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JOSEPH

RATZINGER
CHI CI AIUTA
A VIVERE ?
Su Dio e l’uomo

Queriniana
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

books

Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo


Anselm Grün, Leadership con valori
Joseph Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere?
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

JOSEPH
RATZINGER

CHI CI AIUTA
A VIVERE?
Su Dio e l’uomo
A cura di
Holger Zaborowski
e Alwin Letzkus

Con una postfazione di


Holger Zaborowski

Queriniana
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Ringraziamento:
Si ringraziano le Editrici sotto indicate per la gentile autorizzazione a utilizzare
parti di opere da loro edite:
– Jaca Book, per il contributo «Che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?»,
tratto da: J. Ratzinger, Guardare a Cristo. Esercizi su fede, speranza e amo-
re, Jaca Book, Milano 2005, 89-93.
– Edizioni San Paolo s.r.l., per i contributi: «Il messaggio lo odo, ma…», tratto da:
J. Ratzinger, Immagini di speranza. Percorsi attraverso i tempi e i luoghi
del Giubileo, San Paolo, Cinisello B. 1999, 32-38; e «Liturgia e vita», tratto
da: J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisel-
lo B. 2001, 9-19.

Titolo originale
Joseph Ratzinger, Wer hilft uns leben? Von Gott und Mensch
Herausgegeben von Holger Zaborowski und Alwin Letzkus
Mit einen Nachwort von Holger Zaborowski

© 2005 by Editrice Vaticana, Città del Vaticano

© 2005 by Verlag Herder, Freiburg im Breisgau

Per l’edizione cartacea


ISBN 978-88-399-2853-5

© 2006 by Editrice Queriniana, Brescia


via Ferri, 75 - 25123 Brescia (Italia/UE)
tel. 030 2306925 – fax 030 2306932

Per l’edizione digitale in pdf


ISBN 978-88-399-6628-5

© 2013 by Editrice Queriniana, Brescia

Tutti i diritti sono riservati.


Questo pdf può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Non potrà pertanto
formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffu-
so, riprodotto, archiviato, trasmesso senza la previa autorizzazione scritta dell’editrice Queriniana.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e
dell’Autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente ai sensi della Legge 633/1941.

Edizione italiana
a cura di Gianni Francesconi

www.queriniana.it

info@queriniana.it
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1.
Incontrare un testimone

Incontri con papa Giovanni Paolo II

Il mio primo incontro con il cardinale Wojtyla di Cracovia –


il futuro papa Giovanni Paolo II – è stato indiretto. Un mio
amico, il filosofo Josef Pieper, di Münster, aveva partecipato a
un congresso filosofico internazionale a Napoli e mi raccontò
che l’evento vero e proprio di quei giorni era stata la relazione
dell’arcivescovo di Cracovia: lì finalmente aveva incontrato
nuovamente un vero filosofo che poneva in modo nuovo, con
energia fresca e intuizione geniale, le domande essenziali, non
impigliato in teorie accademiche, ma animato dalla passione
della conoscenza e dalla volontà di verità. Questo nome biso-
gnava ricordarselo. Io me lo sono ricordato, ma al momento
non ho potuto trovare nessuna opera di Wojtyla in una lingua a
me accessibile.
Il primo vero incontro avvenne poi al conclave dopo la morte
di papa Paolo VI. Il cardinale di Cracovia mi salutò con grande
cordialità; aveva letto il mio libro Introduzione al cristianesimo,
e così non gli ero del tutto sconosciuto. Prima del conclave ave-
va luogo quotidianamente un incontro dei cardinali già presenti
in Roma, nel quale, senza un particolare ordine del giorno, si
potevano esprimere le proprie idee circa i problemi emergenti
nella chiesa e nel mondo. Era una eccellente occasione per im-
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6 Chi ci aiuta a vivere?

parare a conoscersi e al tempo stesso per farsi delle idee, a parti-


re dalle prospettive più diverse, sui compiti che il futuro ponte-
fice avrebbe dovuto affrontare. Naturalmente non si poteva ab-
bozzare alcun programma per il nuovo pontificato, ma il nuovo
papa – chiunque sarebbe stato – veniva in questo modo a cono-
scere di prima mano quali aspettative si nutrivano nei suoi ri-
guardi, quali speranze e quali rischi erano nell’aria. L’arcivesco-
vo di Cracovia convinse con una analisi profonda delle sfide che
il marxismo, in modi differenti, rappresentava per la chiesa nel
mondo libero, come pure per le chiese locali che erano costrette
a vivere sotto il regime comunista.
Nello stesso anno non ho potuto, con mio dispiacere, coglie-
re un’occasione di incontrare più da vicino i cardinali polacchi
che erano venuti in visita in Germania e che quindi fecero natu-
ralmente tappa anche a Monaco. L’arcidiocesi di Monaco-Fri-
singa era gemellata con la chiesa cattolica in Ecuador, la quale
proprio nei giorni della visita dei cardinali polacchi celebrava
un congresso mariano nazionale al quale il papa Giovanni Pao-
lo I, su richiesta dei vescovi ecuadoriani, mi aveva inviato come
suo incaricato speciale. Tanto mi spiaceva non poter essere pre-
sente a Monaco in un’occasione così importante, altrettanto
non potevo sottrarmi a questo incarico. Fu durante il mio sog-
giorno nella capitale Quito che mi raggiunse la terribile notizia
della morte del buon papa. Vescovi e laici mi avevano affidato
vari messaggi da portargli, che ora io, in una Roma oscurata da
tempeste di scirocco, ho potuto soltanto deporre ai piedi del
papa defunto.
Il pensiero che l’arcivescovo di Cracovia potesse essere un
papa per questo tempo era nell’aria già nel primo conclave del-
l’anno 1978, ma il salto che questa decisione richiedeva era
sembrato, in quel momento, ancora troppo grande. L’improvvi-
sa morte di Giovanni Paolo I ha sicuramente rafforzato il senti-
mento che ora fosse necessario un passo coraggioso verso il
nuovo. Un papa dell’Est – un papa per il quale il ‘socialismo
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reale’ non era stato una teoria, ma realtà quotidianamente vissu-


ta e sofferta – era, questo, un pensiero che, dopo le burrasche
del ’68, calmatesi solo lentamente, e dei loro entusiasmi marxi-
sti, andava preso sul serio. E se c’era uno che da filosofo aveva
approfondito il confronto tra cristianesimo e marxismo, che da
pastore lo aveva sostenuto e che da credente lo aveva superato
pregando e portandolo davanti a Dio – non era forse questa una
scelta necessaria sia per l’Est come per l’Ovest, e addirittura
l’esigenza del presente? Io ho prestato attenzione a come que-
sto uomo pregava, a come incontrava gli altri in modo aperto e
libero da pregiudizi, anche noi tedeschi, e così si rafforzò in me
la convinzione che egli era il papa per l’ora presente. Pensai ai
nostri critici nei confronti della chiesa, qui in Germania, che at-
tendevano pronti a trovare tutto il negativo in un nuovo papa e
devo ammettere che, segretamente, ho provato gioia pensando
a come, con questa elezione, sarebbero rimasti senza parola, e
per la prima volta avrebbero dovuto prender fiato prima di tro-
vare nuovi argomenti per le loro profonde avversioni. Oppure,
non sarebbero stati forse disponibili a riflettere realmente sul
serio e ad ascoltare?
Resta indimenticabile il giorno della assunzione del ministe-
ro, la solenne liturgia in Piazza San Pietro, nella quale Giovanni
Paolo II trovò parole che colpirono l’attenzione. Indimentica-
bile soprattutto il drammatico appello ai cristiani nel mondo,
ma anche a tutte le persone titubanti, in ricerca, confuse – ai
molti che in qualche modo potrebbero credere, ma hanno pau-
ra che diventar credenti comporti per loro rinunciare troppo al-
la libertà e alla ricchezza della vita. «Non abbiate paura! Aprite,
anzi spalancate le porte a Cristo!». In effetti è la paura che chiu-
de le porte a Cristo, anche se essa si nasconde ancora tanto die-
tro atteggiamenti autoritari: paura per il proprio potere (di cui
Erode è un esempio), paura che venga sminuita l’autonomia del
proprio volere e fare – paura di precetti e divieti che potrebbero
ridurre lo spazio della vita, mentre proprio Cristo, lasciato en-
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8 Chi ci aiuta a vivere?

trare, demolisce gli steccati di cui noi ci circondiamo e ci con-


duce alla libertà. Qui parlava uno che aveva sperimentato di
persona che la comunione con Cristo è garanzia della libertà e
la forza più efficace contro il potere dei tiranni; qui parlava uno
che aveva sperimentato Cristo come ampiezza liberante della
propria vita. Pertanto, qui veniva enunciato il motivo fonda-
mentale di tutto il pontificato.
Subito dopo, grazie a due importanti pubblicazioni, ho potu-
to conoscere in maniera più adeguata la figura del nuovo papa.
Una di esse furono le sue meditazioni, tenute nel 1976, durante
gli esercizi col papa e la curia; esse apparivano ora con il titolo
Segni di contraddizione. L’altra fu la sua enciclica di inizio ponti-
ficato, la Redemptor hominis [Il Salvatore dell’uomo]. Entrambi
i testi si completavano e insieme davano una immagine viva del-
l’uomo che li aveva scritti – e non soltanto questo: un program-
ma della fede, della vita e del pensiero a partire dalla fede vissu-
ta nel nostro tempo. Abitualmente il testo delle encicliche nasce
attraverso rigorosi controlli, parola per parola, nel corso di mol-
te sedute di lavoro e passando per differenti gruppi di consu-
lenti. Nelle encicliche non devono comparire affermazioni sog-
gettive, per quanto pregevoli possano essere, ma ciò che è sem-
plicemente personale va sostituito con una accurata oggettiva-
zione affinché emerga la fede comune della chiesa, la sua dottri-
na che trascende scuole e culture. Da questo dipende il rigore
del loro stile, che sorprende e spesso anche meraviglia il lettore
di testi moderni; ma in questo sta naturalmente anche la garan-
zia della loro validità al di sopra e al di là del conflitto tra le dif-
ferenti forme teologiche e filosofiche di pensiero. Questa nuova
enciclica era diversa. Certo, anch’essa intendeva essere real-
mente ‘cattolica’, dunque esprimere la fede comune e non
esporre le teorie di un singolo. Ma la fede comune era diventata
qui del tutto personale; qui veniva condensato il cammino di fe-
de di un’intera vita con il suo cercare, maturare e trovare, e pro-
prio per questo parlava ai lettori con nuova vitalità. Chi rilegge
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Incontrare un testimone 9

oggi questa enciclica e la confronta con le successive altre tredi-


ci encicliche di Giovanni Paolo II, constaterà con stupore che
tutti i temi essenziali dei successivi scritti magisteriali sono qui
già affrontati. I testi successivi sviluppano ciò che qui è esposto
a grandi linee.
Non voglio qui entrare nei dettagli del primo scritto magiste-
riale del nostro papa e tuttavia alcuni accenni mi sembrano ne-
cessari. Ciò che maggiormente colpisce è la posizione centrale
dell’antropologia. Nel suo libro degli esercizi il papa aveva già
chiarito questo essenziale aspetto del suo pensiero: nel confron-
to tra il marxismo e il pensiero cristiano, che in Polonia dopo la
guerra risultò profondamente necessario, era subito diventato
evidente che la questione principale non era affatto lo scontro
sulla interpretazione rigidamente materialistica della scienza
della natura e, perciò, della realtà. Il punto centrale, sul quale si
doveva decidere nel conflitto dei ‘sistemi’, si dimostrò subito la
questione dell’uomo: chi ci mostra come si può essere uomini?
Chi meglio risponde ai grandi interrogativi dell’esistenza uma-
na? Chi ‘salva’ l’uomo? È il marxismo che ci dà futuro, vita e
salvezza, oppure è Cristo? Il conflitto della modernità è il con-
flitto attorno all’uomo. Per questo il papa dice: «La via della
chiesa è l’uomo». Da qui si comprende il titolo dell’enciclica: Il
Salvatore dell’uomo. ‘Salvatore’ significa: Chi ci aiuta a vivere?
Questo titolo, però, contiene già anche la inseparabilità di an-
tropologia e cristologia, l’inseparabilità della questione dell’uo-
mo e della questione di Dio. Infatti, la ‘via’ dell’essere-uomo è
Cristo. Antropocentrismo e cristocentrismo si compenetrano
nel pensiero del papa. L’uomo, allora, sta giustamente al centro
solo se trova il vero centro dell’essere-uomo, e questo è Cristo.
L’enciclica morale Veritatis splendor ha nuovamente assunto e
sviluppato sotto tutti gli aspetti questa problematica antropolo-
gica.
Un secondo punto a cui vorrei accennare è la passione per la
verità che si rivela nello scritto del papa. Il pluralismo moderno
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10 Chi ci aiuta a vivere?

considera provato che la questione della verità è per l’uomo


troppo elevata: noi dobbiamo contentarci delle abitudini cultu-
rali vigenti, dentro le quali siamo nati, e dovremmo considerare
il pluralismo nelle filosofie e nelle religioni quale ultima parola
possibile in questioni di verità. Il papa, che ha conosciuto in
Cristo la vera immagine dell’uomo, non si accontenta di questo
tirarsi indietro nella questione della verità; egli esige il coraggio
della verità: Fides et ratio ha elaborato ulteriormente questa via.
Vorrei richiamare l’attenzione anche su un terzo aspetto di
quella prima enciclica, un aspetto che fu per me del tutto una
sorpresa, ma che è molto caratteristico sia del pensiero sia del-
l’azione pastorale del papa. In questa prima enciclica il Santo
Padre sottolinea molto fortemente il carattere di avvento di
questa ora della storia della chiesa – in vista del grande giubileo
cristologico dell’anno 2000. Questo anno giubilare è stato per
lui un importante punto di orientamento: egli non lo ha com-
preso come un giubileo nel senso corrente del termine, ossia co-
me il ricordo di un evento importante del passato, di cui si ri-
chiama alla memoria l’influenza; è stato per lui piuttosto espres-
sione del potenziale non esaurito di futuro, che è presente nel
cristianesimo. La preparazione del giubileo doveva, di conse-
guenza, essere preparazione per un nuovo entrare del Signore
nella storia, dunque un evento che riproponeva l’‘avvento’. Co-
me lo si deve comprendere? È, questa, una specie di millenari-
smo, l’attesa di una svolta epocale in questo marcare il nostro
tempo storico? O che altro?
Credo che questo tema non sia affatto ancora esaurito e che
abbia bisogno di ulteriore riflessione. Chiarissimamente nel
papa non era presente alcun millenarismo banale, come proli-
ferava nel passaggio dal primo al secondo millennio e qua e là si
poteva di nuovo avvertire anche alle soglie dell’anno 2000. Ma
che cosa allora? In primo luogo ci si deve ricordare che per la
fede cristiana il tempo della chiesa, in cui ci troviamo, è real-
mente ‘già’ un tempo di compimento, e tuttavia ‘non ancora’ il
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Incontrare un testimone 11

compimento pieno. I Padri lo esprimono dicendo che la storia


procederebbe dall’ombra all’immagine, ma la piena realtà è an-
cora da venire, quale terzo grado del cammino di Dio. La fede
è e resta speranza, che trova la sua piena realizzazione solo nel
ritorno del Signore. Ora, tutti i cristiani credenti sanno questo,
e tuttavia l’attesa del ritorno di Cristo non significa per i cre-
denti una concreta speranza, non è una visione del futuro. Essa
è al massimo timore, ma non speranza; comunemente essa non
plasma affatto la coscienza cristiana, perché si trovano motivi
per convincersi che questo evento per noi stia in un lontano in-
determinato. Questo, però, significa che per il cristiano la spe-
ranza si è ritirata semplicemente nell’individuale e non abbrac-
cia la dimensione della storia. Questo, a sua volta, ha come
conseguenza che il cristianesimo è oggi, in quanto fenomeno
comunitario, essenzialmente orientato al passato e vede le sue
grandi energie fondanti, per così dire, totalmente nel passato; il
vuoto, così derivatone, di una speranza comunitaria che con-
cerne in quanto tale la storia ha portato anche i cristiani a darsi
ampiamente ai tipi di speranza postcristiani – alla fede nel pro-
gresso e alle sue diverse varianti o alle utopie del mondo mi-
gliore da creare; il fatto che l’utopia marxista abbia trovato tan-
ti seguaci tra i cristiani può qui trovare spiegazione. Pertanto, si
affaccia qui un problema importante dell’esistenza cristiana,
che, dal sorgere della fede nel progresso e delle utopie storico-
filosofiche in poi, ha mantenuto una straordinaria urgenza esi-
stenziale.
Ma come si deve rispondere? Bernardo di Chiaravalle, nel XII
secolo, ha elaborato una prima risposta. Egli ha integrato la
dottrina neotestamentaria e patristica delle due venute di Cristo
– la prima nell’umiltà, la seconda nella gloria – attingendo sen-
z’altro a intenzioni interne al Nuovo Testamento, con la dottri-
na dell’adventus medius – una venuta di Gesù intermedia tra
questi due punti del tempo, dunque all’interno del tempo della
chiesa: Cristo continua a nascere nelle anime; c’è una continua
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12 Chi ci aiuta a vivere?

venuta spirituale di Cristo. Così, egli parla espressamente di


una triplice e non solo di una duplice venuta del Signore. Nella
storia della spiritualità cristiana questa importante prospettiva è
stata interpretata prevalentemente in senso spirituale e quindi
anche individuale – è stata riferita alla nascita di Dio nel cuore,
e ciò è certamente importante e giusto, ma sicuramente anche
non sufficiente. Se vedo bene, già Bernardo si è spinto più lon-
tano col suo pensiero: per lui il sorgere dei grandi ordini rifor-
matori del suo secolo era una dimensione che andava oltre la
prospettiva semplicemente individuale e intima di questa venu-
ta ‘intermedia’ di Cristo. Questa visione, io penso, noi dovrem-
mo oggi elaborare e approfondire. Se consideriamo la storia in
profondità, accanto alle cadute che la contrassegnano, si mo-
strano continuamente queste nuove ‘venute intermedie’ del Si-
gnore, che diventano, per così dire, vie e condizioni per la nuo-
va nascita di Dio nei cuori. La riforma di Cluny, dopo le tenebre
del saeculum obscurum, significa una tale nuova ‘venuta’ del Si-
gnore nella storia; gli ordini riformatori del XII secolo, con al
vertice i cistercensi, sono di nuovo una di queste venute inter-
medie. Questo è del tutto evidente nel caso del movimento de-
gli ordini mendicanti del XIII secolo. Francesco di Assisi, segna-
to dalle stigmate del Signore, apparve giustamente ai suoi con-
temporanei come una icona vivente di Cristo, che radunava di
nuovo attorno a sé un popolo povero e fedele. Non sorprende
che qui, riallacciandosi alle speculazioni dell’abate cistercense
Gioacchino da Fiore, di fatto si sia diffusa ampiamente una in-
terpretazione di teologia della storia che vedeva nel fenomeno
francescano una nuova venuta di Cristo e del suo Spirito nella
storia. Le unilateralità di questa idea sono diventate oltremodo
evidenti nei movimenti spirituali radicali e nelle versioni secola-
ri delle idee di Gioacchino; esse divennero preamboli e punti di
partenza delle moderne ideologie basate sulla speranza. Ma
questo non dovrebbe impedirci di cogliere e valorizzare oggi di
nuovo il nucleo corretto di tali idee. Continuando nella storia, si
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Incontrare un testimone 13

potrebbe ugualmente fare riferimento ai grandi santi e alle ri-


forme del XVI secolo da essi promosse, come pure al nuovo en-
tusiasmo della caritas e della missione che si espresse nelle fon-
dazioni di ordini e nei movimenti laicali del XIX secolo: sono
tutti realmente delle nuove ‘venute’ di Cristo nella storia. Io
penso che il papa volesse intendere in questo senso la sua inter-
pretazione del cristianesimo come ‘avvento’ e volesse farci co-
noscere anche come il potenziale di speranza del cristianesimo
dentro la storia non sia esaurito. Tutto ciò che egli ha detto e
fatto per celebrare in modo corretto l’anno 2000 doveva essere
preparazione per un venire ‘intermedio’ di Cristo nella storia e
per andare incontro a tale venuta, che noi non possiamo deter-
minare, ma alla quale possiamo aprirci. Mi sembra che proprio
questo aspetto dell’enciclica iniziale del papa, come di molte
sue successive allocuzioni e scritti dottrinali, dovrebbe essere
ulteriormente pensato e sviluppato nel senso di una esistenza
cristiana vissuta veramente nello spirito dell’‘avvento’.
Brevissimamente, vorrei aggiungere ancora degli accenni ad
altri incontri con Giovanni Paolo II, che sono stati per me un
dono. Deve essere stato nel 1979 che il Santo Padre mi convocò
a Roma per un colloquio nel quale egli mi comunicò che aveva
l’intenzione di nominarmi Prefetto della Congregazione per
l’educazione cattolica. Mi spaventai, perché erano passati solo
due anni dalla mia ordinazione a vescovo, che i fedeli della mia
diocesi e io stesso consideravamo come una promessa di fedeltà
che mi legava a questa mia diocesi. Ma c’erano anche motivi più
concreti che mi facevano sembrare impossibile andare via in
quel momento. Avevo affrontato alcuni problemi spinosi. I fer-
menti che ne erano scaturiti erano ancora pienamente in atto.
In conformità a una direttiva della Santa Sede avevo disposto
che, in futuro, la prima confessione dovesse di nuovo precedere
la prima comunione – così era prima, mentre da poco si era
cambiato. Chi intende la confessione come uno spauracchio
della coscienza doveva essere contrario a un tale ordinamento,
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che sembrava imporre ai bambini dei pesi non necessari. Se, pe-
rò, la confessione viene intesa come il destarsi alla grazia del
perdono, come via per imparare ad aver bisogno di perdono e
per apprendere la capacità di perdono, dunque come incontro
totalmente personale con la bontà di Dio che ci salva, allora si
comprende il senso di questo ordinamento. Ma questa visione
andava comunicata di nuovo. A questo riguardo avevo trovato
che il rapporto tra formazione al presbiterato e preparazione al-
lo stato di qualificato collaboratore laico (referente pastorale)
era divenuto poco chiaro, le due strade si confondevano e solo a
fatica si poteva ancora cogliere ciò che è specifico della vocazio-
ne presbiterale, la sua insostituibilità. Perciò avevo iniziato, an-
che qui, a insistere su distinzioni e chiarificazioni. Da questo di-
pendeva strettamente un terzo problema di grande rilevanza:
nel frattempo erano state introdotte delle liturgie della Parola
con amministrazione della comunione al posto delle liturgie do-
menicali in comunità nelle quali, nel giorno del Signore, non era
disponibile alcun sacerdote. Nei paesi di missione e in America
Latina tali forme di celebrare il giorno del Signore sono da tem-
po, per comunità prive di preti, un aiuto necessario per unirsi
alla preghiera di tutta la chiesa. Pertanto, l’introduzione di que-
ste forme, nel caso di crescente mancanza di preti, era di per sé
assolutamente giustificata. Ma la prassi cominciava ad andare
molto oltre queste necessità. Incominciava a diffondersi una vi-
sione mutata del rapporto tra sacramento ed esperienza della
comunità, che toccava la fede cattolica in un punto particolar-
mente sensibile. Anche quando era facilmente possibile parteci-
pare alla celebrazione eucaristica in una comunità vicina, si di-
ceva, il fatto che la comunità resti nella propria chiesa sarebbe
più importante dell’incontro sacramentale con il Signore nel-
l’eucaristia. L’elemento sociologico veniva considerato più im-
portante del dono del sacramento. Così, avevo intrapreso degli
interventi correttivi, suscitando impeti di indignazione, perché
si consideravano le novità appena apprese come l’unica cosa
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Incontrare un testimone 15

giusta e le mie direttive apparivano come una ricaduta nel ‘pre-


conciliare’. Andare via in questa situazione di acque agitate mi
sarebbe sembrata una fuga di cui non potevo assumermi la re-
sponsabilità. Ho esposto al Santo Padre perché, in quel mo-
mento, non potevo lasciare la mia diocesi. Sono ancor oggi rico-
noscente per la grande comprensione che egli mi ha mostrato e
per avere rinunciato alla nomina di cui aveva intenzione. A dire
il vero, mi lasciò intendere che, in altro momento, avrebbe po-
tuto pensare a me per un compito in curia. Non ho potuto
obiettare nulla, perché per me, in quel momento, era importan-
te che potessi continuare il mio servizio a Monaco.
L’anno seguente portò un altro incontro: il papa mi nominò
relatore per l’imminente sinodo dei vescovi sul tema della fami-
glia. Per me si trattava di un evento emozionante. Si trattava di
leggere volumi di risposte provenienti dalle conferenze episco-
pali e di fonderle in una unica relatio. Le procedure del sinodo
non erano allora ancora definite in modo così completo come
nel frattempo si è fatto; restava molto maggior spazio per l’im-
provvisazione. Si dovevano trovare, caso per caso, le reazioni
giuste e le forme necessarie di collaborazione. Ciò non solo of-
friva parecchie occasioni di conoscere i vescovi della chiesa uni-
versale ivi radunati, ma soprattutto anche possibilità di incon-
trare il papa, il quale con umorismo e indulgenza accettava i
piccoli intoppi che sorgevano nel portare avanti il mio compito.
Il rapporto reciproco è diventato, in quelle settimane, ancor più
cordiale e diretto.

Di nuovo un anno dopo, all’incirca nel febbraio 1981, il papa


mi fece capire che aveva intenzione di nominarmi successore
del cardinal Seper come Prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede. Il cardinal Seper aveva raggiunto, nel frat-
tempo, il 76° anno di età, ma non si sapeva ancora quando
avrebbe lasciato il suo incarico. Anche se avrei desiderato pote-
re operare ancora qualche anno a Monaco, per risolvere passo
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dopo passo, per quanto possibile, i problemi insorti, non ho


osato dire di no un’altra volta, ma al sì ho tuttavia posto una
condizione, che forse mi avrebbe potuto risparmiare la via di
Roma: dissi che, in base al mio intero percorso, ritenevo neces-
sario, accanto all’incarico ufficiale, potere e dovere continuare a
pubblicare personalmente come teologo; ma dubitavo che que-
sto fosse compatibile con la necessaria oggettività dell’ufficio.
Su questo problema il papa non volle decidere subito, ma pro-
mise che si sarebbe consultato e mi avrebbe poi comunicato la
sua decisione. Ma il 13 maggio accadde qualcosa di terribile:
ero stato a un incontro con i preti della zona di Rosenheim nella
città sull’Inn e stavo tornando a casa contento che tutto fosse
andato bene. Al portone d’ingresso dell’episcopio di Monaco
vidi giornalisti con telecamere e microfoni; non riuscivo a spie-
garmi che cosa tramassero. Quando scesi dall’auto, seppi che il
papa era stato gravemente ferito in un attentato in Piazza San
Pietro ed era stato sottoposto, nella clinica Gemelli di Roma, a
una rischiosa operazione il cui esito era incerto. Ero come stor-
dito dalla terribile notizia. Non poteva essere che questo grande
papa – veramente un uomo di questa ora, donatoci da Dio – ci
venisse preso proprio in questo momento in cui egli, con tutta
la forza della fede e delle sue esperienze, aveva appena incomin-
ciato ad aprire alla chiesa, alla cristianità, anzi all’umanità di
nuovo la via verso Dio e, da qui, alla dignità dell’uomo. Noi ave-
vamo bisogno di lui, semplicemente; le potenze delle tenebre
non potevano essere così forti da portarcelo via. Tutti, in quelle
settimane, abbiamo pregato molto; in tutti coloro che hanno
vissuto quei giorni resta una grande riconoscenza per la salvez-
za quasi miracolosa del papa che ha continuato a dare tanto a
noi, alla chiesa, all’umanità.
Nell’autunno 1981 il Santo Padre – ancor visibilmente segna-
to dalla sofferenza – mi convocò a Castel Gandolfo per un col-
loquio. Disse che, per quanto riguardava il mio desiderio di po-
ter continuare, accanto al mio ufficio, a pubblicare testi teologi-
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Incontrare un testimone 17

ci personali, si era consultato e lo considerava compatibile con


il mio compito; c’erano, a questo riguardo, dei precedenti. Egli
aveva l’intenzione di inserirmi nell’ufficio previsto nel corso dei
mesi successivi. Parlammo in un’atmosfera sciolta su quanto era
accaduto e sui compiti che questo tempo poneva alla chiesa, al
suo supremo pastore e ai suoi collaboratori. Il 25 novembre
1981 venni nominato successore del cardinal Seper, ma ho po-
tuto continuare il mio lavoro di arcivescovo di Monaco e Frisin-
ga ancora fino al 15 febbraio 1982.

Così, nel 1982 è iniziata per me una lunga collaborazione con


papa Giovanni Paolo II, nella quale ho imparato sempre di più
a venerare questo grande uomo di fede. Anche in situazioni dif-
ficili egli mi ha fermamente conservato la sua fiducia. Con la sua
profondità spirituale, la ricchezza delle sue intuizioni, grazie al-
la sua apertura e alla chiarezza del suo percorso, partendo dalla
conoscenza della sua missione egli mi ha aiutato a compiere il
mio servizio al suo fianco per la fede nel nostro tempo. Io devo
qui sottolineare che il significato del mio lavoro per questo pon-
tificato viene spesso, nell’opinione pubblica, ampiamente so-
pravvalutato. Il papa ha di persona – come già ho detto – una
conoscenza molto chiara della sua missione e delle linee essen-
ziali del suo mandato. È una persona che, nella preghiera, si im-
merge letteralmente nell’incontro con Dio e da qui riceve luce
per quanto è da fare. Egli vive in una molteplicità di incontri,
sia con i collaboratori dei singoli settori della curia come pure
con i vescovi di tutta la terra e anche con i portavoce delle altre
chiese e comunità cristiane, con persone che occupano i più di-
versi posti di responsabilità in questo mondo. Mi meraviglia
sempre di nuovo come egli conosca i nomi dei vescovi di tutto il
mondo, sappia dove sono e che cosa li preoccupa. Nei sinodi
dei vescovi ho potuto continuamente osservare come egli ascol-
ti con attenzione i discorsi dei singoli padri e dalla raccolta spes-
so snervante delle richieste, con tutte le ripetizioni del caso, si
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

18 Chi ci aiuta a vivere?

formi una immagine delle speranze e delle sofferenze della chie-


sa nel suo complesso.
Già dalla metà degli anni novanta si sono allungate su di lui le
ombre della sofferenza; sempre meno si può ignorare il dolore
che il papa deve sopportare. Ma spiritualmente egli è rimasto
una roccia. Fin dall’inizio ha fatto conoscere che egli era pronto
a lasciarsi consumare per Cristo e, così, per gli uomini, per il
mondo. Il modo in cui egli porta la sua sofferenza, l’umiltà che
questo gli richiede, le rinunce che vi sono collegate – tutto ciò
diventa un messaggio del tutto speciale alla chiesa, al mondo.
Non conta soltanto l’attività, la prestazione; la sofferenza accet-
tata e sopportata dall’interno è un dono, una forza per la salvez-
za degli uomini. Giovanni Paolo II è ora ancor più in preghiera
con Dio e, proprio per questo, capace di amore per gli uomini.
Da lui continuano a venire nuove idee e direttive, che scaturi-
scono dall’incontro con Cristo. Gli incontri con il papa soffe-
rente e tuttavia non abbattuto mi danno forza non meno di
quanto prima facevano le animate dispute negli incontri di lavo-
ro d’ogni tipo, quando era nel pieno del suo vigore. Sì, Giovan-
ni Paolo II è un grande uomo – grande proprio perché egli non
cerca se stesso, ma sta interamente a disposizione di colui che la
fede confessa come la parola di Dio fatta carne.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

2.
Trovare sostegno nella vita

1. In cammino – Da dove e verso dove?

La strada – simbolo del nostro tempo

A ogni fine-settimana fuoriescono dalle città intere colonne


di lamiera che la domenica sera ritornano precipitosamente ai
punti di partenza, su strade terribilmente intasate. Quando ini-
ziano le ferie questi flussi aumentano fino a diventare vere mi-
grazioni di popoli; sembra allora che un popolo intero si metta
in viaggio. Nei cosiddetti paesi altamente sviluppati la strada è
diventata uno dei più frequenti luoghi di soggiorno delle perso-
ne, e gli investimenti che vengono correntemente fatti per co-
struire strade sono espressione della mentalità spirituale che
rende le persone dei viandanti irrequieti. Si impone la doman-
da: qual è il motivo di tale comportamento? Evidentemente nel-
le loro abitazioni le persone non si sentono realmente a casa;
molte abbandonano la loro dimora non appena e più spesso che
possono. Essa sembra loro il carcere del quotidiano più che il
riparo in cui desiderare di restare. Tanto che si potrebbe ben di-
re: in questa fuga sulle ruote si nasconde una protesta contro le
costrizioni del mondo del lavoro e un desiderio di libertà, di
ampiezza, del totalmente altro, in cui potere di nuovo diventare
creativamente e liberamente se stessi.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

20 Chi ci aiuta a vivere?

Nostalgia del ‘più’

Pertanto, in questa regolare migrazione dei popoli della so-


cietà industriale viene però alla luce qualcosa di molto profon-
do sull’uomo e la sua natura. In ciò che possiede egli non può
sentirsi pienamente a casa. Egli è tormentato da una inquietudi-
ne che esige qualcosa di più grande e di diverso, cerca una liber-
tà che oltrepassa le libertà borghesi e le loro realizzazioni.
Non si avverte dunque qui qualcosa della verità delle parole
bibliche che indicano l’uomo come ‘pellegrino in questo mon-
do’ e dicono che egli non può trovare qui la sua stabile dimora?
Non si riconosce qualcosa di quella inquietudine del cuore di
cui parla Agostino, il quale ha fatto personalmente esperienza
di una ricerca inquieta, si è sentito come il perennemente tor-
mentato, finché ha capito perché tutto gli era troppo stretto? Al
nomade di oggi l’auto può apparire come espressione della sua
libertà e della possibilità di disporre di se stesso, e per questo
motivo essa gli sembra così insostituibile, oltre il necessario. Ma
gli permette di essere se stesso e gli dona la libertà, oppure non
lo costringe forse di nuovo nell’ingorgo di coloro che girano a
vuoto?
Così, le nostre abitudini legate alle ferie potrebbero diventa-
re benissimo occasione per riflettere una buona volta a fondo
su noi stessi e per dedicarci a una ricerca più grande di quanto
abitualmente osiamo fare. Non sarebbe questo innanzitutto il
viaggio veramente degno dell’uomo, uscire dalla angustia del
quotidiano, porsi alla ricerca dell’Eterno, cercare il volto di Dio
e superare così tutti i confini di ciò che è terreno? E non po-
trebbe essere che solo di là pervenga a noi, al tempo stesso, li-
bertà e possibilità di sentirci a casa? Forse questa domenica
(prima o durante le ferie) potrebbe essere per noi occasione per
cercare, su questa via, quel totalmente Altro a cui noi, conscia-
mente o inconsciamente, continuamente rivolgiamo i nostri oc-
chi.
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Trovare sostegno nella vita 21

2. L’uomo di oggi di fronte al problema di Dio

L’atteggiamento dell’uomo del nostro tempo di fronte al pro-


blema di Dio consiste proprio nel chiedere, nel problematizzare,
fino a che punto Dio non è già stato incluso fra le questioni fuori
moda, che vengono ormai trascurate dalla coscienza umana. Il
nostro discorso su Dio, se vuol essere comprensibile, se deve
fornire all’uomo la risposta, dalla quale egli si senta interessato,
non può prescindere da questa situazione. La crisi della predica-
zione cristiana, che da un secolo sperimentiamo in misura cre-
scente, dipende in non piccola parte dal fatto che le risposte cri-
stiane hanno trascurato gli interrogativi dell’uomo; esse erano
giuste e continuano a rimanere tali, però non ebbero influenza
in quanto non partirono dal problema e non furono sviluppate
all’interno di esso. Perciò è una componente essenziale della
predicazione stessa il prendere parte alla ricerca dell’uomo, per-
ché solo così la parola (Wort) può farsi risposta (Ant-wort).

I.
Per prima cosa dobbiamo entrare nella problematica di Dio,
quale la sperimenta l’uomo d’oggi, per poter in essa riscoprire e
parlare di Dio. I singoli aspetti di questa problematica, qui svi-
luppati, sono presenti nell’uomo medio a un livello appena co-
sciente, ma essi concorrono a determinare il clima spirituale che
lascia la sua impronta anche là dove non se ne conoscono le li-
nee portanti. Le radici del rifiuto di Dio che oggi ci assilla risal-
gono a quella svolta nella visione del mondo attuata all’inizio
dell’era moderna, ma non è molto tempo che la teologia e la co-
scienza credente si sono occupate di essa. Fino ad allora Dio
aveva il suo posto fisso nella costruzione gerarchica del mondo,
l’empireo. Nella gerarchia delle sfere, che dal gradino più basso
e cupo, la terra, conduce al sempre più spirituale ed elevato, per
giungere alla pura luce, a colui che muove l’universo, si poteva
quasi toccare con mano il metafisico: la Divina Commedia di
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22 Chi ci aiuta a vivere?

Dante rimane la classica illustrazione di una visione del mondo


nella quale la fede aveva assunto forma tangibile, inconcepibile
senza il cosmo, il quale in ogni sua parte rimanda a essa. Anche
la ‘storia della salvezza’, con il suo centro nell’incarnazione di
Dio, si poteva capire facilmente, perché la terra per un aspetto
era sì l’anello più basso e vile della catena cosmica, il pavimento
dell’universo, per così dire, sopra il quale si sovrapponevano i
cieli; ma nella sua qualità di pavimento era proprio il fonda-
mento della costruzione, sul quale tutto poggiava e così diveni-
va il logico teatro per l’incontro di Dio con la sua opera, lo sce-
nario adatto per il dramma di Dio con la sua creatura.
Con la svolta moderna spariscono queste determinazioni
spaziali fisse, che fino ad allora avevano strutturato l’universo.
Può essere di nuovo sintomatico un richiamo a Dante: egli in-
contra nell’inferno Ulisse (Odisseo) e da lui viene a sapere co-
me, dopo il suo ritorno in patria, sia partito una seconda volta,
con nuovi compagni, e questa volta verso l’oceano, attraverso lo
Stretto di Gibilterra. Dante dà in anticipo al suo Ulisse il volto
dei grandi viaggiatori posteriori, della fine del quindicesimo e
del sedicesimo secolo; il discorso che Ulisse rivolge ai suoi com-
pagni scoraggiati ricorda sorprendentemente il discorso tenuto
in realtà da Colombo davanti ai suoi uomini dubbiosi. Soltanto
la conclusione è del tutto diversa: Dante ritiene che Ulisse, con
la sua nave si sia schiantato presso la montagna del purgatorio,
la quale delimita la terra a Occidente; terreno e metafisico si
scambiano direttamente l’uno con l’altro1. L’Ulisse reale invece,
cioè Colombo, non trova il purgatorio, ma l’America. Il rove-
sciamento che comportano le scoperte dell’era moderna di
fronte al pensiero medioevale non potrebbe venir rappresenta-

1
Inferno XXVI, 90-141; cfr. al riguardo l’eccellente commento di A.
RÜEGG, Die Jenseitsvorstellungen vor Dante II, Einsiedeln 1945, 108-117. Cfr.
anche il contributo: Il cristiano e il mondo contemporaneo, in J. RATZINGER,
Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 154-173.
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Trovare sostegno nella vita 23

to in forma più evidente di quanto lo abbia fatto la storia stessa.


