forzato ingozzamento di gioia che esacerbava
il mio lato anarchico, ribelle, caustico e contestatore? Ma no, non era questo. Non c‟era nessuna
venatura polemica o d‟invettiva in quel sentimento. Piuttosto quelle luci mi ricordavano delle città
lontane, che nella notte, viste da un‟imbarcazione in mare o dall‟alto di una collina, vibrano della
loro luminaria e del brulicare di migliaia di vite. Forse questo mi faceva percepire l‟assurdo
brancolare del genere umano nell‟insensatezza dell‟universo? No. Non era nemmeno questo.
Cos'era che mi sfuggiva? Non capivo. Ero in una disposizione d‟animo davvero troppo allegra per
concentrarmi su quel genere di riflessioni e decisi di non pensarci più. Proprio in quel momento
arrivò Davide. Ci salutammo da lontano con un cenno del capo. Mi alzai e gli andai incontro: «Oh,
ciao. Com‟è?»
«Bene, bene. Te?» rispose Davide sorridente.
«Io tutto bene… che dici, andiamo al chiuso, che fa un freddo che i gatti non escono di casa?»
«…che i gatti non escono di casa?» mi chiese Davide con un tono tra il disorientato e lo scettico.
«Eh si, non escono di casa perché fuori è un freddo cane!»
«Ahahah! Oddio che minchiata!». Mi diede una pacca sulla spalla e ci incamminammo verso
l‟osteria. Pochi passi più avanti Davide riprese la parola: «…a questo punto però lasciami fare una
domanda… il freddo che fa venire la pelle d‟oca può creare crisi d‟identità nelle galline?»
«Eheheh, osservo con piacere che anche tu non hai perso lo smalto del raffinato umorista!» feci una
breve pausa e poi continuai: «Oh, comunque fa davvero un freddo incredibile… fa così freddo che
il limoncello che ho fatto quest‟anno ha 30 gradi… sottozero!»
«Ahahah! Vero, vero… Fa così freddo che quando il prete è venuto a benedire la casa di mio nonno
gli ha dato l‟acqua santa in ghiaccioli!». Ridacchiammo allegri tutti e due e nel frattempo
rallentammo inconsciamente il passo, rimuginando entrambi su qualche altra battuta da sfoderare.
Di colpo ebbi un guizzo. Mi fermai e guardai in alto:
«Toh, guarda! Si è rannuvolato. Fa così freddo che anche il cielo si è coperto!»
«Ahahahah, sei veramente un coglione!» Mi disse Davide ilare, ma subito dopo sì zittì, abbassò lo
sguardo a terra e si fece fosco in volto. Passarono dei lunghissimi istanti di silenzio, in cui potevo
sentire il rumore delle nostre maniche strusciare sui fianchi delle giacche. Ad un certo punto Davide
si passò una mano sulla nuca e, rialzando la testa, interruppe quel silenzio pensoso con un tono di
voce nuovo, mesto e quasi tremante: «Scherzi a parte… lo sai che ieri mi ha chiamato Maria?»
«Ma dici Maria la tua ex? Sul serio?»
«Sì… me ne sono ricordato proprio a causa di questi discorsi sul freddo»
«Cioè? Perché? Che vi siete detti?»
«Beh, sai com‟è… mi sono lasciato prendere un po‟ dall‟imbarazzo e non sapendo cosa dirle mi
sono messo, per l‟appunto, a farfugliare qualcosa sul freddo… del tipo… -Ciao Maria come va?
Sapessi che freddo fa qui da noi, praticamente stiamo sotto allo zero…-»
«…e che c‟è di male scusa?»
«Eh, c‟è di male eccome! C‟è di male che lei mi ha risposto: - State praticamente sotto allo zero?
Beh, allora sto di sicuro meglio io qui a Roma… praticamente sto sotto a uno!-».
Rimasi un attimo perplesso, poi capii la battuta e scoppiai in una fragorosa risata:
«Ahahah! …e poi sarei io il coglione! Per un attimo ho creduto tu parlassi sul serio!».
Proprio in quel mentre arrivammo di fronte all‟osteria. Entrammo. Prendemmo degli affettati e del
vino. Parlavamo del più e del meno, tra una risata e l‟altra. All‟improvviso realizzai che anche quel
posto aveva alle finestre, come addobbi, delle lucette natalizie. Pensai a una persecuzione. Mi
accorsi di nuovo quanto alle volte riuscisse ad essere complottistica la mia mente e sorrisi. Rivolsi
di nuovo lo sguardo verso le lucette. Mi resi conto che quella pulsazione di emozioni, che era
echeggiata in me poco prima di incontrare Davide, era ancora là, sepolta nel profondo. Sentii
nuovamente il bisogno di etichettarla in qualche modo e mi indispettiva e mi urtava non riuscire a
trovare le parole giuste. Decisi quindi, prendendo una decisione repentina e virile, di darle un nome
vero e proprio. La chiamai Lucio. Ci bevvi su. Dissi a Davide di sentire un altro paio di nostri
amici. Arrivarono gli altri. Bevemmo e scherzammo. Da lì in poi i ricordi della serata si fanno più
intermittenti delle fottutissime lucine. Dopo l'osteria un altro locale. Discussioni sulla musica.
