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581911553-Ratzinger - Chi Ci Aiuta A Vivere
581911553-Ratzinger - Chi Ci Aiuta A Vivere
RATZINGER
CHI CI AIUTA
A VIVERE ?
Su Dio e l’uomo
Queriniana
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
books
JOSEPH
RATZINGER
CHI CI AIUTA
A VIVERE?
Su Dio e l’uomo
A cura di
Holger Zaborowski
e Alwin Letzkus
Queriniana
Caterina Bua - suorbua@gmail.com - 06/06/2013
Ringraziamento:
Si ringraziano le Editrici sotto indicate per la gentile autorizzazione a utilizzare
parti di opere da loro edite:
– Jaca Book, per il contributo «Che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?»,
tratto da: J. Ratzinger, Guardare a Cristo. Esercizi su fede, speranza e amo-
re, Jaca Book, Milano 2005, 89-93.
– Edizioni San Paolo s.r.l., per i contributi: «Il messaggio lo odo, ma…», tratto da:
J. Ratzinger, Immagini di speranza. Percorsi attraverso i tempi e i luoghi
del Giubileo, San Paolo, Cinisello B. 1999, 32-38; e «Liturgia e vita», tratto
da: J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisel-
lo B. 2001, 9-19.
Titolo originale
Joseph Ratzinger, Wer hilft uns leben? Von Gott und Mensch
Herausgegeben von Holger Zaborowski und Alwin Letzkus
Mit einen Nachwort von Holger Zaborowski
Edizione italiana
a cura di Gianni Francesconi
www.queriniana.it
info@queriniana.it
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1.
Incontrare un testimone
Incontrare un testimone 7
Incontrare un testimone 9
Incontrare un testimone 11
Incontrare un testimone 13
che sembrava imporre ai bambini dei pesi non necessari. Se, pe-
rò, la confessione viene intesa come il destarsi alla grazia del
perdono, come via per imparare ad aver bisogno di perdono e
per apprendere la capacità di perdono, dunque come incontro
totalmente personale con la bontà di Dio che ci salva, allora si
comprende il senso di questo ordinamento. Ma questa visione
andava comunicata di nuovo. A questo riguardo avevo trovato
che il rapporto tra formazione al presbiterato e preparazione al-
lo stato di qualificato collaboratore laico (referente pastorale)
era divenuto poco chiaro, le due strade si confondevano e solo a
fatica si poteva ancora cogliere ciò che è specifico della vocazio-
ne presbiterale, la sua insostituibilità. Perciò avevo iniziato, an-
che qui, a insistere su distinzioni e chiarificazioni. Da questo di-
pendeva strettamente un terzo problema di grande rilevanza:
nel frattempo erano state introdotte delle liturgie della Parola
con amministrazione della comunione al posto delle liturgie do-
menicali in comunità nelle quali, nel giorno del Signore, non era
disponibile alcun sacerdote. Nei paesi di missione e in America
Latina tali forme di celebrare il giorno del Signore sono da tem-
po, per comunità prive di preti, un aiuto necessario per unirsi
alla preghiera di tutta la chiesa. Pertanto, l’introduzione di que-
ste forme, nel caso di crescente mancanza di preti, era di per sé
assolutamente giustificata. Ma la prassi cominciava ad andare
molto oltre queste necessità. Incominciava a diffondersi una vi-
sione mutata del rapporto tra sacramento ed esperienza della
comunità, che toccava la fede cattolica in un punto particolar-
mente sensibile. Anche quando era facilmente possibile parteci-
pare alla celebrazione eucaristica in una comunità vicina, si di-
ceva, il fatto che la comunità resti nella propria chiesa sarebbe
più importante dell’incontro sacramentale con il Signore nel-
l’eucaristia. L’elemento sociologico veniva considerato più im-
portante del dono del sacramento. Così, avevo intrapreso degli
interventi correttivi, suscitando impeti di indignazione, perché
si consideravano le novità appena apprese come l’unica cosa
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Incontrare un testimone 15
Incontrare un testimone 17
2.
Trovare sostegno nella vita
I.
Per prima cosa dobbiamo entrare nella problematica di Dio,
quale la sperimenta l’uomo d’oggi, per poter in essa riscoprire e
parlare di Dio. I singoli aspetti di questa problematica, qui svi-
luppati, sono presenti nell’uomo medio a un livello appena co-
sciente, ma essi concorrono a determinare il clima spirituale che
lascia la sua impronta anche là dove non se ne conoscono le li-
nee portanti. Le radici del rifiuto di Dio che oggi ci assilla risal-
gono a quella svolta nella visione del mondo attuata all’inizio
dell’era moderna, ma non è molto tempo che la teologia e la co-
scienza credente si sono occupate di essa. Fino ad allora Dio
aveva il suo posto fisso nella costruzione gerarchica del mondo,
l’empireo. Nella gerarchia delle sfere, che dal gradino più basso
e cupo, la terra, conduce al sempre più spirituale ed elevato, per
giungere alla pura luce, a colui che muove l’universo, si poteva
quasi toccare con mano il metafisico: la Divina Commedia di
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1
Inferno XXVI, 90-141; cfr. al riguardo l’eccellente commento di A.