Il mondo perde i suoi confini metafisici e fin dove si riesce ad
avanzare esso appare soltanto come mondo. Ciò che finora era
stato cielo, si svela ora come mondo, di identica composizione
ovunque; in esso non esiste né sopra né sotto, ma dappertutto
c’è soltanto la stessa struttura della materia e identiche leggi
operano in ogni luogo. Né la terra è un punto centrale o una ba-
se, né il cielo è un cielo: tutto è, per l’appunto, soltanto ‘mon-
do’. I motori intelligenti prima postulati, senza i quali non si po-
teva spiegare la rotazione uniforme delle costellazioni (angeli
per le singole costellazioni, Dio per l’intero universo), diventa-
no ora superflui, perché il movimento è spiegabile grazie alle
leggi della materia stessa. L’‘ipotesi Dio’ diviene superflua, co-
me notoriamente si espresse Laplace.
Dietro questi processi esterni ci sono degli spostamenti nel-
l’orientamento di fondo del pensiero, e solo questi danno il suo
pieno significato al tutto. I successi nella progressiva scoperta
del mondo materiale e delle sue leggi si realizzano grazie a una
sempre più severa ed esatta applicazione di quel metodo che è
caratterizzato dal confluire di osservazione, esperimento e for-
mazione delle teorie matematiche. Entro questo metodo, che si
limita a stabilire il verificabile e il falsificabile e da qui deriva la
sua certezza universalmente obbligatoria, non esiste alcuno spa-
zio per l’interrogativo sui fondamenti dell’essere delle cose. Dal
momento che Dio non si può osservare nel senso dell’esperi-
mento riproducibile e non si può calcolare nel senso della teoria
matematica, egli non può venir ammesso da questo metodo, lo
vieta la sua stessa strutturazione. Contro un simile modo di in-
terrogare la realtà la fede non può trovar nulla da ridire; anzi,
per il fatto di aprire all’uomo la strada verso delle verità e di
permettergli una migliore costruzione della sua esistenza, que-
sto metodo di ricerca è in sintonia con il compito della creazio-
ne, il quale assegna all’uomo il mondo come spazio del suo in-
vestigare e agire. Solo in seguito sorge una situazione critica,
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24 Chi ci aiuta a vivere?

quando cioè dal metodo positivistico e dalla sua necessaria limi-


tazione metodologica deriva una visione positivistica del mon-
do, la quale accetta come realtà solo ciò che è accessibile a que-
sto metodo. La limitazione metodologica si trasforma così in
una limitazione di principio. E la tentazione a far questo, accre-
sciutasi sempre più nell’era moderna, oggi appare quasi insupe-
rabile. Una prima spiegazione è data dal fatto che i confini di
questo metodo non si devono prevedere a priori; anzi, l’ambito
entro il quale esso si può impiegare con successo si allarga in ef-
fetti sempre più. D’altro canto, di fronte alla forma di certezza e
di misurabile utilità, che qui si raggiunge, tutte le altre forme di
certezza appaiono precarie; si può comunque facilmente essere
propensi a eliminarle come insufficienti e ad aspettare finché
emergano certezze simili anche nei campi finora non considera-
ti. La crescente esclusività del positivismo, che nella scienza si
realizza a livello cosciente, si propaga a un livello più grossolano
e in forme vaghe nella coscienza comune; questa vede nella
scienza della natura un toccasana e guarda alle informazioni
teologiche come a qualcosa di ‘medioevale’, di inadeguato per il
nostro pensiero moderno.
Viene così già toccato un ulteriore aspetto, che io vorrei defi-
nire il carattere processuale del pensiero positivistico. Il raggio
si allarga sempre più, come abbiamo detto, di modo che in uno
spettatore esterno si fa strada l’idea che un giorno si dovrà poter
comprendere con questo metodo la totalità del reale. I campi ri-
servati alla teologia e a una filosofia basata sulla metafisica si re-
stringono sempre più; anche alcuni processi fisici e sociali si
aprono in misura crescente a una spiegazione positivistica. Le
affermazioni teologiche appaiono così quasi necessariamente
come prescientifiche, possibili per ora a causa dell’incompletez-
za della ricerca scientifica, ma superabili un giorno grazie a essa.
Dopo tutto l’atavismo della teologia ci si vuole tempestivamen-
te adattare a queste circostanze e non attendere fino a quando
nuovi risultati costringano a farlo contro volontà.
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Trovare sostegno nella vita 25

Questa evoluzione nell’ambito della scienza naturale va di


pari passo con una linea di sviluppo affine nel campo della sto-
ria e dell’antropologia. Come attraverso una ricerca naturale-
scientifica il ‘cielo’ divenne ‘mondo’, così l’indagine della storia
e il progressivo incontro di religioni e di culture dà l’impressio-
ne che il cristianesimo vada livellandosi sempre più nella comu-
ne storia delle religioni. L’Antico Testamento perde la sua esclu-
sività, ci viene incontro inserito in pieno nelle culture orientali
precedenti; la storia di Gesù, allo stesso modo, viene riassorbita
nel contesto della storia della religione tardo-giudaica. Nulla
più appare senza parallelismi. L’umanità soltanto appare ovun-
que come qualcosa di unico, pur nella mutevolezza delle sue
forme, nella sua grandezza e nella sua miseria. Se era già una
difficoltà continua il guardare a un singolo personaggio, Gesù
di Nazaret, come soggetto di tutta la storia e come destino di
ogni vita umana, ora, di fronte a tutte le componenti umane del-
la storia biblica e di fronte a tutto quello di venerando che c’è in
altre religioni, l’assolutezza di una singola forma sembra del tut-
to irrealizzabile.
A questo si aggiunge il progressivo scomparire di una filoso-
fia autonoma, che conceda alla fede lo spazio in cui poter svi-
lupparsi. Non esiste più una filosofia comunemente accettata, a
eccezione del positivismo, che va affermandosi; ma esso appun-
to non lascia alcuna possibilità alla fede.
Abbiamo così indicato, a grandi linee, gli interrogativi che
oggi fanno diventare sempre più inaccessibile all’uomo la realtà
di Dio. Che cosa resta? Come si può trovare una risposta? In
primo luogo dovremo convenire che si tratta di un compito da
affidare a intere generazioni. La naturalezza con la quale, nel
medioevo, Dio sembrava divenuto comprensibile non sorse
dall’oggi al domani. Durante un lungo processo del pensiero e
della vita la fede aveva impresso sull’antica immagine del mon-
do, per nulla determinata da un Dio cristiano creatore, i tratti
caratteristici delle convinzioni cristiane. Quando questa sintesi,
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26 Chi ci aiuta a vivere?

nell’era moderna, venne smontata pezzo per pezzo, si rimase


troppo a lungo preoccupati di salvare il passato, invece di deci-
dersi a entrare nelle nuove problematiche. Così non si è ancora
affrontato il compito di riassimilare la fede entro le nuove con-
dizioni del pensiero.
Quanto detto non può certo costituire per nessuno una ri-
sposta valida. Anche se la teologia desidera avere del tempo a
disposizione, l’uomo deve vivere adesso e ricercare adesso la
sua strada. Quali possibilità gli si offrono? Gli approcci posso-
no essere diversi. Si può far osservare che anche oggi e, in un
certo senso, più oggi che in passato, di fronte a tutta la cono-
scenza della matematica dell’universo, il mondo con la sua im-
pronta spirituale rimanda allo Spirito-creatore, senza il quale ri-
mane inspiegabile lo spirito in lui oggettivato. Si può far riferi-
mento alla libertà umana, che rinvia alla primordiale libertà
creativa, a Dio; oppure al fatto che il ricercare e l’interrogare da
parte dell’uomo non possono trovare riposo in ciò che è pura-
mente positivistico e da lì si dirigono di nuovo verso il tu creato-
re, senza il quale rimane inspiegabile l’io. Nell’un caso si arrive-
rà a un qualcosa di essenziale-ontologico, nell’altro a una imma-
gine di Dio più personalizzata. Il percorrere insieme tutte due le
strade porterebbe poi all’immagine cristiana di Dio, alla sintesi
di pensiero e di essere, che noi chiamiamo Dio2. Ambedue gli
aspetti mi sembrano ugualmente importanti, anche se a partire
dalla situazione psicologica la limitazione dell’atteggiamento
positivistico può essere più urgente: l’uomo che cerca di esiste-
re soltanto positivisticamente, nel calcolabile e nel misurabile,
muore soffocato. Questo indicano in sostanza, con una chiarez-

2 Cfr. per questo tentativo J. RATZINGER (ed.), Die Frage nach Gott, Frei-

burg 1972, specialmente i contributi di B. Welte e B. Camper (pp. 11-42), co-


me pure di E. Biser (pp. 89-115). Importante anche lo scritto di H. KRINGS,
Freiheit. Ein Versuch Gott zu denken, in Philosophisches Jahrbuch 77 (1970)
225-237; R. SPAEMANN, Die Frage nach der Bedeutung des Wortes ‘Gott’, in In-
ternationale Katholische Zeitschrift Communio 1 (1972) 54-72.
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Trovare sostegno nella vita 27

za spaventevole, le esplosioni di insofferenza nella nostra socie-


tà presente. Reinhard Raffalt, poco tempo fa, ha accentuato in
tono molto persuasivo queste relazioni. Egli riferisce la sua im-
pressione che la chiesa si prepari sempre più a migliorare, in un
primo momento, la situazione materiale dell’uomo. Alla sua os-
servazione che si dovrebbe guardare anche (riferito qui al-
l’America Latina) al bisogno di salvezza dell’uomo, un cardina-
le avrebbe risposto: «Naturalmente deve pur venire una nuova
predicazione del vangelo». Ma alla sua proposta di iniziare in
primo luogo con essa, egli avrebbe taciuto, sorridendo cortese-
mente. «… La chiesa, mi sembra, è arrivata alla convinzione di
essere in grado di realizzare, nel potenziamento di tutte le forze
e in collaborazione con tutti i consenzienti, un perfezionamento
della vita temporale… Non si può non parlare di idealismo in
un simile proposito. Si pone soltanto la questione: l’uomo, nel-
l’incompletezza della sua natura, è proprio adatto a ricavare dal
mondo qualcosa di diverso da quello che è sempre stato – tea-
tro, cioè, per il pullulare delle forze del male, dalle quali il bene
è in grado di difendersi solo nel silenzio, nella fede, nell’amore e
nella speranza? È mai esistita nella storia dell’umanità una fase,
nella quale essa avesse avuto più bisogno di quanto ne abbia og-
gi di sentire la parola di Cristo: “Il mio regno non è di questo
mondo”? L’abbandono di questa parola costituisce certo un de-
siderio impellente per l’epoca di cinismo in cui noi viviamo. Ma
non lo si desidera forse troppo? L’uomo sfruttato, oppresso,
maltrattato, non vuole, in fin dei conti, esattamente la stessa co-
sa che suo fratello distrutto dalle comodità, dal sesso, dalla dro-
ga, cioè poter credere?»3. Forse ciò è detto in forma troppo
semplice, troppo immediata; mi sembra indiscutibile, però,
l’esistenza nell’uomo d’oggi della fame per ciò che nessun posi-
tivismo è in grado di dare e dello scottante problema di Dio, an-
che se spesso alquanto misconosciuto. Dio è oggi realmente

3 Das Ende des römischen Prinzips, München 1970, 21.


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28 Chi ci aiuta a vivere?

presente nell’uomo in forma di domanda e noi dovremmo ap-


punto riconoscere questa presenza e darle il suo nome.

II.
A questo punto, nel quale si potrebbero tracciare le prime li-
nee di un nuovo discorso su Dio, interrompo la riflessione per
avvicinarmi al nostro tema partendo da un altro punto: dall’in-
terno dell’immagine cristiana di Dio, che noi ora vogliamo cer-
care di vedere nella sua specificità.
Come si presenta Dio nella Bibbia? Esiste anche qui una ri-
cerca di Dio, oppure soltanto la semplice certezza del Dio rive-
lante? Che forma ha il cammino verso Dio? Naturalmente non
possiamo qui svolgere le singole questioni; basterà una breve
osservazione sul cammino che porta a Dio. La Bibbia, che è
estranea al pensiero deduttivo dei Greci, non conosce natural-
mente nessuna ‘prova di Dio’; per essa però esistono con sem-
pre maggior evidenza dei fatti indicativi: la creazione lascia tra-
sparire il Creatore, tutto il mondo gli fa da eco, i cieli racconta-
no lo splendore di Dio (Sal 19[18]). Questa eloquenza della
creazione esiste anche oggi e noi dovremmo pazientemente
adoperarci per suscitare di nuovo la capacità di vedere il mondo
come un’immagine che ha qualcosa da dirci, e non puramente
come una compagine di funzioni da noi utilizzabili. Accanto a
questa forma di esistenza di Dio nella creazione ce n’è una se-
conda, che ha la priorità nella Bibbia: Dio diventa noto tramite
la storia. Ciò corrisponde alla concreta esperienza umana, che si
ebbe anche presso altri popoli e che ancor oggi noi proviamo: ci
imbattiamo in Dio non per merito della nostra riflessione perso-
nale, ma per il fatto di crescere in un ambiente di stampo reli-
gioso, che si sa fondato e sostenuto da Dio e che proprio per
questo mette anche me in relazione con Dio. Al riguardo Israele
presenta una nota caratteristica. Roma ha trasfuso nella formula
dello Jupiter conservator [Giove conservatore] la sua esperienza
del Dio che agisce nella storia. Il termine latino usato per ‘salva-
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Trovare sostegno nella vita 29

tore, redentore’ è quello di conservator: la salvezza consiste nel-


la conservazione di Roma, nella difesa di tutto ciò che esiste dal-
la guerra, dalla caduta, dalla distruzione. Quando i cristiani an-
nunciarono Gesù come il vero portatore di salvezza, fu evidente
che non potevano adottare il termine latino in uso. La salvezza
di Gesù non consisteva affatto in una conservazione della Roma
di allora. Essa significava rinnovamento, cambiamento, essa ri-
mandava all’éschaton, a qualcosa dunque di totalmente diverso.
Essi dovettero così crearsi il loro particolare linguaggio, conian-
do al posto di ‘conservatore’ il nuovo termine di ‘salvatore’4.
Questo piccolo processo mi sembra sintomatico: l’esperienza di
Dio come Dio della storia non è riferita nella Bibbia soltanto al
passato, ma porta in sé anzitutto il carattere della speranza, ri-
manda al futuro. Ciò dà all’immagine cristiana di Dio quella sua
peculiare colorazione che noi avevamo finora lasciato troppo
sullo sfondo.
L’immagine di Dio nel Nuovo Testamento si trova quindi in
assoluta unità strutturale con quella dell’Antico Testamento.
Soltanto se si presta attenzione a questo si può comprendere
rettamente la figura di Gesù e il cambiamento che essa compor-
ta per l’immagine di Dio. Certo, se si dovesse cercare di rispon-
dere in poche parole alla domanda sul significato che il Nuovo
Testamento dà al termine Dio, questa risposta potrebbe essere
soltanto: Dio è il Padre di Gesù Cristo. Dio è colui o ciò cui Ge-
sù ha detto ‘Padre’. Ma in tal modo non viene dato affatto un
«indirizzo cristologico rigoroso», che rimarrebbe in uno stretto
personalismo e in un puro pensiero storico, dimentico della va-
stità del reale; si è accolto piuttosto l’elemento di fondo dell’An-
tico Testamento e, con esso, l’ampiezza dell’interrogativo uma-
no nei confronti di Dio. L’Antico Testamento aveva iniziato a
scoprire Dio come il Dio di qualcuno, come il Dio dell’uomo; lo

4 H.U. INSTINSKY, Die alte Kirche und das Heil des Staates, München 1963,

28ss.
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30 Chi ci aiuta a vivere?

aveva definito, partendo dall’uomo, come Dio dei padri5. Gesù


si inserisce con piena consequenzialità in questa tradizione di fe-
de d’Israele. Per lui Dio è il Dio di qualcuno, il suo Dio. Egli in-
tende Dio come il ‘suo Dio’, così intensamente suo da chiamarlo
coerentemente suo Padre, e vede questo ‘suo’ Dio, che per lui è
Dio in forma del tutto personale, identico al Dio dei padri: il suo
Dio, che egli conosce come suo Padre, è pure il Dio di Abramo,
di Isacco, di Giacobbe, e il creatore del cielo e della terra.
Al pari di Mosè, che ricevette Dio come Dio dei padri, defini-
to, in fin dei conti, a partire dagli uomini, così per il Nuovo Te-
stamento il problema di chi o che cosa Dio sia si risolve di nuovo
prendendo le mosse da un uomo, da Gesù di Nazaret. Al pro-
blema di Dio non si risponde direttamente, ma tramite l’uomo
Gesù di Nazaret. Si definisce Dio a partire da lui o piuttosto non
si definisce Dio, ma si rimanda invece alla persona che si rivol-
geva a Dio col titolo di Padre. Questa risposta si deve esaminare
in tutti e due i termini della relazione iniziatasi. Essa significa:
a) che l’uomo Gesù, così come lo conosce e lo vede il Nuovo
Testamento, si può comprendere soltanto in relazione con colui
che egli chiama suo Padre, e a partire dal quale egli conosce se
stesso come ‘Figlio’. Non si può avere Gesù, se non si vuole ave-
re il Padre di Gesù. Quest’affermazione è diretta contro le for-
me di una devozione a Gesù a-teistica, sviluppatasi da Marcio-
ne fino a Dorotea Sölle (quest’ultima, in realtà, solo a suo modo
accoglie l’antichissima struttura di Marcione). Nella definizione
di Gesù è parte costitutiva il Padre, Gesù stesso si può afferrare
solo nella continua relazione col Padre. Un Gesù senza Padre
non ha nulla, proprio nulla in comune con il Gesù storico, col
Gesù del Nuovo Testamento.
b) Viceversa, questo significa anche che il Nuovo Testamento

5 N. LOHFINK, Bibelauslegung im Wandel, Frankfurt 1967, 107-128 [trad.

it., Esegesi biblica in cambiamento, Queriniana, Brescia 1973]; A. DEISSLER,


Die Grundbotschaft des Alten Testaments, Freiburg 1972, 43-47; 61-69.
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Trovare sostegno nella vita 31

non parla direttamente di Dio, di Dio da solo e in quanto tale,


ma lo conosce soltanto come ‘Dio di qualcuno’, concretamente
come Dio e Padre di Gesù, e questo soltanto grazie alla relazio-
ne Padre-Figlio, mediata attraverso quell’uomo che era coscien-
te di essere in cammino verso Dio. Ciò significa che il Nuovo
Testamento non conosce Dio al di fuori della relazione di pater-
nità, senza la mediazione dell’uomo Gesù. Soltanto grazie al
dialogo con Gesù appare possibile il dialogo con Dio. Il Nuovo
Testamento non parla di Dio in sé, ma di Dio-in-relazione-a. La
relazione, d’ora in poi, è inscindibile in ambedue i termini: Ge-
sù non si deve separare dal Padre, questo è uno dei termini. Ma
neppure Dio si deve più pensare in altra forma che nella relazio-
ne con Gesù. Questo è l’altro termine e questa è la novità, l’as-
soluta importanza di Gesù, che esce in questo modo dai ‘padri’
ed entra direttamente nel concetto di Dio, appartiene a Dio per
essenza, fa parte di Dio ‘divinamente’ – come uomo.
Ne consegue che la conoscenza di Dio e il rapporto divino
vengono riferiti per principio all’uomo Gesù: chi appartiene a
lui può dire a Dio ‘Padre’ – come indica il Padrenostro; la glos-
solalia, secondo Paolo, esprime il proprio estatico balbettio nel
grido di ‘Abbà’, e lo fa autorizzata dallo spirito di Gesù, che
parla in noi e ci fa partecipare alla relazione filiale di Gesù con
Dio. L’esperienza pneumatica del primo cristianesimo viene co-
sì spiegata globalmente come partecipazione al rapporto divino
di Gesù, viene fatta risalire alla relazione con Dio come Padre,
mediata grazie a Gesù. In Giovanni questa accessibilità di Dio
in Gesù può, in seguito, venir espressa nella formula: «Chi vede
me, vede il Padre» (14,9); è possibile qui intravedere la risposta
all’‘ellenista’ Filippo e, nello stesso tempo, ai cristiani greci e al-
la loro pretesa di vedere: l’incontro con Gesù è ‘intuizione’ del
Padre. La questione della conoscenza di Dio viene dunque ri-
solta con il richiamo alla sequela di Gesù. La conoscenza di Dio
si apre nella misura in cui si segue Gesù. La duplice relazione
per cui, da un lato, Dio può venir conosciuto soltanto come Pa-
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32 Chi ci aiuta a vivere?

dre di Gesù Cristo, è veramente accessibile come tale, e, dall’al-


tro, Gesù diventa comprensibile soltanto come ‘Figlio’, appare
radicalizzata già nel Nuovo Testamento stesso così che la con-
nessione tra conoscenza di Dio e relazione Padre-Gesù, Padre-
Figlio, non appare come una pura forma della nostra conoscen-
za, come qualcosa di addizionale e di estraneo (o di irrilevante)
per Dio; questa relazione, al contrario, è considerata essenziale
per Dio stesso, realizzata personalmente da lui e da lui inscindi-
bile; non viene aggiunta dal di fuori per nostro uso, ma appar-
tiene alla sua persona: Dio esiste realmente nella relazione Pa-
dre-Figlio, questa appartiene sostanzialmente a lui. Egli è con-
cepibile soltanto come relazione. Abbiamo così già descritto e
illustrato il nucleo essenziale e fondamentale della dottrina tri-
nitaria, nel suo contenuto peculiare.
Potremmo ora addentrarci in questioni di principio, come le
seguenti: se nel Nuovo Testamento Dio viene descritto come
Padre di Gesù Cristo (e solo così è conoscibile), che genere di
immagine di Dio compare qui? Più in dettaglio, che cosa speri-
mentiamo noi di Dio? Ormai non possiamo più tentare di riflet-
tere su queste realtà in termini staccati. È stata indicata finora
soltanto la direzione di una risposta. Per adesso potremmo ri-
spondere al nostro interrogativo semplicemente così: di Dio noi
sperimentiamo per prima cosa proprio il fatto che egli esiste
nella relazione di Padre e Figlio. Ma ciò significa che Dio diven-
ta conoscibile in prima istanza come persona. E che questo non
sia comprensibile di per se stesso ce lo dicono il concetto india-
no di Dio, il concetto greco di Dio e soprattutto l’irriflessivo
sentire della moderna scienza della natura, della coscienza mo-
derna.
Naturalmente qui il problema, per essere più esatti, dovreb-
be venir formulato così: che significato ha la frase «Dio viene
conosciuto come persona»? Che cosa è ‘persona’? Se poi si cer-
ca di formulare il concetto di persona (e così è accaduto nella
storia), la risposta dovrebbe suonare: persona è esattamente ciò
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Trovare sostegno nella vita 33

che il Nuovo Testamento porta alla luce nella realtà del rappor-
to Padre-Figlio: una coscienza che è essenzialmente rapporto
creativo, conoscitivo, d’amore. Il Dio della Bibbia non è soltan-
to coscienza, ma parola, non soltanto conoscenza, ma relazione,
non soltanto fondamento dell’essere, ma forza portante di ogni
pensiero6.

III.
Veramente noi dovremmo ora fare un terzo passo e chiedere:
in che modo queste conoscenze, e la concezione della vita e del
mondo da esse espressa, si lasciano evidenziare nella situazione
dello spirito moderno prima illustrata? Come si possono rein-
trodurre in esso? Il tentare soltanto l’abbozzo di una risposta
andrebbe molto al di là dei confini di questa relazione. Accon-
tentiamoci perciò di accettare quali criteri ci fornisca, sulla stra-
da della conoscenza di Dio, il dato neotestamentario prima de-
scritto, di vedere quale sia la caratteristica di base con cui dob-
biamo fare i conti nel nostro tentativo di trovare la strada verso
Dio e di indicarla agli altri. Penso che da quanto abbiamo detto
finora si possano trarre tre affermazioni principali:
1. Dio viene conosciuto attraverso uomini che lo conoscono,
la strada verso Dio passa sempre in concreto attraverso l’uomo
che sta già presso Dio. Non passa per la pura riflessione, ma at-
traverso l’incontro, che si approfondisce nella riflessione, di-
venta autonomo e perciò, nello stesso tempo, anche nuovamen-
te comunicabile. Questa affermazione accentua il significato
della persona del predicatore in tutta la sua importanza; una se-
conda affermazione però fa apparire anche i limiti dei nostri
sforzi:
2. Dio si conosce per suo stesso intervento. Egli stesso, per
sua iniziativa, si dà a conoscere nell’uomo Gesù, che appartiene

6 Cfr. J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia

2005, 117-151.
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34 Chi ci aiuta a vivere?

per divinità a Dio, è l’attiva manifestazione di sé da parte di


Dio. Dio non è legato ai nostri tentativi, ai nostri successi e in-
successi; egli diventa manifesto (ripetiamolo) per sua opera per-
sonale.
3. La conoscenza di Dio è una via; ciò significa: sequela. Essa
non si dischiude a una persona non interessata, a uno spettatore
che rimane neutrale; si apre, al contrario, nella misura in cui ci
si avvia per la strada. Qui sta ancora una volta il limite di ogni
vuoto parlare; una predicazione che non sia anche espressione
di una via, espressione di sequela, rimane, in definitiva, muta.

3. La fede come ‘star-saldi e comprendere’

Contrapponendo il binomio concettuale ‘star-saldi-com-


prendere’ a quello ‘sapere-fare’, mi riallaccio a un’affermazione
biblica, in fin dei conti quasi intraducibile, concernente la fede,
il cui significativo gioco di parole Lutero tentò di captare me-
diante la formula: «Voi non credete, e quindi non rimanete»; in
maniera più letterale, si potrebbe tradurre: «Se non credete (os-
sia se non vi mantenete fedeli a YHWH), non avrete alcuna stabi-
lità» (Is 7,9). L’unica radice fonetica qui usata ’mn (amen) ab-
braccia una vasta gamma di significati, il cui mutuo intreccio e
la cui differenziazione spiegano la sottile grandiosità di questa
affermazione. Essa include, infatti, l’idea di verità, di stabilità,
di fondamento sicuro, di terreno solido, come pure i significati
di fedeltà, di confidenza, di aver fiducia, di attenersi a qualcosa,
di credere in qualche cosa. La fede in Dio assume allora l’aspet-
to di un mantenersi uniti a Dio, tramite il quale l’uomo acquista
un solido appoggio per la sua vita.
La fede ci viene così descritta come una presa di posizione,
come un fiducioso piantarsi sul terreno della parola di Dio. La
versione greca dell’Antico Testamento (la cosiddetta Septuagin-
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Trovare sostegno nella vita 35

ta) ha trasposto in ambiente greco l’affermazione sopra citata,


volgendola in quella lingua non solo testualmente, ma anche
idealmente, e formulandola così: «Se voi non credete, non riu-
scirete nemmeno a comprendere». Si è ripetutamente detto che
in questa traduzione è già in atto il tipico processo di ellenizza-
zione, ossia l’allontanamento dall’originario pensiero biblico.
La fede sarebbe qui intellettualizzata; invece di esprimere lo
stare sul solido terreno dell’affidabile parola di Dio, essa ver-
rebbe ora messa in relazione con l’intelletto e col comprendere,
finendo così su un piano totalmente diverso e a lei non confor-
me. In questo rilievo ci può essere qualcosa di vero. Tuttavia, io
penso che in complesso, sia pur sotto una chiave diversa, l’indi-
cazione decisiva è stata conservata. Lo stare saldi, che ci viene
additato in ebraico quale contenuto della fede, ha senz’altro a
che fare anche col comprendere.
Per intanto possiamo limitarci a riprendere il filo delle consi-
derazioni precedenti, affermando che la fede esprime un piano
completamente diverso da quello del fare e del fattibile. Essa
consiste essenzialmente nell’abbandonarsi al non-fatto e mai-
fattibile da noi, il quale proprio così sorregge e rende possibile
tutto il nostro fare. Questo, però, comporta inoltre che la fede
non si darà mai, né potrà assolutamente darsi ed essere trovata
sul piano della scienza del fattibile, sul piano del «verum quia
factum seu faciendum»; per cui, ogni tentativo di ‘porla sul tap-
peto’ in questo modo, di volerla dimostrare nel senso del sapere
applicato al fattibile, deve per forza andare a vuoto. Nella strut-
tura di questo tipo di sapere non la si può trovare; e chi vorrà
egualmente piazzarla sul tavolo delle analisi si troverà ad aver
posto su quel tavolo qualcosa di falso. L’inquietante ‘forse’, con
cui la fede assilla sempre e dappertutto l’uomo, non rimanda a
un’incertezza nell’ambito della scienza del fattibile, ma costitui-
sce proprio la rimessa in discussione del carattere assoluto di
questo settore, la sua relativizzazione in quanto è solo un piano
dell’essere umano e dell’essere in genere; un piano che può ave-
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36 Chi ci aiuta a vivere?

re unicamente il carattere di penultimo. In altri termini: con le


nostre riflessioni siamo giunti a un punto in cui risulta evidente
come esistano due forme basilari di atteggiamento umano di
fronte alla realtà, delle quali una non può essere semplicemente
ricondotta all’altra, perché si muovono su due piani completa-
mente diversi.
Qui ci si può forse richiamare a un confronto operato da
Martin Heidegger, il quale parla di una dualità di pensiero cal-
colante e pensiero riflettente. Ambedue le modalità di pensiero
sono legittime e necessarie, ma appunto per questo nessuna del-
le due può essere risolta nell’altra. Devono quindi sussistere en-
trambi: il pensiero calcolante, che è ordinato al fattibile, e il
pensiero riflettente, che medita sul senso delle cose. E non si
potrà neanche dare completamente torto al filosofo di Fribur-
go, quando esprime il timore che, in un tempo in cui il pensiero
calcolante celebra i più sbalorditivi trionfi, l’uomo sia invece,
forse ancor più di prima, minacciato dall’assenza di pensiero,
dalla fuga dal pensiero. Pensando unicamente al fattibile, egli
corre il rischio di dimenticare di riflettere su se stesso, sul senso
del suo essere. Una tentazione del genere esiste senz’altro in
ogni momento della storia. Così, nel XIII secolo, il grande teolo-
go francescano Bonaventura si era sentito in dovere di rimpro-
verare ai suoi colleghi della facoltà filosofica di Parigi di aver sì
imparato a misurare il mondo, ma disimparato a misurare se
stessi.
Ribadiamo ancora una volta, in maniera diversa, lo stesso
concetto: la fede, intesa nel senso voluto dal Credo, non è una
forma incompleta di conoscenza, un’opinione che si potrebbe o
dovrebbe tradurre poi in scienza del fattibile. È, invece, una
forma sostanzialmente diversa di atteggiamento spirituale, che
si colloca accanto all’altro sapere come qualcosa di autonomo e
di specifico, senza essere né riducibile a esso né deducibile da
esso. Sì, perché la fede non appartiene all’ambito del fatto e del
fattibile, quantunque sia in rapporto con ambedue, bensì al-
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Trovare sostegno nella vita 37

l’ambito delle decisioni fondamentali, di cui l’uomo deve inevi-


tabilmente assumersi la responsabilità, la quale per sua stessa
essenza deve concretizzarsi solo in una forma. È questa forma
che noi chiamiamo fede. A mio parere è indispensabile rilevare
con la massima chiarezza una cosa: ogni essere umano deve in
qualche maniera prendere posizione rispetto all’ambito delle
decisioni fondamentali, e nessuno è in grado di farlo se non nel-
la forma di una fede. Esiste una zona che non permette altra ri-
sposta fuorché quella di una fede, sicché nessuna persona può
sottrarvisi completamente. Ogni essere umano deve in qualche
modo ‘credere’.
Il tentativo più imponente sinora affrontato, di subordinare
l’atteggiamento ‘fede’ a quello della scienza del fattibile, lo si ha
nel marxismo. In esso, infatti, il faciendum, vale a dire il futuro
da creare per nostra iniziativa, rappresenta al contempo il senso
dato alla vita dell’uomo; sicché il senso che di per sé viene dato
e accolto nella fede appare ora trasposto sul piano di ciò che è
da fare. Con ciò si è indubbiamente raggiunta la più estrema
conseguenza del pensiero moderno; tutto fa sembrare che si sia
felicemente riusciti a trasfondere completamente il senso della
vita umana nel fattibile, anzi, addirittura a farli coincidere. Ma a
un più attento esame, salta subito agli occhi come nemmeno il
marxismo sia riuscito a ottenere la quadratura del cerchio. Esso
pure, infatti, non è in grado di far conoscere il fattibile come
senso, che può solo promettere e quindi presentare come deci-
sione da prendere per fede. Ciò che fa apparire questa fede
marxista oggi tanto attraente e direttamente accessibile è l’im-
pressione, che essa desta, di perfetta armonizzazione con la
scienza del fattibile.
Dopo questa breve digressione, torniamo a chiederci ancora
una volta in maniera stringata: che cos’è propriamente la fede?
Ora possiamo rispondere così: è la forma, non riducibile a
scienza e incommensurabile ai suoi parametri, con cui l’uomo
coglie in modo stabile il tutto della realtà, è il dar senso senza il
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38 Chi ci aiuta a vivere?

quale la totalità dell’uomo rimarrebbe utopia, senso che prece-


de il calcolo e l’azione dell’uomo, senza il quale egli in definitiva
non potrebbe né calcolare né agire, perché lo può unicamente
nell’ambito di un senso che lo sostiene. La persona, in effetti,
non vive del solo pane del fattibile, ma vive invece da essere
umano e, proprio in ciò che è specifico della sua umanità, vive
di parola, di amore, di senso della realtà. Il senso è il pane di cui
l’uomo vive nel più profondo del suo essere uomo. Senza la pa-
rola, senza il senso, senza l’amore, egli perviene alla condizione
di non-poter-più-vivere, quand’anche fosse circondato all’ec-
cesso da tutte le comodità terrene. Chi non sa con quanta fre-
quenza, pur in mezzo all’abbondanza esteriore, può determi-
narsi la situazione del ‘non ne posso proprio più’? Il senso, pe-
rò, non si può dedurre dalla scienza. Il voler procacciarselo in
questa maniera, cioè basandosi sul fatto di saper dimostrarne la
fattibilità, finirebbe per assomigliare all’assurdo tentativo del
barone di Münchhausen, quando si mise in testa di tirarsi fuori
dalla palude prendendosi per i capelli. Credo che nella comica
assurdità di quella storia venga messa in luce, in maniera azzec-
catissima, la situazione di fondo dell’uomo. Dal pantano dell’in-
certezza, del non-poter-vivere, nessuno è in grado di tirarsi fuo-
ri da sé; e non ce ne tiriamo fuori nemmeno con un «cogito ergo
sum», come pensava ancora Descartes, ossia grazie a una catena
di conclusioni razionali. Il senso che uno si costruisce da sé, in
ultima analisi, non è nemmeno un senso. Il senso, ossia il terre-
no su cui la nostra esistenza nella sua interezza può stare salda e
vivere, non può essere fatto, ma solo ricevuto.
A questo punto, partiti da un’analisi del tutto generale del-
l’atteggiamento fondamentale che è la fede, possiamo dirci
giunti direttamente alla modalità cristiana di fede. Credere cri-
stianamente significa, in effetti, abbandonarsi con fiducia al
senso che sostiene me e il mondo; significa accoglierlo come il
solido fondamento su cui io posso stare senza timore. Volendo
parlare più nel linguaggio della tradizione, potremmo dire: cre-
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Trovare sostegno nella vita 39

dere cristianamente significa comprendere la nostra esistenza


come risposta alla Parola, al Lógos che sostiene e mantiene in
essere tutte le cose. Significa dare il proprio assenso a quel ‘sen-
so’ che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di rice-
vere come un dono, sicché ci basta accoglierlo e abbandonarci a
esso. La fede cristiana è pertanto l’opzione a favore di un rice-
vere che precede il fare; senza che per questo il fare venga smi-
nuito di valore o addirittura dichiarato superfluo. Solo perché
noi abbiamo ricevuto, siamo anche in condizione di ‘fare’.
Inoltre – come abbiamo già detto – la fede cristiana compor-
ta l’opzione per cui l’invisibile è più reale del visibile. È quindi il
riconoscimento del primato dell’invisibile come l’autentico rea-
le che ci sostiene e ci dà così la possibilità di affrontare con di-
staccata pacatezza il visibile, responsabili verso l’Invisibile qua-
le vero fondamento di tutte le cose.
Sotto questo aspetto – non lo si può negare – la fede cristiana
costituisce, da un duplice punto di vista, un affronto all’atteg-
giamento a cui sembra spingerci l’odierna situazione del mon-
do. La mentalità di oggi infatti, sotto forma di positivismo e di
fenomenologismo, ci invita a limitarci al ‘visibile’, al ‘fenomeni-
co’ nel senso più ampio del termine, a estendere l’atteggiamen-
to metodico di fondo, cui le scienze naturali vanno debitrici dei
loro successi, alla totalità dei nostri rapporti con la realtà. In
quanto tecnica, poi, ci incita ad abbandonarci al fattibile e ad at-
tenderci da esso il terreno solido che ci sostiene. Il primato del-
l’invisibile sul visibile e del ricevere sul fare contrasta in maniera
stridente con tale impostazione di fondo. È appunto questa la
causa per cui lo slancio dell’abbandono fiducioso al non-visibi-
le ci risulta oggi così difficile. Eppure la libertà del fare, come
pure quella di servirci del visibile tramite la ricerca metodica, in
definitiva è resa possibile soltanto dalla provvisorietà in cui la
fede cristiana colloca queste due attività, nonché dalla posizio-
ne di superiorità da essa accordata all’uomo.
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40 Chi ci aiuta a vivere?

4. Che significa ‘credere’?

Mi sia concesso incominciare con un breve racconto che risa-


le ai primi tempi dopo il concilio. Il concilio aveva dischiuso per
la chiesa e per la teologia ampie prospettive di dialogo, partico-
larmente con la sua Costituzione sulla chiesa nel mondo con-
temporaneo, ma non meno con i decreti sull’ecumenismo, sulla
missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa.
Nuovi temi si aprivano e nuovi metodi si rendevano necessari.
Per un teologo che volesse essere all’altezza dei tempi e che in-
tendesse in modo corretto il suo compito sembrava ovvio lasciar
da parte, per il momento, i vecchi temi e dedicarsi con tutta la
sua energia alle nuove questioni che si ponevano da ogni parte.
Avevo inviato, in quel tempo, a Hans Urs von Balthasar un
breve lavoro, del quale egli mi ringraziò subito, come era solito
fare, con una lettera e al grazie aggiungeva la frase per me di-
ventata indimenticabile e carica di significato: la fede non si do-
veva presupporre, bensì proporre. Era un imperativo che mi
colpì. L’affrontare nuovi campi era cosa buona e necessaria, ma
solamente a condizione che ciò scaturisse dalla luce centrale
della fede stessa e fosse sostenuto da quella luce. La fede non ri-
mane viva da sola. Non la si può mai presupporre semplicemen-
te come già scontata. Essa va vissuta in modi sempre nuovi. E
poiché è un atto che abbraccia tutte le dimensioni della nostra
esistenza, deve anche essere pensata e testimoniata sempre di
nuovo. Perciò i grandi temi della fede – Dio, Cristo, Spirito
Santo, grazia e peccato, sacramenti e chiesa, morte e vita eterna
– non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi che ci toccano
nel profondo. Essi devono restare sempre centro della predica-
zione e perciò anche centro del pensare teologico. I vescovi del
sinodo del 1985, nella loro richiesta di un Catechismo comune a
tutta la chiesa, hanno avvertito proprio ciò che Balthasar aveva
allora formulato nei miei confronti. L’esperienza pastorale ave-
va loro mostrato che tutte le molteplici nuove attività pastorali
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Trovare sostegno nella vita 41

perdono il fondamento che le sostiene se non sono irradiazioni


e attuazioni del messaggio della fede. La fede non va presuppo-
sta, essa deve essere proposta. Per questo c’è il Catechismo. Es-
so vuole proporre la fede nella sua pienezza e ricchezza, ma an-
che nella sua unità e semplicità.

Che cosa crede la chiesa? Questa domanda ne include un’al-


tra: chi crede e che cosa significa credere? Il Catechismo ha
considerato intimamente unite le due domande principali, la
domanda circa il ‘che’ e quella circa il ‘chi’ della fede. In altre
parole: esso mostra l’atto di fede e il contenuto della fede nella
loro inseparabilità. Questo suona forse un poco astratto; cer-
chiamo di spiegare che cosa si intende.
Nelle professioni di fede c’è sia la formula ‘io credo’ come
pure l’altra ‘noi crediamo’. Parliamo della fede della chiesa e
parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo
della fede quale dono di Dio, un ‘atto teologale’, come oggi in
teologia si preferisce dire. Che cosa significa tutto ciò?
Credere è un orientamento della nostra esistenza nel suo
complesso. È una decisione fondamentale che ha effetti in tutti i
campi della nostra esistenza e che anche si attua soltanto se è so-
stenuta da tutte le forze della nostra esistenza. Credere non è un
processo semplicemente intellettuale, semplicemente volitivo,
semplicemente emotivo, è tutto questo insieme. È un atto del-
l’intero soggetto, di tutta la persona nella sua unità completa. In
questo senso viene indicata dalla Bibbia come un atto del ‘cuo-
re’ (Rm 10,9).
Essa è un atto sommamente personale. Ma proprio perché è
ciò, essa oltrepassa l’Io, i confini dell’individuo. Nulla ci appar-
tiene così poco quanto il nostro Io, afferma Agostino. Dove
l’uomo si mette in gioco totalmente, egli oltrepassa se stesso; un
atto di tutto l’Io è al tempo stesso sempre anche un aprirsi agli
altri, un atto di essere-con. Ancor di più: esso non può accadere
senza toccare il fondamento più profondo di noi stessi, il Dio
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42 Chi ci aiuta a vivere?

vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e


la sostiene.
Dove l’uomo si mette in gioco totalmente, insieme con l’Io
entra in gioco il Noi e il Tu del totalmente Altro, il Tu di Dio.
Ciò significa però anche che, in un tale atto, l’ambito del fare
semplicemente individuale viene oltrepassato. L’uomo, in quan-
to essere creato, nel suo più profondo non è mai soltanto azio-
ne, ma sempre anche passione, non è soltanto essere che dà, ma
anche essere che riceve. Il Catechismo lo esprime con queste
parole: «Nessuno può credere da solo, così come nessuno può
vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come
nessuno da se stesso si è dato l’esistenza» (166). Paolo, nel de-
scrivere la sua esperienza della conversione e del battesimo, ha
indicato questo carattere radicale della fede nella formula:
«Non sono più io che vivo, ma…» (Gal 2,20). La fede è un tra-
montare del semplice Io e così, appunto, un sorgere del vero Io,
un divenire se stessi liberandoci dal semplice Io nella comunio-
ne con Dio, che è mediata dalla comunione con Cristo.

Abbiamo sin qui cercato di analizzare, con il Catechismo, il


‘chi’ crede, dunque di conoscere la struttura dell’atto di fede.
Ma con questo è già emerso, per accenni, anche il contenuto es-
senziale della fede. La fede cristiana è, secondo la sua essenza,
incontro con il Dio vivente. Dio è il contenuto autentico e ulti-
mo della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è
totalmente semplice: Io credo in Dio. Ma il totalmente semplice
è sempre anche il totalmente profondo e il totalmente compren-
dente. Possiamo credere in Dio perché Dio ci tocca, perché egli
è in noi e perché egli si avvicina a noi anche dall’esterno. Possia-
mo credere in lui perché c’è colui che egli ha inviato: «Perché
egli ha ‘visto il Padre’» (Gv 6,46), o come dice il Catechismo, «è
il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare» (151). Possiamo dire:
fede è partecipazione alla visione di Gesù. Nella fede egli fa in
modo che noi vediamo, insieme a lui, ciò che egli ha visto.
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Trovare sostegno nella vita 43

In questa affermazione è inclusa sia la divinità di Gesù Cri-


sto, come pure la sua umanità. Poiché è Figlio, egli vede conti-
nuamente il Padre. Poiché è uomo, noi possiamo vedere insie-
me con lui. Poiché egli è entrambi nello stesso tempo, Dio e uo-
mo, non è mai una persona del passato nè mai soltanto sottratto
al tempo per essere nell’eternità, ma è al centro del tempo, sem-
pre vivente, sempre presente.
In questo modo, però, si tocca al tempo stesso anche il miste-
ro trinitario. Il Signore diventa per noi presente grazie allo Spi-
rito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: «Non si può
credere in Gesù Cristo se non si ha parte al suo Spirito… Dio
solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo
perché è Dio» (152).

Se si vede l’atto di fede in modo corretto, i singoli contenuti


si sviluppano di conseguenza come automaticamente. Dio ci di-
venta concreto in Cristo. Così, da una parte, possiamo conosce-
re il suo mistero trinitario e, dall’altra parte, che egli è entrato
dentro la storia fino al punto che il Figlio si è fatto uomo e ci in-
via lo Spirito dal Padre. Nell’incarnazione, però, è contenuto
anche il mistero della chiesa, poiché Cristo è venuto proprio per
«riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Il
Noi della chiesa è la nuova, ampia comunità in cui egli ci inseri-
sce (cfr. Gv 12,32). Così la chiesa è contenuta nell’inizio stesso
dell’atto di fede. La chiesa non è una istituzione che si aggiunge
dall’esterno alla fede e crea uno spazio organizzativo per comu-
ni attività dei credenti; essa appartiene all’atto stesso di fede.
L’‘Io credo’ è sempre anche un ‘Noi crediamo’. Il Catechismo
dice al riguardo: « ‘Io credo’: è anche la Chiesa, nostra Madre,
che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io
credo’, ‘Noi crediamo’» (167).

Abbiamo sopra constatato che l’analisi dell’atto di fede ci


mostra direttamente anche il suo contenuto essenziale: la fede
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44 Chi ci aiuta a vivere?

risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possia-


mo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta an-
che l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero di Dio-
Uomo e così l’intera storia della salvezza; si mostra, inoltre, che
il popolo di Dio, la chiesa, in quanto soggetto umano della sto-
ria della salvezza, è presente nell’atto stesso di fede. Non sareb-
be difficile dimostrare in modo analogo che anche gli altri con-
tenuti di fede sono sviluppi dell’unico atto fondamentale del-
l’incontro con il Dio vivo. Infatti, il rapporto con Dio ha, per
sua natura, a che fare con la vita eterna e oltrepassa necessaria-
mente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio
soltanto se è il Signore di tutte le cose. E è il Signore di tutte le
cose soltanto se è il loro creatore. Così, creazione, storia della
salvezza, vita eterna sono temi che scaturiscono direttamente
dalla questione di Dio. Parlando della storia di Dio con l’uomo
si tocca anche la questione del peccato e della grazia. Si tocca la
questione di come noi incontriamo Dio, dunque la questione
della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale. Ma
non posso ora sviluppare ciò in dettaglio; per me era importan-
te proprio lo sguardo sulla intima unità della fede, la quale non
è un’accozzaglia di frasi, bensì un atto semplice e completo, nel-
la cui semplicità è contenuta tutta la profondità e l’ampiezza
dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distingue-
re l’essenziale da ciò che non è essenziale, e conosce qualcosa
della logica e dell’unità interna di tutto il reale, per quanto sol-
tanto per frammenti e in maniera confusa (1 Cor 13,12), fintan-
to che la fede è fede e non diventa visione.

