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Davvero? E la sua gioia sale al culmine. Il film finisce proprio lì, sulla spiaggia di Creta,
con Zorba e l’Inglese che ballano ridendo come pazzi. Cosa significa questo? Zorba
balla, per sua esplicita ammissione, “come un pazzo”. Alla morte del figlio ballò fino ad
estenuarsi, e di nuovo balla alla morte della giovane e bella vedova (Irini Papas). In un
altro film, “Stella” (ancora di Kakoiannis, se non sbaglio), il protagonista balla forsen-
Piero Vereni
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natamente quando Stella (una Melina Merkouri superba) si rifiuta all’ultimo momento
di sposarlo. Cos’è: ballo come espressione del dolore? Ballo come terapia? Non so e
non lo capisco. So solo che di certo non è più così (se mai lo è stato). I giovani maschi
C’è un locale, a Florina, che si chiama “Irìda”. Una volta era “Metropolis”. È un
ambiente grande, situato in quello che doveva essere stato un palazzo privato, con un
giardino richiuso da mura al quale si accede ora attraverso un portone da cui sovrastano
innocui e penosamente modellati due leoni di terracotta stantia. Nel giardino c’è un lun-
go bancone-bar e diversi tavolini (una quarantina, direi del tutto a occhio). Ci si siede, si
ordina da bere e il livello della musica è tale da non impedire la comunicazione. Si può
insomma chiacchierare con un certo agio, senza essere costretti a spararsi nelle orecchie
poche parole chiave per risparmiare sulla quantità di informazione, come succede invece
in tutte le classiche discoteche. E come capita del resto nella sala interna dell’Irida. Si
tratta di uno stanzone di 200 mq, decorato con improbabili affreschi scopiazzati da qual-
che manuale di storia dell’arte per dare l’idea (perfettamente kitsch) che lì la Cultura
sala, e ci si siede attorno, su sgabelli alti ma confortevoli. Altri tavolini in penombra non
ingombrano il locale, che rimane dunque abbastanza ampio per eventuali danzatori. La
di sinistra, un altro bancone più piccolo, mentre il piano del DJ è subito vicino
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Ballare in Grecia
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dopo di che si passa al pop ritmato greco. Nota saliente del locale: non balla nessuno.
Almeno finche dura la xeni musiki nessuno balla. Solo le cameriere, che servono i nu-
merosi clienti in piedi o appartati a ridosso dei tavolini in penombra, accennano qualche
passo nei tempi morti delle consumazioni e anche qualche barista si muove da un parte
all’altra del banco sculettando o seguendo il ritmo coi piedi. Ma i clienti no. Si può dire
più precisamente che sussiste implicita una scala di tolleranza, per cui l’ammissibilità
Così le ragazze hanno di solito il diritto di muovere i fianchi rimanendo ferme sui
D’abitudine sono poche spregiudicate a prendersi tale libertà, e le più si limitano a muo-
vere le spalle al ritmo dei 4/4. I maschi attorno al banco e in piedi possono battere il
piedino o, se sono seduti, seguire il ritmo con discrezione, grazie alle spalle o alla testa,
ma è chiaro che lo fanno a spese della loro mascolinità. Infatti gli indigeni più palestrati,
bicipiti gonfi di sbarra da 60 kg o da lavoro nei campi, capello spesso a spazzola, brac-
ciali d’oro e catenacce al collo, quelli insomma che il più delle volte indossano T-shirt
aderenti e non camicie, questi signori riescono (merito di un evidente esercizio mentale)
costringerebbero a ballicchiare qualsiasi essere umano di età superiore agli 8 mesi. Gli
energumeni no, essi sono oltre l’umana umanità e tengono il loro corpo sotto perfetto
controllo. Dato che il volume della musica rende impossibile qualunque conversazione
che preveda frasi di più di due sillabe, questi subumani tacciono anche quando sono in
branco. Si limitano a bere (birra o whisky, secondo le possibilità economiche, non aspet-
tatevi ouzo in locali del genere), fumare e guardarsi attorno. Il sorriso non fa evidente-
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Piero Vereni
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mente parte del loro ristretto set di comportamenti, e come androidi in stile Terminator
controllano la situazione monitorando il locale. Visto che la loro vitrea pupilla è inca-
strata direttamente nel cranio senza possibilità di autonomo movimento, e visto che sca-
tola cranica, collo, spalle e torso sono scolpiti in un unico blocco, il semplice guardarsi
