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A volte, ma solo nelle notti di luna piena, tra le vie di Kyoto o in riva al fiume
appare un caffè molto speciale: è una roulotte gestita da un eccentrico chef,
un grande gatto tigrato esperto di astrologia, e da altri due felini suoi
aiutanti, e si manifesta sul sentiero di chi si sente perso.
In questo caffè non è possibile ordinare ciò che si vuole, sono i gatti a decidere
cosa offrire ai propri clienti. Il menu prevede incredibili bevande e deliziosi dolci in
grado di consolare i cuori affranti degli avventori. Ed è lo chef in “persona” a sedere
al tavolo con loro per aiutarli a capire, attraverso la lettura della carta astrale, dove si
sono smarriti. Fra una tazza di latte stellare e un pancake al burro del plenilunio,
assaporando un gelato al chiaro di Luna e Venere, incontriamo Serikawa, che dopo
una folgorante carriera da sceneggiatrice è diventata una scrittrice di videogiochi
frustrata e infelice, incapace di risollevare il proprio destino; Akari, che ha amato
l’uomo sbagliato e ora non sa immaginare un futuro accanto a qualcun altro;
Megumi, alle prese con un’importante scelta lavorativa, e Mizumoto, che incontra
nuovamente dopo molti anni il suo primo amore.
Un romanzo magico, che unisce la saggezza orientale al fascino arcano delle
stelle. Un viaggio alla scoperta di sé, per imparare che per ritrovare la strada a volte
basta chiudere gli occhi, in attesa della prossima luna piena.
L’autrice
Mai Mochizuki è una scrittrice giapponese, autrice della serie “Holmes of Kyoto”,
che nel 2016 ha vinto il Kyoto Hon Grand Prize e l’Everystar E-book Grand Prix nel
2013. È membro della Japan Mystery Writers Association e dell’Unconventional
Mystery Writers Club.
Mochizuki Mai
Il Caffè della Luna Piena
Il Caffè della Luna Piena non occupa un luogo fisso.
Capriccioso, cambia continuamente indirizzo, comparendo ora in una
familiare via commerciale, ora nella stazione d’arrivo del treno, ora sulle
quiete sponde di un fiume.
Qui non puoi ordinare. Siamo noi a offrirti dolci, cibi e bevande messi da
parte apposta per te.
«Forse stai sognando» dice sorridente il grande gatto tigrato che mi è
apparso davanti agli occhi.
Prologo
Inizio di aprile.
Un fresco vento che profumava di primavera entrò dalla finestra
spalancata, trasportando con sé la splendida melodia di un pianoforte.
Salut d’amour di Elgar.
Come richiamato da quella musica, un gatto comparve sulla ringhiera del
balcone. Nel mio palazzo era consentito accudire animali, quindi doveva
essere il gatto di uno dei condomini. Era un comune tigrato con il manto di
tre colori, ben bilanciati: bianco, marrone e nero.
In piedi in cucina, smisi di affettare il porro e lo guardai distrattamente.
L’animale si muoveva con grazia sulla ringhiera.
Senza volerlo, fui catturata da quella figura elegante che procedeva con
passo sicuro.
Forse per via del cielo terso e degli alberi di ciliegio sullo sfondo, la
scena sembrava proprio una cartolina, ma quel paesaggio mal si intonava a
me che, intenta a cucinare, tagliavo il porro come condimento dei ramen
istantanei.
Volevo anche saltare in padella con l’olio di sesamo le carote, i germogli
di soia e gli spinaci, per preparare un pranzo niente affatto raffinato e ancor
meno fotogenico.
Rapito dalla melodia del pianoforte, il gatto si era fermato nel bel mezzo
della ringhiera. Gli occhi socchiusi gli davano un’aria compiaciuta mentre
faceva ciondolare la lunga coda come un pendolo.
La mia casa era un monolocale composto da una piccola stanza, e lo
spazio che separava la cucina dal balcone era esiguo.
Come se si fosse accorto del mio sguardo, il gatto si voltò verso di me e
miagolò.
Altro che saluto d’amore... quello era il saluto di un gatto.
Sorridendo, mi lavai le mani e andai verso il balcone, ma quando aprii la
zanzariera era già scomparso.
Provai a scrutare nei paraggi, ma non lo vidi da nessuna parte.
Ero al terzo piano. Che fosse scivolato di sotto? Preoccupata, guardai
giù, ma di lui non c’era traccia.
“Ai gatti non capita mai di cadere” mi dissi sollevata e, con un accenno
di sorriso, appoggiai le braccia sulla ringhiera.
Il Salut d’amour era già finito.
Ora si udiva lo Studio Op. 10 n. 3 di Chopin, conosciuto anche come
“Tristezza”.
Ripensando alla malinconia degli addii, tirai un profondo sospiro e
abbassai il capo.
Separarsi dalla persona amata farebbe soffrire chiunque, ma per una
donna di quarant’anni che ha sempre desiderato sposarsi è particolarmente
doloroso.
La nostra relazione era durata molto. Stare con lui era stata per me
un’assoluta certezza. Ma di certo, in realtà, non c’era nulla.
Poteva anche capitare che un gatto scivolasse.
Turbata da quei pensieri, guardai di nuovo in basso, ma l’animale non si
vedeva da nessuna parte. Di sicuro non gli era successo niente.
Ero io quella che era scivolata.
«Dove ho sbagliato...»
Da sotto mi arrivava lo schiamazzo di un gruppo di bambini. Guardando
giù, notai alcuni alunni delle elementari che camminavano. Dovevano
essere le vacanze di primavera.
Nostalgica, sorrisi.
Chissà come stavano i miei studenti. Forse non avrei dovuto smettere di
fare la maestra. Ma no, se avessi insegnato in queste condizioni, i bambini
avrebbero continuato imperterriti a chiedermi: “Maestra, non ti sposi?”. E
io sarei scoppiata in lacrime alla cattedra.
“Va bene così” dissi fra me annuendo.
Chiusi bene la zanzariera e rientrai nella stanza.
Chissà quando, il pianoforte aveva smesso di suonare.
Capitolo 1
Trifle dell’Acquario
1
«...»
Non la vedevo più, ma non avevo voglia di alzarmi subito, quindi rimasi
seduta a guardare distrattamente fuori dalla finestra.
Poco dopo mi sentii irritata al pensiero che mi avesse fatto venire
apposta per comunicarmi una cosa così crudele, ma poi ricordai che, come
mi aveva detto, lo aveva fatto perché pensava che vivessi ancora in quella
zona.
Avrebbe potuto risolvere la questione semplicemente scrivendomi un
messaggio. Invece era stata così gentile da incontrarmi per informarmi di
persona.
In fondo le ero grata.
“Dovrei proprio rinunciare all’idea...” mi dissi. Forse era stato un segno
del destino. Avvinghiata alle glorie del passato, non riuscivo a staccarmi dal
lavoro di sceneggiatrice.
Ebbi l’impressione che qualcuno mi avesse detto di darci un taglio.
Bevvi un sorso di caffè, ormai freddo, e tirai un sospiro. In quel momento,
giunse dal tavolo vicino una voce maschile: «Senti, ho ascoltato la vostra
conversazione. Tu sei la sceneggiatrice Serikawa Mizuki?».
Colta di sorpresa, alzai lo sguardo. Mi era sembrato un tono molto
colloquiale, ma restai comunque sorpresa nel notare un ragazzo magro che
a prima vista dimostrava poco più di vent’anni. Aveva un aspetto elegante,
addirittura vistoso.
Aveva i capelli tinti interamente d’azzurro. Gli occhi erano di un
bellissimo verde, forse per via di lenti a contatto colorate.
Quasi a voler smorzare l’impatto del suo sguardo, indossava occhiali
dalla montatura rossa. Lo smartphone in mano, mi osservava con un sorriso
che mi colpì per i canini sporgenti.
«Sì... sono io» annuii impacciata, stupita che un ragazzo così giovane
conoscesse il mio nome.
«Le tue storie sono interessanti» disse con gli occhi sorridenti dietro le
lenti. Quelle parole, pronunciate con lo stesso tono informale, mi
penetrarono nel cuore. «Però, sai, adesso quel tipo di storie non vende più.»
A quel seguito inaspettato, un fremito mi attraversò la schiena. «...
come?» risposi confusa, senza trovare le parole giuste per ribattere.
«I tempi sono cambiati. Se non stai al passo, sei subito fuori. E questo è
evidente soprattutto nell’industria televisiva, che viaggia su impulsi
elettrici. Per quanto tu scriva cose interessantissime, se lavori per la
televisione e non sai leggere l’epoca sei spacciata» disse in un lampo.
Le sue parole mi giungevano alle orecchie, senza tuttavia essere recepite.
Di cosa mai stava parlando quel tipo? Voleva forse dirmi di restare al mio
posto perché ero una sceneggiatrice antiquata? Quello lo sapevo benissimo
anche senza che me lo dicesse lui. Avevo già le lacrime agli occhi, quando
qualcuno giunse alle spalle del giovane e lo colpì leggermente sulla testa.
«Ahia!» fece lui.
«Come ti viene in mente di dire simili scortesie!» A rimproverarlo era un
uomo sulla quarantina con al collo una cravatta grigia. Mi affascinarono i
bei lineamenti del volto, i capelli neri e lo sguardo freddo.
L’uomo prese posto davanti al ragazzo. Che fosse il padre? No, l’età era
troppo ravvicinata per essere genitore e figlio. E soprattutto erano
totalmente diversi. Da un lato un ragazzo eccentrico, dall’altro un uomo in
abiti formali che sembrava un insegnante. Anzi, l’impressione era quella di
un severo precettore.
«Voglia scusarlo» disse l’uomo chinando cortesemente il capo.
Scossi la testa per dirgli di non preoccuparsi.
«Serikawa sensei, questo vecchietto è un tuo fan» spiegò il ragazzo
ridacchiando.
Lanciata una rapida occhiata al giovane, l’uomo con il completo si voltò
verso di me e si inchinò. «Le chiedo profondamente scusa.»
Feci un cenno per fargli capire che non c’era alcun problema. Forse
erano zio e nipote?
«Sono felice che lei sia un mio fan» dissi. Ritenni strano di averne
ancora, a quel punto.
«Le sue opere parlano di protagonisti giudiziosi pronti a compiere ogni
sforzo per affrontare le traversie. Sono storie coinvolgenti.»
A quelle parole, pronunciate con un tono serio e senza sentimentalismi,
mi sentii arrossire. Non sembrava che dicesse di apprezzare le mie
sceneggiature solo per gentilezza.