RÜEGG, Die Jenseitsvorstellungen vor Dante II, Einsiedeln 1945, 108-117. Cfr.
anche il contributo: Il cristiano e il mondo contemporaneo, in J. RATZINGER,
Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 154-173.
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2 Cfr. per questo tentativo J. RATZINGER (ed.), Die Frage nach Gott, Frei-
II.
A questo punto, nel quale si potrebbero tracciare le prime li-
nee di un nuovo discorso su Dio, interrompo la riflessione per
avvicinarmi al nostro tema partendo da un altro punto: dall’in-
terno dell’immagine cristiana di Dio, che noi ora vogliamo cer-
care di vedere nella sua specificità.
Come si presenta Dio nella Bibbia? Esiste anche qui una ri-
cerca di Dio, oppure soltanto la semplice certezza del Dio rive-
lante? Che forma ha il cammino verso Dio? Naturalmente non
possiamo qui svolgere le singole questioni; basterà una breve
osservazione sul cammino che porta a Dio. La Bibbia, che è
estranea al pensiero deduttivo dei Greci, non conosce natural-
mente nessuna ‘prova di Dio’; per essa però esistono con sem-
pre maggior evidenza dei fatti indicativi: la creazione lascia tra-
sparire il Creatore, tutto il mondo gli fa da eco, i cieli racconta-
no lo splendore di Dio (Sal 19[18]). Questa eloquenza della
creazione esiste anche oggi e noi dovremmo pazientemente
adoperarci per suscitare di nuovo la capacità di vedere il mondo
come un’immagine che ha qualcosa da dirci, e non puramente
come una compagine di funzioni da noi utilizzabili. Accanto a
questa forma di esistenza di Dio nella creazione ce n’è una se-
conda, che ha la priorità nella Bibbia: Dio diventa noto tramite
la storia. Ciò corrisponde alla concreta esperienza umana, che si
ebbe anche presso altri popoli e che ancor oggi noi proviamo: ci
imbattiamo in Dio non per merito della nostra riflessione perso-
nale, ma per il fatto di crescere in un ambiente di stampo reli-
gioso, che si sa fondato e sostenuto da Dio e che proprio per
questo mette anche me in relazione con Dio. Al riguardo Israele
presenta una nota caratteristica. Roma ha trasfuso nella formula
dello Jupiter conservator [Giove conservatore] la sua esperienza
del Dio che agisce nella storia. Il termine latino usato per ‘salva-
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4 H.U. INSTINSKY, Die alte Kirche und das Heil des Staates, München 1963,
28ss.
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che il Nuovo Testamento porta alla luce nella realtà del rappor-
to Padre-Figlio: una coscienza che è essenzialmente rapporto
creativo, conoscitivo, d’amore. Il Dio della Bibbia non è soltan-
to coscienza, ma parola, non soltanto conoscenza, ma relazione,
non soltanto fondamento dell’essere, ma forza portante di ogni
pensiero6.
III.
Veramente noi dovremmo ora fare un terzo passo e chiedere:
in che modo queste conoscenze, e la concezione della vita e del
mondo da esse espressa, si lasciano evidenziare nella situazione
dello spirito moderno prima illustrata? Come si possono rein-
trodurre in esso? Il tentare soltanto l’abbozzo di una risposta
andrebbe molto al di là dei confini di questa relazione. Accon-
tentiamoci perciò di accettare quali criteri ci fornisca, sulla stra-
da della conoscenza di Dio, il dato neotestamentario prima de-
scritto, di vedere quale sia la caratteristica di base con cui dob-
biamo fare i conti nel nostro tentativo di trovare la strada verso
Dio e di indicarla agli altri. Penso che da quanto abbiamo detto
finora si possano trarre tre affermazioni principali:
1. Dio viene conosciuto attraverso uomini che lo conoscono,
la strada verso Dio passa sempre in concreto attraverso l’uomo
che sta già presso Dio. Non passa per la pura riflessione, ma at-
traverso l’incontro, che si approfondisce nella riflessione, di-
venta autonomo e perciò, nello stesso tempo, anche nuovamen-
te comunicabile. Questa affermazione accentua il significato
della persona del predicatore in tutta la sua importanza; una se-
conda affermazione però fa apparire anche i limiti dei nostri
sforzi:
2. Dio si conosce per suo stesso intervento. Egli stesso, per
sua iniziativa, si dà a conoscere nell’uomo Gesù, che appartiene
2005, 117-151.
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3.
Seguire Gesù Cristo
I.