Risate. Birra. Governo ladro. Birra. Discussioni sulle relazioni umane. Whisky. Rissa fuori dal
locale. Ci teniamo alla larga. Saluti. Letto. 2 del pomeriggio.

Un paio di sere dopo ero di nuovo fuori per una cena. Aspettavo gli altri e non potevo sedermi da
nessuna parte, perché ogni angolo di quella piazza, che avevamo stabilito come punto di ritrovo, era
coperto da un maledettissimo strato di brina. Me ne stavo lì intirizzito come un baccalà surgelato e,
a intervalli più o meno regolari, battevo i piedi in terra per cercare di scaldarmi. Ogni tanto mi
appoggiavo al muro del palazzo alle mie spalle, ma sentivo subito troppo freddo e mi spingevo di
nuovo in avanti. Il mondo non mi sembrava così buffo come l‟ultima volta che ero uscito. La
mattina mi ero svegliato con un sogno ancora davanti agli occhi, uno di quei sogni che al risveglio ti
rimangono appiccicati addosso e ti lasciano un‟inspiegabile senso di illusoria autenticità. Il mio, in
particolare, era un sogno dolce, che riaffiorava a frammenti nella memoria: era una donna, ma
nessuna in particolare, eppure tutte e al contempo sola ed unica, non mi ricordavo il volto ma
sapevo che era bellissima, e mi abbracciava, e mi accarezzava il viso, e ci guardavamo e
annegavamo l‟uno nell‟altra. E tutto era tenerezza. Tutto era luce diffusa.
Con tutta quell‟intensità luminosa il risveglio non poteva essere nient‟altro che cenere. Infatti, come
è noto, tanto più dolce è un sogno, tanto più amara è la veglia che ne segue. Mi alzai decisamente
affranto e con la desolazione nel cuore. Durante tutto l‟arco della giornata provai un senso di
stordimento e continuava a tornarmi in testa, seppur in modo ovattato e a istanti intermittenti, quel
sogno. Era una sensazione flebile ma persistente, come un odore che rimane nel naso e ne sentiamo
il sentore ovunque, qua e là, anche se in realtà non è da nessuna parte.
L‟attesa in piazza, quella sera, si portava sulle spalle tutto lo strascico e l‟afflizione della giornata
appena trascorsa. Ero lì in piedi come un citrullo, con le braccia conserte, il cappuccio della giacca
stretto intorno alla capoccia. Non sapendo che fare, e per distrarmi da quel sogno, mi concentrai
sull'albero di natale nel centro della piazza, che era pieno di stupidissime luci intermittenti. Mi
lasciai catturare da quella visione e questa volta, grazie al mio già cupo stato d‟animo, che fece
come da catapulta, fui risucchiato in pieno dalle luci e dall‟alone sfocato che emanavano. Arrivò
puntuale, con passo deciso, Lucio.
“Allora?! Come va? tutto bene?”
“Eh Lucio, mica tanto!”
“Perché, cosa ti turba?”
“Mi turba il fatto che ci sia tu qui con me e non Talia. Sai quanto sarei stato meglio con Talia che
con te?!” Lucio sorrise: “Vedo che hai sempre una parola gentile per me, eh?! Grazie, sei un amico!
Ma poi chi è „sta Talia? Com'è? Descrivimela.”
“Oh Lucietto mio, lo sai che non sono bravo in queste cose. Se qualcuno me lo chiedesse non saprei
descrivere nemmeno te, figuriamoci se so descriverti Talia!”
“E vabbè dai, che palle, non fare troppo il modesto che diventi noioso poi, prova a farne almeno un
rapido ritratto, un identikit veloce, giusto perché io possa farmi un‟idea.”
“E va bene giù! Talia è... Talia è un sogno… è il sogno che ho fatto stanotte… Talia è la mia
idealizzazione della felicità... Talia è… ma lo vedi che non so spiegarti! Non mi viene! Non ci
riesco!”
“E dai! Invece credo di aver capito in linea di massima chi sia questa Talia, forse la conosco, cerca
di descrivermela meglio nei dettagli”
“Ok, ci provo... Talia è un'immagine... Talia è un sorriso che nasce da uno sguardo intenso, è un
sorriso che senza parole mi dice tutto quello che vorrei sentirmi dire. Talia è un abbraccio sotto
delle coperte morbide. E‟ una risata lucente, è un raggio estatico, è la personificazione di tutte le
bellezze, tutte le gioie, tutti gli incanti che bramo. Talia ha un solo difetto. Non c'è!”