«È vero, però il modo in cui sono scritte non è adatto a questi tempi»
ribadì il ragazzo incrociando le braccia dietro la nuca.
Alla fuggevole occhiata dell’uomo, il giovane si strinse nelle spalle
come per scusarsi.
«Ora dobbiamo proprio andare» concluse l’uomo alzandosi.
Il ragazzo lo seguì svogliatamente, ma prima di andarsene mi disse: «Ah,
Serikawa sensei, se avesse voglia di leggere i tempi dovrebbe andare in
questo posto. Oggi c’è la luna piena e sarà aperto».
Mi posò davanti un biglietto da visita su cui era scritto: CAFFÈ DELLA
LUNA PIENA .
Controllando l’indirizzo, notai che si trovava nella parte bassa di Nijō
Kiyamachi. Era vicino all’albergo.
«Da quelle parti c’è un locale chiamato Caffè della Luna Piena?»
bisbigliai fra me e me. Quando alzai il capo, i due erano spariti.
Provai a dare un’occhiata nella sala, ma erano scomparsi. Guardai fuori
dalla finestra. Si era già fatto buio.
“Leggere i tempi...”
A giudicare dal nome del locale, doveva trattarsi di una caffetteria, ma
cosa avrebbero mai potuto dirmi, in quel posto?
Pensai che se lì ci fosse stato altro da pagare oltre al costo della bevanda
non avrei saputo come fare...
L’immagine di quel ragazzo mi attraversò la mente. Il suo aspetto troppo
appariscente mi aveva insospettito. Era strano anche che fosse così
amichevole.
“Sarà meglio tornare a casa” pensai. “Non mi va di buttare i soldi in una
banale caffetteria.”
Lentamente mi alzai e uscii dall’albergo.
3
Mentre osservavo con aria assente il fiume, udii una voce che mi fece
tornare in me: «Gradisce un’altra tazza di tè? Questa volta lo provi con un
po’ di latte».
Alzando lo sguardo, vidi lo chef, il gatto tigrato, che stringeva una tonda
teiera d’argento.
«Volentieri, grazie.»
Gli porsi la tazza. Lo chef versò il tè e aggiunse del latte da un bianco
contenitore di ceramica.
«È latte stellare attinto direttamente dalla Via Lattea.» Così dicendo,
guardò in alto verso il cielo stellato. Il fiume galattico si scorgeva nitido,
bianco come il latte a cui la mitologia greca lo paragonava. Il tè ambrato
assunse all’istante una morbida tinta. Afferrai la tazza e iniziai a
sorseggiare. A quel gentile sapore, così diverso dal tè liscio, assunsi
un’espressione compiaciuta.
«Basta un po’ di latte, e anche il tè diventa tutt’altra cosa...» commentai.
Lo chef sorrise a quel mio mormorio, così trovai il coraggio per aggiungere:
«Il discorso che lei faceva sulla Luna, Mercurio e Venere forse assomiglia a
questo tè».
«Lei dice?»
«Sì. All’inizio è semplice acqua. Ma se la si fa bollire, e si mettono le
foglie in infusione, ecco che si trasforma in tè. E se si versa del latte muta
ancora in tutt’altra cosa...» risposi sussurrando con trasporto.
Lo chef si lasciò sfuggire una risatina. «Lei usa una lingua ricca di
espressioni, proprio quello che ci si aspetterebbe da una sceneggiatrice.»
«Ma no, sto solo farneticando» ribattei, rossa per l’imbarazzo.
«Ritengo, comunque, che sia un’immagine molto immediata. Anche
l’acqua, passando per successive esperienze, muta il suo stato iniziale
diventando qualcos’altro.»
Udite quelle parole, mi tornò in mente quanto aveva detto lo chef e,
guardandolo, domandai: «Cosa intendeva poco fa con “passare in modo
corretto per le fasi”?».
Infatti aveva affermato: “Se prima non si passa in modo corretto per le
fasi lunare, mercuriana, venusiana e solare, può capitare di non poter
proseguire fino al periodo successivo”.
Lo chef, annuendo, indicò la sedia di fronte a me e mi chiese: «Posso
sedermi?».
A un mio chiaro cenno di assenso il gatto si accomodò. La sedia, di
grandezza normale per un umano, risultò piccola per la sua enorme stazza.
«A ogni fase corrisponde un indispensabile insegnamento che, se non
assimilato a dovere, richiede di essere recuperato in seguito.»
Non capendo cosa intendesse, mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Per esempio, se durante la fase lunare, cioè quando si è bambini, non si
affrontano come si deve i genitori, ci si scontrerà duramente con loro
durante i vent’anni, ovvero nella fase solare. Oppure, se non si intraprende
lo studio in modo serio durante la fase mercuriana, quella del periodo
scolastico, occorrerà imparare molte più cose durante la fase marziana»
provò a chiarire lui.
In pratica, significava che i giovani che crescono senza opporsi ai
genitori, una volta adulti hanno violenti scontri con loro, come se il periodo
di ribellione fosse giunto in ritardo.
Mi vennero in mente le parole del direttore di una grande azienda con
cui avevo conversato una volta.
Il dirigente aveva fondato quella ditta senza essersi dedicato
minimamente allo studio negli anni della scuola, fermandosi alla licenza
media. Mi disse che, a mano a mano che gli affari fiorivano, si era trovato
sempre più in difficoltà con l’enorme mole di cose da studiare.
Mi era rimasto impresso nella memoria come mi avesse detto ridendo:
“Nella vita arriva per tutti il momento di doversi mettere a studiare”.
Mentre annuivo con convinzione, giunse il gatto bicolore che, saltato sul
tavolo, aggiunse: «A questo proposito, lei ha attraversato in modo corretto
la fase lunare e mercuriana».
Da bambina ero riuscita a esprimermi liberamente, forse perché ero la
figlia maggiore, e avevo convinto i miei genitori a lasciarmi fare ciò che
desideravo. Sapevo come cavarmela e mi piaceva essere lodata. Per quello
mi ero impegnata nello studio. “Mizuki, puoi diventare un’insegnante” mi
dissero i miei genitori rendendomi molto felice.
A quel punto comparve il singapura che, balzato anche lui sul tavolo, si
stese prono e, con la testolina poggiata sulle zampe, mi chiese: «Nella fase
venusiana, invece, hai dato la priorità ai tuoi interessi più che all’amore,
no?».
Aveva colto nel segno. A quelle parole mi feci piccola per l’imbarazzo.
Proprio come aveva detto lui, durante la fase venusiana, ovvero nel periodo
fra i sedici e i venticinque anni, avevo pensato più ai miei interessi che
all’amore.
Appassionata di scrittura, ero entrata in un club letterario, dove avevo
creato con altri una rivista amatoriale a cui dedicare tutte le mie energie.
Nel frattempo, facevo lavori part-time e assistevo agli spettacoli teatrali dei
miei attori preferiti.
Più che curarmi dei miei sentimenti, mi perdevo nelle fantasticherie delle
storie d’amore dei romanzi. Fu solo al quarto anno di università che,
finalmente, mi innamorai.
Incontrai il mio ragazzo in una serata organizzata per festeggiare altri
studenti che avevano già ricevuto alcune proposte di assunzione.
All’epoca, casualmente, noi due eravamo i soli a non essere ancora
fidanzati. Tutti ci dissero scherzando: “Perché non vi mettete insieme?”. Un
po’ alle strette, in quel momento rispondemmo con una risata imbarazzata,
ma qualche giorno dopo provammo ad andare al cinema insieme.
Dal punto di vista estetico non mi piaceva particolarmente, ma siccome
aveva un aspetto normale e condividevamo gli stessi interessi, con lui mi
trovai a mio agio, senza provare la minima tensione.
Fu così che ci fidanzammo. Dopo sei anni, mi chiese di sposarlo.
Sembrava che i colleghi e i genitori gli avessero detto che era il momento di
sistemarsi. Ma in quel periodo ero terribilmente presa dal lavoro di
sceneggiatrice e dissi di no. Così ci lasciammo.
In seguito, iniziai una relazione con un ragazzo più giovane che faceva
l’assistente di direzione in un’emittente televisiva locale. La nostra storia
durò dieci lunghi anni. E, mentre lui procedeva spedito con la sua carriera,
io invece cadevo sempre più in basso.
Negli ultimi anni, lo annoiavo perché parlavo solo di matrimonio.
Iniziò a scrivermi sempre meno frequentemente. Le sue ultime parole
furono un duro colpo: “Mi sposo”.
Ma non ero io la sua ragazza? Cosa voleva dire che si sposava? Un
sorriso tirato comparve sul mio viso.
Proprio quando avevo iniziato a incupirmi, il bicolore sentenziò con tono
freddo: «È quello che succede quando non si affronta l’amore come si deve.
È stata solo la conseguenza delle tue azioni».
Effettivamente, durante la seconda metà del nostro fidanzamento non
avevo avuto occhi che per me stessa. Anzi, avevo fatto in modo di non
considerare altro al di fuori di me. Mi ero rifiutata di sentire che il suo cuore
si stava allontanando dal mio.
Mi salirono le lacrime agli occhi.
«Ehi, vecchietto, non trattare male la sensei» disse il singapura, alzando
la voce con tono di rimprovero.
Il bicolore, contrariato, fece una smorfia. «Non avevo affatto intenzione
di infastidirla...»
«È per come lo hai detto. Portale un dolce di scuse per essere stato così
severo. Sensei, perdonalo.»
«Va bene» rispose il bicolore prima di scendere dal tavolo ed entrare nel
locale.
Non sentivo di essere stata infastidita, ma ero felice di ricevere un dolce
preparato apposta per me.
Lo chef posò gentilmente una zampa sulla mia spalla, poi disse: «Lei ha
trascorso una placida fase lunare, si è dedicata correttamente allo studio con
Mercurio e ha conosciuto il divertimento con Venere. Per questo ha potuto
risplendere vigorosamente con il Sole».
La fase solare, ovvero dai ventisei ai trentacinque anni, in effetti, era
stato il mio momento di massimo fulgore.
Avevo persino avuto la sensazione di aver ottenuto tutto ciò che volevo.
«Ma allora perché adesso...» Non riuscii a pronunciare altro per il
dolore.
Lo chef emise un debole sospiro, poi rispose: «Probabilmente perché
durante la fase solare è rimasta accecata dal suo stesso splendore, non
riuscendo così ad apprendere la lezione».
«Giusto! Tanto per cominciare, non hai ancora capito perché i tuoi lavori
erano così popolari» aggiunse il singapura.
Colpita nel segno, socchiusi gli occhi ferita.
Lo chef rise per stemperare la tensione.
«È il momento di recuperare quella lezione da cui lei, tuttavia, continua a
distogliere lo sguardo.»