in giro diventa un ruotare il busto attorno allo svincolo delle anche, unica porzione di
questo cosiddetto corpo in grado di manifestare, assieme a gomiti e ginocchia, una qual-
sinibente, si passa alla musica greca. Sono le hit del momento, canzoni cretine e piene di
ritmo, che parlano di amori traditi e litigi adolescenziali. È una musica vivace, vitale e
alla gerarchia, per cui è scontato e prevedibile che i bovini appena descritti tacciano co-
dalla distanza che per fortuna il tempo e l’ignoranza hanno messo tra folklore e pop-
culture. Si va a braccio e a piede, si naviga a vista tra un passo e l’altro. Anche in questo
caso, come per il canto, predominano le femmine, che riescono comunque a far esplode-
non si fa in nessun altro “paese occidentale” (e i maligni ne trarrebbero prova della non-
occidentalità della Grecia moderna). Molti ragazzi “normali” (giuro: non trovo altra
parola per opporli ai quarti di manzo surgelati che costituiscono il fulcro polemico di
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Ballare in Grecia
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tradizionale, al quale però fanno di tutto per sottrarsi attraverso l’inventiva di chi non sa
schile (rubo questo sublime concetto a Tiziano Scarpa), queste espressioni metonimiche
della più turgida delle erezioni anzi, queste erezioni tout court (tout longue?), queste
teste di cazzo letterali, questi Priapi semi-semoventi, queste Paniche Mentule, questi
ciò per cui sono stati programmati: ergersi. E nulla riesce a mutare la loro espressione o,
cercando di essere più precisi, nulla riesce a caricare di senso un vuoto prossemico e
quando una verga in erezione possiede una sua espressione (tanto più facciale)?
Ora, se qualcuno è arrivato a pensare che questa mia descrizione nasconda dietro
la fredda lucidità di una scrittura piatta il caldo rancore di un sentimento personale, sap-
pia allora quel qualcuno di non essersi sbagliato: sono qui, in fondo, per raccontare la
genesi di questo mio novello sentire. Sappia però altrettanto chiaramente che tutto
l’astio, l’odio, il profondo disprezzo che provo per queste mosciamente turgide prove
del fallimento dell’evoluzione della specie umana non mi impedisce di essere lucido e
freddo nella descrizione, anzi, acuisce il mio senso di osservazione e affina la mia per-
cezione. L’odio insomma come molla cognitiva, perché so di essere ben lontano da e-
rabbia profonda e ragionevole, calda fino a far male alle ossa e ai nervi, la cui radice più
carnosa si nutre della mia incapacità assoluta di accettare l’imperialismo culturale di chi
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Piero Vereni
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non si limita a non accettare o non capire la tua diversità, ma pretende invece di unifor-
Di certo, qualcosa che uno spirito come il mio non poteva non percepire in un lo-
cale come l’Irida, oltre alla strana opposizione già indicata, tra corpo maschile abbarbi-
coglie oltre la pupilla spenta di chi non balla, soprattutto se comparata allo sguardo di
chi invece classifica come naturale e normale una dose minima di espressione corporea,
almeno quando sollecitata da uno stimolo ritmico così incalzante. Il nerboruto paralitico,
quella che si può chiamare all’ingrosso la varietà intraculturale. No: evidentemente obe-
rato da un imperativo di natura etica, egli proselitizza. Non potendolo fare con le forme
volume, ma sospetto fortemente anche e prima di tutto per suoi limiti strutturali), lo
sguardo bovino di questo toro tarato, di questo tarello tarlato, si raddensa in guizzi
(grumi schizzati in faccia a chi balla o almeno accenna a farlo) che prima che disprezzo
e superiority complex manifestano una forma di stizza animosa che ci si può immagina-
quello che nella sua testa-cappella assume credo primariamente la forma poliedrica di
sinestesie massicciamente olistiche, questo coso che solo gratuitamente si può pronomi-
nare in “egli” si dice: “Ma perché questi vermi che provano a ballare non accettano
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Ballare in Grecia
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dell’ovvietà: “La superiorità di quel che io epifanizzo in forma sì sublime è tale e tanta
rispetto ad ogni possibile e financo concepibile alternativa, che il più modesto accenno a
que contrastiva nei miei sublimi riguardi, di questa variegata multiformità di espressione
corporea non può che andar contro l’ordine naturale delle cose e dunque va severamente
punita.”