Ritorniamo alla nostra questione sul significato della ‘sequela
di Cristo’. In origine questa parola aveva un senso molto sem-
plice e per nulla teoretico. Essa suggeriva – in parole povere –
che delle persone si decidevano ad abbandonare la loro profes-
sione, il loro lavoro, la loro giornata normale, vissuta fino allora,
e al posto di questo andavano con Gesù. Essa indicava dunque
una nuova professione, quella del discepolo, il cui contenuto vi-
tale consiste nell’andare assieme al maestro, nel completo affi-
dare-se-stessi alla sua guida. ‘Seguire’ è così qualcosa di molto
esteriore e di molto interiore nello stesso tempo. L’elemento
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esteriore consiste nel reale avanzare dietro Gesù nei suoi viaggi
attraverso la Palestina; quello interiore è il nuovo orientamento
dell’esistenza, che non ha più il suo punto focale nel lavoro, nel
guadagnare il pane, nella volontà e nel giudizio personale; essa
invece è affidata alla volontà di un altro, di modo che l’essere in-
sieme con lui, lo stare-a-disposizione per lui è divenuto il vero e
proprio contenuto esistenziale. Una piccola scena tra Gesù e
Pietro indica con molta chiarezza quale rinuncia a ciò che è pro-
prio, quale allontanamento da se stesso questo implichi. Poco
dopo la moltiplicazione dei pani, che sembra segnare una pro-
fonda cesura nella vita pubblica del Signore, Gesù aveva an-
nunciato per la prima volta ai discepoli l’oscuro mistero della
sua vita; egli non sarà un messia radioso, come essi potevano an-
cora sperare in occasione appunto della moltiplicazione dei pa-
ni, nella quale, dopo tutto, egli sembrava svelarsi come il nuovo
Mosè, che era in grado di rinnovare il miracolo della manna.
No, egli verrà nascosto dall’ombra oscura della croce, soffrirà
molto e infine verrà ucciso. «Allora Pietro, presolo in disparte,
si mise a fargli delle rimostranze», racconta il vangelo. Ma Gesù
si volta e lo redarguisce: va’ via, allontanati da me, Satana; tu
non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini (Mc 8,32s.).
Pietro, in certo qual modo, aveva cercato di rifiutare la sequela
e, invece di seguire, voleva camminare davanti, determinando
per proprio conto la direzione del cammino. Ma egli viene ri-
messo bruscamente al suo posto: va’ via e va’ dietro a me! Se-
guire significa realmente andar dietro, prendere la direzione
che viene assegnata, anche se questa direzione è diametralmen-
te opposta al proprio volere. Proprio perché è intesa in senso
così letterale la parola può penetrare nella zona più intima e
profonda dell’uomo.
Da qui si può già capire abbastanza che cosa si intende quan-
do la chiamata dei discepoli, e con essa la natura dell’apostolo,
viene descritta nei vangeli in forma stereotipa, con l’unica paro-
la di Gesù: seguimi! Questa è anzitutto l’esortazione ad abban-
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II.
Forse la riflessione sulle fonti, che abbiamo intrapreso, più
che dare un efficace indirizzo ha, a prima vista, un effetto piut-
tosto demoralizzante. Il messaggio della sequela sembra, in ogni
caso, essersi allontanato ancor di più di quanto lo era già prima.
Infatti noi non abbiamo più alcuna possibilità di andar dietro
all’uomo Gesù e il martirio non ci appare più come il normale
compimento dell’esistenza cristiana, di modo che anche l’orien-
tamento alla disponibilità per il martirio conserva un carattere
alquanto teoretico, a prescindere da tutti gli altri problemi che
incontriamo in questo contesto.
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ta la vera risposta che poi egli stesso si dà: «Ama il Signore Dio
tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue
forze e con tutta la tua intelligenza. E ama il tuo prossimo come
te stesso» (10,27). La prima cosa dovrebbe dunque essere che
Dio sia presente nella nostra vita. Il conto della vita umana non
si risolve se si lascia fuori Dio; non rimane allora che pura con-
traddizione. Noi dobbiamo dunque non solo credere in qual-
che modo teoricamente che Dio è; dobbiamo considerarlo co-
me la realtà più reale di tutte nella nostra vita. Egli deve, come
dice la Scrittura, penetrare in tutti gli strati della nostra vita e
riempirli completamente: il cuore deve sapere di Lui e lasciarsi
toccare da Lui; l’anima, le energie del nostro volere e decidere,
l’intelligenza, il pensiero. Egli deve essere dappertutto. E la no-
stra relazione di fondo nei suoi riguardi deve chiamarsi amore.
Questo a volte può essere molto difficile. Può succedere, per
esempio, che un uomo venga colpito da diverse malattie e impe-
dimenti. A un’altra persona la povertà rende la vita insopporta-
bilmente pesante. Un altro ancora perde le persone dal cui
amore dipendeva tutta la sua vita. Le disgrazie possono essere
molteplici. Allora è molto grande il pericolo che un uomo si
amareggi e dica: Dio non può affatto essere buono, altrimenti
non potrebbe comportarsi con me in questo modo. Se Dio mi
amasse, avrebbe dovuto crearmi in altro modo e darmi altre
qualità e altre circostanze esistenziali.