Non riuscii a dire nulla. Non sapevo che tipo di lezione avesse in mente,
ma aveva ragione nell’affermare che io, in quel momento, rifiutavo di
affrontare la realtà.
Alzai lo sguardo verso i gatti e chiesi: «Come posso rimediare?».
Il singapura rispose sorridente: «Per prima cosa devi conoscere te
stessa».
“Conoscere me stessa.”
Facile a dirsi ma non a farsi.
A quel punto lo chef tirò fuori dall’abito un orologio da taschino.
«Posso prendere la sua carta astrale?» chiese.
Aggrottai le sopracciglia, non riuscendo a capire.
«Oltre a essere lo chef del Caffè della Luna Piena, leggo anche le stelle.»
«Intende dire che è un astrologo?»
Lo chef annuì.
Pensai all’astrologia con delusione. Ero dei Pesci, ma se fossi nata un
giorno dopo sarei stata dell’Ariete. Forse anche per il fatto di essere nata fra
due segni, quando controllavo l’oroscopo ero spesso poco convinta.
Osservando il mio viso, il singapura disse: «Sensei, perché
quell’espressione perplessa?».
«Quasi mai ho avuto l’impressione che l’oroscopo ci azzeccasse...» dissi
titubante.
Lo chef e il singapura si scambiarono un’occhiata e fecero una risatina.
«Il nostro chef non legge esattamente l’oroscopo» precisò il singapura.
«Non fa la divinazione delle stelle?»
Lo chef scosse il capo. «Lei forse ha in mente l’oroscopo dei segni
zodiacali del sistema solare.»
Confermai con un cenno.
«Quello non è che la superficie della questione. Leggere le stelle vuol
dire interpretare il registro di una persona basandosi sulla sua carta astrale.»
«Il registro?»
Davanti alla mia aria sorpresa, lo chef mi domandò di nuovo: «Mi
permette di vedere la sua carta astrale?».
«Sì, certo. La prego.»
Dopo aver appoggiato l’orologio sulla mia fronte, il gatto fece scattare il
coperchio. Osservando con attenzione l’interno dell’oggetto, notai che si
trattava in realtà di uno di quegli strumenti impiegati per le divinazioni
nell’astrologia occidentale.
Quando lo chef premette un pulsante, la sua superficie risplendette di un
bagliore accecante, proiettando nel cielo notturno un gigantesco oroscopo.
«Fino a poco tempo fa, eravamo nell’era dei Pesci, ma ora siamo entrati in
quella dell’Acquario.»
Inclinai il capo con aria interrogativa. «Siamo passati dall’era dei Pesci a
quella dell’Acquario?»
Lo chef premette il pulsante su quell’oggetto simile a un orologio da
taschino e disse: «Esatto. In astrologia la precessione degli equinozi dovuta
al moto terrestre indica che il punto vernale ha segnato il passaggio dai
Pesci all’Acquario».
Vicino all’oroscopo apparve il simbolo del segno zodiacale formato da
due pesci legati fra loro da una corda.
«L’era dei Pesci, iniziata con la nascita di Cristo, è proseguita per i
successivi due millenni, anno più, anno meno.»
«Per quasi duemila anni è sempre stata l’era dei Pesci?» domandai
incredula.
Il singapura rispose come se fosse una cosa scontata: «Ovvio! E per i
prossimi duemila anni sarà quella dell’Acquario».
Mi sfuggì un’esclamazione.
Lo chef fece una risatina. «È per questo che tutti voi avete con
l’Acquario un legame che non può essere reciso.»
Voleva dire che fino alla mia morte sarebbe sempre stata l’era
dell’Acquario. E anche se mi fossi reincarnata in nuove vite, probabilmente
mi sarei ritrovata a esistere nella stessa era.
«Come mostrato dai due animali del simbolo, l’era dei Pesci è stata
l’epoca del dualismo e della contrapposizione, in cui tutti nuotavano
disperati puntando all’apice della gerarchia. Non a caso si parlava di società
elitaria, meritocratica.»
Effettivamente, noi tutti avevamo aspirato ad avere un’istruzione in
scuole prestigiose per essere assunti dalle aziende più importanti.
«Vuole dire che invece ora è diverso?» chiesi.
A quella domanda rispose il singapura, grattandosi il capo con un sorriso
beffardo: «In realtà, ci si trascina dietro ancora molto dell’era passata.
Stiamo parlando di un periodo durato due millenni e, anche se siamo entrati
nell’era dell’Acquario, non può cambiare tutto in un secondo».
Lo chef, d’accordo con quelle parole, aggiunse: «Pur transitando nella
nuova era, le tracce di quella passata non svaniscono subito. Questo
passaggio durerà più di un decennio e, infine, si erediterà comunque
qualcosa».
Non capendo cosa intendesse, domandai con un’espressione confusa:
«Come sarà l’era dell’Acquario?».
Lo chef fece per rispondere, ma il singapura, alzatosi di scatto con una
zampa sul petto, lo anticipò dicendo: «Permettete che sia io, Uranus, a
illustrare la nuova era».
Il gatto, dunque, si chiamava così.
“Un nome davvero curioso” pensai.
«L’aspetto primario dell’era dell’Acquario è la rivoluzione» iniziò.
«La rivoluzione...» ripetei, come ipnotizzata dalle sue parole.
«Esatto. L’insieme di valori che il passato trascina con sé sarà totalmente
rinnovato. Accadranno disastri e calamità così orrendi da voler distogliere
lo sguardo. Ma questo, purtroppo, dipende dallo stesso sistema del cosmo e
non può essere evitato.»
A ben pensarci, da quando eravamo entrati nella nuova era si erano
verificati fatti spaventosi, incidenti e disastri naturali fino a quel momento
inimmaginabili.
«Il sistema cosmico sarà anche fatto così, ma simili catastrofi naturali o
causate dall’uomo sono tremende...» mi lasciai sfuggire.
Il singapura ammutolì, come se stessi incolpando lui per quelle calamità.
A quel punto intervenne lo chef, che con un tono leggermente
dispiaciuto aggiunse: «In un’epoca di rivoluzione non è il cosmo a stabilire
cosa accadrà, ma l’uomo».
«È l’uomo a decidere?» domandai alzando le sopracciglia.
Il singapura, che sembrava in difficoltà, ricominciò a parlare: «La
rivoluzione è come un esame di fine semestre. Potremmo anche dire che è
l’occasione per mostrare i risultati di quanto appreso fino a quel
momento...».
Forse usava quell’esempio perché ero stata un’insegnante. Eppure,
quelle parole non mi persuadevano, e mi sforzai di carpirne il significato
con un’ambigua espressione sul volto.
Lo chef, notando la mia faccia, fece un risolino e aggiunse: «Per
esempio, se all’epoca della Rivoluzione francese la corte e il popolo fossero
stati in buoni rapporti, le cose non sarebbero andante in quel modo. Anche
le rivoluzioni più recenti sono sempre scoppiate come risultato di ciò che
gli uomini hanno fatto finta di non vedere. Ma questo non è stato il volere
del cosmo. Se tutti avessero l’elasticità di pensiero sufficiente ad affrontare
qualsiasi situazione, allora le rivoluzioni moderate sarebbero ben accolte».
Capivo il discorso dello chef. Quella sarebbe stata forse la situazione
ideale. Eppure...
«Ma una cosa del genere è impossibile!» sbottai senza pensarci.
Lo chef annuì amareggiato.
Il singapura, grattandosi la testa, disse: «È per questo che in tempi
rivoluzionari accadono avvenimenti violenti che ci colgono di sorpresa.
Tutti desiderano tornare indietro, ma non si può “tornare indietro”. Così
come è impossibile, dopo lo scoppio di una guerra, poter vivere come
prima».
Forse voleva dire che a uno sconvolgimento non può che seguire l’inizio
di un nuovo mondo.
Annuii addolorata.
«L’unica cosa che gli uomini possono fare è cambiare radicalmente il
proprio sistema di valori. Si è passati dall’era dei Pesci a quella
dell’Acquario. Finita l’“epoca della scalata di gruppo alla stessa vetta”, è
iniziata l’“epoca degli individui”.»
«L’epoca degli individui...»
Il singapura annuì. «Esatto. La tecnologia progredirà a favore
dell’affermazione dell’individualità. Si andrà verso un’epoca in cui saranno
importanti le parole di tutti. Lo sviluppo di internet, il diritto a esprimersi e
la possibilità per chiunque di diventare famoso sono manifestazioni
emblematiche dell’Acquario.»
Risposi con un’espressione meravigliata.
In effetti, dopo il 2010 gli influencer avevano iniziato a godere di una
certa attenzione.
«Il conferimento a tutti della possibilità di dire la propria indica che
siamo giunti nell’epoca della libertà di espressione. Ma questo potrebbe
anche portare al disordine. La coesistenza di tante energie diverse è tipica
dell’era dell’Acquario. Cioè, ora si pensa che io sono io e gli altri sono gli
altri. Nell’era dei Pesci si riteneva corretto sposarsi e fare figli all’età
considerata più opportuna dalla società. Adesso, invece, si pensa che sia
possibile farlo seguendo i propri desideri.»
Annuii di nuovo, questa volta in segno di comprensione.
Anche il riconoscimento del matrimonio fra persone dello stesso sesso,
avvenuto all’estero in vari paesi, era con ogni probabilità una
manifestazione dell’Acquario.
«Se da un lato l’Acquario è il simbolo della tecnologia, dall’altro indica
la spiritualità. Pensiero e onde radio sembrano due cose molto diverse, ma
sono in realtà entrambe presenti nella stessa anfora con cui si raffigura il
segno zodiacale.»
“Il pensiero e le onde radio sono nella stessa anfora...” ripetei nella mia
mente. Soppesai le parole del gatto, apprezzandone la profondità.
Effettivamente, dopo l’avvento dell’era dell’Acquario si parlava molto di
vite precedenti o di cose come il colore dell’aura.
«E ancora: creatività, eguaglianza, amore e amicizia. Essere liberi e se
stessi è la peculiarità di questo segno» borbottò il singapura gonfiando il
petto inorgoglito. Ma come se fosse subito tornato in sé, si portò una zampa
sul capo e aggiunse: «Devi scusarmi, ho un rapporto intimo con l’Acquario
e ho finito per essere di parte. Anche quella dei Pesci non è stata una brutta
era. La spietatezza dei tempi ha portato gli uomini a sognare. I Pesci
indicano per l’appunto l’aspirazione e il sogno. L’american dream e altre
cose simili sono tipiche di questo segno».
Lo chef annuì. «Emblematica dei Pesci è anche la storia di Cenerentola.»
