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Il libro

A volte, ma solo nelle notti di luna piena, tra le vie di Kyoto o in riva al fiume
appare un caffè molto speciale: è una roulotte gestita da un eccentrico chef,
un grande gatto tigrato esperto di astrologia, e da altri due felini suoi
aiutanti, e si manifesta sul sentiero di chi si sente perso.
In questo caffè non è possibile ordinare ciò che si vuole, sono i gatti a decidere
cosa offrire ai propri clienti. Il menu prevede incredibili bevande e deliziosi dolci in
grado di consolare i cuori affranti degli avventori. Ed è lo chef in “persona” a sedere
al tavolo con loro per aiutarli a capire, attraverso la lettura della carta astrale, dove si
sono smarriti. Fra una tazza di latte stellare e un pancake al burro del plenilunio,
assaporando un gelato al chiaro di Luna e Venere, incontriamo Serikawa, che dopo
una folgorante carriera da sceneggiatrice è diventata una scrittrice di videogiochi
frustrata e infelice, incapace di risollevare il proprio destino; Akari, che ha amato
l’uomo sbagliato e ora non sa immaginare un futuro accanto a qualcun altro;
Megumi, alle prese con un’importante scelta lavorativa, e Mizumoto, che incontra
nuovamente dopo molti anni il suo primo amore.
Un romanzo magico, che unisce la saggezza orientale al fascino arcano delle
stelle. Un viaggio alla scoperta di sé, per imparare che per ritrovare la strada a volte
basta chiudere gli occhi, in attesa della prossima luna piena.
L’autrice

Mai Mochizuki è una scrittrice giapponese, autrice della serie “Holmes of Kyoto”,
che nel 2016 ha vinto il Kyoto Hon Grand Prize e l’Everystar E-book Grand Prix nel
2013. È membro della Japan Mystery Writers Association e dell’Unconventional
Mystery Writers Club.

Giuseppe Strippoli, laureato all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, ha


svolto periodi di studio presso le università Waseda e Rikkyo di Tokyo. È dottorando
alla University of Edinburgh.
Mai Mochizuki

IL CAFFÈ DELLA LUNA PIENA


romanzo

Traduzione di Giuseppe Strippoli


Illustrazioni di Chihiro Sakurada
Quando pensavo di scrivere un libro sull’astrologia, mi sono imbattuta nell’illustrazione
del misterioso Caffè della Luna Piena e del suo gatto chef. Sono rimasta subito
affascinata da quella meravigliosa fantasia che, come un cielo stellato, mi diede
l’impressione di trovarmi in un mondo che si estendeva all’infinito. Senza
quest’immagine e il suo autore Sakurada Chihiro la mia storia non sarebbe nata. Rivolgo
qui all’illustratore i miei più sinceri ringraziamenti.

Mochizuki Mai
Il Caffè della Luna Piena
Il Caffè della Luna Piena non occupa un luogo fisso.
Capriccioso, cambia continuamente indirizzo, comparendo ora in una
familiare via commerciale, ora nella stazione d’arrivo del treno, ora sulle
quiete sponde di un fiume.
Qui non puoi ordinare. Siamo noi a offrirti dolci, cibi e bevande messi da
parte apposta per te.
«Forse stai sognando» dice sorridente il grande gatto tigrato che mi è
apparso davanti agli occhi.
Prologo

Inizio di aprile.
Un fresco vento che profumava di primavera entrò dalla finestra
spalancata, trasportando con sé la splendida melodia di un pianoforte.
Salut d’amour di Elgar.
Come richiamato da quella musica, un gatto comparve sulla ringhiera del
balcone. Nel mio palazzo era consentito accudire animali, quindi doveva
essere il gatto di uno dei condomini. Era un comune tigrato con il manto di
tre colori, ben bilanciati: bianco, marrone e nero.
In piedi in cucina, smisi di affettare il porro e lo guardai distrattamente.
L’animale si muoveva con grazia sulla ringhiera.
Senza volerlo, fui catturata da quella figura elegante che procedeva con
passo sicuro.
Forse per via del cielo terso e degli alberi di ciliegio sullo sfondo, la
scena sembrava proprio una cartolina, ma quel paesaggio mal si intonava a
me che, intenta a cucinare, tagliavo il porro come condimento dei ramen
istantanei.
Volevo anche saltare in padella con l’olio di sesamo le carote, i germogli
di soia e gli spinaci, per preparare un pranzo niente affatto raffinato e ancor
meno fotogenico.
Rapito dalla melodia del pianoforte, il gatto si era fermato nel bel mezzo
della ringhiera. Gli occhi socchiusi gli davano un’aria compiaciuta mentre
faceva ciondolare la lunga coda come un pendolo.
La mia casa era un monolocale composto da una piccola stanza, e lo
spazio che separava la cucina dal balcone era esiguo.
Come se si fosse accorto del mio sguardo, il gatto si voltò verso di me e
miagolò.
Altro che saluto d’amore... quello era il saluto di un gatto.
Sorridendo, mi lavai le mani e andai verso il balcone, ma quando aprii la
zanzariera era già scomparso.
Provai a scrutare nei paraggi, ma non lo vidi da nessuna parte.
Ero al terzo piano. Che fosse scivolato di sotto? Preoccupata, guardai
giù, ma di lui non c’era traccia.
“Ai gatti non capita mai di cadere” mi dissi sollevata e, con un accenno
di sorriso, appoggiai le braccia sulla ringhiera.
Il Salut d’amour era già finito.
Ora si udiva lo Studio Op. 10 n. 3 di Chopin, conosciuto anche come
“Tristezza”.
Ripensando alla malinconia degli addii, tirai un profondo sospiro e
abbassai il capo.
Separarsi dalla persona amata farebbe soffrire chiunque, ma per una
donna di quarant’anni che ha sempre desiderato sposarsi è particolarmente
doloroso.
La nostra relazione era durata molto. Stare con lui era stata per me
un’assoluta certezza. Ma di certo, in realtà, non c’era nulla.
Poteva anche capitare che un gatto scivolasse.
Turbata da quei pensieri, guardai di nuovo in basso, ma l’animale non si
vedeva da nessuna parte. Di sicuro non gli era successo niente.
Ero io quella che era scivolata.
«Dove ho sbagliato...»
Da sotto mi arrivava lo schiamazzo di un gruppo di bambini. Guardando
giù, notai alcuni alunni delle elementari che camminavano. Dovevano
essere le vacanze di primavera.
Nostalgica, sorrisi.
Chissà come stavano i miei studenti. Forse non avrei dovuto smettere di
fare la maestra. Ma no, se avessi insegnato in queste condizioni, i bambini
avrebbero continuato imperterriti a chiedermi: “Maestra, non ti sposi?”. E
io sarei scoppiata in lacrime alla cattedra.
“Va bene così” dissi fra me annuendo.
Chiusi bene la zanzariera e rientrai nella stanza.
Chissà quando, il pianoforte aveva smesso di suonare.
Capitolo 1
Trifle dell’Acquario
1

Io – Serikawa Mizuki – giunsi le mani in segno di ringraziamento di fronte


alla ciotola vuota dei ramen istantanei.
Li accompagnavo sempre con abbondanti verdure e porro tagliato fine.
Non lo si poteva chiamare un pasto sontuoso, ma mi lasciava sempre più
che soddisfatta.
“Bene, al lavoro” mi dissi.
Portai la ciotola in cucina, la lavai velocemente e la lasciai a scolare sul
lavandino. Con lo strofinaccio in mano, tornai al tavolo da pranzo e lo pulii
in modo accurato. Non era grande, bastava appena a un adulto e, dato che
vivevo in un piccolo monolocale, lo usavo sia per consumare i pasti sia per
lavorare.
Dopo averlo lavato, vi posai il portatile e i documenti, poi preparai una
tazza di caffè e mi sedetti. Bevvi un sorso mentre sfogliavo il materiale.
«Dunque, l’ambientazione per questo personaggio...»
Sulle pagine si susseguivano illustrazioni di splendidi giovani dai visi
bellissimi, le indicazioni per la storia del mio soggetto.
I bei ragazzi erano figure di un’ambientazione intitolata “Nobili di una
scuola prestigiosa”.
Con i loro capelli variopinti, tinti di rosso, blu e giallo, non sembravano
affatto dei nobili. Ma in fondo era la trama di un videogioco, nessuno
avrebbe prestato attenzione a simili particolari.
Proprio così, di mestiere facevo la sceneggiatrice.
Mi occupavo allora di social games, anche se non ero responsabile della
sceneggiatura principale. Non spettava a me scrivere la storia a lieto fine in
cui il protagonista, e con lui il giocatore, conquista l’eroe del livello più
difficile. Io curavo quella parte della trama che si dirama quando il
protagonista finisce per legarsi a un personaggio secondario. A dirla tutta,
trattandosi di un “finale alternativo” la sceneggiatura doveva essere
alquanto vaga. Una conclusione avvincente che soddisfacesse a pieno il
giocatore non sarebbe stata adatta.
In termini di quantità, il lavoro non era molto: un episodio di soli trenta
kb. Forse solo agli sceneggiatori di videogiochi venivano fatte richieste in
kb e non in numero di pagine o di parole.
“Scena conclusiva: bacio sulla guancia o sulla fronte. Possibilmente nei
pressi di un corso d’acqua.”
«La scena di un bacio non sulla bocca ma sulla guancia o sulla fronte. E
deve essere vicino all’acqua... Dato che i giovani di questa storia si
muovono in ambienti interni, la piscina di un albergo sarebbe più adatta
della riva del mare o della sponda di un fiume.»
Mentre mormoravo tra me, consultai i documenti e aprii il portatile.
Sullo schermo comparvero degli appunti disordinati che nessuno avrebbe
capito. Era la trama che avevo scritto fino a quel momento. Il flusso della
narrazione.
Attraverso quella vicenda secondaria non troppo appagante dovevo
portare il giocatore a pensare: “Non mi piace come è andata. Voglio vedere
come sarà il lieto fine con l’eroe dell’ultimo livello!”.
Per questo mi occorreva una vicenda che non si concludesse con un
appuntamento romantico, e in cui dovevo lesinare sulle scene d’amore.
Non era certo una cosa facile.
Dopo aver riletto, mi rimisi a scrivere.
Il ticchettio dei tasti risuonava nel silenzio della stanza assieme alla
musica di sottofondo proveniente dal computer.
Le sceneggiature dei social games che componevo di solito erano storie
semplici, adatte a tutti. Erano un mio punto forte, e proprio per questo il
lavoro in sé mi divertiva. Se fosse stato possibile, tuttavia, avrei voluto
abbandonare le vicende dei personaggi secondari per dedicarmi alle scene
d’amore con gli eroi dei livelli più difficili.
Ma non potevo permettermi simili capricci.
A quel pensiero risi di me stessa.
Eppure, una volta mi ero occupata di cose ben più importanti...
Scossi la testa per concentrarmi sulla scrittura.
Trenta kb corrispondevano a un racconto breve, anche se, ovviamente, il
numero delle pagine variava a seconda della quantità di caratteri.
Dopo averne scritto un terzo, mi sgranchii la schiena. Le lancette
dell’orologio segnavano le tre del pomeriggio.
«Due ore da quando ho iniziato a lavorare...»
Sorrisi amaramente nell’accorgermi che la mia capacità di
concentrazione si era ridotta a sole due ore.
Dieci anni prima avrei potuto continuare ancora a lungo...
In quel momento il cellulare posato sul tavolo vibrò: mi era arrivato un
messaggio.
Allungai svelta la mano per leggere:
“Serikawa sensei, da quanto tempo! Sono Nakayama Akari. Scusi per il
poco preavviso. Mi trovo a Kyōto per un lavoro urgente nel Kansai. Se
avesse un po’ di tempo a disposizione, potremmo incontrarci?”.
Alla vista di quel nome il cuore prese a battermi più forte. Nakayama era
stata una mia collega nella compagnia televisiva in cui avevo lavorato, e ora
ne era la direttrice.
Il mese prima, dopo essermi fatta coraggio, le avevo mandato la bozza di
un progetto.
Probabilmente era un caso che fosse venuta a Kyōto, ma se si era presa
la briga di contattarmi forse era perché voleva parlarmene di persona.
“Molto volentieri, anche a me piacerebbe incontrarla” risposi.
La sua replica non si fece attendere: “Grazie mille. Allora vediamoci
nella lobby dell’albergo dove ci incontravamo spesso. Andrebbe bene fra
un’ora?”.
“Perfetto.”
Chiusi svelta il portatile e aprii il ripostiglio che faceva anche da
armadio. Non sapevo cosa mettere. Alla fine, per andare sul sicuro, scelsi
un completo elegante.
Indossato l’abito, mi spostai al lavandino.
Nel monolocale non avevo una toeletta, quindi lasciavo i trucchi sul
lavabo.
“Che guaio, ho messo male il fondotinta” mi dissi.
Negli ultimi tempi ero uscita solo per andare al supermercato. Era un
gran noia truccarmi solo per quel motivo, e me l’ero cavata usando la
mascherina.
La mia pelle, quasi sorpresa dai cosmetici, era ruvida come se li
rifiutasse.
Se Nakayama mi avesse visto in quello stato, lei che un tempo mi
conosceva come una persona che dedicava molta cura al proprio aspetto, mi
avrebbe preso in giro.
Non avendo altra scelta, continuai a truccarmi. Disegnai le sopracciglia,
stesi il rossetto sulle labbra, mi infilai un cardigan leggero e, afferrata la
borsa, lasciai l’appartamento.
Una volta fuori dal condominio mi incamminai verso la stazione.
Si poteva dire che vivevo a Kyōto, ma la zona in cui abitavo, un
normalissimo quartiere residenziale, non aveva niente a che vedere con
l’immagine comune dell’“antica capitale”.
Salita sul treno, tirai un sospiro di sollievo.
In quel momento ricevetti un nuovo messaggio da Nakayama: “La lobby
era affollata e mi sono spostata al caffè del pianterreno. Sto lavorando,
quindi venga pure con calma”.
Me la immaginai al caffè dell’albergo con il portatile aperto. Gli
impiegati nell’industria televisiva possono lavorare ovunque, ma questo è
vero anche nel mio caso.
Prima mi capitava spesso di andare nei caffè per scrivere. Negli ultimi
tempi, però, avevo cominciato a considerare uno spreco i soldi per quella
tazza di caffè e, a meno di non avere impegni particolari, passavo il tempo
rinchiusa in casa.
Mangiavo per lo più cibi pronti. Il mio unico riguardo per la salute era
accompagnarli con le verdure.
Forse era per quello che la mia pelle appariva sempre così spenta...
Con un amaro sorriso abbassai lo sguardo sul cellulare.
Controllai l’indice di gradimento delle serie tv che andavano in onda e
lessi qualche critica, ma sentii subito il petto pesante, così mi concentrai su
altro.
Sul treno c’era un alunno che probabilmente tornava dalle lezioni. A
prima vista, sembrava uno studente di seconda o terza elementare. Al posto
della classica cartella portava sulle spalle un elegante zaino di pelle
marrone, segno che frequentava un istituto privato. Probabilmente era un
pendolare, e prendeva il treno da solo.
Restai colpita da quanto si mostrasse sicuro di sé.
Accadde in quel momento.
La ragazza seduta al mio fianco ruppe il silenzio e mi disse con tono
pacato: «Chiedo scusa, lei... è la maestra Serikawa?».
Il cuore mi saltò in petto. Confusa, la guardai.
Avrà avuto circa trent’anni. Aveva un’aria giovanile, ma la sua
compostezza la faceva apparire decisamente più matura.
Vestiti eleganti, unghie non lunghe ma ben curate e capelli tinti di un
colore chiaro: a giudicare dal suo aspetto, avrei detto che lavorasse in un
centro estetico.
Che fosse la mia vecchia parrucchiera?
«Non volevo disturbarla. Quando andavo alle scuole elementari ero una
delle sue allieve...»
“Ah, ecco” mi dissi sollevata. Era una mia vecchia alunna.
«Maestra, lei mi piaceva molto.»
Quelle parole mi imbarazzarono, lasciandomi incapace di reagire.
All’epoca ero una supplente, e avevo a che fare con gli alunni solo come
sostituta del docente di ruolo.
Ero felice che mi avesse detto che le piacevo, ma non ricordavo di aver
avuto con i miei studenti un rapporto tanto stretto da essere così benvoluta.
Come se avesse intuito i miei sentimenti, aggiunse: «Ero nel gruppo di
bambini che lei riaccompagnava a casa dopo la scuola».
In effetti, mi capitava spesso di portare i bambini a casa dopo le lezioni.
Con il docente responsabile impegnato nell’insegnamento, spettava ai
supplenti accompagnare gli alunni. Era un compito tutt’altro che semplice.
I bambini più piccoli si muovevano in modo imprevedibile, e anche solo
farli procedere in fila senza perderli di vista era complicato, così, mentre
camminavamo, mi ingegnavo per non farli annoiare, chiacchierando e
inventando giochi di parole.
Sorrisi con nostalgia a quel ricordo.
La ragazza mi spiegò che, proprio come avevo immaginato, faceva la
parrucchiera.
Giunta alla sua fermata, si congedò scendendo dal vagone. «Scusi ancora
per il disturbo» disse.
Ricambiai il saluto e mi rilassai sul sedile.
“Avrei dovuto chiederle almeno il nome” pensai.
Avevo desiderato tanto essere una maestra di scuola elementare. Era
stato un lavoro pieno di difficoltà, ma quell’incontro mi fece pensare
sinceramente che ne fosse valsa la pena.
Riflettendo sul perché avessi scelto di diventare una sceneggiatrice, mi
incupii di nuovo.
All’inizio avevo tenuto il piede in due staffe. Visto che il lavoro di
supplente mi permetteva di avere una occupazione secondaria, facevo anche
la sceneggiatrice.
Poi si era avvicinato il momento in cui sarei potuta diventare una
docente di ruolo. Dovevo scegliere la mia strada: maestra o sceneggiatrice.
Alla fine, rinunciai alla carriera di insegnante e scelsi la seconda.
Quanti anni erano passati da allora? Abbastanza perché i miei alunni,
ormai adulti, lavorassero e io fossi infine giunta ai quarant’anni.
Vivevo nel costante terrore delle imprevedibili ansie sul mio futuro.
Se avessi continuato a fare la maestra nonostante le mille difficoltà, avrei
avuto la garanzia di una vita più sicura. Non avrei certo passato le notti
insonne, tremando di paura per il domani. Mordendomi il labbro, abbassai
lo sguardo sulle ginocchia.
2

Uscita dalla stazione, attraversai il ponte Sanjō Ōhashi e mi diressi verso


l’albergo dell’appuntamento.
Era da molto che non andavo in centro.
Mi rattristai al pensiero che, fino a non molto tempo addietro, avevo
abitato in quella zona.
Due anni prima occupavo da sola un appartamento con vista sul fiume
Kamo. Oltre al salotto, c’erano anche una stanza da letto e un grande
balcone. Il mattino presto passeggiavo sul lungofiume e prendevo il tè in
veranda.
All’epoca frequentavo un caffè di via Kiyamachi che mi piaceva molto,
perché lì accanto scorreva il Takase, un piccolo fiumiciattolo.
Chissà se quel caffè esisteva ancora.
Immersa nei miei pensieri, da via Sanjō procedetti verso nord, svoltando
poi a est lungo la Oike.
L’albergo era accanto al Comune, sul suo lato orientale. Mi era capitato
spesso di incontrarmi lì con i colleghi. Con il cuore che batteva, misi piede
nella lobby e mi diressi spedita verso il caffè.
Il locale era abbastanza pieno, e si vedevano anche parecchi stranieri.
Nakayama Akari era seduta vicino a una finestra.
Molti della casa di produzione avevano uno stile casual. Nakayama,
invece, portava sempre un impeccabile completo che esprimeva la sua
serietà. Anche in quel momento indossava un paio di eleganti pantaloni
neri.
L’avevo immaginata al lavoro con il portatile aperto, ma in realtà
stringeva tra le mani un tablet. Mi avvicinai e la salutai: «Signora
Nakayama, scusi per l’attesa».
Lei mi guardò e si alzò. «Ah, scusi lei se l’ho contattata così
all’improvviso, e grazie per essere qui» disse.
«Ma no, si figuri.»
«Non è venuta da lontano, vero?»
A quella domanda risposi con un sorriso.
«Di recente ho traslocato.»
«Ah, davvero? Mi dispiace. Le ho chiesto di vederci qui perché pensavo
che per lei fosse comodo.»
Le dissi di non preoccuparsi e ci sedemmo.
Poco dopo mi portarono il caffè che avevo ordinato e parlammo per
qualche istante del più e del meno.
«È arrivata oggi nel Kansai?» le chiesi.
«Sì, stasera ho una riunione con l’ufficio della stazione televisiva
locale.»
«A proposito, come sta il direttore che c’era quando lavoravo io?»
«È diventato produttore.»
«Ha raggiunto una bella posizione. E la direttrice adesso è lei...»
«Deve sembrarle strano visto che mi conosce da quando ero appena
arrivata.»
Scossi il capo. Da quando era stata assunta, Nakayama era sempre stata
una gran lavoratrice, severa con sé e con gli altri: una che non scendeva a
compromessi. Sapevo che avrebbe fatto carriera.
Era proprio perché la conoscevo così bene che avevo pensato di
contattarla. Non avrei potuto rivolgermi a nessun altro, ma ero comunque
preoccupata: se avessi continuato a parlare di sciocchezze non sarei mai
riuscita a chiederle quello che mi interessava davvero.
Il mese precedente le avevo inviato una mail con la bozza di un mio
lavoro.
“Cosa ne pensa del progetto?” avrei voluto chiederle. La paura, tuttavia,
mi bloccava in gola quelle parole, impedendomi di pronunciarle.
Prima, però, avevo un’altra cosa da dirle: «Signora Nakayama, mi
dispiace per tutto il disturbo che le ho dato quella volta».
Mentre abbassavo lo sguardo, lei scosse il capo impacciata, poi bevve un
sorso di caffè e rispose: «Sapevo quanto doveva essere stato difficile per lei.
Più di altri, aveva una capacità di osservazione e uno sguardo penetrante
che faceva vivere nelle sue storie. Con quel talento, dev’essere stata dura
accorgersi di non essere più apprezzata dal pubblico».
Abbassai di nuovo il capo in silenzio.
«Stava andando splendidamente» aggiunse con gli occhi socchiusi, come
se fosse stata abbagliata da qualcosa.
Parlava solo al passato.
Avevo debuttato come sceneggiatrice a vent’anni, quando ero una
studentessa universitaria. Vinsi il premio per la miglior sceneggiatura di una
serie televisiva in un concorso pubblico indetto da un’importante emittente.
In seguito, avevo composto di tanto in tanto altri copioni, ma non potevo
vivere solo di quello. Dopo la laurea diventai maestra di scuola elementare,
un lavoro a cui avevo pensato fin da quando ero bambina.
L’occupazione di sceneggiatrice mi dava l’impressione di essere un part-
time per studenti universitari, ma la sceneggiatura realizzata prima della
laurea fu un grande successo.
Per essere un telefilm che andava in onda a tarda notte e in cui
recitavano solo attori sconosciuti, ricevetti critiche fin troppo positive, che
mi procurarono altri lavori importanti.
Osannata come una “garanzia di successo”, iniziai a occuparmi dei
copioni della prima serata.
A quel punto diedi le dimissioni dal ruolo di maestra, decidendo di
dedicarmi esclusivamente alla carriera da sceneggiatrice. Poi, arrivata a
trentacinque anni, non riuscii più a conquistare l’indice di gradimento... Lo
share andava malissimo, come se fino a quel momento fosse stata tutta una
menzogna.
Il colpo di grazia fu la sceneggiatura di un telefilm che raggruppava
alcuni magnifici attori con cui si diceva fosse impossibile fallire.
Nonostante fosse in prima serata, lo share non toccò mai la doppia cifra, e
io fui trattata alla stregua di una criminale di guerra.
Tuttavia, inizialmente ricevetti la commissione per un altro lavoro, forse
perché tutti pensavano che quello fosse stato un episodio isolato, e che il
prossimo lavoro di Serikawa Mizuki sarebbe stato un successo.
Ma quando il telefilm seguente e quello dopo ancora non raggiunsero i
numeri sperati le critiche nei miei confronti si fecero sempre più feroci.
Alla fine, l’esperto direttore con cui lavoravo smise di seguirmi e
Nakayama, l’ultima arrivata, si assunse la responsabilità dei miei incarichi.
Poco dopo accadde l’inevitabile.
Impaurita, non riuscivo più a sopportare lo sguardo e le critiche
all’interno della società di produzione, e per sfuggire alla pressione
rinunciai al lavoro.
Nonostante molte persone fossero in pensiero per me e provassero a
contattarmi, non rispondevo al telefono, né davo più mie notizie.
Causai diversi problemi a Nakayama, che allora si occupava di me.
Dopo che tutti ormai mi avevano voltato le spalle, lei fu l’ultima a cercarmi.
Alla fine, però, anche lei ci rinunciò, e così mi ritrovai senza lavoro. Iniziai
a raschiare il fondo dei risparmi messi da parte quando ero stata lodata
come una “garanzia di successo”.
Ovviamente, non potevo più permettermi il tenore di vita che avevo
mantenuto fino a quel momento, quindi decisi di lasciare l’appartamento
dove vivevo e, optando per la soluzione più economica, mi sistemai in un
monolocale, e vendetti anche tutti i mobili che avevo acquistato.
Per quanto riguarda il lavoro, ricominciai a scrivere sceneggiature,
celando però il mio nome sotto lo pseudonimo SERIKA .
Trovai online la proposta per la scrittura di una sceneggiatura di social
games e feci domanda. Da quel momento mi dedicai a lavori di quel genere.
Operavo nell’anonimato, e quelle sceneggiature non facevano
curriculum. Di conseguenza, non potevo certo aspettarmi di ricevere offerte
importanti.
Ma avevo ancora paura a usare il mio vero nome.
«Mi piacevano molto i suoi lavori, come Verso la cima e L’aula
assolata. Seguivo con trasporto i loro protagonisti che risalgono con
coraggio la scala sociale iniziando dall’ultimo gradino. Sembravano
dimostrare che con il vero impegno si può credere che i propri sforzi
verranno ripagati, prima o poi» disse Nakayama.
A quelle parole, pronunciate con sincera emozione, abbassai lo sguardo
imbarazzata.
Le sceneggiature che avevo composto differivano per trama e
ambientazione, ma avevano tutte un punto in comune. Erano le cosiddette
“storie di successo”, in cui il protagonista, pur partendo da una situazione
difficile e ingiusta, alla fine vede premiato il suo impegno.
«Perciò ho letto con grande piacere la proposta che mi ha inviato»
proseguì Nakayama.
Il cuore mi balzò in petto. Alzai il viso, le mani tremanti per l’ansia e le
aspettative.
«Ho presentato il progetto in riunione, ma non è stato accettato. Mi
dispiace.» Nakayama abbassò lo sguardo sinceramente amareggiata.
«Ma no, si figuri. Sono felice che lo abbia presentato» mi affrettai a dire
scuotendo il capo con un sorriso. Sapevo che era una persona seria, e avevo
abbracciato la fioca speranza che avesse dedicato la giusta attenzione alla
mia proposta, ma non pensavo che l’avrebbe addirittura condivisa in
riunione. Francamente ero sorpresa, ma dopo un breve attimo di felicità mi
sentii sprofondare, assalita dall’impressione di essere ormai tagliata fuori da
quel mondo. «Pazienza, grazie comunque» conclusi.
Malgrado lo shock, abbassai il capo ridendo stupidamente.
Vedendomi in quello stato, Nakayama socchiuse gli occhi e disse: «Mi
dispiace di non esserle stata d’aiuto». Quindi chinò la testa di scatto.
Scossi il capo per tranquillizzarla.
«Mi perdoni, è giunta l’ora del mio appuntamento» disse lei alzandosi in
piedi.
«Ma certo, scusi lei.»
«Arrivederci.» Mi salutò con un inchino e, senza dire altro, uscì dal
caffè.

