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ATHRABETH FINROD AH ANDRETH

Dialogo di Finrod ed Andreth


di John R. R. Tolkien

Traduzione di Gianluca Meluzzi, 2019

In quel tempo gli Eldar appresero che, conformemente alle tradizioni degli Edain, gli uomini
credevano che i loro hröar non fossero per natura originale di breve vita, ma che tali fossero stati
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resi dalla malvagità di Melkor. Tuttavia non era chiaro agli Eldar che cosa esattamente intendessero
gli Uomini con questo: ovvero, se ciò fosse dovuto alla corruzione generale di Arda (che essi stessi
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reputavano essere causa del declino dei propri hröar); o ad una specifica malignità contro gli
Uomini come tali, compiuta negli oscuri tempi prima che gli Edain e gli Eldar s’incontrassero nel
Beleriand; oppure ad entrambi i fattori. Ma sembrava agli Eldar che, qualora la mortalità fosse
provenuta da una malizia specifica, la natura stessa degli Uomini sarebbe stata gravemente alterata
rispetto al primo disegno di Eru. E ciò era motivo di meraviglia e sgomento per loro perché
comportava, qualora realmente così fosse stato, che il potere di Melkor fosse (o fosse stato
all'inizio) assai maggiore di quanto persino gli Eldar non avessero compreso; e, per contro, che la
natura originaria degli Uomini dovesse essere stata davvero peculiare e differente da quella di
qualsiasi altra creatura di Arda.

A tale proposito è riportato nelle antiche dottrine degli Eldar che un giorno Finrod Felagund ed
Andreth la Savia conversarono assieme nel Beleriand, molto tempo fa.

Questo racconto, che gli Eldar chiamano Athrabeth Finrod ah Andreth, è qui riportato in una delle
forme che sono state preservate.

Finrod, figlio di Finarfin figlio di Finwë, era il più saggio tra i Noldor esiliati, in quanto più
interessato d’ogni altro dagli argomenti della ragione, piuttosto che dal fare o dalle arti manuali. Ed
era inoltre bramoso di scoprire tutto quanto fosse possibile sul genere umano. Fu proprio lui il
primo ad incontrare gli Uomini nel Beleriand ed a stringere amicizia con loro, e per questa ragione
fu spesso chiamato dagli Eldar Edennil, "l'Amico degli Uomini". Il suo amore maggiore fu per le
genti di Bëor il Vecchio, poiché furono queste le prime in cui egli si imbatté nei boschi del
Beleriand Orientale.
Andreth era una donna della Casa di Bëor, la sorella di Bregor padre di Barahir, il cui figlio fu
l’illustre Beren Manosola. Era saggia nei suoi pensieri e ben addentro le tradizioni e le storie degli
Uomini; per questa ragione gli Eldar la chiamarono Saelind, 'Cuorsapiente'.

Alcuni tra i sapienti furono donne; ed esse vennero molto apprezzate dagli Uomini, soprattutto per
la loro conoscenza delle leggende dei tempi antichi. Un'altra Savia fu Adanel, sorella di Hador
Lorindol, un tempo Signore del Popolo di Marach, le cui dottrine e tradizioni, ed anche la lingua,
erano differenti da quelle del Popolo di Bëor. Ma Adanel era sposata con un parente di Andreth,
Belemir della Casa di Bëor; e questi era nonno di Emeldir, la madre di Beren.

Nella propria giovinezza Andreth aveva dimorato a lungo nella casa di Belemir, imparando così da
Adanel molte delle tradizioni del Popolo di Marach e sommandole a quelle della propria gente.

Nei giorni della pace, prima che Melkor rompesse l'assedio di Angband, Finrod si recava spesso a
far visita ad Andreth, che teneva in grande amicizia poiché la trovava più pronta a rivelargli le
proprie conoscenze di quanto non fossero la maggior parte dei sapienti tra gli Uomini. Un'ombra
sembrava infatti stendersi su questi, e indietro restava un'oscurità di cui erano restii a parlare
persino tra loro. Ed essi avevano una grande soggezione degli Eldar, perciò assai difficilmente
rivelavano loro i propri pensieri o le proprie leggende. In verità i sapienti tra gli Uomini, ed erano
pochi, tenevano massimamente segrete le proprie conoscenze e le condividevano solamente con
coloro che sceglievano.

Ora avvenne che una primavera Finrod fosse per qualche tempo ospite nella casa di Belemir; e si
mise a parlare con Andreth la Savia riguardo agli Uomini ed ai loro destini. Perché a quel tempo
Boron, il signore del popolo di Bëor, era appena morto, subito dopo il capodanno, e Finrod ne era
addolorato.

«Triste per me, Andreth», disse, «è il rapido passaggio della tua gente. Perché ora Boron, il padre di
tuo padre, non è più; e sebbene voi direste che era vecchio per come l'età va tra gli Uomini, pure
troppo brevemente l'ho conosciuto. Breve lasso di tempo mi sembra trascorso da quando vidi per la
prima volta Bëor nell'est di questa terra, eppure ora egli se n'è andato, e così i suoi figli, e così anche
il figlio di suo figlio.

«Sono ora più di cento anni», disse Andreth, «da quando scavalcammo le montagne; e Bëor, Baran
e Boron sono tutti vissuti oltre il novantesimo anno d’età. Le nostre vite erano più brevi prima che
scoprissimo questa terra.»

«Dunque siete contenti qui?» chiese Finrod.

«Contenti?» rispose Andreth. «Nessun cuore d’Uomo lo è. Per lui tanto l’invecchiare quanto dover
morire sono motivo di afflizione; ma se lo sfiorire è meno rapido, allora questo è un cambiamento,
un lieve sollevarsi dell'Ombra.»
«Che cosa intendi con questo?» domandò Finrod.

«Lo sai perfettamente!» disse Andreth. «L'oscurità che ora se ne sta confinata nel Nord, ma che una
volta…»; e qui si fermò ed i suoi occhi si oscurarono, come se la sua mente fosse tornata ad anni
bui ormai dimenticati. «Ma una volta si stendeva su tutta la Terra di Mezzo, mentre voi dimoravate
nel vostro paradiso.»

«Non mi riferivo all'Ombra.» disse Finrod. «Volevo dire, che cosa intendi con questo suo “lieve
sollevarsi”? O in che modo c’entra con il rapido destino degli Uomini? Anche voi, riteniamo
(essendo stati istruiti dai Grandi che Sanno) , siete Figli di Eru, ed il vostro destino e la vostra natura
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provengono da Lui.»

«Vedo», disse Andreth, «che in questo voi Alti Elfi non differite dai vostri parenti minori che
abbiamo incontrati nel mondo, sebbene essi non abbiano mai dimorato nella Luce: tutti voialtri Elfi
ritenete che noi moriamo rapidamente per nostra natura; che siamo fragili e di breve durata mentre
voi siete forti e durevoli. Potremmo anche essere "figli di Eru", come sostenete con le vostre
conoscenze; ma per voi siamo anche un po’ come dei bimbi: da amare un poco, magari, e tuttavia
creature di minor valore, che potete guardare dall'alto del vostro potere e della vostra sapienza con
un sorriso, o con pietà, o anche scuotendo la testa.»

«Purtroppo parli vicino al vero.», disse Finrod. «Almeno, per molti della mia gente. Ma non per
tutti, e certamente non per me. Ma considera bene questo, Andreth: quando vi chiamiamo "Figli di
Eru" non parliamo con leggerezza. Perché quel nome non lo pronunciamo mai per scherzo o senza
piena intenzione. Quando parliamo così, parliamo per conoscenza, non per mera tradizione elfica; e
proclamiamo che voi siete nostri parenti, in una parentela molto più stretta, sia in hröa sia in fëa , di
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quella che lega assieme tutte le altre creature di Arda, o noi stessi ad esse.