Una simile ribellione contro Dio è molto comprensibile, tal-
volta approvare Dio sembra quasi impossibile. Ma chi si abban-
dona a una simile ribellione avvelena la sua vita. Il veleno del
no, della rabbia contro Dio e contro il mondo lo divora da den-
tro. Ma Dio desidera da noi, per così dire, un anticipo di fidu-
cia. Egli ci dice: so che ora tu non mi comprendi, ma confida in
me nonostante tutto; credi che sono buono e abbi il coraggio di
vivere di questa fiducia. Allora riconoscerai che proprio così ti
ho fatto del bene. Esistono molti esempi di santi e di grandi uo-
mini che hanno avuto il coraggio di questa fiducia e che proprio
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che colui che Dio ha guardato e ama partecipa alla sua eternità.
Origene ha espresso benissimo questa idea dicendo che «ogni
essere che partecipa a quella natura eterna continua egli stesso a
esistere… perché si manifesti l’eternità della bontà divina…». E
aggiunge: «Non sembrerebbe da atei ammettere che uno spirito
che è capace di Dio possa sostanzialmente perire?»2.
Questo intimo nesso tra l’immagine di Dio e le idee della vita
al di là della morte trova conferma se diamo uno sguardo pur
breve alla storia delle religioni. Per quanto possiamo analizzare
la storia umana, difficilmente troviamo l’idea che con la morte
tutto sia finito. Idee di giudizio e di vita che continua si incon-
trano praticamente dappertutto. Ma là dove non si è ancora co-
nosciuta la potenza del Dio unico che abbraccia tutto il mondo,
lì anche l’immagine dell’altra vita rimane poco chiara e nel va-
go. È un essere nel non-essere, una esistenza umbratile, che vie-
ne vista in una strana relazione con il mondo dei viventi. Da una
parte, gli spiriti nel regno delle ombre hanno bisogno dell’aiuto
di chi ancora vive per poter continuare a sussistere; li si deve
nutrire, occorre prendersi cura di loro, per rendere loro possi-
bile almeno una immortalità temporalmente limitata. D’altra
parte, però, in quanto spiriti sono diventati delle potenze che
ora appartengono al mondo degli spiriti che pervade tutto. Pos-
sono costituire una minaccia o anche essere di aiuto. Si teme il
ritorno degli spiriti e si cerca di proteggersi da essi con riti di
ogni genere. D’altra parte ancora, però, essi sono addirittura gli
spiriti degli antenati, che proteggono la famiglia e che si venera-
no per assicurarsi il loro aiuto. Il culto degli antenati è un feno-
meno originario nella convivenza delle generazioni; esprime il
sapere di una comunione delle persone che non viene interrotta
neppure dalla morte.
2 Peri Archon IV, 36-7; KOETSCHAU V (GCS 22) 362; PG 11, 413. Nella tra-
duzione seguo H.U.v. BALTHASAR, Geist und Feuer, Freiburg 19913 , testo 54,
p. 67.
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5 En. In ps. 84, 10: CCL XXXIX, 1170; cfr. P. BROWN, Augustinus von Hip-
Questioni particolari
di escatologia cristiana
8 AGOSTINO, Sermo 161, 10. Cfr. BROWN, Augustinus von Hippo, cit., 215.
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dire Padre, io sono in lui, tutta la luce della sua figura fluisce in
me. Egli ha raccontato di Dio; lo poteva fare perché egli lo ha
visto, lo vede sempre. Da lui viene una traccia della luce nella
mia vita, che mi mostra la via, mi dà speranza e fiducia anche
nell’oscurità.
4.
Celebrare la fede
2. Il senso dell’avvento
Celebrare la fede 89
ce nella notte del mondo. Le luci, che noi accendiamo nelle not-
ti buie di questa stagione invernale, sono conforto e ammoni-
mento al tempo stesso: certezza incoraggiante che «la luce del
mondo» è già spuntata nell’oscurità della notte di Betlemme e
ha trasformato la notte infausta del peccato umano nella fausta
notte del perdono divino di questo peccato. Ammonimento:
questa vuole e può continuare a risplendere solo se splende in
coloro che, in quanto cristiani, continuano l’opera di Cristo at-
traverso i tempi. La luce di Cristo vuole illuminare la notte del
mondo mediante il nostro essere-luce. La sua presenza iniziata
deve crescere ulteriormente per opera nostra. Quando nella
notte santa vengono ripetutamente fatte risuonare le parole
«Hodie Christus natus est», noi dobbiamo ricordarci anche che
l’inizio di Betlemme vuole e deve divenire per mezzo nostro ini-
zio costante, che quella notte santa è e può essere veramente
‘oggi’, dovunque un uomo permetta alla luce del bene di pro-
rompere dal suo egoismo. Essa è ‘oggi’ dovunque la ‘parola’ si
fa nuovamente ‘carne’, realtà attuata. Pertanto, «Gesù bambino
viene» veramente dovunque ci si comporta realmente secondo
l’amore del Signore e non vengono solo scambiati dei doni.