Capii cosa intendesse dire. La protagonista vive al massimo delle sue
possibilità e decide di agire con risolutezza. Il principe, che occupa il
gradino più alto della gerarchia sociale, la nota e la sposa. Effettivamente,
quella storia era proprio il simbolo di un’epoca.
Riflettendo, mi accorsi che anche io avevo spesso ideato racconti sul
modello di Cenerentola. Ricordandomene, spalancai gli occhi. Finalmente
avevo capito.
«Ora che ci penso, tutti i lavori che ho scritto finora sono storie tipiche
dell’era dei Pesci...» A quelle mie parole, lo chef sorrise.
Il singapura annuì, poi aggiunse: «Quando hai presentato i tuoi lavori era
già iniziata l’era dell’Acquario, ma in un momento in cui le tracce
dell’epoca precedente erano ancora molto evidenti. Il pubblico, allora, pur
avvertendo istintivamente che i tempi stavano mutando, si avventava con
nostalgia su racconti emblematici dell’epoca passata».
Ecco perché le mie storie avevano avuto successo.
Ciò significava che il pubblico aveva smesso di seguirmi da quando era
scemata l’influenza dell’era dei Pesci.
«Stando così le cose, non avrei potuto fare niente. È dipeso dal
mutamento dei tempi» dissi, e un sorriso di derisione verso me stessa mi
affiorò sul volto.
«È qui che si sbaglia.»
Voltandomi verso quella voce, vidi il bicolore con in mano un vassoio su
cui era posato un bicchiere di vetro a forma di anfora.
«Vale quanto abbiamo detto sulle fasi planetarie» aggiunse il gatto
posando il bicchiere sul tavolo.
All’interno c’era una porzione di trifle, un dolce al cucchiaio inglese,
composto da strati sovrapposti di crema pasticciera, pan di spagna e frutta.
La trasparenza del bicchiere mi permise di godere dei vari ingredienti.
«È lo stesso concetto delle fasi planetarie?» chiesi.
«Proprio così, ci si muove verso la lezione successiva solo dopo aver
attraversato le fasi precedenti. Allo stesso modo, gli insegnamenti dell’era
dei Pesci non saranno ripudiati, ma portati con sé nella nuova era. Con
l’avvento dell’Acquario, i due pesci, legati l’un l’altro fino a quel momento,
potranno finalmente nuotare liberamente, privi della corda che li
costringeva.»
Notai che nel bicchiere c’erano delle gelatine a forma di pesce.
Sembrava proprio che nuotassero nel dolce.
«La musica classica è stata a lungo amata e continuerà a esserlo. In
modo simile, anche le storie come Cenerentola saranno ancora apprezzate»
disse lo chef, mentre il bicolore annuiva. «Occorre, tuttavia, esprimersi in
modo consono all’era dell’Acquario» concluse.
Forse anche la musica classica, per essere accolta di epoca in epoca, si
era rinnovata. Ero pienamente convinta di quelle spiegazioni.
«Bene, e ora rivediamo la sua carta astrale» disse lo chef, lo sguardo
rivolto all’oroscopo nel cielo notturno. «Come ho già detto, la parte
inferiore rappresenta il sottosuolo, quella superiore la superficie del terreno.
Per far andare bene qualcosa, occorre anzitutto curare le radici. La prima
casa è quella dell’“io”, la seconda quella dei “beni” e del “denaro”, e qui
interviene Mercurio.»
«Mercurio indica l’informazione, la trasmissione e il tempismo»
intervenne il singapura.
Il bicolore proseguì: «Ma anche l’intelletto e la comunicazione. Nella
seconda casa ci si sposta dall’Acquario ai Pesci. I mestieri di insegnante e
sceneggiatrice, con cui lei ha scelto di guadagnare, le si addicono entrambi.
La sua ultima predilezione per il lavoro di sceneggiatrice potrebbe essere un
effetto dei Pesci, che hanno la capacità di dare forma alle fantasie».
Avevo sempre ritenuto le professioni di insegnante e sceneggiatrice
molto diverse tra loro, ma mi convinsi di quell’interpretazione, meravigliata
che tutto ciò comparisse sulla carta astrale.
«E adesso come mai non mi sta andando bene?»
Con gli occhi socchiusi, lo chef rispose: «Il lavoro che ha scelto è quello
giusto... dobbiamo quindi ricercare la risposta alle radici della questione: la
quarta casa, quella del “focolare domestico”, in cui lei ha come segno
zodiacale l’Ariete e sono vicini due pianeti, Venere e la Luna, espressione
dei sentimenti».
A quelle parole, il singapura e il bicolore fecero un cenno di assenso.
«L’Ariete è simbolo di fertilità e di abbondanza. Quando è nella quarta
casa, indica uno spazio lussuoso.»
Annuii alla spiegazione dello chef.
«Lì ci sono Venere e la Luna. Questo vuol dire che raggiungerà migliori
risultati se lavorerà in un luogo per lei sinceramente gradevole. Se continua
ad abitare in un posto che non le piace, finirà per deprimersi e le cose
andranno sempre peggio. Lei è il tipo di persona che ha bisogno di vivere in
una bella casa.»
Di colpo, il cuore mi balzò in petto.
Avevo scelto quel monolocale quando, non riuscendo più a conquistare
lo share, ero scappata dal lavoro ed ero rimasta senza entrate...
Così avevo lasciato l’appartamento che mi piaceva tanto, scegliendo la
nuova stanza solo per via del prezzo conveniente.
«Ma io... io non potevo più permettermi di vivere in quella casa! E
traslocare in queste condizioni è assolutamente fuori discussione!» gridai
abbassando lo sguardo e stringendo i pugni con forza.
Non avevo certo lasciato l’appartamento perché non volevo più starci.
Ero infastidita che mi dicessero cose tanto sconsiderate.
Il singapura incrociò le zampe assorto e, senza alcun problema, aggiunse
spietato: «Ma avresti potuto sforzarti e pensare con tutta te stessa di voler
continuare a vivere lì. In quel momento eri disperata, o sbaglio?».
«...»
Era esattamente come diceva lui. Ero disperata. Vendetti anche tutti i
miei mobili, perché non si adattavano alla nuova stanza.
Il bicolore mi rivolse uno sguardo critico. «Serikawa sensei, non le
stiamo dicendo che deve traslocare subito, ma solo che per lei è importante
pensare a come poter rendere il più confortevole possibile la casa in cui
abita ora.»
Lo chef sorrise e confermò quelle parole. «È proprio così. È importante
che lei sappia di necessitare di una bella casa, e che deve impegnarsi
affinché un giorno possa occupare l’abitazione perfetta per lei. Questo vuol
dire conoscere se stessi.»
Annuendo, mi asciugai le lacrime che chissà quando mi erano salite agli
occhi.
Vivevo in una casa che non mi piaceva e me la cavavo conducendo una
vita poco dispendiosa. Mi ero totalmente calata nel ruolo dell’eroina di una
tragedia, quasi che dovessi vantarmene con qualcuno: facevo a meno di
comprare ciò che desideravo, mangiavo ramen istantanei, non frequentavo i
miei amati caffè... Ce la mettevo tutta per condurre una miserabile vita da
Cenerentola.
Da qualche parte nel mio cuore covavo forse la segreta speranza che
qualcuno un giorno mi invitasse al ballo.
Ma la realtà era diversa.
Nel mio caso, avrei forse avuto accesso a quel mondo se avessi vissuto
per quanto possibile in maniera comoda ed elegante.
Mi convinsi del tutto delle loro parole.
«Capisco. Da quando vivevo ancora coi miei, mi è sempre piaciuto
decorare la mia stanza per renderla gradevole.»
Lo chef sorrise. «Capire se stessi vuol dire anche trattarsi bene. Solo
così, la sua stella inizierà a risplendere.»
«La mia stella?»
«Ogni persona è come una stella.»
In un’altra occasione, avrei di certo replicato con un sorriso ironico, ma
ora accettavo quelle parole senza protestare. Feci un cenno di assenso,
guardai il cielo notturno e chiusi gli occhi.
Da bambina, mi aveva esaltato avere a disposizione per la prima volta
una stanza tutta mia. Era una piccola cameretta, ma l’avevo resa il luogo più
bello in cui potessi mai stare.
Ripercorsi con la mente quei ricordi piacevoli. Con qualche
accorgimento, anche il monolocale sarebbe diventato magnifico.
Leggermente eccitata a quel pensiero, dissi: «Attingerò ai miei ricordi di
quando ero piccola, e farò tutto il possibile per rendere splendido il mio
appartamento».
Ma quando riaprii gli occhi lo chef e il singapura non c’erano più.
Dovevano essere rientrati nel locale.
Era rimasto solo il bicolore. Il gatto mi versò sorridendo altro tè nella
tazza ormai vuota e disse: «Prego, assaggi pure il “trifle dell’Acquario”».
Ebbi l’impressione di vedere il suo sorriso per la prima volta. Con la
sensazione di aver scoperto un oggetto prezioso, afferrai felice il cucchiaio.
«Grazie, buon appetito» si congedò.
Quando il bicolore si avviò in direzione del caffè, lo fermai. Lui si
bloccò e si voltò.
«Ma lei come si chiama?» chiesi.
«Il mio nome è Saturnus» rispose.
«Saturnus...»
Dopo quello del singapura, un altro nome decisamente curioso, che
aveva un non so che di pomposo.
Lo avevo già sentito da qualche parte.
Il gatto mi fece un cenno di saluto e scomparve dentro la roulotte.
Affondai il cucchiaio nel bicchiere e mangiai un boccone di trifle.
“Squisito...”
La panna, la frutta e la gelatina si scioglievano in bocca, ognuna con il
proprio sapore distinto, ma senza cozzare tra loro, come se si sostenessero
l’una con l’altra. Proprio quello che mi sarei aspettata dal “trifle
dell’Acquario”.
Gustai il delizioso dolce sotto la volta stellata. Era un momento
eccezionale. Del tutto a mio agio, alzai lo sguardo verso il cielo notturno,
ripetendomi quanto fosse buono il trifle. Gli astri sfavillavano luminosi.
Mi tornò in mente la volta in cui, quando facevo l’insegnante, avevo
portato i miei allievi al planetario.
“In inglese, se non erro, Venere si dice Venus. E Saturno deve essere
Saturn.”
Il nome Saturn, così simile a Satana, mi metteva paura, ma in
quell’occasione avevo imparato che il pianeta deriva il suo nome non dal
diavolo del cristianesimo bensì da Saturnus, la divinità della mitologia
romana. Voleva dire che il gatto aveva lo stesso nome del pianeta? Guardai
in direzione del locale, ma il Caffè della Luna Piena era scomparso.