Ci sono anche altre creature nella Terra di Mezzo, che amiamo nei loro limiti e generi: le bestie e gli
uccelli che sono nostri amici, gli alberi… persino i bei fiori, che passano assai più velocemente
degli Uomini. La loro morte ci duole; ma crediamo che ciò faccia parte della loro natura, allo stesso
modo del loro aspetto e colore.

Ma per voi, che siete i nostri parenti più prossimi, il nostro rimpianto è assai maggiore.

E tuttavia, se consideriamo la brevità della vita in tutta la Terra di Mezzo, non dobbiamo ritenere
che la vostra brevità faccia anch’essa parte della vostra natura? Non crede così anche la tua gente?
Eppure, dalle tue parole e dalla loro amarezza, credo che tu pensi che ci sbagliamo.»

«Penso che sbagliate voi e tutti quelli che la pensano così;» disse Andreth, «e che questo errore
stesso sia indotto dall'Ombra.
Ma per parlare degli Uomini. Chi dice una cosa, chi un’altra. La maggior parte di loro però pensa
poco e crederà sempre che ciò che è all’origine della sua breve esistenza nel mondo, così era e così
sempre sarà, che gli piaccia o meno.

Pure vi sono taluni che la pensano diversamente. Gli Uomini li chiamano "saggi", però li ascoltano
poco. Perché non dispensano certezze né parlano ad una voce, non godendo di conoscenze sicure,
diversamente da come vi vantate voialtri, ma dipendono per forza di cose dalle tradizioni, dalle
quali la verità (se pure è possibile trovarvela) deve essere spulata. Ma in ogni spulatura si ha della
pula assieme al grano che viene scelto, e certo anche del grano assieme alla pula che viene scartata.

Tuttavia tra la mia gente, da un sapiente all’altro fuori dall'Oscurità, è sorta l’idea che gli Uomini
oggi non siano come erano prima, né come per natura erano all’origine. E questo viene sostenuto in
modo ancor più deciso da quelli del Popolo di Marach, che hanno conservato nella memoria un
nome per Colui che voi chiamate Eru, quando tra la mia gente Lui è quasi obliato. Così ho appreso
da Adanel. Essi sostengono apertamente che gli Uomini non sono per natura di vita breve, ma che
tali sono divenuti per la nequizia del Signore dell’Oscurità, del quale non pronunciano il nome.»

«Questo lo posso ben credere:» disse Finrod, «che in qualche misura i vostri corpi soffrano per la
malvagità di Melkor. Perché voi vivete in Arda Corrotta, al pari di noi, e tutta la materia in Arda è
stata contaminata da lui, prima ancora che voi o noi facessimo la nostra comparsa e ne estraessimo i
nostri hröar ed il loro sostentamento. Tutta, tranne forse solo Aman, prima che egli giungesse anche
lì. Perché, sappilo, non accade diversamente agli stessi Quendi: il loro benessere e la loro statura
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sono sminuiti. Già quelli di noi che da sempre abitano nella Terra di Mezzo, e persino noi che vi
siamo ritornati, si accorgono che il cambiamento del corpo è divenuto più rapido che non all'inizio.
E questo, ritengo, deve presagire che esso si dimostrerà meno resistente a perdurare nel tempo di
quanto non fosse stato designato. Sebbene, ciò potrebbe non manifestarsi in modo evidente per
molti lunghi anni ancora.

Similmente per gli hröar degli Uomini: sono più deboli di quanto non dovrebbero essere. E così
accade che qui in Occidente, dove in passato il suo potere s’era esteso a malapena, essi godano di
maggior salute come dici tu.»

«No, no!», disse Andreth. «Non comprendi le mie parole. Poiché voialtri avete sempre il medesimo
convincimento, mio signore: gli Elfi sono Elfi e gli Uomini sono Uomini, e sebbene abbiano un
nemico comune che li affligge entrambi, pur tuttavia resta la distinzione che è stata decretata tra i
signori e i miseri; tra i primi arrivati, nobili e durevoli, ed i successivi, umili e di breve servizio.

Ma non così dice la voce che i Saggi sentono fuori dall'oscurità e che nasce oltre di questa. No,
signore, i sapienti fra gli Uomini dicono: "Non siamo stati creati per la morte, né siamo nati per
dover morire un giorno. La morte ci è stata imposta." E osserva: la paura che ci incute non ci
abbandona mai, e la fuggiamo come fa il cervo dal cacciatore. Ma personalmente ritengo che non
abbiamo scampo in questo mondo. Nessuno scampo, neppure se potessimo raggiungere la Luce
oltre il Mare, o a quell'Aman di cui parlate. È inseguendo questa speranza che partimmo e che
abbiamo viaggiato per molte vite degli Uomini. Ma la speranza è stata vana.

Eppure ce lo dicevano, i Saggi! Ma questo non ha fermato la marcia perché, come ho detto, sono
poco ascoltati. Ed ecco qua: siamo fuggiti dall'Ombra fino alle ultime rive della Terra di Mezzo,
solo per scoprire che essa è qui davanti a noi!»

Finrod allora rimase in silenzio un poco; poi disse: «Queste sono parole strane e terribili. E tu parli
con l'amarezza di colui il cui orgoglio è stato umiliato, e che cerca a sua volta di ferire coloro a cui
parla. Se tutti i sapienti fra gli Uomini parlano allo stesso modo, allora posso credere che voi
abbiate subìto un grave male. Ma non dal mio popolo, Andreth, né da alcuno dei Quendi. Se noi
siamo come siamo, e se voi siete quali vi abbiamo trovati, ciò non è avvenuto per causa nostra, né
per nostro desiderio; e la vostra sventura non ci rallegra né alimenta il nostro orgoglio. C’è uno
soltanto che direbbe altrimenti: quel Nemico che voi non nominate.

Attenti alla pula con il vostro grano, Andreth! Perché potrebbe essere letale: menzogne del Nemico
che attraverso l’invidia produrranno odio. Non tutte le voci che fuoriescono dall'Oscurità dicono il
vero a quelle menti che ascoltano i messaggi misteriosi.

Chi è dunque che vi ha cagionato questo male? Chi vi ha imposto la morte? Melkor, è chiaro che
intendi, quale che sia il nome con cui lo chiamate in segreto. Perché parli della sua Ombra e della
morte come fossero la stessa cosa; e come se sfuggire all'Ombra significasse allo stesso tempo
sfuggire alla morte.

Ma queste due cose non sono una sola, Andreth. Così credo. Diversamente la morte non si
troverebbe affatto in questo mondo, che non lui ha creato, ma un Altro. No, morte è solo il nome
che noi diamo a qualcosa che egli ha contaminato, e che per questo suona maligna; ma se fosse
rimasta pura, il suo nome sarebbe benefico.»

«Che cosa ne sapete della morte voialtri? Se non la temete, è perché non la conoscete.», disse
Andreth.

«L'abbiamo vista; e la temiamo.» rispose Finrod. «Anche noi possiamo morire, Andreth; e siamo
morti. Il padre di mio padre fu ucciso crudelmente e molti lo hanno seguito, esuli nella notte, tra i
ghiacci crudeli e nel mare insaziabile. E nella Terra di Mezzo siamo morti, uccisi dal fuoco e dal
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fumo, dal veleno e dalle crudeli lame in battaglia. Fëanor è morto e Fingolfin è stato schiacciato dai
piedi del Morgoth. 7

A quale scopo? Per abbattere l'Ombra. O, se ciò non fosse possibile, per impedirle di diffondersi
ancora una volta su tutta la Terra di Mezzo. Per difendere i Figli di Eru, Andreth: tutti i Figli, non
solamente gli orgogliosi Eldar!»
«Avevo sentito», disse Andreth, «che era per riconquistare il tesoro che vi fu rubato dal vostro
Nemico; ma forse la Casa di Finarfin non è tutt'una con i Figli di Fëanor. Con tutto il rispetto per il
vostro valore, ripeto: che cosa ne sapete voi della morte? Per voi può essere anche dolorosa, ed
anche amara e rappresentare una perdita. Ma solo temporaneamente, salvo che non mi sia stato
detto il falso: quindi è come una piccola porzione tolta all'abbondanza. Perché sapete che morendo
non lasciate il mondo e che potrete tornare alla vita.