Avvento significa arrivo già iniziato, ma anche solo iniziato,
del Signore. Due verità sono qui affermate: il cristiano non
guarda solo a ciò che è passato ed è stato, ma anche a ciò che
viene. In mezzo a tutte le catastrofi del mondo, egli sa con supe-
riore certezza che il seme della luce cresce di nascosto, finché
un giorno il bene vincerà definitivamente e tutto gli sarà sogget-
to: quando Cristo ritorna. Egli sa che la presenza di Dio, ora so-
lo incominciata, sarà un giorno presenza completa. E questo sa-
pere lo rende libero, gli dà una sicurezza estrema.
In fondo, si è già delineato con questo l’aspetto essenziale
dell’avvento. Ma la chiesa sa che l’uomo non vive di verità
astratte, ma di immagini concrete e così ci ha posto dinanzi agli
occhi l’idea dell’avvento in immagini viventi. Si può dire che la
liturgia dell’avvento formi una specie di trittico. Sulla prima ta-
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Celebrare la fede 97
questo mondo era bello, ma, in ogni caso, non è più il nostro. O
lo è, invece? Il mondo in cui sorse la festa di natale era domina-
to da un sentimento che è molto simile al nostro. Si trattava di
un mondo in cui il ‘crepuscolo degli dèi’ non era uno slogan, ma
un fatto reale. Gli antichi dei erano a un tratto divenuti irreali:
non esistevano più, la gente non riusciva più a credere ciò che
per generazioni aveva dato senso e stabilità alla vita. Ma l’uomo
non può vivere senza senso, ne ha bisogno come del pane quoti-
diano. Così, tramontati gli antichi astri, egli dovette cercare
nuove luci. Ma dov’erano? Una corrente abbastanza diffusa gli
offriva come alternativa il culto della ‘luce invitta’, del sole, che
giorno dopo giorno percorre il suo corso sopra la terra, sicuro
della vittoria e forte, quasi come un dio visibile di questo mon-
do. Il 25 dicembre, al centro com’è dei giorni del solstizio inver-
nale, doveva essere commemorato come il giorno natale, ricor-
rente ogni anno, della luce che si rigenera in tutti i tramonti, ga-
ranzia radiosa che, in tutti i tramonti delle luci caduche, la luce
e la speranza del mondo non vengono meno e da tutti i tramonti
si diparte una strada che conduce a un nuovo inizio.
Le liturgie della religione del sole avevano molto abilmente
assunto un’angoscia e una speranza originarie dell’uomo. L’uo-
mo primitivo che, in passato, nelle notti sempre più lunghe
d’autunno e nella forza sempre più debole del sole, aveva avver-
tito l’arrivo dell’inverno, si era chiesto ogni volta con angoscia:
muore davvero il sole dorato? Ritornerà? O finirà, quest’anno o
un altr’anno, con l’esser vinto dalle forze maligne delle tenebre,
così da non ritornare mai più? Il sapere che ogni anno ritornava
il solstizio d’inverno garantiva in fondo la certezza della rinno-
vata vittoria del sole, del suo sicuro e perpetuo ritorno. È la fe-
sta in cui si compendia la speranza, anzi, la certezza dell’indi-
struttibilità delle luci di questo mondo. Quest’epoca, nella qua-
le alcuni imperatori romani avevano cercato di dare ai loro sud-
diti, in mezzo all’inarrestabile caduta delle antiche divinità, una
fede nuova con il culto del sole invitto, coincide col tempo in
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significato.
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quello che egli ha per Dio? Gesù Cristo ha avuto tempo per Dio
e in lui ora Dio ha tempo. Non dovremmo quindi cercare di di-
sporre di tempo per Dio, di renderlo tempo suo? Fin troppi ar-
gomenti, infatti, ci dicono che quel tempo, che non è più dispo-
nibile per lui, diventa Chronos che inghiotte noi stessi. Solo
l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo, ci libera dalla dit-
tatura del Chronos. Una simile realtà e un felice anno nuovo in
questo senso vogliamo augurare a noi tutti.
6. Venerdì santo
vita e della morte di Gesù Cristo. Ciò che agli occhi del mondo
appariva come fatto assolutamente profano, come esecuzione
di un uomo condannato a morte come agitatore politico, era in
realtà l’unica vera liturgia della storia del mondo: liturgia co-
smica attraverso la quale Gesù, non già nella sfera delimitata e
cultuale del tempio, ma fuori davanti al mondo tutto, penetrò
attraverso la parete della morte nel tempio vero: alla presenza
del Padre. Ed egli non portò il sangue di animali in sostituzione,
ma se stesso, com’è conforme all’amore autentico che non può
donare che se stesso. La realtà dell’amore che dà se stesso ha eli-
minato il gioco della sostituzione, che ormai resta per sempre
fuori causa. Il velo del tempio è lacerato, ormai non c’è più cul-
to se non nella partecipazione all’amore di Gesù Cristo che co-
stituisce il perpetuo giorno di riconciliazione cosmica. E tutta-
via l’idea della sostituzione ha ricevuto in Cristo un senso nuovo
e inaudito. Dio stesso in Gesù Cristo si è messo al nostro posto
e noi tutti viviamo solo a partire dal mistero di questa sostitu-
zione.