«...»
Non la vedevo più, ma non avevo voglia di alzarmi subito, quindi rimasi
seduta a guardare distrattamente fuori dalla finestra.
Poco dopo mi sentii irritata al pensiero che mi avesse fatto venire
apposta per comunicarmi una cosa così crudele, ma poi ricordai che, come
mi aveva detto, lo aveva fatto perché pensava che vivessi ancora in quella
zona.
Avrebbe potuto risolvere la questione semplicemente scrivendomi un
messaggio. Invece era stata così gentile da incontrarmi per informarmi di
persona.
In fondo le ero grata.
“Dovrei proprio rinunciare all’idea...” mi dissi. Forse era stato un segno
del destino. Avvinghiata alle glorie del passato, non riuscivo a staccarmi dal
lavoro di sceneggiatrice.
Ebbi l’impressione che qualcuno mi avesse detto di darci un taglio.
Bevvi un sorso di caffè, ormai freddo, e tirai un sospiro. In quel momento,
giunse dal tavolo vicino una voce maschile: «Senti, ho ascoltato la vostra
conversazione. Tu sei la sceneggiatrice Serikawa Mizuki?».
Colta di sorpresa, alzai lo sguardo. Mi era sembrato un tono molto
colloquiale, ma restai comunque sorpresa nel notare un ragazzo magro che
a prima vista dimostrava poco più di vent’anni. Aveva un aspetto elegante,
addirittura vistoso.
Aveva i capelli tinti interamente d’azzurro. Gli occhi erano di un
bellissimo verde, forse per via di lenti a contatto colorate.
Quasi a voler smorzare l’impatto del suo sguardo, indossava occhiali
dalla montatura rossa. Lo smartphone in mano, mi osservava con un sorriso
che mi colpì per i canini sporgenti.
«Sì... sono io» annuii impacciata, stupita che un ragazzo così giovane
conoscesse il mio nome.
«Le tue storie sono interessanti» disse con gli occhi sorridenti dietro le
lenti. Quelle parole, pronunciate con lo stesso tono informale, mi
penetrarono nel cuore. «Però, sai, adesso quel tipo di storie non vende più.»
A quel seguito inaspettato, un fremito mi attraversò la schiena. «...
come?» risposi confusa, senza trovare le parole giuste per ribattere.
«I tempi sono cambiati. Se non stai al passo, sei subito fuori. E questo è
evidente soprattutto nell’industria televisiva, che viaggia su impulsi
elettrici. Per quanto tu scriva cose interessantissime, se lavori per la
televisione e non sai leggere l’epoca sei spacciata» disse in un lampo.
Le sue parole mi giungevano alle orecchie, senza tuttavia essere recepite.
Di cosa mai stava parlando quel tipo? Voleva forse dirmi di restare al mio
posto perché ero una sceneggiatrice antiquata? Quello lo sapevo benissimo
anche senza che me lo dicesse lui. Avevo già le lacrime agli occhi, quando
qualcuno giunse alle spalle del giovane e lo colpì leggermente sulla testa.
«Ahia!» fece lui.
«Come ti viene in mente di dire simili scortesie!» A rimproverarlo era un
uomo sulla quarantina con al collo una cravatta grigia. Mi affascinarono i
bei lineamenti del volto, i capelli neri e lo sguardo freddo.
L’uomo prese posto davanti al ragazzo. Che fosse il padre? No, l’età era
troppo ravvicinata per essere genitore e figlio. E soprattutto erano
totalmente diversi. Da un lato un ragazzo eccentrico, dall’altro un uomo in
abiti formali che sembrava un insegnante. Anzi, l’impressione era quella di
un severo precettore.
«Voglia scusarlo» disse l’uomo chinando cortesemente il capo.
Scossi la testa per dirgli di non preoccuparsi.
«Serikawa sensei, questo vecchietto è un tuo fan» spiegò il ragazzo
ridacchiando.
Lanciata una rapida occhiata al giovane, l’uomo con il completo si voltò
verso di me e si inchinò. «Le chiedo profondamente scusa.»
Feci un cenno per fargli capire che non c’era alcun problema. Forse
erano zio e nipote?
«Sono felice che lei sia un mio fan» dissi. Ritenni strano di averne
ancora, a quel punto.
«Le sue opere parlano di protagonisti giudiziosi pronti a compiere ogni
sforzo per affrontare le traversie. Sono storie coinvolgenti.»
A quelle parole, pronunciate con un tono serio e senza sentimentalismi,
mi sentii arrossire. Non sembrava che dicesse di apprezzare le mie
sceneggiature solo per gentilezza.
«È vero, però il modo in cui sono scritte non è adatto a questi tempi»
ribadì il ragazzo incrociando le braccia dietro la nuca.
Alla fuggevole occhiata dell’uomo, il giovane si strinse nelle spalle
come per scusarsi.
«Ora dobbiamo proprio andare» concluse l’uomo alzandosi.
Il ragazzo lo seguì svogliatamente, ma prima di andarsene mi disse: «Ah,
Serikawa sensei, se avesse voglia di leggere i tempi dovrebbe andare in
questo posto. Oggi c’è la luna piena e sarà aperto».
Mi posò davanti un biglietto da visita su cui era scritto: CAFFÈ DELLA
LUNA PIENA .
Controllando l’indirizzo, notai che si trovava nella parte bassa di Nijō
Kiyamachi. Era vicino all’albergo.
«Da quelle parti c’è un locale chiamato Caffè della Luna Piena?»
bisbigliai fra me e me. Quando alzai il capo, i due erano spariti.
Provai a dare un’occhiata nella sala, ma erano scomparsi. Guardai fuori
dalla finestra. Si era già fatto buio.
“Leggere i tempi...”
A giudicare dal nome del locale, doveva trattarsi di una caffetteria, ma
cosa avrebbero mai potuto dirmi, in quel posto?
Pensai che se lì ci fosse stato altro da pagare oltre al costo della bevanda
non avrei saputo come fare...
L’immagine di quel ragazzo mi attraversò la mente. Il suo aspetto troppo
appariscente mi aveva insospettito. Era strano anche che fosse così
amichevole.
“Sarà meglio tornare a casa” pensai. “Non mi va di buttare i soldi in una
banale caffetteria.”
Lentamente mi alzai e uscii dall’albergo.
3

Mi lasciai l’hotel alle spalle. La metropolitana, la stazione ferroviaria della


linea Keihan e la fermata del bus erano tutte vicine, ma non me la sentivo di
rincasare subito. Così, senza salire sui mezzi, mi diressi priva di una meta
verso via Kiyamachi.
Ero nel centro di Kyōto e il luogo era relativamente affollato, ma
nonostante fossimo nel pieno delle vacanze primaverili non c’era poi così
tanta gente.
Giunta in via Kiyamachi, mi fermai. Proseguendo a nord avrei raggiunto
il caffè di cui mi aveva parlato il ragazzo.
“Gli darò giusto un’occhiata...” mi dissi.
Trovata una scusa, presi quella strada. A sinistra si susseguivano i tetti
delle case, a destra scorreva gorgogliando il fiume Takase. Notai un ponte
su cui campeggiava un cartello con la scritta: PRIMO ATTRACCO .
Sull’acqua galleggiava una barca carica di botti di sakè. Si dice che fu
Suminokura Ryōi, un facoltoso mercante di epoca Edo, ad aver collegato
Nijō e Fushimi con un canale. Fra le strade Nijō e Yonjō costruì nove
postazioni che consentivano alle imbarcazioni di sostare per il carico e lo
scarico delle merci, e io mi trovavo proprio in una di quelle postazioni,
chiamata “primo attracco sul fiume Takase”.
La barca era lì per ricreare la scena.
Gli alberi di ciliegio, in fila lungo le sponde del fiume, spargevano i
petali dei loro fiori attorno all’imbarcazione.
Era uno spettacolo suggestivo, che mi fece ripensare a quanto fosse bella
Kyōto.
Io ero originaria di Hiroshima.
Avevo visitato Kyōto per la prima volta durante una gita scolastica alle
elementari. Da allora avevo desiderato fortemente tornarci, e pregai i miei
genitori affinché mi lasciassero frequentare lì l’università. Debuttai come
sceneggiatrice quando ero ancora una studentessa, e riuscii a diventare
maestra proprio a Kyōto.
All’epoca procedeva tutto a gonfie vele, ma quei giorni, ormai,
sembravano solo un sogno lontano...
CAFFÈ DELLA LUNA PIENA. Trattenni il fiato quando vidi l’insegna posata
a terra.
“Esiste davvero, quindi.”
Una buia stradina lunga e stretta si apriva in direzione della freccia
sull’insegna. A terra rilucevano candele che creavano un’atmosfera di
misteriosa bellezza. Che tipo di locale avrei trovato? Ero mossa da
un’irrefrenabile curiosità. Quando lavoravo alle mie sceneggiature passavo
molto tempo andando in cerca di materiale, animata da un grande spirito
d’avventura.
Ebbi l’impressione di aver dimenticato quella elettrizzante sensazione
senza essermene nemmeno accorta.
Tesa, proseguii lungo la stradina. Come alla fine di un tunnel, passai
sotto un arco, oltre il quale si aprì la sponda del fiume Kamo.
“Non ci credo, sono sbucata direttamente sull’acqua.”
Meravigliata, alzai lo sguardo. Un’immensa e brillante luna piena
illuminava i ciliegi. Il fiume scorreva placido rischiarato dal suo bagliore.
Guardando a valle, notai sotto la luna tonda il solitario vagone di un treno.
Osservando meglio, capii che si trattava di un’autovettura. Più che a un
piccolo bus, somigliava a una roulotte con due finestre, sotto le quali erano
sistemati piccoli banconi, a malapena in grado di ospitare le ordinazioni per
una persona sola. Il fianco della vettura era abbellito da una luce a forma di
luna piena. L’insegna era posata di fronte: CAFFÈ DELLA LUNA PIENA .
Quel nome mi aveva fatto pensare a una caffetteria rétro, ma mi ero
sbagliata: era un elegante caffè-roulotte.
L’illuminazione del locale, che risplendeva fioca sulle buie sponde del
fiume, aveva un che di magico. Sembrava che all’interno non ci fosse
spazio per mangiare, ma di fronte alla roulotte erano sistemati tre tavoli.
Un coniglio di peluche se ne stava accomodato a uno di quelli. Che fosse
un posto riservato? Di fronte al coniglio era posata una tazza di caffè. Sul
tavolo tremolava la fiamma di una lanterna.
“Che meraviglia...”
Avvicinandomi col cuore che mi batteva forte, sentii provenire
dall’interno della roulotte la voce di un uomo: «Benvenuta. Prego, si
accomodi dove preferisce».
Era una voce calma e gentile, ma non scorgevo a chi appartenesse.
L’uomo doveva essersi accovacciato, intento nei suoi preparativi.
Sapevo che non poteva vedermi, ma feci lo stesso un leggero inchino e
presi posto. Non credevo che sulle sponde del fiume Kamo potesse trovarsi
un locale così splendido. Quel ragazzo aveva detto che sarebbe stato aperto
perché c’era la luna piena. Il caffè, dunque, non doveva fermarsi sempre lì.
Avevo fatto bene ad andare.
Rallegrata, poggiai la guancia su una mano e guardai il cielo. Le stelle
del firmamento mi lasciarono incantata. Gli astri erano vividi come in
Giappone non se ne vedevano ormai più. Si distingueva chiaramente anche
la Via Lattea. Pareva proprio la volta celeste proiettata in un planetario.
«Incredibile» sussurrai sopraffatta.
«Ah, ma che buono il caffè qui.»
Sentii una voce provenire dal tavolo alle mie spalle. Meravigliata, mi
girai. Sulla sedia occupata fino a un attimo prima dal coniglio di peluche,
ora sedeva un anziano e distinto signore. Indossava un frac nero, e dava
l’impressione che fosse in procinto di andare a un ricevimento.
Quell’uomo era già lì?
Finito di gustare il suo caffè, si alzò lentamente e portò la tazza alla
roulotte. «Grazie, chef. Il suo caffè è sempre ottimo» disse.
«Grazie a lei.»
Per via del signore voltato di spalle e della luce che proveniva
dall’interno del locale, non riuscii a vedere bene, ma scorsi lo chef prendere
la tazza, rispondendo gioioso dall’altra parte del bancone.
Il gentiluomo mi sorrise mentre si allontanava pimpante. Quando i nostri
sguardi si incontrarono, gli rivolsi un cenno di saluto. Prima di
oltrepassarmi, l’uomo abbassò il capo per bisbigliare qualcosa: «...?».
Alzai confusa lo sguardo non capendo cosa mi avesse detto. Mi voltai a
fissarlo. L’uomo aveva assunto le sembianze di un coniglio. Camminava su
due zampe verso il corso superiore del fiume.
“Ma cosa...?!”
Strizzai gli occhi e guardai di nuovo, ma l’animale era già scomparso.
Che fosse stata solo una mia impressione?
Mentre riflettevo incredula, sentii una voce gentile dirmi: «Scusi se l’ho
fatta attendere».
Mi voltai. Un enorme gatto tigrato con indosso un grembiule reggeva un
vassoio su cui era posato un bicchiere.
“Ma come...!”
Sbalordita, guardai a bocca aperta il gatto che mi era comparso di fronte.
Doveva essere alto due metri. Se ne stava ritto in piedi nel suo grembiule
blu scuro. Sul volto tondeggiante, gli occhi sorridevano come due spicchi di
luna. Era stato lui a parlare.
Che fosse un abile travestimento? Non sapendo dove indirizzare il mio
stupore, squadrai la sua imponente figura dalla testa ai piedi. In preda alla
confusione più completa, arrivai persino a pensare che dovesse essere un
piacere abbracciarlo, visto che sembrava così morbido.
Avevo la testa stracolma di punti interrogativi. La mia bocca si apriva e
si chiudeva senza che ne uscisse alcun suono. Gli occhi del tigrato
assunsero un’espressione divertita, come se fossi io quella strana.
«Sono felice che sia venuta. Mi scusi di averla spaventata» mi disse in
tono gentile.
Scossi debolmente il capo.
«Piacere di conoscerla, e benvenuta al Caffè della Luna Piena.» Così
dicendo, posò sul tavolo un bicchiere. Il mio sguardo cadde meravigliato su
quell’oggetto. La sua forma disegnava una dolce curvatura, e conteneva
dell’acqua con tre cubetti di ghiaccio. All’interno del liquido, leggermente
scosso dopo che il bicchiere era stato posato, rilucevano piccoli frammenti
che sembravano polvere d’oro.
“...?”
Mi avvicinai, ma il luccichio era già svanito. L’avevo solo immaginato?
Con tutte quelle sorprese mi era venuta una gran sete. Afferrai il bicchiere e
bevvi tutto d’un fiato.
Non avevo mai assaggiato dell’acqua così fresca.
Ebbi la sensazione che, passando per la gola, si diffondesse
armoniosamente in tutto il corpo. Qualcuno l’avrebbe potuta definire
squisita. Il ghiaccio tintinnò nel bicchiere. Mi sorprese che avessi
assaporato dell’acqua ghiacciata in una sera di primavera, quando faceva
ancora fresco, ma in realtà quello era un giorno molto mite.
Dopo aver bevuto, mi sentii più rilassata.
«Io sono lo chef di questo locale. Mi scusi per quanto accaduto oggi col
mio dipendente» disse il tigrato.
Ascoltai quelle parole senza capire.
«Il suo... dipendente?» riuscii finalmente a pronunciare.
«Sì, è stato lui a indicarle questo posto, dico bene?»
In quell’attimo, due gatti saltarono sul tavolo e si sedettero. Uno aveva le
orecchie grandi e una figura slanciata ed esotica. Conoscevo abbastanza le
varie razze, e pensai che dovesse trattarsi di un singapura. L’altro era un
bicolore a pelo bianco e nero. Il singapura sfoggiava grandi e splendidi
occhi verdi, mentre il bicolore aveva sottili occhi grigi dall’espressione
lievemente infastidita. Entrambi erano di stazza normale.
«Mizuki sensei, allora sei venuta» esordì il singapura.
Dopo l’enorme felino parlante, un gatto di taglia media che mi rivolgeva
la parola non mi fece poi un grande effetto, ma ne rimasi ugualmente
sorpresa.
«... come?» ribattei.
Fu poi il bicolore a rivolgermi un saluto con uno sguardo freddo.
«Serikawa sensei, ci scusi per prima.»
Il loro aspetto mi fece tornare in mente i due uomini incontrati nel caffè
dell’albergo.
Sgranai gli occhi meravigliata e senza pensarci mi lasciai sfuggire:
«Allora voi eravate... gli spiritelli maligni di due gatti?».
I tre felini si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a ridere.
«Ci capita di assumere le sembianze degli uomini, ma non siamo gli
spiritelli maligni dei gatti» rispose uno dei due.
«Certo che no! Roba da pazzi» aggiunse l’altro.
A quelle parole mi irrigidii e mi affrettai a chiedere scusa. «Il Caffè della
Luna Piena è un locale per gatti?» domandai, provando a rimediare.
“Un locale per gatti.”
Risi a quella mia fantasiosa considerazione fiabesca. Forse, senza
accorgermene, mi ero addormentata e stavo sognando. Anzi, una cosa del
genere sarebbe potuta capitare solo in un sogno. Doveva di certo essere
così. Quel pensiero mi rasserenò un poco. Alla mia domanda i tre gatti si
guardarono di nuovo, annuendo indecisi.
«Mettiamola così, per il momento» concluse il bicolore.
Poi il singapura aggiunse, mentre si grattava dietro l’orecchio: «Questo
non è il nostro vero aspetto».
Incuriosita, stavo per chiedere cosa avesse voluto dire, quando il bicolore
diede un colpo di tosse. Il singapura si tappò svelto la bocca con le zampe.
Poi lo chef, ovvero il gatto tigrato, si portò una zampa al petto e disse come
per riprendere il discorso: «Il Caffè della Luna Piena non occupa un luogo
fisso. Capriccioso, cambia continuamente indirizzo, comparendo ora in una
familiare via commerciale, ora nella stazione d’arrivo del treno, ora sulle
tranquille sponde di un fiume. Inoltre, qui i clienti non ordinano».
Lo chef, la zampa sul petto, si inchinò.
«Non posso scegliere dal menu?» chiesi.
Confermò di no.
«Prima c’era un signore che beveva un caffè. Vuol dire che non era stato
lui a chiederlo?»
«Esatto.»
«Pure io avrei voluto un caffè...»
Lo chef socchiuse gli occhi in un’espressione lievemente dispiaciuta. «In
questo locale serviamo spesso caffè agli “adulti” che hanno fatto molte
esperienze e sono in grado di distinguere il sapore amaro da quello dolce.
Ma per lei, che è una ragazzina, è ancora troppo presto.»
«Una ragazzina? Ma se ho quarant’anni!»
«In termini di periodi astrali, quarant’anni corrispondono alla “fase
marziana”. Lei, di conseguenza, è ancora una ragazzina.»
Inebetita, domandai: «La fase di cosa?».
«Lei conosce i pianeti che insieme alla Terra formano il sistema solare?»
Annuii: ovviamente li conoscevo. «Dunque, sono Mercurio, Venere,
Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone, giusto?»
Ricordavo i nomi dei pianeti grazie a una filastrocca che avevo imparato
da bambina. Di recente, però, avevo sentito che Plutone era stato
declassato...
«Esatto» disse lo chef alzando un artiglio come fosse l’indice di una
mano. «Contando anche la Luna e il Sole, la vita di una persona si divide in
periodi che corrispondono alla sequenza di Luna, Mercurio, Venere, Sole,
Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.»
Detto ciò, iniziò a spiegare cosa fossero le fasi planetarie e i periodi della
vita.
«Anzitutto la Luna. La fase lunare indica il periodo che va dalla nascita
ai sette anni. È il momento in cui si coltivano le “sensazioni”, la
“sensibilità” e lo “spirito”. Poi viene Mercurio. La fase mercuriana va dagli
otto ai quindici anni. È il periodo in cui, sebbene in modo appena accennato
e con molte limitazioni, si entra per la prima volta in società e si apprende
un gran numero di cose. Nel mondo degli uomini, è l’età scolare. A seguire
c’è Venere. La fase venusiana va dai sedici ai venticinque anni. Dopo lo
studio della fase mercuriana, questo è il periodo in cui si impara come
“abbellirsi”, “scoprire il piacere” e “amare”. Venere esprime interesse,
piacere e amore.»
Pensando che è l’età che corrisponde grossomodo alla vita liceale, annuii
convinta.
«Si giunge così al Sole» continuò lo chef. «La fase solare va dai ventisei
ai trentacinque anni. Dopo lo studio fatto con Mercurio e il divertimento
scoperto con Venere, questa fase indica che finalmente si è pronti a
percorrere la vita sulle proprie gambe. Lei adesso si trova nella “fase
marziana”, che va dai trentasei ai quarantacinque anni. Dopo aver
interiorizzato i numerosi insegnamenti ricevuti, è il periodo in cui si
mettono finalmente in mostra le proprie capacità.»
«Effettivamente questa è anche l’età detta del “pieno rigoglio”» dissi
approvando incerta.
Lo chef proseguì. «La fase gioviana va dai quarantasei ai
cinquantacinque anni, quella saturnina dai cinquantasei ai settanta. Quella
uraniana si estende dai settantuno agli ottantaquattro anni. La nettuniana
copre gli anni che vanno dagli ottantacinque alla morte. Quella plutoniana
indica il momento della fine. Pertanto, in termini planetari, la “fase
marziana” è il momento in cui si comincia finalmente a camminare come
“adulti”. Lei, dunque, è ancora solo una ragazzina.»
Arrossii sentendomi chiamare di nuovo così.
Quindi lo chef aggiunse: «Se prima non si passa in modo corretto per le
fasi lunare, mercuriana, venusiana e solare, può capitare di non poter
proseguire fino al periodo successivo».
«Cosa intende con “non si passa in modo corretto”?»
Proprio quando la cosa iniziava a interessarmi, lo chef rise, facendomi
segno con la mano di non avere fretta. «Arriveremo anche a quello, ma ora
non ha fame?»
A quella domanda, sentii improvvisamente la pancia vuota. In effetti,
dopo i ramen istantanei mangiati a pranzo non avevo messo più nulla sotto i
denti. Ammesso che fosse tutto un sogno, quella fame era una sensazione
curiosamente reale. Una lieve, dolce fragranza mi accarezzò le narici.
Alzando il viso, notai sul vassoio che lo chef stringeva nelle zampe un
piatto di pancake.
«“Pancake al burro del plenilunio”, il vanto del nostro locale.»
Annunciata con orgoglio la pietanza, il gatto la posò sul tavolo con una
tazza di tè nero. I pancake, circa una decina, erano impilati su un piatto
candido e sormontati da una tonda noce di burro.
Il singapura e il bicolore aggiunsero, uno dopo l’altro: «È un piatto
popolare nelle notti di luna piena», e «Lo assaggi con un’abbondante dose
di sciroppo stellare».
Annuii e versai il dolce liquido sopra il burro. Lo sciroppo stellare,
luccicante d’oro e d’argento come suggeriva il nome, cadde sul tondo pezzo
di burro, e scivolò sui pancake.
«Buon appetito» dissi.
Abbassai impacciata lo sguardo e impugnai le posate. Forchetta e
coltello, lucidati a specchio, risplendevano argentei. Tagliai un boccone e lo
portai alla bocca. Soffice e gradevolmente dolce. Lo sciroppo stellare
donava una notevole freschezza al gusto deciso del burro. Era un sapore
nostalgico e, al tempo stesso, del tutto nuovo. Pensai che era proprio quello
che desideravo.
«Che buono!» esclamai convinta.
Lo trovai delizioso, come se avessi appena scoperto il loro sapore.
“Ma certo” pensai: la mia emozione somigliava alla sensazione provata
da bambina, quando ne avevo assaggiato uno per la prima volta.
Osservando la mia espressione, lo chef e il singapura sorrisero gioiosi. Il
bicolore, invece, mantenne un’espressione fredda, ma con la coda ben
dritta, come se fosse felice anche lui.
Presi in mano la tazza. Il tè nero era senza zucchero e senza latte. Bevvi
un sorso. La sua forte fragranza non aveva un accento particolare, né alcuna
amarezza. Sentivo quel calore che mi passava per la gola, espandendosi
delicatamente dentro di me.
«Anche il tè è buonissimo.»
«Usiamo solo foglie colte nelle notti di plenilunio. È una variante che ha
un’energia liberatoria» spiegò lo chef.
«Liberatoria?»
«Sì, la luna piena ha una forza di repulsione anche nei confronti di
emozioni negative, come il risentimento, la gelosia e l’attaccamento.»
Risentimento, gelosia, attaccamento... Bevvi un altro sorso. Non erano le
uniche emozioni di cui avrei voluto disfarmi. L’eccessiva attenzione per lo
sguardo altrui, la paura delle critiche, la vergogna di non guardare se stessi
per non riconoscere la propria situazione...
«Sarebbe bello potersi liberare davvero di tutte queste sensazioni»
mormorai, mentre le lacrime scivolavano lungo il mio viso. Mi affrettai ad
asciugarle.
«La prego, non deve preoccuparsi. Qui ci sono solo “gatti”.»
A quelle parole pronunciate dal bicolore con disinvoltura, mi misi a
ridere.
Osservandomi dall’alto col suo sguardo gentile, lo chef aggiunse:
«Finora si è trattenuta dal piangere, dico bene? Nei momenti difficili
bisogna lasciarsi andare. L’acqua ha l’effetto di far scorrere tutto via con
sé».
Ora che ci pensavo, avevo avuto molte difficoltà fino a quel momento,
ma non avevo mai pianto. Avevo l’impressione di aver dimenticato come si
facesse. Mi ero limitata a nascondermi e rinchiudermi nella paura.
Le lacrime che mi rigavano le guance erano molto calde. Scivolavano
giù dal mento, brillando proprio come lo sciroppo di stelle.
Piangevo come se mi stessi liberando di tutti i pensieri negativi
accumulati. Continuai così per qualche istante. Quando alzai il viso, lo chef
non c’era più. Anche il singapura e il bicolore erano scomparsi.
Guardandomi attorno, notai dietro di me, all’interno del Caffè della Luna
Piena, tre piccole ombre. Le tre sagome, accortesi del mio sguardo, mi
rivolsero un saluto.
“Prego, mangi con calma” ebbi l’impressione di udire.
Ricambiai il saluto e riabbassai gli occhi sul tavolo. Il burro del
plenilunio si era sciolto, penetrando nei pancake e rendendoli ancora più
dolci. Presi di nuovo le posate e infilzai un altro boccone.
Udii il suono di un pianoforte giungere da qualche parte. Era Beethoven.
La Sonata per pianoforte n. 8, Op. 13, la “Patetica”. Nonostante il titolo
malinconico, era un brano molto delicato. Ebbi la sensazione di camminare
lentamente lungo la sponda del fiume, fermarmi per osservare la luna e,
cullata dalla melodia, perdermi nei ricordi di giorni ormai trascorsi, lo
sguardo rivolto ai ciliegi della notte.
Ma il passato non è fatto solo di bei ricordi. È colmo delle più svariate
memorie. Ripensando a quei momenti, il petto continuava a dolermi. Ma
era solo la tristezza del passato.
«Forse la “Patetica” è un brano che allevia le ferite del cuore» mi dissi a
bassa voce, poi presi la tazza di tè.
La grande luna piena gettava la sua luce sulla superficie del fiume.
4

Mentre osservavo con aria assente il fiume, udii una voce che mi fece
tornare in me: «Gradisce un’altra tazza di tè? Questa volta lo provi con un
po’ di latte».
Alzando lo sguardo, vidi lo chef, il gatto tigrato, che stringeva una tonda
teiera d’argento.
«Volentieri, grazie.»
Gli porsi la tazza. Lo chef versò il tè e aggiunse del latte da un bianco
contenitore di ceramica.
«È latte stellare attinto direttamente dalla Via Lattea.» Così dicendo,
guardò in alto verso il cielo stellato. Il fiume galattico si scorgeva nitido,
bianco come il latte a cui la mitologia greca lo paragonava. Il tè ambrato
assunse all’istante una morbida tinta. Afferrai la tazza e iniziai a
sorseggiare. A quel gentile sapore, così diverso dal tè liscio, assunsi
un’espressione compiaciuta.
«Basta un po’ di latte, e anche il tè diventa tutt’altra cosa...» commentai.
Lo chef sorrise a quel mio mormorio, così trovai il coraggio per aggiungere:
«Il discorso che lei faceva sulla Luna, Mercurio e Venere forse assomiglia a
questo tè».
«Lei dice?»
«Sì. All’inizio è semplice acqua. Ma se la si fa bollire, e si mettono le
foglie in infusione, ecco che si trasforma in tè. E se si versa del latte muta
ancora in tutt’altra cosa...» risposi sussurrando con trasporto.
Lo chef si lasciò sfuggire una risatina. «Lei usa una lingua ricca di
espressioni, proprio quello che ci si aspetterebbe da una sceneggiatrice.»
«Ma no, sto solo farneticando» ribattei, rossa per l’imbarazzo.
«Ritengo, comunque, che sia un’immagine molto immediata. Anche
l’acqua, passando per successive esperienze, muta il suo stato iniziale
diventando qualcos’altro.»
Udite quelle parole, mi tornò in mente quanto aveva detto lo chef e,
guardandolo, domandai: «Cosa intendeva poco fa con “passare in modo
corretto per le fasi”?».
Infatti aveva affermato: “Se prima non si passa in modo corretto per le
fasi lunare, mercuriana, venusiana e solare, può capitare di non poter
proseguire fino al periodo successivo”.
Lo chef, annuendo, indicò la sedia di fronte a me e mi chiese: «Posso
sedermi?».
A un mio chiaro cenno di assenso il gatto si accomodò. La sedia, di
grandezza normale per un umano, risultò piccola per la sua enorme stazza.
«A ogni fase corrisponde un indispensabile insegnamento che, se non
assimilato a dovere, richiede di essere recuperato in seguito.»
Non capendo cosa intendesse, mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Per esempio, se durante la fase lunare, cioè quando si è bambini, non si
affrontano come si deve i genitori, ci si scontrerà duramente con loro
durante i vent’anni, ovvero nella fase solare. Oppure, se non si intraprende
lo studio in modo serio durante la fase mercuriana, quella del periodo
scolastico, occorrerà imparare molte più cose durante la fase marziana»
provò a chiarire lui.
In pratica, significava che i giovani che crescono senza opporsi ai
genitori, una volta adulti hanno violenti scontri con loro, come se il periodo
di ribellione fosse giunto in ritardo.
Mi vennero in mente le parole del direttore di una grande azienda con
cui avevo conversato una volta.
Il dirigente aveva fondato quella ditta senza essersi dedicato
minimamente allo studio negli anni della scuola, fermandosi alla licenza
media. Mi disse che, a mano a mano che gli affari fiorivano, si era trovato
sempre più in difficoltà con l’enorme mole di cose da studiare.
Mi era rimasto impresso nella memoria come mi avesse detto ridendo:
“Nella vita arriva per tutti il momento di doversi mettere a studiare”.
Mentre annuivo con convinzione, giunse il gatto bicolore che, saltato sul
tavolo, aggiunse: «A questo proposito, lei ha attraversato in modo corretto
la fase lunare e mercuriana».
Da bambina ero riuscita a esprimermi liberamente, forse perché ero la
figlia maggiore, e avevo convinto i miei genitori a lasciarmi fare ciò che
desideravo. Sapevo come cavarmela e mi piaceva essere lodata. Per quello
mi ero impegnata nello studio. “Mizuki, puoi diventare un’insegnante” mi
dissero i miei genitori rendendomi molto felice.
A quel punto comparve il singapura che, balzato anche lui sul tavolo, si
stese prono e, con la testolina poggiata sulle zampe, mi chiese: «Nella fase
venusiana, invece, hai dato la priorità ai tuoi interessi più che all’amore,
no?».
Aveva colto nel segno. A quelle parole mi feci piccola per l’imbarazzo.
Proprio come aveva detto lui, durante la fase venusiana, ovvero nel periodo
fra i sedici e i venticinque anni, avevo pensato più ai miei interessi che
all’amore.
Appassionata di scrittura, ero entrata in un club letterario, dove avevo
creato con altri una rivista amatoriale a cui dedicare tutte le mie energie.
Nel frattempo, facevo lavori part-time e assistevo agli spettacoli teatrali dei
miei attori preferiti.
Più che curarmi dei miei sentimenti, mi perdevo nelle fantasticherie delle
storie d’amore dei romanzi. Fu solo al quarto anno di università che,
finalmente, mi innamorai.
Incontrai il mio ragazzo in una serata organizzata per festeggiare altri
studenti che avevano già ricevuto alcune proposte di assunzione.
All’epoca, casualmente, noi due eravamo i soli a non essere ancora
fidanzati. Tutti ci dissero scherzando: “Perché non vi mettete insieme?”. Un
po’ alle strette, in quel momento rispondemmo con una risata imbarazzata,
ma qualche giorno dopo provammo ad andare al cinema insieme.
Dal punto di vista estetico non mi piaceva particolarmente, ma siccome
aveva un aspetto normale e condividevamo gli stessi interessi, con lui mi
trovai a mio agio, senza provare la minima tensione.
Fu così che ci fidanzammo. Dopo sei anni, mi chiese di sposarlo.
Sembrava che i colleghi e i genitori gli avessero detto che era il momento di
sistemarsi. Ma in quel periodo ero terribilmente presa dal lavoro di
sceneggiatrice e dissi di no. Così ci lasciammo.
In seguito, iniziai una relazione con un ragazzo più giovane che faceva
l’assistente di direzione in un’emittente televisiva locale. La nostra storia
durò dieci lunghi anni. E, mentre lui procedeva spedito con la sua carriera,
io invece cadevo sempre più in basso.
Negli ultimi anni, lo annoiavo perché parlavo solo di matrimonio.
Iniziò a scrivermi sempre meno frequentemente. Le sue ultime parole
furono un duro colpo: “Mi sposo”.
Ma non ero io la sua ragazza? Cosa voleva dire che si sposava? Un
sorriso tirato comparve sul mio viso.
Proprio quando avevo iniziato a incupirmi, il bicolore sentenziò con tono
freddo: «È quello che succede quando non si affronta l’amore come si deve.
È stata solo la conseguenza delle tue azioni».
Effettivamente, durante la seconda metà del nostro fidanzamento non
avevo avuto occhi che per me stessa. Anzi, avevo fatto in modo di non
considerare altro al di fuori di me. Mi ero rifiutata di sentire che il suo cuore
si stava allontanando dal mio.
Mi salirono le lacrime agli occhi.
«Ehi, vecchietto, non trattare male la sensei» disse il singapura, alzando
la voce con tono di rimprovero.
Il bicolore, contrariato, fece una smorfia. «Non avevo affatto intenzione
di infastidirla...»
«È per come lo hai detto. Portale un dolce di scuse per essere stato così
severo. Sensei, perdonalo.»
«Va bene» rispose il bicolore prima di scendere dal tavolo ed entrare nel
locale.
Non sentivo di essere stata infastidita, ma ero felice di ricevere un dolce
preparato apposta per me.
Lo chef posò gentilmente una zampa sulla mia spalla, poi disse: «Lei ha
trascorso una placida fase lunare, si è dedicata correttamente allo studio con
Mercurio e ha conosciuto il divertimento con Venere. Per questo ha potuto
risplendere vigorosamente con il Sole».
La fase solare, ovvero dai ventisei ai trentacinque anni, in effetti, era
stato il mio momento di massimo fulgore.
Avevo persino avuto la sensazione di aver ottenuto tutto ciò che volevo.
«Ma allora perché adesso...» Non riuscii a pronunciare altro per il
dolore.
Lo chef emise un debole sospiro, poi rispose: «Probabilmente perché
durante la fase solare è rimasta accecata dal suo stesso splendore, non
riuscendo così ad apprendere la lezione».
«Giusto! Tanto per cominciare, non hai ancora capito perché i tuoi lavori
erano così popolari» aggiunse il singapura.
Colpita nel segno, socchiusi gli occhi ferita.
Lo chef rise per stemperare la tensione.
«È il momento di recuperare quella lezione da cui lei, tuttavia, continua a
distogliere lo sguardo.»
Non riuscii a dire nulla. Non sapevo che tipo di lezione avesse in mente,
ma aveva ragione nell’affermare che io, in quel momento, rifiutavo di
affrontare la realtà.
Alzai lo sguardo verso i gatti e chiesi: «Come posso rimediare?».
Il singapura rispose sorridente: «Per prima cosa devi conoscere te
stessa».
“Conoscere me stessa.”
Facile a dirsi ma non a farsi.
A quel punto lo chef tirò fuori dall’abito un orologio da taschino.
«Posso prendere la sua carta astrale?» chiese.
Aggrottai le sopracciglia, non riuscendo a capire.
«Oltre a essere lo chef del Caffè della Luna Piena, leggo anche le stelle.»
«Intende dire che è un astrologo?»
Lo chef annuì.
Pensai all’astrologia con delusione. Ero dei Pesci, ma se fossi nata un
giorno dopo sarei stata dell’Ariete. Forse anche per il fatto di essere nata fra
due segni, quando controllavo l’oroscopo ero spesso poco convinta.
Osservando il mio viso, il singapura disse: «Sensei, perché
quell’espressione perplessa?».
«Quasi mai ho avuto l’impressione che l’oroscopo ci azzeccasse...» dissi
titubante.
Lo chef e il singapura si scambiarono un’occhiata e fecero una risatina.
«Il nostro chef non legge esattamente l’oroscopo» precisò il singapura.
«Non fa la divinazione delle stelle?»
Lo chef scosse il capo. «Lei forse ha in mente l’oroscopo dei segni
zodiacali del sistema solare.»
Confermai con un cenno.
«Quello non è che la superficie della questione. Leggere le stelle vuol
dire interpretare il registro di una persona basandosi sulla sua carta astrale.»
«Il registro?»
Davanti alla mia aria sorpresa, lo chef mi domandò di nuovo: «Mi
permette di vedere la sua carta astrale?».
«Sì, certo. La prego.»
Dopo aver appoggiato l’orologio sulla mia fronte, il gatto fece scattare il
coperchio. Osservando con attenzione l’interno dell’oggetto, notai che si
trattava in realtà di uno di quegli strumenti impiegati per le divinazioni
nell’astrologia occidentale.
Quando lo chef premette un pulsante, la sua superficie risplendette di un
bagliore accecante, proiettando nel cielo notturno un gigantesco oroscopo.