A conclusione vorrei toccare ancora soltanto l’altra questione


che abbiamo incontrato all’inizio delle nostre riflessioni: quella
del ‘come’ della fede. A questo riguardo, in Paolo si trova una
meravigliosa parola che ci aiuta ulteriormente. Egli dice che la
fede è una obbedienza, che viene dal cuore, all’insegnamento
che ci è stato trasmesso (Rm 6,17). In questo si esprime, in ulti-
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Trovare sostegno nella vita 45

ma analisi, il carattere sacramentale dell’atto di fede, il nesso in-


timo tra professione di fede e sacramento. Alla fede appartiene
un ‘insegnamento’, dice l’apostolo. Essa non è frutto del nostro
pensiero, non proviene da noi, non è pensiero nostro, ma è pa-
rola che dall’esterno viene rivolta a noi. È, per così dire, parola
dalla Parola, noi veniamo ‘inseriti’ dentro questa parola che in-
dica al nostro pensare nuove vie e dà forma alla nostra vita.
Tale ‘essere inseriti’ dentro una parola che ci precede avviene
attraverso il simbolo dell’immersione nell’acqua, che ricorda il
morire. Questo richiama l’affermazione sopra citata «Non sono
più io che vivo, ma…», che ricorda come nell’atto di fede l’io
muoia e si rinnovi. Il simbolo della morte, nel battesimo, lega
questo nostro rinnovamento alla morte e alla risurrezione di
Gesù Cristo. L’essere inseriti nell’insegnamento è un essere in-
seriti in Cristo. Possiamo ricevere la sua Parola non come una
teoria, come si imparano per esempio le formule matematiche o
le opinioni filosofiche. Possiamo apprenderla soltanto accettan-
do la comunità di destino con lui, che ci è accessibile soltanto là
dove egli si è legato in modo permanente alla comunione di de-
stino con gli uomini: nella chiesa. Nel suo linguaggio chiamia-
mo ‘sacramento’ questo processo dell’essere inseriti. L’atto di
fede non è pensabile senza il sacramento.

Da qui, però, possiamo ora comprendere la concreta formu-


lazione letteraria del Catechismo. Fede, abbiamo udito, è essere
inseriti dentro un insegnamento. In altro passo Paolo chiama
questo insegnamento professione di fede (cfr. Rm 10,9). In que-
sto emerge un ulteriore aspetto dell’evento di fede: la fede, che
viene a noi come parola, deve diventare anche in noi stessi di
nuovo parola nella quale si esprime al tempo stesso la nostra vi-
ta. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è co-
sa privata, ma è pubblica e comunitaria. Essa, in primo luogo,
da parola diventa pensiero, ma da pensiero deve anche sempre
ridiventare parola e azione.
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46 Chi ci aiuta a vivere?

Il Catechismo indica i diversi tipi di professione di fede che ci


sono nella chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di
fede di concili, professioni di fede che sono state formulate da
papi (192). Ognuna di queste professioni di fede ha il suo pro-
prio significato. Ma il prototipo della professione di fede, su cui
si basano tutte le altre, è quella battesimale. Là dove si tratta di
catechesi, ossia di introdurre alla fede e di introdurre alla vita
nella comunità di fede della chiesa, occorre partire dalla profes-
sione di fede battesimale. Questo vale fin dall’età apostolica e
doveva quindi essere anche la via del Catechismo. Esso svilup-
pa la fede a partire dalla professione battesimale. Così si vede
bene in quale modo egli la vuole insegnare: catechesi è catecu-
menato. Essa non è semplice insegnamento della religione, ben-
sì il processo dell’inserirsi e del lasciarsi inserire nella parola
della fede, nella comunità di cammino con Gesù Cristo. La ca-
techesi cerca di promuovere l’andare a Dio interiormente. San-
t’Ireneo dice che noi dobbiamo abituarci a Dio così come Dio,
nell’incarnazione, si è abituato a noi, agli uomini. Dobbiamo
abituarci alla modalità di Dio, tanto da imparare a reggere la
sua presenza in noi. Detto in termini teologici: va liberata in noi
l’immagine di Dio, ciò che ci rende capaci di comunione di vita
con lui. La tradizione lo paragona al lavoro dello scultore che
stacca dalla pietra pezzo dopo pezzo, affinché diventi visibile la
figura da lui intuita.
Anche la catechesi dovrebbe essere sempre un processo di
questo genere, del divenir simili a Dio, poiché possiamo cono-
scere soltanto ciò rispetto a cui c’è in noi una corrispondenza.
«Se l’occhio non avesse in sé qualcosa del sole, non potrebbe
conoscere il sole», ha detto Goethe riprendendo un detto di
Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimila-
zione, un processo di vita. Il Noi, il che e il come della fede si
coappartengono.
In questo modo appare ora chiara anche la dimensione mo-
rale dell’atto di fede: esso include uno stile dell’essere-uomo
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Trovare sostegno nella vita 47

che non produciamo noi stessi da soli, ma che apprendiamo


gradualmente immergendoci nel nostro essere battezzati. Il sa-
cramento della penitenza è un venire immersi, di volta in volta
nuovo, nel battesimo, in cui Dio continua ad agire in noi e ad at-
trarci a sé. Il cristianesimo include una morale, ma questa mora-
le è sempre parte del processo sacramentale del diventare cri-
stiani, in cui noi siamo non solo persone che agiscono, ma sem-
pre, anzi, persino in primo luogo, persone che ricevono, un ri-
cevere che significa trasformazione. Non è dunque un capriccio
fuori moda se il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a
partire dalla professione di fede battesimale della chiesa di Ro-
ma, il cosiddetto Simbolo apostolico. In esso appare piuttosto
l’autentica natura dell’atto di fede e così l’autentica natura della
catechesi, come un esercitarsi dell’esistenza nell’essere con Dio.
Così appare anche che il Catechismo è totalmente determina-
to dal principio della gerarchia delle verità, come il concilio Va-
ticano II l’ha compresa. Infatti, il simbolo è dapprima, come ab-
biamo visto, professione di fede nel Dio uno e trino, sviluppata
dalla formula battesimale e a essa collegata. Tutte le ‘verità di fe-
de’ sono sviluppi dell’unica verità, che in esse scopriamo come
la perla preziosa per la quale vale la pena impegnare tutta la vi-
ta. Si tratta di Dio. Soltanto Lui può essere la perla per la quale
diamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio ha trovato tut-
to. Ma lo possiamo trovare soltanto perché Lui per primo ci ha
cercati e trovati. Egli è colui che agisce per primo e perciò la fe-
de in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla
chiesa, dal sacramento. Tutto ciò che nella catechesi viene detto
è sviluppo dell’unica verità che Dio stesso è – dell’«amore che
muove il sole e l’altre stelle» (Dante, Paradiso XXXIII, 145).
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
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3.
Seguire Gesù Cristo

1. Che significa Gesù Cristo per me?

Per ora a tale domanda potremmo dare una risposta ancora


una volta teorica: a partire da Gesù Cristo io credo di arrivare a
sapere cosa sia Dio e cosa sia l’uomo. Dio è così come si è svela-
to in Gesù Cristo. Dio non è il puro e infinito abisso o l’infinita
grandezza, che tutto sostiene, ma che mai entra personalmente
nel finito. Dio non è solamente distanza infinita, ma anche vici-
nanza infinita. Ci si può confidare con lui, parlare a lui; egli ode,
vede e ama. Benché egli non sia tempo, ha però del tempo, an-
che per me. Egli si esprime nell’uomo Gesù, ma in modo da
non assorbirlo in sé; Gesù infatti è una cosa sola con lui e allo
stesso tempo lo chiama Padre. Dio rimane colui che si estende
all’infinito oltre tutto ciò che si vede. Egli si può riconoscere so-
lo in virtù dell’isolamento del pregare di Gesù, grazie al suo
chiamarlo Padre; e proprio qui, in questo dire ‘Padre’ egli è in
comunicazione diretta anche con noi.
L’altro aspetto poi si può presentare all’incirca così: l’uomo è
tale da non poter sopportare l’uomo completamente buono, il
vero giusto, colui che ama veramente, che non commette alcuna
ingiustizia. In questo mondo sembra che soltanto per un attimo
la fiducia venga compensata con fiducia, la giustizia con giusti-
zia, l’amore con amore. Colui che incarna tutto questo dà subi-
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50 Chi ci aiuta a vivere?

to fastidio. L’uomo crocifigge l’uomo, colui che è veramente ta-


le. Così è fatto l’uomo. Così sono anch’io. Questa è la spavente-
vole conoscenza che deriva, da un lato, dal Cristo crocifisso.
Accanto a questo, senza dubbio, sta l’altro aspetto. L’uomo è
quell’essere che è in grado di esprimere Dio stesso. Egli è stato
creato in modo tale che Dio può unirsi con lui. L’uomo, che ap-
pare in primo luogo come un mostro fatale dell’evoluzione, è
contemporaneamente la più elevata possibilità alla quale possa
salire il creato. E questa possibilità è realizzata, anche se attra-
verso il più triste fallimento dell’umanità.
Io mi interrompo qui per affermare che queste fondamentali
osservazioni si basano su una storia effettiva, sul modo in cui
Gesù Cristo è entrato nella mia vita. Io mi sono incontrato con
lui, in primo luogo, non nella letteratura o nella filosofia, ma
nella fede della chiesa. Ciò significa che egli fin dal principio
non fu per me un grande del passato (come per esempio Plato-
ne o anche Tommaso d’Aquino), ma colui che vive e opera oggi,
col quale oggi ci si può incontrare. Vuol dire anzitutto che io
l’ho conosciuto dentro la storia della fede, che da lui prende
origine, e nel modo di vedere della fede, che ha ricevuto la sua
formulazione più duratura nel concilio di Calcedonia. Per me
Calcedonia è la più grandiosa e ardita semplificazione dell’intri-
cato e oltremodo complesso dato tradizionale in un’unica
espressione centrale, che dà fondamento a ogni altra: Figlio di
Dio, della stessa natura di Dio e della stessa nostra natura. Cal-
cedonia ha interpretato Gesù teo-logicamente, a differenza di
tante altre possibilità, che furono tentate nel corso della storia;
io vedo in essa l’unica interpretazione che può rendere ragione
di tutta la vasta tradizione e può farsi carico di tutta la portata
del fenomeno. Tutte le altre spiegazioni sono troppo misere in
qualche punto; ogni altro concetto comprende solo una parte,
escludendone un’altra. Qui e solo qui si manifesta la totalità.
Da questo concetto deriva, in fondo, tutto il resto e, per pri-
ma cosa, il fatto che, a mio modo di vedere, Gesù e la chiesa
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Seguire Gesù Cristo 51

non si possono separare l’uno dall’altro più di quanto si possa-


no semplicemente identificare. Egli supera sempre la chiesa, in
misura infinita. Abbiamo colto chiaramente, e non solo grazie al
concilio, che egli in quanto Signore della chiesa ne costituisce
anche il criterio di riferimento. Io ho sempre percepito questo
come consolazione e, allo stesso tempo, come sfida. Come con-
solazione perché abbiamo sempre saputo che la scrupolosità
dei rubricisti e dei legalisti non aveva nulla a che fare con lui,
con l’infinita generosità che giunge a noi dalle parole del vange-
lo come un vento fresco e abbatte come un castello di carte la
religiosità pedante. Da sempre abbiamo saputo che la vicinanza
a lui è del tutto indipendente dalla dignità ecclesiastica che uno
possiede, come pure dalla conoscenza dei dettagli giuridici e
storici. Questo mi ha sempre permesso di guardare alle cose
esteriori con la dovuta tranquillità. Per questo dalla sua figura
irradiò sempre per me qualcosa di ottimistico, di liberatore.
Ma, d’altro canto, non si doveva mai perdere di vista il fatto che
egli, per molti aspetti, pretende molto di più di quanto osa pre-
tendere la chiesa. Il radicalismo delle sue parole trova vera cor-
rispondenza soltanto nel radicalismo di scelte, quali furono at-
tuate dal padre del deserto Antonio o da Francesco d’Assisi,
cioè nell’accettazione del tutto letterale del vangelo. Se non si
opera così, il rifugiarsi nella casistica è gia in atto e rimane la
tormentosa inquietudine, la convinzione di essersi voltati indie-
tro, così come tornò indietro il giovane ricco, quando avrebbe
dovuto seriamente impegnarsi con il vangelo.
Se fin qui ho ricordato che l’accettazione di Gesù Cristo den-
tro la chiesa non neutralizza affatto la forza della sua figura, che
è uno stimolo continuo a innalzarsi oltre le formule ecclesiali
ormai sperimentate, ora mi rendo conto, nel proseguire la rifles-
sione, di un secondo fatto, del tutto analogo, che può apparire
paradossale come il primo; ambedue, in realtà, possiedono una
profonda e intima logica. L’aver io imparato a conoscere e a ve-
dere Gesù Cristo partendo dall’ermeneutica di Calcedonia non
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52 Chi ci aiuta a vivere?

significa affatto che una parte della tradizione dovrebbe venir


abolita, perché essa sembrerebbe forse troppo poco divina e
non si potrebbe così conciliare con il contenuto del dogma. È
vero proprio il contrario. La tradizione ecclesiale, nella quale è
rimasto fino a oggi, con forza vitale, il movimento storico fon-
dato da Gesù, mi infonde allo stesso tempo fiducia nella tradi-
zione biblica, che io credo più viva e reale dei tentativi di rico-
struire, attraverso l’alambicco della ragione storica, un Gesù
storico chimicamente puro. Io confido nella tradizione in tutta
la sua ampiezza. Quanto più vedo affermarsi e poi andare in di-
suso i tentativi di ricostruzione, tanto più sento rafforzarsi que-
sta fiducia. Diventa per me sempre più evidente che l’ermeneu-
tica di Calcedonia è l’unica che non deve abolire nulla, ma tutto
può abbracciare. Ogni altra deve cancellare una parte maggiore
o minore del lato storico in nome dei suoi criteri, ritenuti mi-
gliori e ragionevoli. Ma l’autorità che costringe a tale cancella-
zione è soltanto quella di una determinata forma di pensiero, la
cui relatività storica dev’essere molto chiaramente circoscritta.
Di fronte a simili autorità parziali per me la forza vitale della
tradizione ha un peso incomparabilmente maggiore. Per questo
per me la lotta per l’ipsissima vox non ha affatto grande impor-
tanza. Io so che il Gesù dei vangeli è il Gesù reale, so che mi
posso fidare molto più tranquillamente di lui che delle dotte ri-
costruzioni; egli sopravviverà a tutte. L’intera estensione e viva-
cità della tradizione evangelica mi ragguaglia su chi era ed è Ge-
sù. Egli si fa sentire e vedere di continuo in essa.
Concludendo, si dovrebbe dire ancora che colui che crede
con la chiesa incontra direttamente Gesù nella preghiera e nei
sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Ma chi volesse iniziare
questo discorso riconosce subito che la disciplina dell’arcano
della chiesa antica era molto di più di una temporanea accetta-
zione di usi delle religioni pagane. Nel suo nucleo essa rimanda
a quella sfera, che può venir dichiarata significativa soltanto
nell’esperienza della fede.
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Seguire Gesù Cristo 53

2. Che cosa significa ‘seguire Cristo’?

Il più noto libro di edificazione della cristianità, il libro più


diffuso in essa dopo la Bibbia, porta il titolo di Imitazione di
Cristo. Nel frattempo questo libro è stato soppiantato da altri
best-seller e anche il cristiano che lo legge oggi ammetterà che
esso non può dare un’immagine completa del compito cristia-
no, perché rispecchia con troppa intensità lo spirito di un’epoca
scossa dalla paura del mondo. Però lo spirito di interiorità, di
modestia e di silenzio, che lo pervade, può colpirci ancora mol-
to in questo secolo malato di managerialità e di tutta l’irrequie-
tezza da essa portata. Qualunque sia l’esito della discussione sul
celebre e controverso libro del tardo medioevo, rimane e si de-
ve riproporre l’interrogativo sul vero significato di ‘sequela di
Cristo’. Anzitutto, tale sequela è ancora una possibilità real-
mente esistente per l’uomo d’oggi? O forse essa è addirittura la
possibilità di essere e di diventare ‘umani’? Il cristiano, allora,
non soltanto potrebbe sostenere, con un certo sforzo, che anche
oggi si può e ha senso continuare a vivere da cristiani, ma, al
contrario, sarebbe in grado di offrire la possibilità decisiva di
essere-uomo, nella quale soltanto appare ciò a cui è veramente
destinato questo problematico essere che l’uomo è.

I.
Ritorniamo alla nostra questione sul significato della ‘sequela
di Cristo’. In origine questa parola aveva un senso molto sem-
plice e per nulla teoretico. Essa suggeriva – in parole povere –
che delle persone si decidevano ad abbandonare la loro profes-
sione, il loro lavoro, la loro giornata normale, vissuta fino allora,
e al posto di questo andavano con Gesù. Essa indicava dunque
una nuova professione, quella del discepolo, il cui contenuto vi-
tale consiste nell’andare assieme al maestro, nel completo affi-
dare-se-stessi alla sua guida. ‘Seguire’ è così qualcosa di molto
esteriore e di molto interiore nello stesso tempo. L’elemento
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54 Chi ci aiuta a vivere?

esteriore consiste nel reale avanzare dietro Gesù nei suoi viaggi
attraverso la Palestina; quello interiore è il nuovo orientamento
dell’esistenza, che non ha più il suo punto focale nel lavoro, nel
guadagnare il pane, nella volontà e nel giudizio personale; essa
invece è affidata alla volontà di un altro, di modo che l’essere in-
sieme con lui, lo stare-a-disposizione per lui è divenuto il vero e
proprio contenuto esistenziale. Una piccola scena tra Gesù e
Pietro indica con molta chiarezza quale rinuncia a ciò che è pro-
prio, quale allontanamento da se stesso questo implichi. Poco
dopo la moltiplicazione dei pani, che sembra segnare una pro-
fonda cesura nella vita pubblica del Signore, Gesù aveva an-
nunciato per la prima volta ai discepoli l’oscuro mistero della
sua vita; egli non sarà un messia radioso, come essi potevano an-
cora sperare in occasione appunto della moltiplicazione dei pa-
ni, nella quale, dopo tutto, egli sembrava svelarsi come il nuovo
Mosè, che era in grado di rinnovare il miracolo della manna.
No, egli verrà nascosto dall’ombra oscura della croce, soffrirà
molto e infine verrà ucciso. «Allora Pietro, presolo in disparte,
si mise a fargli delle rimostranze», racconta il vangelo. Ma Gesù
si volta e lo redarguisce: va’ via, allontanati da me, Satana; tu
non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini (Mc 8,32s.).
Pietro, in certo qual modo, aveva cercato di rifiutare la sequela
e, invece di seguire, voleva camminare davanti, determinando
per proprio conto la direzione del cammino. Ma egli viene ri-
messo bruscamente al suo posto: va’ via e va’ dietro a me! Se-
guire significa realmente andar dietro, prendere la direzione
che viene assegnata, anche se questa direzione è diametralmen-
te opposta al proprio volere. Proprio perché è intesa in senso
così letterale la parola può penetrare nella zona più intima e
profonda dell’uomo.
Da qui si può già capire abbastanza che cosa si intende quan-
do la chiamata dei discepoli, e con essa la natura dell’apostolo,
viene descritta nei vangeli in forma stereotipa, con l’unica paro-
la di Gesù: seguimi! Questa è anzitutto l’esortazione ad abban-
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Seguire Gesù Cristo 55

donare la professione precedente, ma, con più esattezza, è l’in-


vito a lasciare se stessi per essere totalmente a disposizione di
colui che, a sua volta, volle esistere per la parola di Dio comple-
tamente e in misura così intensa che la riflessione posteriore po-
té riconoscere lui stesso come la parola di Dio incarnata.
Nel corso della vita di Gesù questo contenuto della sequela
assume una forma ancora più concreta. Il suo messaggio, nel
quale egli presentò agli uomini l’intera grandezza della pretesa
divina, ma anche tutta l’ampiezza della sua misericordia, lo ave-
va posto in conflitto con l’Israele ufficiale; egli venne espulso
dalla sinagoga, la sua uccisione era ormai cosa decisa. In questa
situazione l’andare-con-lui acquista un nuovo carattere, che ha
trovato la sua ripercussione nella frase: «Se qualcuno vuol veni-
re dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi se-
gua» (Mc 8,34). Anche queste parole in origine hanno un signi-
ficato molto realistico: chi si unisce a Gesù si mette in compa-
gnia di un reietto, deve aspettarsi di venir condannato come
Gesù e di finire sulla croce. Partendo da tale idea la prima cri-
stianità ha inteso per sequela di Cristo il martirio e ha guardato
al martire come a colui che porta a compimento fino in fondo il
significato della sequela, quello di dare se stesso per la testimo-
nianza della parola.

II.
Forse la riflessione sulle fonti, che abbiamo intrapreso, più
che dare un efficace indirizzo ha, a prima vista, un effetto piut-
tosto demoralizzante. Il messaggio della sequela sembra, in ogni
caso, essersi allontanato ancor di più di quanto lo era già prima.
Infatti noi non abbiamo più alcuna possibilità di andar dietro
all’uomo Gesù e il martirio non ci appare più come il normale
compimento dell’esistenza cristiana, di modo che anche l’orien-
tamento alla disponibilità per il martirio conserva un carattere
alquanto teoretico, a prescindere da tutti gli altri problemi che
incontriamo in questo contesto.
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56 Chi ci aiuta a vivere?

Ma a una osservazione più attenta si scopre ben presto che le


forme storiche esterne, nelle quali la sequela di Gesù si realizzò
in un primo tempo, non sono affatto decisive per essa. L’ele-
mento decisivo è piuttosto l’interiore trasformazione dell’esi-
stenza, ed è a questa che intendono portare le circostanze ester-
ne. Questo cambiamento, in cui consiste il vero e proprio con-
tenuto della sequela di Cristo, ne esprime, allo stesso tempo, la
possibilità di attuazione. Abbiamo visto quanto già le primissi-
me testimonianze siano chiare riguardo a questo processo inte-
riore; il vangelo di Giovanni e le lettere dell’apostolo Paolo ne
hanno tradotto compiutamente il significato nella situazione
della chiesa dopo la partenza del Signore, nella nostra situazio-
ne. Il termine sequela si ripresenta entro la parabola del buon
pastore, nella quale si trova la frase: «Quando ha condotto fuori
tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo se-
guono, perché conoscono la sua voce» (Gv 10,4). Sequela vuol
dire qui conoscere la voce di Gesù e seguirla, pur nella confu-
sione delle voci con cui il mondo ci circonda. In termini più
chiari, sequela significa affidarsi alla parola di Dio, porla al di
sopra della legge del denaro e del pane, per farne regola di vita.
In una parola, sequela vuol dire fede, ma fede nel senso di una
decisione senza riserve tra le due e, in fin dei conti, soltanto due
possibilità di vita dell’uomo, tra pane e parola. L’uomo non vive
di solo pane, ma anche e innanzitutto della parola, dello spirito,
del pensiero. Si tratta tuttora dell’identica decisione fondamen-
tale che si presentò agli apostoli, quando fu loro detto: «Segui-
mi»! Della decisione di puntare al guadagno o al profitto oppu-
re alla verità e all’amore; della decisione di vivere soltanto per sé
oppure di dare se stessi.
Si chiarifica così che cosa si intende per croce e martirio. Per
comprenderlo basta leggere, in sostanza, la frase che in Marco
segue all’invito a portare la croce. «Chi vuol salvare la sua vita la
perderà, ma chi perderà la sua vita per causa mia e del vangelo
la salverà» (Mc 8,35). Il vangelo di Giovanni ha commentato
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Seguire Gesù Cristo 57

questa frase con il meraviglioso paragone del seme di frumento,


che non può portare frutti in altro modo che cadendo per terra
e morendo (Gv 12,24s.). Soltanto nel perder-si l’uomo può tro-
vare se stesso; soltanto quando lascia se stesso, egli ritorna a sé.
Questo reale e decisivo martirio del vero perdere-se-stesso è e
rimane la condizione fondamentale per la sequela di Cristo, an-
che nei periodi di comodità, nei quali il cristianesimo, protetto
dalla benevolenza statale, potrebbe essere propenso a dimenti-
care l’ombra della croce. E dobbiamo forse aggiungere ancora
che la sequela di Cristo, così intesa, esprime la legge di fondo
non solo dell’incarnazione di Dio, ma anche del divenir uomo
dell’uomo?
Si tocca così un ultimo argomento. Diventa visibile il punto
in cui si congiungono fede e amore, che tanto spesso si sono
contrapposti nella storia. Nella lettera agli Efesini di Paolo si
trova l’invito profondo: «Fatevi dunque imitatori di Dio… e
camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato
e ha dato se stesso per noi…» (Ef 5,1). Seguire Cristo vuol dire
accettare l’intima essenza della croce, l’amore radicale che in es-
sa si esprime, e così imitare Dio stesso, che si è svelato sulla cro-
ce come colui che riversa se stesso sugli altri. Colui che abban-
dona la sua grandezza, per esistere a nostro favore. Colui che
vuol governare il mondo non con potenza, ma con amore e che,
nell’impotenza della croce, rivela la sua forza, la quale agisce in
forme completamente diverse da quelle della forza dei potenti
di questo mondo. Seguire Cristo significa dunque entrare in
quel perdere-se-stessi che è la vera sostanza dell’amore. Seguire
Cristo significa diventare uno che ama come Dio ha amato. Per
questo Paolo può proferire quella che sembra una mostruosità:
seguire Cristo è imitare Dio, entrare nel movimento stesso di
Dio. Dio è diventato uomo affinché gli uomini diventino simili-
a-Dio. Sequela di Gesù, dopo tutto, non è altro che un incarnar-
si dell’uomo nell’essere uomo di Dio.
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58 Chi ci aiuta a vivere?

3. «Che cosa devo fare


per acquistare la vita eterna?»
Omelia su Lc 10,25-37

Il dialogo tra Gesù e il dottore della legge tratta di una que-


stione che ci riguarda tutti: come posso vivere giustamente?
Che cosa devo fare affinché il mio essere uomo riesca? A tal fine
non basta guadagnare soldi ed esercitare influsso: si può essere
molto ricchi e tuttavia passare accanto alla vita autentica, rende-
re se stessi e altri infelici. Si può essere potenti, ma con questo
distruggere più che costruire. Come posso dunque imparare a
essere un uomo? Che cosa ci vuole per questo?
Il dottore della legge nella sua domanda nomina già un pre-
supposto a cui noi oggi di solito non pensiamo più: affinché
questa vita riesca, io devo in mezzo a essa andare incontro alla
vita eterna. Devo riflettere sul fatto che Dio ha pensato per me
un compito nel mondo e che un giorno mi domanderà che cosa
ho fatto della mia vita. Oggi molti affermano che il pensiero del-
la vita eterna impedisce agli uomini di fare ciò che è giusto in
questo mondo. Ma è vero il contrario: se noi perdiamo di vista il
criterio di Dio, il criterio dell’eternità, allora non rimane come
linea-guida altro che l’egoismo. Allora ognuno tenterà di pren-
dersi dalla vita tutto ciò che è possibile. Allora egli considererà
tutti gli altri come nemici della propria felicità, come quelli che
minacciano di portargli via qualcosa; invidia e desiderio pren-
dono il sopravvento nella vita e avvelenano il mondo. Se vice-
versa costruiamo la nostra vita in modo che possa sussistere da-
vanti agli occhi di Dio, allora essa renderà visibile anche per gli
altri un riflesso della bontà di Dio. Questo è un primo criterio:
non vivere solo per te stesso; vivi sotto gli occhi di Dio; vivi in
modo che Egli possa guardarti e che un giorno tu possa essere
benvenuto eternamente nella compagnia di Dio e dei suoi santi.
Nella domanda dunque del dottore della legge è già contenu-
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Seguire Gesù Cristo 59

ta la vera risposta che poi egli stesso si dà: «Ama il Signore Dio
tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue
forze e con tutta la tua intelligenza. E ama il tuo prossimo come
te stesso» (10,27). La prima cosa dovrebbe dunque essere che
Dio sia presente nella nostra vita. Il conto della vita umana non
si risolve se si lascia fuori Dio; non rimane allora che pura con-
traddizione. Noi dobbiamo dunque non solo credere in qual-
che modo teoricamente che Dio è; dobbiamo considerarlo co-
me la realtà più reale di tutte nella nostra vita. Egli deve, come
dice la Scrittura, penetrare in tutti gli strati della nostra vita e
riempirli completamente: il cuore deve sapere di Lui e lasciarsi
toccare da Lui; l’anima, le energie del nostro volere e decidere,
l’intelligenza, il pensiero. Egli deve essere dappertutto. E la no-
stra relazione di fondo nei suoi riguardi deve chiamarsi amore.
Questo a volte può essere molto difficile. Può succedere, per
esempio, che un uomo venga colpito da diverse malattie e impe-
dimenti. A un’altra persona la povertà rende la vita insopporta-
bilmente pesante. Un altro ancora perde le persone dal cui
amore dipendeva tutta la sua vita. Le disgrazie possono essere
molteplici. Allora è molto grande il pericolo che un uomo si
amareggi e dica: Dio non può affatto essere buono, altrimenti
non potrebbe comportarsi con me in questo modo. Se Dio mi
amasse, avrebbe dovuto crearmi in altro modo e darmi altre
qualità e altre circostanze esistenziali.
Una simile ribellione contro Dio è molto comprensibile, tal-
volta approvare Dio sembra quasi impossibile. Ma chi si abban-
dona a una simile ribellione avvelena la sua vita. Il veleno del
no, della rabbia contro Dio e contro il mondo lo divora da den-
tro. Ma Dio desidera da noi, per così dire, un anticipo di fidu-
cia. Egli ci dice: so che ora tu non mi comprendi, ma confida in
me nonostante tutto; credi che sono buono e abbi il coraggio di
vivere di questa fiducia. Allora riconoscerai che proprio così ti
ho fatto del bene. Esistono molti esempi di santi e di grandi uo-
mini che hanno avuto il coraggio di questa fiducia e che proprio
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60 Chi ci aiuta a vivere?

così, nella più grande oscurità, hanno trovato la vera felicità:


per sé e per molti altri.
Per una vita felice occorre dunque un’intima intesa con Dio.
Solo se va bene questa relazione di fondo, anche altre relazioni
possono diventare giuste. Perciò è importante imparare lungo
tutta una vita e fin dalla gioventù a pensare con Dio, a sentire
con Dio, a volere con Dio, affinché di qui venga l’amore. In tal
modo l’amore diventa il tono di fondo della nostra vita. In que-
sto caso, l’amore del prossimo si capisce da sé. Perché se il tono
di fondo della mia vita è amore, allora anche il mio rapporto
con il prossimo che Dio ha messo sulla mia strada posso viverlo
soltanto a partire dall’accettazione, dalla fiducia, dall’afferma-
zione e dall’amore.
La sacra Scrittura adopera, a descrizione dell’amore del pros-
simo, un modo di dire molto saggio e profondo: «Amare come
te stesso». Essa non esige un eroismo avventuroso e falso. Essa
non dice: tu devi negare te stesso ed esistere unicamente per
l’altro, tu devi fare a meno di te o cose simili. No, come te stes-
so. Né più né meno. Una persona che non è in pace con se stes-
sa non sarà realmente buona neppure con gli altri. Il vero amore
è giusto: amarsi come uno dei membri del corpo di Cristo, a
questo ci conduce. Sé come gli altri. Liberarsi di quella falsa
prospettiva, con cui tutti nasciamo, come se il mondo girasse in-
torno al nostro io.
Noi tutti dobbiamo apprendere con la fede una specie di
svolta copernicana. Copernico scoprì che non il sole gira intor-
no alla terra, ma che questa terra, con gli altri pianeti, gira intor-
no al sole. Ognuno di noi vede se stesso dapprima come una
piccola terra intorno alla quale tutti i soli devono ruotare. La fe-
de ci insegna a uscire da quest’errore e a entrare con tutti gli al-
tri, per così dire, nella danza dell’amore intorno all’unico cen-
tro, intorno al centro che è Dio. Soltanto se Dio esiste, soltanto
se Egli è diventato il centro della mia vita, soltanto allora è pos-
sibile questo «amare come me stesso». Ma se Egli esiste, se è di-
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Seguire Gesù Cristo 61

ventato il mio centro, allora è anche possibile arrivare a questa


interna libertà dell’amore.
Il dottore della legge dell’odierno vangelo sapeva tutto ciò
molto bene in teoria. Perché allora lo domanda al Signore? Il
vangelo ci dice che lo voleva tentare, lo voleva mettere in imba-
razzo. La sua seconda domanda mostra però che egli stesso non
era proprio contento del rapporto reciproco in cui teoria e pras-
si stavano nella sua vita. C’era infatti al suo tempo – al tempo di
Gesù – una forte controversia su quale fosse la prassi giusta del-
l’amore del prossimo. Il buon uomo voleva evidentemente
coinvolgere Gesù in questa controversia per rovinargli a un
tempo la simpatia dell’altra parte. A questo egli mirava propria-
mente con il tutto del suo dire, poiché le risposte teoriche non
erano affatto in questione. Con la parabola (del buon samarita-
no) Gesù risponde alla controversia presente nell’Israele del
suo tempo.
C’era anzitutto il gruppo dei combattenti che militavano per
il regno di Dio, chiamati sicari, che si erano schierati intorno a
Giuda il galileo. Erano dei guerriglieri che cercavano di far sor-
gere il regno di Dio con la guerriglia armata. Si può pensare che
appartenessero ai sicari i briganti da cui era stato assalito l’uo-
mo sulla via per Gerico. Per essi la violenza era un mezzo del-
l’amore per provocare la venuta del futuro regno. C’erano poi i
fanatici religiosi, gli zeloti, che puntavano alla restaurazione
della pura religione con tutti i mezzi, anche violenti. Questi e al-
tri gruppi avevano in comune che trasferivano tutto l’amore
nella struttura. Amore è per essi cambiare il mondo in modo
che diventi regno di Dio. Con questa massima nel cuore essi po-
tevano colpire altri o per lo meno passar loro accanto e abban-
donarli. Il samaritano viene senza teorie. È il suo cuore a sugge-
rirgli che cosa sia amore: qui e ora aiutare colui che ha bisogno
di me con tutto ciò che ho e posso. Agire con lui come fosse me
stesso.
Così la risposta di Gesù alla controversia delle teorie è molto
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62 Chi ci aiuta a vivere?

pratica: l’amore del prossimo deve realmente essere amore del


prossimo, amore per il prossimo; la sua essenza consiste preci-
samente nel fatto che non differisco il bene nel futuro, ma che
in tutta vicinanza faccio ciò che posso fare. La violenza non può
essere un mezzo dell’amore e neppure l’indifferenza. L’amore
dev’essere senza paura. Forse il sacerdote e il levita, indipen-
dentemente da teorie, avevano soltanto paura che a essi potesse
succedere la stessa cosa, e perciò passarono così in fretta accan-
to a quel luogo sinistro. La parabola ci insegna che non le gran-
di teorie salvano il mondo, ma il coraggio di avvicinarsi, l’umiltà
che segue la voce del cuore, che è la voce di Dio.
La parabola mira dunque a rendere vigile il nostro cuore af-
finché impariamo a vedere dove c’è bisogno del nostro amore.
A furia di parlare dell’amore del prossimo siamo non raramente
sul punto di «morderci e divorarci a vicenda» (Gal 5,15). Liti-
ghiamo sull’amore e siamo allora diventati incapaci di percepire
ciò che è vicino e il prossimo che ne ha bisogno. Preghiamo il
Signore di risvegliare il nostro cuore affinché possa vedere. Poi-
ché solo così comprenderemo che cosa significa: ama il prossi-
mo tuo.

4. Perché Dio sia tutto in tutto

«Come se gli siano state tarpate le ali…»

«Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che


verrà». Così diciamo con il grande Credo della chiesa, domeni-
ca dopo domenica, nella liturgia. Ma aspettiamo veramente
questa risurrezione? E la vita eterna? Le statistiche ci dicono
che molti cristiani, anche praticanti, hanno smarrito la fede nel-
la vita eterna o perlomeno la ritengono cosa alquanto insicura.
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Seguire Gesù Cristo 63

Ancor più problematici sembrerebbero i numeri nel caso di do-


mande come: questa attesa gioca un qualche ruolo pratico nella
nostra vita? Troviamo consolante e bello poter vivere eterna-
mente, oppure questo resta per noi molto nebuloso e irreale,
anzi, forse addirittura neppure auspicabile?
Hans Urs von Balthasar ha esposto la questione in questi ter-
mini: «È come se all’uomo moderno sia stato tagliato un tendi-
ne, così che egli non è più in grado di correre verso lo scopo a
cui prima tendeva, come se gli siano state tarpate le ali, come se
in lui l’organo spirituale della trascendenza si sia atrofizzato. Da
che cosa può dipendere?»1. Di sicuro, così totalmente assente,
come a prima vista sembra, la prospettiva della vita al di là della
morte anche oggi non è. Il desiderio di rivedere persone amate
è vivo anche oggi; il presentimento che ci possa essere un giudi-
zio e che la nostra vita lo dovrà un giorno affrontare ci passa
inevitabilmente per la testa proprio quando stiamo per fare ciò
che noi stessi riconosciamo come sbagliato.

Fede in Dio e attesa della vita eterna

Comunque – è certo, a questo riguardo, che nell’uomo mo-


derno, e anche nel cristiano di oggi, il senso della vita eterna è
diventato straordinariamente debole; è difficile che oggi capiti
di ascoltare prediche su cielo, inferno e purgatorio. Chiediamo-
ci, dunque, ancora una volta: da che cosa dipende?
Io credo che ciò ha essenzialmente a che fare con la nostra
immagine di Dio e con la sua relazione con il mondo, che a par-
tire da una coscienza generale è penetrata anche in coloro che
vogliono essere assolutamente cristiani e credenti. Noi facciamo
fatica a immaginare che Dio operi realmente qualcosa nel mon-

1 H.U.v. BALTHASAR, Der Mensch und das Ewige Leben, in Internationale

katholische Zeitschrift Communio 20 (1991) 3-13.


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64 Chi ci aiuta a vivere?

do e nei riguardi dell’uomo, che egli stesso sia un soggetto che


agisce nella storia. Tutto questo a noi sembra mitico e oscuro. È
oggi diventato del tutto normale considerare i miracoli del
Nuovo Testamento non per quello che sono, ma ricondurli a
idee condizionate dal tempo; anche la nascita di Gesù dalla Ver-
gine e la sua reale risurrezione, che ha sottratto il suo corpo alla
corruzione, nel migliore dei casi vengono rifiutate come irrile-
vanti questioni marginali: sembra così disturbante che Dio sia
dovuto intervenire in processi biologici o fisici. Il mondo, una
volta creato, è rigorosamente chiuso in se stesso e nei suoi pro-
cessi causali, anche se l’immagine del mondo della fisica moder-
na non conosce più, da tempo, le certezze definitive su cui, nel
secolo scorso, si è creduto di poter fare affidamento. Noi però
pensiamo che ciò che accade nel mondo è spiegabile solamente
grazie a fattori mondani. Al di fuori di noi stessi nessuno opera
in esso, e perciò non aspettiamo neppure nulla da nessuno, al di
fuori di noi stessi, noi che, ovviamente, siamo coscienti di essere
del tutto dipendenti dalle leggi della natura e della storia. Dio
non è più – lo abbiamo già detto – un soggetto che opera nella
storia, nel migliore dei casi è una ipotesi marginale.
La paralisi della speranza nell’eternità è, dunque, semplice-
mente l’altra faccia della paralisi della fede nel Dio vivente. La
fede nella vita eterna è soltanto la fede in Dio applicata alla no-
stra esistenza. Essa perciò può ridiventare viva soltanto se noi
troviamo un nuovo rapporto con Dio – se impariamo di nuovo
a comprendere che Dio è attivo nel mondo e in noi stessi. «Io
aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».
Questa affermazione non è una ulteriore richiesta della fede, ag-
giunta alla fede in Dio; è semplicemente lo sviluppo di ciò che
significa credere in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Non sco-
priamo la vita eterna attraverso l’analisi della nostra esistenza
personale, non guardando a noi stessi, alle nostre speranze e ai
nostri bisogni. All’uomo che è fissato su se stesso la vita eterna
sfugge sempre di più. Nel volgersi a Dio appare con chiarezza
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Seguire Gesù Cristo 65

che colui che Dio ha guardato e ama partecipa alla sua eternità.
Origene ha espresso benissimo questa idea dicendo che «ogni
essere che partecipa a quella natura eterna continua egli stesso a
esistere… perché si manifesti l’eternità della bontà divina…». E
aggiunge: «Non sembrerebbe da atei ammettere che uno spirito
che è capace di Dio possa sostanzialmente perire?»2.
Questo intimo nesso tra l’immagine di Dio e le idee della vita
al di là della morte trova conferma se diamo uno sguardo pur
breve alla storia delle religioni. Per quanto possiamo analizzare
la storia umana, difficilmente troviamo l’idea che con la morte
tutto sia finito. Idee di giudizio e di vita che continua si incon-
trano praticamente dappertutto. Ma là dove non si è ancora co-
nosciuta la potenza del Dio unico che abbraccia tutto il mondo,
lì anche l’immagine dell’altra vita rimane poco chiara e nel va-
go. È un essere nel non-essere, una esistenza umbratile, che vie-
ne vista in una strana relazione con il mondo dei viventi. Da una
parte, gli spiriti nel regno delle ombre hanno bisogno dell’aiuto
di chi ancora vive per poter continuare a sussistere; li si deve
nutrire, occorre prendersi cura di loro, per rendere loro possi-
bile almeno una immortalità temporalmente limitata. D’altra
parte, però, in quanto spiriti sono diventati delle potenze che
ora appartengono al mondo degli spiriti che pervade tutto. Pos-
sono costituire una minaccia o anche essere di aiuto. Si teme il
ritorno degli spiriti e si cerca di proteggersi da essi con riti di
ogni genere. D’altra parte ancora, però, essi sono addirittura gli
spiriti degli antenati, che proteggono la famiglia e che si venera-
no per assicurarsi il loro aiuto. Il culto degli antenati è un feno-
meno originario nella convivenza delle generazioni; esprime il
sapere di una comunione delle persone che non viene interrotta
neppure dalla morte.