Diverso è per noi: morendo finiamo, e ce ne andiamo senza ritorno. La morte è la fine estrema, un
danno irrimediabile; ed è abominevole. Oltretutto, perché è anche un’ingiustizia che ci viene fatta.»

«Credo di capire.» disse Finrod. «In altre parole, stai dicendo che ci sono due morti: l'una è un
danno ed una perdita ma non una fine, l'altra è una fine senza rimedio; e che i Quendi patiscono
solo la prima?»

«Sì. Ma c'è anche un'altra differenza.» disse Andreth. «Una non è che una ferita casuale tra le
possibilità del mondo, che il valoroso, il forte o il fortunato può sperare di evitare. L'altra è la morte
ineluttabile; una morte cacciatrice cui alla fine non si sfugge. Per quanto un uomo possa essere
forte, o rapido, o coraggioso; che egli sia saggio o che sia sciocco; che sia malvagio, ovvero giusto e
misericordioso in ogni sua azione per tutta la vita, che ami il mondo o che lo detesti, egli deve
morire e deve lasciarlo. E divenire una carogna che gli altri prontamente nascondono o bruciano.»

«Dunque, essendo così braccati, gli Uomini non hanno alcuna speranza?» domandò Finrod.

«Non hanno certezze né conoscenze; solo paure, o sogni nell'oscurità.» rispose Andreth. «Ma
speranza? La speranza, questa è un'altra faccenda, della quale persino i Saggi parlano di rado.»

Poi la sua voce si fece più gentile.

«Eppure, Sire Finrod della casa di Finarfin degli alti e possenti Elfi, forse potremmo parlarne
proprio adesso, tu ed io.»

«Potremmo,» disse Finrod, «ma per il momento stiamo ancora camminando tra le ombre della
paura.

Fin qui, quindi, mi è chiaro che la grande differenza tra Elfi e Uomini sta nella velocità della fine.
Solo in questo. Perché se ritieni che per il Quendi non ci sia morte ineluttabile, sbagli.

Ora, nessuno di noi conosce il futuro di Arda o quanto a lungo sia stato stabilito che essa debba
perdurare, anche se forse i Valar potrebbero saperlo. Tuttavia essa non durerà per sempre. È stata
creata da Eru, ma Egli non è in essa. E poiché l'Uno soltanto non ha limiti, Arda e la stessa
Eä debbono essere limitate.
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Tu oggi vedi noi Quendi ancora nelle prime ere della nostra esistenza, e la fine è molto lontana.
Come, forse, tra voi può sembrare la morte ad un giovane nel pieno delle forze; salvo che noi
abbiamo già alle spalle lunghi anni di vita e di meditazioni. Ma la fine verrà. Questo noi lo
sappiamo tutti. Ed a quel punto dovremo morire; dovremo perire del tutto, a quanto sembra, poiché
apparteniamo ad Arda, in hröa come in fëa. Ed oltre che cosa c’è? "Andarsene senza ritorno", come
dici tu; la "fine estrema, il “danno irrimediabile”?

Il nostro cacciatore è lento, ma non perderà mai la traccia. Oltre il giorno in cui egli farà squillare il
corno ferale non abbiamo certezze, non conoscenze. E nessuno ci parla di speranza.»

«Questo non lo sapevo.» disse Andreth; «E tuttavia...»

«Tuttavia la nostra almeno ha il passo lento, vuoi dire?» chiese Finrod. «Vero. Non è detto però che
una sorte fatale attesa a lungo debba rappresentare per forza un fardello più lieve di quella che
giunge in fretta.

Ma se ho compreso fino in fondo le tue parole, voi non credete che questa differenza sia stata
concepita così fin dall'inizio. Cioè, secondo voi in principio non eravate destinati ad una morte
rapida.

C’è molto che si potrebbe dire su questa congettura, corretta o meno che sia. Ma prima vorrei
chiederti: secondo voi in che modo sarebbe avvenuto? Per la malizia di Melkor, avevo supposto, e
tu non l'hai negato. Ma ora mi rendo conto che non ti riferivi alla menomazione di cui soffre ogni
cosa in Arda Corrotta, bensì ad una specie di colpo ostile vibrato specificamente contro il tuo
popolo, contro gli Uomini come tali. È così?»

«Esatto, è così.», disse Andreth.

«Allora è una cosa terrificante», disse Finrod. «Conosciamo Melkor, il Morgoth, e sappiamo che è
potente. Sicuro: io l'ho visto, ed ho sentito la sua voce. E sono rimasto cieco in quella notte che è il
cuore della sua ombra della quale tu, Andreth, non conosci nulla se non per sentito dire e per le
memorie della tua gente. Ma mai, neppure nella Notte, abbiamo creduto che potesse prevalere
contro i Figli di Eru. Egli potrebbe
certamente ingannarne o corromperne alcuni. Ma cambiare il destino di un intera stirpe di Figli
derubandoli del loro patrimonio spirituale! Se davvero ha potuto fare questo a dispetto di Eru, allora
è assai più possente e terribile di quanto immaginassimo; allora tutto il valore dei Noldor non è che
presunzione e follia… Peggio: Valinor e le Montagne dei Pelóri sono edificate sulla sabbia!»

«Ecco!» disse Andreth. «Non avevo detto che non conoscete la morte? Guarda: quando ti tocca
affrontarla anche solo col pensiero quale noi la conosciamo nei fatti e nel pensiero per l’intera
nostra vita, subito cadi nell’angoscia. Noi sappiamo bene (non so voi) che l’Innominato è il Signore
di questo mondo e che il valore, il vostro come il nostro, è follia. O almeno, è vano.»
«Attenzione!», disse Finrod. «Attenta a non dire l'indicibile, di proposito o per ignoranza,
confondendo Eru con il Nemico, perché è esattamente quel che costui vorrebbe tu facessi. Il
Signore di questo mondo non è lui, ma Colui che lo ha creato, ed il suo reggente è Manwë, il Re
Antico di Arda che è benedetto.
No, Andreth, la mente si è oscurata e sconvolta. Sottomettersi, e tuttavia detestare la sottomissione;
fuggire senza rifiutarne la causa; amare il corpo ed allo stesso tempo disprezzarlo con lo stesso
disgusto che si ha per una carogna: queste sono cose che, sì, possono provenire dal Morgoth. Ma
condannare a morte chi in principio era senza morte, di padre in figlio, e tuttavia lasciargli vivo il
ricordo d’un'eredità strappata via ed il desiderio di ciò che è andato perduto: il Morgoth potrebbe
farlo? No, dico io. Proprio per questo motivo ho detto che se il tuo racconto è vero, allora tutto in
Arda è vano, dalla vetta di Oiolossë fino all'abisso più profondo. Perché non credo alla vostra storia.
Nessuno avrebbe potuto farlo, salvo l'Uno.

Perciò ti chiedo, Andreth: che cosa avete commesso, voi Uomini, tanto tempo addietro
nell'Oscurità? Come avete fatto a provocare la collera di Eru? Perché, diversamente, tutti questi
vostri racconti non sono che sogni oscuri concepiti da una Mente Oscura. Mi dirai ciò che sai o che
hai sentito?»