6
Il Caffè della Luna Piena era spuntato improvvisamente nella desolata notte
del Giardino Nazionale di Kyōto, rischiarato da una fioca, morbida
illuminazione. Il bagliore dell’astro lunare lo investiva come un riflettore.
Mi giunse l’odore fragrante del caffè, che si avverte sempre quando si
passa di fronte a una buona vecchia caffetteria.
Il gatto, sistematosi sul tavolo preparato dalla ragazza poco prima,
continuava a fissarci. Indossava un grembiule blu scuro coordinato con
quello della giovane.
Attratta dall’aroma del caffè e dai misteriosi occhi dell’animale, mi
rivolsi ad Ayukawa e le proposi: «Che ne dice di una tazza di caffè per
smaltire la sbornia?».
«Volentieri.»
Richiamate dal Caffè della Luna Piena, ci dirigemmo quindi verso il
locale. Quando ci trovammo davanti al persiano, il gatto spalancò le fauci
come per miagolare: “Benvenute”.
Rimanemmo di sasso.
Che fosse il trucco di un ventriloquo?
Gettai d’istinto un’occhiata al locale.
Dalla finestra del bancone, un gatto bicolore ci scrutava con aria severa.
«Che sia un neko-cafe?» a
«Eh! Ma ha visto? I gatti parlano...»
Spaventata, Ayukawa Satsuki mi prese per un braccio bisbigliandomi
all’orecchio: «Signora Nakayama, penso che sia uno di quei programmi tv
dove si fanno scherzi. Stia al gioco».
Le sue parole mi convinsero all’istante: ma certo, una cosa del genere
era impossibile. Che vergogna non essermene accorta subito, eppure
anch’io lavoravo per la televisione.
Ayukawa si comportava da vera professionista.
Consapevole dello sguardo degli spettatori, ostentava un’espressione di
genuina meraviglia, grata di essere stata coinvolta in quel programma
proprio ora che era rimasta senza lavoro per via dello scandalo della sua
relazione.
Senza dubbio riteneva che quella potesse essere l’opportunità per
riprendersi dalla sua situazione disperata.
Lo sguardo fisso su di noi, il persiano rise. «Scusate se vi ho messo
paura. Io sono Venus e lavoro per il Caffè della Luna Piena. Lo chef in
questo momento è assente. I responsabili questa sera saremo io e Saturnus.»
Il persiano, quindi, si chiamava Venus.
Un nome altisonante che si addiceva perfettamente a quell’animale dagli
occhi gialli splendenti come l’oro e belli come Venere.
Doveva esserci qualcuno che parlava all’interno del locale, e la sua voce
usciva da un microfono nascosto nel grembiule del gatto.
Era impensabile che un animale sapesse recitare: si trattava senza dubbio
di un robot ben costruito.
Eppure, quel pezzo di moderna tecnologia mi lasciava sbalordita.
«Chiedo scusa, potremmo avere un caffè?»
Il persiano rispose rammaricato: «La politica del nostro locale esige che i
clienti non ordinino».
«Eh? Non posso chiedere ciò che voglio?» Sconvolta, Ayukawa
strabuzzò gli occhi.
«Esattamente. In compenso siamo noi a offrirvi dolci, piatti e bevande
preparati appositamente.»
Annuii e dissi: «In altre parole, ci affidiamo a voi».
«Proprio così. Prego, accomodatevi. Due vecchie conoscenze che non si
vedono da tanto tempo come voi avranno sicuramente tante cose di cui
parlare. Non ci sono telecamere in funzione, potete stare tranquille.»
Mentre lo diceva, ridendo scherzosamente, il persiano posò sul tavolo
due bicchieri d’acqua e poi rientrò nella roulotte.
Spalancai gli occhi stupita.
«Ha detto “non ci sono telecamere in funzione”.»
«Forse le tengono spente fino a quando non serviranno le bevande. È
talmente assurdo che dei gatti parlino che sicuramente sapranno che ce ne
siamo accorte.»
Così, come se niente fosse, Ayukawa si sedette al tavolo e bevve un
sorso d’acqua.
Presi posto anch’io e domandai perplessa: «E poi cosa avrà voluto dire
con “due vecchie conoscenze”?».
Ayukawa scoppiò a ridere.
«Signora Nakayama, non lo sapeva?»
«Che cosa?»
«Noi due abbiamo frequentato la stessa scuola elementare.»
Sbattei le palpebre incredula.
A pensarci bene, avevo sentito dire che Ayukawa era originaria di Kyōto.
«Ayukawa Satsuki è il mio nome d’arte. Del resto, forse è normale che
lei non si ricordi. Da bambina ero un tipo malinconico che nessuno notava.»
Senza nascondere il mio interesse le chiesi incuriosita: «Noi due
eravamo amiche?».
Scuotendo il capo, rispose: «Io sono più piccola, perciò eravamo in
classi diverse. Praticamente non avevamo alcun rapporto. Io però mi
ricordo di lei perché era a capo del gruppetto di bambini al ritorno dalle
lezioni».
Se eravamo di anni diversi, era naturale che l’avessi dimenticata.
Eppure, anche se da bambina era poco appariscente, doveva pur sempre
essere stata una che catturava l’attenzione.
Strano che non me ne ricordassi affatto.
Abbassai d’istinto lo sguardo scavando nella memoria. A quel punto lei
rise: «Da bambina ero molto robusta. Camminavo così lentamente da essere
un peso per tutti».
Sollevai il viso, ricordandomi all’improvviso che c’era una studentessa
più in carne fra i bambini delle classi inferiori.
«Mi è tornato vagamente alla memoria. Lei ora è in splendida forma.»
«Quando entrai al liceo, non mi piacqui più com’ero e iniziai a fare
jogging, l’unico sport per cui non servivano soldi.»
In contrasto con i lineamenti morbidi e graziosi aveva un corpo
estremamente tonico. Aveva persino pubblicato dei libri di fitness.
«Signora Nakayama, lei dà ancora l’impressione di essere la “prima
della classe”» aggiunse Ayukawa sorridendo nostalgica.
Imbarazzata, mi sottrassi al suo sguardo e bevvi un sorso d’acqua.
«Se ha finito col fare la mia stessa cosa, vuol dire che persino una come
lei si stanca a rigare sempre dritto.»
Toccata da quella insinuazione, ribattei: «Glielo ripeto: non ho fatto
nulla del genere».
Non riuscii a dire “relazione illecita” perché avevo la costante
sensazione che le telecamere fossero in funzione, anche se avrei voluto
ribadirlo a chiare lettere: “Non ho avuto alcuna relazione illecita”.
«Ayukawa, ascolti...»
«Ah, dammi del tu. E permettimi di fare altrettanto.»
A quella sua repentina richiesta mi ricomposi e dissi: «Se dici una cosa
del genere, vuol dire che hai avuto una relazione illecita perché eri stanca di
rigare dritto?».
Satsuki rifletté e, la guancia sul palmo, disse: «Sono cresciuta senza
padre. Non avevo una vita facile, la tv mi aiutava a dimenticare la realtà.
Guardare la televisione era il mio massimo divertimento, naturale quindi
che apprezzassi lo sfavillante mondo delle star».
Fece un sospiro profondo e proseguì: «Lui era ciò che avevo immaginato
come “papà ideale”. Ma ovviamente non era mio padre, e forse per questo
ne sono rimasta folgorata. Quell’uomo, il mio “papà ideale”, che per giunta
lavorava nel meraviglioso mondo della tv, divenne tutto ciò che volevo, e
non sono riuscita a trattenermi... L’ho amato in modo totalizzante, vinta dai
miei sentimenti per lui. Ero semplicemente felice, e non ho pensato
nemmeno per un attimo a sua moglie o ai suoi bambini. Non ho avuto un
padre perché il mio se ne era andato dopo aver tradito mia madre. Ho odiato
profondamente la sua amante, eppure ho finito con l’essere esattamente
come lei...».
Le lacrime le rigarono le guance.
Probabilmente anche lei stava pensando alle telecamere accese. Eppure,
in ciò che diceva non c’era la benché minima leziosità.
I nostri erano due casi diversi.
Queste nausee non mi fanno proprio dormire! Stasera bevi con i tuoi colleghi,
no? Non esagerare. Anche io vorrei un bicchierino, ma dovrò resistere fino a
dopo il parto e lo svezzamento.
a. Caffetteria tematica in cui i clienti possono giocare liberamente con i gatti ospitati nel locale.
(NdT)
Capitolo 3
Vecchi incontri sotto Mercurio
Prima parte
Cream soda di Mercurio
1
Il suo negozio si affacciava sulla strada che lui percorreva di solito, perciò
in seguito era capitato spesso che si vedessero.
Quando lei lo notava dall’altra parte del vetro gli rivolgeva un sorriso.
Nel ricambiare il saluto, lui si sforzava di rimanere impassibile per
nascondere il suo imbarazzo.
Quel centro estetico era frequentato anche da uomini, e Mizumoto decise
che presto ci sarebbe andato per un taglio di capelli.
Negli ultimi tempi, però, non l’aveva più vista.
Forse era solo un caso che non si incontrassero più, magari era una
questione di turni, ma in cuor suo Mizumoto era preoccupato che potesse
essersi ammalata.
Poi aveva ricevuto da lei un’e-mail indirizzata alla sua posta aziendale.
Era stata spedita due giorni prima, ma non se ne era accorto perché era
finita nella posta indesiderata. La comunicazione iniziava così: “Gentile
Mizumoto Takashi dell’azienda MY System, è da tanto che non ci vediamo.
Sono Hayakawa Megumi, della tua stessa scuola elementare. Non sapevo
dove scriverti, poi ho trovato questo indirizzo”.
Effettivamente, non si erano scambiati i contatti.
Megumi doveva aver cercato il nome della sua azienda su internet.
“Per motivi personali l’altro giorno ho lasciato il lavoro al centro estetico
di Umeda.
“È una decisione temporanea, ma per adesso do una mano nel negozio di
parrucchiere gestito dai miei genitori.
“Come ho detto, si tratta di una sistemazione momentanea, perché c’è
una cosa che mi piacerebbe fare, ma ho bisogno di una mia home page
personale. Potrei chiederti qualche consiglio in proposito?”
Mentre leggeva l’e-mail, Mizumoto aveva il cuore in gola per
l’emozione.
«È da parte di quella parrucchiera?»
Alla domanda di Yasuda, la sua schiena fu scossa da un fremito.
La creazione di siti web era di competenza del socio, non sua. Tuttavia,
Mizumoto pensava di essere perfettamente in grado di creare un sito
personale, quindi tornò a guardare lo schermo.