2 Peri Archon IV, 36-7; KOETSCHAU V (GCS 22) 362; PG 11, 413. Nella tra-

duzione seguo H.U.v. BALTHASAR, Geist und Feuer, Freiburg 19913 , testo 54,
p. 67.
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66 Chi ci aiuta a vivere?

La dottrina della reincarnazione, che si è sviluppata soprat-


tutto in Asia, la si deve certo considerare come tentativo di spie-
gare, in modo non ateistico, il mistero dell’ingiustizia in questo
mondo: in una esistenza piena di sofferenza si sconta l’ingiusti-
zia precedente e così, dietro l’ingiustizia apparente di un mon-
do in cui ai malfattori va bene e gli innocenti soffrono, si mani-
festa la giustizia inesorabile che tutto ripara e tutto sistema. Do-
ve, però, l’intera esistenza di questo mondo viene sperimentata
come sofferenza, tali peregrinazioni dell’anima non bastano
più: lo scopo di ogni purificazione e trasformazione è allora di
liberarsi dalle catene dell’individuazione, da tutto il caotico ci-
clo dell’essere, di calarsi e ritornare nell’identità originaria che è
al tempo stesso Nulla e Tutto.
Non è certamente un caso che oggi, sbiadendosi la fede nel
Dio vivente, ritornino tutte queste immagini arcaiche, che ov-
viamente hanno perduto la loro innocenza e la loro grandezza
morale. La reincarnazione, che oggi viene di nuovo creduta da
molti, non è più attuazione di un misterioso potere di giustizia,
bensì piuttosto una specie di applicazione della legge della con-
servazione: l’energia dell’anima non può semplicemente dissol-
versi, ma ha bisogno di altre incarnazioni.
In questa nuova ripresa di tali e altre concezioni si esprime
comunque il tacito sapere dell’uomo che la morte non è l’ultima
parola della sua esistenza; quando si perde di vista la potenza
del Dio che ama, che non ci lascia perire, questo sapere cerca al-
tre vie, spesso veramente strane. Così, a poco a poco, si delinea
che cosa deve accadere affinché possiamo dire di nuovo con
convinzione: io aspetto la vita eterna. Dobbiamo semplicemen-
te riprendere coscienza del Dio vivente e del suo amore. Allora
sappiamo che questo amore, che è eterno e che è la potenza,
non ci lascia perire. Ma prima di approfondire questo pensiero
e quindi anche di vedere come esso raccoglie i singoli frammen-
ti delle attese umane, dobbiamo volgerci ancora una volta alle
difficoltà dell’uomo moderno, quale noi stessi siamo.
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Seguire Gesù Cristo 67

Ci sono infatti, oltre al motivo centrale, ossia il venir meno


dell’immagine di Dio, anche altri motivi di difficoltà che la no-
stra speranza nella risurrezione incontra. Innanzitutto ci impe-
disce la attesa viva della vita eterna il fatto che non siamo più in
grado di attribuirle un contenuto. In altre epoche può essere
stato ancora relativamente semplice rappresentarsi il cielo come
un luogo di grande bellezza, di gioia e di pace. Ma l’immagine
moderna del mondo ha spazzato via senza pietà questi sostegni
immaginativi. Quando, però, viene a mancare ogni forma di
rappresentazione, si vanifica anche l’attesa, perché il pensiero
umano ha bisogno di qualche forma di visibilità. Alla fine si ar-
riva a non ritenere per noi propriamente auspicabile un eterno
trascorrere della nostra esistenza. Essa è già abbastanza fatico-
sa: ma anche se tutto andasse bene, l’idea di una vita senza fine
ci appare come una condanna alla noia, per l’uomo semplice-
mente eccessiva.
Rispetto a ciò ora dobbiamo però porre la domanda contra-
ria: non aspettiamo, dunque, proprio più niente? Se fosse così,
allora il Principio speranza, che Ernst Bloch ha indicato come
essenza del marxismo, non avrebbe potuto trovare tanti segua-
ci; allora tante persone non si sarebbero votate alla fede nelle
utopie politiche. Una persona che non attende nulla non può
neppure più vivere. L’esistenza umana tende, per sua natura,
verso qualcosa di più grande.
Ma che cosa aspettiamo propriamente? L’attesa originaria
che si cela nell’uomo e che non gli può essere assolutamente tol-
ta, si può esprimere in molti modi. Una sua forma essenziale è
che noi attendiamo giustizia. Non possiamo semplicemente ac-
cettare che i forti abbiano sempre ragione e che opprimano i
deboli; non possiamo accettare che degli innocenti debbano
soffrire in modo spesso così orrendo e che ai colpevoli sembri
piovere dal cielo tutta la fortuna del mondo. Il desiderio di giu-
stizia, che si è espresso con tanta forza nella lotta degli uomini
di ogni epoca, nel loro pensare e soffrire, non ci può essere sot-
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68 Chi ci aiuta a vivere?

tratto. Desideriamo giustizia; perciò desideriamo anche verità.


Vediamo che la menzogna si diffonde, si impone, e che non è af-
fatto possibile tenerle testa. Ci aspettiamo che le cose non resti-
no così: che alla verità sia resa giustizia. Desideriamo che il
chiacchierare senza senso, la crudeltà, la miseria cessino; desi-
deriamo che si dissipi il buio delle incomprensioni che ci divi-
dono, che l’incapacità di amare sia superata e che divenga pos-
sibile il vero amore, quello che libera tutta la nostra esistenza
dal carcere della sua solitudine, che la apre agli altri, all’infinito,
senza distruggerci. Possiamo anche dire: desideriamo la vera fe-
licità. Tutti noi.

Che cosa è: ‘Vita eterna’?

Quando diciamo ‘vita eterna’, però, si intende correttamen-


te non una lunga durata, ma una qualità dell’esistenza in cui la
durata, in quanto infinito susseguirsi di momenti, scompare.
Certamente significa anche che il desiderio di eternità può di-
ventare ostinazione contro l’eternità, finitudine ostinata, quan-
do uno si identifica con l’ingiustizia, con la menzogna, con
l’odio, a tal punto che per lui l’intervenire di giustizia, verità e
amore sarebbe negazione della sua esistenza, da cui egli si sente
profondamente minacciato. Dove si dà una esistenza del gene-
re, la dobbiamo indicare come dannazione. Dove la menzogna
e l’ingiustizia sono diventate la caratteristica dell’identità di
una vita, lì certamente la vita eterna è la negazione di questa
identità negativa. La salvezza diventa punizione, perché l’uo-
mo ha scelto la perdizione e si è votato con tutta la sua vita alla
negazione.

Dopo questo sguardo rivolto all’ultima minaccia dell’uomo,


che qui si imporrebbe formalmente, torniamo al positivo: vita
eterna non è una successione senza fine di momenti in cui si do-
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Seguire Gesù Cristo 69

vrebbe cercare di superare la noia e la paura di ciò che non ha


fine. La vita eterna è quella nuova qualità di esistenza in cui tut-
to confluisce nell’adesso dell’amore, nella nuova qualità dell’es-
sere, che è liberata dal frazionamento dell’esistenza nello scor-
rere dei momenti. In questa nostra vita nel tempo, da una parte,
ogni momento è troppo breve, perché insieme con esso la vita
stessa sembra fuggire via prima di averla potuto afferrare, ma
allo stesso tempo ogni momento è per noi troppo lungo, perché
i molti momenti, continuamente simili gli uni agli altri, ci costa-
no troppa fatica.
Con ciò diventa anche evidente che la vita eterna non è sem-
plicemente ciò che viene dopo e di cui adesso non potremmo
formarci alcuna idea. Poiché è una qualità dell’esistenza, essa
può essere presente già nell’esistenza terrena e nella sua fugace
temporalità, come il nuovo, l’altro e il più grande, anche se sem-
pre soltanto in frammenti e in maniera incompleta. Ma i confini
tra vita eterna e vita temporale non sono affatto di natura sem-
plicemente cronologica: gli anni prima della morte sarebbero la
vita nel tempo; il tempo senza fine dopo la morte sarebbe la vita
eterna, così pensiamo in genere. Poiché, però, eternità non è
semplicemente tempo senza fine, ma un altro piano dell’esisten-
za, una tale distinzione puramente cronologica non può essere
corretta. La vita eterna è presente già nel tempo, quando ci rie-
sce di guardare in faccia Dio; guardando al Dio vivente, essa
può diventare il fondamento stabile della nostra anima. Come
un grande amore, essa non ci può più essere tolta da nessuna vi-
cissitudine, ma è un centro indistruttibile dal quale provengono
il coraggio e la gioia di andare avanti, anche se le situazioni
esterne sono dolorose e pesanti.
Come dobbiamo rappresentarci tutto questo, ce lo mostra
molto chiaramente il Sal 73(72), nel quale tale esperienza è de-
scritta con rapidità quasi fulminea e addirittura con forza scon-
certante nel soffrire e nel lottare di una persona credente. Il sal-
mo è la preghiera di un uomo «che porta nel suo corpo soffe-
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70 Chi ci aiuta a vivere?

renza e malattia»3 – di un credente che si è sempre sforzato di


vivere secondo la parola di Dio, per il quale, però, tutta la sua
esistenza è ora diventata dolore e contraddizione pura. La sag-
gezza dell’antica Alleanza aveva insegnato che Dio ricompensa
il bene e punisce il male. Ma il mondo in cui l’orante vive si bur-
la di tali immagini: è l’esperienza di Giobbe, l’esperienza di
Qoelet, l’esperienza di tanti giusti sofferenti dell’Antica Allean-
za che qui si esprime. La vita sembra premiare i cinici, i superbi,
i quali dicono: «Come può saperlo Dio? C’è forse conoscenza
nell’Altissimo?». Queste persone, che vogliono prendere il po-
sto di Dio, parlano per così dire dal cielo, molto dall’alto. Il po-
polo accoglie con avidità le loro boriose parole, calate dall’alto.
Essi non provano alcuna sofferenza. Sono sani e grassi. Non co-
noscono la fatica del vivere. Il giusto sofferente rischia di im-
pazzire.
Il mondo non dà forse ragione ai cinici? È forse realmente in-
sensato tenersi attaccati a Dio e vivere secondo la sua legge?
Non è forse vero che egli non reagisce nei nostri confronti?
L’orante trova risposta nel santuario, ossia rivolgendosi al Dio
vivente nella preghiera, nella quale egli esce al tempo stesso dal-
la dimensione semplicemente privata del domandare e del lot-
tare. Entrando nel santuario egli si inserisce nella comunione
della fede, nei segni della salvezza, nel comune cammino della
storia di Dio e da qui ottiene di poter guardare a Dio stesso. E
qui cambiano le prospettive. La mentalità dell’invidia diventa
altrettanto priva di oggetto come l’esaltarsi della superbia. Di-
venta evidente l’illusorietà di tale felicità, che si dissolve come
un sogno al risveglio. Riemergono le vere prospettive della real-
tà. «Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano de-
stra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella
tua gloria. Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bra-

3 H.-J. KRAUS, Psalmen I, Neukirchen 1960, 506; cfr. su quanto segue la

spiegazione del salmo, pp. 503-511.


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Seguire Gesù Cristo 71

mo sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma la


roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre… Il
mio bene è stare vicino a Dio» (vv. 23-26.28).
Quando Dio tocca l’anima l’uomo impara a vedere in modo
giusto. Anche se egli possedesse, nel cielo e sulla terra, tutte le
proprietà possibili, a che gioverebbe? La felicità semplicemente
del successo, del potere, del possesso è sempre apparente; uno
sguardo al mondo di oggi, alle tragedie di quelli che hanno suc-
cesso e potere, la cui anima è venduta all’avere ed è diventata
vuota, ci mostra quanto ciò sia vero. Infatti, le grandi dispera-
zioni, contro le quali vengono impiegate invano tutte le raffina-
te astuzie della bramosia e i loro sedativi, non si verificano tra i
poveri e i deboli, ma tra coloro che apparentemente non cono-
scono la fatica del vivere. Tutto ciò che è in cielo e sulla terra re-
sterebbe vuoto se Dio non fosse colui che si è reso parte di noi
per l’eternità. «Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico
vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo», dice il Signore
nel vangelo di Giovanni (17,3).
È esattamente l’esperienza del Sal 73. L’orante vede Dio e
sperimenta che non gli occorre di più, che nel contatto con Dio
gli è dato tutto, la vera vita. «Fuori di te nulla bramo nel cielo e
sulla terra, anche se il mio cuore viene meno – Il mio bene è sta-
re vicino a Dio».
Quando avviene questo incontro, è la vita eterna. La linea di
demarcazione tra vita nel tempo e vita eterna passa per la nostra
vita nel tempo. Giovanni distingue tra bíos, in quanto vita di
questo mondo, che passa, e la zōé¯, in quanto contatto con la vita
autentica che si schiude in noi quando incontriamo realmente
Dio dall’interno. In questo senso Gesù dice, nel vangelo di Gio-
vanni: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha man-
dato, ha la vita eterna… è passato dalla morte alla vita» (5,24s.).
Sulla stessa linea si colloca il detto nel racconto di Lazzaro: «Io
sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore,
vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno»
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72 Chi ci aiuta a vivere?

(11,25). La stessa esperienza si esprime, in diversi modi, nelle


lettere paoline, per esempio quando Paolo, prigioniero in cate-
ne, scrive ai Filippesi: «Per me il vivere è Cristo e il morire un
guadagno». Egli preferirebbe essere sciolto dal corpo per essere
con Cristo, ma sa che per le sue comunità è più necessario che
resti (1,21-24). «Se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi
moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che mo-
riamo, siamo del Signore» (Rm 14,8s.).

«Tutto ciò che è mio è tuo»:


il carattere comunitario e l’attualità della vita eterna

Ecco, dunque: la vita eterna è quel modo di vivere nel pre-


sente della nostra esistenza terrena che non è toccato dalla mor-
te, perché va oltre essa. Vivere l’eternità nel tempo, questo è
dunque il primo invito dell’articolo di fede dal quale siamo par-
titi. Se viviamo in questo modo, allora la speranza della comu-
nione eterna con Dio diventa attesa che contraddistingue la no-
stra esistenza, perché allora cresce in noi anche una idea della
sua realtà e la sua bellezza ci trasforma dal di dentro. Così, di-
venta evidente che in questo faccia a faccia con Dio non c’è nul-
la di egoistico, nessun rifugiarsi nel mero privato, ma avviene
proprio quella liberazione dall’Io che soprattutto rende sensata
l’eternità. Una successione infinita di momenti sarebbe insop-
portabile; la riunificazione della nostra esistenza nell’unico
sguardo dell’amore di Dio non soltanto trasforma la durata in-
terminabile in eternità, nell’oggi di Dio; ma significa contempo-
raneamente la comunione con tutti coloro che sono accolti dallo
stesso amore. Nel regno del Figlio del suo amore non c’è, come
disse san Giovanni Crisostomo, «la fredda parola mio e tuo»4.

4 BALTHASAR, Geist und Feuer, cit., 11.


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Seguire Gesù Cristo 73

Poiché l’amore di Dio è a tutti comune, tutti noi ci appartenia-


mo. Quando Dio è tutto in tutto, tutti noi siamo in tutti e tutto è
in noi, siamo in un solo corpo, il corpo di Cristo, nel quale la
gioia di un membro è gioia di tutti i membri, come la sofferenza
di un membro è sofferenza di tutti i membri. Questo significa
due cose:

1. Presente ed eternità non stanno come presente e futuro


uno accanto all’altro e uno separato dall’altro, bensì stanno uno
nell’altro. Questa è la vera differenza tra utopia ed escatologia.
Da tempo ci è stata proposta l’utopia, ossia l’attesa del mondo
migliore futuro, al posto della escatologia, al posto della vita
eterna. La vita eterna sarebbe irreale, non farebbe che alienarci
rispetto al tempo. L’utopia, invece, sarebbe una meta reale a cui
possiamo tendere con tutte le nostre forze. Questa idea, però, è
un inganno che ci porta alla distruzione delle nostre speranze.
Infatti, questo mondo futuro, per il quale viene consumato il
presente, non riguarda mai noi stessi; esiste sempre soltanto per
una generazione futura a noi sconosciuta. Esso è come l’acqua e
come i frutti che vengono messi davanti a Tantalo: l’acqua gli
arriva sempre fino al collo e i frutti gli arrivano sempre vicino al-
la bocca. Ma quando egli, nella sua grande sete, vuole bere, l’ac-
qua si ritira e diventa irraggiungibile e quando egli, nella sua fa-
me, vuol gustare i frutti, accade la stessa cosa.
Questa antica immagine della condanna della superbia quale
autentico peccato dell’uomo riguarda esattamente quella hýbris
che sostituisce l’escatologia con l’utopia costruita da noi stessi,
che vuole cioè soddisfare la speranza dell’uomo con le sue stes-
se forze e senza la fede in Dio. L’utopia sembra sempre total-
mente vicina, ma non si realizza mai, perché l’uomo resta sem-
pre libero e perciò non può mai essere fissato in una situazione
definitiva. Ogni generazione deve riprendere di nuovo la lotta
contro il male, che non le può essere risparmiata dall’opera di
una generazione precedente. L’affermazione di una logica inter-
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74 Chi ci aiuta a vivere?

na alla storia che alla fine produce necessariamente la società


giusta (dunque crea uomini diversi) è un mito primitivo che cer-
ca di sostituire il concetto di Dio con un potere anonimo, crede-
re al quale non è affatto da intelligenti, ma semplicemente illo-
gico.
La fede nell’utopia ha potuto sostituire, nel mondo moderno,
così largamente la speranza nella vita eterna perché soddisface-
va le due condizioni di fondo della modernità: si trattava di ciò
che noi stessi facciamo, per il quale non occorreva alcun Dio
trascendente (ovviamente una divina logica storica immanente).
Poiché si tratta di ciò che è fattibile, questo mondo futuro è an-
che pensabile: sempre così vicino come i frutti di Tantalo e, co-
me quelli, anche sempre così lontano. Dovremmo liquidare fi-
nalmente come mito l’idea di costruire la futura società ideale e,
al suo posto, lavorare con grande impegno perché aumentino le
forze che resistono al male nel presente e che perciò possono
fornire anche una prima garanzia per il prossimo futuro.

2. Questo, però, accade proprio quando la vita eterna ripren-


de forza dentro il tempo. Infatti, ciò significa che la volontà di
Dio si compie «come in cielo così in terra». La terra diventa cie-
lo, regno di Dio, quando in essa si fa la volontà di Dio come in
cielo. Per questo preghiamo, poiché sappiamo che non sta in
nostro potere far scendere il cielo. Il regno di Dio, infatti, è il
suo regno e non il nostro regno, non la nostra signoria; soltanto
per questo è affidabile e definitivo. Ma ci è sempre totalmente
vicino quando la volontà di Dio viene accettata. Allora, infatti,
sorge verità, sorge giustizia, sorge amore. Il regno di Dio è assai
più vicino dei frutti di Tantalo dell’utopia, perché non è un fu-
turo cronologico, un dopo cronologico, ma descrive il total-
mente Altro rispetto a ogni tempo, che, proprio per questo, può
immergersi nell’oggi di ogni tempo per assumerlo totalmente in
sé e renderlo puro presente.
La vita eterna che inizia qui e ora nella comunione con Dio
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Seguire Gesù Cristo 75

squarcia questo qui e ora e lo immerge nell’ampiezza di ciò che


è autentico, che non viene più frazionato dal flusso del tempo.
In essa neppure l’io e il tu possono più essere impenetrabili, co-
sa che è strettamente legata alla frammentazione del tempo. In
realtà, chi mette la sua volontà nella volontà di Dio la pone là
dove ha la sua dimora ogni buona volontà; la nostra volontà si
fonde così anche con la volontà di tutti gli altri. Quando questo
avviene, si avvera la parola di Paolo: non sono più io che vivo –
Cristo vive in me. Il mistero di Cristo, che secondo una bella
espressione di Origene è il regno di Dio fatto persona, è il cen-
tro decisivo per comprendere la vita eterna.
Prima di sviluppare ulteriormente questo pensiero vorrei ag-
giungere ancora un accenno conclusivo al realismo della spe-
ranza cristiana nel totalmente Altro, nel regno eterno di Dio.
Quanto forte sia l’influsso della fede nella vita eterna sul pre-
sente, forse nessun autore lo esprime con tanta intensità quanto
Agostino, il quale ha dovuto vivere di persona il crollo dell’im-
pero romano e di tutti i suoi ordinamenti civili, dunque una sto-
ria piena di tribolazioni e di orrori. Ma egli avvertì e vide che
una nuova città stava crescendo, la città di Dio. Quando ne par-
la, si sente come egli si infiammi interiormente: «Quando la
morte sarà vinta, allora queste cose non ci saranno più; e ci sarà
pace – pace piena ed eterna. Saremo in una specie di città. Fra-
telli, anche se qui i dispiaceri aumentano, io non posso fare a
meno di parlare di questa città…»5. La città futura lo sostiene
perché, da un certo punto di vista, è già anche una città presen-
te: ovunque il Signore ci raduna nel suo corpo e mette la nostra
volontà nella volontà di Dio.
Vivere con Dio, la vita eterna nella vita temporale è perciò
possibile, perché Dio vive con noi: Cristo è il Dio con noi. In lui
Dio ha tempo per noi, egli è il tempo di Dio per noi e così, allo

5 En. In ps. 84, 10: CCL XXXIX, 1170; cfr. P. BROWN, Augustinus von Hip-

po, Leipzig 1972, 261-273.


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76 Chi ci aiuta a vivere?

stesso tempo, è l’apertura del tempo all’eternità. Dio non è più


il Dio lontano, indeterminato, che nessun ponte raggiunge, ma
è il Dio vicino: il corpo del Figlio è il ponte per le nostre anime.
Attraverso di lui il rapporto di ogni singolo con Dio è inserito
nel suo rapporto unico con Dio, così che guardare a Dio non è
più un togliere lo sguardo dall’altro e dal mondo, ma fusione
del nostro sguardo e del nostro essere con l’unico sguardo e con
l’unico essere del Figlio. Poiché egli è disceso nelle profondità
della terra (Ef 4,9s.), Dio è ora non più semplicemente un Dio
in alto, ma Dio ci abbraccia dall’alto, dal basso e dal di dentro.
Egli è tutto in tutto: «Tutto ciò che è mio è tuo». Il «Dio tutto in
tutto» inizia dall’autoespropriazione di Cristo in croce. Sarà
completo quando il Figlio, alla fine, renderà il regno, ossia
l’umanità riunita e in essa la creazione, al Padre (1 Cor 15,28).
Perciò ora non c’è più neppure la dimensione semplicemente
privata dell’io isolato, ma «tutto ciò che è mio è tuo». Questa
stupenda parola del padre al figlio perduto (Lc 15,31), con cui
poi Gesù, nella preghiera sacerdotale, ha descritto il suo perso-
nale rapporto con il Padre (Gv 17,10), vale nel corpo di Cristo
anche per tutti noi, nei nostri rapporti reciproci. Ogni sofferen-
za accettata, per quanto nascosta, ogni male sopportato in silen-
zio, ogni vittoria interiore, ogni apertura frutto di amore, ogni
rinuncia e ogni tranquillo volgersi a Dio – tutto questo diventa
ora efficace nel tutto: nulla di bene, altrimenti. Al potere del
male che, come un polipo con i suoi tentacoli, minaccia di affer-
rare l’intera compagine della nostra società e di soffocarla in un
abbraccio mortale, si contrappone ora questa silenziosa circola-
zione della vera vita, quale potere liberante in cui il regno di
Dio, senza chiasso, come dice il Signore, è già in mezzo a noi (Lc
17,21). In questo circolare della vera vita viene il regno di Dio,
perché la volontà di Dio si compie sulla terra come in cielo.
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Seguire Gesù Cristo 77

Questioni particolari
di escatologia cristiana

Con tutto questo si è delineato, a grandi tratti, ciò che la fede


intende con le parole cielo e inferno6. Anche il significato del
‘luogo di purificazione’ (purgatorio) lo si può comprendere fa-
cilmente a partire da qui.
Il luogo della purificazione è, in definitiva, Cristo stesso.
Quando lo incontreremo faccia a faccia, sarà allora logico che
tutta la miseria e la colpa della nostra vita, che spesso abbiamo
accuratamente nascosto, in quel momento della verità ci stiano
davanti brucianti. Su tutto ciò che c’è in noi, che è intrecciato
con l’ingiustizia, l’odio e la menzogna, la presenza del Signore
avrà l’effetto di una fiamma che brucia. Sarà come un dolore
purificatore, che quale fuoco eliminerà da noi tutto ciò che non
si concilia con l’eternità, con la circolazione viva dell’amore di
Cristo.

A partire da qui comprendiamo anche il significato del giudi-


zio. Di nuovo possiamo dire: Cristo stesso è il giudizio, egli che
è personalmente la verità e l’amore. Egli è entrato in questo
mondo come sua misura interna, il criterio di misura per ogni
singola vita. Il fatto che proprio Colui che si è fatto uomo, il
Crocifisso e Risorto, sia il giudizio include due aspetti affini. In
primo luogo significa un aspetto che abbiamo già considerato:
tutto ciò che è infimo, sbagliato e peccaminoso nella nostra esi-
stenza viene messo a nudo da questo criterio di misura; nel do-
lore della purificazione dobbiamo esserne liberati. Ma c’è an-
che un secondo lato. Romano Guardini, che nella sua inclina-
zione alla depressione ha spesso amaramente percepito quanto

6 Per le motivazioni e i dettagli devo rinviare alla mia Escatologia, Cittadel-

la, Assisi 1979, 20054.


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78 Chi ci aiuta a vivere?

di terribile e di doloroso c’è in questo mondo come un peso a


lui imposto in modo del tutto personale, diceva di frequente
che egli sapeva che Dio, nel giudizio, gli avrebbe chiesto della
sua vita. Ma egli aspettava il giudizio anche per rivolgere, a sua
volta, delle domande a Dio: la domanda circa il perché della
creazione e circa tutto ciò che di inconcepibile è sorto in essa
come conseguenza della libertà di compiere il male. Il giudizio
significa che Dio si confronta con questa domanda. Hans Urs
von Balthasar lo esprime così: i difensori di Dio non convinco-
no. Dio deve difendersi da sé: «Egli lo ha già fatto, quando il Ri-
sorto ha mostrato le sue ferite… Dio stesso deve trovare la sua
teodicea. Egli deve averla già trovata quando dotò gli uomini
della libertà (e perciò della tentazione) di dire di no a lui, al suo
comando»7. Nel giudizio, di fronte alle nostre domande, il Si-
gnore mostrerà le sue ferite e noi comprenderemo. Fino ad allo-
ra, però, egli aspetta semplicemente che noi stiamo dalla sua
parte e ci fidiamo del linguaggio di questi segni, anche se non
possiamo verificare con la logica di questo mondo.

Resta un’ultima questione: come la mettiamo ora propria-


mente con l’anima? E: dobbiamo aspettare una risurrezione dei
morti reale, corporea, e un mondo nuovo? La parola anima, ne-
gli ultimi anni, è stata messa nella lista delle parole proibite; per
quanto possibile si cerca di evitarla. Si è tentato di inculcarci
l’idea che si tratta di una scoperta pagana (greca) che non può
aver alcun posto nel cristianesimo, perché rappresenterebbe
una divisione dell’uomo, non conciliabile con l’unità del Crea-
tore e della sua creazione.
Entrambe le cose sono ugualmente false. La parola anima c’è
in tutte le culture, con una tendenza di fondo simile, ma con
sfumature assai diverse nei dettagli. Così come viene utilizzata

7 BALTHASAR, Der Mensch und das Ewige Leben, cit., 9.


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Seguire Gesù Cristo 79

nella tradizione cristiana è un frutto della fede, che in questa


forma non è possibile al di fuori del messaggio di Gesù Cristo e
non ricorre da nessuna parte. Essa esprime la singolarità dell’es-
sere umano voluta dal Creatore: l’uomo è quella creatura nel
quale spirito e materia si incontrano e si uniscono a formare un
tutto unico. Se mettiamo da parte la parola anima, cadiamo ine-
vitabilmente nel materialismo, dal quale il corpo non viene ele-
vato, ma derubato della sua dignità. Quando molti dicono che
un’anima senza il corpo, tra la morte e la risurrezione, sarebbe
una assurdità, chiaramente costoro non hanno prestato suffi-
ciente ascolto alla sacra Scrittura. Infatti, dopo l’ascensione di
Cristo al cielo il problema dell’anima senza il corpo non si pone
più: il corpo di Cristo è il nuovo cielo, ora non più chiuso. Se
noi stessi siamo diventati membra del corpo di Cristo, le nostre
anime sono allora legate a questo corpo, che è diventato il loro
corpo e aspettano così la definitiva risurrezione, nella quale Dio
sarà tutto in tutto. Questa risurrezione, alla fine della storia, è
però qualcosa di veramente nuovo. Noi non ce la possiamo rap-
presentare, perché non conosciamo né le possibilità della mate-
ria né quelle del Creatore. Però, a partire dalla risurrezione di
Cristo sappiamo che non soltanto i singoli vengono salvati, ma
che Dio vuole e può salvare l’intera sua creazione. La creazione
che venne assoggettata da Adamo e che sempre di nuovo, sem-
pre più, viene da lui calpestata, attende i figli di Dio. Là dove es-
si sono, anche la creazione diventa nuova.

Vorrei concludere con una parola ripresa da una predica di


Agostino, nella quale mi sembra sia indicato con mirabile chia-
rezza il senso profondo di ciò che si intende per attesa della vita
eterna nella vita attuale: «Mettiamo il caso che una ragazza dica
al suo amato: “Non portare questo mantello”. Egli non lo fa. Se
in inverno gli dice: “Mi piaci con la tunica corta”, egli preferirà
soffrire il freddo piuttosto che contrariarla. È sicuro che lei non
abbia alcun potere di punirlo? … No, egli teme una sola cosa:
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80 Chi ci aiuta a vivere?

“Altrimenti, io non ti guarderò mai più”»8. Ecco che cosa signi-


fica attesa della vita eterna: non volere più perdere lo sguardo di
Dio, perché egli è la nostra vita.

5. Poter dire «Padre nostro»

Forse si ricorderà che negli anni cinquanta suscitò dapper-


tutto scalpore un dramma di Samuel Beckett: Aspettando Go-
dot. Tutta l’opera di Beckett, che si aprì così la strada anche in
Germania, è una sconcertante espressione della disperazione
dell’uomo moderno: un nichilismo senza via di uscita. Il pecca-
to originale è, per Beckett, di essere nati; le sue opere sono una
protesta contro l’essere. Il poeta mostra l’uomo nel suo disfaci-
mento. L’Io, propriamente, non c’è più, ma è solo una sequenza
di situazioni. Perciò scompare anche il portamento eretto: gli
uomini vivono in bidoni dell’immondizia e mostrano così che
l’uomo è un rifiuto. Conoscendo la produzione di Beckett, deve
sembrare tanto più sconcertante ascoltare il commento che un
poeta molto vicino a Beckett, Eugène Ionesco, ha nel frattempo
rilasciato al riguardo. In una intervista concessa a un prete, alla
fine del 1975, egli disse: «L’opera di Samuel Beckett è una in-
cessante invocazione di Dio, esattamente un SOS… Uno dei li-
bri più importanti di Beckett si intitola L’innominabile. L’inno-
minabile è Dio… Dio c’è. Dio è! Non esiste, egli è. Egli esiste
attraverso Gesù Cristo».
Una incessante invocazione di Dio… Nel suo ultimo roman-
zo Beckett aveva descritto la condizione umana come «di vermi
che strisciano nel fango», separati da gigantesche intercapedini,
«soli nella melma, anzi, nell’oscurità». Poi, però, secondo la lo-

8 AGOSTINO, Sermo 161, 10. Cfr. BROWN, Augustinus von Hippo, cit., 215.
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Seguire Gesù Cristo 81

gica interna, segue l’‘urlo’ in cui prorompe il desiderio «verso


qualcosa di superiore, capace di amore». Dall’abisso dell’estre-
ma miseria dell’uomo allontanatosi da Dio si alza qui di nuovo il
grido disperato verso Dio, anche se esso si perde sempre di
nuovo nella paura di restare senza risposta. È la storia del figlio
perduto, tradotta nella realtà del nostro secolo: l’uomo, che con
la sua falsa libertà è sprofondato fino a diventare l’ultimo dei
servi, il custode di porci, e per di più è costretto a invidiare i
porci, si ricorda del padre e incomincia a cercare le frasi che egli
potrebbe dire a suo padre. Cerca di nuovo il linguaggio del fi-
glio, e proprio così si trova sulla via del ritorno, che in verità è la
via che porta in avanti.
Come il figlio perduto anche noi, nell’età moderna, ci siamo
impadroniti del nostro capitale, il mondo. Abbiamo voltato le
spalle al Padre, abbiamo cercato di dimenticarlo, e alla fine, con
la favola del complesso di Edipo, lo abbiamo percepito ancora
soltanto come pericoloso Super-Io che minaccia la nostra liber-
tà, dal quale di conseguenza dobbiamo liberarci. Che il pregare
sia senza senso, potevamo alla fine perfino dimostrarlo scientifi-
camente: Dio non ha alcun potere di influire sul mondo. Le sue
leggi, così abbiamo pensato, le conosciamo oggi alla perfezione,
tanto che per lui non c’è più posto. E perché poi dovremmo an-
cora spendere parole pie, se esse vanno a vuoto, rivolte a un
vuoto nulla? Fintantoché il figlio perduto ha fatto la bella vita,
fino a che bastò il capitale portato dalla casa del padre, non ha
certamente cercato le parole da rivolgere al padre. Solo quando
incominciò ad accorgersi di essere un perduto, iniziò a fermarsi
e infine a tornare indietro, riprendendo a parlare con il padre.
Fino a che sembrava che tutti noi avessimo potere sul mondo,
fino a che un potere divino disturbava solamente – esso non do-
veva affatto esserci. Non ci siamo accorti che, passo dopo passo,
sprofondavamo tra i rifiuti, perdevamo il portamento eretto, la
coesione dell’Io, fino a che diventava sempre più buio attorno a
noi.
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82 Chi ci aiuta a vivere?

Senza Dio l’uomo intristisce. Ma egli è senza Dio se non può


più parlare a Dio. Perciò il pregare non è uno sport privato di
anime deboli, che non riguarderebbe per nulla coloro che non
hanno bisogno di tale rifugio. Nel pregare si tratta assolutamen-
te di qualcosa che riguarda il futuro dell’uomo, l’umanità del-
l’uomo in generale. Infatti, se l’uomo non va più oltre se stesso,
per aprirsi a Dio, allora egli diventa qualcosa d’altro, di più li-
mitato e più piccolo. Allora degli organi in lui essenziali si atro-
fizzano. Egli diventa spiritualmente rozzo e indifferenziato e al-
la fine può anche non essere più capace di amare l’altro, e perfi-
no se stesso. «Gli uomini si possono amare soltanto se in loro
stessi portano Dio», ha detto Ionesco nella intervista sopra cita-
ta. Se in tutte le situazioni incresciose non si è continuamente
consapevoli che l’uomo porta in sé Dio, si arriverà velocemente
a concludere che questa creatura uomo è veramente la più cru-
dele di tutte le bestie, e senza accorgerci si diventerà allora per-
sonalmente crudeli. Se non riconosciamo Dio presente nell’al-
tro, allora possiamo solo soppesare tra il negativo e il positivo
che conosciamo per esperienza a partire dall’uomo e troveremo
presto che il negativo prevale. Soltanto se vediamo Dio nell’al-
tro, nonostante tutte le fragilità, possiamo restare uomini. Ma
come possiamo vedere Dio, se non lo conosciamo? E come lo
conosciamo, se non c’è alcun contatto tra noi e lui, se ci siamo
scordati di parlare con lui?

Andiamo al pratico. Il figlio perduto andò avanti e in alto


quando egli incominciò a pensare di nuovo al padre; quando in-
cominciò, almeno nel pensiero, a parlare di nuovo a lui. Proprio
questo dovremmo fare anche noi oggi: riprendere a esercitarci
nel parlare a lui, reimparare, al di là di tutte le conoscenze lin-
guistiche, la più alta possibilità del linguaggio, quella di parlare
con Dio. Per far questo converrà che noi presentiamo a Dio la
nostra verità, in modo del tutto informale, come ha fatto Char-
les de Foucauld, il quale, prima della sua conversione, recitava
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Seguire Gesù Cristo 83

spesso una strana preghiera: «Dio mio, se ci sei, fa che io ti co-


nosca». Per questo, però, occorrerà anche che ci lasciamo gui-
dare dalle preghiere tradizionali della cristianità, così come il
bambino impara a parlare proprio parlando con la madre. Vor-
rei qui illustrare una sola preghiera, che mi è cara più di tutte le
altre, perché mi sembra sia il fondamento profondo e il centro
intimo di tutte le preghiere possibili – penso alla preghiera del
Padre nostro, dalla quale scaturisce e viene sostenuto ogni altro
pregare.

Padre – con questa parola io affermo che esiste qualcuno che


mi ascolta, che non mi lascia mai solo, che è sempre presente.
Con essa esprimo che Dio, malgrado tutte le infinite differenze
rispetto a me, è tuttavia tale che io posso rivolgermi a lui, anzi,
posso avere con lui confidenza. La sua grandezza non è oppri-
mente, non mi respinge nell’inesistenza e nell’insignificanza.
Certamente, io sto sotto di lui, come un bambino sotto il pro-
prio padre, ma tra lui e me c’è anche una uguaglianza e una so-
miglianza così fondamentale, anzi, io sono per lui così impor-
tante, così a lui familiare, al punto che lo nomino correttamente
quando dico ‘Padre’. Allora il mio essere nato non è una colpa,
ma grazia; è bene vivere, anche se non sempre lo avverto. Io so-
no voluto, non sono figlio del caso e della necessità, ma della
volontà e della libertà. Perciò di me c’è anche bisogno, c’è un
senso per me, un compito che è assegnato proprio soltanto a
me; c’è un’idea di me, che io posso cercare e trovare e realizza-
re. Padre: significa che io non sono lasciato al caso, il quale solo
in apparenza è libertà, mentre in realtà è abbandono all’indiffe-
renza, all’eterno ritorno del nulla-indifferente, come Samuel
Beckett dice. No, io sono amato, io sono pensato, io sono unico:
questo, però, e proprio per questo, sotto criteri che mi determi-
nano, nel complesso, il mio compito. Ancora: questo amore che
mi vuole non è un indifferente lasciar fare, esso mi pone sotto il
criterio della verità, al quale io posso sottrarmi. Ma questa serie-
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84 Chi ci aiuta a vivere?

tà che mi impegna, che mi diventa pesante, è però per me, a sua


volta, la sola certezza che io non sono insignificante materiale
dell’evoluzione, bensì sono voluto e amato. Se l’educazione nel
corso della vita diventa insopportabilmente pesante, e io vorrei
gridare come Giobbe, come l’orante dei salmi o come Samuel
Beckett, posso trasferire questo grido dentro la parola Padre e
lentamente il grido diventerà di nuovo parola, la protesta lasce-
rà il posto alla fiducia, perché alla luce del Padre apparirà che il
mio essere sotto pressione, anzi, il mio apparente travaglio è
parte dell’amore più grande a cui devo me stesso.

Ancora di una cosa prendo coscienza quando uso la parola


Padre: che io non sono da me stesso, che sono figlio. Contro
questo potrei, in un primo momento, protestare, come ha fatto
il figlio perduto. Io voglio essere maggiorenne, ‘emancipato’, si-
gnore di me stesso. Ma poi mi domando: qual è l’alternativa per
me, per l’uomo in genere, se non c’è più alcun padre, se, di con-
seguenza, mi sono lasciato definitivamente alle spalle l’essere-fi-
glio? Sono realmente diventato qualcosa di più? Veramente li-
bero? Oppure, insieme con il padre non ho forse eliminato il
principio della libertà? Ora rimane soltanto il violento e crudele
ingranaggio dell’universo, in cui la vita è un «osceno errore del
carbonio», come pensa Friedrich Dürrenmatt. In ogni caso io
sono allora solo nell’oscurità, anzi, nella sporcizia, come ancora
Beckett dice. No, solo se esiste il principio della libertà, uno che
ama e il cui amore ha potere, allora anch’io sono libero. E così
alla fine non resta altro che ritornare, come il figlio perduto,
avere l’umiltà di dire ‘padre’ e proprio così giungere alla libertà,
accettando la mia verità. E allora il mio sguardo cade su colui
che per tutta la sua vita ha avuto la consapevolezza di essere co-
me un bambino, figlio, e che proprio così è consostanziale a Dio
stesso: Gesù Cristo. Quando dico ‘Padre’, parlo insieme con lui
e nel con-parlare egli assume me nella sua vita, così che io di-
vento con lui figlio, con lui ho parte alla natura di Dio. Così, nel
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Seguire Gesù Cristo 85

dire Padre, io sono in lui, tutta la luce della sua figura fluisce in
me. Egli ha raccontato di Dio; lo poteva fare perché egli lo ha
visto, lo vede sempre. Da lui viene una traccia della luce nella
mia vita, che mi mostra la via, mi dà speranza e fiducia anche
nell’oscurità.

In questo modo la parola Padre trapassa spontaneamente


nella parola nostro. Io non posso dire ‘Padre’ a Dio da solo. Co-
me potrei osarlo? Lo posso fare soltanto perché, prima di me, lo
ha detto colui che lo poteva, che lo doveva. Lo posso perché
egli mi invita a parlare così insieme con lui. Ma se io parlo con
lui, allora io sono al tempo stesso con tutti coloro che egli ha vo-
luto far diventare suoi fratelli, miei fratelli. Quando io dico ‘Pa-
dre’, devo accettare il Noi dei suoi figli. Ma anche viceversa:
quando dico ‘Padre’, io so che sono in comunione con tutti i fi-
gli di Dio e tutti loro sono con me. Così il parlare a Dio non mi
distoglie dalla responsabilità per la terra e per gli uomini, ma
me la ridà in modo nuovo. Alla luce del pregare posso osare di
affrontarla.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

4.
Celebrare la fede

1. Abbiamo motivo di far festa?

In un mondo in cui, a ogni minuto, delle persone muoiono di


fame; in un mondo in cui guerre atroci tormentano, come si ve-
de, spietatamente e assurdamente gli esseri umani; in un mondo
in cui delle persone vengono calpestate, torturate e uccise per le
loro convinzioni; in un mondo in cui, malgrado ogni progresso,
e forse persino più che in passato, l’ingiustizia e la miseria eser-
citano il loro terribile dominio, in un mondo siffatto deve sem-
brare proprio una beffa che coloro che vi riescono si rifugino
nella beata dimenticanza o nello sfoggio borioso del far festa.
Ora, se far festa non è altro che il compiaciuto godere il proprio
benessere e la propria sicurezza, allora quello attuale non è cer-
to il momento di farlo. Ma è proprio questo il senso del far fe-
sta? Di quello cristiano delle origini certamente no! La festa cri-
stiana – per esempio la nascita del Signore – allude a qualcosa di
totalmente diverso: l’uomo esce dal mondo dei calcoli e delle
necessità, in cui lo blocca la quotidianità, e si raccoglie per pen-
sare alla sua origine. Per un istante si libera dalla dura logica
della lotta per l’esistenza e solleva lo sguardo al di là del suo
mondo ristretto, per guardare al tutto. Si lascia consolare dal-
l’amore e ascolta nella coscienza la parola di quell’amore che
egli trova nel Dio che è diventato bambino. E così diviene più
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88 Chi ci aiuta a vivere?

libero, più ricco e più puro. Se cercassimo di far festa in questo


modo, non dovrebbe forse alitare sulla terra un respiro di sollie-
vo, speranza per gli oppressi, richiamo per gli smemorati che
conoscono soltanto se stessi?