«Non lo farò.», rispose Andreth. «E neppure siamo usi parlarne con quelli di altre razze. Pur
tuttavia, i Saggi stessi sono incerti e ne parlano con voci contrapposte. Perché qualunque cosa sia
avvenuta tanto tempo fa, noi ne siamo fuggiti ed abbiamo cercato di dimenticare. E lo abbiamo fatto
per così tanto tempo, che ormai non riusciamo più a ricordare come eravamo prima di divenire quali
siamo ora, ma solo leggende sui giorni in cui le nostre vite erano ancora molto lunghe, e tuttavia già
c'era la morte.»

«Non riuscite a ricordare?», domandò Finrod. «Non ci sono racconti sui vostri giorni prima della
morte, anche se non intendete condividerli con gli estranei?»

«Forse.» disse Andreth. «Se non tra la mia gente, magari tra quella di Adanel.»

Tacque e guardò il fuoco.

«Pensi che non lo sappia nessuno tranne voialtri?» chiese infine Finrod. «Neppure i Valar lo
sanno?»

Andreth alzò lo sguardo ed i suoi occhi si oscurarono.

«I Valar?» disse lei. «Come potrei saperlo io, o chiunque tra gli Uomini? I tuoi Valar non si
occupano di noi né con attenzioni né con istruzioni. E neppure ci hanno convocati.»

«Che cosa ne sai tu di loro?» la rimproverò Finrod. «Io li ho visti! Ho abitato in mezzo a loro. Io
sono stato nella luce in presenza di Manwë e di Varda. Non parlare di loro in questo modo, né di
tutto ciò che è al di sopra di te. Parole del genere uscirono per la prima volta dalla Bocca Bugiarda.
Non ti è mai passato nel pensiero, Andreth, che laggiù in quelle ere passate potreste essere stati voi
a portarvi fuori dalle loro attenzioni ed oltre la portata del loro aiuto? O anche, che voi, i figli degli
Uomini, foste qualcosa che essi non potevano governare? Perché troppo grande per loro? Sì,
intendo esattamente questo, e non semplicemente ingentilire la vostra alterigia: troppo grande!
Signori unici di voi stessi in Arda, sotto la mano dell'Uno. Attenta allora a come parli! Se non è
vostra intenzione discutere con altri della vostra piaga o di come ve la siete provocata, badate a non
valutare erroneamente il danno che vi provoca (come chi cura con le sanguisughe!), o da non
accusare a caso solo per alterigia.

Ma passiamo ad altro, dal momento che non ne dirai di più. Vorrei prendere in considerazione il
vostro stato originale, com’era prima della piaga. Perché anche ciò che dici su questo punto mi
meraviglia e mi è difficile da comprendere. Tu affermi: "non siamo stati creati per la morte, né
siamo nati per morire". Cosa intendi, che eravate come siamo noi, o qualcos’altro?»

«Questa leggenda non tiene conto di voi,» disse Andreth, «perché non sapevamo nulla degli Eldar.
Consideravamo soltanto il morire e il non morire. Di vite che durassero quanto il mondo ma non più
di esso non ne avevamo ancora udito; anzi, fino ad ora non mi era mai passato per la mente.»

«Per dirla sinceramente,» disse Finrod, «avevo pensato che questo vostro credere che neppure voi
foste stati fatti per la morte, fosse solo un sogno del vostro orgoglio, coltivato per invidia dei
Quendi, per eguagliarli o superarli. Non è così, tu dici. Eppure, già molto tempo prima che
giungeste in queste terre avevate incontrato altri Quendi, e con alcuni di loro avevate fatto amicizia.
Non eravate già mortali a quel tempo? E non avete mai parlato con loro a riguardo della vita e della
morte? Per quanto, essi avrebbero scoperto presto la vostra mortalità anche senza bisogno di
parlarne, e prima ancora che voi poteste intuire che essi non perivano.»

«”Non è così", dico infatti.» rispose Andreth. «Può darsi che fossimo mortali quando incontrammo
gli Elfi per la prima volta, lungi da qui, o magari non lo eravamo: le nostre tradizioni non lo dicono.
Quantomeno, nessuna di quelle che ho apprese. Ma già avevamo le nostre e non avevamo certo
bisogno di quelle degli Elfi: sapevamo che in principio eravamo stati messi al mondo per non
morire mai. E con ciò, mio signore, intendevamo: nati per una vita eterna, senza neppure l’ombra
d’una fine.»

«Ma i vostri Saggi hanno considerato quanto strana sia questa natura originale che rivendicano per
gli Atani?», chiese Finrod.

«È tanto strana?», rispose Andreth. «Molti di loro sostengono che nella loro natura originale nessun
essere vivente morrebbe.»

«In ciò gli Eldar direbbero che si sbagliano.» disse Finrod. «A noi questa vostra pretesa riguardo gli
Uomini suona strana ed è davvero difficile da accettare, per due ragioni. Stai affermando, se
comprendi appieno le tue stesse parole, che avete avuto corpi imperituri, non legati ai limiti di Arda,
e tuttavia derivati dalla sua materia e sostenuti da essa. Ed affermi anche (ma forse non te ne sei
resa conto) di aver avuto hröar e fëar non in armonia fin dall'inizio. Eppure l'armonia
tra hröa e fëa è, noi crediamo, essenziale per la vera natura incontaminata di tutti gli Incarnati:
i Mirroanwi, come noi chiamiamo i Figli di Eru.»

«La prima difficoltà la colgo,» disse Andreth, «e per essa i nostri sapienti hanno la loro risposta. La
seconda, come hai capito, no.»

«No?», ripeté Finrod. «Allora non vedete voi stessi in modo chiaro. Ma spesso accade che i nostri
amici e parenti vedano chiaramente cose che a noi restano nascoste.

Orbene, noi Eldar siamo vostri parenti e vostri amici (se vuoi crederlo), e già vi abbiamo osservati
lungo il corso di tre vite degli Uomini, con amore, preoccupazione e molto ragionamento. Di ciò
quindi siamo certi assolutamente e senza questioni, oppure tutta la nostra saggezza non vale nulla:
i fëar degli Uomini, per quanto molto simili a quelli dei Quendi, non gli sono uguali. Per quanto
strano possa sembrarci, vediamo chiaramente che i fëar degli Uomini non sono, come i nostri,
confinati in Arda, né è Arda la loro dimora.

Puoi affermare il contrario? Ebbene, noi Eldar non neghiamo che voialtri amiate Arda e tutto ciò
che vi si trova, nella misura in cui siete liberi dall'Ombra, forse persino tanto quanto noi. E tuttavia
lo amate in un’altra maniera. Cioè, ciascuno dei nostri generi percepisce Arda in modo diverso e
valuta le sue bellezze in modo e misura diversi. Come posso dire? Mi fa venire alla mente la
differenza che corre tra uno che visiti un paese straniero e vi si trattenga per un po', pur senza
averne la necessità, ed uno che in quella terra abbia sempre vissuto e che non possa farne a meno.
Per il primo, tutte le cose che vede sono nuove e curiose, quindi le trova adorabili. Per l'altro esse
sono tutte familiari, le uniche ad esistere, le sue; quindi gli sono care.»

«Stai dicendo che gli Uomini sono gli ospiti.», disse Andreth.

«Hai detto la parola.» disse Finrod. «È questo il nome che vi abbiamo dato.»

«Signorili come sempre!» osservò Andreth. «Ma seppure fossimo solo ospiti in una terra in cui tutto
è di vostra proprietà, miei signori, come tu sostieni, dimmi: quali altre terre o cose conosceremmo?»