«Dice che ha lasciato il lavoro al negozio di Umeda.»
Come se avesse perso interesse udendo quelle poche parole, Yasuda si
fece sfuggire un’espressione poco stupita e tornò a rivolgersi alla sua
scrivania, all’altro lato della stanza.
Mizumoto tirò un sospiro di sollievo e scrisse in risposta: “Va bene,
quando vuoi. Vengo dove preferisci”.
Inviò il messaggio solo dopo aver riletto diverse volte la sua innocente
frase. In quel momento Yasuda cacciò uno strano urlo: «Eeeh!».
«Cos’è successo?»
Mizumoto alzò il volto con un’espressione preoccupata.
«Stai un po’ a sentire» fece il collega, smanioso di parlare, «hai presente
il videogame che sto creando adesso?»
Yasuda mostrò lo schermo del cellulare.
Si vedevano in bella mostra le splendide illustrazioni di alcune figure
maschili divenute popolari. Erano personaggi del social game al quale
lavorava Yasuda.
Lui diceva di occuparsene, ma in realtà si limitava alla cura del design e
alla costruzione del sistema di gioco. La sceneggiatura non era di sua
competenza.
«Ultimamente la storia del finale secondario sta piacendo parecchio, e la
gente ha cominciato a parlarne.»
Mizumoto annuì. Anche lui sapeva che il gioco in questione era
diventato popolare per quel motivo.
In un videogame d’amore si sceglie un personaggio da conquistare, e
arrivare al personaggio del livello più difficile dovrebbe garantire il
percorso più appagante.
Ma capita che alcuni giocatori non riescano a sedurre quel personaggio,
oppure che intenzionalmente puntino a stringere una relazione con una
figura secondaria.
E proprio la storia di questo personaggio era diventata piuttosto
popolare, pur non avendo né l’aspetto incantevole degli altri eroi della
trama, né la loro ricchezza. Per di più, la sua vicenda non si concludeva con
una intensa scena d’amore.
Eppure, quel personaggio affascinava il giocatore, pronunciando nella
scena finale la battuta: “Sei la mia principessa. Il solo stare al tuo fianco mi
fa sentire come un re. Grazie dei meravigliosi momenti passati insieme”.
Rivolte queste ultime parole alla protagonista, si prodigava generosamente
in un nobile baciamano.
Sui social si diceva che la storia e il suo coraggioso personaggio fossero
meravigliosi. Ovunque si sentivano voci di giocatori entusiasti che
affermavano: “Voglio conoscere il seguito della loro relazione”, “Fateci
vedere una loro scena d’amore più appassionata!”, “Sarei disposta a pagare
un sovrapprezzo per sapere come continua”.
«Mi sembra che sia stata una certa SERIKA a occuparsi della
sceneggiatura, dico bene?»
Quale che fosse il ruolo di Yasuda, era la loro compagnia a produrre il
videogame, di conseguenza anche Mizumoto ne era al corrente.
«Esatto. Adesso viene il bello, tieniti forte» rispose Yasuda, e allungò lo
smartphone verso di lui.
Sul viso di Mizumoto affiorò una smorfia: così allertato non avrebbe
potuto stupirsi nemmeno se lo avesse voluto.
«Dato che è molto popolare, le hanno chiesto di scrivere il seguito della
storia secondaria. E la scrittrice ne è felicissima...»
«Be’, ovvio. Chi ha creato quella storia dev’essere contenta di tanto
successo» annuì Mizumoto.
«E poi è spuntato questo articolo» continuò Yasuda mostrando di nuovo
l’apparecchio al collega.
“Le coraggiose trovate a livello di trama e il batticuore che suscitano
hanno fatto spopolare sul web il finale alternativo. Dietro SERIKA ,
pseudonimo dell’autrice della sceneggiatura, si nasconde Serikawa
Mizuki!”
«Eh?!»
Senza pensarci, Mizumoto strappò il cellulare dalle mani dell’amico.
«Hai visto? Alla fine ti sei meravigliato eccome! La sceneggiatrice dei
nostri videogame è la stessa Serikawa Mizuki che un tempo ha avuto un
successo strepitoso. Questa sì che è una sorpresa, non trovi?»
Mentre annuiva sinceramente, Mizumoto lesse l’articolo.
L’autore del pezzo riportava che quando aveva contattato la popolare
sceneggiatrice SERIKA per avere notizie sul suo conto, lei aveva annunciato
di essere Serikawa Mizuki.
La scrittrice si era dichiarata felice per la popolarità della sua storia,
ideata con la speranza che anche il finale con un personaggio secondario
potesse divertire i giocatori, sia pure parzialmente.
«Sapevo che ti saresti sorpreso, ma così è troppo. Avanti, ridammi il
cellulare» disse Yasuda ridacchiando mentre allungava la mano.
Mizumoto gli passò in silenzio il dispositivo.
Era stupito che l’autrice fosse proprio Serikawa Mizuki. Fosse stata una
qualsiasi altra persona, anche uno sceneggiatore famoso, probabilmente non
si sarebbe meravigliato fino a quel punto.
Mentre Mizumoto si stringeva nelle spalle, lo smartphone squillò,
annunciando l’arrivo di un’e-mail.
Aveva fatto in modo che le comunicazioni che arrivavano sul PC
comparissero anche sul cellulare.
Controllando, notò che era da parte di Hayakawa Megumi.
“Grazie mille. Lunedì prossimo il negozio dei miei genitori sarà chiuso,
mi potresti raggiungere?”
Mizumoto, il volto sorridente, digitò svelto la risposta.
2
«Cazzo, di nuovo!»
Era lunedì, il giorno dell’incontro con Hayakawa Megumi.
L’appuntamento era in serata.
Mizumoto salì sul treno nervoso e inquieto.
Aveva deciso di lavorare da casa, impostando la sveglia del cellulare... o
almeno quella era l’intenzione, ma il dispositivo non aveva suonato e l’ora
in cui si era prefissato di uscire era passata da un pezzo.
Si era così preparato in fretta e furia, ma era incappato in una brutta
situazione: il treno, solitamente puntuale, era in ritardo per via della caduta
di un fulmine.
Finalmente era salito sul vagone e, pensando che sarebbe comunque
arrivato in tempo, si lasciò andare sullo schienale del sedile tirando un
profondo sospiro.
Per essere caduto un fulmine, il cielo era incredibilmente terso.
Mizumoto sapeva che il parrucchiere gestito dai genitori della ragazza si
trovava all’interno della via commerciale coperta Ōtesuji, nel quartiere
Fushimi di Kyōto.
Mizumoto viveva da solo a Ōsaka, nel quartiere Yodoyabashi. Da lì
aveva preso la linea Keihan, per arrivare alla stazione più vicina di Fushimi
Momoyama senza alcun cambio.
Eppure, per qualche motivo, la sveglia non aveva suonato...
Mizumoto prese il cellulare, rivolgendogli uno sguardo pieno d’odio.
Controllando di nuovo, gli parve di aver programmato l’orario senza
però attivare la sveglia. Non poteva credere di aver commesso un simile
errore.
I dati del lavoro erano danneggiati, aveva avuto problemi con la
ricezione delle e-mail e il treno era in ritardo...
Non era la prima volta che, all’improvviso, simili inconvenienti gli
accadevano uno dietro l’altro.
Usando lo smartphone, Mizumoto aprì la pagina social della sua
compagnia.
Il web era in fermento per la notizia di Serikawa Mizuki.
“Che sorpresa scoprire che la sceneggiatrice è Serikawa sensei.”
“Non mi stupisce, si vede che è fatto bene.”
“Non sto più nella pelle da quando ho saputo che ci sarà il seguito.”
“Sono già pronta a pagare il sovrapprezzo.”
Commenti del genere proliferavano.
“Certo che, se una che collezionava successi sta scrivendo le storie di
finali secondari sotto un altro nome, vuol dire che si è ridotta proprio in
miseria.”
Non mancavano i pareri negativi, ma nel complesso quasi non si
notavano.
“Serikawa Mizuki e Hayakawa Megumi...”
Aveva dimenticato Hayakawa Megumi, ma di Serikawa Mizuki si
ricordava eccome.
Rifletté sul fatto che i suoi continui guai con le macchine coincidessero
con il riavvicinamento a persone per cui provava una grande nostalgia.
Mizumoto socchiuse gli occhi rimuginando su quella stranezza.
Mancavano ancora venti minuti all’arrivo, quando il treno si fermò a una
stazione intermedia e una voce annunciò: «A causa del fulmine caduto si
sono verificati guasti nell’impianto elettrico di alcuni vagoni. Ripartiremo il
prima possibile, vi preghiamo di attendere».
Mizumoto si portò una mano alla fronte, sbalordito di sentir ancora
parlare di guasti.
Innervosito per la sua stessa impazienza, scrisse un’e-mail a Megumi,
comunicandole che per un guasto del treno sarebbe arrivato in leggero
ritardo.
Gli giunse in risposta: “Ricevuto. Vieni pure con comodo, non ti
preoccupare”.
Mizumoto abbassò le spalle, sospirando sollevato.
Il treno non accennava a muoversi, quindi decise di schiacciare un
pisolino.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, inquieto al pensiero che il
giorno successivo sarebbe andato a trovarla.
Incrociò le braccia e chiuse lentamente gli occhi. Avrebbe voluto
riposare giusto un attimo, ma cadde in un sonno profondo.
In sogno qualcuno gli scuoteva le spalle: “Su, dài, ormai ci sei”.
«Prossima fermata, Fushimi Momoyama.»
A quell’annuncio Mizumoto riaprì di colpo gli occhi.
Il treno si era rimesso in corsa senza che lui se ne fosse accorto, e ormai
era giunto a destinazione.
“Mi è andata bene, stavo per superare la mia fermata mentre dormivo.”
Nonostante il treno non si fosse ancora fermato, Mizumoto si alzò in
fretta tirandosi un pizzicotto fra le sopracciglia.
Non capiva se fosse stato un sonno leggero o profondo, ma sapeva di
aver sognato. Non riusciva a ricordarselo bene, ma doveva essere stato un
bel sogno.
3
a. Capitale del Giappone per più di cento anni, fino al 1333. (NdT)
4
Ora mi ricordo.
Anche nel sogno ero a bordo di un treno.
Risuonava da qualche parte la “Pastorale” di Beethoven.
Nello spirito di quella musica, il treno procedeva in aperta campagna.
“Come mai sta correndo per i campi?”
Mi sorse questo dubbio, ma non riuscii a trovare una risposta.