«Ecco la sua carta astrale» disse lo chef guardando in alto.


Mi sfuggì un involontario grido di ammirazione. L’enorme oroscopo
proiettato nel cielo notturno mi lasciò esterrefatta. Potevo comodamente
osservarlo alzando un po’ la testa.
«Guardandolo capisce qualcosa?» chiesi.
«Tutto, di lei.»
Quella parola, “tutto”, mi stupì. Sussultai, convintache una cosa del
genere fosse impossibile.
Quasi avesse intuito i miei pensieri, lo chef, lo sguardo sempre fisso
sull’oroscopo, socchiuse gli occhi come abbagliato.
«Si è soliti collocare l’origine dell’astrologia occidentale nella Babilonia
di duemila anni avanti Cristo. Essa, cioè, sarebbe nata circa quattromila
anni fa.»
«Un’epoca così antica...»
«Esatto. Potrebbe sembrarle un tempo antiquato, ma gli uomini di
quattro millenni fa, sebbene sapessero meno cose rispetto agli uomini
contemporanei, possedevano il medesimo spirito di inventiva e la stessa
capacità di osservazione. La conoscenza è una cosa straordinaria, la cui
accumulazione ha portato l’uomo della nostra epoca a raggiungere perfino
lo spazio, non è così?»
Alla domanda, posta con tale garbo, annuii.
«Anche gli uomini dell’antichità raggiunsero lo spazio applicando tutte
le loro conoscenze all’astrologia, che non era semplice “divinazione” ma
una vera e propria “scienza”. Non è un sapere che può condurre fisicamente
l’uomo nello spazio, ma una bussola che, sulla base del sapere
cosmologico, può leggere il passato e il futuro.»
«Una bussola...» mi lasciai sfuggire a bassa voce.
«La carta astrale raccoglie le sue informazioni di base. Poco fa, non ha
forse paragonato la vita alla sua bevanda, dicendo che se l’acqua è portata a
bollore e ci si mettono le foglie diventa tè?»
«Sì.»
«Bene. A seconda delle persone, si ha uno stadio iniziale differente, che
può essere acqua, latte, oppure qualcosa di completamente diverso, come
terra.»
Alle parole dello chef, il singapura annuì.
«Potrebbe anche succedere che la terra si trasformi in argilla, prendendo
poi la forma di un edificio» continuò lo chef, lo sguardo rivolto
all’oroscopo in alto.
«La carta astrale serve a determinare se nel suo caso il punto di partenza
sia l’acqua, il latte o la terra.»
Quelle semplici parole mi toccarono dentro.
«In pratica, si può capire qual è la mia natura.»
Alzando l’artiglio della zampa come fosse un indice, il singapura
rispose: «Proprio così. Se si conosce la propria natura, si è in grado di
capire fin dall’inizio che, per quanto ci si sforzi, la terra non potrà mai
mutare in tè con latte».
Risi involontariamente a quell’esempio estremo.
«In effetti, è proprio impossibile» concordai.
«Esattamente. E ora osservi di nuovo la carta astrale.».
Rivolsi lo sguardo all’oroscopo.
«Ha una forma circolare ed è suddiviso in dodici case.»
Annuii alle sue parole.
«Questa volta paragoniamo la vita umana a una pianta. Nella metà
superiore del quadrante ci troviamo sopra la terra, in quella inferiore siamo
invece nel sottosuolo, dove crescono le radici. Se si curano le radici, la
pianta fiorirà in tutto il suo splendore. Se, invece, capita che questa non
sbocci come dovrebbe, allora sarà necessario controllare lo stato delle radici
nel sottosuolo.»
Mentre lo chef parlava, la metà inferiore dell’oroscopo si illuminò
lievemente.
«Nell’oroscopo, la parte più in alto nel cielo indica il sud, mentre quella
in basso il nord. Sul lato sinistro abbiamo l’oriente, su quello destro
l’occidente. L’estremità levantina del quadrante, ovvero l’oriente dove
sorge il sole, forma la prima casa, cioè il luogo del suo io.»
Questa volta fu la prima casa a risplendere fioca.
«... il mio io» provai a dire poco convinta, non scorgendo il simbolo di
alcun pianeta.
«Il suo ciclo astrale inizia con il Capricorno nella prima casa.» Doveva
essere quel simbolo simile a una & rovesciata. «È un segno che esprime
serietà, operosità e uno spiccato senso comune. Suggerisce anche
l’avversione per le deviazioni e, nella carta astrale, rimanda implicitamente
alla sua ambizione.»
Mi si fermò il respiro.
«Sì, ma» intervenne il singapura indicando l’oroscopo «in parte è anche
nell’Acquario.»
Al di sotto della & rovesciata notai un simbolo composto da due onde:
doveva essere l’Acquario.
«Quindi strada facendo intervengono anche elementi dell’Acquario, cioè
l’attitudine a raccogliere diligentemente le informazioni e la capacità di
analizzarle.»
Annuii.
«Il simbolo dell’Acquario non assomiglia anche a dei segnali radio?»
disse lo chef, disegnando con il corto artiglio la forma delle due linee
ondulate.
Effettivamente, ora che lo notavo, i due segmenti ricordavano anche le
onde elettromagnetiche.
«Si dice che l’Acquario sia deputato ai lavori collegati al web e al
mondo della comunicazione mediatica. Lei da bambina voleva essere
un’insegnante e ha proseguito su quella strada. Il fatto che alla fine abbia
scelto di lavorare come sceneggiatrice può essere dipeso dall’influenza
esercitata dal passaggio dal Capricorno all’Acquario.»
A quelle parole, per qualche strano motivo, un brivido mi percorse la
schiena. Probabilmente perché avevo la netta sensazione che potevano
intuire tutto di me.
«Ne approfitto per aggiungere qualcosa sull’Acquario. È una cosa di
grande importanza che vi riguarda tutti.»
Lo chef non si riferiva solo a me. Cosa voleva dire?
«Perché ha usato il plurale?»
«Per indicare tutti coloro che vivono in questa epoca.»
A quell’affermazione sgranai gli occhi: il discorso era all’improvviso
diventato più ampio.
5

«Fino a poco tempo fa, eravamo nell’era dei Pesci, ma ora siamo entrati in
quella dell’Acquario.»
Inclinai il capo con aria interrogativa. «Siamo passati dall’era dei Pesci a
quella dell’Acquario?»
Lo chef premette il pulsante su quell’oggetto simile a un orologio da
taschino e disse: «Esatto. In astrologia la precessione degli equinozi dovuta
al moto terrestre indica che il punto vernale ha segnato il passaggio dai
Pesci all’Acquario».
Vicino all’oroscopo apparve il simbolo del segno zodiacale formato da
due pesci legati fra loro da una corda.
«L’era dei Pesci, iniziata con la nascita di Cristo, è proseguita per i
successivi due millenni, anno più, anno meno.»
«Per quasi duemila anni è sempre stata l’era dei Pesci?» domandai
incredula.
Il singapura rispose come se fosse una cosa scontata: «Ovvio! E per i
prossimi duemila anni sarà quella dell’Acquario».
Mi sfuggì un’esclamazione.
Lo chef fece una risatina. «È per questo che tutti voi avete con
l’Acquario un legame che non può essere reciso.»
Voleva dire che fino alla mia morte sarebbe sempre stata l’era
dell’Acquario. E anche se mi fossi reincarnata in nuove vite, probabilmente
mi sarei ritrovata a esistere nella stessa era.
«Come mostrato dai due animali del simbolo, l’era dei Pesci è stata
l’epoca del dualismo e della contrapposizione, in cui tutti nuotavano
disperati puntando all’apice della gerarchia. Non a caso si parlava di società
elitaria, meritocratica.»
Effettivamente, noi tutti avevamo aspirato ad avere un’istruzione in
scuole prestigiose per essere assunti dalle aziende più importanti.
«Vuole dire che invece ora è diverso?» chiesi.
A quella domanda rispose il singapura, grattandosi il capo con un sorriso
beffardo: «In realtà, ci si trascina dietro ancora molto dell’era passata.
Stiamo parlando di un periodo durato due millenni e, anche se siamo entrati
nell’era dell’Acquario, non può cambiare tutto in un secondo».
Lo chef, d’accordo con quelle parole, aggiunse: «Pur transitando nella
nuova era, le tracce di quella passata non svaniscono subito. Questo
passaggio durerà più di un decennio e, infine, si erediterà comunque
qualcosa».
Non capendo cosa intendesse, domandai con un’espressione confusa:
«Come sarà l’era dell’Acquario?».
Lo chef fece per rispondere, ma il singapura, alzatosi di scatto con una
zampa sul petto, lo anticipò dicendo: «Permettete che sia io, Uranus, a
illustrare la nuova era».
Il gatto, dunque, si chiamava così.
“Un nome davvero curioso” pensai.
«L’aspetto primario dell’era dell’Acquario è la rivoluzione» iniziò.
«La rivoluzione...» ripetei, come ipnotizzata dalle sue parole.
«Esatto. L’insieme di valori che il passato trascina con sé sarà totalmente
rinnovato. Accadranno disastri e calamità così orrendi da voler distogliere
lo sguardo. Ma questo, purtroppo, dipende dallo stesso sistema del cosmo e
non può essere evitato.»
A ben pensarci, da quando eravamo entrati nella nuova era si erano
verificati fatti spaventosi, incidenti e disastri naturali fino a quel momento
inimmaginabili.
«Il sistema cosmico sarà anche fatto così, ma simili catastrofi naturali o
causate dall’uomo sono tremende...» mi lasciai sfuggire.
Il singapura ammutolì, come se stessi incolpando lui per quelle calamità.
A quel punto intervenne lo chef, che con un tono leggermente
dispiaciuto aggiunse: «In un’epoca di rivoluzione non è il cosmo a stabilire
cosa accadrà, ma l’uomo».
«È l’uomo a decidere?» domandai alzando le sopracciglia.
Il singapura, che sembrava in difficoltà, ricominciò a parlare: «La
rivoluzione è come un esame di fine semestre. Potremmo anche dire che è
l’occasione per mostrare i risultati di quanto appreso fino a quel
momento...».
Forse usava quell’esempio perché ero stata un’insegnante. Eppure,
quelle parole non mi persuadevano, e mi sforzai di carpirne il significato
con un’ambigua espressione sul volto.
Lo chef, notando la mia faccia, fece un risolino e aggiunse: «Per
esempio, se all’epoca della Rivoluzione francese la corte e il popolo fossero
stati in buoni rapporti, le cose non sarebbero andante in quel modo. Anche
le rivoluzioni più recenti sono sempre scoppiate come risultato di ciò che
gli uomini hanno fatto finta di non vedere. Ma questo non è stato il volere
del cosmo. Se tutti avessero l’elasticità di pensiero sufficiente ad affrontare
qualsiasi situazione, allora le rivoluzioni moderate sarebbero ben accolte».
Capivo il discorso dello chef. Quella sarebbe stata forse la situazione
ideale. Eppure...
«Ma una cosa del genere è impossibile!» sbottai senza pensarci.
Lo chef annuì amareggiato.
Il singapura, grattandosi la testa, disse: «È per questo che in tempi
rivoluzionari accadono avvenimenti violenti che ci colgono di sorpresa.
Tutti desiderano tornare indietro, ma non si può “tornare indietro”. Così
come è impossibile, dopo lo scoppio di una guerra, poter vivere come
prima».
Forse voleva dire che a uno sconvolgimento non può che seguire l’inizio
di un nuovo mondo.
Annuii addolorata.
«L’unica cosa che gli uomini possono fare è cambiare radicalmente il
proprio sistema di valori. Si è passati dall’era dei Pesci a quella
dell’Acquario. Finita l’“epoca della scalata di gruppo alla stessa vetta”, è
iniziata l’“epoca degli individui”.»
«L’epoca degli individui...»
Il singapura annuì. «Esatto. La tecnologia progredirà a favore
dell’affermazione dell’individualità. Si andrà verso un’epoca in cui saranno
importanti le parole di tutti. Lo sviluppo di internet, il diritto a esprimersi e
la possibilità per chiunque di diventare famoso sono manifestazioni
emblematiche dell’Acquario.»
Risposi con un’espressione meravigliata.
In effetti, dopo il 2010 gli influencer avevano iniziato a godere di una
certa attenzione.
«Il conferimento a tutti della possibilità di dire la propria indica che
siamo giunti nell’epoca della libertà di espressione. Ma questo potrebbe
anche portare al disordine. La coesistenza di tante energie diverse è tipica
dell’era dell’Acquario. Cioè, ora si pensa che io sono io e gli altri sono gli
altri. Nell’era dei Pesci si riteneva corretto sposarsi e fare figli all’età
considerata più opportuna dalla società. Adesso, invece, si pensa che sia
possibile farlo seguendo i propri desideri.»
Annuii di nuovo, questa volta in segno di comprensione.
Anche il riconoscimento del matrimonio fra persone dello stesso sesso,
avvenuto all’estero in vari paesi, era con ogni probabilità una
manifestazione dell’Acquario.
«Se da un lato l’Acquario è il simbolo della tecnologia, dall’altro indica
la spiritualità. Pensiero e onde radio sembrano due cose molto diverse, ma
sono in realtà entrambe presenti nella stessa anfora con cui si raffigura il
segno zodiacale.»
“Il pensiero e le onde radio sono nella stessa anfora...” ripetei nella mia
mente. Soppesai le parole del gatto, apprezzandone la profondità.
Effettivamente, dopo l’avvento dell’era dell’Acquario si parlava molto di
vite precedenti o di cose come il colore dell’aura.
«E ancora: creatività, eguaglianza, amore e amicizia. Essere liberi e se
stessi è la peculiarità di questo segno» borbottò il singapura gonfiando il
petto inorgoglito. Ma come se fosse subito tornato in sé, si portò una zampa
sul capo e aggiunse: «Devi scusarmi, ho un rapporto intimo con l’Acquario
e ho finito per essere di parte. Anche quella dei Pesci non è stata una brutta
era. La spietatezza dei tempi ha portato gli uomini a sognare. I Pesci
indicano per l’appunto l’aspirazione e il sogno. L’american dream e altre
cose simili sono tipiche di questo segno».
Lo chef annuì. «Emblematica dei Pesci è anche la storia di Cenerentola.»
Capii cosa intendesse dire. La protagonista vive al massimo delle sue
possibilità e decide di agire con risolutezza. Il principe, che occupa il
gradino più alto della gerarchia sociale, la nota e la sposa. Effettivamente,
quella storia era proprio il simbolo di un’epoca.
Riflettendo, mi accorsi che anche io avevo spesso ideato racconti sul
modello di Cenerentola. Ricordandomene, spalancai gli occhi. Finalmente
avevo capito.
«Ora che ci penso, tutti i lavori che ho scritto finora sono storie tipiche
dell’era dei Pesci...» A quelle mie parole, lo chef sorrise.
Il singapura annuì, poi aggiunse: «Quando hai presentato i tuoi lavori era
già iniziata l’era dell’Acquario, ma in un momento in cui le tracce
dell’epoca precedente erano ancora molto evidenti. Il pubblico, allora, pur
avvertendo istintivamente che i tempi stavano mutando, si avventava con
nostalgia su racconti emblematici dell’epoca passata».
Ecco perché le mie storie avevano avuto successo.
Ciò significava che il pubblico aveva smesso di seguirmi da quando era
scemata l’influenza dell’era dei Pesci.
«Stando così le cose, non avrei potuto fare niente. È dipeso dal
mutamento dei tempi» dissi, e un sorriso di derisione verso me stessa mi
affiorò sul volto.
«È qui che si sbaglia.»
Voltandomi verso quella voce, vidi il bicolore con in mano un vassoio su
cui era posato un bicchiere di vetro a forma di anfora.
«Vale quanto abbiamo detto sulle fasi planetarie» aggiunse il gatto
posando il bicchiere sul tavolo.
All’interno c’era una porzione di trifle, un dolce al cucchiaio inglese,
composto da strati sovrapposti di crema pasticciera, pan di spagna e frutta.
La trasparenza del bicchiere mi permise di godere dei vari ingredienti.
«È lo stesso concetto delle fasi planetarie?» chiesi.
«Proprio così, ci si muove verso la lezione successiva solo dopo aver
attraversato le fasi precedenti. Allo stesso modo, gli insegnamenti dell’era
dei Pesci non saranno ripudiati, ma portati con sé nella nuova era. Con
l’avvento dell’Acquario, i due pesci, legati l’un l’altro fino a quel momento,
potranno finalmente nuotare liberamente, privi della corda che li
costringeva.»
Notai che nel bicchiere c’erano delle gelatine a forma di pesce.
Sembrava proprio che nuotassero nel dolce.
«La musica classica è stata a lungo amata e continuerà a esserlo. In
modo simile, anche le storie come Cenerentola saranno ancora apprezzate»
disse lo chef, mentre il bicolore annuiva. «Occorre, tuttavia, esprimersi in
modo consono all’era dell’Acquario» concluse.
Forse anche la musica classica, per essere accolta di epoca in epoca, si
era rinnovata. Ero pienamente convinta di quelle spiegazioni.
«Bene, e ora rivediamo la sua carta astrale» disse lo chef, lo sguardo
rivolto all’oroscopo nel cielo notturno. «Come ho già detto, la parte
inferiore rappresenta il sottosuolo, quella superiore la superficie del terreno.
Per far andare bene qualcosa, occorre anzitutto curare le radici. La prima
casa è quella dell’“io”, la seconda quella dei “beni” e del “denaro”, e qui
interviene Mercurio.»
«Mercurio indica l’informazione, la trasmissione e il tempismo»
intervenne il singapura.
Il bicolore proseguì: «Ma anche l’intelletto e la comunicazione. Nella
seconda casa ci si sposta dall’Acquario ai Pesci. I mestieri di insegnante e
sceneggiatrice, con cui lei ha scelto di guadagnare, le si addicono entrambi.
La sua ultima predilezione per il lavoro di sceneggiatrice potrebbe essere un
effetto dei Pesci, che hanno la capacità di dare forma alle fantasie».
Avevo sempre ritenuto le professioni di insegnante e sceneggiatrice
molto diverse tra loro, ma mi convinsi di quell’interpretazione, meravigliata
che tutto ciò comparisse sulla carta astrale.
«E adesso come mai non mi sta andando bene?»
Con gli occhi socchiusi, lo chef rispose: «Il lavoro che ha scelto è quello
giusto... dobbiamo quindi ricercare la risposta alle radici della questione: la
quarta casa, quella del “focolare domestico”, in cui lei ha come segno
zodiacale l’Ariete e sono vicini due pianeti, Venere e la Luna, espressione
dei sentimenti».
A quelle parole, il singapura e il bicolore fecero un cenno di assenso.
«L’Ariete è simbolo di fertilità e di abbondanza. Quando è nella quarta
casa, indica uno spazio lussuoso.»
Annuii alla spiegazione dello chef.
«Lì ci sono Venere e la Luna. Questo vuol dire che raggiungerà migliori
risultati se lavorerà in un luogo per lei sinceramente gradevole. Se continua
ad abitare in un posto che non le piace, finirà per deprimersi e le cose
andranno sempre peggio. Lei è il tipo di persona che ha bisogno di vivere in
una bella casa.»
Di colpo, il cuore mi balzò in petto.
Avevo scelto quel monolocale quando, non riuscendo più a conquistare
lo share, ero scappata dal lavoro ed ero rimasta senza entrate...
Così avevo lasciato l’appartamento che mi piaceva tanto, scegliendo la
nuova stanza solo per via del prezzo conveniente.
«Ma io... io non potevo più permettermi di vivere in quella casa! E
traslocare in queste condizioni è assolutamente fuori discussione!» gridai
abbassando lo sguardo e stringendo i pugni con forza.
Non avevo certo lasciato l’appartamento perché non volevo più starci.
Ero infastidita che mi dicessero cose tanto sconsiderate.
Il singapura incrociò le zampe assorto e, senza alcun problema, aggiunse
spietato: «Ma avresti potuto sforzarti e pensare con tutta te stessa di voler
continuare a vivere lì. In quel momento eri disperata, o sbaglio?».
«...»
Era esattamente come diceva lui. Ero disperata. Vendetti anche tutti i
miei mobili, perché non si adattavano alla nuova stanza.
Il bicolore mi rivolse uno sguardo critico. «Serikawa sensei, non le
stiamo dicendo che deve traslocare subito, ma solo che per lei è importante
pensare a come poter rendere il più confortevole possibile la casa in cui
abita ora.»
Lo chef sorrise e confermò quelle parole. «È proprio così. È importante
che lei sappia di necessitare di una bella casa, e che deve impegnarsi
affinché un giorno possa occupare l’abitazione perfetta per lei. Questo vuol
dire conoscere se stessi.»
Annuendo, mi asciugai le lacrime che chissà quando mi erano salite agli
occhi.
Vivevo in una casa che non mi piaceva e me la cavavo conducendo una
vita poco dispendiosa. Mi ero totalmente calata nel ruolo dell’eroina di una
tragedia, quasi che dovessi vantarmene con qualcuno: facevo a meno di
comprare ciò che desideravo, mangiavo ramen istantanei, non frequentavo i
miei amati caffè... Ce la mettevo tutta per condurre una miserabile vita da
Cenerentola.
Da qualche parte nel mio cuore covavo forse la segreta speranza che
qualcuno un giorno mi invitasse al ballo.
Ma la realtà era diversa.
Nel mio caso, avrei forse avuto accesso a quel mondo se avessi vissuto
per quanto possibile in maniera comoda ed elegante.
Mi convinsi del tutto delle loro parole.
«Capisco. Da quando vivevo ancora coi miei, mi è sempre piaciuto
decorare la mia stanza per renderla gradevole.»
Lo chef sorrise. «Capire se stessi vuol dire anche trattarsi bene. Solo
così, la sua stella inizierà a risplendere.»
«La mia stella?»
«Ogni persona è come una stella.»
In un’altra occasione, avrei di certo replicato con un sorriso ironico, ma
ora accettavo quelle parole senza protestare. Feci un cenno di assenso,
guardai il cielo notturno e chiusi gli occhi.
Da bambina, mi aveva esaltato avere a disposizione per la prima volta
una stanza tutta mia. Era una piccola cameretta, ma l’avevo resa il luogo più
bello in cui potessi mai stare.
Ripercorsi con la mente quei ricordi piacevoli. Con qualche
accorgimento, anche il monolocale sarebbe diventato magnifico.
Leggermente eccitata a quel pensiero, dissi: «Attingerò ai miei ricordi di
quando ero piccola, e farò tutto il possibile per rendere splendido il mio
appartamento».
Ma quando riaprii gli occhi lo chef e il singapura non c’erano più.
Dovevano essere rientrati nel locale.
Era rimasto solo il bicolore. Il gatto mi versò sorridendo altro tè nella
tazza ormai vuota e disse: «Prego, assaggi pure il “trifle dell’Acquario”».
Ebbi l’impressione di vedere il suo sorriso per la prima volta. Con la
sensazione di aver scoperto un oggetto prezioso, afferrai felice il cucchiaio.
«Grazie, buon appetito» si congedò.
Quando il bicolore si avviò in direzione del caffè, lo fermai. Lui si
bloccò e si voltò.
«Ma lei come si chiama?» chiesi.
«Il mio nome è Saturnus» rispose.
«Saturnus...»
Dopo quello del singapura, un altro nome decisamente curioso, che
aveva un non so che di pomposo.
Lo avevo già sentito da qualche parte.
Il gatto mi fece un cenno di saluto e scomparve dentro la roulotte.
Affondai il cucchiaio nel bicchiere e mangiai un boccone di trifle.
“Squisito...”
La panna, la frutta e la gelatina si scioglievano in bocca, ognuna con il
proprio sapore distinto, ma senza cozzare tra loro, come se si sostenessero
l’una con l’altra. Proprio quello che mi sarei aspettata dal “trifle
dell’Acquario”.
Gustai il delizioso dolce sotto la volta stellata. Era un momento
eccezionale. Del tutto a mio agio, alzai lo sguardo verso il cielo notturno,
ripetendomi quanto fosse buono il trifle. Gli astri sfavillavano luminosi.
Mi tornò in mente la volta in cui, quando facevo l’insegnante, avevo
portato i miei allievi al planetario.
“In inglese, se non erro, Venere si dice Venus. E Saturno deve essere
Saturn.”
Il nome Saturn, così simile a Satana, mi metteva paura, ma in
quell’occasione avevo imparato che il pianeta deriva il suo nome non dal
diavolo del cristianesimo bensì da Saturnus, la divinità della mitologia
romana. Voleva dire che il gatto aveva lo stesso nome del pianeta? Guardai
in direzione del locale, ma il Caffè della Luna Piena era scomparso.
6

Qualcuno mi stava chiamando. Era una gentile voce femminile.


«Mi scusi.»
Sentendo quelle parole, aprii d’improvviso gli occhi. Vidi uno
scintillante lampadario e una donna vestita con un lungo abito nero e un
grembiule bianco che mi guardava preoccupata.
«Si sente bene?»
«Come, prego?»
Mi ritrovai abbandonata su di un comodo divano. Sul tavolino c’era una
tazza vuota.
La mente, dapprima confusa, si schiarì gradualmente e mi accorsi di
essere nel caffè dell’albergo.
Dovevo essermi addormentata.
«Scu... scusi, io...»
Agitata, feci per alzarmi, ma la cameriera scosse il capo dicendomi:
«Non si preoccupi, perché non prende un’altra tazza di caffè prima di
andare?».
Ancor più dispiaciuta per la sua gentilezza, rifiutai e mi lasciai alle spalle
l’albergo come se stessi scappando.
Mentre camminavo a passo svelto, mormorai: «Che vergogna,
addormentarsi nel caffè di un albergo».
Eppure, la cameriera era stata molto gentile con me, e in verità avrei
bevuto volentieri un caffè appena sveglia. Il fatto che sentissi di non poterne
chiedere un’altra tazza in un luogo del genere era dovuto al Capricorno
nella mia prima casa astrale. Sorrisi a quel ricordo tornatomi alla mente
all’improvviso. Quegli eventi onirici mi erano rimasti dentro saldamente.
Era stato davvero uno strano sogno: un grande gatto astrologo che fa lo
chef, Saturnus il bicolore e Uranus il singapura.
“Forse anche Uranus è il nome di un pianeta...”
Mi fermai e presi lo smartphone.
Cercai “pianeta Uranus” e sullo schermo apparve l’immagine di Urano,
l’astro deputato alle rivoluzioni. Quei due gatti si chiamavano proprio come
i due pianeti.
Involontariamente trattenni il respiro e guardai il cielo. A differenza del
firmamento visto poco prima, non si scorgeva che una manciata di stelle.
«Allora è stato solo un sogno.»
Eppure, le parole dei gatti riecheggiavano distinte dentro di me. Superata
l’era dei Pesci, l’era dell’Acquario aveva fatto il suo avvento. Mi avevano
detto che era un’epoca colma di spiritualità, all’insegna di una società
digitale in cui l’individualità di tutti viene rispettata. In un momento simile,
dovevo ritenermi fortunata di lavorare alle sceneggiature di social games.
Non potevo sprecare quella occasione.
Anche senza “scene d’amore mozzafiato”, volevo scrivere delle
splendide storie, smettendo di considerarle dei “contenuti superficiali” solo
perché rappresentavano finali secondari.
Mi sarei ritenuta una scrittrice soddisfatta se il giocatore avesse pensato
che, con un po’ più di impegno, sarebbe potuto arrivare a godere di una
scena d’amore da sogno.
“Tanto per cominciare, prima di tornare comprerò dei fiori. E anche una
tazza con un bel piattino...”
Avrei abbellito la stanza e mi sarei dedicata con tutta me stessa al lavoro
sorseggiando una buona tazza di tè.
E poi, un giorno...
Sarei voluta tornare al Caffè della Luna Piena.
“La prossima volta sarei felice di prendere un caffè.”
Feci un risolino mentre camminavo con passo leggero lungo via
Kawaramachi.
Capitolo 2
Fondente al cioccolato con gelato del plenilunio
1