«No, dimmelo tu!» disse Finrod, «Perché se non lo sapete voi, come lo potremmo noi? Ma lo sai
che gli Eldar dicono che gli Uomini non guardano a nessuna cosa per sé stessa? Che, se la studiano,
è per scoprire qualcos'altro? E se la amano è solo, parrebbe, perché ne ricorda loro qualche altra più
cara? Ma con cosa è questo confronto? Dove sono queste altre cose?

Siamo entrambi, Elfi e Uomini, in Arda e di Arda. Ed ogni conoscenza degli Uomini deriva da
Arda; almeno, così sembra. Da dove viene dunque questa memoria che avete impressa prima ancora
di iniziare ad apprendere?
Essa non proviene da altre regioni di Arda che avete attraversate nel vostro viaggio. Perché anche
noi siamo venuti da lontano con un lungo viaggio; ma se tu ed io ci recassimo assieme alle vostre
antiche dimore laggiù in oriente, io vi riconoscerei ogni cosa allo stesso modo che se fosse una parte
della mia casa, mentre vedrei nei vostri sguardi lo stesso stupore e confronto che vedo negli occhi
degli Uomini nativi del Beleriand.»

«Fai strani discorsi, Finrod,» disse Andreth, «che non avevo mai uditi prima. Eppure il mio cuore è
scosso come da una verità che riconosce senza comprenderla. Ma è un ricordo fuggevole, che
svanisce prima che io riesca ad afferrarlo. Ed oltre di esso siamo ciechi.

Ebbene, quelli tra noi che hanno conosciuto e magari amato gli Eldar, ci dicono: "non esiste la noia
negli occhi degli Elfi". Ci rendiamo allora conto che gli Eldar non comprendono il detto di noi
Uomini: “ciò che viene visto troppo a lungo non si vede più”, e che si meravigliano molto del fatto
che nelle nostre lingue una stessa parola possa significare sia "noto da tempo" che "monotono".

Abbiamo pensato che fosse così solo perché gli Elfi hanno una vita duratura ed un vigore
immutabile. Alle volte, mio signore, noialtri Ospiti vi chiamiamo i “Bimbi Cresciuti". Eppure ...
eppure, se nulla in Arda per noi mantiene il suo sapore a lungo, e se tutto ciò che è bello finisce per
svanire, che significa? Non è l’effetto dell’Ombra che cala sui nostri cuori? Oppure tu dici che non
è così e che è sempre stata questa la nostra natura, anche prima della piaga?»

«È quel che dico, infatti.» rispose Finrod. «L'Ombra potrebbe aver oscurato la vostra irrequietudine,
accelerandovi la stanchezza e mutandola in disprezzo, ma sono convinto che l’irrequietudine ci sia
sempre stata. E se le cose stanno così, ancora non riesci a cogliere la disarmonia di cui parlavo? Lo
dovresti, se davvero la vostra Sapienza avesse radici simili a quelle della nostra, la quale insegna
che i Mirroanwi sono fatti dell'unione di corpo e mente, di hröa e fëa; o, come diciamo in modo
figurato, la Casa e l'Abitante.

Perché cos’è la "morte", di cui vi dolete, se non la separazione tra questi due? E qual è l’"assenza di
morte" che avreste persa, se non che questi avrebbero dovuto restare uniti per sempre?

In tal caso, come dovremmo considerare questa unione nell'Uomo? Forse quella di uno Spirito che è
solo ospite qui in Arda e non a casa propria, ma che abita in una Casa che è fatta della materia di
Arda e che quindi dovrà, si presume, rimanere qui?

Ebbene, in tal caso non si dovrebbe sperare per questa Casa un’esistenza più lunga di quella di Arda
di cui fa parte! Invece tu affermi che anche la Casa era immortale, giusto?

No, ritengo piuttosto che un simile fëa ad un certo momento, per sua stessa natura e di sua volontà,
abbandonasse la Casa del suo soggiorno qui, anche se a quel tempo il soggiorno poteva essere più
lungo di quanto gli è ora concesso. Allora la "morte", come dicevo, sarebbe stata sentita
diversamente da voi: come liberazione, o ritorno… Anzi, come andare a casa!

Ma tu questo non lo credi, mi pare.»

«No, non ci credo.» disse Andreth. «Perché quello sarebbe disprezzo del corpo, ed è un pensiero
dell'Oscurità, innaturale per qualsiasi Incarnato, la cui vita incorrotta è un'unione di amore reciproco
tra lo spirito ed il corpo. Ma il corpo non è una locanda, dove tenere caldo un viaggiatore per una
notte prima che se ne vada per la sua strada e poi riceverne un altro. È una casa fatta solo per un
abitante; anzi, non solo una casa, ma anche un vestito. E non capisco perché allora dovremmo
parlare solo del vestito che viene cucito per chi lo indossa, e non anche di chi lo indossa che viene
modellato per entrarvi!

Ritengo quindi che non si possa pensare che la separazione di questi due possa essere in accordo
con la vera natura degli Uomini. Piuttosto, se fosse "naturale" che il corpo venga abbandonato e
muoia, ed anche "naturale" che per contro il fëa gli sopravviva, allora sì ci sarebbe una disarmonia
nell'Uomo, e le sue parti non sarebbero unite dall'amore. In tal caso il suo corpo sarebbe un intralcio
nel migliore dei casi, o una catena: quindi un'imposizione, non un regalo. Ma uno solo è colui che
impone, ed escogita, catene: se tale fosse la nostra natura fin dall'inizio, allora dovremmo derivarla
da lui. Ma lo dici tu stesso che cose del genere non sono nemmeno da pensare.

Ahimè, ciò nondimeno laggiù nell'oscurità gli Uomini affermano proprio questo! Ma non gli Atani,
come tu sai; non ora. Io ritengo che in questo noi siamo come voi, Incarnati ad ogni effetto, ma che
non viviamo la nostra esistenza nella sua giustezza e pienezza, se non in un'unione d’amore e pace
tra la Casa e lo Spirito. Pertanto la morte, che li divide, costituisce un disastro per entrambi.»

«Tu stupisci sempre più il mio pensiero, Andreth.» disse Finrod, «Perché se la tua pretesa è vera,
allora ecco: un fëa che qui è solo un viaggiatore, è sposato indissolubilmente ad un hröa di Arda!
Dividerli è un dolore atroce, eppure ognuno deve realizzare la sua giusta natura senza essere
tiranneggiato dall'altro. Deve sicuramente conseguirne questo: quando il fëa diparte, deve recare
con sé lo hröa. E cosa potrebbe significare questo, se non che il fëa avrà il potere di elevare lo hröa,
quale suo eterno sposo e compagno, in un’esistenza eterna oltre Ëa ed oltre il Tempo? In tal modo
Arda, o parte di essa, non verrebbe semplicemente sanata dalla contaminazione di Melkor, ma
financo liberata dai limiti che erano stati fissati per essa nella "Visione di Eru" di cui parlano i
Valar.9

Perciò dico che se si può credere questo, allora potenti invero gli Uomini furono creati da Eru nel
loro principio; e più tremendo di ogni altra calamità fu il mutamento del loro stato.

È, quindi, una visione di ciò che fu designato che dovesse essere quando Arda fosse stata compiuta
– di esseri viventi e persino delle stesse terre e dei mari di Arda resi eterni ed indistruttibili, per
sempre belli e nuovi – quella con cui i fëar degli uomini comparano quanto vedono qui? Oppure c'è
un altro mondo in cui tutte le cose che vediamo, tutte le cose che Elfi o Uomini sanno, non sono che
immagini e reminiscenze?»