Tutto era avvolto da un forte bagliore, eppure il paesaggio pareva
ammantato dalla nebbia.
“Ah, certo, sto sognando.”
Il tremolio del vagone mi cullava piacevolmente.
“Sono mezzo addormentato, e sto sognando.”
Il treno proseguì fra il verde smagliante delle messi. Poi, finalmente, si
fermò al centro di quel panorama.
I passeggeri scesero gioiosi.
Anch’io mi alzai lentamente e uscii.
I campi si stendevano a perdita d’occhio, e in lontananza si scorgevano
le montagne.
Pensai confusamente che fosse un paesaggio già visto da qualche parte.
“Ma certo, assomiglia molto al posto in cui vivono i mei genitori.”
Mia madre e mio padre ora abitavano a Miyama, una frazione della città
di Nantan.
Quando frequentavo le scuole elementari ci andavo con loro in vacanza.
Contemplando quel dolce panorama, i miei genitori dicevano sempre:
“Quando saremo in pensione, vivremo in un posto così e ci godremo la
vita”.
Soffiava un vento fresco molto gradevole.
Sul verde sgargiante dei campi si allargava l’indaco del tramonto. In
cielo se ne stava sospesa la bianca luna piena. Sulla strada poco più avanti
si scorgeva un caffè-roulotte.
Di fronte alla vettura era stato sistemato qualche tavolo di legno, a cui
avevano preso posto i passeggeri del treno.
Capivo che c’erano delle persone accomodate solo perché scorgevo le
loro silhouette, ma non riuscivo a distinguerne i volti.
I sogni sono vaghi.
Mi sedetti a un tavolino per due rimasto libero.
A quel punto giunse qualcuno che mi posò davanti un bicchiere.
“Ecco a lei, ‘cream soda di Mercurio’.”
Nonostante tanto il paesaggio quanto le persone avessero dei contorni
poco definiti, la bevanda si distingueva nettamente. Era un autentico cream
soda con tanto di gelato sormontato da una ciliegina.
Diversamente da quello classico, tuttavia, la bevanda gassata non era
verde ma di uno splendido azzurro, e il gelato non era color vaniglia ma di
un grigio tendente al bianco.
Avvicinai il bicchiere e misi in bocca la cannuccia.
Il cream soda che mi scendeva giù per la gola aveva una piacevole
freschezza e la giusta dolcezza.
Proprio perché non era verde ma sfoggiava quella stupenda tinta azzurra,
la bevanda aveva un che di nostalgico e, al contempo, di nuovo.
Il gelato color grigio pallido era in realtà un sorbetto: il suo delicato
profumo di limone si sposava alla perfezione con la soda.
Incantato da tanta bellezza, mi giunse da vicino una voce femminile che
diceva amareggiata: “I problemi con le e-mail, i dati danneggiati, e ora
anche il treno in ritardo... pare proprio che Mercurio si muova all’indietro”.
Era come se avesse pronunciato i miei stessi pensieri.
Mi voltai istintivamente con la sensazione che qualcuno si fosse espresso
al mio posto, ma invece di una persona notai un gatto.
A giudicare dal soffice pelo bianco, poteva essere un persiano oppure un
chinchillà.
L’animale aveva parlato?
“Vì, ti prego! Non parlare come se fosse colpa mia.”
Di fronte al persiano sedeva un altro gatto.
Un siamese dagli occhi azzurri, la voce di un adolescente.
“Avanti Marc, non dico mica che è colpa tua.”
“Non mi piace Marc... non potresti chiamarmi Mercury?”
“Ma se anche tu mi chiami soltanto Vì.”
“Il tuo è un nome difficile.”
“Cosa avrebbe di difficile Venus?! Non è per nulla complicato da
pronunciare.”
“Intendevo tutt’altro.”
Pareva che il persiano si chiamasse Venus e il siamese Mercury.
Sebbene continuassi a vedere le persone attorno a me solo come
silhouette, i gatti invece li distinguevo perfettamente. I due animali per
giunta parlavano. Per essere un sogno era davvero strano.
E cosa significava “pare proprio che Mercurio si muova all’indietro”?
Istintivamente mi misi a fissare i due gatti. Venus se ne accorse e,
voltandosi verso di me, agitò una zampa.
Risposi impacciato con un cenno del capo e presi un altro sorso della
bevanda. Come avevo già notato, aveva in sé qualcosa di nostalgico, ma il
sapore era davvero ottimo.
“Il ‘cream soda di Mercurio’ è una bevanda nostalgica, perfetta per il
movimento retrogrado del pianeta. Solo lo chef avrebbe potuto idearla”
spiegò Venus mentre Mercury annuiva alle sue parole.
Intanto che i due gatti disquisivano a proposito della bevanda,
timidamente domandai: “Scusate... Anch’io ultimamente sto avendo diversi
problemi, ma cosa sarebbe il movimento retrogrado di Mercurio?”.
Avevo trovato il coraggio di rivolgere quella domanda solo perché ero
convinto di trovarmi in un sogno. Da sveglio, non sarei mai stato in grado
di farlo.
“Il movimento retrogrado di Mercurio indica la retrocessione del
pianeta” rispose Mercury.
A quella banale spiegazione, Venus fece una smorfia e aggiunse: “E
questa sarebbe una risposta? Il pianeta Mercurio passa circa tre volte l’anno
per un periodo di regressione”.
Inclinai il capo con aria interrogativa e dissi: “Ma i pianeti del sistema
solare non possono retrocedere”.
Mercury replicò: “Giusto, ma non è che Mercurio proceda davvero
all’indietro. Solo che, se osservato dalla Terra, si ha l’impressione che in
certi periodi vada veramente così. È una sorta di illusione ottica”.
Valutai quelle parole con scarsa convinzione, a braccia conserte.
“Sembra di vederlo retrocedere perché è il pianeta più prossimo che
orbita vicino al Sole, a una velocità diversa rispetto a quella della Terra. È
come quando sei sul treno o viaggi in autostrada e hai l’impressione che i
treni o le vetture che corrono vicino stiano andando all’indietro, nonostante
in realtà continuino nella tua stessa direzione” spiegò Mercury.
Quell’esempio così semplice mi fece finalmente comprendere. Convinto,
battei le mani e domandai: “E questa cosa accade tre volte l’anno?”.
“Sì, all’incirca, e ogni volta dura più o meno tre settimane.”
Proprio mentre stavo pensando che mi sembrava una durata
considerevole, Venus commentò: “Abbastanza a lungo, non credi? Mercurio
è la stella deputata all’elettricità e alla comunicazione. Quando dalla Terra
si scorge il pianeta muoversi in senso retrogrado, vuol dire che la sua
energia esercita un effetto contrario. È per questo che durante quel periodo
si verificano facilmente guasti agli apparecchi elettronici e sorgono
problemi nelle comunicazioni. Può capitare che un’e-mail non giunga a
destinazione o che l’aereo o il treno faccia ritardo, come ti è accaduto”.
Mi sfuggì un’esclamazione di stupore.
Ripensandoci, in effetti, gli inconvenienti ai dati o alle comunicazioni di
solito andavano avanti per quasi un mese. Poi, a un tratto, dopo giornate di
nervosismo, svanivano e la situazione tornava alla normalità come se nulla
fosse accaduto.
“Ah, allora è così. Il fatto che ogni tanto quelle cose capitassero una
dietro l’altra dipendeva dal movimento retrogrado di Mercurio...”
Provai a convincermi, ma mi rimase sul volto un’espressione di
perplessità.
“Ma allora perché il mio partner Yasuda non ha mai di questi problemi?”
domandai.
Gli inconvenienti mi perseguitavano, i dati si danneggiavano e i treni
ritardavano, ma tutto ciò non riguardava minimamente il mio amico.
“Il fatto è che alcuni subiscono facilmente l’influenza del movimento
retrogrado, altri invece non ne sono così condizionati. Dipende dal periodo
e dalla posizione delle stelle. Tu potresti risentire del potere del pianeta
perché lo ospiti nella sesta casa. Danni e benefici vanno sempre insieme,
non lo sai?” disse Mercury senza esitazioni.
“Cosa vuol dire che Mercurio è nella sesta casa?”
Venus rispose alla mia domanda: “È un fatto di astrologia. La sesta casa
indica il lavoro e la salute. Nel tuo caso, Mercurio si trova lì. È per questo
che sei molto portato come ingegnere informatico, una professione che
riguarda l’informazione e la comunicazione. Solo che, per lo stesso motivo,
tendi facilmente a subirne l’influsso”.
Annuendo, cercai di riordinare mentalmente quelle parole.
“Mercurio è nella sesta casa, quella del lavoro. Perciò più di altre
persone godo dei suoi benefici, ma sono anche sotto gli effetti negativi
causati dal suo movimento retrogrado.”
Continuavo a non capirci granché, ma mi convinsi per il momento che le
cose dovevano stare così.
Pensai che, se più di altri mi trovavo sotto l’influsso del pianeta durante
il periodo di recessione, invece di lavorare sodo sarebbe stato meglio
prendermela comoda come stavo facendo in quel momento.
Osservai il paesaggio campestre che mi si estendeva davanti a perdita
d’occhio e inspirai profondamente.
“Potrei andare a casa dei miei, è da tanto che non ci torno” pensai.
All’improvviso fui colto da un dubbio e, guardando i due gatti,
domandai: “È meglio evitare gli spostamenti durante il periodo del
movimento retrogrado? Per esempio, sarebbe meglio non prendere l’aereo
perché c’è il pericolo che accada qualche disastro?”.
Venus fece una risatina.
“Ma no, non c’è alcun pericolo. Mercurio non è che un minuscolo astro.
Potrebbe ritardare il decollo o l’atterraggio, ma non ha l’energia sufficiente
per far cadere un aereo.”
A quella curiosa risposta, Mercury sbuffò innervosito.
Venus, incurante, proseguì: “Puoi viaggiare tranquillo durante il periodo
retrogrado, purché tu predisponga preventivamente le tue azioni e faccia più
attenzione del solito. E questo non riguarda solo i viaggi. Se sarai prudente,
eviterai i guai”.
Mercury annuì in segno di approvazione, quindi aggiunse: “Non avrai
problemi se ti muoverai considerando per tempo che si tratta di un periodo
in cui i problemi aumentano e i guasti accadono con più facilità del solito”.
Feci cenno di aver capito.
“Devo essere davvero uno che subisce senza troppe difficoltà l’influenza
negativa del pianeta. D’ora in poi controllerò in anticipo quando cade quel
periodo, e quando sarà il momento farò attenzione e mi muoverò per
tempo” pensai.