«Lo sapevo, non dovevo incontrarla» borbottai io – Nakayama Akari –


guardando con aria assente fuori dalla finestra.
Mi trovavo nella sala riunioni di un’emittente televisiva locale.
Arrivata in anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento, sedevo vicino
alla finestra e, con in mano un caffellatte acquistato strada facendo,
ripensavo a quanto mi era appena accaduto.
“Il progetto non è stato accettato.”
Mi tornò alla mente l’espressione di Serikawa Mizuki e feci un gran
sospiro.
In fondo le avevo spiattellato che le opere per le quali un tempo si era
guadagnata l’epiteto di “garanzia di successo” ormai erano superate.
Sapevo che sarebbe stato meglio scriverle.
All’inizio avevo pensato di concludere la faccenda con una mail, ma
dato che avevo in programma di venire a Kyōto per lavoro avevo avuto
l’irrefrenabile desiderio di incontrarla.
Le ero stata molto vicina, e non solo perché riconoscevo il valore dei
suoi lavori.
C’era anche un altro motivo, una faccenda molto delicata. Pensavo che
se si fosse presentata l’occasione gliene avrei parlato, ma non ero riuscita a
farlo.
«Mi sento proprio come se avessi pronunciato una condanna a morte»
mormorai.
In quel momento mi giunse una voce: «Non ancora Akari-chan, ma è
proprio così che ti sentirai fra poco, o sbaglio?».
Colta di sorpresa, mi girai.
Era lo stilista, un volto a me noto.
La porta della sala riunioni era rimasta aperta. Doveva essere entrato
dopo avermi vista.
«Che guaio, eh? È venuto fuori che l’attrice protagonista ha avuto una
relazione clandestina. Sei qui per questo, giusto?»
Lo stilista, un uomo sulla quarantina, parlava con un tono aggraziato.
Aveva sul mento un pizzetto elegante e portava i capelli, mossi da una
leggera permanente, lunghi fino alla nuca e legati alla meno peggio.
Ne ignoravo il cognome, ma sapevo che il suo nome era Jirō, ed era così
che lo chiamavano.
Trattava tutti con garbo e intuiva prontamente le situazioni, dava
insomma l’impressione di essere una persona alla mano, motivo per cui era
ben voluto dovunque andasse.
Eppure, a me non andava molto a genio: per qualche strana ragione, in
sua presenza mi sentivo a disagio.
«Sì, in effetti è così, però...»
«Però?»
«Prima di venire qui ho incontrato Serikawa sensei.»
«La sceneggiatrice Serikawa Mizuki?»
A un mio cenno di conferma, esclamò con una voce stridula: «Ah! Io
sono una grande fan dei suoi lavori. Vedremo per caso un suo nuovo
telefilm?». Le mani sulle guance, si agitava torcendo il corpo.
Distolsi lo sguardo da lui con un’espressione amara.
«No» risposi a bassa voce. La sua perspicacia lo portò ad assumere
un’aria grave.
«Allora è per questo che ti senti come se avessi pronunciato una
condanna a morte.»
Annuii. «Era da molto che non si faceva viva, ma all’improvviso mi ha
mandato la bozza per un progetto...»
«E non andava bene?»
«Non è che non vada... bene. Non era da scartare completamente, così
l’ho proposto in riunione, ma hanno detto che “non si adatta ai tempi”.»
Jirō si fece serio, poi disse: «È un bel problema. In realtà, capita a volte
che cose un tantino rétro abbiano successo. Ma, di solito, quelle davvero
interessanti sono totalmente rétro. Una vera caffetteria è meglio di un bar un
po’ all’antica».
Sembrava parlasse a sproposito, ma colse nel segno.
Il progetto di Serikawa era come un menu niente male servito in un
locale dalla struttura indecifrabile che impediva di capire a quale clientela si
rivolgesse.
«Però se l’hai incontrata appositamente invece di riferirle la brutta
notizia con una semplice e-mail è perché volevi darle qualche consiglio,
no?»
Cosa potevo rispondere?
La solita perspicacia di Jirō.
Forse era questo suo lato a mettermi a disagio.
C’era qualcosa che ancora risplendeva in Serikawa Mizuki?
Ambizione è una parola che forse non molti gradiscono, ma qualunque
sia il lavoro, se non si è mossi dall’ambizione è impossibile sfondare.
E anche quando il successo arriva, non è che un breve momento di
fortuna.
Si capisce dall’ambizione che alberga nei suoi occhi se una persona è
appassionata del proprio mestiere. Solo allora ci si rende conto se è davvero
dedita al suo lavoro.
Quando Serikawa Mizuki lavorava in prima linea, i suoi occhi
scintillavano di ambizione positiva, e se adesso si trovava in una situazione
di stallo e il suo progetto non era stato approvato, non c’era niente da fare.
Poteva capitare a chiunque.
Io, però, credevo che avrei riconosciuto nei suoi occhi quell’intenso
luccichio, ma incontrandola ero rimasta sorpresa: si era totalmente spenta.
«Mi è parso che la notizia del rifiuto del progetto sia stata un duro colpo,
per lei, ma in realtà si è arresa subito, ridacchiando. Una volta mi avrebbe
incalzato chiedendomi: “Allora, come posso fare perché venga accettato?”.
Adesso, invece, sembra aver perso anche la sua voglia di combattere.»
Mi lamentai come se stessi parlando da sola.
Jirō incrociò le braccia e fece cenno di aver capito.
«Sei severa come sempre.»
«Severa?»
Mi era capitato che fossero altri colleghi a dirmelo, ma non ricordavo di
essermi mostrata severa con lo stilista. Non mi aspettavo, quindi, di sentire
quella parola pronunciata proprio da lui, accompagnata per giunta da quel
“come sempre”.
Avevo una reputazione così negativa?
A quel punto Jirō aggiunse sorridendo: «Oh, scusa. L’ho detto così per
dire. Stai tranquilla, in giro non si dice di certo che tu sei un tipo severo. È
solo che, osservandoti dall’esterno, ho l’impressione che tu sia dura con te
stessa almeno quanto lo sei con gli altri».
Sorrisi amaramente. «Sembri così dolce, ma hai anche un ottimo intuito»
replicai.
«Me lo dicono spesso.»
«Una mia cara amica d’infanzia, che ora fa la parrucchiera, è come te:
molto dolce, ma anche perspicace. Chissà se tanti di quelli che lavorano in
quegli ambienti sono così» chiesi con aria seria.
Jirō scoppiò a ridere.
«Non saprei, però sia lo stilista sia il parrucchiere svolgono un lavoro
che consente di osservare la gente. Forse è inevitabile che i sensi si
affinino.»
Annuii convinta.
Gli stilisti e i parrucchieri più seri non si limitano alle apparenze, ma
cercano di carpire tutto di una persona, compresi gusti e ideali. È quasi
scontato che diventino persone perspicaci.
«I capelli te li fai tagliare sempre da questa tua amica?»
«Ah, no. La mia amica è di Kyōto e vive qui, mentre io risiedo a Tōkyō.
Quindi non sempre.»
«Vuoi dire che da bambine vi siete conosciute qui a Kyōto? Akari-chan,
ma tu non eri originaria di Tōkyō?»
«I miei sono del Kantō, ma ho frequentato le scuole elementari e medie a
Kyōto per via dell’impiego di mio padre. Al tempo io e lei andavamo molto
d’accordo.»
Jirō incrociò le braccia come se avesse finalmente capito.
«E come se la cava con il lavoro? Pensavo proprio di assumere una
parrucchiera.»
«È brava. Lavorava in un famoso salone di bellezza di Ōsaka, ma si è
licenziata perché quel posto non faceva per lei. Adesso è impiegata nella
bottega gestita dai genitori. Pare che lì si trovi molto bene.»
«Oh, che peccato. Allora forse non verrà ad aiutarmi.»
«Proverò lo stesso a riferirglielo.»
«Grazie. A proposito, posso avere il tuo contatto? Questo è il mio QR
code» disse Jirō allungandomi il suo biglietto da visita.
«Sì, certo.»
Presi subito lo smartphone, inquadrai il codice e salvai il suo numero.
Sorridente, Jirō aggiunse: «È da tanto che ti conosco, finalmente ho il
tuo contatto. Ne sono felice».
Distolsi lo sguardo e iniziai a parlare per cambiare discorso.
«A proposito di quello che hai detto...»
«Che cosa?»
«Che sono severa.»
Jirō annuì. «Hai incontrato di persona Serikawa sensei e le hai detto che
il progetto non è stato approvato, giusto?»
Ero stata crudele come pensavo?
Abbassai lo sguardo avvertendo una fitta al petto.
«Non mi fraintendere. Pensavi che, incontrandola, l’avresti aiutata in
qualche modo solo se avessi percepito in lei un’intensa voglia di lavorare,
non è così? Ma quando ha sentito che il progetto non è passato, lei si è
rintanata in se stessa.»
Annuii alla sua spiegazione.
«E a quel punto tu l’hai guardata e giudicata pensando che non avesse
abbastanza passione.»
«Sì... forse.»
Non avevo riflettuto concretamente fino a quel punto, ma mi accorsi che
le cose stavano proprio così.
«È per questo che ho pensato che tu sia severa.»
«Ho sbagliato?»
«Non è una questione di giusto o sbagliato. Serikawa sensei ti avrà
sicuramente mandato quella bozza ricorrendo a tutto il suo coraggio.»
«Immagino di sì.»
“È per questo che non avrebbe dovuto rinunciare con tanta facilità”
pensai.
«Il coraggio racimolato è facilmente spazzato via dalla tempesta del
rifiuto. Solo le persone sicure di sé sono in grado di perseverare.»
Mi passò per la mente la sfavillante immagine della Serikawa di un
tempo.
Anche quando uno dei suoi lavori veniva cestinato, lei non demordeva:
“Allora, come posso fare per migliorarlo?”. Conquistata dal suo
atteggiamento, la ammiravo.
Grazie alle parole di Jirō, mi accorsi che all’epoca lei poteva comportarsi
così probabilmente perché, protetta dalla corazza della fiducia in se stessa,
brandiva la spada dei suoi meriti.
Jirō, le braccia conserte, continuò: «Però, sai, anche quello che dici tu ha
senso. Proprio perché ha trovato il coraggio e ha fatto tanto per poterti
incontrare, non doveva sprecare così quest’opportunità».
Sentivo che stava avendo dei riguardi per me. In difficoltà nel trovare
una risposta, ricambiai con un titubante cenno del capo.
«In ogni caso, Akari-chan, tu sei davvero vicina a Serikawa sensei. Non
è che anche tu sei una sua fan?»
«Ovvio che lo sono. Ma c’è un altro motivo...»
«Quale?»
«Ho un legame personale con lei.»
«Ah, davvero? E di che tipo?»
«La conoscevo fin da prima del suo debutto. Sembra che mi abbia
completamente dimenticata, ma io la ricordo bene. È da lei che ho appreso
quanto sia meraviglioso aiutare gli altri. Perciò, per quanto mi è possibile,
vorrei darle una mano...»
Era del tutto normale che lei non si ricordasse di me. Dal suo punto di
vista la nostra non era stata una relazione profonda.
Io, però, non l’avevo dimenticata, perché l’avevo sempre ritenuta una
splendida persona.
Un giorno avrei voluto dirglielo, ma non ci ero ancora riuscita.
«Uh, e non ti va di raccontarmi?» chiese Jirō, ansioso di sapere.
In quel momento, dalla porta giunse una voce maschile.
«Signora Nakayama.»
Mi girai e vidi spuntare il volto di un uomo sulla trentina con addosso un
completo. Era Tsukada Takumi, l’impiegato di un’agenzia pubblicitaria.
Erano forse sei mesi che non ci vedevamo.
Io di base ero a Tōkyō, mentre lui era stato trasferito nel Kansai come
responsabile del Giappone occidentale.
Quando mi spostavo per lavoro da quelle parti, spesso pranzavamo e
andavamo a bere qualcosa insieme. Avevamo dei rapporti abbastanza buoni.
Jirō alzò la voce con un «Uh!», poi aggiunse: «Tsukada! Figo come
sempre, eh?».
Tsukada rise scuotendo il capo.
«Tua moglie dovrebbe partorire a breve. Auguri!»
A quelle parole Tsukada ricambiò con un inchino imbarazzato. Poi,
rivolgendosi a me, mi domandò: «Signora Nakayama, la prego, potrei
parlarle un momento?».
«... scusi, ma a breve inizia la riunione.»
«Soltanto cinque minuti» insistette giungendo le mani.
«No, la riunione sta per cominciare. Mi spiace.»
Risposi meccanicamente senza nemmeno guardarlo negli occhi.
Nonostante provassi a mostrarmi calma, le mie mani furono scosse da un
lieve tremito.
Tsukada se ne andò deluso.
Quando scomparve dalla mia vista, tirai un sospiro di sollievo.
Jirō si lasciò sfuggire un colpo di tosse e, con le mani sui fianchi, disse:
«... Akari-chan, c’è stato qualcosa con Tsukada?».
Restai in silenzio.
«Hai avuto una relazione clandestina con lui?»
A quella domanda improvvisa alzai di scatto lo sguardo.
«Ma no, no! Non sapevo fosse sposato. Lui non porta la fede perché è
allergico ai metalli e non mi aveva detto che ha una moglie... perciò...»
Parlai tutto d’un fiato, meravigliandomi di essermi lasciata sfuggire una
cosa simile così d’impulso.
A parte la parrucchiera, la mia cara amica d’infanzia, non lo avevo detto
a nessuno. Rivelarlo a uno del mio ambiente era stato assolutamente
inopportuno.
Per giunta, fra tutti quelli a cui avrei potuto dirlo, avevo scelto proprio
Jirō...
«Siete stati insieme e tu non te n’eri accorta?»
«... non siamo mai arrivati fino a quel punto.»
Abbassai lo sguardo, non volendo mostrare gli occhi bagnati di lacrime.
«Ah, ho capito» annuì Jirō. Senza che io aggiungessi altro, aveva intuito
tutto.
«Dev’essere stato doloroso, anche troppo per una come te. Se ti va di
parlarne con qualcuno, io sono sempre qui» disse dandomi una pacca sulla
spalla.
Subito dopo il direttore della programmazione e lo staff di produzione
entrarono in sala riunioni.
«Devo andare. Mi raccomando.» Mentre Jirō lasciava la stanza
sventolando con grazia le mani, al suo posto entrò Ayukawa Satsuki.
Era un’attrice di venticinque anni. Più che una bellezza vera e propria,
era una ragazza carina.
Era popolare per il suo sorriso amichevole, capace di conquistare il cuore
di chi le stava attorno.
Solo qualche giorno prima era apparsa sui settimanali una notizia che la
vedeva coinvolta in una relazione con un attore sposato.
Il pubblico, che fino a quel momento ne aveva parlato bene, mutò
completamente atteggiamento, iniziando a scagliarle contro critiche feroci.
Giorno dopo giorno, in televisione come sui social non si parlava d’altro
che di quella storia.
La fuga di notizie doveva averla ferita profondamente. Lei, sempre così
vivace, sembrava ora un’altra persona.
Il colorito smorto, l’espressione tetra, la pelle e i capelli ormai privi di
luminosità: pareva che di colpo fosse invecchiata di cinque anni.
Era solita salutare gioiosa con voce squillante, ma quel giorno si sedette
dopo aver pronunciato un “buongiorno” appena percettibile.
Forse aveva intuito che le sarebbe stato comunicato il suo licenziamento.
Lo sguardo basso, stringeva forte i pugni sopra le ginocchia.
«Akari, rompi tu il ghiaccio?» mi bisbigliò il direttore. Annuii con il
cuore pesante.
Ebbi la sensazione di dover comunicare la seconda condanna a morte
della giornata.
2

Finito l’incontro, presi a camminare a passo svelto per i corridoi


dell’azienda con un retrogusto amaro in bocca.
Mi sentivo scombussolata, come se dovessi vomitare.
Mentre salutavo i colleghi che incontravo sforzandomi di sorridere,
pensavo soltanto di voler uscire il prima possibile.
«Ah!»
Appena lasciato l’edificio, emisi un profondo sospiro, quasi fossi tornata
finalmente a respirare.
Il sole era ormai tramontato, e attorno a me era già buio.
Di fronte ai miei occhi si apriva la grande via Karasuma. La strada, ai cui
lati si susseguivano le insegne dei ristoranti, era molto trafficata.
In fondo si trovava il Giardino Nazionale di Kyōto Gyoen.
Avevo pensato di prendere subito la metro dalla stazione Marutamachi,
poco più a sud rispetto a dove mi trovavo, ma non volevo tornare in albergo
con in petto una simile malinconia.
“Farò una passeggiatina” pensai entrando nel Giardino Nazionale.
Per gli abitanti di Kyōto il Giardino Nazionale è la “Residenza
Imperiale”: molti, infatti, ritengono che i due luoghi siano la stessa cosa. In
realtà, esiste una leggera differenza: la vecchia sede in cui viveva la
famiglia imperiale è la Residenza Imperiale, mentre il parco che la circonda
è il Giardino Nazionale.
Per quanto sia solenne, resta un semplice parco. Di regola non chiude
mai, e dunque è sempre possibile passeggiare al suo interno.
Il verde è ricco, vasto. Al suo interno si trovano una foresta, prati, un
laghetto e un tempio shintoista. Spesso ospita anche dei mercatini, ma in
quel momento, con il sole ormai tramontato, regnava il silenzio e non si
vedeva anima viva.
Andai a zonzo per il parco.
D’improvviso mi tornò alla mente quanto accaduto nella sala riunioni.
L’attrice Ayukawa Satsuki si era scusata in lacrime, come se fosse a una
conferenza stampa: “Vogliate accettare le mie scuse per il grave disturbo
che vi ho arrecato. La colpa è totalmente mia. È stata la debolezza del mio
animo a causare questa situazione”.
Quando le avevo riferito che per volere degli sponsor il suo
licenziamento era inevitabile, era scoppiata a piangere, come se si
aspettasse quelle parole.
Dopo aver singhiozzato per qualche istante, i pugni stretti e il volto
basso, aveva borbottato: “Posso capire che sua moglie e i suoi bambini
siano arrabbiati. Ma perché anche il pubblico, che non c’entra nulla, se la
prende con me? E poi in questa società ci sono un sacco di persone che
hanno relazioni illecite. Sono tutti complici! Ma io sono l’unica a subire un
simile trattamento, quasi avessi ammazzato qualcuno! Perché gli altri non
sono perseguitati allo stesso modo? Non riesco proprio a capirlo!”.
Doveva essersi trattenuta fino a quel momento, e subito dopo aver
pronunciato quelle parole abbandonò la stanza in lacrime.
Il manager si lanciò al suo inseguimento, ma non riuscì a fermarla.
Aspettammo nella sala riunioni che tornassero. Il manager, però, ci
scrisse: “Penso sia rientrata in albergo. Vi prego di andare, scusatemi”.
A quel punto sciogliemmo la riunione.
“Sono tutti complici!” Risentii le franche parole di Ayukawa Satsuki. E
provai una fitta al cuore.
Feci per abbassare gli occhi quando, udendo da qualche parte dei
singhiozzi, alzai il viso. Guardai nella direzione da dove avevo sentito
provenire il rumore e notai una donna seduta su una panchina.
Era buio e non si vedeva bene, ma sembrava che stesse piangendo.
La donna tirò fuori da una busta per la spesa una lattina di birra e se la
portò alla bocca.
Bevve con foga.
Forse una delusione d’amore?
Non volevo essere coinvolta in quella storia, così pensai di allontanarmi
subito. Ma proprio quando, in preda a quei pensieri, stavo per voltarmi e
andarmene, mi fermai.
Il vento spazzò via la spessa coltre di nuvole, svelando una magnifica
luna piena che illuminò la strada, permettendomi di vedere chiaramente la
donna.
Era l’attrice.
«Ayukawa...» mi lasciai sfuggire.
Nell’udire il suo nome, mi guardò e si alzò, dando l’impressione di
essere ubriaca.
«Ehi! Ma lei è la signora Nakayama! Tante grazie per oggi.»
Cercò di avvicinarsi con passo malfermo, ma finì con il sedere per terra.
Corsi da lei, la presi per le braccia e la sollevai lentamente.
«Tu-tutto bene? Il suo manager sarà sicuramente preoccupato.»
«Non si sta preoccupando affatto. La mia agenda si è svuotata di tuuutti
gli impegni.»
Allargò le braccia e, ridendo sguaiatamente, iniziò a girare su se stessa.
«Si fermi. Va tutto bene?»
«Sono ubriaca, sola, e qui non c’è anima viva. Ovvio che non vada per
niente bene. Sei più scema di quanto pensassi» disse ridacchiando, la mano
sulla bocca.
«Be’, se sta così bene, allora la lascio stare» replicai irritata, e feci per
allontanarmi.
«Senti, Nakayama, ma anche tu hai una relazione clandestina?»
Spiazzata da quelle parole, le mie spalle furono scosse da un fremito.
«Ero arrivata prima del previsto, e sono entrata nella sala d’attesa. Ma
dovevo andare in bagno e, passando di fronte alla sala riunioni, ho sentito la
tua conversazione con Jirō. Anche tu hai una relazione illecita, non è vero?
Sei stata proprio brava a licenziarmi. Com’è che si dice in questi casi? Hai
proprio una faccia di bronzo.»
Ayukawa scoppiò di nuovo a ridere.
«Non è così!» gridai a squarciagola.
La donna fu travolta dalle mie parole, quasi ne avesse avvertito la
perentorietà.
«Non è così. Non ho avuto una relazione illecita, nel modo più
assoluto!» continuai, tenendomi il capo con le mani.
«Ho... ho capito» borbottò Ayukawa, come se la sbronza le fosse
leggermente passata.
Fu in quel momento che intravidi con la coda dell’occhio una fioca,
pallida luce. Io e Ayukawa ci scambiammo uno sguardo, decise a
controllare cosa fosse.
Sotto un grande albero risaltava un caffè-roulotte.
Come se la vettura fosse appena giunta in quel luogo, una giovane
ragazza con indosso un grembiule blu scuro sistemò tavoli e sedie e posò di
fronte un’insegna: CAFFÈ DELLA LUNA PIENA .
«Certo che aprire a quest’ora...»
«Già.»
Io e Ayukawa ci guardammo di nuovo.
Quando tornai a guardare il caffè-roulotte, notai che al posto della
ragazza era apparso un gatto persiano bianco che fissava nella nostra
direzione, una zampa alzata in segno di invito.
3

Il Caffè della Luna Piena era spuntato improvvisamente nella desolata notte
del Giardino Nazionale di Kyōto, rischiarato da una fioca, morbida
illuminazione. Il bagliore dell’astro lunare lo investiva come un riflettore.
Mi giunse l’odore fragrante del caffè, che si avverte sempre quando si
passa di fronte a una buona vecchia caffetteria.
Il gatto, sistematosi sul tavolo preparato dalla ragazza poco prima,
continuava a fissarci. Indossava un grembiule blu scuro coordinato con
quello della giovane.
Attratta dall’aroma del caffè e dai misteriosi occhi dell’animale, mi
rivolsi ad Ayukawa e le proposi: «Che ne dice di una tazza di caffè per
smaltire la sbornia?».
«Volentieri.»
Richiamate dal Caffè della Luna Piena, ci dirigemmo quindi verso il
locale. Quando ci trovammo davanti al persiano, il gatto spalancò le fauci
come per miagolare: “Benvenute”.
Rimanemmo di sasso.
Che fosse il trucco di un ventriloquo?
Gettai d’istinto un’occhiata al locale.
Dalla finestra del bancone, un gatto bicolore ci scrutava con aria severa.
«Che sia un neko-cafe?» a
«Eh! Ma ha visto? I gatti parlano...»
Spaventata, Ayukawa Satsuki mi prese per un braccio bisbigliandomi
all’orecchio: «Signora Nakayama, penso che sia uno di quei programmi tv
dove si fanno scherzi. Stia al gioco».
Le sue parole mi convinsero all’istante: ma certo, una cosa del genere
era impossibile. Che vergogna non essermene accorta subito, eppure
anch’io lavoravo per la televisione.
Ayukawa si comportava da vera professionista.
Consapevole dello sguardo degli spettatori, ostentava un’espressione di
genuina meraviglia, grata di essere stata coinvolta in quel programma
proprio ora che era rimasta senza lavoro per via dello scandalo della sua
relazione.
Senza dubbio riteneva che quella potesse essere l’opportunità per
riprendersi dalla sua situazione disperata.
Lo sguardo fisso su di noi, il persiano rise. «Scusate se vi ho messo
paura. Io sono Venus e lavoro per il Caffè della Luna Piena. Lo chef in
questo momento è assente. I responsabili questa sera saremo io e Saturnus.»
Il persiano, quindi, si chiamava Venus.
Un nome altisonante che si addiceva perfettamente a quell’animale dagli
occhi gialli splendenti come l’oro e belli come Venere.
Doveva esserci qualcuno che parlava all’interno del locale, e la sua voce
usciva da un microfono nascosto nel grembiule del gatto.
Era impensabile che un animale sapesse recitare: si trattava senza dubbio
di un robot ben costruito.
Eppure, quel pezzo di moderna tecnologia mi lasciava sbalordita.
«Chiedo scusa, potremmo avere un caffè?»
Il persiano rispose rammaricato: «La politica del nostro locale esige che i
clienti non ordinino».
«Eh? Non posso chiedere ciò che voglio?» Sconvolta, Ayukawa
strabuzzò gli occhi.
«Esattamente. In compenso siamo noi a offrirvi dolci, piatti e bevande
preparati appositamente.»
Annuii e dissi: «In altre parole, ci affidiamo a voi».
«Proprio così. Prego, accomodatevi. Due vecchie conoscenze che non si
vedono da tanto tempo come voi avranno sicuramente tante cose di cui
parlare. Non ci sono telecamere in funzione, potete stare tranquille.»
Mentre lo diceva, ridendo scherzosamente, il persiano posò sul tavolo
due bicchieri d’acqua e poi rientrò nella roulotte.
Spalancai gli occhi stupita.
«Ha detto “non ci sono telecamere in funzione”.»
«Forse le tengono spente fino a quando non serviranno le bevande. È
talmente assurdo che dei gatti parlino che sicuramente sapranno che ce ne
siamo accorte.»
Così, come se niente fosse, Ayukawa si sedette al tavolo e bevve un
sorso d’acqua.
Presi posto anch’io e domandai perplessa: «E poi cosa avrà voluto dire
con “due vecchie conoscenze”?».
Ayukawa scoppiò a ridere.
«Signora Nakayama, non lo sapeva?»
«Che cosa?»
«Noi due abbiamo frequentato la stessa scuola elementare.»
Sbattei le palpebre incredula.
A pensarci bene, avevo sentito dire che Ayukawa era originaria di Kyōto.
«Ayukawa Satsuki è il mio nome d’arte. Del resto, forse è normale che
lei non si ricordi. Da bambina ero un tipo malinconico che nessuno notava.»
Senza nascondere il mio interesse le chiesi incuriosita: «Noi due
eravamo amiche?».
Scuotendo il capo, rispose: «Io sono più piccola, perciò eravamo in
classi diverse. Praticamente non avevamo alcun rapporto. Io però mi
ricordo di lei perché era a capo del gruppetto di bambini al ritorno dalle
lezioni».
Se eravamo di anni diversi, era naturale che l’avessi dimenticata.
Eppure, anche se da bambina era poco appariscente, doveva pur sempre
essere stata una che catturava l’attenzione.
Strano che non me ne ricordassi affatto.
Abbassai d’istinto lo sguardo scavando nella memoria. A quel punto lei
rise: «Da bambina ero molto robusta. Camminavo così lentamente da essere
un peso per tutti».
Sollevai il viso, ricordandomi all’improvviso che c’era una studentessa
più in carne fra i bambini delle classi inferiori.
«Mi è tornato vagamente alla memoria. Lei ora è in splendida forma.»
«Quando entrai al liceo, non mi piacqui più com’ero e iniziai a fare
jogging, l’unico sport per cui non servivano soldi.»
In contrasto con i lineamenti morbidi e graziosi aveva un corpo
estremamente tonico. Aveva persino pubblicato dei libri di fitness.
«Signora Nakayama, lei dà ancora l’impressione di essere la “prima
della classe”» aggiunse Ayukawa sorridendo nostalgica.
Imbarazzata, mi sottrassi al suo sguardo e bevvi un sorso d’acqua.
«Se ha finito col fare la mia stessa cosa, vuol dire che persino una come
lei si stanca a rigare sempre dritto.»
Toccata da quella insinuazione, ribattei: «Glielo ripeto: non ho fatto
nulla del genere».
Non riuscii a dire “relazione illecita” perché avevo la costante
sensazione che le telecamere fossero in funzione, anche se avrei voluto
ribadirlo a chiare lettere: “Non ho avuto alcuna relazione illecita”.
«Ayukawa, ascolti...»
«Ah, dammi del tu. E permettimi di fare altrettanto.»
A quella sua repentina richiesta mi ricomposi e dissi: «Se dici una cosa
del genere, vuol dire che hai avuto una relazione illecita perché eri stanca di
rigare dritto?».
Satsuki rifletté e, la guancia sul palmo, disse: «Sono cresciuta senza
padre. Non avevo una vita facile, la tv mi aiutava a dimenticare la realtà.
Guardare la televisione era il mio massimo divertimento, naturale quindi
che apprezzassi lo sfavillante mondo delle star».
Fece un sospiro profondo e proseguì: «Lui era ciò che avevo immaginato
come “papà ideale”. Ma ovviamente non era mio padre, e forse per questo
ne sono rimasta folgorata. Quell’uomo, il mio “papà ideale”, che per giunta
lavorava nel meraviglioso mondo della tv, divenne tutto ciò che volevo, e
non sono riuscita a trattenermi... L’ho amato in modo totalizzante, vinta dai
miei sentimenti per lui. Ero semplicemente felice, e non ho pensato
nemmeno per un attimo a sua moglie o ai suoi bambini. Non ho avuto un
padre perché il mio se ne era andato dopo aver tradito mia madre. Ho odiato
profondamente la sua amante, eppure ho finito con l’essere esattamente
come lei...».
Le lacrime le rigarono le guance.
Probabilmente anche lei stava pensando alle telecamere accese. Eppure,
in ciò che diceva non c’era la benché minima leziosità.
I nostri erano due casi diversi.

Da quando Tsukada Takumi era stato traferito a Kyōto si dava arie da


scapolo.
In più era stato lui a provarci con me.
Era intelligente e sempre ben informato su tutto, forse anche grazie al
suo lavoro di pubblicitario. Stare con lui regalava sempre nuovi stimoli.
Eravamo andati a pranzo insieme in diverse occasioni, e così, con la
massima naturalezza, avevo iniziato a guardarlo con occhi diversi.
Una sera mi chiese: “Oggi perché non beviamo qualcosa a casa mia?” e
io accettai docile l’invito.
Mi stavo avvicinando ai trent’anni, e cominciavo inevitabilmente a
pensare al matrimonio.
Arrivai persino a immaginare che se fosse stato con uno come lui,
impiegato in una grande agenzia pubblicitaria, anche la mia famiglia
sarebbe stata contenta. Solo una cosa mi preoccupava.
Lui ci sapeva fare con la gente, era intelligente e anche di bell’aspetto.
Era il tipo d’uomo che attira lo sguardo delle donne.
Temevo che avesse già una relazione.
Mi rincuorò non avvertire alcuna presenza femminile nell’appartamento
in cui viveva da solo.
Aprimmo i pacchetti di alcuni sfiziosi spuntini comprati in un centro
commerciale, stappammo una bottiglia di vino e ci mettemmo a conversare
di sciocchezze.
Parlammo anche di Serikawa Mizuki.
“In realtà, alle elementari ero una sua allieva” dissi.
Lui strabuzzò gli occhi sorpreso.
“In che senso? Teneva a scuola un corso di sceneggiatura?”
“No, faceva la maestra. Non era di ruolo, e in quanto supplente ci
riaccompagnava a casa dopo le lezioni.”
Ci scappò una risata e la conversazione si interruppe di colpo.
Nella stanza il televisore diffondeva la colonna sonora di Notting Hill, un
film che avevo visto tante volte.
Con delicatezza, lui mi abbracciò e appoggiò le sue labbra sulle mie.
Mentre ci baciavamo mi spinse giù.
Sotto il suo peso avvertivo una lieve paura mista a euforia.
In quel momento il suo smartphone vibrò. Era in modalità silenziosa, ma
quell’oggetto che tremava sul tavolo aveva di colpo rovinato l’atmosfera.
“Il cellulare sta vibrando” dissi.
“Non importa, sarà qualche collega ubriaco che mi scrive.”
Rimasi leggermente colpita dall’espressione infastidita con cui aveva
detto quelle parole.
Sentivo che invece si trattava di una donna.
“Sarebbe un guaio se fosse una comunicazione importante. Meglio se
rispondi.”
Presi l’apparecchio e glielo passai.
In quell’attimo, mi balzò agli occhi il messaggio comparso sullo
schermo del cellulare.

Queste nausee non mi fanno proprio dormire! Stasera bevi con i tuoi colleghi,
no? Non esagerare. Anche io vorrei un bicchierino, ma dovrò resistere fino a
dopo il parto e lo svezzamento.

Quando ripensavo a quel momento, un brivido freddo mi correva lungo


il corpo. Era la sensazione di essere stata spinta dal paradiso giù dritta
all’inferno.
«Incredibile, non credi? In poche righe c’erano tutte le informazioni che
mi servivano...» dissi a Satsuki con un sorriso amaro.
Takumi era sposato, e sua moglie aspettava un bambino. Seppi solo in
seguito che lei era rimasta a riposare nell’abitazione dei suoi genitori per
via delle violente nausee mattutine.
Senza saperlo ero entrata nella casa del marito di un’altra donna, e anche
se non avevamo concluso niente ci eravamo baciati e gli avevo permesso di
toccarmi.
Se in quell’istante il cellulare non avesse vibrato sarei sicuramente finita
a letto con lui.
«Akari, cosa pensi che avresti fatto se avessi saputo la verità dopo aver
stretto con lui un rapporto più intenso? E se ti fossi innamorata?»
Rimasi in silenzio.
Cosa sarebbe successo in quel caso?
Se avessi saputo del suo matrimonio dopo essermi perdutamente
invaghita, avrei portato avanti una relazione inconcludente e disperata solo
per amore?
«No, è impossibile. Anche se fossi innamorata, non riuscirei a portare
avanti una relazione con un uomo già sposato.»
Satsuki assunse un’espressione amara.
«Perché per te una relazione illecita è imperdonabile?»
«Sì, e non lo è solo una relazione illecita. Penso che anche l’infedeltà e
la disonestà lo siano.»
A quella mia decisa presa di posizione Satsuki scoppiò a ridere.
«Akari, sei sempre la stessa.»
«Eh?»
«Sulla via per la scuola c’era un piccolo attraversamento pedonale in un
punto dove non passava mai nessuno. Era il tipico incrocio dove se si
ignora il semaforo non succede nulla. E infatti nessuno ci badava. Solo tu
rispettavi imperterrita la regola. Da bambina ti ammiravo per questo.»
«E dopo invece hai cambiato idea?»
«Mi piace la tua serietà, ma sei anche così testarda.»
«Me lo dicono spesso» risposi con un sorriso amareggiato.
«È perché Saturno si trova nella sua prima casa. In questa situazione le
persone sono solitamente severe con se stesse» disse una voce maschile.
Voltandomi, vidi il gatto bicolore che reggeva un vassoio su cui erano
posate due tazze e una teiera d’argento.
«Saturno è nella prima casa?» domandammo io e Satsuki all’unisono.
Il bicolore annuì, posò le tazze davanti a noi e versò il tè.
«In questo momento lo chef astrologo è assente, quindi la spiegazione
sarà un po’ sbrigativa...»
Ciò detto, il gatto estrasse dalla tasca del grembiule un oggetto simile a
un orologio da taschino e premette il pulsante.
Di colpo il quadrante si illuminò, proiettando l’enorme immagine di
Saturno al fianco della luna piena.
Io e Satsuki spalancammo la bocca, sbalordite.
Tanto tempo fa mi era capitato di osservare il pianeta con il telescopio
astronomico della scuola, ma era la prima volta che lo vedevo così grande.
Gli anelli che lo circondavano erano stupendi.
«Fantastico!» disse Satsuki, gli occhi socchiusi, come trasognata.
«Saturno è un pianeta bello, ma anche molto severo» intervenne il
persiano con un risolino mentre reggeva il vassoio sulle zampe.
Un pianeta severo? Io e Satsuki manifestammo una certa perplessità.
«Vì, te lo ripeto ancora, mi offendi se mi dai del severo» disse il
bicolore, che per qualche motivo aveva incrociato le zampe con aria
scontenta.
Il persiano rispose rivolgendogli uno sguardo penetrante. «Certo, ma in
astrologia Saturno è il pianeta incaricato delle prove, non è così?»
«Più che delle prove direi dei compiti» rispose il bicolore senza indugi.
Il persiano, a quel punto, disse scoraggiato: «Saturno è come un
precettore nella vita della gente».
«Non posso negarlo.»
«Bene, almeno questo lo riconosci.»
Io e Satsuki non avevamo la più pallida idea di cosa stessero dibattendo i
due gatti.
«Ah, scusate. In base a quale casa ospita Saturno, l’astrologia permette
di conoscere le prove di una persona...». A una rapida occhiata del bicolore
il persiano si affrettò a correggersi: «... cioè, i suoi compiti».
Non capivo cosa intendesse con “i compiti di una persona”.
E, tanto per cominciare, cos’erano le case?
«Riguardo alle case, se osservate questo capirete subito di cosa si tratta.»
Il persiano afferrò l’orologio da taschino che il bicolore stringeva fra le
zampe e, avvitata la molla, schiacciò il pulsante.
Saturno svanì. Al suo posto apparve un’immagine simile al quadrante di
un orologio suddiviso in dodici spicchi.
Doveva essere un oroscopo.
Alla mia sinistra era segnalato il numero uno, seguito dai numeri
successivi in senso antiorario per ogni altro spicchio.
Il bicolore guardò il disegno e, con una smorfia, disse: «“Io”, poi
“denaro” e a seguire “conoscenza”... È una spiegazione alquanto rozza. È
stato omesso, ma la terza casa, segnalata solo con “conoscenza”, indica
anche i rapporti con i fratelli e le sorelle e le capacità di comunicazione».
«È vero, in effetti è molto più complicato di così, ma per il momento ho
provato a riassumerlo in modo che sia di facile comprensione» replicò il
persiano, senza curarsi granché dell’insoddisfazione mostrata dal bicolore.
Quindi tornò a rivolgersi a noi dicendo: «Il numero indica la casa. A
seconda del segno zodiacale in cui si trova la casa e del pianeta che ospita, è
possibile conoscere quali sono le nostre inclinazioni e cosa invece ci risulta
difficile, il tipo di persona da cui siamo attratti e anche le prove... o quelli
che possiamo chiamare i compiti della nostra vita».
«La prima casa, quella dell’io, cambia di connotati a seconda della
posizione del segno zodiacale. Quando è nell’Ariete esprime avventatezza,
se invece è nel Toro indica accortezza» intervenne il bicolore.
Sembrava che Satsuki non ci stesse capendo molto. Io, invece, in
qualche modo riuscivo a cogliere il senso del discorso perché in passato
avevo avuto un certo interesse per l’astrologia, e mi era capitato di leggere
diversi libri sull’argomento.
In realtà avevo finito per chiudere quei libri senza aver compreso
granché, ma le spiegazioni dei gatti mi sembrarono invece piuttosto facili
da seguire.