«Se così è fisso nella mente di Eru, ritengo.» disse Andreth. «A siffatte domande come possiamo
trovare le risposte, qui nelle nebbie di Arda Corrotta? Altrimenti avrebbe potuto essere, non fossimo
stati cangiati. Ma poiché siamo quel che siamo, persino i Saggi tra noi troppo poco hanno dedicato
il pensiero ad Arda stessa o ad altre creature che dimorano qui. Abbiamo meditato massimamente
su noi stessi: su come i nostri hröar e fëar avrebbero dovuto coesistere per sempre assieme nella
gioia, e sull'impenetrabile oscurità che ora ci attende.»
«Allora non sono solo gli Alti Eldar ad essere dimentichi dei propri parenti!» disse Finrod. «Ma
tutto ciò mi lascia stupefatto, e proprio come ha fatto il tuo cuore quando ti ho parlato della vostra
irrequietezza, così ora anche il mio batte come all’udire buone notizie.

Questa dunque, interpreto, era la missione degli Uomini: non coloro che seguono, ma gli eredi e gli
adempitori di tutto: per sanare la Corruzione di Arda, già prefigurata prima ancora del loro
concepimento. E per fare ancora di più, come agenti della magnificenza di Eru: ampliare la Musica
e superare la Visione del Mondo! Cosicché Arda Guarita non sarà Arda Purificata, ma una terza
cosa, e maggiore, eppure la medesima. Io ho conversato con i Valar che erano presenti
all’esecuzione della Musica prima ancora che il Mondo incominciasse ad esistere, ed ora mi
domando: hanno udito il finale della Musica? Non c'era qualcosa dentro o al di là degli accordi
finali di Eru che, essendone travolti a tal punto, non avevano potuto cogliere?

O anche: dato che Eru è eternamente libero, forse non ha condotto la Musica e non ha mostrato
alcuna Visione oltre un dato punto. Ed oltre quel punto noi non possiamo vedere o sapere, finché
per le nostre stesse strade non vi giungeremo, Valar, Eldar o Uomini che siamo.

Allo stesso modo come può un maestro, nel narrare le sue storie, riuscire a tener nascosto il
momento più bello fino a che la storia non vi si imbatte. Quelli tra noi che hanno ascoltato a mente
e cuore aperti lo possono anche indovinare in qualche misura, ma è proprio quello che il narratore
desidera: in nessun modo la sorpresa e la meraviglia della sua arte ne vengono sminuite, perché così
facendo partecipiamo, per così dire, del suo essere autore. Ma così non sarebbe se tutto ci fosse già
stato annunciato nel prologo!»

«Quale dunque supponi essere il momento supremo che Eru si è riservato?» chiese Andreth.

«Eh, savia signora!» disse Finrod, «Io sono un Elda, sicché stavo pensando di nuovo alla mia
gente… Ma no, a tutti i Figli di Eru: stavo pensando che noi potremmo essere stati liberati dalla
morte da voi Secondogeniti.

Perché sempre, mentre parlavamo della morte quale divisione di ciò che è unito, in cuor mio
ragionavo su una morte che non fosse così, ma piuttosto la fine congiunta delle due parti. Perché
questo è ciò che logicamente ci attende, nei limiti del nostro raziocinio: il completamento di Arda e
la sua fine, e quindi anche di noi figli di Arda. La fine, quando tutte le lunghe vite degli Elfi saranno
completamente nel passato.

E poi, all'improvviso, ho avuto la visione di Arda Rinnovata; e là gli Eldar, compiuti ma non finiti,
potrebbero restare per sempre nel presente, e camminare, forse, assieme ai Figli degli Uomini, i loro
liberatori; ed intonare loro canti tali, nella Beatitudine che supera ogni beatitudine, da far echeggiare
le verdi valli e da far vibrare come arpe le cime eterne dei monti.»

Andreth allora guardò Finrod aggrottando le sopracciglia e gli chiese: «E nei momenti in cui non
state cantando, che cosa ci direste?»
Finrod rise. «Posso solo provare ad indovinare.» disse. «Ebbene, savia signora, penso che
dovremmo narrarvi del Passato, e di Arda che fu Prima; dei pericoli, e delle magnifiche imprese, e
della realizzazione dei Silmaril! Noi eravamo i Signori, allora! Ma voi… A quel punto voi sareste
finalmente a casa, ed osserverete attentamente ogni cosa come vostra. Sareste voi i Signori.

“Gli occhi degli Elfi pensano sempre a qualcos'altro", dite voialtri. Ma a quel punto anche voi
conoscereste che cosa ci tornava alla mente: i giorni in cui ci incontrammo per la prima volta e le
nostre mani si toccarono nell'oscurità.

Oltre la Fine del Mondo noi non muteremo più; poiché il nostro grande talento consiste nella
memoria, come si vedrà sempre più chiaramente mentre le ere di questa Arda passeranno. E sarà un
fardello pesante, temo; ma una grande ricchezza nei Giorni di cui parliamo.»

Qui si fermò, poiché si avvide che Andreth piangeva in silenzio.

«Ahimè, signore!» disse ella, «Che si deve mai fare, dunque? Perché noi due ce ne stiamo qui a
parlare come se le cose stessero così, o se sicuramente così dovranno essere in un giorno a venire.
Invece gli Uomini sono stati sminuiti, ed il loro potere è stato sottratto. Noi non cerchiamo nessuna
Arda Rinnovata, perché è l'Oscurità che ci si para dinanzi, ed invano tentiamo di scrutarvi dentro.
Se è con il nostro aiuto che dovevano essere preparate le vostre dimore eterne, adesso non lo
saranno più.»

«Non avete dunque nessuna speranza?» chiese Finrod.

«Cosa intendi per speranza?» ella rispose, «Un'aspettativa di bene che, per quanto incerta, ha
qualche fondamento in ciò che si conosce? In tal caso non ne abbiamo.»

«Questo è un primo concetto che gli Uomini chiamano "speranza."» disse Finrod. «Amdir lo
chiamiamo noi, “guardare in su". Ma ce n'è un altro, fondato più in profondità. Lo chiamiamo Estel,
ovvero "fiducia". Non è sconfitto dalle vie del mondo, perché non viene dall'esperienza, ma dalla
nostra stessa natura e prima essenza. Se davvero siamo gli Eruhin, i Figli dell'Uno, allora Egli non
consentirà di essere privato di ciò che è Suo: non da alcun Nemico, e neppure da noi stessi. È questo
il fondamento estremo di estel, che serbiamo anche contemplando la Fine: lo scopo di ogni Suo
disegno deve essere la felicità dei Figli.

Amdir non ne avete, dici. Non dimora in voi neppure un poco di estel?»

«Forse.» ella rispose. «Ma no! Non capisci che è insito nella nostra piaga che Estel debba vacillare
e le sue fondamenta siano scosse: siamo davvero figli dell'Uno? Non siamo stati definitivamente
scartati? Ma lo siamo poi mai stati? Non è l’Innominato il Signore del Mondo?»

«Non dirlo nemmeno per ipotesi!», esclamò Finrod.


«Non può essere non detto,» rispose Andreth, «se solo tu comprendessi appieno la nostra
disperazione. O, almeno, la disperazione della maggior parte degli Uomini. Tra gli Atani, come ci
chiamate voi, o i Cercatori, come ci definiamo noi (ovvero: coloro che fuggirono dalle terre della
disperazione e dagli Uomini delle tenebre e viaggiarono verso occidente guidati da una vana
speranza), si crede ancora che un rimedio possa essere trovato, o che vi sia qualche via di fuga. Ma
è davvero estel? Non è piuttosto amdir? Un’amdir irrazionale, mera fuga in sogno da una veglia
nota, nella quale non c'è scampo dalle tenebre e dalla morte?»

«Mera fuga in un sogno, tu dici», rispose Finrod. «In un sogno vengono svelati molti desideri; e il
desiderio potrebbe essere l'ultimo guizzo di estel. Ma non intendi realmente sogno, Andreth.
Confondi sogno e risveglio con speranza e convinzione, per rendere la prima più dubbiosa e l'altra
più sicura. Forse che costoro dormono, quando parlano di fuga e di guarigione?»