Il secondo testo dell’Antico Testamento che viene inserito
nella narrazione della trafittura rende ancora più evidente
quanto abbiamo detto, per quanto permangano oscurità sui
dettagli. Giovanni dice che un soldato aprì il fianco di Gesù con
la lancia. Egli adopera la stessa parola che nell’Antico Testa-
mento viene usata per la descrizione della creazione di Eva dal
fianco di Adamo dormiente. Qualsiasi cosa voglia indicare più
precisamente questo accenno, in ogni caso è sufficientemente
chiaro che nel vicendevole rapporto tra Cristo e l’umanità cre-
dente si ripete il mistero originario della creazione della donna
dall’uomo e della loro donazione vicendevole. La chiesa ha ori-
gine dal fianco aperto del Cristo morente o, se vogliamo espri-
merci in termini diversi e un po’ metaforici: proprio la morte
del Signore, la radicalità dell’amore che giunge fino all’autodo-
nazione, ha causato questa fecondità. Poiché egli non si è rin-
chiuso nell’egoismo di colui che vive solo per se stesso e mette
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7. Sabato santo
Il mondo degli uomini non ha porte aperte per Dio, così sem-
bra. Esso è chiuso in se stesso. È un carcere, una casa dei morti.
Gli uomini dell’Antico Testamento e di altre antiche culture
hanno in primo luogo usato l’idea del carcere solo per indicare
il mondo dei morti: chi muore non ritorna più indietro. Ci si
rappresentava il mondo sotterraneo come un gigantesco oscuro
carcere in cui la morte domina come tiranno inesorabile. È una
casa senza ritorno. Sempre più, però, si fece strada a poco a po-
co il sentimento che allora, se ogni nostra strada conduce a que-
sto carcere, che ha soltanto entrate ma nessuna uscita, noi tutti
siamo dei prigionieri. Allora anche questo mondo è già una casa
dei morti, l’anticamera di un terribile carcere. In effetti, se la
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anche per noi c’è una uscita, e non solo un ingresso per Dio ver-
so di noi. Essa è soddisfacente solo quando la morte non è più
un carcere senza ritorno. Questo è il contenuto del messaggio
pasquale. Non c’è solo una porta per entrare, ma anche una
porta per uscire. La morte non è più una casa senza uscite, non
è una terra senza ritorno.
La chiesa antica ha visto in questo versetto del salmo la spie-
gazione dell’articolo di fede: «Disceso agli inferi». Per essa que-
sto è stato l’articolo del sabato santo – non una parola di lutto,
ma una parola di vittoria. Essa ha dato forma poetica alla paro-
la: i catenacci del carcere-morte, del carcere-mondo, sono stati
divelti, le fortificazioni sono state smantellate, le porte scardina-
te. Gesù, che ha fatto questo, prende per mano la lunga schiera
dei prigionieri – Adamo e Eva, ossia l’umanità – e li conduce al-
la libertà. La vita non è la sala d’attesa per il nulla, ma l’inizio
dell’eternità. Il mondo non è l’universale campo di concentra-
mento, ma il giardino della speranza. La vita non è l’inutile ri-
cerca del senso, la cui immagine sarebbero i labirinti della buro-
crazia. Dio non è un burocrate; egli non vive in un lontano ca-
stello, e non si nasconde dietro impenetrabili anticamere. La
porta è aperta, si chiama: Gesù Cristo.
Mostrare il raggio di luce di questa porta: questo è il senso
della festa di pasqua. Il suo appello è di seguire fermamente
questo raggio di luce, che non è una fata Morgana, ma il risplen-
dere della verità che salva.
Le campane suonavano
come se dovessero ribaltarsi per la gioia
dinanzi alla tomba vuota.
Dio e quale giorno della venuta del Risorto che raccoglie i suoi
discepoli, fuggiti nel privato, per spezzare con loro il pane, que-
sto è il giorno della liturgia, che, a sua volta, non siamo stati noi
a inventare: il primo giorno è, per così dire, la finestra che il Si-
gnore ha aperto, con la sua risurrezione, nel muro del tempo.
Nel ritmo del tempo esso è l’ora del suo ritorno e questo venire
di Cristo a noi significa: essere una cosa sola nello spezzare il
pane, in cui egli veramente viene incontro a noi, si fa veramente
presente con noi e in noi.
