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SCUOLA SUPERIORE DI CATANIA

CONCORSO DI AMMISSIONE AL I ANNO DEI CORSI ORDINARI


A.A. 2023-2024
CLASSE DELLE SCIENZE UMANISTICHE E SOCIALI
III PROVA SCRITTA

ARGOMENTO LETTERARIO-LINGUISTICO

Modalità I (elaborazione saggio breve sulla base di una selezione di documenti tratti da fonti
autorevoli che il candidato deve sapere inserire all'interno del proprio percorso
argomentativo)

La modernità è l'epoca della crisi di tutte le certezze. A ricevere un colpo definitivo è tra l'altro la
prospettiva antropocentrica, già messa in crisi nel XVII secolo dalla rivoluzione copernicana, che assegna
alla terra una posizione periferica nel Cosmo (cfr. brani nn. 3 e 4). Con la psicoanalisi freudiana, il cui
cardine teorico è genialmente anticipato da Arthur Rimbaud nella celebre "Lettera del Veggente" (cfr.
brano n. 1), la crisi si estende alla sfera psichica (cfr. brano n. 4). La coscienza, il cogito cartesiano è
scalzato, decentrato, alienato da una realtà soggettiva altra e più autentica, che non obbedisce alla ragione
(e che non per questo tuttavia è priva di una sua logica, come mostrerà proprio Freud): l'inconscio.
L'uomo moderno non è più padrone di sé stesso, non è più presente a sé, e questa condizione induce in
lui una sorta di vertigine e talora anche un'ebbrezza del nulla (cfr. brani nn. 1 e 2), con importanti ricadute
nella poesia e nella narrativa tra Otto- e Novecento. La candidata/il candidato sviluppi il tema scegliendo
gli esempi più adatti e che meglio conosce.
Brano n. 1
«Voglio essere poeta, lavoro a rendermi Veggente. Lei non capirà, e io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all'ignoto
mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Sono sofferenze immense, ma bisogna esser forte, essere nato poeta, e io mi sono
riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il giuoco di
parole. IO è un altro [C'est faux de dire: Je pense: on devrait dire on me pense. – Pardon du jeu de mots: JE est un autre]».
(Arthur Rimbaud, lettera a Georges Izambard del 13 maggio 1871, ed. it. in Opere, Milano, Mondadori, 1975, a cura di Diana
Grange Fiori)

Brano n. 2
«Da Copernico in poi, si direbbe che l'uomo sia finito su un piano inclinato – ormai va rotolando, sempre più rapidamente,
lontano dal punto centrale – dove? nel nulla?» (Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, 1887, ed. it. in Opere, Milano,
Adelphi, 2014, vol. VI, tomo II, a cura di Giorgio Colli, Mazzino Montinari, Ferruccio Masini)

Brano n. 3
«Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato
modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni. "Eh, mio reverendo amico", gli dico io, seduto
sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. "Non mi par più tempo, questo,
di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio
solito ritornello: Maledetto sia Copernico! "Oh oh oh, che c'entra Copernico!" esclama don Eligio, levandosi su la vita, col
volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. "C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava..." "E dàlli! Ma se ha
sempre girato!" "Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira […].
Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira
e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più
di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole
sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente.
Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men
che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie,
non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di
quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco [leggi:
Copernico], senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche.
Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come
adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti». (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cap. II, Premessa seconda
(filosofica) a mo' di scusa, 1904, ed. a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973)

Brano n. 4
«…l'analisi mostra che i singoli processi psichici latenti che noi inferiamo godono di un grado elevato di reciproca
indipendenza, come se non fossero collegati fra loro e non sapessero nulla gli uni degli altri. Dobbiamo essere dunque pronti
ad ammettere in noi stessi non solo l'esistenza di una seconda coscienza, ma anche di una terza, di una quarta, e forse di una
serie interminabile di stati di coscienza, tutti sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri. In terzo luogo – ed è questo
l'argomento di maggior peso – dalla esplorazione analitica apprendiamo che una parte di questi processi latenti possiede
caratteri e proprietà che ci sembrano peregrini o addirittura incredibili, e che si pongono in netto contrasto con le qualità della
coscienza a noi note. Abbiamo dunque buoni motivi per modificare l'illazione che abbiamo tratto riguardo alla nostra persona,
nel senso che essa non testimonia in noi l'esistenza di una seconda coscienza, ma piuttosto l'esistenza di atti psichici che
mancano del carattere della coscienza. Nella psicoanalisi non abbiamo altra scelta: dobbiamo dichiarare che i processi psichici
in quanto tali sono inconsci e paragonare la loro percezione da parte della coscienza con la percezione del mondo esterno da
parte degli organi di senso». (Sigmund Freud, L'inconscio, 1915, ed. it. in Opere, Torino, Bollati-Boringhieri, 1978, vol. VIII,
a cura di Cesare Musatti)