Ogni casa, dalla prima alla dodicesima, ha un significato diverso. A


seconda della data, dell’ora e del luogo di nascita di un soggetto cambiano
sia il segno zodiacale sia la posizione del pianeta corrispondente.
Ovvero...
«Vuol dire che in base alla casa in cui si trova Saturno è possibile sapere
quali saranno le prove nella vita di una persona, dico bene?» mormorai
senza pensarci, come se stessi parlando con me stessa.
Il persiano batté le zampe per darmi ragione, mentre il bicolore,
infastidito, sembrava volermi ricordare che avrei fatto meglio a dire
“compiti”.
«Per esempio, se Saturno si trova nella settima casa, quella del
matrimonio, significa che c’è un compito legato a quest’ultimo. La
preoccupazione per non essersi sposati, oppure un matrimonio fallito, o
ancora il tormento per un partner dalla personalità difficile. Chi si trova in
una di queste situazioni finisce con il pensare: “Perché i miei amici si sono
sposati senza problemi e conducono una vita felice mentre io soffro in
questo modo?”. Ma non c’è nulla che non vada. Tutto è riconducibile
all’inevitabilità di avere Saturno nella settima casa» argomentò il persiano
con un sorriso gioioso.
Io e Satsuki rimanemmo imbambolate. In effetti, il matrimonio cambia
radicalmente a seconda dei casi.
Ci sono persone che conoscono con estrema facilità il partner e
convolano a nozze senza problemi e con l’approvazione dei genitori di
entrambi. Ma ci sono anche coloro che incontrano solo ostacoli. Per
esempio quelli che fin dal momento in cui conoscono il partner faticano a
parlare di matrimonio e, quando finalmente ci riescono, intervengono i
genitori a opporsi. C’è poi il caso della cosiddetta coppia ideale, che si
sposa senza problemi, ma il cui rapporto peggiora dopo il matrimonio
determinandone presto la fine. Capita anche che una persona si imponga dei
limiti perché preoccupata dello sguardo di un partner dal carattere
problematico.
«Nel mio caso, Saturno si trova forse nella casa del matrimonio?» chiese
Satsuki con la massima serietà.
Il bicolore e il persiano scossero insieme il capo.
«Nel tuo caso, Saturno è nella sesta casa, “lavoro e salute”» disse il
persiano.
Nel cielo si illuminò la casa numero sei dell’oroscopo.
«La persona che ha Saturno nella sesta casa esegue spesso lavori
difficili. Ma la ferma consapevolezza di essere un professionista le permette
di affrontarli con incrollabile perseveranza. Probabilmente anche tu,
Satsuki, che da bambina eri più in carne, sei riuscita a modellare il tuo
corpo non solo per il tuo desiderio di raggiungere il mondo delle star
televisive, ma anche perché devi aver sentito di poterne essere parte.
Saturno è la stella dei “compiti”, per cui il giusto impegno sarà
ricompensato a dovere. Però...»
«Però?» Satsuki si sporse in avanti incuriosita.
«Fra i pianeti, è Venere a occuparsi dell’“amore”, della “bellezza”, degli
“interessi” e del “piacere”» proseguì il persiano con una zampa sul petto.
«E tu hai Venere nella dodicesima casa, quella del segreto.»
La dodicesima casa si accese.
«Coloro che hanno Venere in questa posizione» proseguì il persiano
«tendono a essere attratti dagli “amori segreti” e da molte altre simili
tentazioni. Lasciarsi trasportare può sortire effetti diversi a seconda degli
altri astri, ma nel tuo caso a prevalere è la caratteristica tipica di Saturno,
che si trova nella casa del lavoro, di rendere più ardue le prove. Ora è
proprio il caso di chiamarle prove, più che compiti.»
Il bicolore annuì remissivo.
Satsuki guardava turbata i due gatti. «È vero... Non è che io voglia avere
relazioni illecite, ma mi capita spesso di essere avvicinata da uomini
sposati. Provo nei loro confronti un fascino incomparabile rispetto agli
scapoli, perché questi ultimi non hanno alcuna restrizione.»
«Il fascino degli uomini sposati sta nel sostegno che dà loro il coniuge.
Proprio perché indossano vestiti di buon gusto e vivono una vita ordinata,
rasserenati dalla presenza di un partner, è normale che posseggano un
fascino di cui gli scapoli, con la loro vita solitaria, sono privi» spiegò il
bicolore.
A tanta freddezza, Satsuki non seppe cosa rispondere.
Capita spesso che mariti così affascinanti diventino poco interessanti nel
momento in cui divorziano e tornano scapoli.
«Allora era la moglie a far risplendere il fascino di quell’uomo. E io ho
cercato di portarglielo via» mormorò amaramente Satsuki mordendosi il
labbro.
Ci zittimmo.
Non riuscendo più a sopportare quel pesante silenzio, intervenni: «Il
fatto che Venere sia nella dodicesima casa non vuol dire che tutti finiscano
con l’avere relazioni illecite, giusto?».
Il persiano annuì. «Certamente. Venere nella posizione del segreto indica
anche altro. Può significare il sentimento per un collega di lavoro tenuto
nascosto a tutti, oppure l’amore non corrisposto verso il proprio insegnante,
o ancora il caso di coloro che, pur attratti da storie di amori illeciti, non
hanno nulla a che fare con avventure di quel tipo.»
Annuii a mia volta e porsi un’altra domanda: «Se si cade in errore una
volta, si può ancora aspirare a un amore felice e riconosciuto da tutti,
sempre che il proprio animo muti?».
Il bicolore fece cenno di sì e rispose: «Questo mondo è costruito su
regole speculari. Se si capisce questo non si avranno problemi».
«Regole speculari?» chiedemmo all’unisono io e Satsuki.
«Esattamente» replicò il persiano prima di mostrarci lo specchio
all’interno del coperchio dell’orologio. «Gli astri osservano relazioni illecite
e ingiustizie senza punire. Dal loro punto di vista, non esistono il bene e il
male.»
Accigliata, ribattei con agitazione: «Il bene e il male non esistono... ma
una cosa del genere...».
Questa volta il bicolore sentenziò prontamente: «C’è una legge speculare
che governa il mondo secondo la quale “le mie azioni si ripercuotono su di
me”. Se ferisco qualcuno subirò di sicuro una ritorsione contro me stesso.
Ciò si verifica anche nel caso di una relazione illecita. Più la famiglia
dell’amante è numerosa, più saranno le persone che avrò reso infelici. Ne
consegue che anch’io lo sarò».
Satsuki, amareggiata, si strinse fra le proprie braccia e pronunciò senza
forze: «Allora è inevitabile che il pubblico mi assilli con le sue critiche
feroci. Perché oltre alla moglie e ai figli di quell’uomo ho ferito anche molti
miei fan...».
Il persiano annuì appena. «Quello conta, ma bisogna anche considerare il
fatto che il cosmo sceglie spesso le persone famose.»
«Il cosmo sceglie le persone?»
A quella domanda rispose il bicolore: «Nel bene e nel male la gente
famosa viene eletta a modello. Le celebrità sono per tutti un esempio
positivo per poter condurre una vita bella e di successo, ma anche un
monito che mette in guardia dal commettere un’ingiustizia, per non fare una
brutta fine».
Quel ragionamento mi persuase.
Lo sconcerto per le relazioni illecite dei personaggi famosi, i loro guai
con la legge o l’uso di droghe a volte serviva a raddrizzare la coscienza
comune. Quegli scandali erano un avvertimento: “Se non vuoi essere
accusato e perdere tutto, non fare mai una cosa del genere”.
«Proprio come dice lui, a volte i personaggi famosi possono diventare un
buon esempio o un ammonimento. Satsuki, se pensi di voler continuare a
lavorare nel mondo della tv, d’ora in poi dovrai essere consapevole che,
qualunque cosa accada, tu sarai un esempio per gli altri» aggiunse il
persiano.
A quella gentile spiegazione, Satsuki abbassò lo sguardo e domandò:
«Posso ancora continuare a lavorare per la televisione?».
La sua voce tremava leggermente.
«Dipende da lei» infierì tagliente il bicolore.
Satsuki era ormai sul punto di piangere da un momento all’altro.
Il persiano diede un colpetto al bicolore. «Sei davvero cattivo.»
«Forse, ma è la verità. Le stelle non determinano il tuo futuro, si limitano
a sostenere l’avvenire che scegli.»
Sentii come se dinanzi a Satsuki si fossero spalancate due porte.
Varcando la prima avrebbe abbandonato il mondo della televisione,
avviandosi per una strada diversa. La seconda, al contrario, le avrebbe
consentito di proseguire la sua vita di attrice.
Ambedue le opzioni erano irte di difficoltà.
Indubbiamente, la scelta della televisione era quella più spinosa.
La stessa Satsuki lo capiva bene. Alzò il viso e, i pugni stretti in una
morsa, disse con convinzione assoluta: «Io... voglio continuare a fare
l’attrice. Ora tutti mi odiano, e forse il pubblico continuerà a lapidarmi. Ma
io voglio stringere i denti ed essere un’attrice».
Il bicolore, annuendo, replicò: «Se ha deciso così, deve proseguire con
impegno lungo il suo percorso».
Il persiano aveva detto che Saturno era duro come un precettore, ma il
bicolore lo era ancora di più.
Avrei voluto porgere una domanda al bicolore, ma avevo l’impressione
che avere a che fare con lui fosse difficile, così la rivolsi al persiano.
«Secondo l’astrologia, cosa sarebbe meglio fare quando ci si trova nel
vortice di una prova, com’è successo a Satsuki?»
«Quando non si è in grado di andare avanti, è importante anzitutto
conoscere se stessi. Questo non riguarda solo l’astrologia. Se si perde la
strada, ci si ferma e si guarda la mappa, no?» disse il persiano alzando uno
dei suoi piccoli artigli. «Nel caso di Satsuki, lei più di altri è allettata dagli
amori segreti, ma cedere alle tentazioni vorrebbe dire sicuramente perdere il
lavoro. Occorre sapere che queste due cose vanno di pari passo. E poi deve
convincersi che, in quanto personaggio famoso, la sua esistenza è vincolata
al dover essere un esempio per gli altri. Capito questo, ci si può preparare di
conseguenza.»
Doveva proprio essere così.
«Satsuki» disse il persiano appoggiando una morbida zampa sulla sua
spalla, «come ho detto prima, Saturno è l’astro delle prove. Queste, però,
non sono pareti, ma porte.»
Il bicolore annuì con decisione, mentre Satsuki strizzava gli occhi.
«Porte?» chiese lei.
«Sì. Superata una prova, una nuova porta si apre su un bellissimo
paesaggio. Saturno è severo, ma in realtà è anche un maestro giusto che
elargisce premi a coloro che dimostrano di impegnarsi» rispose il persiano
ridacchiando.
Il bicolore tossì per interrompere il collega e, guardando Satsuki,
aggiunse: «La strada che lei ha scelto non è per nulla agevole. Il castigo
sociale nei suoi confronti andrà avanti ancora, e ci vorrà del tempo perché
le acque si plachino. È una prova molto dura, ma se ritiene di voler
continuare a essere un’attrice, deve essere pronta a questo e mettercela
tutta».
Recependo le parole del bicolore, Satsuki, piegando il capo, rispose con
voce squillante: «Sì!».
Il suo sguardo, adesso, era totalmente diverso.
Il bicolore doveva essere Saturno, pensavo. Quindi il persiano era
Venere.
Mentre riflettevo, quest’ultimo mi rivolse la parola.
«E ora veniamo a te, Akari.»
Rabbrividii.
«Sì?» replicai d’istinto raddrizzando la schiena.
«Come ha già detto il mio collega, tu hai Saturno nella prima casa,
quella dell’“io”. Quelli come te sono diligenti, grandi lavoratori e,
soprattutto, severi con se stessi. Si incolpano costantemente, anche se
nessuno li accusa. Una situazione che a volte può essere difficile da reggere,
giusto?»
Mi si formò un doloroso nodo in gola.
Il bicolore, le braccia conserte, aggiunse: «Lei ha nella prima casa il
Leone. Poiché questo segno zodiacale esprime splendore, le persone come
lei adorano le cose eleganti. Perciò ha scelto di lavorare nel mondo dello
spettacolo». Il gatto annuì convinto alle sue stesse parole.
Il persiano batté le zampe come se gli fosse tornato in mente qualcosa.
«Il Caffè della Luna Piena ha preparato appositamente per voi dei dolci
speciali. Iniziamo da Satsuki.»
Portò un recipiente simile a un bicchiere, quindi estrasse da una borsa
frigo due tonde palline di gelato che rilucevano di un giallo brillante, quasi
fossero cosparse di polvere d’oro, e le mise nel recipiente.
Sembrava proprio una stella che brillava.
«È “gelato di Venere”, assoluta prelibatezza e vanto del nostro locale.»
Poi fu la volta del bicolore che, stringendo tra le zampe una caffettiera di
vetro, aggiunse: «Il suo dessert si chiama “affogato di stelle”. Mi permetta
di versare sul gelato del “caffè lunare”, un’altra squisitezza di cui andiamo
fieri».
Il gatto inondò di caffè il dolce.
A contatto con il liquido scuro, il gelato si ammorbidì e divenne ancora
più invitante.
Incitata dai due gatti ad assaggiare, Satsuki fece un leggero inchino col
capo e prese una cucchiaiata.
«Che bontà» le sfuggì. «La punta di amaro del caffè si sposa alla
perfezione con l’intensa dolcezza del gelato.»
“L’affogato di stelle” era forse un messaggio da parte dei due gatti.
Volevano dirle di non farsi vincere dalla dolcezza delle tentazioni e di non
dimenticare l’amarezza di quell’esperienza.
«E ora tocca ad Akari.»
Colta alla sprovvista dalla voce del persiano, mi voltai verso di lui.
Adagiata sopra un piatto bianco vidi una torta al cioccolato sormontata
da una palla di gelato alla vaniglia.
«“Fondente al cioccolato con gelato del plenilunio.” Permettimi di
cospargerlo con una densa crema al cioccolato.»
Così dicendo, il persiano versò la crema.
Già dall’aspetto sembrava delizioso.
I due gatti sorrisero invitandomi ad assaggiare.
Abbassai il capo per ringraziare e senza indugi impugnai il cucchiaio.
Tagliando la torta ne fuoriuscì il morbido cuore di cioccolato.
Avevo già l’acquolina in bocca.
Ne presi lentamente un boccone.
Il cioccolato della torta era più amaro di quanto pensassi: aveva un gusto
“da adulti”. Il freddo del gelato si combinava a meraviglia con l’intensa
dolcezza della crema. Mi comparve un sorriso sul volto.
«Buono, davvero buono.»
Lo ripetei due volte, tanto era squisito.
Ripensandoci, non ricordavo più l’ultima volta che avessi assaporato una
simile delizia.
Il bicolore mi guardò e rise.
«La luna piena ha anche un potere liberatorio.»
«Liberatorio?»
«Akari, è lodevole che lei cerchi sempre di essere nel giusto. Ma sappia
che c’è anche altro nella vita. A volte è importante lasciarsi andare» precisò
il bicolore con garbo.
Quelle parole mi toccarono nel profondo.
Mi sentivo sempre in colpa per essere stata sul punto di stringere una
relazione con un uomo sposato.
Un’amica fidata mi aveva detto: “Tu non lo sapevi, non puoi farci niente.
Non è colpa tua”.
Ma dentro di me mi chiedevo se si trattasse di un problema risolto solo
perché non lo sapevo. Con la massima spietatezza, continuavo a far notare a
me stessa che, pur avendo avuto il sentore che ci fosse un’altra donna, non
me ne ero accertata come avrei dovuto.
Da allora erano trascorsi sei mesi...
Il mio senso di colpa, però, non si limitava a quell’incidente.
Fin da piccola non perdonavo le mie trasgressioni, né i miei fallimenti.
«Sat, raramente sei così gentile» disse il persiano ridacchiando.
«Sat...» ripeté il bicolore, facendo una smorfia nel sentirsi chiamare così.
Il persiano non badò al permaloso bicolore e si voltò verso di me.
«È vero, è proprio come dice lui. È importante lasciarsi andare. Sei
troppo severa con te stessa e pretendi lo stesso dagli altri, ma non dovresti.»
Il mio cuore sussultò.
Tutti mi dicevano che ero intransigente con me stessa come con gli altri.
Inoltre, tendevo a detestare le persone che portavano a termine con facilità
quello che io non riuscivo a fare.
Non era che invidia...
«Per avere un animo generoso è importante coccolarsi senza riserve,
qualche volta. E i propri sentimenti non vanno ignorati, né ingabbiati nelle
maglie di un fin troppo rigido senso comune che ci creiamo da soli. Bisogna
liberarsi e sapersi accettare.»
Sentii di capire l’importanza del lasciarsi andare, e magari di avere pure
qualche vizio.
In fondo, l’eccessiva inibizione può portare a una vera e propria
esplosione, e quando ciò avviene ci si incolpa di nuovo, finendo in un
circolo vizioso.
È di gran lunga più salutare coccolarsi quanto basta e preservare la
generosità d’animo utile ad accettare le persone per quello che sono.
Ma l’altra cosa che mi era stata detta non riuscivo a comprenderla del
tutto.
Di cosa avrei dovuto liberarmi? Cosa avrei dovuto accettare di me?
Alla mia espressione perplessa il persiano, la guancia su una zampa,
disse: «Avanti, Akari, non sei forse innamorata?».
Strabuzzai gli occhi.
«Innamorata? Io? Ma se a lui ormai non ci penso affatto.»
Quell’uomo mi aveva deluso nello stesso istante in cui avevo capito che
era sposato e che me lo aveva tenuto nascosto. Ora che era passato del
tempo non provavo più niente, per lui.
«Ma non sto parlando di lui. Pensi di potermi ingannare?»
I suoi occhi dorati mi fissarono intensamente.
Sentivo che il gatto poteva scrutare fin dentro alla parte più recondita del
mio animo. Incapace di sostenerne lo sguardo, abbassai gli occhi.
«La persona che ami è un po’ al di fuori del tuo “senso comune”, e per
questo non accetti la cosa.»
Istintivamente fui scossa da un fremito.
Il persiano continuò: «Il tuo Saturno ti fa pensare che vorresti come
amante un membro dell’élite accettato da tutti. Ma la persona di cui ti sei
innamorata non rientra affatto in quella prospettiva. È per questo che lo
ignori ingannando te stessa. E invece dovresti proprio riconoscerlo».
Alle sue persuasive parole, mi venne in mente qualcuno.
Jirō, che col suo sorriso amichevole mi chiamava per nome, “Akari-
chan”.
«Sì, ma lui...»
Stavo per dire che sarebbe stato impossibile perché era un transessuale,
ma vidi il persiano guardarmi di sottecchi e non proseguii.
Proprio così. Jirō mi attraeva per l’atteggiamento nei confronti del
lavoro, per il fatto che era benvoluto da tutti e per la sua acuta perspicacia.
Poiché era un transessuale ritenevo che una relazione con lui sarebbe
stata impossibile. Avevo continuato a ignorare il mio cuore, al punto da
sentirmi a disagio anche solo vedendolo.
«Dovrei riconoscerlo anche se quella persona non prova per me
sentimenti d’amore?»
Di certo Jirō non pensava alle donne in quel senso.
Anche se mi fossi innamorata di lui, non avrei potuto fare nulla.
Il persiano fece un cenno di approvazione.
«Come ho già detto, quando perdi la strada devi fermarti e consultare la
mappa. Se non conosci te stessa e non accetti quello che vuoi, non potrai
compiere un solo passo di più.»
Era davvero così?
Prima di capire se lui fosse in grado di amare le donne, era necessario
che riconoscessi e approvassi i miei sentimenti.

Ero innamorata di lui...

Nell’istante in cui lo ammisi, avvertii un calore nel petto.


Involontariamente gli occhi mi si riempirono di caldissime lacrime che
mi rigarono le guance.
Piangevo non solo per quella nuova consapevolezza, ma anche per tutto
ciò che avevo trattenuto fino a quel momento.
Mi ero spesso frenata dal fare molte cose per via dell’eccessiva severità
che avevo nei miei confronti.
Anche io avrei voluto mangiare per strada con gli amici tornando da
scuola, tingermi i capelli durante le vacanze estive, farmi un piercing.
Invece non avevo nemmeno avuto l’ardire di provare interesse per quelle
“cose sbagliate” da cui mi ero esclusa, ed ero arrivata perfino a criticare
coloro che le facevano.
Mi era capitato di invaghirmi di un giovane teppistello, ma avevo messo
a tacere i miei sentimenti, convincendomi che mi piacessero invece i
ragazzi seri.
Da tutti considerata una ragazza “affidabile”, frequentavo solo persone
che dagli altri fossero considerate altrettanto “affidabili”.
Credendo innanzitutto che qualunque cosa, non solo l’amore, dovesse
essere giusta, avevo accantonato i miei sentimenti più genuini.
Ora, finalmente, mi accettavo per come ero davvero.
Forse ero sopraffatta dalla gioia, perché le lacrime non volevano saperne
di fermarsi.
«Akari, è meraviglioso che lei sia sempre stata una persona retta. Ma la
sua vita è come una trottola bianca e nera che, se fatta girare con abilità,
sprigiona tutti gli altri colori. È una questione di equilibrio.»
All’osservazione del bicolore, il persiano annuì e aggiunse: «Anche una
lavatrice, se la corichi su un fianco, non funziona come dovrebbe, non è
così?».
«Vì, ma che esempio è?»
«Ma come, mi sembrava così facile da capire.»
Io e Satsuki ridacchiammo al loro battibeccare.
«Prego, continuate pure» dissero i gatti rientrando nella roulotte.
Annuimmo entrambe e ci gustammo i dessert.
Erano talmente squisiti che ci ritrovammo a sorridere.
I dolci prelibati sono la delizia del corpo e del cuore.
Finito di mangiare, sospirai.
Senza pensarci, guardai Satsuki. Contemplava il cielo notturno con aria
soddisfatta e un sorriso liberatorio.
Anch’io dovevo avere un’espressione simile.
Calmata da quel dolce sopraffino, ero riuscita a conoscere meglio me
stessa, accettandomi per come ero. Svanì completamente il groppo che mi
chiudeva il fondo della gola, sparirono i pesi che gravavano sul mio cuore.
Ero immensamente grata ai due gatti.
«Grazie infinite» dissi.
Ma quando mi voltai, il Caffè della Luna Piena non c’era più.
«Eh?»
Sgranammo gli occhi stupefatte.
Nonostante fossimo convinte di essere state fino a quel momento sulle
sedie del locale, ci ritrovammo sedute su una panchina del Parco Nazionale
di Kyōto.
«Com’è possibile?»
Per essere un programma televisivo di scherzi era fatto fin troppo bene.
Satsuki al mio fianco fece una risatina.
«Non è che quei tassi ci hanno ingannato?»
«Tassi? Ma non erano gatti?»
Mi tornò in mente la figura scontrosa del bicolore.
Ci guardammo e scoppiamo a ridere.
«Il manager ha provato a chiamarmi parecchie volte» constatò Satsuki
controllando lo smartphone con un amaro sorriso.
«Bene, torniamo?»
Mi alzai e Satsuki mi seguì approvando.
«Akari, scriverò una lettera di scuse a sua moglie e ai suoi bambini»
annunciò mentre camminavamo. «Nonostante da piccola anch’io sia stata
infelice per colpa della relazione extraconiugale di mio padre, ho finito col
fare la stessa cosa. È inconcepibile. Non credo che mi perdoneranno, ma
voglio scusarmi.»
Annuii senza dire nulla.
«Poi terrò una conferenza stampa. Il pubblico è arrabbiato perché la
notizia di ciò che ho fatto ha offeso alcuni di loro. Ho ferito chi mi stava di
fronte. Mostrerò il mio pentimento. Forse per un po’ non avrò altre
scritture, ma se dovessi ricevere una qualche proposta mi ci tufferò con
tutto il mio impegno.»
Approvai la sua risoluzione.
«Metticela tutta, faccio il tifo per te.»
«Che bello, mi sento già più forte.»
«Sono felice che il mio sostegno ti sia di giovamento.»
«Anch’io tiferò per te. Ma chi è la persona che ti piace?» mi chiese,
smaniosa di sapere.
Tossendo, risposi: «Per adesso rimane un segreto».
Satsuki rilassò le spalle delusa.
«Va bene, lasciamo stare... Ma ho un favore da chiederti.»
Teneva lo sguardo basso, quasi le fosse difficile pronunciare quelle
parole.
Cosa voleva domandarmi? Desiderava che dicessi una buona parola sul
suo conto a qualche produttore di mia conoscenza?
Ma inaspettatamente propose: «Ti andrebbe di mangiare di nuovo
insieme un buon dolce, un giorno o l’altro?».
Sorrideva imbarazzata.
In quell’istante ebbi l’impressione di assaporare ancora il gusto delizioso
di quel prelibato dessert.
«Certamente» accettai decisa.
Il viso di Satsuki si aprì in un’espressione di pura felicità.
In quella strana notte di luna piena avevo conosciuto me stessa e iniziato
a camminare.

a. Caffetteria tematica in cui i clienti possono giocare liberamente con i gatti ospitati nel locale.
(NdT)
Capitolo 3
Vecchi incontri sotto Mercurio
Prima parte
Cream soda di Mercurio
1

“Cavolo, un’altra volta!” Mizumoto Takashi schioccò infastidito la lingua


grattandosi la testa davanti al PC .
«Mizumoto, cos’è successo?»
Yasuda Yūichi, suo amico dai tempi dell’università, nonché suo attuale
socio in affari, lo scrutava da dietro lo schermo del proprio computer.
«Una parte dei dati si è danneggiata.»
Mizumoto sbuffò sonoramente, lasciandosi andare sullo schienale della
sedia.
«Tutto bene?» chiese l’amico con il volto crucciato.
Mizumoto, con un riso amaro, replicò: «Certo che va tutto bene, tanto ho
il backup...».
«Meno male, mi hai fatto prendere un colpo!»
«Sì, però...»
In ogni caso, era una scocciatura. Ma non aveva bisogno di dirlo, era già
perfettamente chiaro anche al suo socio.
Mizumoto bevve un sorso di caffè senza aggiungere altro.
I due si trovavano in una stanza di un palazzo per uffici nei pressi della
stazione Umeda di Ōsaka.
Occupare un posto a Umeda poteva dare l’impressione di lavorare per
una compagnia importante, ma il loro era uno spazio grande appena una
trentina di metri quadrati. Mizumoto Takashi e Yasuda Yūichi gestivano da
soli una piccola azienda informatica.
Avevano chiamato la compagnia MY System, dalle prime lettere dei loro
rispettivi cognomi. Qualcuno scambiava la prima parola con il pronome
possessivo inglese “my”, ma la lettura corretta richiedeva lo spelling delle
due iniziali secondo la pronuncia dell’alfabeto anglosassone.
“Gestisci un’azienda informatica? Incredibile. Ma cosa fai esattamente?”
Le ragazze con cui usciva a bere gli rivolgevano quella domanda ogni
volta. Anche una vecchia amica incontrata qualche giorno prima gli aveva
chiesto la stessa cosa.
Le aziende di informatica non godono certo di cattiva reputazione, ma un
consistente numero di persone continua a ignorarne la vera funzione.
Mizumoto, formatosi come ingegnere per la sicurezza delle reti, si
dedicava alla messa a punto dei server di siti aziendali, della loro
costruzione, funzionamento e manutenzione.
Il suo socio Yasuda era nel ramo creativo. Ideava il design dei siti delle
compagnie e di recente aveva iniziato a occuparsi anche di social games.
Mizumoto aveva fondato l’azienda perché era stato colpito dalle parole
dell’amico: “Bisognerebbe mettere su una compagnia quando si è giovani e
ci si può permettere questo tipo di avventure. Non importa se dovessimo
fallire. In fondo, siamo solo degli studenti”.
Quella risoluzione sembrava aver portato buoni frutti, perché l’azienda
procedeva spedita, e al momento poteva vantare discrete entrate annue.
All’inizio lavoravano da casa, ma nell’impossibilità di evadere le tasse, e
per evitare di confondere la vita privata con il lavoro restando nelle
rispettive abitazioni, si erano sistemati in quell’ufficio a Umeda.
Il luogo, per nulla spazioso, era a malapena in grado di ospitare due
persone.
«Ah, cazzo. Devo per forza inserire di nuovo una parte.»
«Condoglianze» disse Yasuda a mani giunte, prendendo in giro l’amico.
Il carattere allegro, quasi burlesco, di Yasuda non era cambiato dai tempi
dell’università.
In realtà, sebbene fossero passati cinque anni dalla laurea, l’amico
veniva ancora scambiato per uno studente universitario.
Nel mondo dell’informatica, del resto, erano in molti a dare
un’impressione simile.
Mizumoto, al contrario, aveva un’aria composta, al punto che già da
studente veniva preso per un uomo in carriera.
Oltre a essere il fondatore dell’azienda, si occupava dei rapporti con i
clienti.
L’aspetto giovanile e apparentemente poco serio di Yasuda destava
preoccupazione durante gli appuntamenti di lavoro, ma quando si
presentava Mizumoto molti si tranquillizzavano.
Mizumoto pensava che a loro modo formassero una bella coppia.
Yasuda, le mani sui fianchi e l’aria contrariata, disse: «I problemi con i
dati sono un classico nel nostro lavoro, ma a te capitano un po’ troppo
spesso, non credi?».
«Eh, sì» rispose l’amico sospirando.
Mizumoto era consapevole che quegli inconvenienti gli succedevano più
spesso di quanto accadesse ad altri.
Come se non bastasse, per chissà quale motivo, si presentavano quasi
sempre insieme ad altri incidenti simili.
Quando capitava un imprevisto come il danneggiamento dei dati,
immancabilmente seguivano diversi altri problemi, per esempio il ritardo di
treni e aerei o il malfunzionamento nella ricezione di e-mail importanti, che
finivano nella posta indesiderata.
Preso da tali pensieri, e preoccupato che un’e-mail importante potesse
essere finita di nuovo nello spam, afferrò lo smartphone e controllò la posta
in arrivo.
«Ecco, come pensavo...»
Si portò una mano sulla fronte.
«Cos’è successo?» chiese Yasuda.
«L’e-mail di una mia conoscente era nella posta indesiderata.»
«Qualche contatto di lavoro?»
«No, una specie di amica, abbiamo frequentato la stessa scuola
elementare...»
Mentre parlava, Mizumoto si accorse di aver abbassato istintivamente il
tono della voce.
Yasuda si voltò con gli occhi scintillanti.
«È per caso la ragazza di quel famoso centro di bellezza di Umeda?»
«Ah, te ne ho già parlato?»
A quella domanda gli tornò subito in mente il giorno in cui l’aveva
incontrata.
Quella volta Mizumoto, stranamente allegro, ne aveva parlato con
Yasuda appena rientrato in ufficio.
Da allora erano passati forse un paio di mesi.