Mercury aggiunse: “C’è un’ultima cosa a cui devi stare attento. Metti in
conto di non essere adatto a chiudere contratti importanti”.
“Contratti?”
“Esatto, tienilo bene a mente. Durante le tre settimane del movimento
retrogrado puoi controllare al meglio i documenti, ma per la firma è
preferibile attendere la fine del periodo. E se proprio devi siglare un
contratto in quel periodo, allora, mi raccomando, massima attenzione.”
Annuii.
“Questi periodi di movimento retrogrado sono terribili” mi sfuggì
involontariamente.
Mercury si strinse nelle spalle imbarazzato, come se avessi parlato di lui.
Guardando l’amico, Venus scosse il capo e disse: “Non ci sono solo cose
spiacevoli. Sai, il movimento retrogrado di Mercurio...”.
«Ho lasciato il lavoro dopo aver fatto un sogno... Detta così sembra un
gesto rischioso. Ma non me ne sono pentita.»
Mentre Hayakawa Megumi parlava, Mizumoto annuiva in silenzio.
«Mi è sempre piaciuto acconciare i capelli alle mie amiche e farle belle,
quindi penso che la parrucchiera sia il lavoro che fa per me. Desideravo con
tutta me stessa trasferirmi in una grande città, ma, non avendo il coraggio di
sceglierne una come Tōkyō, ho pensato di lavorare nella zona di Umeda,
qui a Ōsaka, che per me è la metropoli per eccellenza del Giappone
occidentale. Ero felicissima di aver realizzato tutti i miei obiettivi.»
Aveva parlato con un tono gioioso, ma, giunta a quel punto, abbassò lo
sguardo.
«Nonostante facessi il lavoro che mi piace nel posto che avevo scelto, da
qualche parte dentro di me pensavo: “Ho l’impressione che qualcosa non
vada”. Ho sempre avuto la sensazione, impossibile da esprimere a parole, di
sentirmi fuori luogo.»
Megumi prese un lungo respiro e continuò: «È stato allora che ho fatto
quello strano sogno...».
I suoi occhi sembravano guardare lontano, e iniziò a raccontare.
“... ciò che mi diverte” bisbigliai con lo sguardo rivolto verso il cielo
stellato.
Senza dubbio il lavoro mi divertiva.
Ma allora perché ora lo trovavo così faticoso?
Mi vennero in mente due motivi. Il primo era che non potevo lavorare
seguendo il mio ritmo, e il secondo che avrei voluto essere apprezzata come
acconciatrice. Tagliare i capelli, infatti, non mi piaceva molto.
Proprio così.
Adoravo acconciare e truccare le bambine per la cerimonia in cui si
celebrano i tre e i cinque anni, oppure le ragazze in occasione della festa per
la maggiore età, o ancora le donne per matrimoni e servizi fotografici.
Ero sicura di poter rendere le mie clienti stupende.
I tagli invece non andavano mai come avrei voluto, e per me non erano
una cosa piacevole.
A detta del gatto, sarebbe stato meglio se mi fossi impegnata in ciò che
più mi divertiva, il che significava provare a restringere il campo ai lavori
che svolgevo con piacere.
Nell’istante in cui formulai quel pensiero, il mio cuore si alleggerì.
Il sole cominciò a sorgere, rischiarando il cielo blu della notte.
Era passato così tanto tempo senza che me ne fossi accorta?
“È l’alba, assaggi anche un caffè freddo.”
Lo chef, ridendo scherzosamente, posò davanti ai miei occhi un alto e
stretto bicchiere.
La bevanda aveva una tinta porpora vicina all’indaco.
Lui lo mescolò con uno sciroppo dolce biancastro.
“È sciroppo dell’aurora” spiegò.
L’intenso colore rosso porpora del caffè si schiarì a vista d’occhio.
Misi la cannuccia tra le labbra e presi un sorso.
Amarognolo, ma anche dolce.
Dolce come il sapore del risveglio.
“Squisito” dissi.
Il cielo si illuminava sempre più.
Abbagliata, socchiusi gli occhi.
«Quando tutti noi ci eravamo ormai rassegnati all’idea che purtroppo i gatti
sarebbero stati soppressi, tu, piccolo piccolo, tornasti al parco correndo e
dicesti: “La mia famiglia può prenderli in affidamento”. Me lo ricordo
benissimo. Ero talmente felice che stavo per piangere.»
Come se stesse rivivendo quel momento, Megumi appoggiò una guancia
sulla mano mentre i suoi occhi si bagnavano di lacrime.
Mizumoto, imbarazzato, abbassò lo sguardo.
In quel momento si ricordò.
Quando aveva detto di poter accogliere i gatti, una studentessa più
grande lo aveva ringraziato con gli occhi lucidi.
Anzi, non era solo sul punto di versare le lacrime. Piangeva a dirotto,
proprio come una bambina piccola.
Mizumoto era rimasto colpito da quella sua compagna di sesta
elementare, dunque più grande di lui, che singhiozzava in quel modo.
Quella ragazzina doveva essere Megumi.
«Forse i gatti ci sono stati riconoscenti per quella volta» propose
Mizumoto.
Megumi sbatté le palpebre sorpresa, e il ragazzo aggiunse: «Mi riferisco
al tuo sogno. Forse i gatti volevano ringraziarti».
Lei fece una risatina.
«Io ho solo aiutato come tutti gli altri, non ho fatto nulla per meritare la
riconoscenza di qualcuno. E poi, fra i gatti del vecchietto, non c’erano un
persiano così bello e un gatto nero con gli occhi porpora.»
Mizumoto concordò con un cenno.
I mici del vecchietto erano tutti a pelo corto.
«Allora forse i gatti hanno pregato la divinità felina affinché restituisse il
favore... che ne dici?» si lasciò sfuggire Mizumoto senza pensarci.
Megumi scoppiò a ridere e ribatté: «La divinità felina? Non mi sarei mai
aspettata parole simili da uno come te».
Mizumoto si sentì avvampare.
Effettivamente, non era tipo da dire simili fantasticherie.
«Se per caso i gatti hanno pregato la loro divinità affinché la gentilezza
ricevuta fosse restituita, allora tu dovresti essere il primo a vedere
ricambiato il favore.»
«Io?»
«Certamente. Sei tu che hai salvato quei micetti. Noi tutti invece, per
quanto fossimo tristi, non abbiamo potuto fare nulla...»
«Che esagerazione. Ho solo avuto la fortuna di avere un posto in cui
ospitarli» disse Mizumoto ridendo. In quell’attimo gli tornarono
improvvisamente alla mente le ultime parole riferitegli dal gatto.
“Si può tentare nuovamente ciò che in passato non era riuscito. È anche il
momento della rivincita.”
Le parole dell’elegante persiano gli attraversarono la mente.
“Il gatto non solo mi ha insegnato a leggere le stelle, mi ha anche spinto
ad agire” si disse.
Il Caffè della Luna Piena si trovava su una sponda del fiume Kamo, che
scorreva rapidamente.
Di fianco al Caffè si udiva la serena armonia di un pianoforte.
I gatti camerieri del Caffè della Luna Piena misero a posto l’insegna e si
accomodarono sulle sedie, socchiudendo gli occhi, inebriati dalla musica.
Vicino al fiume trovava spazio un pianoforte a coda. A suonarlo era un
anziano gentiluomo.
Come sotto un riflettore, era illuminato dal bagliore dell’astro lunare.
Il brano: Salut d’amour di Elgar.
Terminata l’esecuzione, i gatti non lesinarono gli applausi e gli corsero
incontro.
Il distinto signore lentamente si alzò, accarezzò la testa e il mento dei
mici e si avvicinò al Caffè della Luna Piena.
Lo chef, il gatto tigrato, applaudì e posò sul tavolo un boccale.
«“Birra azzurra del firmamento”, prego» disse.
Di un colore che gradualmente sfumava dal blu notte all’indaco,
dall’azzurro all’arancione, la curiosa birra era tempestata di stelle della Via
Lattea.
Il signore, sul volto un grande e gioioso sorriso, si accomodò e disse:
«Avete anche sistemato l’insegna...».
«Si figuri, è il ringraziamento per averci fatto ascoltare la sua magnifica
esecuzione» replicò lo chef portandosi una zampa al petto.
«Era solo il mio ringraziamento per voi...»
«Un ringraziamento per noi?»
«Sì, grazie davvero per aver guidato quei bambini.» Dopo aver
pronunciato quelle parole, l’uomo si alzò e fece un inchino.
«Non ce n’è bisogno. Siamo profondamente riconoscenti a quei bambini
che hanno aiutato i nostri simili» rispose lo chef sorridendo. Poi, facendo
cadere lo sguardo sulla sedia di fronte all’uomo, aggiunse: «Permette?».
«Ma certo.»
Il signore e lo chef sedevano l’uno di fronte all’altro.
Davanti allo chef era posato un altro boccale di birra. I due brindarono.
L’uomo portò il boccale alle labbra e chiuse gli occhi per la sorpresa.
«Che gusto superbo. È come se ti pervadesse.»
«La ringrazio.»
«Che nostalgia. Anche la prima volta che l’ho incontrata ho bevuto con
lei una birra.»
«Davvero?»
«Sì, lei, quel gattone in cui mi imbattei in un angolo di Praga, mi offrì un
boccale dicendomi: “Si rilassi”. E questa birra è buona come allora.»
L’uomo socchiuse gli occhi con nostalgia.
«A proposito, all’epoca lei, un giovanotto nella sua fase marziana, era
direttore d’orchestra.»
«Avevo quarant’anni, ero confuso nel sentirmi chiamare da lei
“giovanotto”, ma ora che ci ripenso, all’epoca ero proprio un giovincello. In
effetti, mi ero fatto un nome come direttore d’orchestra. Ero molto esigente,
quasi dispotico. Finii col considerare i membri dell’orchestra semplici
strumenti per esprimere la mia musica...»
Ma poi fu l’orchestra a boicottarlo.
Lui aspirava soltanto a produrre la musica migliore, ma alla fine, vinto
dalla preoccupazione e dalla sofferenza, fu sul punto di detestarla.
Mochizuki Mai
Menu del Caffè della Luna Piena
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Copertina
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Il Caffè della Luna Piena
Prologo
Capitolo 1. Trifle dell’Acquario
1
2
3
4
5
6
Capitolo 2. Fondente al cioccolato con gelato del plenilunio
1
2
3
Capitolo 3. Vecchi incontri sotto Mercurio
Prima parte. Cream soda di Mercurio
1
2
3
4
Seconda parte. Champagne con gelato al chiaro di Luna e Venere
1
2
Epilogo
1
2
3
Postfazione
Menu del Caffè della Luna Piena
Copyright
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