Modalità II (analisi testuale e commento di un testo letterario-linguistico)

Si analizzino dal punto di vista formale e tematico i vv. 88-142 della Commedia, Inferno V (testo stabilito
da Giorgio Petrocchi), nel contesto complessivo del Canto, in relazione alla poetica di Dante, e facendo
riferimento in particolare alla sua concezione dell'amore e della letteratura. Si noti bene: l'analisi specifica
è limitata al passo summenzionato; il canto viene trascritto nella sua interezza solo per aiutare le candidate
e i candidati nella contestualizzazione e nel commento. Non è richiesta la parafrasi puntuale dei versi.

Così discesi del cerchio primaio vuolsi così colà dove si puote
giù nel secondo, che men loco cinghia ciò che si vuole, e più non dimandare".
e tanto più dolor, che punge a guaio.
25 Or incomincian le dolenti note
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: a farmisi sentire; or son venuto
5 essamina le colpe ne l’intrata; là dove molto pianto mi percuote.
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
Dico che quando l’anima mal nata che mugghia come fa mar per tempesta,
li vien dinanzi, tutta si confessa; 30 se da contrari venti è combattuto.
e quel conoscitor de le peccata
La bufera infernal, che mai non resta,
10 vede qual loco d’inferno è da essa; mena li spirti con la sua rapina;
cignesi con la coda tante volte voltando e percotendo li molesta.
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Quando giungon davanti a la ruina,
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: 35 quivi le strida, il compianto, il lamento;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio, bestemmian quivi la virtù divina.
15 dicono e odono e poi son giù volte.
Intesi ch’a così fatto tormento
"O tu che vieni al doloroso ospizio", enno dannati i peccator carnali,
disse Minòs a me quando mi vide, che la ragion sommettono al talento.
lasciando l’atto di cotanto offizio,
40 E come li stornei ne portan l’ali
"guarda com’entri e di cui tu ti fide; nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
20 non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!". così quel fiato li spiriti mali
E ’l duca mio a lui: "Perché pur gride?
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
Non impedir lo suo fatale andare: nulla speranza li conforta mai,
45 non che di posa, ma di minor pena. noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga, Di quel che udire e che parlar vi piace,
così vid’io venir, traendo guai, 95 noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
ombre portate da la detta briga;
50 per ch’i’ dissi: "Maestro, chi son quelle Siede la terra dove nata fui
genti che l’aura nera sì gastiga?". su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
"La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper", mi disse quelli allotta, 100 Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
"fu imperadrice di molte favelle. prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
55 A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge, Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
per tòrre il biasmo in che era condotta. mi prese del costui piacer sì forte,
105 che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa: Amor condusse noi ad una morte.
60 tenne la terra che ’l Soldan corregge. Caina attende chi a vita ci spense".
Queste parole da lor ci fuor porte.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo; Quand’io intesi quell’anime offense,
poi è Cleopatràs lussurïosa. 110 china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?".
Elena vedi, per cui tanto reo
65 tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso,
che con amore al fine combatteo. quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!".
Vedi Parìs, Tristano"; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito, 115 Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
ch’amor di nostra vita dipartille. e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
70 Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri, Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. a che e come concedette amore
120 che conosceste i dubbiosi disiri?".
I’ cominciai: "Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno, E quella a me: "Nessun maggior dolore
75 e paion sì al vento esser leggeri". che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ed elli a me: "Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega Ma s’a conoscer la prima radice
per quello amor che i mena, ed ei verranno". 125 del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Sì tosto come il vento a noi li piega,
80 mossi la voce: "O anime affannate, Noi leggiavamo un giorno per diletto
venite a noi parlar, s’altri nol niega!". di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido 130 Per più fïate li occhi ci sospinse
vegnon per l’aere, dal voler portate; quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
85 cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno, Quando leggemmo il disïato riso
sì forte fu l’affettüoso grido. esser basciato da cotanto amante,
135 questi, che mai da me non fia diviso,
"O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso la bocca mi basciò tutto tremante.
90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno, Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante".
se fosse amico il re de l’universo,
Mentre che l'uno spirto questo disse,
140 l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

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