Mentre stava comprando un panino per la pausa pranzo, una ragazza


incontrata nel negozio gli aveva rivolto la parola.
“Sei Mizumoto? La tua famiglia ha un’impresa edile...”
Era una giovane dall’aria sorridente.
Mizumoto, che non aveva capito chi fosse, aveva istintivamente
aggrottato le sopracciglia.
Allora la ragazza si era affrettata ad aggiungere: “Chiedo scusa, devo
averla scambiata per un’altra persona”.
Lui aveva ribattuto a voce alta: “No, no. Mizumoto sono io e la mia
famiglia ha un’impresa edile... ma tu chi sei?”.
La giovane aveva spalancato i suoi piccoli occhi tondeggianti, poi era
scoppiata a ridere.
“Hai ragione, non puoi saperlo. Mi chiamo Hayakawa Megumi.”
Quel nome non gli diceva nulla, ma facendole qualche domanda aveva
capito che avevano frequentato la stessa scuola elementare.
A giudicare dall’aspetto avrebbe detto che fossero coetanei, ma lei aveva
tre anni di più.
In comune avevano solo il fatto di essere stati designati nello stesso
gruppo di bambini per il rientro a casa dopo le lezioni. Non era strano che
se ne fosse dimenticato.
Piuttosto, Mizumoto era sorpreso che lei si fosse ricordata di lui.
“Ma certo che mi ricordo di te. Quella volta è ancora impressa nei miei
ricordi... grazie per ciò che hai fatto” disse la ragazza.
Al sorriso della giovane Mizumoto non aveva reagito, limitandosi a
ricambiare con un ambiguo inchino.
Si ricordava di “quella volta”, ma non pensava che avesse fatto nulla per
cui essere ringraziato.
Poi la ragazza gli aveva detto che lavorava in un centro estetico lì vicino,
e senza aggiungere altro era uscita dalla panetteria.

Il suo negozio si affacciava sulla strada che lui percorreva di solito, perciò
in seguito era capitato spesso che si vedessero.
Quando lei lo notava dall’altra parte del vetro gli rivolgeva un sorriso.
Nel ricambiare il saluto, lui si sforzava di rimanere impassibile per
nascondere il suo imbarazzo.
Quel centro estetico era frequentato anche da uomini, e Mizumoto decise
che presto ci sarebbe andato per un taglio di capelli.
Negli ultimi tempi, però, non l’aveva più vista.
Forse era solo un caso che non si incontrassero più, magari era una
questione di turni, ma in cuor suo Mizumoto era preoccupato che potesse
essersi ammalata.
Poi aveva ricevuto da lei un’e-mail indirizzata alla sua posta aziendale.
Era stata spedita due giorni prima, ma non se ne era accorto perché era
finita nella posta indesiderata. La comunicazione iniziava così: “Gentile
Mizumoto Takashi dell’azienda MY System, è da tanto che non ci vediamo.
Sono Hayakawa Megumi, della tua stessa scuola elementare. Non sapevo
dove scriverti, poi ho trovato questo indirizzo”.
Effettivamente, non si erano scambiati i contatti.
Megumi doveva aver cercato il nome della sua azienda su internet.
“Per motivi personali l’altro giorno ho lasciato il lavoro al centro estetico
di Umeda.
“È una decisione temporanea, ma per adesso do una mano nel negozio di
parrucchiere gestito dai miei genitori.
“Come ho detto, si tratta di una sistemazione momentanea, perché c’è
una cosa che mi piacerebbe fare, ma ho bisogno di una mia home page
personale. Potrei chiederti qualche consiglio in proposito?”
Mentre leggeva l’e-mail, Mizumoto aveva il cuore in gola per
l’emozione.
«È da parte di quella parrucchiera?»
Alla domanda di Yasuda, la sua schiena fu scossa da un fremito.
La creazione di siti web era di competenza del socio, non sua. Tuttavia,
Mizumoto pensava di essere perfettamente in grado di creare un sito
personale, quindi tornò a guardare lo schermo.
«Dice che ha lasciato il lavoro al negozio di Umeda.»
Come se avesse perso interesse udendo quelle poche parole, Yasuda si
fece sfuggire un’espressione poco stupita e tornò a rivolgersi alla sua
scrivania, all’altro lato della stanza.
Mizumoto tirò un sospiro di sollievo e scrisse in risposta: “Va bene,
quando vuoi. Vengo dove preferisci”.
Inviò il messaggio solo dopo aver riletto diverse volte la sua innocente
frase. In quel momento Yasuda cacciò uno strano urlo: «Eeeh!».
«Cos’è successo?»
Mizumoto alzò il volto con un’espressione preoccupata.
«Stai un po’ a sentire» fece il collega, smanioso di parlare, «hai presente
il videogame che sto creando adesso?»
Yasuda mostrò lo schermo del cellulare.
Si vedevano in bella mostra le splendide illustrazioni di alcune figure
maschili divenute popolari. Erano personaggi del social game al quale
lavorava Yasuda.
Lui diceva di occuparsene, ma in realtà si limitava alla cura del design e
alla costruzione del sistema di gioco. La sceneggiatura non era di sua
competenza.
«Ultimamente la storia del finale secondario sta piacendo parecchio, e la
gente ha cominciato a parlarne.»
Mizumoto annuì. Anche lui sapeva che il gioco in questione era
diventato popolare per quel motivo.
In un videogame d’amore si sceglie un personaggio da conquistare, e
arrivare al personaggio del livello più difficile dovrebbe garantire il
percorso più appagante.
Ma capita che alcuni giocatori non riescano a sedurre quel personaggio,
oppure che intenzionalmente puntino a stringere una relazione con una
figura secondaria.
E proprio la storia di questo personaggio era diventata piuttosto
popolare, pur non avendo né l’aspetto incantevole degli altri eroi della
trama, né la loro ricchezza. Per di più, la sua vicenda non si concludeva con
una intensa scena d’amore.
Eppure, quel personaggio affascinava il giocatore, pronunciando nella
scena finale la battuta: “Sei la mia principessa. Il solo stare al tuo fianco mi
fa sentire come un re. Grazie dei meravigliosi momenti passati insieme”.
Rivolte queste ultime parole alla protagonista, si prodigava generosamente
in un nobile baciamano.
Sui social si diceva che la storia e il suo coraggioso personaggio fossero
meravigliosi. Ovunque si sentivano voci di giocatori entusiasti che
affermavano: “Voglio conoscere il seguito della loro relazione”, “Fateci
vedere una loro scena d’amore più appassionata!”, “Sarei disposta a pagare
un sovrapprezzo per sapere come continua”.
«Mi sembra che sia stata una certa SERIKA a occuparsi della
sceneggiatura, dico bene?»
Quale che fosse il ruolo di Yasuda, era la loro compagnia a produrre il
videogame, di conseguenza anche Mizumoto ne era al corrente.
«Esatto. Adesso viene il bello, tieniti forte» rispose Yasuda, e allungò lo
smartphone verso di lui.
Sul viso di Mizumoto affiorò una smorfia: così allertato non avrebbe
potuto stupirsi nemmeno se lo avesse voluto.
«Dato che è molto popolare, le hanno chiesto di scrivere il seguito della
storia secondaria. E la scrittrice ne è felicissima...»
«Be’, ovvio. Chi ha creato quella storia dev’essere contenta di tanto
successo» annuì Mizumoto.
«E poi è spuntato questo articolo» continuò Yasuda mostrando di nuovo
l’apparecchio al collega.
“Le coraggiose trovate a livello di trama e il batticuore che suscitano
hanno fatto spopolare sul web il finale alternativo. Dietro SERIKA ,
pseudonimo dell’autrice della sceneggiatura, si nasconde Serikawa
Mizuki!”
«Eh?!»
Senza pensarci, Mizumoto strappò il cellulare dalle mani dell’amico.
«Hai visto? Alla fine ti sei meravigliato eccome! La sceneggiatrice dei
nostri videogame è la stessa Serikawa Mizuki che un tempo ha avuto un
successo strepitoso. Questa sì che è una sorpresa, non trovi?»
Mentre annuiva sinceramente, Mizumoto lesse l’articolo.
L’autore del pezzo riportava che quando aveva contattato la popolare
sceneggiatrice SERIKA per avere notizie sul suo conto, lei aveva annunciato
di essere Serikawa Mizuki.
La scrittrice si era dichiarata felice per la popolarità della sua storia,
ideata con la speranza che anche il finale con un personaggio secondario
potesse divertire i giocatori, sia pure parzialmente.
«Sapevo che ti saresti sorpreso, ma così è troppo. Avanti, ridammi il
cellulare» disse Yasuda ridacchiando mentre allungava la mano.
Mizumoto gli passò in silenzio il dispositivo.
Era stupito che l’autrice fosse proprio Serikawa Mizuki. Fosse stata una
qualsiasi altra persona, anche uno sceneggiatore famoso, probabilmente non
si sarebbe meravigliato fino a quel punto.
Mentre Mizumoto si stringeva nelle spalle, lo smartphone squillò,
annunciando l’arrivo di un’e-mail.
Aveva fatto in modo che le comunicazioni che arrivavano sul PC
comparissero anche sul cellulare.
Controllando, notò che era da parte di Hayakawa Megumi.
“Grazie mille. Lunedì prossimo il negozio dei miei genitori sarà chiuso,
mi potresti raggiungere?”
Mizumoto, il volto sorridente, digitò svelto la risposta.
2

«Cazzo, di nuovo!»
Era lunedì, il giorno dell’incontro con Hayakawa Megumi.
L’appuntamento era in serata.
Mizumoto salì sul treno nervoso e inquieto.
Aveva deciso di lavorare da casa, impostando la sveglia del cellulare... o
almeno quella era l’intenzione, ma il dispositivo non aveva suonato e l’ora
in cui si era prefissato di uscire era passata da un pezzo.
Si era così preparato in fretta e furia, ma era incappato in una brutta
situazione: il treno, solitamente puntuale, era in ritardo per via della caduta
di un fulmine.
Finalmente era salito sul vagone e, pensando che sarebbe comunque
arrivato in tempo, si lasciò andare sullo schienale del sedile tirando un
profondo sospiro.
Per essere caduto un fulmine, il cielo era incredibilmente terso.
Mizumoto sapeva che il parrucchiere gestito dai genitori della ragazza si
trovava all’interno della via commerciale coperta Ōtesuji, nel quartiere
Fushimi di Kyōto.
Mizumoto viveva da solo a Ōsaka, nel quartiere Yodoyabashi. Da lì
aveva preso la linea Keihan, per arrivare alla stazione più vicina di Fushimi
Momoyama senza alcun cambio.
Eppure, per qualche motivo, la sveglia non aveva suonato...
Mizumoto prese il cellulare, rivolgendogli uno sguardo pieno d’odio.
Controllando di nuovo, gli parve di aver programmato l’orario senza
però attivare la sveglia. Non poteva credere di aver commesso un simile
errore.
I dati del lavoro erano danneggiati, aveva avuto problemi con la
ricezione delle e-mail e il treno era in ritardo...
Non era la prima volta che, all’improvviso, simili inconvenienti gli
accadevano uno dietro l’altro.
Usando lo smartphone, Mizumoto aprì la pagina social della sua
compagnia.
Il web era in fermento per la notizia di Serikawa Mizuki.
“Che sorpresa scoprire che la sceneggiatrice è Serikawa sensei.”
“Non mi stupisce, si vede che è fatto bene.”
“Non sto più nella pelle da quando ho saputo che ci sarà il seguito.”
“Sono già pronta a pagare il sovrapprezzo.”
Commenti del genere proliferavano.
“Certo che, se una che collezionava successi sta scrivendo le storie di
finali secondari sotto un altro nome, vuol dire che si è ridotta proprio in
miseria.”
Non mancavano i pareri negativi, ma nel complesso quasi non si
notavano.
“Serikawa Mizuki e Hayakawa Megumi...”
Aveva dimenticato Hayakawa Megumi, ma di Serikawa Mizuki si
ricordava eccome.
Rifletté sul fatto che i suoi continui guai con le macchine coincidessero
con il riavvicinamento a persone per cui provava una grande nostalgia.
Mizumoto socchiuse gli occhi rimuginando su quella stranezza.
Mancavano ancora venti minuti all’arrivo, quando il treno si fermò a una
stazione intermedia e una voce annunciò: «A causa del fulmine caduto si
sono verificati guasti nell’impianto elettrico di alcuni vagoni. Ripartiremo il
prima possibile, vi preghiamo di attendere».
Mizumoto si portò una mano alla fronte, sbalordito di sentir ancora
parlare di guasti.
Innervosito per la sua stessa impazienza, scrisse un’e-mail a Megumi,
comunicandole che per un guasto del treno sarebbe arrivato in leggero
ritardo.
Gli giunse in risposta: “Ricevuto. Vieni pure con comodo, non ti
preoccupare”.
Mizumoto abbassò le spalle, sospirando sollevato.
Il treno non accennava a muoversi, quindi decise di schiacciare un
pisolino.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, inquieto al pensiero che il
giorno successivo sarebbe andato a trovarla.
Incrociò le braccia e chiuse lentamente gli occhi. Avrebbe voluto
riposare giusto un attimo, ma cadde in un sonno profondo.
In sogno qualcuno gli scuoteva le spalle: “Su, dài, ormai ci sei”.
«Prossima fermata, Fushimi Momoyama.»
A quell’annuncio Mizumoto riaprì di colpo gli occhi.
Il treno si era rimesso in corsa senza che lui se ne fosse accorto, e ormai
era giunto a destinazione.
“Mi è andata bene, stavo per superare la mia fermata mentre dormivo.”
Nonostante il treno non si fosse ancora fermato, Mizumoto si alzò in
fretta tirandosi un pizzicotto fra le sopracciglia.
Non capiva se fosse stato un sonno leggero o profondo, ma sapeva di
aver sognato. Non riusciva a ricordarselo bene, ma doveva essere stato un
bel sogno.
3

Mizumoto scese dal treno. Normalmente sarebbe arrivato in un’oretta, ma


questa volta ci aveva impiegato mezz’ora in più.
Rispetto a come si sentiva prima di addormentarsi, adesso era veramente
un altro, raggiante di gioia. Si dice che un pisolino di solito fa bene alla
mente, e forse era stato per quello.
Dato che aveva avvertito Hayakawa Megumi del ritardo, uscì dalla
stazione con calma.
«Dicono che questa via commerciale coperta sia un po’ particolare.»
Così mormorando, si fermò a pochi passi dall’ingresso. Già che si
trovava lì, pensò di dare un’occhiata.
Di fronte all’arco che immette nella galleria commerciale Ōtesuji
passavano i binari del tram, e la barriera ferroviaria del passaggio a livello
ostruiva l’entrata.
Qualcosa di misterioso in quella scena lo eccitava, stuzzicando il suo
animo infantile.
Dando le spalle alla galleria commerciale, risaltava subito di fronte lo
svettante torii del tempio shintoista Gokōnomiya.
Sull’altro lato della strada si trovava invece un altro tempio shintoista,
denso di storia.
“Che bel posto.”
I suoi genitori in passato avevano abitato in una casa nel centro di Kyōto,
dove gestivano una piccola impresa edile. Ora però si erano trasferiti fuori
città.
Quando vivevano in centro, né i genitori né Mizumoto sapevano
guardare oltre l’orizzonte della loro realtà. Un cittadino dell’antica capitale
direbbe che “Fushimi non è Kyōto”, parole scherzose, ma non del tutto
errate.
Allontanandosi anche solo di un passo da Kyōto, si scopre che le varie
zone della città, centrali e periferiche, sfoggiano una propria cultura
caratteristica, e ognuna di esse possiede una particolare bellezza.
L’ingresso della via commerciale presentava un’insegna che ne
annunciava il nome: OTE OTESUJI .
Mizumoto entrò e si trovò in un’affascinante strada piena di negozi
all’antica che corrispondeva all’immagine che si era prefigurato.
“Che meraviglia” pensò.
Il posto, brioso, era immerso in un’atmosfera allegra.
Oltre alle caffetterie rétro che si aspettava di trovare, notò anche eleganti
caffè all’ultima moda. Negozi di dolciumi, panetterie, bar, supermercati,
farmacie... In quella strada si aveva tutto a disposizione.
Tra un negozio e l’altro si trovava anche il portone di un tempio
buddhista, il Daikōji.
Istintivamente, Mizumoto prese il cellulare per cercare informazioni.
All’interno del tempio erano venerati Amida Nyorai, Yakushi Nyorai e
Higiri Jizō, la divinità che assicura di esaudire le preghiere di un fedele in
un giorno stabilito.
Legato alla famiglia Fushimi, il tempio possedeva una lunga storia che
iniziava nel dodicesimo secolo, all’epoca di Kamakura. a
È tipico di Kyōto imbattersi in un tempio così antico all’interno di una
moderna via commerciale, come se fosse una cosa del tutto naturale.
Poco più avanti, Mizumoto scorse l’azzurra insegna del parrucchiere,
AKUA .
Come gli aveva detto Megumi, alla porta era appeso un cartello che
annunciava il giorno di chiusura.
Leggermente nervoso, Mizumoto bussò.
«Ah, prego! Entra pure.»
Era la voce di Hayakawa Megumi.
Mizumoto si inchinò e aprì la porta.
Era uno di quei parrucchieri all’antica, come se ne vedono tanti.
Megumi, con un grembiule nero legato in vita come se stesse lavorando,
gli sorrise.
Colmo di gioia per quella serena accoglienza, il ragazzo mutò subito
espressione quando si accorse che sulla poltroncina del negozio era seduta
una cliente.
La donna, sulla trentina, guardava lo specchio con un’aria leggermente
tesa.
«Mizumoto, accomodati pure sul divano della sala d’attesa. Aspettami
solo un attimo.»
Le mani giunte in segno di scusa, Megumi stava in piedi alle spalle della
cliente.
Mizumoto annuì e si sedette sul divano.
Megumi spruzzò sui capelli della cliente uno spray e li pettinò
energicamente. Con movimenti esperti, intrecciò le ciocche completando
l’acconciatura.
«Ecco, abbiamo finito» disse dandole dei colpetti sulle spalle.
«Megu, grazie. È... incredibile, basta un’acconciatura per farmi sembrare
totalmente un’altra.»
Pareva che la cliente fosse un’amica di Megumi.
«Certo, si dice che il pelo fa cambiare tutti» sentenziò Megumi con
l’indice alzato.
«Il pelo fa cambiare?»
«Gli uomini, le donne e perfino gli animali, tutti mutano radicalmente
aspetto se si aggiustano il pelo. In particolare, nel caso delle donne, si tratta
di sopracciglia, ciglia e capelli.»
Mentre parlava, Megumi diede forma alle sopracciglia con un pettinino
e, impugnato il piegaciglia, arricciò le ciglia.
Era proprio come diceva lei: solo per aver sistemato i capelli, le ciglia e
le sopracciglia, la donna che Mizumoto aveva visto poco prima sembrava
ora un’altra persona.
Guardava compiaciuta la sua bella immagine nello specchio.
«Grazie, davvero» disse infine.
«Ma figurati, grazie a te per avermi fatto ascoltare una bella storia.»
«Ma sono io che ti ringrazio. Pure Jirō sarà felice, con una brava come
te!»
«È un onore che tu mi dica così. Salutamelo.»
«Certo, lo farò.»
«Fra poco lo incontrerai. Probabilmente rimarrà di stucco nel vederti
così bella» commentò Megumi togliendole la mantellina.
La cliente scese dalla poltroncina annuendo impacciata, quindi aggiunse:
«Ci vediamo, allora».
«Sì, la prossima volta andiamo a mangiare insieme.»
«Con piacere.»
Ciò detto, la donna lasciò il negozio.
Dopo aver accompagnato l’amica alla porta con un sorriso, Megumi
guardò Mizumoto.
«Grazie per esserti preso la briga di venire, e scusami per l’attesa. Mi
avevi avvisato che avresti tardato, così ho deciso di fare l’acconciatura alla
mia amica. Lei, però, in realtà era venuta per parlarmi di lavoro.»
«Ma no, figurati. Anzi, ti prego di scusarmi.»
Megumi scosse il capo.
«Ti va un caffè?»
«Sì, grazie.»
«Come lo preferisci? Freddo o caldo?»
Aveva sete, quindi optò per il caffè freddo. Per allentare la tensione,
allargò appena il nodo della cravatta.
Indossava un completo formale perché era stato chiamato per una
consulenza di lavoro, ma in fondo non era quello il vero motivo. Mizumoto
era sempre stato insicuro riguardo al suo gusto nel vestire, e aveva pensato
che con un completo non avrebbe sbagliato di certo.
Megumi non attirava particolarmente l’attenzione, e se qualcuno
gliel’avesse chiesto, lui avrebbe risposto che non era neanche il suo tipo.
Eppure, dal giorno dell’incontro, non aveva smesso di pensarla
intensamente.
Il perché non lo capiva bene nemmeno lui.
Finalmente Megumi tornò al divano con un vassoio su cui era posato il
caffè freddo. Aveva già aggiunto il latte, che si andava lentamente
mescolando al nero del caffè.
«Ci ho messo latte e dolcificante, spero non ti dispiaccia. Ma se non lo
prendi dolce, questo lo bevo io.»
«Va bene così, il caffè caldo lo prendo senza niente, ma quello freddo lo
preferisco con latte e zucchero.»
Rincuorata, Megumi posò il bicchiere sopra il tavolino.
«“Caffè freddo con sciroppo dell’aurora.”»
«Eh?»
Mizumoto strizzò stupito gli occhi e Megumi si mise a ridere.
«Di recente ho fatto uno strano sogno in cui mi servivano un caffè
buonissimo. Sto cercando in qualche modo di ricrearlo, ma con scarsi
risultati...»
Nell’istante in cui Mizumoto udì quelle parole, gli tornò in bocca il gusto
di una bevanda dolce e frizzante.
Notando che il ragazzo taceva, Megumi si scusò sorridendo e disse: «È
proprio strano che ricordi il gusto del caffè freddo bevuto in un sogno, non
credi?».
Mizumoto, scuotendo il capo, rispose: «In realtà in treno mi sono
appisolato, e anche io ho fatto un sogno. Non lo ricordo bene, ma credo che
mi offrissero una bevanda... Ora che ne parlavi tu, mi è tornato
improvvisamente in mente il suo sapore squisito».
Megumi si sedette diagonalmente rispetto a Mizumoto e, con un’aria di
grande interesse, si piegò un po’ in avanti e chiese: «Che sogno era?».
Sorpreso, Mizumoto indietreggiò appena con la schiena.
«Proprio non riesco a farmelo venire in mente...» replicò.
Cosa aveva sognato?

a. Capitale del Giappone per più di cento anni, fino al 1333. (NdT)
4

Ora mi ricordo.
Anche nel sogno ero a bordo di un treno.
Risuonava da qualche parte la “Pastorale” di Beethoven.
Nello spirito di quella musica, il treno procedeva in aperta campagna.
“Come mai sta correndo per i campi?”
Mi sorse questo dubbio, ma non riuscii a trovare una risposta.
Tutto era avvolto da un forte bagliore, eppure il paesaggio pareva
ammantato dalla nebbia.
“Ah, certo, sto sognando.”
Il tremolio del vagone mi cullava piacevolmente.
“Sono mezzo addormentato, e sto sognando.”
Il treno proseguì fra il verde smagliante delle messi. Poi, finalmente, si
fermò al centro di quel panorama.
I passeggeri scesero gioiosi.
Anch’io mi alzai lentamente e uscii.
I campi si stendevano a perdita d’occhio, e in lontananza si scorgevano
le montagne.
Pensai confusamente che fosse un paesaggio già visto da qualche parte.
“Ma certo, assomiglia molto al posto in cui vivono i mei genitori.”
Mia madre e mio padre ora abitavano a Miyama, una frazione della città
di Nantan.
Quando frequentavo le scuole elementari ci andavo con loro in vacanza.
Contemplando quel dolce panorama, i miei genitori dicevano sempre:
“Quando saremo in pensione, vivremo in un posto così e ci godremo la
vita”.
Soffiava un vento fresco molto gradevole.
Sul verde sgargiante dei campi si allargava l’indaco del tramonto. In
cielo se ne stava sospesa la bianca luna piena. Sulla strada poco più avanti
si scorgeva un caffè-roulotte.
Di fronte alla vettura era stato sistemato qualche tavolo di legno, a cui
avevano preso posto i passeggeri del treno.
Capivo che c’erano delle persone accomodate solo perché scorgevo le
loro silhouette, ma non riuscivo a distinguerne i volti.
I sogni sono vaghi.
Mi sedetti a un tavolino per due rimasto libero.
A quel punto giunse qualcuno che mi posò davanti un bicchiere.
“Ecco a lei, ‘cream soda di Mercurio’.”
Nonostante tanto il paesaggio quanto le persone avessero dei contorni
poco definiti, la bevanda si distingueva nettamente. Era un autentico cream
soda con tanto di gelato sormontato da una ciliegina.
Diversamente da quello classico, tuttavia, la bevanda gassata non era
verde ma di uno splendido azzurro, e il gelato non era color vaniglia ma di
un grigio tendente al bianco.
Avvicinai il bicchiere e misi in bocca la cannuccia.
Il cream soda che mi scendeva giù per la gola aveva una piacevole
freschezza e la giusta dolcezza.
Proprio perché non era verde ma sfoggiava quella stupenda tinta azzurra,
la bevanda aveva un che di nostalgico e, al contempo, di nuovo.
Il gelato color grigio pallido era in realtà un sorbetto: il suo delicato
profumo di limone si sposava alla perfezione con la soda.
Incantato da tanta bellezza, mi giunse da vicino una voce femminile che
diceva amareggiata: “I problemi con le e-mail, i dati danneggiati, e ora
anche il treno in ritardo... pare proprio che Mercurio si muova all’indietro”.
Era come se avesse pronunciato i miei stessi pensieri.
Mi voltai istintivamente con la sensazione che qualcuno si fosse espresso
al mio posto, ma invece di una persona notai un gatto.
A giudicare dal soffice pelo bianco, poteva essere un persiano oppure un
chinchillà.
L’animale aveva parlato?
“Vì, ti prego! Non parlare come se fosse colpa mia.”
Di fronte al persiano sedeva un altro gatto.
Un siamese dagli occhi azzurri, la voce di un adolescente.
“Avanti Marc, non dico mica che è colpa tua.”
“Non mi piace Marc... non potresti chiamarmi Mercury?”
“Ma se anche tu mi chiami soltanto Vì.”
“Il tuo è un nome difficile.”
“Cosa avrebbe di difficile Venus?! Non è per nulla complicato da
pronunciare.”
“Intendevo tutt’altro.”
Pareva che il persiano si chiamasse Venus e il siamese Mercury.
Sebbene continuassi a vedere le persone attorno a me solo come
silhouette, i gatti invece li distinguevo perfettamente. I due animali per
giunta parlavano. Per essere un sogno era davvero strano.
E cosa significava “pare proprio che Mercurio si muova all’indietro”?
Istintivamente mi misi a fissare i due gatti. Venus se ne accorse e,
voltandosi verso di me, agitò una zampa.
Risposi impacciato con un cenno del capo e presi un altro sorso della
bevanda. Come avevo già notato, aveva in sé qualcosa di nostalgico, ma il
sapore era davvero ottimo.
“Il ‘cream soda di Mercurio’ è una bevanda nostalgica, perfetta per il
movimento retrogrado del pianeta. Solo lo chef avrebbe potuto idearla”
spiegò Venus mentre Mercury annuiva alle sue parole.
Intanto che i due gatti disquisivano a proposito della bevanda,
timidamente domandai: “Scusate... Anch’io ultimamente sto avendo diversi
problemi, ma cosa sarebbe il movimento retrogrado di Mercurio?”.
Avevo trovato il coraggio di rivolgere quella domanda solo perché ero
convinto di trovarmi in un sogno. Da sveglio, non sarei mai stato in grado
di farlo.
“Il movimento retrogrado di Mercurio indica la retrocessione del
pianeta” rispose Mercury.
A quella banale spiegazione, Venus fece una smorfia e aggiunse: “E
questa sarebbe una risposta? Il pianeta Mercurio passa circa tre volte l’anno
per un periodo di regressione”.
Inclinai il capo con aria interrogativa e dissi: “Ma i pianeti del sistema
solare non possono retrocedere”.
Mercury replicò: “Giusto, ma non è che Mercurio proceda davvero
all’indietro. Solo che, se osservato dalla Terra, si ha l’impressione che in
certi periodi vada veramente così. È una sorta di illusione ottica”.
Valutai quelle parole con scarsa convinzione, a braccia conserte.
“Sembra di vederlo retrocedere perché è il pianeta più prossimo che
orbita vicino al Sole, a una velocità diversa rispetto a quella della Terra. È
come quando sei sul treno o viaggi in autostrada e hai l’impressione che i
treni o le vetture che corrono vicino stiano andando all’indietro, nonostante
in realtà continuino nella tua stessa direzione” spiegò Mercury.
Quell’esempio così semplice mi fece finalmente comprendere. Convinto,
battei le mani e domandai: “E questa cosa accade tre volte l’anno?”.
“Sì, all’incirca, e ogni volta dura più o meno tre settimane.”
Proprio mentre stavo pensando che mi sembrava una durata
considerevole, Venus commentò: “Abbastanza a lungo, non credi? Mercurio
è la stella deputata all’elettricità e alla comunicazione. Quando dalla Terra
si scorge il pianeta muoversi in senso retrogrado, vuol dire che la sua
energia esercita un effetto contrario. È per questo che durante quel periodo
si verificano facilmente guasti agli apparecchi elettronici e sorgono
problemi nelle comunicazioni. Può capitare che un’e-mail non giunga a
destinazione o che l’aereo o il treno faccia ritardo, come ti è accaduto”.
Mi sfuggì un’esclamazione di stupore.
Ripensandoci, in effetti, gli inconvenienti ai dati o alle comunicazioni di
solito andavano avanti per quasi un mese. Poi, a un tratto, dopo giornate di
nervosismo, svanivano e la situazione tornava alla normalità come se nulla
fosse accaduto.
“Ah, allora è così. Il fatto che ogni tanto quelle cose capitassero una
dietro l’altra dipendeva dal movimento retrogrado di Mercurio...”
Provai a convincermi, ma mi rimase sul volto un’espressione di
perplessità.
“Ma allora perché il mio partner Yasuda non ha mai di questi problemi?”
domandai.
Gli inconvenienti mi perseguitavano, i dati si danneggiavano e i treni
ritardavano, ma tutto ciò non riguardava minimamente il mio amico.
“Il fatto è che alcuni subiscono facilmente l’influenza del movimento
retrogrado, altri invece non ne sono così condizionati. Dipende dal periodo
e dalla posizione delle stelle. Tu potresti risentire del potere del pianeta
perché lo ospiti nella sesta casa. Danni e benefici vanno sempre insieme,
non lo sai?” disse Mercury senza esitazioni.
“Cosa vuol dire che Mercurio è nella sesta casa?”
Venus rispose alla mia domanda: “È un fatto di astrologia. La sesta casa
indica il lavoro e la salute. Nel tuo caso, Mercurio si trova lì. È per questo
che sei molto portato come ingegnere informatico, una professione che
riguarda l’informazione e la comunicazione. Solo che, per lo stesso motivo,
tendi facilmente a subirne l’influsso”.
Annuendo, cercai di riordinare mentalmente quelle parole.
“Mercurio è nella sesta casa, quella del lavoro. Perciò più di altre
persone godo dei suoi benefici, ma sono anche sotto gli effetti negativi
causati dal suo movimento retrogrado.”
Continuavo a non capirci granché, ma mi convinsi per il momento che le
cose dovevano stare così.
Pensai che, se più di altri mi trovavo sotto l’influsso del pianeta durante
il periodo di recessione, invece di lavorare sodo sarebbe stato meglio
prendermela comoda come stavo facendo in quel momento.
Osservai il paesaggio campestre che mi si estendeva davanti a perdita
d’occhio e inspirai profondamente.
“Potrei andare a casa dei miei, è da tanto che non ci torno” pensai.
All’improvviso fui colto da un dubbio e, guardando i due gatti,
domandai: “È meglio evitare gli spostamenti durante il periodo del
movimento retrogrado? Per esempio, sarebbe meglio non prendere l’aereo
perché c’è il pericolo che accada qualche disastro?”.
Venus fece una risatina.
“Ma no, non c’è alcun pericolo. Mercurio non è che un minuscolo astro.
Potrebbe ritardare il decollo o l’atterraggio, ma non ha l’energia sufficiente
per far cadere un aereo.”
A quella curiosa risposta, Mercury sbuffò innervosito.
Venus, incurante, proseguì: “Puoi viaggiare tranquillo durante il periodo
retrogrado, purché tu predisponga preventivamente le tue azioni e faccia più
attenzione del solito. E questo non riguarda solo i viaggi. Se sarai prudente,
eviterai i guai”.
Mercury annuì in segno di approvazione, quindi aggiunse: “Non avrai
problemi se ti muoverai considerando per tempo che si tratta di un periodo
in cui i problemi aumentano e i guasti accadono con più facilità del solito”.
Feci cenno di aver capito.
“Devo essere davvero uno che subisce senza troppe difficoltà l’influenza
negativa del pianeta. D’ora in poi controllerò in anticipo quando cade quel
periodo, e quando sarà il momento farò attenzione e mi muoverò per
tempo” pensai.
Mercury aggiunse: “C’è un’ultima cosa a cui devi stare attento. Metti in
conto di non essere adatto a chiudere contratti importanti”.
“Contratti?”
“Esatto, tienilo bene a mente. Durante le tre settimane del movimento
retrogrado puoi controllare al meglio i documenti, ma per la firma è
preferibile attendere la fine del periodo. E se proprio devi siglare un
contratto in quel periodo, allora, mi raccomando, massima attenzione.”
Annuii.
“Questi periodi di movimento retrogrado sono terribili” mi sfuggì
involontariamente.
Mercury si strinse nelle spalle imbarazzato, come se avessi parlato di lui.
Guardando l’amico, Venus scosse il capo e disse: “Non ci sono solo cose
spiacevoli. Sai, il movimento retrogrado di Mercurio...”.