Guardai le luci dell'albero in piazza. Mi voltai, ma Lucio se n'era andato. Rimasi lì, un po‟
imbambolato, sentendomi come vuoto. Mi ricordai che in un diario che avevo tenuto per qualche
mese, anni addietro, avevo effettivamente provato a scrivere delle righe per cercare di ritrarre
Lucio. Sì, mi ero già soffermato sulle luci intermittenti. Ma cosa avevo scritto? Per quanto mi
sforzassi non riuscivo a ricordarlo. Dove l'avevo messo poi quel diario? Cominciò ad arrovellarmi
l‟idea che forse, a suo tempo, ero riuscito davvero ad enucleare una descrizione attenta ed accurata
di Lucio e l‟avevo però dimenticata col passare dei giorni, dei mesi e degli anni. Arrivarono gli
amici. Mi venne una gran voglia di correre a casa per frugare in giro e scovare quel dannato diario,
trovare quelle parole su Lucio. Ma non ebbi la cinica risolutezza di inventarmi una scusa plausibile
per andare via. Andammo a cena e per un po' non pensai più né a Lucio, né a Talia, né al diario. Dal
dopo cena in poi i ricordi si fanno intermittenti. Alcool. Giro in città. Qualche sporadico pensiero
rivolto a Lucio. Risate. Lazzi vari. Nebbia. Ancora risate e buffonate tra amici. Letto. 2 del
pomeriggio.

Dopo sbronza. Una volta maturata la decisione di alzarmi dal letto balzai giù con slancio pari a un
bradipo e mi diressi in cucina con l‟intento di utilizzare i miei buoni vecchi rimedi naturali contro i
postumi: un bel brodo di pollo, frullato di banane, coca-cola e, ovviamente, molta acqua. Pensai al
diario, ma non avevo né la forza né la voglia di cercarlo. Verso le cinque, mentre fuori il cielo
imbruniva, iniziai a stare un po‟ meglio. Mentre guardavo la televisione mi passò per la testa Lucio
e mi decisi a cercare veramente quel cavolo di diario. La ricerca fu lunga e laboriosa perché non mi
ricordavo minimamente in che angolo, dentro quale remoto scatolone, in quale cassetto di quale
scrivania, o sotto quale malloppo di scartoffie l‟avessi abbandonato. Come sempre succede durante
queste ricerche, riscoprii cose di cui fino a pochi momenti prima non ricordavo l‟esistenza e che
invece, nel rispolverarle, mi sembrarono fresche ed interessanti e non mi capacitavo di come avessi
potuto accantonarle nel dimenticatoio così a lungo. Persi così un bel po‟ di tempo, tra scartoffie,
testi abbozzati per canzoni mai scritte, vecchie musicassette di gruppi dimenticati, libri mai letti e
fotografie stropicciate. Alla fine, proprio in fondo a uno scatolone, trovai il diario. Gli diedi una
prima rapida sfogliata, ma non mi capitò sott‟occhio il brano su Lucio che stavo cercando. Decisi
allora di dedicarmi alla cosa con calma. Mi sedetti comodamente in poltrona e cominciai a leggere
tutto dalla prima pagina. Dopo una manciata di paragrafi provai uno strano imbarazzo e non mi
capacitavo del fatto che fossi stato proprio io a scrivere quelle cose, tre anni prima. Mi sforzai di
continuare a leggere. Pian piano l‟imbarazzo iniziale svanì e lasciò il posto a un nostalgico
riaffiorare di ricordi e sensazioni dimenticate. Mi rammentai quanto fossi lacerato all‟epoca, quanto
mi fossi sporto su baratri vertiginosi e trovai che alcune pagine fossero davvero ben scritte e
profonde. Mi appoggiai il diario sulle ginocchia e, fissando di fronte a me, cominciai ad
interrogarmi su quelle parole: “Dove sono finite quelle sensazioni? Sono evaporate, è vero, ma
devono pur aver fatto condensa dentro di me, da qualche parte, lasciando ricadere alcune gocce
sulla superficie dei miei flutti interiori. Chissà, forse tutta la nostra anima non è altro che una sorta
di ciclo idrologico, la somma di sensazioni evaporate e ricondensate in gocce, che precipitano
nuovamente sul fondo e si infiltrano nei nostri flutti sotterranei. Forse sono proprio i nostri
malesseri che suscitano, che creano la nostra coscienza; una volta compiuta la loro opera, si
affievoliscono e scompaiono uno dopo l‟altro, ma la coscienza invece permane, senza ricordare
quanto deve loro.”