A me piace ballare. In locali come l’Irida non l’ho mai fatto, da quando sono in
implicito cui tutti soggiacciono. Ho giustificato il mio disagio come vergogna, come
desiderio di non mettermi in mostra, finché non sono stato costretto a constatare che si
trattava di paura. Il fatto che questa conferma sia avvenuta a Salonicco e non a Florina
non toglie di certo validità alla mia ipotesi, ma semmai ne aggiunge, rendendo infatti
chiaramente generalizzabile quel che, limitato a Florina, potrebbe passare per patologia
provinciale: Salonicco è una grande città, e per molti versi più “moderna” di Atene, di
Sono sceso a Salonicco per incontrare il mio amico Gerard, olandese, antropologo,
in vacanza in Grecia. Io, lui e Gianluca (un altro antropologo, a Salonicco invece per
lavoro) la sera del mio arrivo siamo usciti per spassarcela un poco. Dopo aver cenato in
uno dei migliori ristoranti della città, verso le 23 ci siamo avviati in direzione del quar-
tiere con la più alta concentrazione di locali (in pratica è costituito esclusivamente di bar
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affiancati uno all’altro). Lo schema del bar del ladadika (questo il nome del quartiere)
ricalca quello dell’Irida. C’è una parte all’aperto coi tavolini (più piccola rispetto a quel-
la dell’Irida, qui siamo sul marciapiede di una strada, in fin dei conti) e una sala interna
con musica a palla e luci intermittenti. L’arredamento, i pavimenti e la scala che porta al
soppalco superiore sono tutti di legno, come all’Irida. I bar si susseguono uno accanto
all’altro, senza interruzioni rilevanti e tutti utilizzano questo schema, non ho notato ec-
cezioni, per cui si può dire che uno vale l’altro (anche i prezzi, salati, sono sempre quel-
li). Ci sediamo più o meno a caso, forse attirati dalla vistosa bellezza di una cameriera,
ma c’è da dire che il personale (femminile per il servizio ai tavoli e maschile per il ban-
co) sembra chiaramente selezionato in base a criteri estetici in tutti i locali. Il nostro ha
dunque più o meno lo stesso numero di clienti di quelli che gli stanno a fianco. Se la
parola ha un senso, è un locale “tipico” del ladadika. Beviamo un paio di birre appol-
laiati sugli alti sgabelli attorno a un tavolino. Si chiacchiera del più e del meno, ma la
del ristorante: l’evidente sensualità di questa città e - cosa che ci interessa forse anche di
più - della sua etnia femminile. La conversazione scivola veloce dal teorico al persona-
lissimo, un bell’esempio, posso dire, di solidarietà maschile e non maschia. Anche per-
ché nessuno di noi tre appartiene per carattere o educazione alla versione del maschio
fitte, ma soprattutto non abbiamo paura di dirci come non ci capiamo, alcune volte, e
come non capiamo quel che vogliamo. Dopo un po’ di tempo (un’ora? due? non ho ide-
a. Mi accorgo adesso di non aver guardato l’orologio per l’intera serata, segno che era
una di quelle giuste) decidiamo di entrare nella parte interna, per gettare un occhio, co-
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me si dice. Lo spazio (che vedevamo già da fuori, dato che non ci sono porte, visto il
caldo torrido) è ristretto, forse 40 mq, forse meno, più un soppalco di un’altra decina di
mq. Date le dimensioni, ci vuol poco a riempirlo, e infatti è pieno (ripeto, come tutti gli