2. Il senso dell’avvento

Di fronte all’alienazione e al travisamento di cui sono fatti og-


getto, in misura crescente, l’avvento e il tempo di natale, nel-
l’ambito della chiesa stessa è sorta dal profondo della fede una
viva nostalgia per un vero avvento: si è fatta sentire l’insufficien-
za di una semplice disposizione d’animo, dei soli sentimenti, sia
pur tanto belli, e noi desideriamo nuovamente quel nucleo,
quel saldo e robusto nutrimento dello spirito, il cui ultimo ri-
flesso è rimasto nel sentimento pio ed edificante del «santo e
lieto tempo di natale». Qual è questo nucleo dell’esperienza
dell’avvento?
Si può partire dal termine stesso. ‘Avvento’ non significa, per
esempio, ‘attesa’, come si potrebbe pensare, ma è la traduzione
della parola greca parusía, che significa ‘presenza’ o, meglio an-
cora, ‘arrivo’, cioè presenza iniziata. Nell’antichità il termine
era usato abitualmente per parlare della presenza di un re o di
un sovrano o del Dio del culto, che dona ai suoi il tempo della
parusía. Avvento significa quindi presenza iniziata, presenza di
Dio stesso. L’avvento ci ricorda perciò due cose diverse: anzi-
tutto, che la presenza di Dio nel mondo è già incominciata, che
egli è già misteriosamente presente; in secondo luogo, che la sua
presenza è appena iniziata, non è ancora completa: essa deve
ancora crescere, divenire, maturare. La sua presenza è già inco-
minciata ed è per mezzo di noi credenti che egli vuol essere pre-
sente nel mondo. Mediante la nostra fede, la nostra speranza e il
nostro amore, egli vuol far risplendere continuamente la sua lu-
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Celebrare la fede 89

ce nella notte del mondo. Le luci, che noi accendiamo nelle not-
ti buie di questa stagione invernale, sono conforto e ammoni-
mento al tempo stesso: certezza incoraggiante che «la luce del
mondo» è già spuntata nell’oscurità della notte di Betlemme e
ha trasformato la notte infausta del peccato umano nella fausta
notte del perdono divino di questo peccato. Ammonimento:
questa vuole e può continuare a risplendere solo se splende in
coloro che, in quanto cristiani, continuano l’opera di Cristo at-
traverso i tempi. La luce di Cristo vuole illuminare la notte del
mondo mediante il nostro essere-luce. La sua presenza iniziata
deve crescere ulteriormente per opera nostra. Quando nella
notte santa vengono ripetutamente fatte risuonare le parole
«Hodie Christus natus est», noi dobbiamo ricordarci anche che
l’inizio di Betlemme vuole e deve divenire per mezzo nostro ini-
zio costante, che quella notte santa è e può essere veramente
‘oggi’, dovunque un uomo permetta alla luce del bene di pro-
rompere dal suo egoismo. Essa è ‘oggi’ dovunque la ‘parola’ si
fa nuovamente ‘carne’, realtà attuata. Pertanto, «Gesù bambino
viene» veramente dovunque ci si comporta realmente secondo
l’amore del Signore e non vengono solo scambiati dei doni.
Avvento significa arrivo già iniziato, ma anche solo iniziato,
del Signore. Due verità sono qui affermate: il cristiano non
guarda solo a ciò che è passato ed è stato, ma anche a ciò che
viene. In mezzo a tutte le catastrofi del mondo, egli sa con supe-
riore certezza che il seme della luce cresce di nascosto, finché
un giorno il bene vincerà definitivamente e tutto gli sarà sogget-
to: quando Cristo ritorna. Egli sa che la presenza di Dio, ora so-
lo incominciata, sarà un giorno presenza completa. E questo sa-
pere lo rende libero, gli dà una sicurezza estrema.
In fondo, si è già delineato con questo l’aspetto essenziale
dell’avvento. Ma la chiesa sa che l’uomo non vive di verità
astratte, ma di immagini concrete e così ci ha posto dinanzi agli
occhi l’idea dell’avvento in immagini viventi. Si può dire che la
liturgia dell’avvento formi una specie di trittico. Sulla prima ta-
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90 Chi ci aiuta a vivere?

vola di questa pala in tre parti vi è Giovanni Battista, la figura


davvero dominante dell’avvento. La tavola opposta mostra Ma-
ria, la madre del Signore. Tutt’e due indicano la pala centrale:
Cristo stesso. Giovanni Battista e Maria sono i due grandi tipi
della vita dell’avvento. Essi dominano quindi la liturgia di que-
sto periodo.
Fermiamoci a considerare anzitutto Giovanni Battista! Esi-
gente e operante, egli sta dinanzi a noi, simbolo del dovere
umano. Egli chiama severamente alla metánoia, a cambiare
mentalità. Chi vuol diventare cristiano deve continuamente
‘cambiare mentalità’. Il nostro atteggiamento naturale ci porta a
voler affermare noi stessi, a rendere pan per focaccia, a porci
nel mezzo. Chi vuol trovare Dio, deve continuamente conver-
tirsi interiormente, andare in direzione diversa. E questo vale
per tutto lo stile di concepire la vita. Ogni giorno ci imbattiamo
nel mondo del visibile. Irrompe in noi sui manifesti, alla radio,
nel traffico, in tutte le circostanze della vita quotidiana, con una
potenza tale che siamo tentati di pensare che non ci sia altro che
questo. Ma, in realtà, l’invisibile è più grande e vale più di tutto
il visibile. Una sola anima – ci dice una meravigliosa espressione
di Pascal – vale più di tutto l’universo visibile. Ma, per speri-
mentare nella vita questa verità, è necessario convertirsi, rigirar-
si per così dire interiormente, superare l’illusione del visibile e
divenire sensibili, attenti e delicati nei confronti dell’invisibile;
considerarlo più importante di tutto ciò che ci assale così pre-
potentemente tutti i giorni. Metanoéite: cambiate mentalità, af-
finché voi conserviate la presenza di Dio nel mondo; cambiate
mentalità, affinché Dio sia presente in voi e, per mezzo di voi,
nel mondo. Neppure a Giovanni fu risparmiato questo pesante
processo del cambiare mentalità, del dovere della conversione,
questa «alchimia dell’essere» (de Lubac). Lo vediamo già al-
l’inizio, quando grida nel deserto e deve annunciare colui che
neppure lui conosce. Questo è anche il destino del sacerdote, di
ogni cristiano che annuncia il Cristo: anche noi lo conosciamo e
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Celebrare la fede 91

non lo conosciamo! Anche noi, nel buio della nostra personale


ignoranza, dobbiamo deporre testimonianza per colui che pur-
troppo conosciamo ancora e sempre troppo poco. Ma la vera
passione di Giovanni, questo vero e proprio processo di rifusio-
ne in Dio di tutto il suo essere, inizia solamente con l’attività di
Cristo, nel periodo in cui egli era in carcere. Il buio della prigio-
ne non fu il buio più terribile che Giovanni dovette sopportare.
Il suo vero buio fu ciò che Martin Buber chiama «tenebra di
Dio», l’improvvisa incertezza nei confronti della sua missione e
di colui al quale aveva cercato di preparare la strada. Egli aveva
profetizzato la venuta del giudice con espressioni cariche di in-
fiammata potenza e aveva dipinto il grande giorno del Signore
con tinte ardenti. Aveva descritto il Messia come il giudice che
tiene in mano il ventilabro per setacciare la pula del grano e get-
tare la pula in un fuoco inestinguibile. Lo aveva descritto come
colui che rigetta questa generazione adultera e, se necessario, fa
sorgere dalle pietre figli di Abramo, al posto di questi infedeli
che si dicono figli di Abramo. Lo aveva raffigurato come colui
che ha già posto la scure alla radice dell’umanità, per abbattere
l’albero. In mezzo soprattutto alla spaventosa ambiguità di que-
sto mondo, in cui attendiamo e aspettiamo costantemente nella
tenebra, egli aveva sperato e annunciato l’assoluta chiarezza:
verrà alla fine il giorno in cui si dileguerà questo buio fitto, che
getta continuamente l’uomo di qua e di là, così che questi non
sa più dove battere la testa. Arriverà l’assoluta chiarezza, di mo-
do che l’uomo non procederà più a tastoni come attraverso una
nebbia interminabile, ma ci sarà luce: questa, e non altra, è la
chiara pretesa di Dio nei confronti dell’uomo; così, e non altri-
menti, stanno le cose per quanto riguarda l’uomo e Dio. Frat-
tanto, però, era arrivato colui che, per incarico divino, il suo di-
to profetico doveva indicare: «Ecco l’agnello di Dio, che toglie i
peccati del mondo»! La presenza di Dio era incominciata… Ma
quanto diversamente da come se l’era immaginata! Non cadde
un fuoco dal cielo per consumare i peccatori e dare ai credenti
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92 Chi ci aiuta a vivere?

la conferma definitiva; proprio nulla mutava nel mondo. Gesù


passava per il mondo predicando e compiendo opere buone.
L’ambiguità rimaneva. La vita umana continuava a essere il mi-
stero oscuro che l’uomo deve avere il coraggio di vivere, cre-
dendo e sperando, nell’oscurità del mondo. Era chiaramente
questo aspetto tutto diverso di Gesù che lo tormentava fin nel
più profondo dell’animo, nelle lunghe notti del suo carcere.
Questo persistere del buio di Dio: l’oscurità di Dio e l’imper-
turbabile procedere di una storia del mondo che così spesso è
in stridente contrasto con la fede. Pressato da questa situazio-
ne, manda l’ambasciata al Signore: «Sei tu colui che deve venire
o dobbiamo aspettare un altro»? È una domanda che, durante
le notti dei bombardamenti dell’ultima guerra e in tutte le mise-
rie della nostra stessa vita, ci è venuto spontaneo porre ripetuta-
mente a Gesù: sei tu veramente la redenzione del mondo? Lo
sei davvero? Era questo allora tutto ciò che Dio aveva da dirci?
Nella sua risposta, Gesù si richiama al profeta Isaia, che aveva
profetizzato proprio questo Messia tranquillo e soccorritore,
che «non grida e non fa chiasso per le strade», ma procede pre-
dicando e compiendo buone opere, e, per completare il qua-
dro, pronuncia la significativa espressione: «Beato chi non si
scandalizza per causa mia». Ciò vuol dire che ci si può scanda-
lizzare di lui. Significa che non si viene posti in una chiarezza
assoluta, che toglie a uno ogni problema e risolve ogni enigma,
ma ci si può scandalizzare. Ma, si aggiunge: beato chi non si
scandalizza. Beato quindi chi smette di chiedere segni e una
certezza definitiva. Beato chi si raccapezza, in questo buio, a
proseguire il suo cammino, credendo e amando. Fu proprio
questo il compito ultimo, dato al Battista nella sua prigionia:
raggiungere la beatitudine in questa indiscussa accettazione
della volontà di Dio; arrivare a non desiderare più un’evidenza
e una chiarezza esteriori, ma scoprire Dio proprio nell’oscurità
del mondo e della propria vita, ed essere così beati fino in fon-
do. In effetti, non si può vedere Dio come si vede un melo o una
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Celebrare la fede 93

pubblicità luminosa, in maniera esteriore, senza attività interna.


Lo possiamo vedere solo divenendo noi stessi simili a Dio, met-
tendoci sul piano in cui egli si trova. L’uomo deve liberarsi di se
stesso, liberandosi degli dèi opposti: la caccia alla concupiscen-
za, al piacere, al possesso, al guadagno. Tra noi e Dio vi è, in de-
finitiva, il nostro io. Si può vedere Dio solo cambiando vita,
smettendo di cercarlo come si possono cercare dei cartelli stra-
dali o delle banconote, cominciando a distogliere l’occhio dal
visibile per rivolgerlo all’invisibile. Così Giovanni stesso, in car-
cere, deve realizzare ancora una volta la sua richiesta del meta-
noéin, per conoscere il suo Dio nella notte di tutto ciò che è ter-
reno. «Beato chi non si scandalizza per causa mia». Anche al
cristiano di oggi non può essere indicata altra strada che condu-
ce all’accordo con Dio, se non quella di smettere di ricercare
un’assoluta chiarezza esteriore e di ricominciare a distogliere lo
sguardo dal visibile, per rivolgerlo all’invisibile, e trovare così
realmente il Signore, che regge e sostiene la nostra vita. Solo in
questo modo, anche l’altra parola del Battista, la sua più grande
parola, acquista il suo senso pieno: «Egli deve crescere, io devo
diminuire». Conosceremo Dio nella misura in cui diverremo li-
beri da noi stessi. Siamo così ritornati nel pieno del tema del-
l’avvento: conosceremo Dio nella misura in cui noi stessi fare-
mo spazio alla sua presenza. Chi non continuerà, nella sua stes-
sa vita, la presenza iniziata di Dio, ricercherà invano Dio per
tutta la vita.
La seconda tavola del trittico dell’avvento mostra Maria, la
pura serva del Signore. A prima vista, il suo messaggio è di na-
tura completamente diversa: non è il tipo dell’agire maschile,
ma della femminile disponibilità a ricevere. Ogni giorno, nella
celebrazione del Rorate, noi leggiamo il vangelo dell’annuncio a
Maria e del miracoloso concepimento del Figlio di Dio. «L’an-
gelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea che
ha nome Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo di nome
Giuseppe, della casa di Davide, e il nome della vergine era Ma-
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94 Chi ci aiuta a vivere?

ria. Entrato da lei, disse: “Salve piena di grazia…!”». Un’ora


decisiva per la storia del mondo: qui, in questo punto, infatti, è
veramente incominciata in senso pieno la presenza di Dio tra gli
uomini. Qui si è verificato realmente l’‘avvento’. Ma riflettiamo:
questa ora decisiva della storia del mondo fu, al tempo stesso,
una delle sue ore più silenziose e quiete. Un’ora dimenticata,
che nessun giornale ha segnalato e della quale nessuna rivista ha
fatto o avrebbe fatto menzione, se già allora ci fosse stato qual-
cosa del genere. Pertanto, ciò che qui ci viene detto è innanzi-
tutto un mistero di silenzio. Quello che è veramente grande cre-
sce inosservato e il silenzio è più fruttuoso, a suo tempo, di un
ininterrotto attivismo, che troppo facilmente si riduce a un in-
sulso correre a vuoto. Noi tutti, in questa epoca di americaniz-
zazione della vita pubblica, siamo ossessionati da una strana ir-
requietezza, che subodora una perdita di tempo a ogni momen-
to di silenzio e di tranquillità. È calcolato e ponderato ogni
grammo di tempo e così noi dimentichiamo il vero segreto del
tempo, il vero segreto della crescita e dell’azione: la quiete…
Anche in campo religioso è così: attendiamo e speriamo tutto
dalla nostra opera; con ogni sorta di imprese e di progetti scan-
siamo, senza accorgercene, quello che è il vero segreto della cre-
scita interiore dinanzi a Dio. Eppure, in campo religioso, il rice-
vere ha perlomeno importanza pari al fare. Questa osservazione
ci conduce a un secondo aspetto: il mistero dell’annuncio a Ma-
ria non è soltanto un mistero di silenzio, è prima di tutto e ancor
più un mistero di grazia. Ci si deve chiedere, infatti: perché Cri-
sto volle proprio nascere da una vergine? Per sé sarebbe stato
possibilissimo nascere da un matrimonio normale: non avrebbe
affatto pregiudicato la sua filiazione divina, che è indipendente
dalla sua nascita verginale e sarebbe stata concepibile anche al-
trimenti. Non si tratta qui della svalutazione del matrimonio e
della comunità matrimoniale; neppure si vuol significare che
soltanto così la filiazione divina sarebbe stata assicurata. Di che
si tratta, allora? Lo si capisce se si apre l’Antico Testamento e si
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Celebrare la fede 95

vede che qui il mistero di Maria è stato preannunciato e prepa-


rato in molti momenti importanti della storia della salvezza. Si
inizia con Sara, la madre di Isacco, che è sterile e solo in avanza-
ta vecchiaia, quando le sue forze vitali si sono spente, per opera
di Dio diviene madre di Isacco e, quindi, del popolo eletto. Si
prosegue con Anna, la madre di Samuele, che, pur essendo ste-
rile, riesce a partorire. Lo stesso dicasi della madre di Sansone e
poi di Elisabetta, la madre di Giovanni Battista. In tutti questi
casi, il significato dell’evento è uguale: la salvezza non viene mai
dall’uomo e dai suoi poteri, ma soltanto da Dio, dalla sua azione
di grazia. Pertanto, Dio interviene là dove umanamente non c’è
più nulla da fare, nel vuoto assoluto. Egli suscita il portatore
della promessa dal grembo spento di Sara e attua questa legge
fino alla nascita del Signore dalla Vergine. Questa legge è for-
mulata per esteso in Is 51,1 (= Gal 4,27): «Esulta, o sterile che
non hai partorito, giubila, esulta e tripudia, tu che non hai pro-
vato le doglie, perché i figli della derelitta sono più numerosi
dei figli della maritata», dice il Signore. Il senso di tutto ciò – ri-
petiamolo ancora una volta – è (in Rm 4 viene chiaramente sot-
tolineato) che la salvezza del mondo è pura azione di Dio e sor-
ge quindi dalla debolezza e dall’impossibilità dell’umano. Nella
visione biblica, la nascita verginale non vuole in definitiva affer-
mare altro che la pura gratuità di ciò che qui accade. È il simbo-
lo della grazia, la più concreta realizzazione della parola di Ma-
ria: «Ha rovesciato i superbi dai loro troni e innalzato gli umi-
li». Ma, grazie a questo mistero di grazia, realizzatosi in lei, Ma-
ria non viene allontanata da noi, resa inavvicinabile, semplice (e
perciò anche vuoto, inutile) prodigio, ma diviene segno inco-
raggiante della grazia: annuncia il Dio, la cui luce illuminò i pa-
stori ignoranti e la cui misericordia sollevò i piccoli in Israele e
nel mondo. Annuncia il Dio che «è più grande del nostro cuo-
re» (1 Gv 3,20) e la cui grazia è più forte di ogni nostra debolez-
za che egli ha già anticipatamente superato e vinto. E se Gio-
vanni rappresenta la severità scuotitrice della richiesta divina,
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96 Chi ci aiuta a vivere?

Maria ne esprime la gioia nascosta, ma profonda. «Gioite nel Si-


gnore sempre! Di nuovo ve lo dico: gioite!».
Quello della gioia è un concetto fondamentale del cristianesi-
mo in genere, il quale è e vuole essere, per sua essenza, ‘evange-
lo’, lieta notizia. Eppure, il mondo ha perso la fiducia nel vange-
lo, in Cristo, e lascia la chiesa in nome di quella gioia che sareb-
be sottratta all’uomo dal cristianesimo stesso, a causa di tutte le
sue innumerevoli prescrizioni e divieti. Certo, questo è vero: la
gioia di Cristo non è così facile da trovare come il piacere bana-
le che deriva da un qualsiasi diletto. Sarebbe sbagliato, tuttavia,
interpretare le parole «Gioite nel Signore» come se si volesse af-
fermare «Gioite, ma nel Signore», quasi che nella seconda frase
fosse revocato ciò che è detto nella prima. Si dice semplicemen-
te «Gioite nel Signore», poiché l’apostolo crede evidentemente
che ogni gioia vera è racchiusa nel Signore e che al di fuori di lui
non esiste gioia vera. Ed è altrettanto vero che, in concreto, ogni
gioia che si verifica al di fuori o contro di lui non soddisfa, ma
spinge continuamente l’uomo in un vortice, nel quale finisce col
non trovare più un momento di gioia. Così, abbiamo qui biso-
gno di sentirci dire che solamente con Cristo è apparsa la gioia
vera e che, nella nostra vita, non importa altro che imparare a
vedere e a comprendere Cristo, il Dio della grazia, la luce e la
gioia del mondo. La nostra gioia sarà vera, infatti, solo se non si
fonda più sulle cose, che ci possono esser tolte e rovinate, ma se
getta le radici nell’intima profondità della nostra esistenza,
quella profondità che nessuna potenza del mondo può sottrar-
ci. E ogni perdita esteriore dovrebbe trasformarsi per noi in
un’introduzione a questa interiorità e renderci più maturi per la
nostra vera vita.
Appare chiaro allora che le due tavole laterali del trittico del-
l’avvento, Giovanni e Maria, richiamano e rimandano ambedue
alla tavola centrale, a Cristo: solo partendo da lui e riferendosi a
lui esse sono comprensibili. Celebrare l’avvento significa – lo ri-
petiamo – ridestare in se stessi la presenza nascosta di Dio. Co-
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Celebrare la fede 97

me ciò avvenga, ce lo mostrano Giovanni e Maria. Basta percor-


rere la strada del cambiamento di vita, del mutamento di men-
talità, liberarci dal visibile per l’invisibile. Così facendo, aprire-
mo gli occhi al prodigio della grazia e impareremo che per l’uo-
mo e per il mondo non vi può essere gioia più luminosa di quel-
la della grazia apparsa in Cristo. Il mondo non è un congegno di
fatica e di sofferenza, vuoto di speranza, ma ogni sua pena è al
sicuro, in un’amorosa pietà, è captata e superata dalla clemenza
misericordiosa e salvatrice del nostro Dio. Chi celebra così l’av-
vento, potrà con diritto parlare del lieto e santo tempo di natale,
portatore di grazia. Ed egli si accorgerà della verità di questa
espressione più di quanto possono credere e sospettare coloro
per i quali il natale è solamente un sentimento romantico o, ad-
dirittura, una specie di divertimento carnevalesco ridotto.

3. Cristo, il salvatore, è qui

Le luci del natale risplendono nuovamente nelle nostre stra-


de, l’operazione natale è in pieno svolgimento. Per un momen-
to, anche la chiesa viene resa partecipe, per così dire, della con-
giuntura favorevole: nella notte santa le case di Dio si stipano di
tutte quelle persone che poi, per molto tempo, passeranno nuo-
vamente dinanzi alle porte delle chiese come davanti a qualcosa
di molto lontano ed estraneo, che non li riguarda. Ma, in questa
notte, chiesa e mondo sembrano per un istante riconciliati. Ed è
davvero bello! Le luci, l’incenso, la musica, lo sguardo delle
persone che riescono ancora a credere e, infine, il misterioso e
antico messaggio del bambino, nato molto tempo fa a Betlem-
me e chiamato il redentore del mondo: «Cristo, il salvatore, è
qui!». Questa idea ci commuove. Eppure, i concetti che ora
udiamo di ‘redenzione’, ‘peccato’, ‘salvezza’ risuonano come
parole provenienti da un mondo da tempo ormai passato; forse
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98 Chi ci aiuta a vivere?

questo mondo era bello, ma, in ogni caso, non è più il nostro. O
lo è, invece? Il mondo in cui sorse la festa di natale era domina-
to da un sentimento che è molto simile al nostro. Si trattava di
un mondo in cui il ‘crepuscolo degli dèi’ non era uno slogan, ma
un fatto reale. Gli antichi dei erano a un tratto divenuti irreali:
non esistevano più, la gente non riusciva più a credere ciò che
per generazioni aveva dato senso e stabilità alla vita. Ma l’uomo
non può vivere senza senso, ne ha bisogno come del pane quoti-
diano. Così, tramontati gli antichi astri, egli dovette cercare
nuove luci. Ma dov’erano? Una corrente abbastanza diffusa gli
offriva come alternativa il culto della ‘luce invitta’, del sole, che
giorno dopo giorno percorre il suo corso sopra la terra, sicuro
della vittoria e forte, quasi come un dio visibile di questo mon-
do. Il 25 dicembre, al centro com’è dei giorni del solstizio inver-
nale, doveva essere commemorato come il giorno natale, ricor-
rente ogni anno, della luce che si rigenera in tutti i tramonti, ga-
ranzia radiosa che, in tutti i tramonti delle luci caduche, la luce
e la speranza del mondo non vengono meno e da tutti i tramonti
si diparte una strada che conduce a un nuovo inizio.
Le liturgie della religione del sole avevano molto abilmente
assunto un’angoscia e una speranza originarie dell’uomo. L’uo-
mo primitivo che, in passato, nelle notti sempre più lunghe
d’autunno e nella forza sempre più debole del sole, aveva avver-
tito l’arrivo dell’inverno, si era chiesto ogni volta con angoscia:
muore davvero il sole dorato? Ritornerà? O finirà, quest’anno o
un altr’anno, con l’esser vinto dalle forze maligne delle tenebre,
così da non ritornare mai più? Il sapere che ogni anno ritornava
il solstizio d’inverno garantiva in fondo la certezza della rinno-
vata vittoria del sole, del suo sicuro e perpetuo ritorno. È la fe-
sta in cui si compendia la speranza, anzi, la certezza dell’indi-
struttibilità delle luci di questo mondo. Quest’epoca, nella qua-
le alcuni imperatori romani avevano cercato di dare ai loro sud-
diti, in mezzo all’inarrestabile caduta delle antiche divinità, una
fede nuova con il culto del sole invitto, coincide col tempo in
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Celebrare la fede 99

cui la fede cristiana tese la sua mano all’uomo greco-romano.


Essa trovò nel culto del sole uno dei suoi nemici più pericolosi.
Tale segno, infatti, era posto troppo palesemente davanti agli
occhi degli uomini, in maniera molto più palese e allettante del
segno della croce, col quale procedevano gli araldi cristiani.
Ciononostante, la fede e la luce invisibile di questi ultimi ebbe-
ro il sopravvento sul messaggio visibile, col quale l’antico paga-
nesimo aveva cercato di affermarsi.
Molto presto i cristiani rivendicarono per loro il 25 dicem-
bre, il giorno natale della luce invitta, e lo celebrarono come na-
tale di Cristo, come giorno in cui essi avevano trovato la vera lu-
ce del mondo. Essi dissero ai pagani: il sole è buono e noi ci ral-
legriamo non meno di voi per la sua continua vittoria, ma il sole
non possiede alcuna forza da se stesso. Può esistere e aver forza
solo perché Dio lo ha creato. Esso ci parla quindi della vera lu-
ce, di Dio. È il vero Dio che si deve celebrare, la sorgente origi-
naria di ogni luce, non la sua opera, che non avrebbe alcuna for-
za da sola. Ma questo non è ancora tutto, non è ancora la cosa
più importante. Non vi siete accorti forse che esistono un’oscu-
rità e un freddo, nei riguardi dei quali il sole è impotente? È
quel freddo che sorge dal cuore ottenebrato dell’uomo: odio,
ingiustizia, cinico abuso della verità, crudeltà e degradazione
dell’uomo… A questo punto, ci accorgiamo, come d’improvvi-
so, che tutto questo è per noi stimolante e attuale, sentiamo che
il dialogo del cristiano con gli adoratori romani del sole è, al
tempo stesso, il dialogo del credente di oggi col suo fratello in-
credulo, è il dialogo incessante tra fede e mondo. Ma, si dice, la
paura primitiva che il sole potrebbe un giorno morire, da tempo
ormai non ci preoccupa più. La fisica, col fresco alito delle sue
chiare formule, l’ha da tempo uccisa. È vero, l’angoscia primiti-
va è passata, ma si può dire che l’angoscia sia con questo davve-
ro scomparsa? O, forse, non è sempre l’uomo un essere d’ango-
scia, a tal punto che la filosofia odierna indica l’angoscia addi-
rittura come ‘esistenziale fondamentale’ dell’uomo? Quale pe-
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100 Chi ci aiuta a vivere?

riodo della storia dell’umanità ha sperimentato, più del nostro,


un’angoscia maggiore di fronte al proprio futuro? Forse l’uomo
di oggi si accanisce nel presente solo perché non riesce a guar-
dare in faccia il futuro: il solo pensarvi gli procura degli incubi.
In altre parole, non abbiamo più paura che il sole possa esser
vinto un giorno dalle tenebre e non ritorni più. Ma noi temiamo
l’oscurità che viene dagli uomini. Abbiamo così scoperto la vera
tenebra e, in questo secolo di inumanità, la avvertiamo più spa-
ventosa di quanto poterono pensare le generazioni che ci hanno
preceduto. Abbiamo paura che il bene divenga davvero impo-
tente nel mondo, che a poco a poco non abbia più senso sfor-
zarsi a praticare verità, purezza, giustizia, amore, perché ormai
nel mondo vale la legge di chi meglio sa farsi strada a gomitate,
perché il cammino del mondo dà ragione a chi è senza scrupoli,
ai brutali, non ai santi. Infatti, vediamo dominare il denaro, la
bomba atomica, il cinismo di coloro per i quali non esiste nulla
di sacro. Sovente ci sorprendiamo in preda al timore che, alla fi-
ne, non vi sia alcun senso nel caotico corso di questo mondo, e
ci pare che, in definitiva, la storia del mondo non distingua altro
che gli stolti e i forti… Regna la sensazione che le forze oscure
aumentano, che il bene è impotente. Alla vista del mondo, ci co-
glie d’improvviso quel sentimento che, in passato, le persone
dovettero provare quando, in autunno e inverno, il sole sembra-
va combattere la sua agonia. Vincerà, il sole, questa battaglia? Il
bene otterrà senso e forza nel mondo? Nella stalla di Betlemme
ci è offerto il segno che ci fa rispondere lieti: sì. Infatti, questo
bambino – il Figlio unigenito di Dio – è posto come segno e ga-
ranzia che, nella storia del mondo, l’ultima parola spetta a Dio,
a lui che è la verità e l’amore. Questo è il senso vero del natale: è
il «giorno in cui nasce la luce invitta», il solstizio d’inverno della
storia mondiale. In mezzo all’altalena di questa storia ci è data
la certezza che la luce non morirà, ma tiene già nelle sue mani la
vittoria finale. Il natale allontana da noi la seconda, più grande
angoscia, che nessuna fisica può disperdere, la paura per l’uo-
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Celebrare la fede 101

mo e dell’uomo stesso. Noi possediamo la certezza divina che la


luce ha già vinto nella profondità occulta della storia e che tutti i
progressi del male nel mondo, per grandi che essi siano, non
possono assolutamente cambiare le cose. Il solstizio invernale
della storia si è irrevocabilmente verificato con la nascita del
bambino di Betlemme.
Ma qualcosa sorprende certamente in questa nascita della lu-
ce, in questo ingresso del bene nel mondo, e ciò potrebbe tor-
nare a riempirci di un’inquietante certezza e farci chiedere se il
fatto grande di cui parliamo sia realmente avvenuto lì, nella stal-
la di Betlemme. Il sole è grande, magnifico e potente; nessuno
può ignorare la sua annuale corsa trionfale. Il suo creatore non
dovrebbe essere ancora più potente e più inconfondibile nella
sua venuta? Questo sorgere del sole della storia non dovrebbe
inondare il volto della terra di indicibile splendore? E invece…
Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla il vangelo! O, forse, de-
v’essere proprio questa povertà, l’insignificanza per il mondo, il
segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza? A prima vi-
sta, questa sembrerebbe un’idea inconcepibile. Eppure, chi ap-
profondisce il mistero del governo divino, quale appare soprat-
tutto negli scritti dell’antica e della nuova Alleanza, capisce
sempre più chiaramente che esiste un duplice segno di Dio. Vi
è, anzitutto, il segno della creazione, che, tramite la sua gran-
dezza e magnificenza, ci fa presentire colui che è ancora più
grande e magnifico. Ma, accanto a questo segno, si fa avanti
sempre più fortemente l’altro, il segno costituito da ciò che è in-
significante per il mondo: con esso Dio si afferma come total-
mente altro nei confronti di tutto il mondo, per farci così capire
che egli non può essere misurato con i criteri di questo mondo,
che egli sta al di là di ogni sua dimensione. Forse, il miglior mo-
do per comprendere questa singolare opposizione dei due se-
gni, in cui Dio si afferma, e per capire la natura del secondo se-
gno, del segno dell’umiltà, è quello di guardare all’opposizione
che esiste tra la predicazione messianica di Giovanni Battista e
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102 Chi ci aiuta a vivere?

la realtà messianica di Gesù stesso. Giovanni aveva descritto co-


lui che doveva venire secondo le concezioni veterotestamenta-
rie, in modo grandioso, come colui che pone la scure alla radice
dell’umanità, come giudice pieno di collera santa e di potenza
divina. Come è diverso quando viene! Egli è il Messia che non
grida e non fa chiasso per le strade, che non spezza la canna in-
crinata e non spegne lo stoppino dall’esile fiamma (Is 42,2s.).
Giovanni aveva saputo che sarebbe stato più grande di lui, ma
non aveva conosciuto la natura della sua grandezza: essa consi-
ste nell’umiltà, nell’amore, nella croce, in quei valori della se-
gretezza e del silenzio che Gesù stabilisce nel mondo come su-
premi valori. La vera grandezza non risiede, in definitiva, nella
grandezza delle dimensioni fisiche, ma in ciò che non risulta più
misurabile per mezzo di esse. In verità, ciò che secondo le misu-
re fisiche è grande, è solo una forma molto provvisoria di gran-
dezza. In questo mondo i veri e supremi valori si presentano
proprio sotto il segno dell’umiltà, della segretezza, del silenzio.
Ciò che è essenzialmente grande nel mondo, ciò da cui dipende
il suo destino e la sua storia, è quello che appare piccolo ai no-
stri occhi. A Betlemme Dio, il quale aveva scelto come suo po-
polo il piccolo e dimenticato popolo d’Israele, ha posto definiti-
vamente il segno della piccolezza come distintivo essenziale del-
la sua presenza in questo mondo. Ecco la decisione – la fede –
della notte santa: noi lo dobbiamo accogliere in questo segno e
fidarci di lui senza mormorare. Accoglierlo significa porre se
stessi sotto questo segno, sotto la verità e l’amore, che sono i va-
lori più alti e più simili a Dio e, al tempo stesso, i più dimenticati
e più silenziosi.
Mi sia concesso, a conclusione, di narrare una storia della mi-
tologia indiana, che ha presentito in maniera davvero sorpren-
dente questo mistero della piccolezza divina. In uno dei miti
che circondano la figura di Visnu si dice che gli dèi sarebbero
stati sopraffatti dai demoni e avrebbero dovuto stare a guardarli
mentre essi si dividevano tra loro il mondo. Escogitarono allora
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Celebrare la fede 103

un sotterfugio: chiesero ai demoni solo tanta terra quanta il mi-


nuscolo corpo nano di Visnu riusciva a coprire. Gli spiriti mali-
gni acconsentirono. Una cosa però non avevano sospettato: Vi-
snu, il nano, era il sacrificio che compenetrava il mondo intero e
così, per mezzo suo, il mondo fu restituito agli dèi. Questo rac-
conto può sembrare a qualcuno come un sogno, che, attraverso
appunto la confusa prospettiva del sogno, fa sospettare la figura
del reale. In effetti, è la minuscola realtà del sacrificio, dell’amo-
re vicario, che alla fine si dimostra più forte di ogni potenza dei
forti e che, alla fine, compenetra e trasforma il mondo con la sua
misera insignificanza. Nel bambino di Betlemme, tale potenza
invincibile dell’amore divino è entrata in questo mondo. Que-
sto bambino è l’unica vera speranza del mondo. E noi siamo
chiamati a metterci dalla sua parte; ad affidarci a Dio, il cui se-
gno sono divenute la piccolezza e la bassezza. Ma, in questa
notte, il nostro cuore dev’essere riempito di grande gioia, per-
ché, malgrado tutte le apparenze, è e rimane vero che Cristo, il
nostro salvatore, è qui.

4. Meditazione per la sera di san Silvestro

Si conclude un anno. Questo comporta sempre un momento


di riflessione. Vengono fatti i bilanci, si tenta una previsione per
il futuro. Per un istante ci accorgiamo di questa strana realtà
‘tempo’, che altre volte usiamo semplicemente senza accorger-
cene, proviamo la malinconia e il conforto della transitorietà
delle cose. Molto di ciò che ci oppresse, di ciò che fu pesante
per noi e sembrò renderci impossibile proseguire, è passato ed è
divenuto singolarmente insignificante. A uno sguardo retro-
spettivo, i giorni duri appaiono piuttosto trasfigurati e l’affan-
no, ormai quasi dimenticato, ci permette di essere più tranquilli
e più fiduciosi, più calmi di fronte a ciò che ci sovrasta: anch’es-
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104 Chi ci aiuta a vivere?

so passerà. Conforto della transitorietà: nulla dura, per quanto


sembri importante; ma questa parola consolatrice, che dà alla
speranza la sua grande promessa, possiede in sé anche qualcosa
di scoraggiante e di mesto. Nulla dura: con l’anno vecchio non
sono solamente passati molti affanni, ma anche alcune cose bel-
le e, quanto più una persona supera il mezzo del cammino di
sua vita, tanto più fortemente esperimenta il trasformarsi in
passato di ciò che per lei una volta era futuro e presente. Non
può dire all’attimo che fugge: «Fermati, sei tanto bello»; ciò che
è tempo se ne va, come è venuto.
Nei confronti dell’anno nuovo, proviamo gli stessi differenti
sentimenti come verso quello vecchio: vi sono la preziosità del
nuovo inizio, la sua speranza, le sue intatte possibilità. «In ogni
inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vi-
vere», fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo Das Gla-
sperlenspiel [Il giuoco delle perle di vetro], nell’istante in cui egli,
in età avanzata, fugge dal mondo abituale del gioco spirituale,
per provare ancora una volta la carica di promessa, l’eccitazione
e la grandezza di un nuovo inizio. Ma, contemporaneamente,
esiste anche l’inquietudine di un futuro, del quale non cono-
sciamo le strade, e vi è l’incessante venir meno della nostra par-
tecipazione al futuro.
Che si deve dire come cristiani in quest’ora di passaggio?
Compiere, almeno adesso, qualcosa di veramente umano, a cui
ci spinge appunto quest’ora: sfruttare questo momento di rifles-
sione per prendere le distanze, per farsi un’idea generale, per
acquistare libertà interiore e paziente disponibilità a prosegui-
re. Un antico filosofo ha fatto notare un giorno che l’uomo si
differenzia essenzialmente dall’animale perché egli, per così di-
re, sporge con la sua testa fuori dall’acqua del tempo. Le bestie
sono in essa come pesci natanti trasportati dal tempo; soltanto
l’uomo può uscirne col suo sguardo e dominare così il tempo.
Ma facciamo realmente così? Non siamo forse anche noi dei
semplici pesci, immersi nel mare del tempo, che vengono tra-
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Celebrare la fede 105

sportati dalle sue correnti, senza poter scorgere i termini di que-


sto andare? Non siamo forse sempre presi dagli impegni parti-
colari di ogni giorno, dai suoi costanti bisogni e necessità? Non
passiamo forse da appuntamento ad appuntamento, da dovere
a dovere, al punto che non riusciamo più ad accorgerci di noi
stessi?
Ma, allora, dovrebbe essere questo il momento di venire a
galla e cercare di guardare, per un istante, il cielo che sta sopra il
mare e le stelle che stanno sopra di noi, per cogliere contempo-
raneamente noi stessi. Dovremmo cercare di esaminare il cam-
mino che abbiamo percorso e trovare delle valutazioni. Do-
vremmo cercare di conoscere ciò che c’è stato di errato, quello
che ha impedito l’accesso a noi stessi e agli altri. Dovremmo co-
noscerlo, per tenercene interiormente lontani, affinché il cam-
mino dell’anno nuovo sia realmente per noi un progresso, un
andare avanti. Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contem-
poranei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi
stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o
del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo
sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni
un’epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mu-
tevole natura del loro essere. Ma può il tempo andare veramen-
te avanti, se gli uomini non camminano? E vanno essi avanti, se
solo le loro comodità progrediscono, ma il loro cuore resta fer-
mo o, addirittura, avvizzisce? E può l’uomo progredire quando
non conosce affatto se stesso, quando ha tempo solo per ciò che
possiede e mai per ciò che egli è, se egli stesso quindi rimane al
di fuori del tempo? Come può imparare a distinguere ciò che è
prezioso da ciò che è falso, a tutelare il primo e tralasciare l’al-
tro? Come trovare un orientamento, se rimane solo pesce nel-
l’acqua del tempo e non si fa vero uomo con la testa rivolta ver-
so l’alto?
Siamo noi uomini il tempo! Proseguiamo nella considerazio-
ne di questa memorabile espressione. Scopriamo allora che lo
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106 Chi ci aiuta a vivere?

stesso essere uomo vive in flussi diversissimi: fanciullezza, giovi-


nezza, periodo della maturità, vecchiaia. Oggi, però, questi flus-
si si scompongono più che in passato. È come se i più vecchi vi-
vessero in un tempo diverso da quello in cui vivono i giovani, e
gli uni e gli altri si contendono reciprocamente il tempo. A un
esame più attento, il quadro diviene ancora più sconvolgente.
Da una parte, ciò che l’uomo si aspetta dalla vita è aumentato;
egli ha più tempo che in passato o, meglio, la spanna di tempo
che gli è data per la vita è diventata più lunga. D’altra parte, la
vita dell’uomo muta sempre più rapidamente, egli si logora
sempre più in fretta, così che la differenza tra passato e presente
aumenta costantemente, il presente s’abbrevia sempre più e ciò
che è trascorso si distanzia sempre più in fretta e chiaramente
dal presente. Ma ciò vuol dire che l’uomo è sempre più respinto
nel passato e vi appartiene. Significa, inoltre, che in un solo tem-
po devono coesistere tempi sempre più diversi e che vi dovran-
no essere tensioni sempre crescenti in un medesimo tempo, il
quale, pertanto, è costituito da una contraddittoria coesistenza
di tempi. L’uomo ha rapporti sempre più difficili con se stesso e
gli diventa più difficile accettare la sua temporalità, perché deve
avvertirla sempre più acutamente come transitorietà, come uno
scivolare nel passato e, quindi, come disperazione.
La conseguenza di tutto ciò non è solamente il conflitto di ge-
nerazioni, che sperimentano quotidianamente; si fa sentire an-
che nel fatto che l’uomo rinnega il suo tempo e vuol ammettere
una sola età: la giovinezza. In un’epoca il cui sostegno interiore
e la cui forza normativa era la tradizione, l’età privilegiata era
quella del vecchio. Nel linguaggio della chiesa, questa verità è
conservata ancora dal termine ‘prete’, che deriva dal greco pre-
sbýteros e sta a significare propriamente l’‘anziano’. Gli uomini,
che hanno sperimentato la continuità del tempo, portano in se
stessi i segni del tempo. Oggi, invece, a partire da un determina-
to momento, l’uomo vuol vivere, per così dire, con l’orologio
fermo; i trucchi e i cosmetici l’aiutano, con alterno successo, a
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Celebrare la fede 107

camuffarsi ai propri occhi e agli occhi degli altri. Nell’uno come


nell’altro caso è disconosciuta l’interezza della vita, è negato il
tempo e l’uomo inganna se stesso.
Non dovrebbe quest’ora indurci a diventare attenti una buo-
na volta anche a questo riguardo? Non dovremmo forse cono-
scere e riconoscere di nuovo reciprocamente che l’uomo non
deve vergognarsi di nessuna età, se sa accettarla e viverla inte-
riormente? Non dovremmo, forse, in quest’ora di intersezione
del tempo che trascorre e si rinnova, riconoscere che l’uomo,
per essere giusto, ha bisogno della sua totalità, dall’età del bam-
bino fino a quella del vecchio? Non dovremmo cercare di accet-
tare meglio tutto il tempo dell’uomo e trovare ciascuno tolle-
ranza o, meglio, riconoscenza per il modo di vita dell’altro, con-
vinti che tutti abbiamo qualcosa da darci a vicenda? Per espri-
merci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una
chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini, il cui es-
sere-bambini non va estinto in una maturità precoce, come oggi
da molte parti avviene? Che sarebbero un mondo e una chiesa
senza l’inquietudine sollecitante, le domande progressiste con
cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la de-
cisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sareb-
bero senza la maturità dell’esperienza, senza la tranquilla pa-
zienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo
noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità
a guardarci e accettarci a vicenda? Forse, in quest’epoca in cui
domina il futuro e, appunto per questo, a partire da un determi-
nato momento gli orologi vengono per così dire bloccati, la cosa
più importante è forse imparare ad accettare interiormente la
persona più anziana e il proprio invecchiare, e accettare in ciò
tempo e futuro.
Siamo noi uomini il tempo. Con questa constatazione Agosti-
no ha voluto opporsi non solo al pessimismo dei criticoni, ma,
prima ancora, a un’antichissima tradizione della religione paga-
na. Presso i Greci Chronos, il Tempo, è la divinità originaria che
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108 Chi ci aiuta a vivere?

divora crudelmente i propri figli. Pensieri analoghi si trovano


nel mito indiano, che formula così la sua pessimistica concezio-
ne del mondo visibile: il tempo è identico alla morte; esso gene-
ra tutto e poi tutto di nuovo inghiotte; in realtà, la vita non è al-
tro che il gioco della morte con se stessa. La divinizzazione del
tempo genera disperazione, non speranza. Solo in apparenza
questi miti sono molto lontani da noi; si deve dar ragione a C.G.
Jung: essi rivelano ciò che vi è di archetipo nell’anima umana, le
sue perenni possibilità. Queste si realizzano in molteplici ma-
niere, ma possono anche mascherarsi fino alla inconoscibilità,
senza perdere per questo la loro identità. Nella sua opera sullo
stato, il filosofo di Monaco Helmuth Kuhn osserva che, con il
trionfo dell’hegelismo in Germania, all’etica è subentrata la filo-
sofia della storia e il bene è stato equiparato alle esigenze del
tempo1. Verissimo. Prescindendo da quanta responsabilità He-
gel stesso possa avere o non avere avuto in tal senso, mi pare qui
descritta con molta esattezza la ripercussione di una corrente di
pensiero, avviata essenzialmente da lui. Il bene è ciò che rispon-
de alle esigenze del tempo: quest’opinione non è forse oggi pe-
netrata fin dentro la chiesa e non ha pervaso gli uomini di chie-
sa? E non si deve dire che dopo la morte del Dio cristiano,
ovunque proclamata, il vecchio Chronos ha ripreso il suo posto
di divinità suprema? Ed egli è un dio crudele, in passato come
oggi. Che cosa non ha dovuto adorare e bruciare in breve lasso
di tempo chi venera il gusto e il bisogno del tempo come il be-
ne? Soltanto la smemorataggine, che Chronos regala ai suoi
adoratori, impedisce loro di capire la piena contraddittorietà
del suo gioco crudele. Per vedere quanto sia crudele, basta
guardare tutto ciò che, nel nome dell’esigenza del tempo, è ca-
pitato all’uomo in questo secolo. Dove il tempo diviene signore
dell’uomo, questi diviene schiavo, anche se Chronos si presenta
nel nome del progresso e del futuro.