Alzai il diario dalle ginocchia e ripresi la lettura dove l‟avevo interrotta. Continuando a leggere
alcune pagine mi risultarono false e ampollose, quasi ipocrite; altre piene di pensieri immaturi e
acerbamente assertivi; mentre altre ancora, di nuovo, mi stupirono per una dose di acutezza e
felicità di scrittura che non ricordavo di aver mai avuto.
Finalmente trovai il brano che stavo cercando. Lo lessi voracemente:
- Cos’è quello che sento? …che provo adesso? E’ come quell’inevitabile malinconia, quel languore
di tristezza che coglie durante le feste natalizie, quando la felicità viene richiesta come requisito
indispensabile per poterti rapportare agli altri… e tutti i sorrisi e gli abbracci e le felicitazioni e gli
auguri e i ringraziamenti per i regali ti svuotano e per un’improvvisa associazione di idee, ti fanno
sentire come le luci decorative, lontano da tutto e da tutti… le luci di addobbo intermittenti mi
hanno sempre ricordato i segnali di soccorso luminosi dei sopravvissuti a un naufragio, su una
scialuppa immersa nell’oscurità e nella nebbia della notte, che con dei singhiozzi di luce gridano la
loro presenza disperatamente. -
Feci un orecchio all‟angolo della pagina, chiusi il diario e, alzandomi dalla poltrona, lo appoggiai
sulla scrivania. Andai alla finestra. Guadai pensieroso il buio della notte per qualche minuto, poi
cominciai a camminare lentamente avanti e indietro per la stanza, a testa china. Ripresi il diario,
rilessi quelle parole, in piedi, davanti alla scrivania. Seppur scritte di getto, a penna, senza alcun
tipo di rielaborazione stilistica, quelle righe coglievano, in modo metaforico e immaginifico molte
caratteristiche peculiari di Lucio. La malinconia, la solitudine, la disperata richiesta d‟aiuto per
salvarsi da una tristezza incurabile. Quella particolare sensazione di lontananza, incolmabile
distanza tra desiderio di felicità e reale concretizzazione della gioia. Un'opprimente sensazione di
angoscia, di pianto trattenuto, di inquietudine assillante. Ma c‟era qualcos‟altro che caratterizzava
Lucio e che ancora non riuscivo a capire. Mi preparai la cena. Guardai la televisione per un paio
d‟ore, giusto per spengere un po‟ il cervello e, dopodiché, me ne andai a dormire. Anche quella
notte sognai Talia.
Il giorno dopo ebbi una rivelazione. Mi fu finalmente chiaro, non so per quale grazia ricevuta, che
non aveva senso correre dietro a una chimera di felicità quale era la mia Talia. Una donna che è
l‟incarnazione della propria idea di perfezione nella realtà risulterebbe ben presto noiosa, non
essendoci nulla da scoprire in lei, nulla che non corrisponda esattamente alla nostra visione del
mondo, nulla che ci stimoli e ci pungoli verso la scoperta di nuovi orizzonti. L‟eccesso di luce
finirebbe per diventare solo grigiore a l‟uggia della monotonia finirebbe per soffocarci, lasciandoci
solo un desiderio di fuga ed evasione.
Ad un tratto mi si manifestò alla mente, folgorante, una frase. Mi affrettai a cercare una penna e un
fogliaccio per buttarla giù prima che mi sfuggisse. Afferrai un cartoncino appoggiato sul mobiletto
del telefono e sul retro scrissi frettolosamente:
- Tutto è luce. Tutto è oscurità. L’una e l’altra formula procurano uguale serenità, perché assolute.
L’intermittenza è uno stato intermedio che nega e afferma spasmodicamente e continuativamente
l’una e l’altra. L’intermittenza è la vita. La vita è l' intermittenza dell’assoluto. -
Rilessi e, giuro, mi accorsi di non sapere minimamente cosa minchia volesse dire quella massima.
Ancora una volta avevo mancato l‟obiettivo di intrappolare Lucio in una definizione esauriente ed
impeccabile, ma pensai che un aforisma vuoto, che sembra dire tutto e al contempo nulla, avrebbe
sempre potuto fare comodo per concludere qualche eventuale scritto che non si sa bene come
terminare. Misi previdentemente da parte il cartoncino con la massima. Feci bene. In seguito,
infatti, quel cartoncino mi tornò decisamente utile.

Tutto è luce. Tutto è oscurità. L’una e l’altra formula procurano uguale serenità, perché assolute.
L’intermittenza è uno stato intermedio che nega e afferma spasmodicamente e continuativamente
l’una e l’altra. L’intermittenza è la vita. La vita è l' intermittenza dell’assoluto.

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