«Che dormano o che siano svegli, non dicono nulla in modo chiaro», rispose Andreth. «Come o
quando giungerà la guarigione? In quale forma di esistenza saranno rinnovati, coloro che vedranno
quel giorno? E che sarà di noi che prima di quel giorno ci spegniamo malati nell'oscurità? Per tali
domande solo quelli della “Antica Speranza”, come si definiscono, hanno una qualche sorta di
risposta.»

«Quelli dell’Antica Speranza?» chiese Finrod. «Chi sono costoro?»

«Un gruppetto,» rispose, «ma il loro numero è cresciuto da quando siamo venuti in questa terra,
dacché vedono che l’Innominato può essere sfidato; o così s’illudono. Eppure questa non è una
buona ragione: opporsi a lui non disfa quel che ci ha fatto. E se il valore degli Eldar dovesse fallire
in questo, allora la loro disperazione sarà più profonda. Perché non era sulla potenza degli Uomini,
né di alcuno dei popoli di Arda, che si fondava l’Antica Speranza.»

«Cos'era poi questa Speranza, se lo sai?» domandò Finrod.

«Dicono...» rispose Andreth. «Dicono che l'Uno stesso entrerà in Arda e guarirà gli Uomini e tutta
la Corruzione dall'inizio alla fine. E questa, affermano anche, o inventano, è una voce che è discesa
attraversando i secoli, già fin dai giorni della nostra rovina.»

«Affermano, inventano?» disse Finrod. «Quindi tu non sei una di loro?»

«Come potrei esserlo, signore? Il buonsenso è tutto contro di loro. Chi è l'Uno, che voi chiamate
Eru? Se mettiamo da parte gli Uomini che servono l’Innominato (e sono in tanti nella Terra di
Mezzo!), restano ancora molti gli Uomini che percepiscono il mondo solo come una guerra tra una
Luce ed un’Oscurità che si equivalgono.

Tu dirai: no, quelli sono Manwë e Melkor; Eru è al di sopra di loro. Ma allora, dirà la maggior parte
degli Uomini, anche tra gli Atani: Eru non è solo il più grande dei Valar? Un grande dio tra gli dèi?
Un re che dimora lontano dal suo regno e lascia che principi minori facciano qui come vogliono? E
di nuovo dirai: ma no, Eru è Uno, solo e senza eguali; Egli ha creato Eä ed è oltre di esso. Ed i
Valar non sono tanto vicini alla Sua magnificenza quanto sono maggiori di noi. Non è così?»

«Esatto.» disse Finrod. «Affermiamo questo, ed i Valar li conosciamo e dicono la stessa cosa: tutti,
meno uno solo. Ma chi, secondo te, è più probabile che menta: coloro che si comportano
umilmente, o colui che si esalta?»

«Io non ho dubbi.», disse Andreth. «Ed è proprio per questo motivo che il concetto di Speranza
supera la mia comprensione. Come potrebbe Eru entrare in ciò che Lui ha creato, e di cui Lui è
smisuratamente maggiore? Può il cantore entrare nel proprio poema, o il pittore nella propria tela?»

«Egli è già dentro, ed allo stesso tempo è anche fuori.» disse Finrod. «Ma in effetti i Suoi “stare
dentro " ed "essere fuori" non avvengono allo stesso modo.»

«Vero.» disse Andreth. «Così Eru potrebbe essere presente in Eä che procede da Lui. Costoro però
parlano di Eru in persona che entra in Arda, e questa è una cosa completamente diversa. Come lo
potrebbe, Lui che è il più grande? Non infrangerebbe Arda, o addirittura tutto Eä?»

«Non domandarmelo.», disse Finrod. «Queste cose vanno oltre le possibilità della sapienza degli
Eldar, forse persino dei Valar.

Ma ho il dubbio che le nostre parole possano portarci fuori strada e che quando dici "il più grande",
tu pensi alla dimensione di Arda, in cui il recipiente più grande può non essere contenuto nel più
piccolo. Simili discorsi non possono essere usati per l’Incommensurabile: se Eru desiderasse farlo,
sono certo che ne troverebbe il modo, per quanto non sappia proprio immaginarmelo. Perché, per
come la vedo io, anche se Lui in persona dovesse entrare in Arda, dovrebbe allo stesso tempo
restare quello che è: il Creatore esterno.

Eppure, Andreth, per parlare con umiltà, non riesco ad immaginare in quale altro modo questa
guarigione potrebbe essere raggiunta, dal momento che Eru non permetterà sicuramente che Melkor
pieghi il mondo alla propria volontà e giunga infine a trionfare. Poiché non esiste un Potere
concepibile maggiore di Melkor, salvo il solo Eru stesso. Pertanto Egli, se non vorrà cedere la
propria opera a Melkor e lasciargliene il predominio, dovrà di persona entrare in Arda per
soggiogarlo.

E ancora: quando pure Melkor (o il Morgoth che è diventato) potesse in qualche altro modo essere
abbattuto o scacciato da Arda, la sua Ombra resterebbe, perciò il male che egli ha prodotto e sparso,
al pari di seme continuerebbe ad accrescersi e moltiplicarsi. Ritengo che, se mai si troverà un
rimedio a questo prima che tutto finisca, sia esso una nuova luce da opporre all’Ombra o una cura
per la piaga, esso dovrà venire dal di fuori.»

«Dunque, signore,» disse Andreth alzando meravigliata lo sguardo, «tu credi in questa Speranza?»
«Non chiedermelo ancora», rispose, «perché la sento ancora come una notizia bizzarra giunta da
lontano. Mai ai Quendi si era parlato di una simile speranza, che è stata consegnata a te solamente.
Eppure, attraverso di te ora noi possiamo ascoltarla e sollevare i nostri cuori.»

Si soffermò un attimo; poi, guardando Andreth gravemente, disse: «Sì, savia donna. Forse era stato
preordinato che noi Quendi, e voi Atani, prima che il mondo invecchiasse dovessimo incontrarci e
recarci notizie gli uni gli altri, e che in questo modo avremmo conosciuto da te la Speranza:
preordinato, in verità, che tu ed io, Andreth, dovessimo sederci qui e parlare assieme, attraverso il
baratro che separa la nostra affinità, in modo che mentre l'Ombra ancora cova nel Nord, non
cadessimo preda della paura.»

«Attraverso il baratro che separa la nostra affinità!», esclamò Andreth. «Non v'è dunque altro ponte
tra noi, se non il mero parlare?»

Poi pianse di nuovo.

«Potrebbe esserci. Per alcuni. Ma non lo so.» rispose. «Il divario, forse, è piuttosto tra i nostri
destini, perché altrimenti saremmo parenti stretti, più stretti di qualsiasi altra creatura al mondo.
Tuttavia è pericoloso attraversare un solco creato dal fato; e se qualcuno dovesse farlo, non
troverebbe gioia dall'altra parte, ma piuttosto i dolori d’entrambi. Così credo.

Ma perché dici "mero parlare"? Le parole non superano persino il divario tra una vita e l'altra? Tra
te e me sicuramente è passato ben più che un vuoto suono, no? Oppure non ci siamo avvicinati
affatto? Ma questo, suppongo, è di poco conforto per te.»

«Non ho chiesto alcun conforto.», disse Andreth, «A che mi serve?»

«Per il fato degli Uomini che ti ha toccata come donna.» disse Finrod. «O credi non sappia che
provi un forte amore per mio fratello? Aegnor: Aikanar, la Fiamma Intensa, lesto e solerte. Non
sono passati molti anni da quando vi siete incontrati per la prima volta e le vostre mani si sono
toccate in questa Oscurità. Eppure eri una fanciulla, coraggiosa e solerte, quel mattino sugli alti
monti del Dorthonion.»
«Prosegui!» disse Andreth, «Di' che ora sono soltanto una donna sapiente ma sola, e che gli anni
che non toccheranno lui, a me hanno già posato sui capelli il grigio dell'inverno! No, non serve che
me lo dica tu, perché già lo ha fatto lui una volta!»