1 H. KUHN, Der Staat. Eine philosophische Darstellung, München 1967, 29.


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Celebrare la fede 109

Nella chiesa di san Cuniberto a Colonia si trova una singolare


pala d’altare del IX secolo. Il dio Chronos vi è raffigurato sotto il
titolo di Annus, l’Anno, circondato dai simboli del tempo: il
giorno e la notte, le stagioni, i dodici segni dello zodiaco. Ma a
ciò sono aggiunti i simboli cristiani dell’alfa e dell’omega, del-
l’inizio e della fine, e Annus, visto come pontefice, come colui
che getta un ponte, come sacerdote, è posto sullo stesso piano
della figura di Gesù Cristo2. Questo può essere grave indice di
un cristianesimo troppo adeguato ai tempi, che interpreta Cri-
sto in conformità con i gusti e le esigenze dei tempi, lo pone sul-
lo stesso piano del tempo e, al posto di Cristo, costituisce Chro-
nos come Dio. Di fatto, nella storia della chiesa, questo pericolo
non incombe ora per la prima volta: la sottomissione alla ditta-
tura dell’opportunismo fu sempre la tentazione dei cristiani, a
cominciare dall’idea ecclesiastico-imperiale di Costantino fino
ai cristiani tedeschi del 1933. Ma l’idea della pala di Colonia
può essere anche un richiamo a quella vittoria sul Chronos che è
avvenuta appunto in Gesù Cristo: un uomo che ha avuto tempo
per Dio e ha quindi liberato l’uomo dalla dittatura del tempo.
Molto ci sarebbe da dire e da riflettere a questo proposito. Ma
questa sera non deve assolutamente chiudersi con formule chia-
re e tonde; il suo senso è piuttosto quello di farci meditare e,
quindi, è certamente molto più opportuno riprendere, dal qua-
dro delle riflessioni svolte, alcuni interrogativi che ci assalgono
con particolare intensità, soprattutto in questa ora. La medicina
ha prolungato il tempo dell’uomo. Egli ha più tempo. Ma ab-
biamo davvero tempo? O è il tempo che possiede noi? La mag-
gior parte non ha comunque tempo per Dio, adopera il suo
tempo per sé, come crede. Ma abbiamo realmente tempo per
noi stessi? O non ci manca proprio? Non viviamo forse senza
pensare a noi stessi? Eppure, il vero tempo dell’uomo non è

2 Debbo a W. Nyssen, di Colonia, questo accenno alla pala Annus e al suo

significato.
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110 Chi ci aiuta a vivere?

quello che egli ha per Dio? Gesù Cristo ha avuto tempo per Dio
e in lui ora Dio ha tempo. Non dovremmo quindi cercare di di-
sporre di tempo per Dio, di renderlo tempo suo? Fin troppi ar-
gomenti, infatti, ci dicono che quel tempo, che non è più dispo-
nibile per lui, diventa Chronos che inghiotte noi stessi. Solo
l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo, ci libera dalla dit-
tatura del Chronos. Una simile realtà e un felice anno nuovo in
questo senso vogliamo augurare a noi tutti.

5. Tempo di allegria e tempo di penitenza

Quest’anno il mese di febbraio è diviso in due parti press’a


poco di uguale durata: a metà del mese comincia con il mercole-
dì delle ceneri il tempo del digiuno, i giorni precedenti sono ca-
ratterizzati dal carnevale. Ambedue questi tempi ci pongono i
propri interrogativi. Oggi, che si parla tanto di catecumenato,
non dobbiamo di nuovo riconoscere molto più seriamente che
il tempo del digiuno deve essere un catecumenato universale in
cui noi, con la nostra vita, ricuperiamo concretamente il nostro
battesimo o piuttosto facciamo in modo che la nostra vita ricu-
peri le esigenze del battesimo? Non ci deve forse far riflettere il
fatto che Gesù Cristo, alla stregua dei profeti, si sia preparato al
suo ministero di predicatore della Parola nel deserto e col di-
giuno? Ciò non significa forse che, se un uomo deve incontrare
Dio, è necessario un po’ di ‘deserto’, di raccoglimento nella so-
litudine e di mortificazione corporale? E il digiuno non dovreb-
be molto concretamente costituire un’esigenza anche per noi,
uomini di una civiltà supersatolla e malata di sazietà?
L’appello del tempo del digiuno non è facile da accogliere,
ma in fondo esso è chiaramente comprensibile per coloro che
sono aperti alla fede e alla preghiera della chiesa. Sembra invece
piuttosto problematico far posto al carnevale in una meditazio-
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Celebrare la fede 111

ne teologica perché, al massimo, può essere considerato un


tempo dell’anno liturgico soltanto molto indirettamente. Ma in
proposito non siamo forse un po’ schizofrenici? Da una parte
diciamo molto volentieri che il carnevale ha diritto di cittadi-
nanza proprio in terra cattolica, dall’altra poi evitiamo di consi-
derarlo spiritualmente e teologicamente. Fa dunque parte di
quelle cose che cristianamente non si possono accettare, ma che
umanamente non si possono impedire? Allora sarebbe da chie-
dersi: in che senso il cristianesimo è veramente umano?
L’origine del carnevale è senza dubbio pagana: culto della fe-
condità ed evocazione di spiriti vanno insieme. La chiesa dovet-
te insorgere contro quest’idea e parlare di esorcismo che scaccia
i demoni i quali rendono gli uomini violenti e infelici. Ma dopo
l’esorcismo emerse qualcosa di nuovo completamente inaspet-
tato, una serenità sdemonizzata: il carnevale fu messo in relazio-
ne con il mercoledì delle ceneri, come tempo di allegria prima
del tempo della penitenza, come tempo di una serena autoiro-
nia che dice allegramente la verità che può essere molto stretta-
mente congiunta con quella del predicatore di penitenza. In tal
modo il carnevale, una volta sdemonizzato, nella linea del pre-
dicatore veterotestamentario può insegnarci: «C’è un tempo
per piangere e un tempo per ridere…» (Qo 3,4).
Anche per il cristiano non è sempre allo stesso modo tempo
di penitenza. C’è anche un tempo per ridere. L’esorcismo cri-
stiano ha distrutto le maschere demoniache, facendo scoppiare
un riso schietto e aperto. Sappiamo tutti quanto il carnevale sia
oggi non raramente lontano da questo clima e in quale misura
sia diventato un affare che sfrutta la tentabilità dell’uomo. Regi-
sta è mammona e i suoi alleati. Per questo noi cristiani non lot-
tiamo contro, ma a favore dell’allegria. La lotta contro i demoni
e il rallegrarsi con chi è lieto sono strettamente uniti: il cristiano
non deve essere schizofrenico, perché la fede cristiana è vera-
mente umana.
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112 Chi ci aiuta a vivere?

6. Venerdì santo

«Essi guarderanno a colui che hanno trafitto». Con queste


parole l’evangelista Giovanni chiude la sua narrazione della
passione di Gesù; con tali parole egli introduce la visione di Cri-
sto nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, che noi chiamiamo
‘Apocalisse’. Tra queste due citazioni della parola profetica del-
l’Antico Testamento è tesa tutta la storia: tra la crocifissione e il
ritorno del Signore; in questa citazione si parla sia dell’abbassa-
mento di colui che morì come un assassino sul patibolo, sia del-
la potenza di colui che verrà per giudicare il mondo, per essere
quindi anche il nostro giudice. «Essi guarderanno a colui che
hanno trafitto». Tutto il vangelo di Giovanni non è che la verifi-
ca di questa frase, il tentativo di concentrare il nostro sguardo e
il nostro cuore nella contemplazione di lui. E tutta la liturgia
della chiesa non è altro che la contemplazione del trafitto, il cui
volto nascosto viene scoperto dal sacerdote davanti agli occhi
della chiesa e del mondo, durante la celebrazione cultuale del
venerdì santo che costituisce il punto più alto dell’anno liturgi-
co: «Ecco l’albero della croce al quale è stata appesa la salvezza
del mondo». «Essi guarderanno a colui che hanno trafitto». O
Signore concedici in quest’ora di poter guardare a te, nell’ora
della tua oscurità e del tuo abbassamento a opera di un mondo
che vuole dimenticare la croce come si fa con un incidente spia-
cevole, che si sottrae al tuo sguardo, considerandolo un inutile
sciupio di tempo e non si rende conto che è proprio qui che ci si
fa incontro la tua ora decisiva, nella quale nessuno potrà sot-
trarsi al tuo sguardo.
Sul fatto della trafittura del Crocifisso, Giovanni parla con
una solennità stranamente circostanziata, che nello stesso tem-
po lascia riconoscere il peso che l’evangelista attribuisce a que-
sto evento. Nella narrazione, che si chiude con una formula di
testimonianza quasi scongiuratrice, vengono elaborati due testi
dell’Antico Testamento, mediante i quali risulta nello stesso
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Celebrare la fede 113

tempo evidente il significato di questo avvenimento. «Nessun


osso gli deve essere spezzato», dice Giovanni e adduce così un
testo del rituale pasquale giudaico che contiene una prescrizio-
ne sull’agnello pasquale. Egli ci fa così comprendere che Gesù,
il cui fianco veniva trafitto nello stesso momento in cui nel tem-
pio avveniva lo sgozzamento rituale dell’agnello pasquale, è il
vero agnello senza difetto nel quale si compie definitivamente il
significato di qualsiasi culto e di qualsiasi rituale, nel quale sol-
tanto anzi diventa manifesto che cosa significa in realtà il culto.
Ogni culto precristiano si basa, in ultima analisi, sull’idea della
sostituzione: l’uomo è consapevole che fondamentalmente de-
ve dare se stesso se vuole onorare Dio in maniera adeguata, ma
sperimenta nello stesso tempo l’impossibilità di darsi e sorge
quindi la sostituzione: ecatombi di olocausti divampano sugli
altari degli antichi, viene sviluppato un sistema rituale possen-
te, ma su tutto questo pesa il dramma di una inutilità impressio-
nante, giacché non esiste nulla con cui l’uomo possa sostituire
se stesso: qualsiasi cosa possa offrire, rimane sempre troppo
poco.
La critica profetica al culto aveva sempre opposto all’auto-
sufficienza dei ritualisti che Dio, a cui appartiene il mondo inte-
ro, non aveva bisogno dei loro capri e dei loro tori; la facciata
sfarzosa del rito nasconde soltanto la fuga da ciò che è autenti-
co, dalla chiamata di Dio che vuole noi stessi e che può essere
veracemente adorato solo nel gesto dell’amore senza riserva.
Mentre nel tempio sanguinavano gli agnelli pasquali, fuori della
città muore un uomo, il Figlio di Dio, ucciso proprio da coloro
che credono di onorare Dio nel tempio. Dio muore come uo-
mo: egli dà tutto se stesso agli uomini che non sono in grado di
darsi a lui e quindi, al posto dell’inutile sostituzione cultuale,
pone la realtà del suo amore onnisufficiente. La lettera agli
Ebrei ha sviluppato ulteriormente il piccolo accenno del vange-
lo di Giovanni interpretando la liturgia giudaica del giorno della
riconciliazione come preludio figurato della liturgia reale della
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114 Chi ci aiuta a vivere?

vita e della morte di Gesù Cristo. Ciò che agli occhi del mondo
appariva come fatto assolutamente profano, come esecuzione
di un uomo condannato a morte come agitatore politico, era in
realtà l’unica vera liturgia della storia del mondo: liturgia co-
smica attraverso la quale Gesù, non già nella sfera delimitata e
cultuale del tempio, ma fuori davanti al mondo tutto, penetrò
attraverso la parete della morte nel tempio vero: alla presenza
del Padre. Ed egli non portò il sangue di animali in sostituzione,
ma se stesso, com’è conforme all’amore autentico che non può
donare che se stesso. La realtà dell’amore che dà se stesso ha eli-
minato il gioco della sostituzione, che ormai resta per sempre
fuori causa. Il velo del tempio è lacerato, ormai non c’è più cul-
to se non nella partecipazione all’amore di Gesù Cristo che co-
stituisce il perpetuo giorno di riconciliazione cosmica. E tutta-
via l’idea della sostituzione ha ricevuto in Cristo un senso nuovo
e inaudito. Dio stesso in Gesù Cristo si è messo al nostro posto
e noi tutti viviamo solo a partire dal mistero di questa sostitu-
zione.
Il secondo testo dell’Antico Testamento che viene inserito
nella narrazione della trafittura rende ancora più evidente
quanto abbiamo detto, per quanto permangano oscurità sui
dettagli. Giovanni dice che un soldato aprì il fianco di Gesù con
la lancia. Egli adopera la stessa parola che nell’Antico Testa-
mento viene usata per la descrizione della creazione di Eva dal
fianco di Adamo dormiente. Qualsiasi cosa voglia indicare più
precisamente questo accenno, in ogni caso è sufficientemente
chiaro che nel vicendevole rapporto tra Cristo e l’umanità cre-
dente si ripete il mistero originario della creazione della donna
dall’uomo e della loro donazione vicendevole. La chiesa ha ori-
gine dal fianco aperto del Cristo morente o, se vogliamo espri-
merci in termini diversi e un po’ metaforici: proprio la morte
del Signore, la radicalità dell’amore che giunge fino all’autodo-
nazione, ha causato questa fecondità. Poiché egli non si è rin-
chiuso nell’egoismo di colui che vive solo per se stesso e mette
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Celebrare la fede 115

la propria autoconservazione al di sopra di tutto, ma si è lascia-


to aprire per uscire fuori da se stesso ed esistere per gli altri,
proprio per questo egli raggiunge ormai tutti i tempi, al di là di
se stesso. Il fianco aperto è quindi il simbolo di una nuova im-
magine dell’uomo, di un nuovo Adamo; esso sta a contrassegna-
re Cristo come l’uomo che esiste-per-gli-altri. E forse a partire
da qui soltanto possono essere intese le profondissime afferma-
zioni della fede su Gesù Cristo, così come nello stesso tempo è a
partire da qui che si fa manifesto il compito immediato affidato
dal Crocifisso alla nostra vita. La fede dice che Gesù Cristo è
una sola persona in due nature; nel testo greco originale si dice
in maniera più esatta e appropriata che egli è una sola ‘ipostasi’,
un unico essere autonomo. Nel corso della storia ciò è stato di
continuo equivocato come se a Gesù mancasse qualcosa della
sua umanità, come se per essere Dio dovesse in qualche modo
essere meno uomo. È vero proprio il contrario: Gesù è l’uomo
vero, dal quale è misurato ogni altro uomo, al quale deve avvici-
narsi ogni essere umano per pervenire alla propria autenticità.
Ed egli è uomo perfetto proprio in quanto in questo non è ‘ipo-
stasi’, essere che sta presso se stesso. Infatti più elevato ancora
che il poter-essere presso se stessi è il non-poter-stare e il non-
voler-stare presso se stessi, l’andare agli altri partendo dal Pa-
dre. Gesù è, per così dire, nient’altro che il movimento da sé al
Padre e agli uomini. E proprio perciò, perché in lui è stato radi-
calmente spezzato l’anello del ruotare attorno a se stessi, egli è
nello stesso tempo Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Proprio
perché egli esiste per gli altri totalmente, egli è totalmente se
stesso: immagine finale della vera umanità. Diventare cristiani
significa diventare uomini, pervenire alla umanità vera, all’esse-
re-per-gli-altri e all’essere-da-Dio. Il fianco aperto del Crocifis-
so, la ferita mortale del nuovo Adamo, è il punto di partenza del
vero essere umano dell’uomo: «Essi guarderanno a colui che
hanno trafitto».
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116 Chi ci aiuta a vivere?

7. Sabato santo

Con sempre maggiore insistenza si sente parlare, nel nostro


tempo, della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si
tratta solo di un incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tet-
to del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nul-
la, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il si-
lenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile
che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un so-
gno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’ango-
scia subìta, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo del-
l’anima.
Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si
esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rima-
ne morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se
ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una ‘teologia
dopo la morte di Dio’, ci si guarda intorno per vedere come po-
ter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a pren-
dere il posto di Dio. Il mistero terribile del sabato santo, il suo
abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una re-
altà schiacciante. Giacché questo è il sabato santo: giorno del
nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che
noi esprimiamo nel credo con le parole: «disceso agli inferi», di-
sceso dentro il mistero della morte. Il venerdì santo potevamo
ancora guardare colui che è stato trafitto. Il sabato santo è vuo-
to, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è
passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata co-
me fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteg-
giava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima,
nel loro intimo, avevano un po’ dubitato che, forse, le cose po-
tevano stare diversamente, hanno avuto ragione.
Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in
maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il no-
stro secolo a essere un grande sabato santo, giorno dell’assenza
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Celebrare la fede 117

di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiaccian-


te nel cuore che si allarga sempre di più, per cui si preparano
pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e
distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgen-
dosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente ac-
corti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione
cristiana e che noi spesso nelle nostre Via crucis abbiamo fatto
risuonare qualcosa di simile senza svolgere la realtà straordina-
ria di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendo-
lo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una
forma di pietà senza contenuto e perduta nel giro delle frasi de-
vozionali o delle preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucci-
so attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di
oscurità anche su di lui, giacché che cosa avrebbe potuto rende-
re più problematico in questo mondo Dio se non la problemati-
cità della fede e dell’amore dei credenti?
L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che di-
venta in misura sempre maggiore un sabato santo, parla alla
nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma
nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte
di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua
radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è
nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non
ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del
sabato santo, solo attraverso il silenzio di morte di questo gior-
no, i discepoli poterono essere portati a comprendere chi era
veramente Gesù e ciò che il suo messaggio intendeva realmente
dire. Dio doveva morire per essi, perché potesse realmente vi-
vere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella qua-
le avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta per-
ché essi, attraverso le macerie della casa diroccata, potessero
vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre infinitamente più
grande.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

118 Chi ci aiuta a vivere?

Noi abbiamo bisogno del buio di Dio per sperimentare nuo-


vamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla,
che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C’è una scena nel vangelo che anticipa in maniera straordina-
ria il silenzio del sabato santo e appare quindi ancora una volta
come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in
una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il pro-
feta Elia aveva una volta irriso i sacerdoti di Baal, che inutilmen-
te invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discen-
dere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso
mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente?
Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti
del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per
affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per af-
fondare, non è questa la esperienza della nostra vita? La chiesa,
la fede, non assomigliano a una piccola barca che sta per affon-
dare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio
è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e
scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meraviglia-
to e rimprovera la loro poca fede. Ora, le cose vanno forse di-
versamente per noi? Quando la tempesta sarà passata ci accor-
geremo di quanta stoltezza fosse carica la nostra poca fede. E
tuttavia o Signore non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio
che stai in silenzio e dormi e gridarti: svegliati, non vedi che af-
fondiamo? Destati, non lasciare che duri in eterno l’oscurità del
sabato santo, fa che cada un raggio di pasqua anche sui nostri
giorni, accompagnati a noi quando ci avviamo disperati verso
Emmaus, perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vici-
nanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele
per essere alla fine uomo con gli uomini, non ci lasciare nel
buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio
di parole di questi tempi. Signore dacci il tuo aiuto, perché sen-
za di te affonderemo. Amen.
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Celebrare la fede 119

8. Il senso della festa di pasqua

Che cosa cambia la risurrezione di Gesù?

In certo qual modo il messaggio della risurrezione di Cristo


sembra stranamente chiedere troppo alla nostra immaginazio-
ne. Esso può penetrare nel nostro animo molto meno diretta-
mente del messaggio di natale. La nascita appartiene al nostro
campo di esperienza e porta con sé sempre un po’ di speranza e
di gioia. Così, la storia del Figlio di Dio che nasce in una stalla
come figlio dell’uomo può raggiungere direttamente il nostro
cuore e significare qualcosa anche per colui che non crede alla
divinità del bambino. Ma la risurrezione sta al di fuori del no-
stro ambito di esperienza; noi conosciamo soltanto un vita che è
morire. Nella maniera più chiara possibile ha evidenziato que-
sta nostra perplessità di fronte al messaggio pasquale Rudolf
Bultmann, quando dice: «Anche se questo fosse accaduto, che
cosa ci potrebbe dire il miracolo di un cadavere rianimato?».
Questa è la domanda: la risurrezione di Gesù è soltanto un
astruso miracolo che non cambia per nulla la concezione del-
l’uomo stesso, anche qualora sia accaduto?

Dio nella ‘casa dell’uomo’?

La liturgia della chiesa cerca qui di aiutarci a fare un passo


avanti, traducendoci l’inconcepibile in immagini e rappresenta-
zioni che ci sono familiari o almeno ci forniscono punti di ag-
gancio che orientano il nostro cuore in direzione della fede pa-
squale. Essa lavora con simboli come luce e acqua; attinge però
soprattutto al grande tesoro dell’umano soffrire, pregare, dubi-
tare, lottare e sperare, che l’Antico Testamento contiene in sé.
Dalla molteplicità delle parole bibliche con cui la liturgia, fin
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120 Chi ci aiuta a vivere?

dai primissimi tempi, illumina il mistero pasquale, ne scelgo sol-


tanto una, che al tempo stesso unisce natale e pasqua e mostra
così l’intima unità del cristianesimo. Essa si trova nel Sal 24(23)
e dice: «Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria» (v. 7). Il nostro canto di avvento Macht
hoch di Tür [Alza la porta] è stato sviluppato da questo versetto
del salmo. Originariamente tutto questo salmo era parte essen-
ziale di una liturgia della porta, una liturgia dell’ingresso e delle
porte. Lo si cantava durante l’ingresso solenne dell’arca santa
nel tempio. Si voleva così invitare Dio ad abitare in questa casa,
a stabilirsi tra gli uomini, a diventare loro vicino e co-inquilino.
Egli doveva entrare in una casa di uomini, renderla in questo
modo casa di Dio e in essa trasformare il mondo degli uomini in
mondo di Dio. Al tempo stesso si percepiva quanto una casa del
genere fosse poco ovvia, anzi, quanto dovesse appunto apparire
impossibile: nessuna casa d’uomo è grande abbastanza per con-
tenere Dio. Egli supera la misura dei nostri spazi umani. Dove e
come potrebbe egli entrare?

Un mondo senza porte per Dio?

Il mondo degli uomini non ha porte aperte per Dio, così sem-
bra. Esso è chiuso in se stesso. È un carcere, una casa dei morti.
Gli uomini dell’Antico Testamento e di altre antiche culture
hanno in primo luogo usato l’idea del carcere solo per indicare
il mondo dei morti: chi muore non ritorna più indietro. Ci si
rappresentava il mondo sotterraneo come un gigantesco oscuro
carcere in cui la morte domina come tiranno inesorabile. È una
casa senza ritorno. Sempre più, però, si fece strada a poco a po-
co il sentimento che allora, se ogni nostra strada conduce a que-
sto carcere, che ha soltanto entrate ma nessuna uscita, noi tutti
siamo dei prigionieri. Allora anche questo mondo è già una casa
dei morti, l’anticamera di un terribile carcere. In effetti, se la
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Celebrare la fede 121

morte ha l’ultima parola, allora il mondo è la sala d’attesa per il


nulla.

I poeti del XX secolo hanno rappresentato questo sentimento


mediante terribili visioni. Nel più profondo di questo abisso
dell’angoscia è sceso certamente lo scrittore Franz Kafka, il
quale rappresentando il mondo amministrato in modo totalita-
rio ha contemporaneamente interpretato la stessa vita umana.
Nel Castello la vita sembra una vana attesa, un tentativo senza
via di uscita di arrivare, attraverso i labirinti della burocrazia, fi-
no a chi è competente e può liberare. Nel Processo si rappresen-
ta la vita stessa come un processo che termina con la esecuzione
capitale. La storia finisce con la parabola dell’uomo che per tut-
ta la sua vita attende davanti a una porta e non può varcarla,
sebbene sia stata creata apposta per lui. Se Cristo non è risorto,
non resta altro da dire sull’uomo, se non questo. Tutto il resto è
allora soltanto inganno. Il grido di disperazione e i crudeli ten-
tativi di liberazione che sperimentiamo sono il risultato necessa-
rio di un mondo che non vuole accettare la sua speranza, ossia
Cristo.

Il mondo non è più un carcere

«Voi porte, alzatevi!» – questo versetto del salmo non è sol-


tanto un atto liturgico, una liturgia della porta di un tempo pas-
sato; è il grido dell’uomo in un mondo che è ancora troppo an-
gusto, anche quando si può viaggiare con la navicella spaziale fi-
no alla luna e oltre. Natale è soltanto la prima metà della rispo-
sta cristiana a questo grido. Natale dice: non c’è soltanto la mor-
te tiranno; c’è Dio, che è la vita, e questo Dio può e vuole spin-
gersi fino a noi, egli ha liberato la strada che conduce a noi. Ha
trovato la porta che era per lui alta abbastanza, o piuttosto: egli
ha creato questa porta. Ma la risposta è completa solo quando
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122 Chi ci aiuta a vivere?

anche per noi c’è una uscita, e non solo un ingresso per Dio ver-
so di noi. Essa è soddisfacente solo quando la morte non è più
un carcere senza ritorno. Questo è il contenuto del messaggio
pasquale. Non c’è solo una porta per entrare, ma anche una
porta per uscire. La morte non è più una casa senza uscite, non
è una terra senza ritorno.
La chiesa antica ha visto in questo versetto del salmo la spie-
gazione dell’articolo di fede: «Disceso agli inferi». Per essa que-
sto è stato l’articolo del sabato santo – non una parola di lutto,
ma una parola di vittoria. Essa ha dato forma poetica alla paro-
la: i catenacci del carcere-morte, del carcere-mondo, sono stati
divelti, le fortificazioni sono state smantellate, le porte scardina-
te. Gesù, che ha fatto questo, prende per mano la lunga schiera
dei prigionieri – Adamo e Eva, ossia l’umanità – e li conduce al-
la libertà. La vita non è la sala d’attesa per il nulla, ma l’inizio
dell’eternità. Il mondo non è l’universale campo di concentra-
mento, ma il giardino della speranza. La vita non è l’inutile ri-
cerca del senso, la cui immagine sarebbero i labirinti della buro-
crazia. Dio non è un burocrate; egli non vive in un lontano ca-
stello, e non si nasconde dietro impenetrabili anticamere. La
porta è aperta, si chiama: Gesù Cristo.
Mostrare il raggio di luce di questa porta: questo è il senso
della festa di pasqua. Il suo appello è di seguire fermamente
questo raggio di luce, che non è una fata Morgana, ma il risplen-
dere della verità che salva.

9. «Il messaggio lo odo, ma…»

La poesia pasquale di Reiner Kunze, composta nel 1984,


esprime davvero con grande precisione i sentimenti del nostro
tempo rispetto al messaggio pasquale:
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Celebrare la fede 123

Le campane suonavano
come se dovessero ribaltarsi per la gioia
dinanzi alla tomba vuota.

Dinanzi al fatto che una volta


era riuscito qualcosa di tanto consolante,

e che lo stupore dura


da duemila anni.

Tuttavia, benché le campane


tanto fortemente verso la mezzanotte battessero –
nulla venne meno nelle tenebre.

Riflettendo su queste parole mi è venuto in mente che anche


il Faust di Goethe dice la stessa cosa, sia pure in termini diversi.
Nell’istante della disperazione per la miseria della condizione
umana, per l’impossibilità di avvicinarsi al Divino, egli vuole
porre fine alla sua vita. La contraddittorietà dell’esistenza uma-
na diventa per lui insopportabile: qui c’è l’ineliminabile deside-
rio dell’infinito, dell’altissimo, che procede di pari passo con
l’impossibilità di uscire dai limiti della nostra conoscenza e di
vedere che cosa c’è davvero; di vedere se c’è un fine del nostro
esserci. Lo stesso Faust constaterà in seguito che il suo assisten-
te Wagner riesce a produrre un uomo in provetta; ma questo
ampliamento del potere umano non può vincere la disperazione
sull’oscurità della nostra esistenza, ma solo accrescerla. Difatti
un potere cieco è ancor più spaventoso e, soprattutto, più peri-
coloso della cecità nell’impotenza. Faust rappresenta quindi
l’uomo moderno, che in un primo momento si sperimenta pari
alla Divinità e crede di poter prendere in mano il creato in ma-
niera nuova e migliore, per poi precipitare nella coscienza di-
sperata di essere un verme e di scavare nella polvere. La cancel-
lazione dell’uomo pare allora la soluzione migliore, e Faust la
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124 Chi ci aiuta a vivere?

prende simbolicamente in mano, cercando l’ebbrezza della be-


vanda mortale: se proprio non può sconfiggere la morte, allora
vuole almeno procurarsela da sé.
Proprio nel momento in cui Faust disperato cerca la sua libe-
razione nel darsi la morte, risuonano le campane pasquali, ri-
suona il messaggio: Cristo è risorto. Nel momento in cui questo
annuncio riecheggia, avviene proprio quello che Kunze descri-
ve: la gioia che una volta sia riuscito qualcosa di tanto consolan-
te, e che lo stupore duri da duemila anni. Certo, anche Faust
non è in grado di credere al messaggio; ma anch’egli si chiede-
rebbe: «Nulla nelle tenebre è venuto meno?». Egli non crede,
ma il ricordo dello stupore muove la sua anima; il ricordo di ciò
che un tempo era fede gli restituisce il coraggio di esserci. Ma
allora davvero qualcosa non è venuto meno alla tenebra? Persi-
no dopo la perdita della fede, non è forse rimasta un’eco di
quella luce che essa aveva destato? Non è forse vero che finan-
che nel dubbio e nell’incredulità lo strano messaggio della tom-
ba vuota lascia dietro di sé un’intima e segreta inquietudine, che
noi neghiamo perché ci riteniamo uomini illuminati e sappiamo
che non c’è nulla di simile, e che nonostante tutto, continua a
perseguitarci? Non accade a noi quello che era già successo ai
discepoli, che rifiutavano quelle che consideravano chiacchiere
di donne, ma che nel loro intimo non erano più tanto sicuri di
sé? I Padri hanno parlato della chiesa come di una donna, e for-
se già Giovanni ha visto in Maria di Magdala, colei che per pri-
ma aveva potuto vedere il Risorto, un’immagine della chiesa
stessa: anche oggi ella si presenta al nostro mondo ridotto a og-
getto con il semplice e penetrante sguardo del suo cuore e gli di-
ce ciò che non sembra per nulla adattarsi alla sua sensibilità:
Cristo è risorto. Potrebbe essere vero... Chi potrebbe negarlo,
dal momento che proprio la scienza più recente insegna che in
fondo tutto è possibile e che, d’altra parte, nulla è davvero sicu-
ro e affidabile?
Che cosa dobbiamo fare in una situazione simile? Come fe-
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Celebrare la fede 125

steggiare la pasqua? Il dubbio verso ogni certezza, che da una


parte spinge a ritenere tutto possibile, ma dall’altra non consi-
dera più nulla come definitivo, non ci porta fuori dal disperato
bivio di Faust; lo priva semplicemente di ogni páthos. Di sicuro
è già qualcosa se cedono le mura resistenti delle certezze preco-
stituite con cui lo spirito della modernità aveva voluto delimita-
re in maniera definitiva il mondo e l’uomo. Ma sullo scetticismo
non si può fondare l’esistenza. «Non si gioca il proprio destino
con i dadi di un’ipotesi», ha detto una volta Georges Bernanos
descrivendo il dramma di un teologo per cui l’ipotesi era dive-
nuta l’unica fonte della sua analisi. Come possiamo avvicinarci
alla fede pasquale, come può farsi vicino a noi quel messaggio,
arrivare a coinvolgerci, così che venga meno un po’ di tenebra e
noi impariamo nuovamente a vivere? Di fronte a questa doman-
da decisiva mi viene in mente quello che il vescovo martire
Ignazio di Antiochia dice nella sua lettera ai Romani: «Il cristia-
nesimo non è opera di persuasione, ma vera grandezza...» (3, 3).
A credere non si arriva mediante la persuasione, né del resto ci
si deve far persuadere. Ma allora, che cosa fare? Come arrivare
a quella grandezza, a quella forza della realtà, a cui Ignazio fa ri-
ferimento?
La risposta della chiesa antica era questa: ci si deve incammi-
nare, si deve prendere la Parola come strada, immedesimarsi in
essa, per arrivare così con la prova della vita all’esperienza della
realtà. Per questa ragione era stato creato il catecumenato.
Questo significa: la fede non era annunciata come qualcosa di
puramente intellettuale, solo come informazione, ma veniva
sperimentata e guadagnata in un graduale processo di immede-
simazione e di condivisione di esperienze. Del resto ciò è del
tutto logico. Ogni conoscenza esige un proprio metodo; la stra-
da deve essere adeguata al carattere particolare di ciò che si de-
ve conoscere. Se si tratta della medicina, non posso limitarmi a
filosofeggiare sul piano teorico; se essa deve diventare un’arte
che deriva da una conoscenza e se da determinate conoscenze
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

126 Chi ci aiuta a vivere?

voglio che derivi una certa capacità di agire, è necessario il rap-


porto concreto con il malato e con la malattia. E anche questo
esige più della capacità di servirsi di apparecchiature o di saper
leggere delle analisi. Esige lo sguardo a questa persona, in cui
non è solamente in atto un disturbo sul piano delle funzioni chi-
miche che io posso influenzare e correggere con altri processi
chimici. A soffrire è proprio la persona; nel processo chimico
essa è in gioco con tutta la sua umanità. Se tralascio la persona
nella sua concretezza di essere vivente, finisco per escludere
proprio il vero soggetto di ciò che sta avvenendo. Questo esem-
pio aiuta a capire che non arriva allo scopo un pensiero che
vuole possedere le cose, scomporle e dominarle: vi sono cose
che non possono essere conosciute dominando, ma servendo, e
proprio queste sono le forme più alte di conoscenza. Infatti
quel che noi possiamo dominare è sotto di noi. Un pensiero che
si limita a scomporre e a rimettere insieme è per natura materia-
listico e arriva solo fino a una determinata soglia. Così, anche il
medico, al di là del puro lavoro di analisi, ha bisogno di dedi-
carsi alla persona ed è in questa dedizione che gli si svela ciò che
è specifico di una malattia.
Con ciò siamo inaspettatamente e direttamente passati dal-
l’esempio al nostro vero argomento, dato che la fede nella risur-
rezione ha proprio a che fare con la malattia che ci affligge; si
tratta della ferita profonda incisa nella nostra esistenza dalla
morte e del Dio nascosto che ci viene incontro proprio nella
morte e lì si fa riconoscere. Ci si trova su un falso sentiero, che
non porta da nessuna parte, se si ritiene che nel messaggio pa-
squale il problema sia esclusivamente di ordine storico-critico e
riguardi un fatto passato. Allora si potrebbe lasciare la questio-
ne agli storici, che poi dovrebbero stabilire se si tratta di qualco-
sa di credibile o meno. Ma come possono stabilirlo? Essi erano
così poco presenti come noi tutti; possono richiamarlo tanto
poco come lo possiamo noi tutti, e non hanno altra fonte a di-
sposizione rispetto a quelle di cui tutti disponiamo. La consta-
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Celebrare la fede 127

tazione di questa o quella discordanza tra i diversi resoconti


non basta per arrivare a un parere decisivo; il fatto che tutta una
serie di testimoni indipendenti l’uno dall’altro concordino sulla
sostanza è già molto più importante. Ma la distanza di duemila
anni resta comunque. Un aiuto deve allora venire dall’immagi-
ne moderna del mondo, che però ci dirà sicuramente che non
può esistere una vera risurrezione, dal momento che non cono-
sciamo una simile forma di smaterializzazione o di istantaneo
mutamento della materia. Così il cadavere rimane nella tomba;
quel che resta sono allora un paio di visioni, più o meno sogget-
tive: la putrefazione ha l’ultima parola, e la risurrezione si ridu-
ce a discorso idealistico. In realtà qui è semplicemente inade-
guato il metodo e insensato l’approccio. Chi riduce il messaggio
pasquale a una constatazione di fatto, a un evento già accaduto
e chiuso in se stesso, gli è già passato oltre, perché come si po-
trebbe costruire tutta la propria vita, il proprio presente e il
proprio futuro su un momento ormai trascorso e per tutti trop-
po lontano?
Quel che il messaggio pasquale dice, arriva a una profondità
che non si può raggiungere con un paio di elucubrazioni menta-
li. La provocazione che esso rappresenta, e la sua novità, è che
Dio – come è stato ben espresso da Jean Corbon, teologo di
Beirut – non ci predica il vangelo dall’alto, ma ce lo comunica
bevendo lui stesso il calice della morte. Ma allora anche noi non
possiamo ascoltarlo dall’alto verso il basso, ma dobbiamo in-
contrarlo come lui ci ha incontrati, con tutto il realismo della
nostra esistenza consegnata alla morte. Ascoltiamo ancora una
volta Jean Corbon: «Se l’annuncio di Dio nell’uomo non arri-
vasse fino alla morte, egli si prenderebbe gioco dell’uomo. E co-
sì è in tutte le religioni e ideologie: dal momento che non posso-
no eliminare la morte, vogliono distogliere l’uomo da essa». La
«follia del mistero – di cui parla san Paolo (1 Cor 1,17-25) –
consiste, proprio al contrario di ciò, nell’entrare nella morte». A
questo si aggiunge un altro dato, a cui Corbon fa parimenti rife-
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128 Chi ci aiuta a vivere?

rimento. Tutti gli eventi empirici passano; sono legati a un de-


terminato momento temporale dello sviluppo storico, ma poi
non sono più, anche se ciascuno di essi lascia una traccia più o
meno profonda nella compagine della storia. Ma l’evento che la
morte è morta, si stacca dal processo del morire e del divenire.
È un buco nel muro della transitorietà, che resta ancora aperto.
Esso non precipita semplicemente nel passato. Indubbiamente
è accaduto una volta, ma – come dice la lettera agli Ebrei – quel-
la volta è stata una volta per tutte, per sempre, e ha aperto un
‘sempre’. Così è da allora. Ciò che è avvenuto resta, e noi dob-
biamo cercare l’accesso a questo presente, a questo sempre, per
poter poi riconoscere anche quell’unica volta, e non il contra-
rio.
Come si arriva a questo presente del passato, a questo sem-
pre di quell’unica volta, all’oggi di pasqua? Come prima regola
possiamo dire che su questa strada c’è bisogno di testimoni. È
stato così fin dall’inizio, è la struttura necessaria per questa co-
noscenza. Il Risorto non si mostra alle masse in un grande spet-
tacolo pubblico. Non è questa la forma che egli ha scelto per av-
vicinarsi a lui. Egli si mostra a dei testimoni che hanno percorso
con lui un tratto del suo cammino verso la morte; camminando
con lui si può incontrare la verità. Questa via ha diversi gradi e
diverse modalità. Come esempio vorrei ricordare solo un cam-
mino di conversione del nostro tempo, quello di Tatjana Gorit-
schewa. Aveva imparato che lo scopo della vita è mettersi in mo-
stra, «essere più furbi degli altri, più capaci, più forti… Ma nes-
suno mi aveva detto che la cosa più grande nella vita non consi-
ste nel guadagnare gli altri e nel vincerli, ma nell’amarli». Passo
dopo passo, nell’incontro progressivo con Gesù, riconosce que-
sto dal profondo di se stessa, finché poi, un giorno, recitando il
Padre nostro sperimenta una nuova nascita e si rende conto
«che Egli esiste», con una conoscenza che sconvolge tutto il suo
essere, «non con la mia ridicola ragione, ma con tutto ciò che io
sono». È questa la vera e autentica conoscenza, esperienza, con-
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Celebrare la fede 129

cretamente sperimentabile e dunque verificabile: certo, verifi-


cabile non con l’atteggiamento dello spettatore, ma solo accet-
tando di far parte dell’esperimento di vita con Dio.
Proprio questo era il senso del catecumenato, con cui la chie-
sa antica accompagnava le persone all’incontro con il Risorto:
condotti tramite i testimoni, passo dopo passo, ad accogliere
l’esperienza del cammino di Gesù, della vita con lui e quindi
con Dio. Gregorio di Nissa lo ha espresso in maniera grandiosa
commentando il misterioso testo biblico in cui si dice che Mosè
non poté vedere il volto di Dio, ma le sue spalle. In proposito
dice: «… A chi lo interrogava sulla vita eterna, il Signore rispon-
deva… “Vieni e seguimi” (Lc 18,22). Ma chi segue, vede le spal-
le di colui che egli segue. E a Mosè, che chiede di vedere Dio,
viene insegnato come si può vedere Dio: seguire Dio, dovunque
Egli ci porta, proprio questo significa vedere Dio».
A questo cammino ci invitano le campane pasquali. Esse con-
tinueranno sempre a sorprendere l’uomo nella notte. Ma dove
esse riescono a muovere il cuore, lì la notte cede al mattino, ca-
de la tenebra e viene il giorno. Anche oggi. In questa promessa
sta la gioia di pasqua.