«I sogni sono misteriosi.»


Quel commento di Megumi fece tornare Mizumoto in sé.
«... Eh, sì. È proprio vero.»
A bordo di un treno, aveva raggiunto dei campi in cui c’era un caffè-
roulotte dove aveva bevuto un cream soda di colore azzurro e parlato con
dei gatti... Non avrebbe potuto definire quel sogno in altro modo che
misterioso.
Trovava curioso, inoltre, che nel sogno avesse potuto distinguere alcune
cose chiaramente mentre altre erano rimaste offuscate.
Una volta ricordatosene, proprio come gli aveva detto Megumi sentì
vivido nella memoria il gusto della bevanda che gli avevano offerto. Inoltre,
adesso era consapevole di cosa fosse il movimento retrogrado di Mercurio,
un fenomeno di cui prima era del tutto all’oscuro.
“Decisamente strano” rifletté Mizumoto con le braccia conserte. “Cosa
mi aveva detto Venus? ‘Non ci sono solo cose spiacevoli. Sai, il movimento
retrogrado di Mercurio...’”
Aveva l’impressione che il seguito di quelle parole gli sarebbe potuto
tornare in mente da un momento all’altro, ma se si fosse sforzato per
ricordarselo con calma sarebbe caduto in un lungo silenzio, mentre lui in
verità non vedeva l’ora di sentire ciò che Megumi voleva comunicargli.
Quindi alzò il viso incrociando lo sguardo della ragazza e chiese: «E tu
invece che sogno hai fatto?».
Da un lato era desideroso di saperne di più sul conto di lei; dall’altro,
aveva una genuina curiosità di conoscere il suo sogno.
Megumi giunse le mani sopra le ginocchia e disse: «È grazie a quel
sogno che ho deciso di lasciare il mio vecchio negozio».
«Dici sul serio?»
Lei annuì, mostrando un sorriso colmo di gioia.
Seconda parte
Champagne con gelato al chiaro di Luna e Venere
1

«Ho lasciato il lavoro dopo aver fatto un sogno... Detta così sembra un
gesto rischioso. Ma non me ne sono pentita.»
Mentre Hayakawa Megumi parlava, Mizumoto annuiva in silenzio.
«Mi è sempre piaciuto acconciare i capelli alle mie amiche e farle belle,
quindi penso che la parrucchiera sia il lavoro che fa per me. Desideravo con
tutta me stessa trasferirmi in una grande città, ma, non avendo il coraggio di
sceglierne una come Tōkyō, ho pensato di lavorare nella zona di Umeda,
qui a Ōsaka, che per me è la metropoli per eccellenza del Giappone
occidentale. Ero felicissima di aver realizzato tutti i miei obiettivi.»
Aveva parlato con un tono gioioso, ma, giunta a quel punto, abbassò lo
sguardo.
«Nonostante facessi il lavoro che mi piace nel posto che avevo scelto, da
qualche parte dentro di me pensavo: “Ho l’impressione che qualcosa non
vada”. Ho sempre avuto la sensazione, impossibile da esprimere a parole, di
sentirmi fuori luogo.»
Megumi prese un lungo respiro e continuò: «È stato allora che ho fatto
quello strano sogno...».
I suoi occhi sembravano guardare lontano, e iniziò a raccontare.

Era un giorno qualunque in cui avevo finito di lavorare.


Diversamente dal solito, la manager del negozio aveva riunito lo staff
riprendendo tutti per il basso numero di prenotazioni.
“Hayakawa invece è molto richiesta. Imparate da lei a trattare con
gentilezza i clienti.”
Ero stata lodata davanti a tutti.
Alle parole della manager, i membri dello staff, compresi i veterani,
annuirono.
Sarei stata davvero felice se la cosa fosse stata vera, invece mi rattristai
molto.
Il lavoro mi piaceva, e non mi mancava una certa fiducia in me stessa,
ma sapevo di non avere abbastanza tecnica.
Ero richiesta perché ero una persona “gentile, con cui è facile
conversare”, ma rispetto agli altri dipendenti sapevo di non essere poi così
abile.
Mi lusingava che i clienti mi richiedessero, ma non avevo alcuna
intenzione di sforzarmi per raggiungere una posizione migliore.
Vagamente insoddisfatta, quel giorno non me la sentivo di tornare subito
a casa, e senza pensarci mi fermai in un bar, dove finii inavvertitamente per
bere troppo.
Uscita dal locale mi incamminai sulla via del ritorno.
Volevo solo passeggiare per le strade di Ōsaka, quando notai il negozio
dei miei genitori e capii di trovarmi nella via Ōtesuji.
Avrebbe dovuto essere ormai notte fonda, invece la luce era ancora
quella del tramonto.
A quell’ora della sera la via è sempre straordinariamente vivace, ma quel
giorno non si vedeva nemmeno un passante.
Un po’ turbata da un’atmosfera così inconsueta, proseguii comunque.
Giunta al negozio dei miei, vidi una donna che stava lì davanti. A
giudicare dall’aspetto, sembrava occidentale. I capelli ondulati erano
biondo platino, e nei suoi occhi azzurri scintillava una punta di oro.
Era stupenda.
Vedendomi, mi rivolse la parola.
“Chiedo scusa, lei lavora qui?”
“Sì, ecco, sono la figlia dei proprietari. Le serve qualcosa?”
La donna, abbassando lo sguardo, disse timidamente: “In verità, questa
per me è una serata molto importante, e avevo bisogno di un’acconciatura.
Ma vedo che il negozio è chiuso...”.
Sbirciai all’interno del locale poggiando una mano sulla porta. Era
giorno di riposo, e in effetti non vedevo i miei genitori. L’ingresso era
chiuso a chiave.
“È giorno di chiusura, e io purtroppo non ho le chiavi...”
La donna abbassò le spalle, delusa.
Mi sembrò strano che una donna talmente bella da sembrare un’attrice
fosse venuta nell’umile bottega dei miei genitori, e che per di più fosse
rimasta così delusa nel trovarla chiusa.
Ma, vinta da una gioia repentina, le proposi: “Se a lei va bene, posso
occuparmi io dei suoi capelli. Sono una parrucchiera, e ho qui con me gli
strumenti necessari”.
Al mio suggerimento il volto della donna si illuminò d’improvviso.
“Davvero? Ne sarei felice” disse.
“Ma dove possiamo andare...”
Mentre mi guardavo attorno, la donna disse: “Da quella parte si trova il
locale per cui lavoro. Potremmo sistemarci lì”.
Dopodiché, si incamminò con grazia.
“Lavora in questa strada?”
“Sì, ma solo per il momento.”
Capii subito dopo cosa intendesse dire.
Proseguimmo lungo la galleria e oltrepassammo l’ingresso del tempio
Daikōji: nel bel mezzo dello spiazzo che si trovava davanti al tempio era
parcheggiato un caffè-roulotte. Di fronte alla vettura erano sistemati alcuni
tavoli.
“Abbiamo preso in prestito questo posto solo per oggi” disse lei facendo
un risolino.
Un grande gatto tigrato con addosso un grembiule uscì dalla roulotte e
sistemò l’insegna del locale: CAFFÈ DELLA LUNA PIENA .
“Chef, ci sediamo a questo tavolo.” La donna si rivolse al tigrato alzando
una mano.
Pensai che il gatto fosse in realtà una persona che indossava un costume.
Poco distanti dalla roulotte si vedevano uomini e donne occidentali che,
seduti su sedie pieghevoli, parlavano fra loro tenendo in mano degli
strumenti musicali.
Un giovane dai capelli rossi stringeva una tromba, un bellissimo ragazzo
dai capelli color argento un flauto, una donna rotondetta dall’aspetto gentile
un violoncello; infine, un uomo dall’aria autorevole con un frac nero
impugnava una bacchetta da direttore d’orchestra.
Ma più di tutti mi attirò un’affascinante donna dai capelli lunghi e lisci.
Mentre la fissavo intensamente, sovrappensiero, la donna bionda con gli
occhi azzurri, accomodandosi sulla sedia, disse: “È bella, vero?”.
“Sì, ma anche lei lo è” risposi con sincerità.
Mi ringraziò sorridendo con uno sguardo felice.
“Siamo lo staff del Caffè della Luna Piena, e di tanto in tanto ci
raggiungono anche i membri dell’Orchestra della Luna Piena” disse lei a
mo’ di presentazione.
Osservai nuovamente quegli occidentali con gli strumenti musicali.
“Dunque loro sono tutti orchestrali” osservai.
“Non proprio tutti. Alcuni sono nostri amici che questa sera si
legheranno a noi” replicò la donna annuendo.
“Si legheranno...” ripetei inclinando appena il capo, non capendo
esattamente cosa volesse dire. Del resto, per quanto parlasse un ottimo
giapponese, era pur sempre straniera.
Intendeva forse dire che i membri dell’orchestra si erano riuniti lì quella
sera?
“La donna dai capelli neri è una cantante lirica, la nostra musa. Stasera la
accompagnerò con il mio violino” proseguì eccitata, le guance leggermente
arrossate.
Le sue parole mi fecero capire perché quel giorno, per lei, costituisse
un’occasione così speciale.
“Capisco. Le farò una acconciatura eccezionale.”
Annuendo con convinzione, aprii la borsa e allineai sul tavolo i miei
strumenti. Posizionai lo specchio a tre facce e misi la mantellina attorno al
collo della donna.
Le batteva forte il cuore per le aspettative e l’agitazione.
Anche il mio cuore aveva preso a correre, ma non per l’agitazione.
Ero sicura di poterla rendere meravigliosa.
Applicai con cura il trucco e iniziai a trattare quei capelli morbidi come
seta. Sotto le mie mani la donna diventava a poco a poco sempre più
affascinante. Assorta, continuai a truccarla e acconciarla. Poi, terminato il
lavoro, lasciai andare un lungo sospiro.
Solo allora mi accorsi che il cielo vermiglio si era tinto di blu.
La donna, sorridendo felice, si guardava riflessa nello specchio.
“Grazie, lei è davvero in gamba: mi ha reso stupenda” disse.
Scossi il capo e risposi: “Sono io a ringraziarla, è da molto che non mi
divertivo così...”.
Ero totalmente appagata. Ebbi la conferma di quanto mi rendesse felice
poter rendere bello qualcuno.
“Da molto, ha detto? Per caso... il suo lavoro non le piace?” mi chiese
preoccupata.
Non sapevo come rispondere.
“Mi piace tanto fare bella la gente. Perciò credo che la parrucchiera sia il
mio mestiere...” spiegai.
“E allora perché ogni giorno mi risulta così pesante?” mi domandai
abbassando la testa.
La donna, intanto, aveva rivolto lo sguardo alla cantante dai capelli neri.
“Lei prima eseguiva solo ballate, ma le erano venute a noia. Nonostante
amasse cantare, cadeva spesso in depressione. Poi un giorno provò a
intonare un brano lirico e, l’animo in subbuglio, concluse di aver trovato ciò
a cui voleva davvero dedicarsi. Forse anche tu sei in una situazione simile.”
Avvertii una scossa improvvisa.
“Grazie mille, Megumi” mi disse poi, quindi fece un inchino col capo e,
saltellando allegra, tornò dagli orchestrali.
Come faceva a conoscere il mio nome?
La mia perplessità svanì subito dopo, quando mi resi conto di trovarmi in
un sogno.
Nell’istante in cui la donna si affiancò alla splendida cantante dai capelli
neri, entrambe divennero due gatti. Un persiano dal pelo bianchissimo e un
gatto nero come la pece che mi stupì per il color porpora degli occhi.
I due mici, risplendendo d’una luce accecante, svanirono come se
fossero stati risucchiati dalla profondità della notte.
Attratta da quel fascio di luce che si allungava verso il cielo, alzai gli
occhi al firmamento.
Venere brillava al fianco di una maestosa luna piena.
L’uomo in frac agitò la bacchetta.
L’orchestra iniziò a suonare.
Si diffondeva dal cielo notturno un’incantevole voce accompagnata dalla
melodia di un violino.
Mi accorsi a quel punto che anche agli altri tavoli si erano accomodati
dei clienti, anche se, stranamente, scorgevo solo delle sagome, incapace di
distinguerne i volti.
Forse dipendeva dal bagliore della luna.
Il canto e la musica erano sublimi. Mi lasciai trasportare dalla melodia.
Ero sicura di aver già ascoltato quel brano da qualche parte.
“È Nessun dorma, dalla Turandot” puntualizzò lo chef, ovvero il gatto
tigrato, avvicinandosi con un vassoio.
Confusa, alzai lo sguardo. Lo chef, gli occhi sorridenti sottilmente
arcuati, posò sul tavolo un bicchiere da cocktail contenente una pallina
dorata di gelato sormontata da alcune foglioline di menta, quindi vi versò
sopra dello champagne.
“‘Champagne con gelato al chiaro di Luna e Venere.’ Lo assaggi assieme
a queste dolcissime fragoline.”
Cosparse di foglie d’oro, le fragole erano disposte su un piattino a lato
del bicchiere.
“Che lusso” dissi.
“Certamente. È in omaggio al concerto di Venus e Full Moon” replicò lo
chef ridendo.
Presi una cucchiaiata di quel gelato dal colore dell’oro. Un gusto di
pesca gialla esplose nella mia bocca.
Non era semplicemente “dolce”. Lo champagne e il profumo della menta
gli davano un sapore delizioso.
Ebbi la sensazione che fossero il dessert e il drink perfetto per un adulto.
“Ma questa... è una vera prelibatezza” mi lasciai sfuggire.
Il concerto proseguiva.
Gli orchestrali suonavano gioiosi i loro strumenti, il canto del gatto nero
era spensierato.
“Che voce meravigliosa... Sarebbe bello se anch’io incontrassi il mio
canto lirico, come è capitato a lei” mormorai.
A quel punto lo chef estrasse dal taschino l’orologio che portava appeso
al collo e disse: “Mi faccia vedere. Le posso leggere le stelle?”.
Acconsentii senza aver capito bene cosa avesse in mente.
Lo chef fece scattare l’orologio premendo un pulsante e rivolse lo
sguardo al quadrante.
In cielo apparve fluttuante un oroscopo.
Il tigrato guardò in alto e fece un cenno con la bocca, come se si fosse
convinto di qualcosa, poi commentò: “Lei ha Venere nella seconda casa”.
Infatti, nello spicchio indicato con 2 DENARO si vedeva il simbolo .
“La seconda casa, che indica il denaro e i beni materiali, ci insegna qual
è il modo per assecondare le nostre inclinazioni. Venere è la stella deputata
al piacere. Pertanto, lei prospererà se riuscirà a sfruttare al massimo ciò che
la diverte.”

“... ciò che mi diverte” bisbigliai con lo sguardo rivolto verso il cielo
stellato.
Senza dubbio il lavoro mi divertiva.
Ma allora perché ora lo trovavo così faticoso?
Mi vennero in mente due motivi. Il primo era che non potevo lavorare
seguendo il mio ritmo, e il secondo che avrei voluto essere apprezzata come
acconciatrice. Tagliare i capelli, infatti, non mi piaceva molto.
Proprio così.
Adoravo acconciare e truccare le bambine per la cerimonia in cui si
celebrano i tre e i cinque anni, oppure le ragazze in occasione della festa per
la maggiore età, o ancora le donne per matrimoni e servizi fotografici.
Ero sicura di poter rendere le mie clienti stupende.
I tagli invece non andavano mai come avrei voluto, e per me non erano
una cosa piacevole.
A detta del gatto, sarebbe stato meglio se mi fossi impegnata in ciò che
più mi divertiva, il che significava provare a restringere il campo ai lavori
che svolgevo con piacere.
Nell’istante in cui formulai quel pensiero, il mio cuore si alleggerì.
Il sole cominciò a sorgere, rischiarando il cielo blu della notte.
Era passato così tanto tempo senza che me ne fossi accorta?
“È l’alba, assaggi anche un caffè freddo.”
Lo chef, ridendo scherzosamente, posò davanti ai miei occhi un alto e
stretto bicchiere.
La bevanda aveva una tinta porpora vicina all’indaco.
Lui lo mescolò con uno sciroppo dolce biancastro.
“È sciroppo dell’aurora” spiegò.
L’intenso colore rosso porpora del caffè si schiarì a vista d’occhio.
Misi la cannuccia tra le labbra e presi un sorso.
Amarognolo, ma anche dolce.
Dolce come il sapore del risveglio.
“Squisito” dissi.
Il cielo si illuminava sempre più.
Abbagliata, socchiusi gli occhi.

«Al risveglio mi sono ritrovata sul letto della mia stanza.»


Megumi guardava Mizumoto, come a domandargli con gli occhi se il
sogno che gli aveva raccontato non fosse strano.
Mizumoto, teso, annuì impacciato.
«Oh, scusami, l’ho fatta troppo lunga?»
«Ma no» rispose lui pronto, scuotendo il capo.
Era rimasto senza parole perché il sogno della ragazza somigliava in
qualche modo a quello che aveva fatto lui.
«Ed è così che ho lasciato il lavoro al negozio» disse Megumi.
A quell’affermazione, Mizumoto alzò il viso e chiese: «Hai deciso di
dare una mano ai tuoi?».
“Nel negozio dei genitori probabilmente può lavorare nel modo che
preferisce” pensò il ragazzo. Ma in realtà le cose stavano diversamente.
«Certamente, sto aiutando come posso, ma ora sono una freelance.»
«Una freelance? Anche le parrucchiere possono essere freelance?»
«Sì. Per esempio, vado ai matrimoni o agli studi fotografici quando mi
chiamano.»
Mizumoto annuì.
«All’inizio ero convinta che non avrei avuto molto lavoro. Ma da quando
ho cominciato ho ricevuto diverse richieste. I miei genitori conoscono
un’acconciatrice che si occupa delle danzatrici e delle geishe di Gion, la
quale mi ha detto che, ora che sono una freelance, le avrebbe fatto piacere
se le avessi dato una mano. L’amica che hai visto poco fa lavora per la
televisione e, dato che lo stilista del suo studio è a corto di personale, mi ha
chiesto di andare da loro per aiutarli nei momenti di maggiore pressione.
Non è fantastico?» fece Megumi, gli occhi che luccicavano.
«Lo è senz’altro» rispose convinto Mizumoto.
Megumi sospirò.
«Ultimamente, però, non riesco a tenere in ordine i contatti e le
prenotazioni, e sto avendo continui problemi. È giunto il momento di avere
un sito tutto mio.»
Mizumoto capì finalmente il motivo per cui era stato chiamato.
Raddrizzò subito la postura, fissò la ragazza e disse: «In tal caso, lascia che
sia la mia azienda a realizzarlo. Ti farò il miglior prezzo possibile. Se scegli
uno dei nostri modelli preimpostati ti costerà molto poco».
«Lo apprezzo molto, grazie.»
«Come lo vorresti? Ho qui con me degli esempi.»
Mizumoto tirò fuori dalla borsa un opuscolo.
«Pensavo a qualcosa di semplice ma raffinato, una pagina web da cui i
clienti possano prenotare facilmente. Magari con il calendario in bella
vista.»
Mizumoto annuì e le mostrò alcuni campioni.
«Uno così?»
«Esatto, mi piacerebbe qualcosa del genere.»
«E dato che le acconciature sono la tua passione, che ne diresti di
mettere il video di una dimostrazione? Ovviamente è solo un’idea.»
«Sì, che bello! Sarebbe divertente proporre delle “acconciature facili”
nello stile delle “ricette in tre minuti”.»
«In tal caso, se collegassimo il sito ai social, credo che sarebbe ancora
più efficace.»
Mentre Mizumoto le suggeriva questo e quello, Megumi rise divertita.
«Ho detto qualcosa di strano?» chiese lui.
«No, scusami. Sono solo meravigliata che il piccolo Mizumoto sia
diventato così grande.»
Mentre Megumi rideva allegramente, Mizumoto sorrise imbarazzato.
“Lei si ricorda di me quando ero alle scuole elementari. A quell’età tre
anni di differenza sono molti, e adesso le sembra strano vedermi così”
pensò.
«A proposito, anche la mia amica che prima era qui tornava a casa da
scuola insieme a noi» disse Megumi come se le fosse venuto in mente in
quel momento.
«Davvero? Anche lei?»
«Sì, era la capofila.»
Quella precisazione non lo aiutò a ricordare.
«Scusami, ho completamente rimosso.»
«Certo, è del tutto normale. Quando noi facevamo la sesta tu eri in terza.
Ma ti ricordi invece della maestra Serikawa? Quella che ha cambiato lavoro
ed è diventata sceneggiatrice?»
«Ah, sì» rispose Mizumoto annuendo.
Non solo aveva ben presente chi fosse, ma per puro caso adesso ci
lavorava anche insieme.
Se la ricordava in particolare per un episodio che gli era rimasto
impresso nella memoria.
«Che nostalgia...» si lasciò sfuggire in un sussurro.
«Eh, sì» confermò Megumi alzando gli occhi al soffitto, come se stesse
guardando un luogo lontano.
2

Nonostante il periodo della scuola elementare fosse ormai un vago ricordo,


quell’episodio era ancora vivido nella sua memoria.
Il compito di accompagnare prima a scuola e poi a casa il loro gruppo di
bambini era affidato a una supplente di nome Serikawa Mizuki.
Solitamente, gli insegnanti scortavano gli alunni solo al rientro a casa,
ma siccome la maestra Serikawa abitava piuttosto vicino alla scuola, si
occupava di loro anche al mattino.
«Avete fatto i compiti?» domandava allegramente. Al ritorno, invece, si
divertivano a fare giochi di parole o a intonare canzoni.
Tutti le erano affezionati e si rattristavano quando era assente.
Accadde un giorno.
Giunto in un piccolo parco, il gruppetto di bambini si sparpagliò in ogni
angolo del giardino.
La maestra Serikawa guardava sospettosa una raffinata abitazione in stile
occidentale che si trovava su un lato del parco.
In quella casa viveva da solo un uomo anziano, un vecchietto dall’aria
elegante con i capelli bianchi, vestito sempre di tutto punto.
Si diceva che in passato avesse avuto una buona carriera come pianista,
esibendosi spesso all’estero.
Suonava ancora, e quando i bambini rientravano da scuola spesso
eseguiva un pezzo al pianoforte.
Dal parco, i bambini di prima e seconda tornavano a casa con i genitori
che erano venuti a prenderli.
La maestra Serikawa era solita scambiare con questi ultimi un cenno di
saluto sorridendo. Ma quel giorno non lo fece. Aveva lo sguardo fisso sulla
casa del vecchietto.
«Maestra, cosa c’è?» chiesero allarmati gli alunni delle classi superiori.
Al che Serikawa Mizuki tornò in sé e guardò i bambini.
«Quel vecchietto, a parte nei giorni di pioggia, spalanca sempre le
finestre per far cambiare l’aria, non importa quanto freddo faccia. La sera
poi si dedica alla musica. Quando non suona invece si occupa del giardino.
Ma sono due giorni che, nonostante il bel tempo, le finestre non si aprono,
non si sente il pianoforte suonare, e non lo si vede nemmeno in giardino...»
rispose, preoccupata.
Gli alunni inclinarono la testa con aria interrogativa.
«Davvero ogni mattina apriva le finestre?» chiesero. «Non è che forse è
in viaggio?»
La maestra Serikawa sorrise amaramente.
«Sapete, quel vecchietto ha salvato dalla strada dei gatti randagi» spiegò
loro. «In casa ne ospita molti, e lui diceva sempre che ormai non può più
viaggiare. Confesso di essere un po’ in pensiero...» Quindi si diresse verso
la piccola abitazione. «Provo a suonargli il campanello.»
Gli alunni la seguirono, quasi fossero irresistibilmente attratti da lei. Fra
loro, anche Mizumoto. Lui non se lo ricordava, ma c’erano anche Megumi e
Akari, che faceva da capofila al gruppetto.
La maestra prese un lungo respiro e suonò il campanello.
Non giunse alcuna risposta, ma alla finestra si affacciò una moltitudine
di gatti miagolanti che invocavano aiuto.
«Che guaio! È successo qualcosa, come pensavo.»
La maestra contattò subito la polizia, chiedendo di controllare l’interno
della casa.
Da qualche giorno il vecchietto era a letto malato e non poteva muoversi.
Fortunatamente arrivò un’ambulanza, e l’uomo venne portato in ospedale.
I gatti, come se non volessero abbandonarlo, continuavano a saltargli
sopra nonostante gli infermieri li scacciassero.
Lui, disteso, rivolse uno sguardo preoccupato ai suoi mici.
«Se desidera, posso occuparmi di loro fino a quando non sarà tornato a
casa» gli propose la maestra Serikawa.
Il signore la ringraziò, colmo di gioia.
I genitori rimasti nel parco, però, le dissero diffidenti: «Si è presa le
chiavi, ma se poi ci saranno dei problemi noi non vogliamo saperne niente».
La maestra Serikawa rispose sorridente: «È solo finché non sarà
tornato».
Così ogni giorno la maestra e gli alunni del suo gruppo si presero cura
dei gatti: davano loro da mangiare al mattino e alla sera e ripulivano la
lettiera.
«Forza micetti, il nonnino rientrerà presto.»
Così la maestra si rivolgeva agli animali mentre si occupava di loro.
Ma il vecchietto non fece ritorno.
Esalò l’ultimo respiro in ospedale, un mese dopo essere stato ricoverato.
Di certo i gatti, che erano saltati disperatamente sulla barella, se ne erano
accorti. Dovevano aver capito che non lo avrebbero più rivisto.
Dopo la morte, si seppero tante cose sul suo conto.
In passato aveva lavorato all’estero come direttore d’orchestra, poi aveva
lasciato quella carriera per diventare un pianista.
Non si era mai sposato, dedicando la sua vita completamente alla
musica.
Non avendo bambini, aveva raccolto quei gatti randagi, e si era preso
cura di loro come fossero figli suoi.
Il vecchietto aveva un nipote il quale, malgrado non gli fosse mai stato
molto vicino, ereditò il suo patrimonio.
L’uomo aveva intenzione di sopprimere i gatti per vendere la casa.
Serikawa e i suoi alunni si opposero disperatamente. La maestra
insistette per guadagnare tempo, convinta che avrebbe trovato dei nuovi
padroni per i gatti, ma il nipote del vecchietto, irremovibile, era determinato
a sbarazzarsi della casa il prima possibile.
I bambini si incupirono. Avrebbero tanto voluto salvare i gatti, ma
purtroppo nessuno di loro aveva la possibilità di accoglierli.
Allora Mizumoto si chiese d’improvviso se la sua famiglia avrebbe
potuto prenderli in affidamento. Corse a casa per consultarsi con i genitori.
Il caso volle che i due gestissero un’impresa edile fornita di un deposito
per gli attrezzi: qui si erano già sistemati per conto proprio dei gatti randagi,
che trascorrevano una vita spensierata.
La disperata richiesta di Mizumoto andò a buon fine. I suoi generosi
genitori acconsentirono, a patto che tutti i bambini si occupassero con cura
dei gatti finché non avessero trovato una nuova sistemazione.
Così, i mici si trasferirono provvisoriamente nel magazzino.
La maestra e gli alunni si presero cura ogni giorno di loro, e gli sforzi di
tutti furono ricompensati. I nuovi padroni vennero trovati senza alcuna
difficoltà, e ognuno dei gatti partì per la sua nuova casa.

«Quando tutti noi ci eravamo ormai rassegnati all’idea che purtroppo i gatti
sarebbero stati soppressi, tu, piccolo piccolo, tornasti al parco correndo e
dicesti: “La mia famiglia può prenderli in affidamento”. Me lo ricordo
benissimo. Ero talmente felice che stavo per piangere.»
Come se stesse rivivendo quel momento, Megumi appoggiò una guancia
sulla mano mentre i suoi occhi si bagnavano di lacrime.
Mizumoto, imbarazzato, abbassò lo sguardo.
In quel momento si ricordò.
Quando aveva detto di poter accogliere i gatti, una studentessa più
grande lo aveva ringraziato con gli occhi lucidi.
Anzi, non era solo sul punto di versare le lacrime. Piangeva a dirotto,
proprio come una bambina piccola.
Mizumoto era rimasto colpito da quella sua compagna di sesta
elementare, dunque più grande di lui, che singhiozzava in quel modo.
Quella ragazzina doveva essere Megumi.
«Forse i gatti ci sono stati riconoscenti per quella volta» propose
Mizumoto.
Megumi sbatté le palpebre sorpresa, e il ragazzo aggiunse: «Mi riferisco
al tuo sogno. Forse i gatti volevano ringraziarti».
Lei fece una risatina.
«Io ho solo aiutato come tutti gli altri, non ho fatto nulla per meritare la
riconoscenza di qualcuno. E poi, fra i gatti del vecchietto, non c’erano un
persiano così bello e un gatto nero con gli occhi porpora.»
Mizumoto concordò con un cenno.
I mici del vecchietto erano tutti a pelo corto.
«Allora forse i gatti hanno pregato la divinità felina affinché restituisse il
favore... che ne dici?» si lasciò sfuggire Mizumoto senza pensarci.
Megumi scoppiò a ridere e ribatté: «La divinità felina? Non mi sarei mai
aspettata parole simili da uno come te».
Mizumoto si sentì avvampare.
Effettivamente, non era tipo da dire simili fantasticherie.
«Se per caso i gatti hanno pregato la loro divinità affinché la gentilezza
ricevuta fosse restituita, allora tu dovresti essere il primo a vedere
ricambiato il favore.»
«Io?»
«Certamente. Sei tu che hai salvato quei micetti. Noi tutti invece, per
quanto fossimo tristi, non abbiamo potuto fare nulla...»
«Che esagerazione. Ho solo avuto la fortuna di avere un posto in cui
ospitarli» disse Mizumoto ridendo. In quell’attimo gli tornarono
improvvisamente alla mente le ultime parole riferitegli dal gatto.

“Non ci sono solo cose spiacevoli. Sai, il movimento retrogrado di


Mercurio è anche un momento di riflessione.
“Le cose non vanno bene soltanto se si procede in avanti. È un momento
in cui ripensare con nostalgia al passato, una fase decisiva per riconsiderare
noi stessi.
“Durante questo periodo si può tentare nuovamente ciò che in passato
non era riuscito e incontrare persone che non si vedevano da tempo. È
anche il momento della rivincita.”

“Proprio così” pensò Mizumoto, gli occhi socchiusi.


Aveva provato una fitta al cuore per quell’alunna più grande che aveva
pianto davanti a lui.
La differenza fra un alunno di terza e uno di sesta è grande, eppure lui
era stato colto dalla dolce e amara sensazione di voler proteggere quella
bambina.
Ancora non ne era consapevole, ma quello era stato il suo primo amore,
e ormai non poteva più frenare quel sentimento dolceamaro.
Erano passati più di dieci anni da allora, e adesso, per un’assurda
coincidenza, quella bambina, il suo primo amore, si trovava davanti a lui.
Quando l’aveva incontrata dopo tutto quel tempo, per un attimo non
l’aveva riconosciuta.
In realtà, però, la sua inconsapevolezza era solo superficiale:
nell’inconscio la ricordava con una nitidezza straordinaria.
Ecco perché, da quando lei lo aveva cercato, Mizumoto aveva
stranamente continuato a pensare a lei, al punto da non riuscire nemmeno a
dormire la notte, emozionato all’idea di poterla incontrare.