Perciò, il precetto della domenica non è una trovata arbitra-
ria della chiesa. Il precetto esprime soltanto in forma giuridica
ciò che per la chiesa è stato presente fin dall’inizio, a partire da-
gli apostoli, come realtà di fatto, nel suo dar risposta all’evento
del primo giorno. Così, gli Atti degli Apostoli ci riferiscono che
Paolo, a Troade, la domenica ha celebrato l’eucaristia (20,6-11);
la celebrazione domenicale dell’eucaristia viene qui presuppo-
sta già come impegno stabile della cristianità.
Dalla prima lettera ai Corinzi di Paolo sappiamo che la dome-
nica era il giorno della colletta per la chiesa di Gerusalemme (1
Cor 16,1s.); così appare già anche il nesso tra liturgia e caritas,
tra essere liberi per Dio e diventar liberi per l’uomo. Giovanni,
nell’Apocalisse, colloca la sua prima visione espressamente nel
giorno del Signore (Ap 1,10): in questo modo il Signore rende
partecipe, per così dire, lui che è in esilio, che è privato della co-
munione eucaristica della chiesa, alla liturgia comune, alla sua
presenza pasquale. La cosiddetta Dottrina degli apostoli, un li-
bro apparso all’incirca tra il 90 e il 100, dice, a partire da una
tradizione da tempo consolidata: «Nel giorno del Signore però
vi riunite, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver prima
confessato i vostri peccati affinché la vostra offerta sia pura»
(Did. 14, 1). Riteniamo dunque fermamente: non dipende dalla
chiesa o dal singolo cristiano se e quando celebrare la liturgia, e
che cosa fare della domenica. La domenica è la risposta della
chiesa a ciò che il Signore ha fatto e fa: egli ha fatto di questo
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gia ben al di sopra del gioco in generale, in cui vive pur sempre
l’anelito del vero ‘gioco’, del totalmente altro di un mondo in
cui ordine e libertà si fondono tra loro; rispetto alla superficiali-
tà del gioco usuale, prigioniero comunque delle proprie finalità
e, insieme, umanamente vuoto, essa fa emergere la particolarità
e l’alterità del ‘gioco’ della sapienza, di cui parla la Bibbia e che
si può quindi porre in rapporto con la liturgia. Ma ci manca an-
cora un contenuto essenziale di questo abbozzo, dato che il
pensiero della vita futura vi compare per ora solo come un vago
postulato e la vista di Dio, senza la quale la ‘vita eterna’ sarebbe
solo deserto, resta ancora del tutto indeterminata. Voglio quin-
di proporre un nuovo approccio, traendolo, questa volta, dalla
concretezza dei testi biblici.
Nei racconti degli eventi che precedettero l’uscita di Israele
dall’Egitto, così come delle modalità dell’esodo, emergono due
diverse finalità di questo evento straordinario. Una, nota a tutti
noi, è il raggiungimento della terra promessa, in cui Israele deve
vivere finalmente libero e indipendente su una terra propria, tra
confini sicuri. Accanto a essa compare però ripetutamente
un’altra finalità. L’ordine che originariamente Dio dà al faraone
è il seguente: «Manda via il mio popolo, perché mi serva nel de-
serto» (Es 7,16). Questa espressione – «Manda via il mio popo-
lo, perché mi serva» – viene ripetuta con leggere varianti quat-
tro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e
Aronne (Es 7,26; 9,1; 9,13; 10,3). Nel corso delle trattative con
il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. Il
faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema
è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo mo-
mento acconsente nella forma seguente: «Andate a sacrificare al
vostro Dio nel paese» (Es 8,21). Ma Mosè – tenendo fede al co-
mando di Dio – insiste nell’affermare che per il culto è necessa-
rio l’esodo. Il luogo in cui andare è il deserto: «Per un cammino
di tre giorni andremo nel deserto a sacrificare al Signore, nostro
Dio, come ci aveva detto» (8,23). Dopo le piaghe successive, il
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5.
Rispondere alla speranza
gia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte
stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di
chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio»
L’uomo ricco di questa parabola era senza dubbio intelligen-
te; di affari, egli si intendeva. Sa calcolare le opportunità di mer-
cato; tiene conto dei fattori di incertezza, sia nella natura come
pure nei comportamenti umani. E il successo gli dà ragione. Di
questioni così incerte come l’esistenza di un Dio, un uomo del
genere non si occupa. Egli va sul sicuro, si occupa di ciò che è
calcolabile. Perciò anche lo scopo della sua vita è molto intra-
mondano, palpabile: la salute e la felicità che deriva dal benes-
sere. Ma accade proprio ciò che egli non aveva messo in conto:
«Stolto», gli dice Dio. Nonostante ogni calcolo, questo uomo
aveva dimenticato che la sua anima non aspirava solo al posses-
so e al piacere, ma sarebbe comparsa davanti a Dio. Questo
stolto intelligente mi sembra l’esatta immagine del nostro mo-
derno comportamento medio. Proprio nell’apparente avvici-
narsi all’autoliberazione dell’umanità erompono le inquietanti
esplosioni dal profondo dell’anima umana, insoddisfatta e op-
pressa, e ci dicono: tu stolto, tu hai dimenticato te stesso, la tua
anima e la sua inestinguibile sete: il suo desiderio di Dio.