10. Il dono dello Spirito come frutto della croce

Durante i discorsi di addio Gesù promette l’assistenza conti-


nua del Paraclito; l’apostolo Giuda Taddeo pone al Signore la
domanda che si impone sempre nuovamente all’uomo che cer-
ca: «Perché tu ti riveli a noi e non al mondo?» (Gv 14,22). Per-
ché non ti mostri pieno di potenza e irresistibile agli occhi di co-
loro che non ti conoscono? La risposta di Gesù non è facile da
capire perché essa supera il livello del puro dire, parlare e pen-
sare: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo
amerà e verremo da lui» (v. 23). Ciò vuol dire: la conoscenza di
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130 Chi ci aiuta a vivere?

Dio non è come la conoscenza di qualsiasi altra cosa. È una via.


E soltanto chi la percorre può vedere. Chi si rifiuta di percorre-
re la via, chi tiene pronti soltanto gli occhi della sua curiosità,
ma vuole costruire da sé la sua esistenza, non trova nulla. Gesù
unisce molto strettamente insieme il venire e il vedere. A questo
proposito Agostino si è espresso così: soltanto chi ha lo Spirito
Santo può vederlo. E si può possederlo soltanto accordandosi
con ciò che egli è: l’amore. Anzi nell’amare insieme con lui.
La liturgia della chiesa ha commentato questo pensiero già
molto prima con il Sal 68(67),19, con un testo che già Ef 4,8 ha
riformulato in stile diverso dalla sua forma originaria veterote-
stamentaria difficilmente interpretabile, facendone nello stesso
tempo un inno sull’ascensione e sulla pentecoste come pure un
inno sulla croce: «Egli salì in alto… portò doni agli uomini». Il
Signore vittoriosamente salito al cielo distribuisce come vincito-
re i doni dello Spirito Santo. Lo Spirito è frutto dell’ascensione
trionfale di Cristo, della sua ‘ascensione al cielo’. Se si ascolta
più in profondità, ciò significa nello stesso tempo: lo Spirito è il
frutto della croce. La discesa nell’abisso dell’estrema indigenza
umana, la discesa di un amore che si lascia sfruttare fino in fon-
do, era nello stesso tempo l’ascesa trionfale, dall’interno, fino al
cuore di Dio e da questa discesa-ascesa è sgorgata la fonte dello
Spirito: in lui Dio stesso è diventato, come Spirito Santo, dono
per gli uomini.
Lo Spirito è il frutto della croce: questo è incontrovertibile.
Esso viene dalla croce di Cristo e non si può averlo e vederlo se
non percorrendo questa via: là egli ‘abita’, là egli ‘viene’.

11. Che cosa celebriamo la domenica?

Era all’incirca l’anno 110 d.C. Ignazio, vescovo di Antiochia,


veniva portato via nave dalla Siria a Roma per essere lì gettato in
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Celebrare la fede 131

pasto alla fiere selvagge. Durante questo viaggio, con le mani in


catene, egli scrisse sette lettere alle comunità cristiane che si tro-
vavano lungo il suo itinerario. In una di queste lettere si trova la
frase: «Noi non celebriamo più il sabato, bensì viviamo osser-
vando il giorno del Signore (la domenica), nel quale è sorta an-
che la nostra vita…» (Magn. 9, 1). I cristiani vengono qui de-
scritti formalmente come le persone che vivono secondo la do-
menica. L’osservare la domenica determina il loro ritmo di vita,
caratterizza la loro intima forma di vita. Di domenica è sorta la
loro vita; la domenica è per essi, per così dire, il luogo nella tra-
ma del tempo in cui si giunge alla vita stessa, si sperimenta che
cosa significhi realmente vita. Questa esperienza della vita au-
tentica continua poi anche lungo la settimana. Essa resta, per
così dire, la tonalità fondamentale che persiste nel rumore della
settimana e la cui eco permette di ritrovare sempre di nuovo la
via verso l’aperto, verso la luce.
I cristiani sono la gente della domenica, dice Ignazio. Che co-
sa significa? Prima di chiederci come si fa a ‘osservare la dome-
nica’, dobbiamo riflettere su che cosa noi, in quanto cristiani,
celebriamo propriamente la domenica. Il fondamento autentico
e primo per la celebrazione della domenica sta nel fatto che in
questo giorno Cristo è risorto dai morti. Con ciò egli ha dato
inizio a un tempo nuovo: per la prima volta uno è ritornato dai
morti e non muore più. Per la prima volta uno ha spalancato il
carcere del tempo che ci tiene tutti prigionieri. Ma Gesù non è
fuggito nell’eternità. Egli non si è lasciato semplicemente alle
spalle il tempo, come un vestito dismesso, ma egli rimane con
noi. Egli è ritornato e non va più via. La celebrazione della do-
menica è, di conseguenza, soprattutto una professione di fede
nella risurrezione. È una professione di fede nel fatto che Gesù
vive. Essa è così anche una confessione che Dio vive e dona al-
l’uomo vita oltre la morte. Essa è una confessione che noi abbia-
mo qualcosa in cui sperare. Essa è una confessione che l’amore
rimane, e perciò è una professione di fede che vivere è un bene.
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132 Chi ci aiuta a vivere?

Molto presto i cristiani si sono chiesti: perché il Signore ha


scelto proprio questo giorno? Che cosa egli ha così voluto dire?
Secondo il computo ebraico del tempo, la domenica era il primo
giorno della settimana. Era dunque il giorno della creazione del
mondo. Era il giorno in cui Dio era uscito dalla sua quiete e ave-
va detto: «Sia la luce!» (Gen 1,3). La risurrezione di Gesù Cristo
non significa però la ripresa della creazione, ma la sua definitiva
conferma. Infatti, risurrezione significa proprio che il mondo
materiale non scomparirà più. Nella risurrezione di Cristo esso
è inserito nel mistero di Dio stesso. La risurrezione è la confer-
ma definitiva della parola con cui il racconto della creazione del-
l’Antico Testamento si conclude: «Dio vide quanto aveva fatto,
ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Risurrezione signifi-
ca che Dio pronuncia definitivamente il suo ‘sì’ nei confronti
della creazione. Egli lo dice, assumendola in se stesso e perciò
trasformandola, oltre ogni caducità, in ciò che permane.
La domenica è il primo giorno della settimana, il giorno della
creazione. Ciò significa dunque: la domenica è anche il giorno
del grazie per la creazione. Questo ha acquistato un significato
particolare proprio nel nostro mondo tecnico. La creazione ci è
stata consegnata da Dio come nostro spazio di vita, come spazio
del nostro lavoro e del nostro tempo libero, spazio in cui trovia-
mo ciò che è necessario alla vita e il superfluo, la bellezza delle
immagini e dei suoni, di cui l’uomo ha bisogno tanto quanto del
nutrimento e del vestito. «Assoggettate la terra», ha detto Dio
all’uomo (Gen 1,28). Questo, però, non significa: sfruttatela!
Fatele violenza! Significa invece: abbiatene cura! Imprimete in
essa il volto dello spirito! Sviluppate ciò che c’è in essa! Allora
essa sarà al vostro servizio e la sua specifica destinazione troverà
compimento. La parola ‘cultura’ viene dalla stessa radice della
parola culto. Include sia il senso del prendersi cura come quello
del venerare, del profondo rispetto. Significa aver cura delle co-
se così da rendere onore in esse alla creazione di Dio e adorare
in tal modo Dio stesso.
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Celebrare la fede 133

Ogni domenica, perciò, è una festa della creazione. Essa è


sempre anche una professione del primo articolo di fede: io cre-
do in Dio, creatore del cielo e della terra. Ci vuole ricordare che
noi, prima del nostro fare, già riceviamo in dono la creazione.
Essa vuol risvegliare in noi il sentimento della riconoscenza e
del rispetto. Vivere secondo la domenica significa dunque an-
che organizzare il lavoro nel mondo secondo questi sentimenti
e secondo questo orientamento fondamentale. Ciò significa di-
sponibilità alla moderazione nell’utilizzare la creazione: dob-
biamo usarne, ma non abusarne. Non serve a nulla incomincia-
re improvvisamente a protestare, in qualche posto, contro nuo-
ve imprese. Questo resta illogico e insensato, se non ci conver-
tiamo dall’abusare all’usare, dallo sfruttare all’avere cura. Vive-
re secondo la domenica significa essere in cammino verso que-
sta consapevolezza; significa realmente tutto uno stile di vita,
che noi, proprio in quanto cristiani, dobbiamo in questo tempo
cercare con nuova risolutezza…
Abbiamo finora detto: la domenica è il giorno della risurre-
zione di Gesù Cristo. Essa è come il primo giorno della creazio-
ne. Da un altro punto di vista, si poteva anche dire: dopo il setti-
mo giorno, il sabato, essa è l’ottavo giorno. È il giorno che sta
dopo la settimana del tempo della creazione; il giorno che ci
rinvia, oltre il nostro tempo, al mondo nuovo. Il numero otto è
diventato per i cristiani simbolo del mondo futuro. Essi hanno
costruito, per esempio, i battisteri nella forma dell’ottagono per
indicare che qui avviene la nascita al mondo nuovo, incomincia-
to con la risurrezione di Cristo. Così, con la domenica celebria-
mo anche la nostra fede nel ritorno del Signore. Essa non è solo
un giorno del grazie e del volgersi indietro, ma soprattutto an-
che un giorno di speranza: di apertura sul futuro. Nella celebra-
zione dell’eucaristia inizia per noi già sempre il ritorno di Cri-
sto: il Signore viene incontro a noi attraverso le porte chiuse
della nostra angoscia, come un tempo, il mattino di pasqua, si
fece incontro ai discepoli (Gv 20,19). Il cristianesimo non è una
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134 Chi ci aiuta a vivere?

religione del passato, ma in quanto cristiani abbiamo ciò che è


decisivo ancora davanti a noi.
Il Signore viene e noi andiamo incontro a lui. Abbiamo qual-
cosa in cui sperare: il regno di Cristo, il regno di Dio. Possiamo
guardare al futuro pieni di fiducia; esso sarà più grande del pas-
sato. Ma possiamo allora aver fiducia, soltanto se andiamo con
Cristo. E costruiamo veramente, solo se costruiamo con lui. Es-
sere cristiani significa vivere in modo da essere in cammino ver-
so Cristo. Solo così andiamo realmente avanti.
Mentre i cristiani non hanno escogitato alcun nome per gli al-
tri giorni della settimana, limitandosi a enumerarli semplice-
mente in successione, essi hanno dato a questo giorno un nome
nuovo: giorno del Signore. Così si chiama ancor oggi nelle lin-
gue di origine latina e nelle lingue slave. Nelle lingue germani-
che si è conservata l’antica denominazione, giorno del sole, per-
ché Cristo è il sole che sorge. Lui videro i cristiani dietro la pa-
rola della creazione: «Sia la luce»; lui hanno atteso come la luce
definitiva, che sorge dalla notte della morte per un giorno che
non conosce più sera, perchè il vero sole – l’amore – non tra-
monta mai.

Come celebriamo la domenica?

Innanzitutto, da quanto abbiamo finora detto è emerso chia-


ro che la domenica non è un giorno libero a piacere, che si pos-
sa collocare come si vuole nella settimana. In quanto giorno del-
la risurrezione di Gesù Cristo, in quanto il primo e al tempo
stesso l’ottavo giorno, che ha assunto in sé anche il sabato e così
l’unità di creazione e alleanza, esso ci precede: ci è dato come
segno del Creatore e del Salvatore, del grazie e della speranza
nel ritmo del nostro tempo, un segno che non abbiamo escogi-
tato noi, ma che riceviamo come anticipo per il nostro rapporto
con il tempo. In quanto giorno della partecipazione al riposo di
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Celebrare la fede 135

Dio e quale giorno della venuta del Risorto che raccoglie i suoi
discepoli, fuggiti nel privato, per spezzare con loro il pane, que-
sto è il giorno della liturgia, che, a sua volta, non siamo stati noi
a inventare: il primo giorno è, per così dire, la finestra che il Si-
gnore ha aperto, con la sua risurrezione, nel muro del tempo.
Nel ritmo del tempo esso è l’ora del suo ritorno e questo venire
di Cristo a noi significa: essere una cosa sola nello spezzare il
pane, in cui egli veramente viene incontro a noi, si fa veramente
presente con noi e in noi.
Perciò, il precetto della domenica non è una trovata arbitra-
ria della chiesa. Il precetto esprime soltanto in forma giuridica
ciò che per la chiesa è stato presente fin dall’inizio, a partire da-
gli apostoli, come realtà di fatto, nel suo dar risposta all’evento
del primo giorno. Così, gli Atti degli Apostoli ci riferiscono che
Paolo, a Troade, la domenica ha celebrato l’eucaristia (20,6-11);
la celebrazione domenicale dell’eucaristia viene qui presuppo-
sta già come impegno stabile della cristianità.
Dalla prima lettera ai Corinzi di Paolo sappiamo che la dome-
nica era il giorno della colletta per la chiesa di Gerusalemme (1
Cor 16,1s.); così appare già anche il nesso tra liturgia e caritas,
tra essere liberi per Dio e diventar liberi per l’uomo. Giovanni,
nell’Apocalisse, colloca la sua prima visione espressamente nel
giorno del Signore (Ap 1,10): in questo modo il Signore rende
partecipe, per così dire, lui che è in esilio, che è privato della co-
munione eucaristica della chiesa, alla liturgia comune, alla sua
presenza pasquale. La cosiddetta Dottrina degli apostoli, un li-
bro apparso all’incirca tra il 90 e il 100, dice, a partire da una
tradizione da tempo consolidata: «Nel giorno del Signore però
vi riunite, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver prima
confessato i vostri peccati affinché la vostra offerta sia pura»
(Did. 14, 1). Riteniamo dunque fermamente: non dipende dalla
chiesa o dal singolo cristiano se e quando celebrare la liturgia, e
che cosa fare della domenica. La domenica è la risposta della
chiesa a ciò che il Signore ha fatto e fa: egli ha fatto di questo
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136 Chi ci aiuta a vivere?

giorno il suo giorno e il nostro giorno, il giorno della riunione


comune con lui nella liturgia della chiesa.
Con ciò sì è già dato risposta anche ad alcune altre domande.
Uno potrebbe dire: io non sopporto l’aria cattiva degli edifici
ecclesiastici e i canti noiosi. Mi disturba inginocchiarmi stretto
tra gente d’ogni tipo che io non conosco e ascoltare un parroco
che recita preghiere che io non capisco. Preferisco andare in
montagna, nel bosco, al mare e mi sento più religioso immerso
nella libera natura di Dio piuttosto che in una assemblea che
non mi dice nulla. A questo occorre rispondere: non possiamo
scegliere noi se e come vogliamo onorare Dio; ciò che conta è
che noi rispondiamo a lui là dove egli si dà a noi. Non possiamo
stabilire di nostra iniziativa dove Dio debba incontrarci e non
possiamo arrivare fino a lui da noi stessi, per nostra volontà.
Egli può venire a noi e farsi da noi trovare, dove egli vuole. Per-
ciò dobbiamo rispondergli là dove egli ha prima risposto a noi,
e non là dove noi preferiremmo averlo. Celebrare l’eucaristia si-
gnifica che noi entriamo nella risposta di Dio già data e in essa
diventiamo noi stessi capaci di rispondere. L’importante non è
un qualunque pio sentimento che riduce la religione a qualcosa
di non vincolante e di privato, ma l’obbedienza che accoglie il
suo appello. Il Signore non vuole i nostri sentimenti privati, ma
intende raccoglierci a formare una comunità e, a partire dalla
fede, vuole costruire la nuova comunità della chiesa. Della litur-
gia fa parte il corpo e fa parte la comunità con i suoi limiti e le
sue scomodità. Perciò anche il chiederci: «Che cosa mi dice?», è
domanda ingannevole.
Nella liturgia non possiamo essere semplicemente dei passivi
ricevitori, che si lasciano inondare di bei sentimenti e alla fine
misurano il profitto del proprio benessere psichico per valutare
in base a esso il valore della liturgia. Nella liturgia non si tratta
del fatto che essa ‘dica’ qualcosa, ma di coinvolgere noi stessi
nell’obbedienza della fede e della chiesa. Questo non lo si co-
glie subito nel guadagno psichico misurabile, anzi all’inizio può
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Celebrare la fede 137

essere persino faticoso. Ma chi si lascia continuamente interpel-


lare dalla liturgia, chi accetta la difficoltà del pregare comunita-
rio con le preghiere antiche della fede, chi credendo e pregando
penetra nella profondità di questa corrente di preghiera, costui
sperimenta come a poco a poco viene portato oltre se stesso; il
suo pensare e tutta la sua vita acquistano profondità, purezza e
libertà. Non si tratta affatto più del proprio piccolo Io; chi, di
domenica in domenica, celebra l’eucaristia della chiesa, prende
parte alla grandezza e all’ampiezza del pregare della chiesa, che
si estende universalmente e temporalmente, e in esso alla am-
piezza di Gesù Cristo stesso, il quale nell’eucaristia mantiene la
sua promessa: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a
me» (Gv 12,32). Perciò non si tratta neppure di fare dell’eucari-
stia un oggetto di forme arbitrarie, in cui ciò che è grande viene
ridotto a nostra misura: non è l’eucaristia che va ridotta alla no-
stra misura, ma noi dobbiamo lasciarci portare alla sua misura,
la misura di Gesù Cristo.
Con ciò si è già risposto anche ad altre domande che affiora-
no in questo contesto. La chiesa non ha il diritto di sostituire la
celebrazione eucaristica domenicale con altre forme di liturgia.
Questo può avvenire soltanto in casi di reale necessità. Quando
si dà un caso di necessità, deve essere accuratamente vagliato in
dettaglio. Secondo un ordinamento ecclesiastico antico, un sa-
cerdote può celebrare l’eucaristia non più di tre volte in una
giornata – questo è un criterio. La possibilità per i fedeli di an-
dare in una chiesa per la celebrazione dell’eucaristia è l’altro
criterio con cui le comunità e i singoli cristiani, insieme con il
loro parroco, si devono confrontare accuratamente. La situazio-
ne odierna, in cui non è possibile celebrare ogni domenica l’eu-
caristia in tutti gli antichi luoghi di culto, deve essere una occa-
sione per imparare reciprocamente l’ospitalità spirituale: nessu-
na comunità può chiudersi in se stessa e voler andare soltanto
nella propria chiesa. È cattolico proprio l’andare, la domenica,
gli uni verso gli altri, superare i confini di comunità rigidamente
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138 Chi ci aiuta a vivere?

chiuse, accogliersi vicendevolmente; proprio questa ospitalità,


che diventa amicizia e conduce a una reciprocità più grande,
appartiene all’essenza dell’eucaristia. In questo senso la odierna
situazione di necessità potrebbe essere anche una opportunità
di diventare ‘cattolici’ nel senso più profondo della parola, ossia
aperti gli uni per gli altri, creativi nel servizio reciproco: acco-
gliere anziani e malati, non soltanto scambi tra comunità, ma
anche all’interno di esse prendersi a cuore reciprocamente gli
uni degli altri, per andare insieme in chiesa. Qui si apre un gran-
de campo di attività per un modo vivo di essere chiesa gli uni
con gli altri.

12. Liturgia e vita

Che cosa si intende per ‘liturgia’? Che cosa avviene in essa?


In quale tipo di realtà ci imbattiamo in essa? Negli anni Venti
del 1900 si fece il tentativo di ricomprendere la liturgia come
‘gioco’; il punto di paragone era anzitutto il fatto che la liturgia,
come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale
quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, vie-
ne meno quando il ‘gioco’ finisce. Un altro punto di paragone
era che il gioco è sì dotato di senso, ma allo stesso tempo è libe-
ro e, proprio per questo, ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi,
di liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i
giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme con le costrizioni
che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche
tempo, da tutto ciò che opprime la nostra vita lavorativa. Il gio-
co sarebbe, per così dire, un altro mondo, un’oasi di libertà in
cui possiamo per un momento lasciar scorrere liberamente l’esi-
stenza; di tali momenti di evasione dal potere del quotidiano
noi abbiamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso. In que-
sto ragionamento c’è qualcosa di vero, ma una simile osserva-
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Celebrare la fede 139

zione non può bastare. Infatti, se così fosse, sarebbe in fondo


del tutto secondario a quale gioco giochiamo; tutto ciò che si è
detto può essere applicato a qualunque gioco, il cui necessario e
intrinseco legame al rispetto delle regole sviluppa subito la sua
particolare fatica e conduce a situazioni a loro volta intricate; si
pensi al mondo attuale dello sport, ai campionati di scacchi o ad
altri giochi: dovunque si vede che il gioco, dal totalmente altro
di un mondo diverso o di un non-mondo, subito diventa un
pezzo di mondo, con sue leggi, sempre che non voglia perdersi
in puri, vuoti trastulli.
C’è ancora un aspetto di questa teoria del gioco che merita di
essere menzionato e che ci porta molto più vicino all’essenza
particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare in molti
suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita, un addestra-
mento a quella che sarà la loro vita successiva, senza però com-
portare tutto il peso e la serietà di quest’ultima. Allo stesso mo-
do la liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti, davanti alla vera
vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come dei bam-
bini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe
allora una forma completamente diversa di anticipazione, di
esercizio preliminare: preludio della vita futura, della vita eter-
na, di cui Agostino dice che, a differenza della vita attuale, non
è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della
libertà del donare e del dare. La liturgia sarebbe allora riscoper-
ta del nostro vero essere bambini, dentro di noi, dell’apertura
alla grandezza che ci sta davanti e che non è ancora compiuta
con la vita adulta; essa sarebbe una forma ben definita della
speranza, che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita au-
tentica: quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della
totale apertura reciproca. Così, essa imprime anche nella vita
apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della li-
bertà, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire il cielo
sulla terra.
Una simile applicazione della teoria del gioco innalza la litur-
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140 Chi ci aiuta a vivere?

gia ben al di sopra del gioco in generale, in cui vive pur sempre
l’anelito del vero ‘gioco’, del totalmente altro di un mondo in
cui ordine e libertà si fondono tra loro; rispetto alla superficiali-
tà del gioco usuale, prigioniero comunque delle proprie finalità
e, insieme, umanamente vuoto, essa fa emergere la particolarità
e l’alterità del ‘gioco’ della sapienza, di cui parla la Bibbia e che
si può quindi porre in rapporto con la liturgia. Ma ci manca an-
cora un contenuto essenziale di questo abbozzo, dato che il
pensiero della vita futura vi compare per ora solo come un vago
postulato e la vista di Dio, senza la quale la ‘vita eterna’ sarebbe
solo deserto, resta ancora del tutto indeterminata. Voglio quin-
di proporre un nuovo approccio, traendolo, questa volta, dalla
concretezza dei testi biblici.
Nei racconti degli eventi che precedettero l’uscita di Israele
dall’Egitto, così come delle modalità dell’esodo, emergono due
diverse finalità di questo evento straordinario. Una, nota a tutti
noi, è il raggiungimento della terra promessa, in cui Israele deve
vivere finalmente libero e indipendente su una terra propria, tra
confini sicuri. Accanto a essa compare però ripetutamente
un’altra finalità. L’ordine che originariamente Dio dà al faraone
è il seguente: «Manda via il mio popolo, perché mi serva nel de-
serto» (Es 7,16). Questa espressione – «Manda via il mio popo-
lo, perché mi serva» – viene ripetuta con leggere varianti quat-
tro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e
Aronne (Es 7,26; 9,1; 9,13; 10,3). Nel corso delle trattative con
il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. Il
faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema
è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo mo-
mento acconsente nella forma seguente: «Andate a sacrificare al
vostro Dio nel paese» (Es 8,21). Ma Mosè – tenendo fede al co-
mando di Dio – insiste nell’affermare che per il culto è necessa-
rio l’esodo. Il luogo in cui andare è il deserto: «Per un cammino
di tre giorni andremo nel deserto a sacrificare al Signore, nostro
Dio, come ci aveva detto» (8,23). Dopo le piaghe successive, il
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Celebrare la fede 141

faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso.


Ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della di-
vinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli
uomini, mentre le donne e i bambini, così come il bestiame, de-
vono rimanere in Egitto. In tal modo presuppone una prassi
cultuale allora usuale, secondo cui solo gli uomini erano prota-
gonisti attivi del culto. Mosè, però, non può negoziare con il so-
vrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo a
un compromesso politico: la forma del culto non è una questio-
ne di concessioni politiche; esso ha in se stesso la propria misu-
ra, può essere regolato solo dalla misura della rivelazione, a par-
tire da Dio. Per questo viene respinta anche la terza proposta di
compromesso del faraone, che questa volta è disposto a conce-
dere molto di più e acconsente che anche donne e bambini pos-
sano partire. «Solo restino il vostro gregge e il vostro armento»
(10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il bestiame,
poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché
non arriveremo laggiù» (10,26). In tutto ciò non si parla della
terra promessa; unico scopo dell’esodo appare l’adorazione,
che può avvenire solo secondo la misura di Dio e che, quindi,
sfugge alle regole di gioco del compromesso politico.
Israele non parte per essere un popolo come tutti gli altri;
parte per servire Dio. La meta dell’esodo è il monte di Dio, an-
cora sconosciuto, è il servizio da rendere a Dio. Ora si potrebbe
obiettare che l’accento posto sul culto nel corso delle trattative
con il faraone sarebbe stato di natura tattica. Lo scopo vero e
ultimo dell’esodo non sarebbe stato cioè il culto, ma la terra,
che costituisce anzi il vero oggetto della promessa fatta ad
Abramo. Non credo che con ciò si renda giustizia alla gravità
che si percepisce nei testi. In fondo, la contrapposizione di terra
e culto è priva di senso: la terra viene data perché sia un luogo
di culto del vero Dio. Il semplice possesso della terra, la sempli-
ce autonomia nazionale farebbero scendere Israele al livello di
tutti gli altri popoli. Questa finalità porterebbe a disconoscere
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142 Chi ci aiuta a vivere?

la specificità dell’elezione: l’intera storia dei libri dei Giudici e


dei Re, ripresa e rispiegata nelle Cronache, mostra appunto che
la terra come tale, presa in se stessa, resta ancora un bene inde-
terminato, che diventa vero bene, vero dono della promessa
compiuta, solo se vi regna Dio; se la terra non esiste come una
sorta di stato autonomo, ma se è lo spazio dell’obbedienza, in
cui si compie la volontà di Dio e così si realizza la giusta forma
dell’esistenza umana. L’esame del testo biblico ci consente però
di determinare ancora più precisamente il rapporto che inter-
corre tra i due scopi dell’esodo. L’Israele peregrinante non ap-
prende ancora, dopo tre giorni (come era stato annunciato nel
colloquio con il faraone), quale forma di sacrificio Dio pretenda
da lui. Tre mesi dopo, però, «dall’uscita dei figli d’Israele dalla
terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono nel deserto del Sinai»
(Es 19,1). Il terzo giorno avviene allora la discesa di Dio sulla ci-
ma del monte (19,16-20). Ora Dio parla al popolo, gli manifesta
la sua volontà nelle dieci sante parole (20,1-17) e stabilisce con
Mosè l’alleanza (Es 24), che si concretizza in una forma minu-
ziosamente regolata di culto. In tal modo lo scopo della peregri-
nazione nel deserto, annunciato al faraone, si è compiuto: Israe-
le impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto. Di tale
adorazione fa parte il culto, la liturgia in senso stretto; ma essa
richiede anche il vivere secondo la volontà di Dio, che è una
parte irrinunciabile della vera adorazione. «La gloria di Dio è
l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio», afferma
sant’Ireneo (Adv. haer. IV, 20, 7), cogliendo esattamente ciò che
avviene nell’incontro sulla montagna nel deserto: in definitiva è
la vita stessa dell’uomo, dell’uomo che vive secondo giustizia, la
vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se rice-
ve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve pro-
prio a questo, a offrire questo sguardo e a dare così la vita, che
diventa gloria per Dio.
Tre cose sono importanti per la nostra questione: sul Sinai il
popolo non riceve solo delle disposizioni cultuali, ma un ordi-
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Celebrare la fede 143

namento giuridico e una regola di vita completi. Solo in questo


modo esso si costituisce come popolo. Un popolo senza un or-
dinamento giuridico comunitario non può sussistere. Esso pre-
cipita nell’anarchia, che è la parodia della libertà, il suo annulla-
mento nell’arbitrio di ciascuno, che è la sua totale assenza di li-
bertà. Nell’ordinamento dell’alleanza al Sinai – ed è il secondo
punto – i tre aspetti del culto, del diritto e dell’éthos sono indis-
solubilmente intrecciati tra loro: è questa la loro grandezza, ma
anche il loro limite, come si dimostrerà nel passaggio da Israele
alla chiesa dei pagani, in cui questo intreccio dovrà essere dis-
solto per dare spazio a una molteplicità di forme giuridiche e
ordinamenti politici. Ma dopo questo inevitabile smembramen-
to, che in epoca moderna ha portato infine alla totale secolariz-
zazione del diritto e che ha voluto escludere completamente
ogni riferimento a Dio nell’elaborazione del diritto, non si può
certo dimenticare che davvero esiste una fondamentale correla-
zione interna fra questi tre ordinamenti: un diritto che non si
basi sulla morale diventa ingiustizia; una morale e un diritto che
non prendano le mosse dal riferimento a Dio degradano l’uo-
mo, perché lo privano della sua misura più elevata e della sua
possibilità più alta, perché gli negano la visione dell’infinito e
dell’eterno: con questa apparente liberazione egli viene sotto-
posto alla dittatura della maggioranza dominante, a criteri uma-
ni contingenti che finiscono per fargli violenza. Arriviamo così a
una terza constatazione, che ci riporta al nostro punto di par-
tenza, alla questione dell’essenza del culto e della liturgia: un
ordinamento delle cose umane che non conosce Dio sminuisce
l’uomo. Per questo culto e diritto non possono essere completa-
mente separati tra di loro: Dio ha diritto alla risposta dell’uomo,
all’uomo stesso, e dove questo diritto di Dio scompare del tutto
si dissolve anche l’ordinamento giuridico umano, perché gli vie-
ne a mancare la pietra angolare che tiene insieme il tutto.
Che cosa significa allora tutto ciò per la nostra domanda sulle
due finalità dell’Esodo, in cui viene ultimamente affrontata la
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144 Chi ci aiuta a vivere?

questione dell’essenza della liturgia? È evidente che quel che è


accaduto sul Sinai, durante la sosta nella peregrinazione attra-
verso il deserto, è costitutivo per il senso che avrà l’insediamen-
to nella terra promessa. Il Sinai non è una stazione intermedia,
una pausa nella marcia verso ciò che interessa davvero, ma offre
per così dire quella terra interiore, senza la quale l’esteriore re-
sta inabitabile. Solo perché Israele è costituito come popolo
grazie all’alleanza e alla legge di Dio che essa contiene, solo per-
ché ha ricevuto la forma comunitaria della vita retta, la terra
può divenire per lui davvero un dono. Il Sinai resta presente
nella terra; nella misura in cui la sua realtà va persa, anche la ter-
ra viene interiormente persa, fino alla condanna all’esilio. Tutte
le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio, volgendosi
agli idoli – ai poteri e ai valori mondani – viene meno anche la
sua libertà. Può vivere nella sua terra e tuttavia è come se fosse
in Egitto. Il semplice possesso della propria terra e del proprio
stato non garantisce la libertà, può divenire una brutale schiavi-
tù; ma quando lo smarrimento della legge è totale, finisce per
perdere anche la terra. Quanto il ‘servire Dio’, la libertà del giu-
sto culto di Dio – che di fronte al faraone appare come l’unico
scopo dell’uscita dall’Egitto – sia davvero ciò di cui tratta nel-
l’Esodo, lo si può vedere in tutto il Pentateuco: questo vero e
proprio ‘canone nel canone’, il cuore della Bibbia di Israele, si
svolge tutto al di fuori della terra santa. Esso si conclude ai mar-
gini del deserto, ‘al di là del Giordano’, dove Mosè riassume di
nuovo il messaggio del Sinai. Diventa così evidente qual è il fon-
damento del permanere nella terra, la condizione per poter vi-
vere in comunità e in libertà: lo stare nella legge di Dio, che or-
dina le cose umane secondo giustizia, plasmandole a partire da
Dio e per Dio.
Che significa tutto ciò per il nostro problema? Anzitutto si
vede ancora una volta che il ‘culto’, inteso nella sua vera pienez-
za e profondità, va ben oltre l’azione liturgica. Esso in definitiva
abbraccia l’ordine di tutta la vita umana, nel senso delle parole
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Celebrare la fede 145

di Ireneo: l’uomo diventa glorificazione di Dio, lo mette per co-


sì dire in luce (ed è questo il culto), quando vive guardando a
Lui. D’altra parte è vero che il diritto e la morale non stanno in-
sieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono
da esso ispirazione. Che tipo di realtà troviamo allora nella li-
turgia? Possiamo dire anzitutto che chi elimina Dio dal concet-
to di realtà è solo apparentemente un realista. Egli astrae da Co-
lui in cui noi «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28). Ciò si-
gnifica che solo se il rapporto con Dio è giusto, anche tutte le al-
tre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e del-
l’uomo con le altre realtà create – possono funzionare. Il diritto
– lo abbiamo già visto – è costitutivo per la libertà e la comuni-
tà; il culto, vale a dire il giusto modo di rapportarsi a Dio è, a
sua volta, costitutivo per il diritto. Possiamo ora ampliare que-
sta visione facendo un altro passo avanti: l’adorazione, la giusta
modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la
giusta esistenza umana nel mondo; essa lo è proprio perché at-
traverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere
del ‘cielo’, del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce
del mondo divino nel nostro mondo. In questo senso il culto ha
di fatto – come abbiamo detto a proposito dell’analisi del ‘gio-
co’ – il carattere di un’anticipazione. Esso prefigura una vita più
definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una
vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più ab-
bozzato, diverrebbe plumbea e vuota. Per questo non esistono
società totalmente prive di culto. Persino i sistemi decisamente
ateistici e materialistici hanno realizzato nuove forme di culto,
che risultano però solo illusorie e che inutilmente cercano di na-
scondere la loro nullità nella loro ampollosa millanteria.
Con ciò arriviamo a un’ultima riflessione. L’uomo non può
‘farsi’ da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non
si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «Noi non sappiamo
con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole
emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. Se
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146 Chi ci aiuta a vivere?

Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio


che è iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli al-
tari «al dio ignoto» (cfr. At 17,23); può protendersi con il pen-
siero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni. Ma la vera li-
turgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possia-
mo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Es-
sa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra crea-
tività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice
autoconferma. Essa presuppone qualcosa che stia concreta-
mente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via alla no-
stra esistenza.
Di questa non arbitrarietà del culto vi sono nell’Antico Testa-
mento numerose e impressionanti testimonianze. In nessun al-
tro passo, però, questo tema si manifesta con tanta drammatici-
tà come nell’episodio del vitello d’oro (o meglio, del torello).
Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non dove-
va affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. Essa
non passa apertamente da Dio all’idolo, ma resta apparente-
mente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha con-
dotto Israele fuori dall’Egitto e si crede di poter rappresentare
in modo appropriato la sua misteriosa potenza nell’immagine
del torello. In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente
anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una
caduta nell’idolatria. Due cose portano a questo cedimento, ini-
zialmente appena percettibile. Da una parte la violazione del di-
vieto delle immagini: non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio
invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio li-
vello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In
tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassa-
mento di Dio alle nostre dimensioni: Egli deve essere lì dove c’è
bisogno di Lui e deve essere così come si ha bisogno di Lui.
L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone
in realtà al di sopra di lui. Con ciò si è già accennato alla secon-
da cosa: si tratta di un culto fatto di propria autorità. Se Mosè
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Celebrare la fede 147

rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile, allora


lo si porta al proprio livello. Questo culto diventa così una festa
che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che
confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cer-
chio che gira intorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi. La
danza intorno al vitello d’oro è l’immagine di questo culto che
cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfaci-
mento. La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto
realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in de-
finitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria
iniziativa, di un piccolo mondo alternativo. Allora la liturgia di-
venta davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono
del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità. Ma alla
fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’è più
quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un
vero incontro con il Dio vivente.
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5.
Rispondere alla speranza

1. Sapienza – la nostra autentica vocazione

I progressi della tecnologia genetica hanno in epoca recente


suscitato speranze quasi utopiche. Le nostre capacità tecniche
ed economiche sono senza dubbio cresciute in un modo prima
impensabile. La quantità delle conoscenze aumenta e la comu-
nicazione tra le scienze si intensifica. L’esattezza dei nostri cal-
coli è degna di ammirazione. E nonostante tutte le atrocità del
nostro tempo si rafforza in molti pur sempre l’opinione che noi
siamo ora vicini a realizzare la felicità maggiore possibile per il
maggior numero possibile di persone e a dare avvio finalmente
a una nuova fase della storia, a una civiltà dell’umanità in cui
tutti, liberati dalla sofferenza e dai bisogni, possiamo finalmente
mangiare, bere e godere a sazietà. Con tutto il nostro sapere,
con tutte le nostre capacità, siamo anche diventati saggi? Mi
viene qui in mente una parabola che Gesù racconta e che è ri-
portata in Lc 12,16-21:
«Disse poi una parabola: La campagna di un uomo ricco ave-
va dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poi-
ché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: de-
molirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi racco-
glierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima
mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, man-
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150 Chi ci aiuta a vivere?

gia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte
stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di
chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio»
L’uomo ricco di questa parabola era senza dubbio intelligen-
te; di affari, egli si intendeva. Sa calcolare le opportunità di mer-
cato; tiene conto dei fattori di incertezza, sia nella natura come
pure nei comportamenti umani. E il successo gli dà ragione. Di
questioni così incerte come l’esistenza di un Dio, un uomo del
genere non si occupa. Egli va sul sicuro, si occupa di ciò che è
calcolabile. Perciò anche lo scopo della sua vita è molto intra-
mondano, palpabile: la salute e la felicità che deriva dal benes-
sere. Ma accade proprio ciò che egli non aveva messo in conto:
«Stolto», gli dice Dio. Nonostante ogni calcolo, questo uomo
aveva dimenticato che la sua anima non aspirava solo al posses-
so e al piacere, ma sarebbe comparsa davanti a Dio. Questo
stolto intelligente mi sembra l’esatta immagine del nostro mo-
derno comportamento medio. Proprio nell’apparente avvici-
narsi all’autoliberazione dell’umanità erompono le inquietanti
esplosioni dal profondo dell’anima umana, insoddisfatta e op-
pressa, e ci dicono: tu stolto, tu hai dimenticato te stesso, la tua
anima e la sua inestinguibile sete: il suo desiderio di Dio.
L’agnosticismo del nostro tempo, apparentemente tanto razio-
nale, che lascia che Dio sia Dio, per rendere l’uomo uomo, si di-
mostra come la stoltezza più miope. Scopo di ogni sapienza do-
vrebbe essere di percepire l’appello interiore della nostra anima
a riscoprire al suo fondo il mistero di Dio.
Questo essere in cammino per cercare il fondamento creato-
re di tutte le cose è qualcosa di diverso dal pensiero ‘pre-critico’
o acritico. Al contrario, la rinuncia a questa somma apertura
dell’uomo è un atto di autochiusura. Quando si tratta della di-
gnità dell’uomo, della sua rovina e della sua salvezza, si deve
constatare questo: l’uomo che si fa signore della verità e, alla fi-
ne, quando essa non si lascia dominare, la lascia da parte pone
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Rispondere alla speranza 151

in definitiva il potere al di sopra della verità. Il suo criterio di-


venta la forza, il potere. Ma proprio così egli perde se stesso: la
sua presunta salita al trono è in realtà già una caduta.
Se consideriamo il cammino intellettuale dell’età moderna,
ciò che abbiamo detto si fa concreto. Le scienze naturali nel
senso moderno incominciano quando l’uomo – come Galilei si
espresse – mette all’occorrenza la natura alle corde con l’esperi-
mento e così le estorce i segreti che essa non vuole mostrare
spontaneamente. In questo modo è senza dubbio venuta alla lu-
ce una cosa importante e per noi tutti utile. Abbiamo appreso
tutto ciò che si può fare con la natura. Soltanto che, se noi ac-
cettiamo solo questo modo di pensare, per quanto importante
esso sia, allora il trono da cui dominare sulla natura, sul quale ci
siamo posti, viene costruito sul nulla; esso necessariamente ca-
drà e trascinerà nella caduta noi e il mondo.
Il poter fare non giova a nulla, se non sappiamo a che cosa ser-
ve, se non ci chiediamo più chi noi siamo e quale sia la verità del-
le cose. Se conta soltanto quel sapere che alla fine è verificabile
attraverso un poter fare, allora noi abbiamo elevato il ‘potere’ a
criterio unico e tradito la nostra autentica vocazione, la verità.
A un atteggiamento ‘critico’ in base al quale l’uomo critica
tutto, a eccezione di se stesso, noi opponiamo la sapienza. Essa
è apertura verso l’infinito, vigilanza e sensibilità per la totalità
dell’essere; una umiltà del pensiero che è pronta a piegarsi a una
verità davanti alla quale noi non siamo giudici, ma mendicanti.
Se già si accetta che i grandi risultati della scienza si schiudono
solo con lungo, attento e paziente lavoro, pronto a correggersi
di continuo e a imparare, allora si comprende da sé che le mas-
sime verità richiedono una grande costanza e l’umiltà dell’ascol-
tare. Solo all’umile apprendere, che non si lascia scoraggiare da
nessun rifiuto e traviare né dal plauso né da contraddizione, e
neppure dai desideri o dalle avversioni del proprio cuore – solo
a tale umiltà del pensiero si schiude anche l’accesso alla vera
grandezza dell’uomo. Questa apertura esige la più vigile auto-
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152 Chi ci aiuta a vivere?

critica. Essa è più aperta e più critica di quella limitazione al-


l’empirico in cui l’uomo fa diventare la sua volontà di dominio
il criterio ultimo della conoscenza. Essa è l’atteggiamento di cui
abbiamo bisogno, nel futuro più che in passato.