“Si può tentare nuovamente ciò che in passato non era riuscito. È anche il
momento della rivincita.”
Le parole dell’elegante persiano gli attraversarono la mente.
“Il gatto non solo mi ha insegnato a leggere le stelle, mi ha anche spinto
ad agire” si disse.

«... Forse il favore mi è già stato ricambiato» mormorò Mizumoto.


«Come? Che dici?»
«Sarà solo una mia impressione, ma...»
Mizumoto s’interruppe e si grattò la testa.
«Ma? Su, avanti.»
Megumi, gli occhi che brillavano, si sporse in avanti smaniosa di sentire.

“Forse lei potrà ascoltarmi senza dubitare.


“Oltre a quel sogno, ci sono tante cose che vorrei dirle.
“Come il fatto che esiste un periodo chiamato movimento retrogrado di
Mercurio durante il quale è facile incappare in problemi di comunicazione.
“E poi che non è solo una fase in cui accadono cose spiacevoli, ma è
anche il tempo in cui incontriamo persone che non si vedevano da tempo,
come la maestra Serikawa, di cui ho avuto notizie di recente.
“Ma prima di tentare un approccio e dirle: ‘Credo che tu sia stata il mio
primo amore’, è meglio aspettare che Mercurio torni a procedere in avanti.”
Con questi pensieri, Mizumoto guardò fisso Megumi e le sorrise
delicatamente.
Epilogo
1

Nell’istante in cui Serikawa Mizuki vide l’e-mail dall’azienda informatica


produttrice del social game, strinse i pugni esultando.
«Evviva!»
Lo schermo dello smartphone mostrava una richiesta che diceva: “Ci
stiamo occupando di un nuovo personaggio principale e vorremmo che lei
ne curasse la sceneggiatura”.
Era già soddisfatta di aver dedicato tutte le sue energie alla scrittura del
finale alternativo con il personaggio secondario e di aver realizzato un buon
prodotto, ma i risultati conseguiti avevano di gran lunga superato ogni sua
aspettativa.
Si parlava di lei sul web, ed era stata persino intervistata.
Pensando che fosse il momento giusto per farlo, ne aveva approfittato
per svelare la propria identità.
Era pronta alle critiche, che tuttavia quasi non ci furono, mentre incontrò
moltissimi pareri positivi.
Poteva ormai lavorare sulla sceneggiatura di un personaggio principale,
il suo obiettivo più immediato.
«Il mio attuale impegno forse porterà ad altro» gridò entusiasta mentre si
alzava per prepararsi un tè.
La stanza era sempre la stessa, un economico monolocale in affitto, ma
da quando si era imbattuta in quel misterioso caffè l’aveva rinnovata e
decorata al meglio, in modo tale che le piacesse nonostante le dimensioni
ridotte.
Stesa sul letto una coperta, vi allineò sopra i cuscini. Così, quando non lo
utilizzava per dormire, diventava un sofà.
Sistemò ai lati del piccolo tavolo da pranzo una pianta ornamentale e una
lampada da terra, soddisfatta che quell’angolo sembrasse l’interno di un
caffè.
Provò a rallegrare l’ambiente con i fiori, iniziando in verità con uno solo.
Non poteva permettersi delle tende nuove, ma sostituì le vecchie nappe
con altre più graziose.
Non beveva più dalla tazza acquistata frettolosamente al discount, ma da
una che le piaceva davvero.
“Vorrei circondarmi di oggetti che mi mettano di buon umore quando li
guardo. Il solo pensare in questo modo mi renderà via via più solare.
“Come ha detto il grande gatto tigrato, lo chef lettore di stelle, per me è
molto importante vivere in uno spazio gradevole.
“È chiaro: nella quarta casa, quella del focolare domestico, ci sono il
segno dell’Ariete e Venere.”
Versato il tè nero nella pregiata tazza comprata senza tentennamenti
assieme al piattino, si sedette al tavolo.
Osservando fuori dalla finestra, notò sulla ringhiera del balcone il tigrato
che aveva già visto una volta. Guardandola, l’animale miagolò quasi
volesse rivolgerle la parola.
«Chissà cosa stai dicendo.»
Le venne in mente l’anziano gentiluomo incontrato nello strano sogno.
“Cosa mi avrà detto?” Non aveva colto le sue parole, quindi era impossibile
saperlo.
Dopo qualche istante di riflessione, cambiò risoluta il suo stato d’animo,
avviò il computer e bevve un sorso di tè.
«Per prima cosa, le e-mail...»
Da quando si era imbattuta in quella strana lettura delle stelle aveva
iniziato a nutrire un sincero interesse per l’astrologia, e si era messa a
studiarla da sola.
«Mercurio è nel suo periodo di movimento retrogrado, meglio stare
attenti.»
Informandosi, aveva capito anche quello.
Durante quella fase del pianeta può capitare di provare a spedire un’e-
mail senza che questa arrivi a destinazione, oppure che altre comunicazioni
importanti finiscano nella posta indesiderata.
Un periodo un po’ fastidioso, ma anche il momento adatto per le
rivincite.
«Ecco la mia rivincita... Invierò ancora una volta il progetto alla signora
Nakayama.»
“Mi piacerebbe adattare all’era dell’Acquario la bozza che le avevo
mandato. Se solo riuscissi a comunicarle le mie intenzioni...” rifletté.
Controllando la posta in arrivo, ebbe un sussulto quando vide un’e-mail
proprio di Nakayama Akari.
«Che tempismo incredibile...»
Confusa, Mizuki l’aprì, e vide che conteneva la seguente richiesta: “Mi
spiace non averle potuto parlare con più calma l’altro giorno, nonostante la
sua disponibilità. In merito al progetto, in riunione lo hanno giudicato
antiquato, ma personalmente non lo considero affatto un cattivo lavoro. Le
sarei grata se potesse riscriverlo in modo più consono ai tempi correnti”.
Mizuki deglutì per la tensione.
“Incredibile, è davvero il momento della mia riscossa” pensò.
Il cuore le batteva forte.
“Ce la metterò tutta.”
Con uno sguardo intenso, Mizuki allungò le mani sulla tastiera e digitò
“Grazie mille”.
D’improvviso, le tornò di nuovo alla mente l’anziano signore, e riuscì a
ricostruire il suo labiale.
“Grazie.”
Ma certo, ecco che cosa le aveva detto.
2

Nakayama Akari aspettava Jirō seduta in un bistrot. Attraverso la grande


finestra che si apriva dietro il bancone poteva scorgere il fiume Kamo.
Il sole era tramontato, e in cielo galleggiava una splendida luna
tondeggiante.
«Anche oggi c’è la luna piena...»
Prese il cellulare per specchiarsi nello schermo nero.
La bella acconciatura realizzata dalla cara amica d’infanzia Hayakawa
Megumi la metteva leggermente in imbarazzo.
La bravura di Megumi si notava a colpo d’occhio. Forse sarebbe stato un
bene.
Annuendo, Akari sbloccò il telefono per controllare le notizie sul web: in
rete non si parlava d’altro che di Ayukawa Satsuki.
Dopo quella strana esperienza al Caffè della Luna Piena, Satsuki, decisa
ad ammettere tutto a qualsiasi costo, aveva tenuto una conferenza stampa.
Senza incolpare minimamente l’amante, aveva rivolto le sue più sentite
scuse alla moglie e ai figli di lui. Per le tante persone ferite da quella
notizia, la sua fu una sincera ammenda pubblica.
Ovviamente, molti fecero sentire la propria voce sostenendo che, per
quanto si fosse scusata, ciò che aveva fatto era imperdonabile.
Quella stessa sera, l’attore che era stato il suo amante respinse ogni
responsabilità dichiarando: “Come ha detto lei in conferenza stampa, è tutta
colpa sua. Io sono innocente”. A quel punto il pubblico smise di
perseguitare Satsuki, sfogando la propria ira sull’uomo.
Si scoprì inoltre che l’attore aveva delle relazioni anche con altre donne.
“Ayukawa Satsuki è solo una povera ingenua finita nelle grinfie di un
poco di buono.” Grazie allo sguardo empatico che il pubblico le rivolse,
Satsuki, piano piano, poté finalmente tornare in televisione.
La notizia sul web riportava che, ospite di un programma televisivo,
l’attrice aveva affermato: “Per un po’ di tempo, rinuncerò all’amore”.
Non mancarono commenti del tipo “Ma come si permette questa
adultera”, furono tuttavia più numerosi coloro che dicevano: “Brava, evita
le brutte compagnie e dedicati al lavoro”, oppure “La prossima volta,
attenta a non farti ingannare”.
Grazie a Satsuki, che aveva ricominciato a camminare a testa alta
nonostante le continue e aspre critiche, Akari si sentì spronata a mettercela
tutta anche lei.
Controllando le e-mail, vide la risposta di Serikawa Mizuki: “Grazie
mille. Mi lasci provare. Mi impegnerò al massimo”.
Sorrise.
«Ehi, Akari-chan, oggi sei strepitosa!»
Akari alzò il viso.
Era Jirō, lo stilista. In T-shirt e jeans, aveva un aspetto da duro.
«Jirō, buonasera.»
«Buonasera, posso?» disse lui sedendosi al suo fianco.
Ordinarono una birra artigianale e brindarono.
«Questa acconciatura me l’ha fatta Megu... l’amica di cui ti avevo
parlato.»
«La parrucchiera freelance che ha detto di potermi aiutare come
assistente?»
«Sì. Mi ha chiesto di dirti che ne sarebbe felice. Non vede l’ora di
incontrarti.»
«Anch’io. Che treccia incantevole, ti dona molto. Si vede che ci sa fare.»
Akari ringraziò impacciata.
«Akari-chan, ultimamente sei diventata bellissima. Non è che per caso ti
sei fatta il ragazzo e stavi sorridendo a un suo messaggio?»
«No, il messaggio era di Serikawa sensei.»
«Serikawa sensei sarebbe la persona che hai respinto l’altra volta?»
Akari annuì, poi disse: «Da allora ho pensato continuamente alle tue
parole...».
Jirō, sorpreso, si portò una mano sulla guancia.
«E cosa ti avrei detto?»
«“Il coraggio racimolato è facilmente spazzato via dalla tempesta del
rifiuto.” Poi hai aggiunto: “Solo le persone sicure di sé sono in grado di
perseverare”.»
Akari ci credeva davvero.
«Sono parole mie?»
«Sì, e mi hai accusato di essere severa con gli altri e con me stessa.»
«Ah, sì, quello me lo ricordo.»
«Sarebbe bello se, piano piano, smettessi di essere come sembro e mi
lasciassi andare un pochino di più. Forse lasciarmi andare non è
l’espressione giusta. Vorrei accettare i miei veri sentimenti, prendermi per
come sono. Mi piacerebbe cambiare atteggiamento, anche solo di poco...»
Jirō scoppiò a ridere.
«Ho detto qualcosa di strano?» chiese Akari.
«Quell’enfasi su “poco”... Penso che se non agirai davvero poco alla
volta non succederà nulla.»
All’allegria di Jirō, Akari contrappose un sorriso amaro.
«Sì, forse...»
«Ma è importante sapere che, sia pure a rilento, è possibile farlo.
Altrimenti farai la mia stessa brutta fine.»
«La tua brutta fine?»
Incuriosita, Akari rivolse lo sguardo al profilo di Jirō.
«Sono nato in una famiglia molto severa. I miei sono entrambi delle teste
dure e pretendevano che diventassi a tutti i costi un dipendente statale. Per
un po’ li ho assecondati, ma non riuscivo più a respirare. Quando ero al
liceo indossai d’impulso un vestito di mia sorella, cedendo a un oscuro
senso di immoralità. Ma mio padre mi soprese.»
«E poi cos’è successo?»
Akari si protese verso Jirō, il fiato sospeso.
«Il finimondo. Mi disse che ero una pervertita, una svergognata.
Anch’io, accecata dalla furia, gli ho gridato con voce acuta: “Proprio così,
in realtà io sono sempre stata una femmina!”. Allora mi ha picchiato con
tutta la rabbia che aveva in corpo e mi ha ripudiato» disse Jirō ridendo.
«E quindi cos’hai fatto?»
«Fino al diploma sono rimasta a casa di mia nonna materna. Poi, mentre
lavoravo da un parrucchiere, ho conseguito la licenza e grazie a varie
conoscenze fortunate sono arrivata dove sono adesso. Ecco la rivoluzione
della mia vita.»
«Fare la rivoluzione non dev’essere stato facile.»
«Certo che no. Ho ferito i miei genitori, ho mandato in pezzi la famiglia.
Ma se non avessi fatto nulla sarei andata in mille pezzi io. Ribellandomi,
sono riuscita a prendere in mano la mia vita.»
Jirō, ridacchiando, appoggiò la guancia su una mano e si strinse nelle
spalle.
«Ora parlo così, ma credo di aver commesso una cosa orribile nei
confronti dei miei genitori. Ci siamo riconciliati, ma non sono più tornata
da loro.»
«Ma se avessero rispettato i tuoi sentimenti, non avresti fatto nessuna
rivoluzione. Ciò che importa non è capire chi ha sbagliato...»
Jirō sorrise con gratitudine.
Mentre parlavano, Akari avvertiva un interesse crescente per la vita
amorosa di Jirō.
“Dipenderà da tutto ciò che ha passato, ma...” pensò.
«Senti, posso farti una domanda?» chiese infine dopo aver raccolto tutto
il suo coraggio. Allo sguardo interrogativo di Jirō, proseguì: «Il tuo modo di
parlare è femminile, ma lo è anche il tuo cuore?».
«Cosa intendi esattamente?»
«Mi chiedevo se ti piacessero gli uomini o le donne...»
Presa dalla foga, era riuscita a chiederlo. Ma mentre parlava si era già
pentita di aver toccato una questione così privata, e aveva abbassato il tono
della voce alla fine della frase.
Jirō scoppiò a ridere e la guardò di sottecchi.
«Eh, bella domanda... Tu cosa preferiresti?»
Quella replica fece accelerare il cuore di Akari.
«... che ti piacessero le donne.»
«Perché?»
Jirō guardava Akari con gli occhi sgranati.
«Come, perché...»
«Sai, per un attimo ho pensato che mi avresti chiesto di raccontarti
qualche storia gay.»
«Ma no, non è quello... è che...»
«Sei curiosa?»
Le sue domande incalzanti le bloccarono le parole in gola.
“Jirō è molto perspicace. Ha intuito i miei sentimenti e mi sta prendendo
in giro” pensò Akari.
Strinse i pugni e, facendosi forza, dichiarò risoluta: «Mi sono innamorata
di te».
Jirō, gli occhi spalancati, non riusciva a muoversi.
«Dici davvero? Non posso crederci» si lasciò sfuggire, rigido.
Akari si limitò ad annuire.
«Credevo che una come te non potesse sopportare qualcuno come me.
Cioè, nel caso io fossi un maschio.»
Sembrava proprio che Jirō, di solito così sveglio, non si fosse accorto di
nulla.
Era normale che la pensasse così.
Perfino Akari ci aveva messo del tempo per ammetterlo con se stessa.
Ma aveva deciso.
Voleva essere sincera.
Voleva imparare ad ascoltarsi e accettarsi per com’era.
Era ciò che contava.
«Forse io non faccio per te, ma tu mi piaci» disse tranquillamente.
Jirō si zittì.
“Cosa gli succede? L’ho messo in difficoltà?” si chiese Akari intimorita
girandosi verso di lui, che aveva il volto in fiamme fino alle orecchie.
«Jirō?»
«Un attimo, Akari, è proprio un colpo basso...» mormorò lui coprendosi
il viso con le mani.
Akari era confusa.
«Mi hai fatto venire il batticuore. Nel senso che tu dici, il mio cuore è
quello di un uomo...» borbottò Jirō come se parlasse da solo.
Questa volta fu Akari ad arrossire.
Al di là della finestra, ondeggiava nell’aria la melodia di un pianoforte
che suonava, quasi stesse dando loro la sua benedizione.
3

Il Caffè della Luna Piena si trovava su una sponda del fiume Kamo, che
scorreva rapidamente.
Di fianco al Caffè si udiva la serena armonia di un pianoforte.
I gatti camerieri del Caffè della Luna Piena misero a posto l’insegna e si
accomodarono sulle sedie, socchiudendo gli occhi, inebriati dalla musica.
Vicino al fiume trovava spazio un pianoforte a coda. A suonarlo era un
anziano gentiluomo.
Come sotto un riflettore, era illuminato dal bagliore dell’astro lunare.
Il brano: Salut d’amour di Elgar.
Terminata l’esecuzione, i gatti non lesinarono gli applausi e gli corsero
incontro.
Il distinto signore lentamente si alzò, accarezzò la testa e il mento dei
mici e si avvicinò al Caffè della Luna Piena.
Lo chef, il gatto tigrato, applaudì e posò sul tavolo un boccale.
«“Birra azzurra del firmamento”, prego» disse.
Di un colore che gradualmente sfumava dal blu notte all’indaco,
dall’azzurro all’arancione, la curiosa birra era tempestata di stelle della Via
Lattea.
Il signore, sul volto un grande e gioioso sorriso, si accomodò e disse:
«Avete anche sistemato l’insegna...».
«Si figuri, è il ringraziamento per averci fatto ascoltare la sua magnifica
esecuzione» replicò lo chef portandosi una zampa al petto.
«Era solo il mio ringraziamento per voi...»
«Un ringraziamento per noi?»
«Sì, grazie davvero per aver guidato quei bambini.» Dopo aver
pronunciato quelle parole, l’uomo si alzò e fece un inchino.
«Non ce n’è bisogno. Siamo profondamente riconoscenti a quei bambini
che hanno aiutato i nostri simili» rispose lo chef sorridendo. Poi, facendo
cadere lo sguardo sulla sedia di fronte all’uomo, aggiunse: «Permette?».
«Ma certo.»
Il signore e lo chef sedevano l’uno di fronte all’altro.
Davanti allo chef era posato un altro boccale di birra. I due brindarono.
L’uomo portò il boccale alle labbra e chiuse gli occhi per la sorpresa.
«Che gusto superbo. È come se ti pervadesse.»
«La ringrazio.»
«Che nostalgia. Anche la prima volta che l’ho incontrata ho bevuto con
lei una birra.»
«Davvero?»
«Sì, lei, quel gattone in cui mi imbattei in un angolo di Praga, mi offrì un
boccale dicendomi: “Si rilassi”. E questa birra è buona come allora.»
L’uomo socchiuse gli occhi con nostalgia.
«A proposito, all’epoca lei, un giovanotto nella sua fase marziana, era
direttore d’orchestra.»
«Avevo quarant’anni, ero confuso nel sentirmi chiamare da lei
“giovanotto”, ma ora che ci ripenso, all’epoca ero proprio un giovincello. In
effetti, mi ero fatto un nome come direttore d’orchestra. Ero molto esigente,
quasi dispotico. Finii col considerare i membri dell’orchestra semplici
strumenti per esprimere la mia musica...»
Ma poi fu l’orchestra a boicottarlo.
Lui aspirava soltanto a produrre la musica migliore, ma alla fine, vinto
dalla preoccupazione e dalla sofferenza, fu sul punto di detestarla.

Passeggiando a zonzo lungo le sponde della Moldava, notò a un lato del


Ponte Carlo uno strano caffè-roulotte.
Lì un enorme gatto gli disse di rilassarsi, gli offrì una strana birra e gli
lesse le stelle.
“Plutone è nella sua prima casa, quella dell’io. È un pianeta di
straordinaria forza, di grande carisma, che ha forti ossessioni e preferenze.
Quando queste si manifestano, può capitare che coloro che le sono vicino
non riescano più a starle dietro.”
Ascoltando, l’uomo annuì.
“Ho bisogno di esprimere la mia musica. È la mia ossessione, e non
riuscirò a liberarmene facilmente. Potrei accettare il suo consiglio,
convincermene e pentirmi del mio atteggiamento, ma dinanzi all’orchestra
avrei comunque voglia di dare voce alla mia musica. Fare altrimenti per me
sarebbe impossibile...”
“Che ne pensa, allora, di cimentarsi da solo?”
“Come solista?”
“Sì. Per esempio, che ne direbbe di quello strumento?”
Lo sguardo dello chef era fisso su un pianoforte a coda.
Prima di diventare direttore d’orchestra, l’uomo aveva studiato un po’
tutti gli strumenti musicali. Ovviamente, suonava il pianoforte infinitamente
meglio di una persona comune.
“Un singolo pianoforte è come un’orchestra.” Quelle parole esprimevano
la versatilità dello strumento.
“Ma certo. Prima di pretendere dagli altri che facciano questo e quello,
devo anzitutto perfezionare la mia musica...”
Si alzò e si avvicinò al piano.
“Ce la metta tutta. Plutone è la stella deputata alla distruzione e alla
rinascita. In quanto suo fan, prego per la sua ripresa” sentì dire alle sue
spalle dallo chef, ma quando si voltò il misterioso caffè-roulotte era
scomparso.

«Da quel momento mi consacrai al pianoforte. Solo se fossi riuscito a


suonarlo come volevo sarei potuto ridiventare un direttore d’orchestra. Ma
non sono mai stato soddisfatto di me. Me ne pento amaramente.»
Lo chef inclinò il capo, non capiva l’onesta confessione dell’uomo.
«Se n’è pentito?» domandò.
«Sì, perché nonostante io stesso non sapessi cosa volessi di preciso, davo
agli orchestrali indicazioni ambigue, come “Suonate con più sentimento!”.
Alla fine il pianoforte mi ha assorbito totalmente, e non potevo più essere
un direttore.»
Lo chef annuì.
«Ma è diventato uno straordinario pianista di fama mondiale.»
«Detta così sembro una persona importante, quando in realtà sono solo
un maniaco della musica che, non essendosi sposato, si è accorto troppo
tardi di essere rimasto solo. Durante la vecchiaia ho ristrutturato la casa
ereditata dai miei genitori e lì ho trascorso il mio tempo suonando il
pianoforte.»
Così dicendo, il signore poggiò una guancia sulla mano.
Dato che era stato un gatto a salvarlo, quando vedeva un randagio si
commuoveva e lo prendeva con sé pensando: “In realtà, sono i gatti ad aver
aiutato me...”.
«Anche quei bambini sono stati la mia salvezza. Mi salutavano allegri
mattina e sera e ascoltavano felici la mia musica. Non vedevo l’ora che
giungesse il momento del loro rientro, e ogni volta mi emozionavo
rimuginando su cosa avrei potuto suonare. Sono stati al mio fianco sino alla
fine.»
«È per questo che voleva aiutarli?»
A quella domanda, il gentiluomo annuì delicatamente.
«Ognuno di loro mi ricordava di come ero io da giovane. Dopo il
boicottaggio dell’orchestra sparii, avevo paura di salire sul podio. In
seguito, pur amando la musica, mi riuscì difficile continuare a essere un
direttore. Con l’amore è stato lo stesso. La donna a cui ho voluto bene in
gioventù era molto più grande di me e aveva alle spalle un divorzio. Tutti
mi dicevano che non faceva per me e io ho messo a tacere i miei sentimenti.
Scoprii poi che si era risposata con un altro uomo. Quanto me ne sono
pentito! La mia stupida testardaggine e il mio ego mi hanno reso
orgoglioso, impedendomi di agire... Ci penso ancora adesso. Se solo fossi
stato più onesto verso i miei sentimenti...»
Il signore sospirò e alzò gli angoli della bocca in un accenno di sorriso,
poi proseguì nel racconto.
«Ma una volta passate, queste esperienze diventano i nostri cari,
luminosi tesori. Ho voluto che almeno quei bambini non ingannassero se
stessi...»
«È il suo modo per ringraziare quella maestra e i suoi allievi.»
L’uomo annuì e guardò in alto, nel cielo stellato.
«E ora è finita un’epoca e ne è iniziata un’altra, una di grandi
stravolgimenti. Le prove e le traversie saranno più numerose, ma la
conoscenza delle stelle aiuterà le persone ad avere una vita molto meno
complessa. Vorrei che quei giovani lo sapessero. È lei, chef, che me lo ha
insegnato.»
Il gatto annuì con nostalgia, gli occhi socchiusi che disegnavano due
spicchi di luna.
«La carta astrale è il registro del destino, il compasso dell’esistenza. Per
intraprendere il viaggio della vita nel pieno rispetto della propria persona
occorre anzitutto conoscere se stessi. In quanto lettore di stelle mi auguro di
poterlo insegnare ancora, fosse anche a una sola persona in più.»
Lo chef e il signore si scambiarono uno sguardo e fecero una risatina.
L’uomo finì di bere la birra e si alzò come se fosse giunto il momento.
«Per concludere, vorrei offrire un ultimo brano a voi e a quei bambini.»
«Ne sono felice. Cosa suonerà?»
«La “Patetica” di Beethoven.»
«La “Patetica” per quei bambini?»
«L’ultima volta Serikawa sensei, ascoltando la mia esecuzione di quel
pezzo, ha capito ciò che volevo trasmettere. Ne sono stato felicissimo.»
Quando Beethoven ha composto la “Patetica” era già affetto da un grave
disturbo all’udito.
Può sembrare di una tristezza struggente, ma nel complesso quella
straziante melodia contiene anche forza e gentilezza. Fa capire come il
compositore, accettata la sua infelice situazione, fosse risoluto nel voler
andare avanti.
Rinascere dall’abisso: proprio un’opera che ricorda Plutone.
È una melodia che colma di calore il cuore di coloro che sono in
difficoltà.

«Forse la “Patetica” è un brano che allevia le ferite del cuore.»

Il gentiluomo si sedette al pianoforte e si lasciò sfuggire un sorriso


ripensando alle parole di Mizuki.
Sulla sponda del fiume si udiva la melodia della Sonata per pianoforte n.
8, Op. 13, la “Patetica”.
Una grande e sorridente luna splendeva sopra i gatti che, come in estasi,
socchiusero gli occhi.
Postfazione

Grazie infinite per aver letto questo libro.


Sono Mochizuki Mai.
Ispirata dall’astrologia occidentale, ho covato a lungo l’idea di scrivere Il
Caffè della Luna Piena, una storia in cui un gatto chef astrologo legge il
registro del destino.
Un ringraziamento sincero va a Miyazaki Eriko, maestra astrologa che
ha supervisionato il romanzo.
Mi sono avvicinata all’astrologia nel 2013. Dopo aver letto per puro caso
sui social un articolo sull’astrologia occidentale, ho iniziato a comportarmi
seguendo l’andamento delle stelle.
Per esempio: “Poiché la luna è entrata nel Leone è il momento adatto per
esprimere se stessi”, o anche “La luna è nella Vergine, questa volta devo
tenermi pronta per fare delle relazioni il mio punto di forza”. Oppure
guardavo la mia carta astrale per controllare quali fossero le mie
inclinazioni.
Da quando sono consapevole dei movimenti degli astri, la mia fortuna è
cresciuta.
Nell’estate di quell’anno vinsi il premio per un concorso di romanzi sul
web, la mia opera fu poi pubblicata, e da essa sono stati tratti anche un
manga e un anime.
Felice per il premio ricevuto, pensai: “Le stelle sono incredibili. Studierò
come si deve l’astrologia”. Così mi sono applicata da autodidatta al suo
approfondimento. Ma c’erano molte cose che da sola non riuscivo a capire,
per cui, dal 2015, ho iniziato a farmi seguire da una maestra astrologa.
Nel 2016, tre anni dopo essermi avvicinata all’astrologia, ho pensato che
un giorno avrei potuto inventare una storia che ne parlasse.
Quando però ho iniziato a scriverla, non ci sono riuscita. Per comporre
una storia occorre che essa si sia prima depositata dentro di me. Avvertii
distintamente che, nonostante credessi di aver capito, c’era ancora tanto da
studiare.
Continuai dunque ad approfondire l’argomento e, sebbene non fossi
un’esperta, giunsi al punto in cui pensai: “Sono finalmente in grado di
inventare una storia che possa introdurre i lettori all’astrologia, vista
attraverso lo sguardo di una principiante”.
A quel punto, mi ritrovai a essere attratta da una meravigliosa
illustrazione vista sui social.
Il disegno, dell’illustratore Sakurada Chihiro, rappresentava un curioso
caffè dal nome “Caffè della Luna Piena”, il cui chef era un gatto. Una
fantasia stupenda che, come il cielo stellato che raffigurava, mi diede
l’impressione di trovarmi in un mondo che si estendeva all’infinito.
Mi bastò uno sguardo per rimanerne affascinata. Egoisticamente, pensai:
“Se scrivessi una storia sull’astrologia vorrei le illustrazioni di questo
artista”.
Trascorse del tempo, finché giunse la primavera del 2019.
Sakurada Chihiro sensei partecipava al Kansai Comitia, un evento
organizzato da fumettisti amatoriali, per vendere un suo albo di
illustrazioni.
“Lo voglio a tutti i costi!” mi sono detta, e così sono andata fino a
Ōsaka. Ho acquistato il libro e ho avuto la faccia tosta di proporgli: «Io
scrivo romanzi, e sarei felice se un giorno potessi lavorare con lei».
Ci scambiammo i biglietti da visita e tornai a casa.
In seguito, dopo l’uscita in libreria dei tre volumi di Kyōraku no mori no
Arisu (“Alice nei boschi di Kyōto”), incontrai i miei due editori di Bungei
Shunjū, che mi chiesero: «Quando pensa che sarà pronto il quarto volume
di Alice?».
Risposi: «La storia è a un punto morto, per il momento vorrei staccare un
po’... In realtà mi piacerebbe scrivere una nuova opera. È una storia
sull’astrologia, e ho trovato un artista che fa delle illustrazioni stupende...».
Rivelai così le mie intenzioni e mostrai le illustrazioni di Sakurada
sensei.
«Ma che belle! Va bene, facciamolo!» decisero loro, così su due piedi.
Sakudara sensei accettò l’offerta.
(Sakurada sensei, grazie infinite.)
Successivamente, in un incontro con lui, mi disse ridendo: «Quella volta
lei mi disse che un giorno avrebbe voluto che lavorassimo insieme, ma non
avrei mai immaginato di essere coinvolto in un progetto di Bungei Shunjū».
Da quando ha realizzato le illustrazioni del “Caffè della Luna Piena”,
Sakurada sensei è diventato molto popolare, e pare che abbia ricevuto
numerose richieste lavorative.
Sono stata felice di essere stata la prima a contattarlo per un progetto
editoriale.
Da questa cooperazione, non contemplata in genere dalle case editrici,
sono scaturiti Il Caffè della Luna Piena e l’albo di illustrazioni di Sakurada
Chihiro sensei Caffè della Luna Piena.
Grazie all’incontro con un illustratore formidabile come Sakurada
Chihiro, l’idea di scrivere una storia sull’astrologia si è finalmente
concretizzata dopo molti anni, e alla velocità di una stella cometa si è giunti
alla pubblicazione.
Forse anche questo è merito della misteriosa guida delle stelle.
L’astrologia è un mondo dalle insondabili profondità, che io osservo
standomene in piedi al suo ingresso.
Questa storia è un’introduzione alle stelle. Sarei felice se grazie a essa
nei lettori dovesse nascere un interesse, sia pur minimo, per l’astrologia.

Approfitto di questo spazio per rivolgere i miei più sinceri ringraziamenti a


tutte le persone che mi sono state vicine e che hanno partecipato alla
produzione dell’opera.

Mochizuki Mai
Menu del Caffè della Luna Piena
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trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
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Il Caffè della Luna Piena


di Mai Mochizuki
MOCHIZUKI Mai (testo), SAKURADA Chihiro (illustrazioni)
Copyright © 2020 MOCHIZUKI Mai, SAKURADA Chihiro
Edizione originale giapponese pubblicata nel 2020 da Bungeishunju Ltd.
Italian translation rights reserved by MONDADORI LIBRI S.p.A., under the license granted by
Mochizuki Mai and Sakurada Chihiro, arranged with Bungeishunju Ltd. through Emily Books
Agency LTD., Taiwan, and Casanovas & Lynch Literary Agency, Spain
© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Mangetsu Kohiten no Hoshiyomix
Ebook ISBN 9788835731245

COPERTINA || DESIGN: MEL FOUR | ADATTAMENTO DA COPERTINA ORIGINALE


Indice

Copertina
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Il Caffè della Luna Piena
Prologo
Capitolo 1. Trifle dell’Acquario
1
2
3
4
5
6
Capitolo 2. Fondente al cioccolato con gelato del plenilunio
1
2
3
Capitolo 3. Vecchi incontri sotto Mercurio
Prima parte. Cream soda di Mercurio
1
2
3
4
Seconda parte. Champagne con gelato al chiaro di Luna e Venere
1
2
Epilogo
1
2
3
Postfazione
Menu del Caffè della Luna Piena
Copyright
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