L’agnosticismo del nostro tempo, apparentemente tanto razio-
nale, che lascia che Dio sia Dio, per rendere l’uomo uomo, si di-
mostra come la stoltezza più miope. Scopo di ogni sapienza do-
vrebbe essere di percepire l’appello interiore della nostra anima
a riscoprire al suo fondo il mistero di Dio.
Questo essere in cammino per cercare il fondamento creato-
re di tutte le cose è qualcosa di diverso dal pensiero ‘pre-critico’
o acritico. Al contrario, la rinuncia a questa somma apertura
dell’uomo è un atto di autochiusura. Quando si tratta della di-
gnità dell’uomo, della sua rovina e della sua salvezza, si deve
constatare questo: l’uomo che si fa signore della verità e, alla fi-
ne, quando essa non si lascia dominare, la lascia da parte pone
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gnora. Vivere sotto il modello della giustizia, che noi non pen-
siamo da soli, ma è la potenza che misura noi stessi. Vivere nella
responsabilità nei confronti dell’amore, che ci attende e ci ama.
Vivere sotto la pretesa dell’eterno. Chi, infatti, vive attentamen-
te lo sviluppo, capirà che questa è l’unica maniera in cui l’uomo
può essere salvato. Dio – lui solo – è la salvezza dell’uomo; que-
sta incredibile verità, che per molto tempo ci è sembrata qual-
cosa di teorico e di irraggiungibile, è divenuta la formula più
pratica di questa nostra ora storica. E chi, sia pure esitante forse
all’inizio, si rimette a questo arduo eppure inevitabile ‘come-se’
– vivere come se Dio esistesse – si accorgerà sempre di più che
questo ‘come-se’ è la vera realtà. Con responsabilità propria si
accorgerà della sua forza liberante. E saprà profondamente e in-
distruttibilmente perché, anche oggi, sia necessario ancora il
cristianesimo, come vero e lieto messaggio che salva l’uomo.
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6.
Amicizia con Cristo
Signori cardinali,
venerati fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
distinte autorità e membri del Corpo diplomatico,
carissimi fratelli e sorelle!
Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle li-
tanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro
Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell’ingresso dei
cardinali in conclave, e anche oggi, quando le abbiamo nuova-
mente cantate con l’invocazione: Tu illum adiuva – sostieni il
nuovo successore di san Pietro. Ogni volta in un modo del tutto
particolare ho sentito questo canto orante come una grande
consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la di-
partita di Giovanni Paolo II! Il papa che per ben 26 anni è stato
nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo.
Egli varcava la soglia verso l’altra vita – entrando nel mistero di
Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è
* Omelia della messa per l’inizio del ministero petrino (24 aprile 2005).
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mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel mo-
mento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli – i
suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati
il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell’aldilà, fino
alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora
sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuo-
vo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in con-
clave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come pote-
vamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 vescovi,
provenienti da tutte le culture e i paesi, trovare colui al quale il
Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere?
Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo
soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio.
E ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assu-
mere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capa-
cità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di
farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schie-
ra dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia
di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva que-
sta consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo
ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei
santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la vostra pre-
ghiera, cari amici, la vostra indulgenza, il vostro amore, la vostra
fede e la vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comuni-
tà dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno
preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comu-
nità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del
sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e
renderci simili a se medesimo. Sì, la chiesa è viva – questa è la
meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni
della malattia e della morte del papa questo si è manifestato in
modo meraviglioso ai nostri occhi: che la chiesa è viva. E la
chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò
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paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona
a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo –
e troverete la vera vita. Amen.
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Postfazione
di Holger Zaborowski
Postfazione 173
Proporre la fede…
Postfazione 175
Fonti
Fonti 179
Indice
1. Incontrare un testimone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Incontri con papa Giovanni Paolo II 5
4. Celebrare la fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
1. Abbiamo motivo di far festa? 87
2. Il senso dell’avvento 88
3. Cristo, il salvatore, è qui 97
4. Meditazione per la sera di san Silvestro 103
5. Tempo di allegria e tempo di penitenza 110
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Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
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Dogma e predicazione
2a edizione - pagine 384 - ISBN 0319-4
Biblioteca di teologia contemporanea 19
La fraternità cristiana
pagine 128 - ISBN 0811-0
Giornale di teologia 311
La salvezza dell’uomo
In prospettiva intramondana e cristiana (con Ulrich Hommes)
pagine 84 - ISBN 1423-4
Meditazioni 23
Fede e futuro
3a edizione - pagine 120- ISBN 1461-7
Meditazioni 61
Tempo di Avvento
pagine 88 - ISBN 2267-9
Meditazioni 187