2. A che scopo ancora il cristianesimo?

Risuona nei nostri orecchi l’affermazione, sempre più spon-


tanea, che oggi la fede della chiesa non serve più a nulla. Defini-
re tradizionale una realtà equivale ovunque, ormai, a ritenerla
sorpassata e priva di importanza. E la chiesa vive della tradizio-
ne di ciò che essa ha ricevuto dall’inizio e sembra, perciò, nella
forma almeno che ha avuto sinora, non avere davanti a sé più al-
cuna prospettiva. Un discorso del genere non eserciterebbe un
simile potere, se non poggiasse su di un’esperienza, alla quale è
difficile potersi sottrarre: in primo luogo, la sensazione che tut-
to si trasforma nel mondo; esso sembra mutarsi sempre più in
fretta, con una radicalità tale che nessuno dei criteri abituali
regge più e unicamente strade totalmente nuove possono soc-
correre un’umanità totalmente trasformata; accanto a questo, in
secondo luogo, ci assale l’esperienza dell’inutilità del cristiane-
simo: esso non riesce a strappare l’uomo dalla sua miseria, e per
molti si riduce così a una mera lusinga, a una redenzione appa-
rente che non tocca la realtà. In effetti, se non si partecipa al-
l’esperienza cristiana, è impossibile esprimere un giudizio di-
verso da questo. Si incomincia allora a vergognarsi del messag-
gio cristiano e si vogliono suggerire dei risultati tangibili: inter-
venti sociali ed economici, che nessuno può contestare e che li-
berano apertamente l’uomo, lo redimono dalla sua miseria. In-
tanto, la necessità cresce con ritmo più veloce degli aiuti che le
vengono contrapposti; col ripiegare sul tangibile, con cui si vuol
far vergognosamente dimenticare una tradizione e si vuol spie-
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Rispondere alla speranza 153

gare il cristianesimo come parte di un moderno lavoro di uma-


nizzazione, aumenta contemporaneamente la disunione della
chiesa: essa diviene così per tutti ancor più infelice, ancor più
disperata, ancor più problematica. Poco sembra rimanere del
lieto messaggio. Vi sono subentrati diverbi e situazioni critiche.
Qualche tempo fa il cardinal Döpfner, per spiegare il disagio
che si diffonde nella chiesa d’oggi, l’ha paragonata a un cantie-
re; uno spirito critico ha aggiunto che sembra un cantiere dove
è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare di
proprio gusto: il risultato è evidente.
A che scopo ancora il cristianesimo? In luogo della redenzio-
ne proveniente dalla fede sono apparse oggi due strade, per le
quali gli uomini tentano di redimersi: quella politico-economi-
co-sociale e quella psicologica. Da un lato, la società del benes-
sere va sempre più alla ricerca di quei confessori profani che,
con la loro conoscenza scientifica dell’anima umana, dovrebbe-
ro riordinare l’esistenza scossa e svuotata: si vuol riscoprire ciò
che è amore, ciò che è parola, tutto ciò che è originario dell’uo-
mo. Ma sono veramente di aiuto questi medici? Essi possono
dire come funzionano le singole forze dell’anima umana, ma
non a che scopo. La dissociazione dell’anima, però, deriva pro-
prio dal fatto che le sue forze agiscono a vuoto. Proprio osser-
vando questi sforzi, si capisce che l’anima umana è fatta in ma-
niera tale che non si spiega da se stessa. Non è congegnata come
un orologio, come un tutto chiuso in sé, che funziona sapendo a
che parte spetta ogni singolo pezzo. Al contrario, essa vive in un
ciclo aperto, meglio, in una parabola aperta, e non se ne cava
nulla senza il punto di riferimento che sta al di fuori di essa.
S’impone qui un’immagine di Agostino: l’esistenza umana è or-
dinata in modo che Dio costituisce il punto di costruzione, al
quale essa è fissata; se quest’aggancio superiore va bene, allora
anche le altre parti restano unite in una compagine armonica;
ma se si scioglie, allora anche tutto il resto cade in rovina e non
rimangono che pezzi.
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154 Chi ci aiuta a vivere?

Ma facciamo un passo alla volta. Accanto alla redenzione psi-


cologica, vi è quella socio-economica, la via della politica totale.
Tutto è politica, sentiamo dire oggi; pertanto, solo la cosciente
politicizzazione di chiesa, fede e liturgia può dischiudere la stra-
da verso il futuro e ‘redimere’ l’uomo. Chi osserva l’enorme bi-
sogno delle genti dell’India, dell’Indocina e dei quartieri poveri
delle grandi città dell’America settentrionale e meridionale, chi
avverte come il processo di industrializzazione programma in
maniera crescente l’uomo e minaccia di togliergli la sua anima,
costui non sottovaluterà sicuramente l’importanza della politica
per la salvezza dell’uomo. Comprenderà il perché la chiesa, fin
dall’inizio – concorde in questo con la sinagoga – ha visto nella
sfera politica un settore della salvezza dell’uomo e ha elevato la
sua preghiera per i governanti del mondo. Esiste quindi un im-
pegno politico del cristiano; se non l’assolve, egli sottrae alla sua
fede il carattere di realtà. La rettitudine e la serietà della fede si
manifestano anche nella sua capacità di una positiva azione po-
litica e di un’opposizione politica, dove è necessaro.
La preoccupazione politica è necessaria per la salvezza del-
l’uomo. Ma la politica totale sarebbe la sciagura sicura dell’uo-
mo. L’uomo ha bisogno di pane per la sua salvezza, ma non vie-
ne salvato unicamente dal pane; la giusta distribuzione del po-
tere riguarda la sua salvezza, ma la sua liberazione non può de-
rivare da una ridistribuzione di questo genere. Esiste un’inter-
pretazione politico-economica dell’Antico Testamento, per la
quale la salvezza risiederebbe nella creazione di benessere e di
sicurezza. La storia della tentazione di Gesù qualifica questo
concetto di redenzione come idea di Satana. Dietro l’invito che
Satana ha rivolto a Gesù di trasformare le pietre in pane, ed egli
gli avrebbe offerto il governo di tutti i regni del mondo, si cela-
no concezioni realissime di quel tempo: il Messia doveva prova-
re la propria identità dando in abbondanza pane a tutti ed eri-
gendo, sotto il segno del suo potere politico, un regno mondiale
di pace. Gesù non pone fine alla fame del mondo, né sovverte i
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Rispondere alla speranza 155

rapporti di potenza: non può quindi essere il Messia… Solo chi


libera l’uomo sotto l’aspetto politico-sociale, lo libera veramen-
te. Tutto il resto non conta nulla. Contro questa concezione, il
vangelo è chiaro: una siffatta liberazione consegnerebbe l’uomo
a Satana, lo renderebbe cioè completamente suo schiavo.
Ci sembra un giudizio molto duro. Ma, forse, proprio l’espe-
rienza della nostra generazione può farci nuovamente compren-
dere quest’affermazione. Nel grande romanzo di Solzenicyn, Il
primo cerchio, troviamo un singolare parallelismo con quest’as-
serzione biblica. Il parallelismo risulta già dal fatto che tutta
l’azione di questo libro si svolge all’inferno e questo inferno è
proprio là dove la politica totale ha istituito il suo paradiso:
questo paradiso è l’inferno, nel quale l’uomo distrugge l’uomo.
L’immagine diviene terribilmente plastica nella scena finale,
quando i prigionieri, per essere mimetizzati agli occhi della gen-
te, vengono sistemati su vagoni merci che portano la scritta: car-
ne. Il corrispondente del giornale francese Libération [Libera-
zione] continua a vedere simili furgoncini e annota sul taccuino:
«L’approvvigionamento della capitale non può essere che eccel-
lente».
Nel libro vi è una scena in cui mi sembra che questo discorso
abbia acquistato un’evidenza estrema. L’Autore pone sulla boc-
ca del vecchio idealista marxista Rubin un’interpretazione pro-
vocante del Faust di Goethe. Com’è noto, la tragedia di Goethe
non si chiude tragicamente, ma in un ottimismo fondato indub-
biamente su di una singolare contraddizione. Faust sarebbe sta-
to perduto, se in un momento della sua vita avesse detto: «Fer-
mati, sei così bello!». In tutte le seduzioni, con cui Satana tenta
di ammaliarlo, questa parola non gli sfugge mai di bocca. Alla
fine della sua vita, però, egli organizza schiere di operai per
strappare al mare nuova terra, e ora, al rumore dei badili che
sembrano infaticabilmente creare una nuova terra, pronuncia le
parole:
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156 Chi ci aiuta a vivere?

«Ecco della saggezza la fine ultima:


libertà e vita si merita solo chi,
quotidianamente, le deve conquistare.
E così, circondati da pericolo, trascorrono
fanciullo, adulto e vecchio il loro prezioso anno.
Vorrei vedere un tale brulichio
dentro un popolo libero su basi libere.
A quell’istante potrei dire:
Fermati, sei così bello»!

Faust ritorna così al suo inizio: egli aveva tradotto il prologo


di Giovanni «In principio era l’azione», sostituendo ‘parola’
con ‘azione’; aveva visto la salvezza del mondo non nel senso
che esso porta già in anticipo in sé e che è parola in tutti gli indi-
vidui, ma nell’azione con cui l’uomo crea a se stesso un senso.
Egli muore nella speranza della redenzione che la sua azione gli
procurerà. L’azione politico-sociale, che crea un popolo libero
su basi libere: ecco ciò che resta, ecco la salvezza. Qui s’inseri-
sce il pensiero di Rubin in Solzenicyn: «Se riflettiamo un po’ at-
tentamente, ci dovremmo forse domandare se Goethe non si sia
burlato del sentimento umano della felicità. In definitiva, infat-
ti, esso non giova a nulla… Faust pronuncia la frase liberante,
da lungo tempo agognata, a un passo dalla tomba, ingannato e
forse anche già spiritualmente ottenebrato; i lemuri lo spingono
già nella fossa…». In effetti, se si riflette con attenzione, tutto
sembra una pura ironia. I badili, il cui rumore provoca Faust al-
la sua esclamazione, sono servitori del demonio, il quale non
vuole con essi scavare un mondo nuovo, ma una tomba. Solo il
cieco, chi è divenuto cieco, può sentirvi la musica della salvezza,
senza avvertire come invece tutto è una presa in giro. Sulla base
del contesto del libro, mi pare di poter affermare che Solzeni-
cyn offre qui la sua interpretazione dello stalinismo (e, in prati-
ca, del marxismo in genere): fermati, sei così bello – si dice ora a
un mondo del lavoro, a un mondo edificato e da edificarsi di
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Rispondere alla speranza 157

propria iniziativa; ma quel mondo è, in verità, un mondo di le-


muri, nel quale viene scavata la fossa dell’uomo: una beffa del
demonio nei confronti dell’uomo, che cieco e ottenebrato, or-
mai vecchio cadente, non si accorge più di esaltare l’inferno co-
me sua liberazione.
Cerchiamo di chiarire questa verità al di fuori della metafora:
l’uomo ha bisogno di una politica, di una pianificazione e azio-
ne sociale economica. Ma dove questa diviene totale, dove la
politica pretende di essere liberazione dell’uomo, essa tenta di
sostituirsi alla teologia e alla fede, e diventa perciò schiavitù to-
tale dell’uomo. L’uomo va in rovina, quando non possiede un
senso più profondo dell’ordinamento economico. Forse, nella
storia dell’autoemancipazione dell’uomo negli ultimi 150 anni
vi furono realmente dei momenti in cui sorse irresistibile l’im-
pressione che l’uomo potrebbe non curarsi del problema di
Dio, senza per questo subire danno alcuno; potrebbe lasciarlo
da parte, perché si tratta di una questione superflua. Forse poté
capitare addirittura di vedere nel problema di Dio un ostacolo
per liberarsi dallo sviluppo e per impegnarsi espressamente per
le proprie cose. Ma chi osserva la costellazione odierna della
storia, dovrà per lo meno ridiventare molto pensieroso a questo
riguardo. La situazione odierna è determinata dalla contrappo-
sizione di positivismo (forma nuova del liberalismo) e di marxi-
smo, visto come profezia politica di salvezza: tra questi due si
combatte la lotta per l’uomo; filosoficamente ciò avviene, per
esempio, come lotta tra il neopositivismo di Popper e la scuola
di Francoforte. Se il positivismo può dimostrare a tutte le filo-
sofie marxiste che esse sono teologie segrete, che non possono
essere verificate nei fatti, il marxismo può dimostrare al positi-
vismo che la sua oggettività è senza una regola e senza meta. Ma
la vera soglia, in cui l’uomo si interroga su se stesso, alla ricerca
del suo perché e della sua strada, non è varcata né da una parte
né dall’altra. In ultima analisi, non si fa che parlare di potere e
di consumo. E così, proprio ciò che è specifico dell’uomo non è
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158 Chi ci aiuta a vivere?

toccato. Ciò che preoccupa in alcune forme del cristianesimo


moderno sta appunto nel fatto che anch’esse sembrano diventa-
te cieche per tutto ciò che non è potere o consumo, che anch’es-
se riescono a comprendere la chiesa solo sotto l’aspetto del po-
tere o della soddisfazione consumistica.
In questo modo non si può certo salvare il cristianesimo. La
sua grandezza sta nell’esistere per l’uomo. Gli offre anzitutto
una strada, gli presenta un’indicazione di come deve compor-
tarsi e vivere. Forse, solo dieci anni fa questo ci sembrava un
puro moralismo, di cui facevamo volentieri a meno. Oggi, sap-
piamo che l’uomo, il quale è privo di un’essenza (nel senso di
Sartre) e deve sempre scoprire se stesso, proprio a questo punto
va in rovina fisicamente e psichicamente e noi riusciamo ad ap-
prezzare di nuovo il dono di una vita. Certo, una via ha senso e
può quindi esser seguita solo se dà speranza in una meta, quan-
do cioè conduce avanti. Ma per l’uomo, in fin dei conti, è spe-
ranza solo l’amore. E, per chi crede, in Gesù Cristo l’amore si è
manifestato con certezza come fondamento del mondo. E a Cri-
sto conduce la strada cristiana. Sì, è egli stesso questa strada. Si
potrebbe così, forse un po’ troppo teoreticamente, definire la
formula base del cristianesimo in questo modo: l’amore creduto
e divenuto visibile in Cristo è la via su cui cammina la speranza
dell’uomo.
Mi sia permesso concludere con un’osservazione abbastanza
pratica. Nelle annotazioni della sua prigionia, Bonhoeffer ha os-
servato un giorno che oggi anche il cristiano dovrebbe vivere
quasi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Egli non do-
vrebbe coinvolgere Dio nelle faccende della sua vita quotidiana
e dovrebbe plasmare la sua vita terrena con personale responsa-
bilità. Io, invece, vorrei dire proprio il contrario: oggi, anche co-
lui per il quale l’esistenza di Dio e il mondo della fede sono di-
ventati oscuri, dovrebbe vivere praticamente quasi Deus esset,
vivere come se Dio realmente esistesse. Vivere sotto la realtà
della verità, la quale non è un nostro prodotto, ma è nostra si-
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Rispondere alla speranza 159

gnora. Vivere sotto il modello della giustizia, che noi non pen-
siamo da soli, ma è la potenza che misura noi stessi. Vivere nella
responsabilità nei confronti dell’amore, che ci attende e ci ama.
Vivere sotto la pretesa dell’eterno. Chi, infatti, vive attentamen-
te lo sviluppo, capirà che questa è l’unica maniera in cui l’uomo
può essere salvato. Dio – lui solo – è la salvezza dell’uomo; que-
sta incredibile verità, che per molto tempo ci è sembrata qual-
cosa di teorico e di irraggiungibile, è divenuta la formula più
pratica di questa nostra ora storica. E chi, sia pure esitante forse
all’inizio, si rimette a questo arduo eppure inevitabile ‘come-se’
– vivere come se Dio esistesse – si accorgerà sempre di più che
questo ‘come-se’ è la vera realtà. Con responsabilità propria si
accorgerà della sua forza liberante. E saprà profondamente e in-
distruttibilmente perché, anche oggi, sia necessario ancora il
cristianesimo, come vero e lieto messaggio che salva l’uomo.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

6.
Amicizia con Cristo

«Non abbiate paura di Cristo!»*

Signori cardinali,
venerati fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
distinte autorità e membri del Corpo diplomatico,
carissimi fratelli e sorelle!

Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle li-
tanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro
Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell’ingresso dei
cardinali in conclave, e anche oggi, quando le abbiamo nuova-
mente cantate con l’invocazione: Tu illum adiuva – sostieni il
nuovo successore di san Pietro. Ogni volta in un modo del tutto
particolare ho sentito questo canto orante come una grande
consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la di-
partita di Giovanni Paolo II! Il papa che per ben 26 anni è stato
nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo.
Egli varcava la soglia verso l’altra vita – entrando nel mistero di
Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è

* Omelia della messa per l’inizio del ministero petrino (24 aprile 2005).
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162 Chi ci aiuta a vivere?

mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel mo-
mento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli – i
suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati
il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell’aldilà, fino
alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora
sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuo-
vo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in con-
clave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come pote-
vamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 vescovi,
provenienti da tutte le culture e i paesi, trovare colui al quale il
Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere?
Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo
soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio.
E ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assu-
mere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capa-
cità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di
farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schie-
ra dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia
di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva que-
sta consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo
ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei
santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la vostra pre-
ghiera, cari amici, la vostra indulgenza, il vostro amore, la vostra
fede e la vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comuni-
tà dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno
preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comu-
nità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del
sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e
renderci simili a se medesimo. Sì, la chiesa è viva – questa è la
meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni
della malattia e della morte del papa questo si è manifestato in
modo meraviglioso ai nostri occhi: che la chiesa è viva. E la
chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò
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Amicizia con Cristo 163

mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La chiesa è


viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto
ha promesso ai suoi. La chiesa è viva – essa è viva, perché Cristo
è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul
volto del Santo Padre nei giorni di pasqua, abbiamo contempla-
to il mistero della passione di Cristo e insieme toccato le sue fe-
rite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso
profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la
gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità,
come frutto della sua risurrezione.
La chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine
voi tutti, che siete qui radunati, venerati confratelli cardinali e
vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, cate-
chisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigu-
rante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel gran-
de spazio della costruzione del regno di Dio che si espande nel
mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di
affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel
sacramento del battesimo, non sono ancora in piena comunione
con noi; e a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da
un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue ra-
dici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine –
quasi come un’onda che si espande – va a tutti gli uomini del
nostro tempo, credenti e non credenti.
Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare
un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io conside-
ro mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di
mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo.
Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia
volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto,
con tutta quanta la chiesa, della parola e della volontà del Si-
gnore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a gui-
dare la chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre
un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

164 Chi ci aiuta a vivere?

i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assun-


zione del ministero petrino; entrambi questi segni, del resto, ri-
specchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle
letture di oggi.
Il primo segno è il pallio, tessuto in pura lana, che mi viene
posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i vescovi di
Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come
un’immagine del giogo di Cristo, che il vescovo di questa città,
il servo dei servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è
la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è
per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà.
Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita –
questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa
è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifi-
ca – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi
stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui, ma la salvezza di
tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del pal-
lio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresenta-
re la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole,
che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della
vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca
nel deserto, era per i Padri della chiesa un’immagine del miste-
ro di Cristo e della chiesa. L’umanità – noi tutti – è la pecora
smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di
Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in
una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la
gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla
croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta
noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pe-
core. Il pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da
Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così
il pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui par-
lano la seconda lettura e il vangelo. La santa inquietudine di
Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che
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Amicizia con Cristo 165

tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di de-


serto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della
sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore
distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento
delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino
dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché
i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della
terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di
Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle poten-
ze dello sfruttamento e della distruzione. La chiesa nel suo in-
sieme, e i pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cam-
mino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo
della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci
dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell’agnello ha anco-
ra un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re desi-
gnassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era
un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli era-
no per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a
suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vi-
vente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli
agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli
si rivela come il vero pastore: «Io sono il buon pastore… Io of-
fro la mia vita per le pecore», dice Gesù di se stesso (Gv 10,
14s.). Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno
di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo
che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente,
sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideo-
logie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di
ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umani-
tà. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo
tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello,
ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai croci-
fissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dal-
l’impazienza degli uomini.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

166 Chi ci aiuta a vivere?

Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve esse-


re quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così co-
me ama Cristo, al cui servizio si trova. «Pasci le mie pecore», di-
ce Cristo a Pietro, e a me, in questo momento. Pascere vuol dire
amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare
significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità
di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che
egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici – in questo
momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io im-
pari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io
impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la santa chiesa,
ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per
me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo
gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a
portarci gli uni gli altri.
Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia
odierna l’insediamento nel ministero petrino, è la consegna del-
l’anello del pescatore. La chiamata di Pietro a essere pastore,
che abbiamo udito nel vangelo, fa seguito alla narrazione di una
pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato
le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore ri-
sorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta
ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a ti-
rarla su; 153 grossi pesci: «E sebbene fossero così tanti, la rete
non si strappò» (Gv 21,11). Questo racconto, al termine del
cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde a un
racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pesca-
to nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato
Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che an-
cora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Mae-
stro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento
della missione: «Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di
uomini» (Lc 5,1-11). Anche oggi viene detto alla chiesa e ai suc-
cessori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e
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Amicizia con Cristo 167

di gettare le reti, per conquistare gli uomini al vangelo – a Dio, a


Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento mol-
to particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono co-
sì: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori
dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire
di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uo-
mini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle ac-
que salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità
senza luce. La rete del vangelo ci tira fuori dalle acque della
morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vi-
ta. È proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al se-
guito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato
di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di
Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini.
E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo
quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo
che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso
dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di
Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è ne-
cessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sor-
presi dal vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che co-
noscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito
del pastore, del pescatore di uomini, può spesso apparire fatico-
so. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla
gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo.
Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del pa-
store che in quella del pescatore emerge in modo molto esplici-
to la chiamata all’unità. «Ho ancora altre pecore, che non sono
di questo ovile; anch’esse io devo condurre e ascolteranno la
mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv
10,16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il
racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazio-
ne: «sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò» (Gv 21,
11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata!, vorremmo
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168 Chi ci aiuta a vivere?

dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegria-


moci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il
possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promes-
so. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come
mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’
che siamo un solo pastore e un solo gregge! Non permettere
che la tua rete si strappi e aiutaci a essere servitori dell’unità!
In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978,
quando papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla
piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano
nelle orecchie le sue parole di allora: «Non abbiate paura, apri-
te, anzi spalancate le porte a Cristo!». Il papa parlava ai forti, ai
potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse
portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entra-
re e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente
portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello
stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe porta-
to via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua
dignità, all’edificazione di una società giusta. Il papa parlava
inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo
forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo
totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura
che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbia-
mo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che
rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’an-
gustia e privati della libertà? E ancora una volta il papa voleva
dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assoluta-
mente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No!
solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in
quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità
della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentia-
mo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con
grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di
una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Amicizia con Cristo 169

paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona
a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo –
e troverete la vera vita. Amen.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Postfazione
di Holger Zaborowski

Benedetto XVI: il papa sconosciuto?

Già il 19 aprile 2005, il secondo giorno del conclave, era stato


trovato un successore a Giovanni Paolo II: il cardinale Joseph
Ratzinger. Il nuovo papa scelse il nome di Benedetto XVI e così
non si riallacciò soltanto al padre del monachesimo occidentale,
san Benedetto, ma tra l’altro anche al papa della pace Benedetto
XV – una scelta del nome che vale come programma, che sta
per una continuità con il suo predecessore, ma che promette
anche accenti propri. A dire il vero e proprio in ambito tedesco
la scelta del cardinale Ratzinger non era pacifica. Accanto a gio-
ia, entusiasmo e orgoglio ci sono state anche, in forma più con-
tenuta, reazioni, scetticismo, critica aperta o anche delusione.
Benedetto XVI aveva avuto fama di essere un ‘intransigente’, di
essere un freddo, distaccato e timido burocrate al servizio di
una verità astratta. Ma è corretta questa fama? Non si riferisce
forse a una immagine unilaterale del cardinale Ratzinger? Il
nuovo papa non è forse, in definitiva, ancora abbastanza scono-
sciuto, sebbene su di lui si siano dette e scritte tante cose?
Nel frattempo si è delineata un’immagine più differenziata e
più sfumata. Sono emersi in primo piano aspetti della vita e del
pensiero di Ratzinger che stavano da tempo dietro le quinte del-
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

172 Chi ci aiuta a vivere?

l’interesse pubblico. A questo hanno contribuito anche i primi


interventi e pronunciamenti pubblici di Benedetto XVI. Per chi
conosce la vita e l’opera di Ratzinger questo poteva difficilmen-
te sorprendere: anche solo un breve sguardo ai numerosi scritti
del sacerdote, teologo, vescovo e cardinale rende evidente
quanto unilaterali siano stati i giudizi spesso ripetuti su Ratzin-
ger.
Chi si occupa della vita e dell’opera di Ratzinger incontra un
intelligente e saggio pensatore, i cui giudizi possono essere con-
troversi, ma sono sempre differenziati e ben fondati. Si viene a
conoscere un pastore che coglie con sensibilità le preoccupazio-
ni e i bisogni dell’uomo di oggi e cerca di dare risposte che ser-
vano di orientamento. Appare un uomo di chiesa che diagnosti-
ca con occhi limpidi i problemi della chiesa e del mondo, si in-
terroga sulle loro cause e cerca le possibili soluzioni. E ci si ac-
costa a un uomo di preghiera, che nella fede fiduciosa in una
sorgente che ci fa vivere, cerca di schiudere questa fonte anche
ad altre persone.

Chi ci aiuta a vivere?

Nel suo testo su Giovanni Paolo II, il primo contributo in


questo volume, Ratzinger parla della inseparabilità tra la do-
manda sull’uomo e la domanda su Dio. La domanda su chi ci
dia futuro, vita e salvezza, per lui trova risposta soltanto guar-
dando a Cristo. Egli, perciò, traduce il titolo della enciclica del
suo predecessore, la Redemptor hominis [Il Salvatore dell’uo-
mo], in questo modo: «‘Salvatore’ significa: Chi ci aiuta a vive-
re? … Infatti, la ‘via’ dell’essere-uomo è Cristo».
«Chi ci aiuta a vivere?» – questa è per Joseph Ratzinger la do-
manda spesso inespressa che inquieta l’uomo di oggi quanto
nessuna altra. In quanto uomini, non possiamo alla fine vivere
da soli. Se facciamo riferimento soltanto a noi stessi, perdiamo
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Postfazione 173

la base su cui poggiare. Di continuo incontriamo limiti: nella


morte, nella sofferenza corporea e psichica o nell’ingiustizia so-
ciale e politica. Possiamo tutto ciò che è possibile, ma appunto
non possiamo calcolare e realizzare tutto. Il senso della nostra
vita è in definitiva sottratto alla nostra capacità di disporre. La
verità su chi noi propriamente siamo non possiamo darcela da
noi stessi.

Nella nostra vita abbiamo dunque bisogno di aiuto, per poter


vivere umanamente. Chi, però, ci aiuta a vivere? C’è un senso
vero, un senso della vita umana che ci sostiene? Ci sono soltan-
to consolazioni illusorie, oppure un conforto reale?
Tutte queste domande hanno impegnato Joseph Ratzinger
fin dall’inizio del suo lavoro teologico e pastorale. Le sue rispo-
ste si sono condensate in numerosi scritti: in saggi e libri scienti-
fici, in innumerevoli prediche e meditazioni, in testi di riflessio-
ne, in esegesi bibliche, interviste o anche i prese di posizione uf-
ficiali.

Una sfida per l’uomo

Gli scritti di Ratzinger mostrano con quanta sensibilità egli


colga le sfide che si pongono all’uomo di oggi per quanto con-
cerne la questione del senso. Non è più così semplice, come for-
se lo era un tempo, dire «Io credo», e rispondere così alla que-
stione del senso. Dio ci è spesso diventato estraneo. La fede
sembra presupporre troppe cose. La fede cristiana sembra con-
traddire troppo i principi fondamentali del pensiero moderno.
Troppo attraenti sembrano le alternative. Una risposta alla do-
manda di un senso ultimo della sua vita, l’uomo moderno sem-
bra trovarla anche altrove: in ideologie politiche, religiose e
economiche, oppure nel consumismo, nel culto del corpo e nel-
le illusioni giovanili. Anche alcuni scienziati pretenderebbero di
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

174 Chi ci aiuta a vivere?

poter rispondere alla domanda circa il senso della vita umana.


Oppure, potrebbe prevalere il sospetto che un senso non c’è, la
tesi secondo cui tutto, in definitiva, è senza senso, nessuno può
aiutarci, noi stessi dobbiamo aiutarci in qualche modo da soli.
Orbene, questo ci è di aiuto? Di fronte a tutti questi tentativi
di trovare risposte alle grandi domande della vita umana, non si
pone più che mai pressante la domanda su chi realmente ci aiuti
a vivere? Questo, forse, tanto più che tutti i nostri tentativi, an-
che per procurarci il senso ultimo della nostra vita, sono falliti e
falliscono in continuazione – con conseguenze spesso tragiche.
Proprio il XX secolo, il cui corso ha profondamente segnato il
pensiero di Joseph Ratzinger, lo ha mostrato in modo anche
troppo evidente. Esso offre molti esempi di tentativi dell’uomo,
continuamente infruttuosi, di cercare risposta alle sue grande
domande di senso e felicità soltanto in se stesso o anche di nega-
re che abbiamo proprio bisogno di aiuto.

Proporre la fede…

Perciò, forse vale la pena di riflettere di nuovo su una antica


risposta alla questione del senso, una risposta che contrassegna
la vita e il pensiero di Joseph Ratzinger: c’è qualcuno che ci aiu-
ta, che ha assicurato il suo aiuto a noi uomini. Qui si fa evidente
il compito vero e proprio che Ratzinger si è di continuo assunto:
non soltanto il compito di porre domande, ma di orientare a ri-
sposte. In uno dei suoi testi Ratzinger riferisce come il teologo
Han Urs von Balthasar gli abbia un giorno scritto che egli non
doveva presupporre, ma proporre la fede. Presupporre la fede
diventa forse sempre più difficile. Ma proporla, ecco in che cosa
può consistere la sfida. Che cosa però significa? L’uomo moder-
no vuole lasciarsi proporre qualcosa? Tutto dipende da che co-
sa si intende con proporre la fede.
Proporre la fede significa, in primo luogo, credere personal-
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Postfazione 175

mente e vivere e agire secondo questa fede. Ma significa anche


parlare di essa e mostrare che gli uomini possono vivere in mo-
do veramente umano soltanto nel rapporto con Dio. E ciò si-
gnifica che noi non dobbiamo escogitare nulla di nuovo, che
dobbiamo ascoltare: ascoltare un Dio che già da sempre si è ri-
volto all’uomo, amandolo. Come è vero che l’uomo deve af-
frontare la questione del senso e di Dio, per il credente cristia-
no è altrettanto vero anche che egli si fonda sempre su una pro-
messa di senso, alla quale è necessario rispondere continua-
mente di nuovo.

Amicizia con Cristo

Qui il domandare e il rispondere trovano finalmente un ter-


mine e si tramutano nel pregare, nel celebrare e nell’adorare
quel fondamento che sostiene noi uomini, che si è impegnato
con noi, che ci fa vivere. «Chi ci fa vivere?» – non una cosa, non
una idea, non una ideologia, non qualche determinato ‘che co-
sa’ ci fa vivere, ma un ‘chi’, una persona che possiamo incontra-
re, che può diventare nostro amico.
‘Amicizia con Cristo’ – questa è l’idea principale della predi-
ca che Benedetto XVI ha tenuto il giorno della sua introduzio-
ne al ministero di papa, una parola chiave che dovrebbe riassu-
mere in modo adeguato non soltanto il pensiero di Joseph Rat-
zinger, ma che forse può essere letta anche come programma
del suo pontificato e che indica chi ci aiuta veramente a vivere.
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Fonti

Capitolo primo: Incontrare un testimone

Incontri con papa Giovanni Paolo II, in WLADYSLAW BARTOSZEWSKI


(ed.), Die Kraft des Augenblicks. Begegnungen mit Papst Johannes
Paul II., Verlag Herder, Freiburg 2004, 44-58 [trad. di Gianni
Francesconi].

Capitolo secondo: Trovare sostegno nella vita

1. In cammino – Da dove e verso dove?, in Der Prediger und Katechet.


Praktische Katholische Zeitschrift für die Verkündigung des Glau-
bens, 124. Jahrgang (Dez. 1984 bis Nov. 1985), Erich Wewel Ver-
lag, München 1985, 436-497 [trad. di Gianni Francesconi].
2. L’uomo di oggi di fronte al problema di Dio, in JOSEPH RATZINGER,
Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 75-86 [trad. di
Gianni Poletti].
3. La fede come ‘star-saldi e comprendere’, in JOSEPH RATZINGER, Intro-
duzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo Apostolico, Querinia-
na, Brescia 2005, 62-67 [trad. di Gianni Francesconi].
4. Che significa ‘credere’?, in JOSEPH RATZINGER, Evangelium - Kate-
chese - Katechismus. Streiflichter auf den Katechismus der katholi-
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

178 Chi ci aiuta a vivere?

schen Kirche (Teologie und Glaube), Verlag Neue Stadt, München


- Zürich - Wien 1995, 21-30 [trad. di Gianni Francesconi].

Capitolo terzo: Seguire Gesù Cristo

1. Che significa Gesù Cristo per me?, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e


predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 117-120 [trad. di Gianni
Poletti].
2. Che cosa significa ‘seguire Cristo’?, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e
predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 120-124 [trad. di Gianni
Poletti].
3. «Che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?». Omelia su Lc
10,25-37, in JOSEPH RATZINGER, Guardare a Cristo. Esercizi su fede,
speranza, amore, Jaca Book, Milano 2005, 89-93 [trad. di Guido
Sommavilla].
4. Perché Dio sia tutto in tutto, in N. KUTSCHKI – J. HOEREN (edd.),
Kleines Credo für Verunsicherte, Verlag Herder, Freiburg 1993,
121-140 [trad. di Gianni Francesconi].
5. Poter dire «Padre nostro», in R. WALTER (ed.), Sich auf Gott verlas-
sen. Erfahrungen mit Gebeten, Verlag Herder, Freiburg 1980, 64-
69 [trad. di Gianni Francesconi].

Capitolo quarto: Celebrare la fede

1. Abbiamo motivo di far festa?, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e predi-


cazione, Queriniana, Brescia 1974, 324-325 [trad. di Gianni Polet-
ti].
2. Il senso dell’avvento, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e predicazione,
Queriniana, Brescia 1974, 303-311 [trad. di Gianni Poletti].
3. Cristo, il salvatore, è qui, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e predicazio-
ne, Queriniana, Brescia 1974, 319-324 [trad. di Gianni Poletti].
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

Fonti 179

4. Meditazione per la sera di san Silvestro, in JOSEPH RATZINGER, Dog-


ma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 325-330 [trad. di
Gianni Poletti].
5. Tempo di allegria e tempo di penitenza, in JOSEPH RATZINGER, Spe-
ranza del grano di senape, Queriniana, Brescia 1974, 15-18 [trad. di
Antonio Bonora].
6. Venerdi santo, in JOSEPH RATZINGER, Meditazioni sulla settimana
santa, Queriniana, Brescia 1999, 55-60 [trad. di Giuseppe Ruggie-
ri].
7. Sabato santo, in JOSEPH RATZINGER, Meditazioni sulla settimana san-
ta, Queriniana, Brescia 1999, 71-75 [trad. di Giuseppe Ruggieri].
8. Il senso della festa di pasqua, in Der Prediger und Katechet. Prakti-
sche Katholische Zeitschrift für die Verkündigung des Glaubens, 125.
Jahrgang (Dez. 1985 bis Nov. 1986), Erich Wewel Verlag, Mün-
chen 1986, 213-215 [trad. di Gianni Francesconi].
9. «Il messaggio lo odo, ma…», in JOSEPH RATZINGER, Immagini di
speranza. Percorsi attraverso i tempi e i luoghi del Giubileo, San Pao-
lo, Cinisello B. 1999, 32-38 [trad. di Giuseppe Reguzzoni].
10. Il dono dello Spirito come frutto della croce, in JOSEPH RATZINGER,
Speranza del grano di senape, Queriniana, Brescia 1974, 33-35
[trad. di Antonio Bonora].
11. Che cosa celebriamo la domenica?, in Internationale katholische
Zeitschrift Communio. 11. Jahrgang (1982), Johannes Verlag, Ein-
siedeln - Freiburg 1982, 226-231 [trad. di Gianni Francesconi].
12. Liturgia e vita, in JOSEPH RATZINGER, Introduzione allo Spirito del-
la liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001, 9-19 [trad. di Giuseppe
Reguzzoni].

Capitolo quinto: Rispondere alla speranza


1. Sapienza – la nostra autentica vocazione, in M. SCHÄCHTER (ed.),
Was kommt. Was geht. Was bleibt, Verlag Herder, Freiburg 2002,
357-359 [trad. di Gianni Francesconi].
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

180 Chi ci aiuta a vivere?

2. A che scopo ancora il cristianesimo?, in JOSEPH RATZINGER, Dogma e


predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 359-365 [trad. di Gianni
Poletti].

Capitolo sesto: Amicizia con Cristo

«Non abbiate paura di Cristo!». Omelia di papa Benedetto XVI nella


messa di inizio del ministero petrino, il 24 aprile 2005 [trad. ufficia-
le, © Libreria Editrice Vaticana].
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Indice

1. Incontrare un testimone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Incontri con papa Giovanni Paolo II 5

2. Trovare sostegno nella vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19


1. In cammino – Da dove e verso dove? 19
2. L’uomo di oggi di fronte al problema di Dio 21
3. La fede come ‘star-saldi e comprendere’ 34
4. Che significa ‘credere’? 40

3. Seguire Gesù Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49


1. Che significa Gesù Cristo per me? 49
2. Che cosa significa ‘seguire Cristo’? 53
3. «Che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?»
Omelia su Lc 10,25-37 58
4. Perché Dio sia tutto in tutto 62
5. Poter dire «Padre nostro» 80

4. Celebrare la fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
1. Abbiamo motivo di far festa? 87
2. Il senso dell’avvento 88
3. Cristo, il salvatore, è qui 97
4. Meditazione per la sera di san Silvestro 103
5. Tempo di allegria e tempo di penitenza 110
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013

182 Chi ci aiuta a vivere?

6. Venerdì santo 112


7. Sabato santo 116
8. Il senso della festa di pasqua 119
9. «Il messaggio lo odo, ma…» 122
10. Il dono dello Spirito come frutto della croce 129
11. Che cosa celebriamo la domenica? 130
12. Liturgia e vita 138

5. Rispondere alla speranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149


1. Sapienza – la nostra autentica vocazione 149
2. A che scopo ancora il cristianesimo? 152

6. Amicizia con Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161


«Non abbiate paura di Cristo!» 161

Postfazione di Holger Zaborowski . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171


Benedetto XVI: il papa sconosciuto? 171

Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
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dello stesso Autore


presso la Queriniana

Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico


12a edizione - pagine 310 - ISBN 0305-4
Biblioteca di teologia contemporanea 5

Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche


4a edizione - pagine 452 - ISBN 0307-0
Biblioteca di teologia contemporanea 7

Dogma e predicazione
2a edizione - pagine 384 - ISBN 0319-4
Biblioteca di teologia contemporanea 19

Redenzione ed emancipazione (con Johann Baptist Metz e altri)


pagine 200 - ISBN 0588-X
Giornale di teologia 88

La fraternità cristiana
pagine 128 - ISBN 0811-0
Giornale di teologia 311

Democrazia nella Chiesa. Possibilità e limiti (con Hans Maier)


pagine 136- ISBN 0812-9
Giornale di teologia 312

La provocazione del discorso su Dio


(con Johann Baptist Metz – Jürgen Moltmann –
Eveline Goodman-Thau – Jürgen Werbick)
pagine 160 - ISBN 0814-5
Giornale di teologia 314

Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico


14a edizione - pagine 398 - ISBN 2851-0
Books

Settimana santa (con Karl Rahner)


5a edizione - pagine 88 - ISBN 1403-X
Meditazioni 3

Speranza del grano di senape


Meditazioni per ogni mese dell’anno
2a edizione - pagine 80 - ISBN 1408-0
Meditazioni 8
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dello stesso Autore


presso la Queriniana

La salvezza dell’uomo
In prospettiva intramondana e cristiana (con Ulrich Hommes)
pagine 84 - ISBN 1423-4
Meditazioni 23

Vivere con la Chiesa (con Karl Lehmann)


2a edizione - pagine 80 - ISBN 1444-7
Meditazioni 44

Fede e futuro
3a edizione - pagine 120- ISBN 1461-7
Meditazioni 61

Maria: il sì di Dio all’uomo


Introduzione e commento all’enciclica ‘Redemptoris Mater’
(con Hans Urs Von Balthasar)
4a edizione - pagine 64 - ISBN 1468-4
Meditazioni 68

Perché sono ancora cristiano


— Perché sono ancora nella chiesa (con Hans Urs Von Balthasar)
3a edizione - pagine 104 - ISBN 2262-8
Meditazioni 182

Il Dio di Gesù Cristo. Meditazioni sul Dio uno e trino


2a edizione - pagine 136 - ISBN 2263-6
Meditazioni 183

Il fondamento sacramentale dell’esistenza cristiana


2a edizione - pagine 64 - ISBN 2266-0
Meditazioni 186

Tempo di Avvento
pagine 88 - ISBN 2267-9
Meditazioni 187

La benedizione del Natale


pagine 112 - ISBN 2268-7
Meditazioni 188
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Di che cosa è profondamente convinto Jo-


seph Ratzinger – oggi Benedetto XVI? Che
cosa per lui è importante? Il nucleo centrale
del suo pensiero si esprime al meglio nella
sua spiritualità.
I testi di questo volume sottolineano come
egli si confronti sempre con la questione:
Chi ci aiuta a vivere?
Egli ha cercato di continuo risposte alla do-
manda fondamentale: Come noi possiamo
essere umani? E mostra dove sia possibile
trovare la risposta: nella cosciente scelta
di affidare a Dio l’intera nostra situazione
umana.
Una raccolta delle più illuminanti pagine di
spiritualità disseminate nell’opera teologica
di Joseph Ratzinger.

Joseph Ratzinger, 1927, già docente di dogma-


tica a Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona; arcive-
scovo di Monaco di Baviera e cardinale; Prefetto
della Congregazione per la dottrina della fede, è
stato eletto papa il 19 aprile 2005 con il nome di
Benedetto XVI.

In copertina: Claude Monet, Ninfee, armonia bianca (1899)


Museo Puškin, Mosca

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