«Ahimè!» disse Finrod, «Adorata adaneth, donna degli Uomini! È questa l'amarezza che ha
attraversato tutte le tue parole, non è vero? Se potessi parlarti in qualsiasi modo di conforto, tu lo
giudicheresti “signorile”, e solo perché proviene da uno che sta dal mio lato del solco che ci separa.
Ma cosa potrei dirti, se non rammentarti quella Speranza che tu stessa hai rivelata?»

«Non ho mai detto che quella fosse la “mia” speranza.» rispose Andreth, «E seppure così fosse,
continuerei a gridare: perché questo dolore dovrebbe giungere proprio qui ed ora? Perché mai
dovremmo amarvi, e voi amarci (ammesso che lo facciate), e tuttavia stendere un simile divario tra
noi?»
«Perché siamo statti fatti così: parenti stretti.» disse Finrod. «Ma non ci siamo fatti da soli, perciò
non siamo stati noi Eldar a stendere il divario. No, adaneth, non siamo signorili in questo, ma
pietosi.

So che questa parola non ti piacerà. Però la pietà è di due tipi: l’una è il riconoscimento di
un’affinità, ed è vicina all'amore; l'altra è la percezione di una differente condizione di fortuna, ed è
vicina all'orgoglio. Io parlo della prima.»

«Non parlarmi di nessuna delle due!», esclamò Andreth, «Non voglio né l’una né l’altra! Ero
ragazza quando osservai la sua fiamma, ed ora sono vecchia e perduta. Lui era giovane quando la
sua fiamma balzò verso di me, poi si volse altrove, ed è tuttora giovane. Forse che le candele hanno
pietà delle falene?»

«O le falene delle candele, quando il vento vi soffia?», rispose Finrod. «Adaneth, te lo dico: Aikanar
la Fiamma Intensa ti ha amata. E per te non prenderà mai più la mano d’una sposa del suo stesso
sangue, ma vivrà da solo fino alla fine, ricordando quel mattino sui monti del Dorthonion. Ma fin
troppo presto la sua fiamma si spegnerà nel vento del Nord. Agli Eldar è data preveggenza in molte
cose non lungi dall’accadere, sebbene raramente gioiose. Ed io ti dico che tu vivrai a lungo secondo
i canoni della tua specie; ma lui se ne andrà prima di te, né più vorrà ritornare.»

A quel punto Andreth si alzò ed allungò le mani verso il fuoco.

«Allora perché se ne è andato? Perché lasciarmi quando avevo ancora alcuni anni belli da vivere?»

«Mi spiace,» disse Finrod, «ma temo che la risposta non ti soddisferà. Gli Eldar hanno una natura e
voi un’altra. Ed accade che gli uni giudichino gli altri secondo il proprio punto di vista; fino a
quando non hanno compreso appieno, il che ben pochi fanno. Siamo in tempo di guerra, Andreth, e
in simili condizioni gli Elfi non si sposano né concepiscono figli, ma si preparano per la morte… o
per la fuga. Aegnor non spera, e neppure io, che questo assedio di Angband possa durare ancora a
lungo. Ed allora che ne sarà di questa terra? Se fosse il suo cuore a comandare, egli avrebbe
desiderato prenderti e fuggire lontano, ad est o a sud, lasciando i parenti suoi ed i tuoi. Amore e
lealtà lo legano ai suoi. E tu, quanto sei legata ai tuoi? Rammenta che tu per prima hai detto che con
la fuga non c'è scampo in questo mondo.»

«Per un anno, per un giorno della fiamma avrei dato tutto: parenti, giovinezza e la speranza stessa;
perché sono un’adaneth.» disse Andreth.

«Questo lui lo sapeva,» disse Finrod, «cosicché si ritirò e non afferrò ciò che gli stava sulla mano:
perché è un elda. La ragione è che simili scambi si pagano con sofferenze che non si possono
neppure immaginare finché non è troppo tardi. Gli Eldar le giudicano fatte per ignoranza, non per
coraggio.
No, adaneth. Se mai matrimonio sarà possibile tra un mio consanguineo ed uno tuo, ciò potrà
avvenire solo per qualche alto disegno del Fato. E sarà di breve durata, e duro nella conclusione.
Davvero, la sua fine meno crudele sarebbe che la morte lo terminasse in fretta.»

«Ma la fine è sempre crudele. Per gli Uomini.» disse Andreth. «Non gli avrei più dato disturbo, una
volta che la mia breve giovinezza fosse sfumata. Non mi sarei certo messa a zoppicare dietro ai suoi
piedi luminosi come una megera, quando non fossi più stata in grado di corrergli al fianco!»

«Forse no.» disse Finrod. «Almeno, così tu credi ora. Ma hai pensato a lui? Non avrebbe sopportato
di correrti avanti, ma sarebbe rimasto al tuo fianco per sostenerti. Allora avresti provato pena in
ogni istante, una pena senza rimedio; mentre lui, a sua volta, avrebbe patito per la tua vergogna.

Andreth, adaneth! Vita ed amore per gli Eldar risiedono soprattutto nella memoria; sicché noi, ma
forse non tu, preferiamo un bel ricordo di qualcosa che è rimasto incompiuto, ad uno che si
conclude tristemente. Ora egli si ricorderà sempre di te al sole del mattino, e di quell'ultima sera alle
acque di Aeluin, quando contemplò il riflesso del tuo viso con una stella presa tra i capelli. Sempre,
fino a quando il vento del Nord spegnerà la sua fiamma. E poi ancora, mentre se ne starà seduto alla
Casa di Mandos nelle Aule dell'Attesa, fino alla fine di Arda.»

«Ma quale ricordo avrò io?». disse lei. «E quando sarà giunta la mia ora, in quali aule mi ritroverò?
In un'oscurità in cui persino il ricordo della Fiamma Intensa verrà spento? Ed anche il ricordo del
rifiuto. Oh, almeno quello!»

Finrod sospirò e si alzò in piedi.

«Gli Eldar non hanno parole che possano curare simili pensieri, adaneth.» disse. «Vorresti forse che
Elfi ed Uomini non si fossero mai incontrati? E la luce della Fiamma, che in tal caso non avresti mai
vista, non ha più alcun valore per te neppure adesso? O forse credi che lui ti abbia disprezzata?
Metti da parte almeno questo pensiero, che proviene dall’Oscurità, e vedrai che il nostro discorrere
non sarà stato del tutto vano. Addio!»

La stanza si fece buia.

Finrod prese la mano di lei alla luce del fuoco.

«Dove vai?» gli domandò Andreth.

«Su nel Nord;» rispose, «alle armi, all'assedio, alle mura di difesa. Così che ancora per un poco, nel
Beleriand, i fiumi possano scorrere limpidi, e germogliare le foglie, e gli uccelli intessere i loro nidi,
prima che giunga la Notte.»

«Lui sarà lì? Alto, luminoso, il vento tra i capelli? Diglielo. Digli di non essere imprudente. Di non
cercare il pericolo oltre il bisogno!»
«Glielo dirò.» rispose Finrod. «Ma posso anche dirti di non piangere. È un guerriero, Andreth, ed ha
uno spirito collerico. In ogni colpo che vibra, egli vede il Nemico che tanto tempo fa ti ha afflitta di
questo male.
Ma tu non sei stata fatta per Arda. Ovunque tu andrai, che possa tu trovare la luce. Ed attendici lì,
mio fratello e me!».

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