altri. E questa mia insistenza sull’assoluta normalità del locale serve solo come trucchet-
to retorico, per rendere del tutto “normale” anche quello che accadrà fra poco). Come di
prammatica, non balla nessuno, con le stesse sfumature che ho indicato descrivendo
l’Irida: quanto più si è “femminili”, tanto più è tollerato un minimo di movimento. Nes-
suno, comunque, balla come si potrebbe ballare in una qualsiasi discoteca italiana. Sento
lì in fondo una vocina polemica che dice: ehi, ma stai parlando di un bar, non di una
discoteca, per questo non ballano! Bene, cerchiamo di chiarirci: non esiste in Italia un
tipo di locale comparabile a questi, ed è vero che esistono in Grecia discoteche “classi-
che” (con la pista da ballo regolarmente vuota, manco a dirlo...) ma se io vi dico: musica
cazzona a quattro quarti che non ci si smuove da quel rtimo; nessuno “bianco” tra una
giochi di luci colorate e laser che disegnano figure nell’aria; impossibilità totale di
chno” e “underground” attira le mie mani e i miei piedi. Non so chi abbia cominciato,
quasi di certo assieme, e sia come sia nel giro di pochi minuti io, Gerard e Gianluca
stiamo ballando. Eravamo una bella compagnia, e questo rendeva per ognuno di noi
qualche misura più discreta la nostra danza (negli spazi enormi dell’Irida ogni gesto è
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setacciato e registrato dalla maggior parte degli altri clienti, del resto il nome del locale,
che in Italiano sarebbe Iride, non credo sia casuale). Io, quando ballo, non è che stia
proprio lì a pensare, più che altro ballo. In Italia il mio stile passa del tutto inosservato,
ma da precedenti esperienze greche sapevo bene che il modo in cui mi muovo, soprat-
tutto se sono particolarmente “ispirato” come lo ero quella sera a Salonicco, attira
frustrato dalle mie negative sensazioni all’Irida, non avevo neppure pensato a questa
Birkenstock. Comode sì, ma non per ballare. Me le tolgo e le getto in un angolo. Gian-
luca mi imita e i suoi mocassini indiani finiscono a fianco delle mie ciabattone. Sudia-
mo e, come giusto, beviamo. Attacchiamo bottone con la cameriera che aveva attirato la
nostra iniziale attenzione. Le offriamo un giro, ce ne offre uno lei. Noi non siamo per
nulla invadenti e lei pare tutto tranne che scocciata delle nostre attenzioni. Ci chiede di
dove siamo, si informa sulle ragioni del nostro soggiorno a Salonicco e quando può si
unisce a noi per sorseggiare la sua bevanda che le custodiamo come il sangue di San
Gennaro quando deve lasciarci per seguire le ordinazioni. La musica “straniera” conti-
nua e noi, più o meno, diventiamo il centro d’attenzione del locale. Me ne accorgo, e un
volentieri un paio di sorrisi genuini di alcune ragazze cui la nostra performance sembra
quel che mi interessa del ballo è il corpo che si ricorda di se stesso (ballo anche da solo,
nella mia stanza, se l’urgenza è forte) e quindi non sono particolarmente impressionato
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dallo svolgersi degli eventi. Ne faccio invece una specie di telecronaca/riassunto a Gian-
luca, che sembra del tutto ignaro di quel che succede e balla e basta (Gerard era con me
colpo alla musica greca, spiego a Gianluca: stanno cercando di farci fuori, o di vedere
quanto siamo tosti. Sanno che siamo stranieri e dunque è in qualche modo tollerabile
che noi si balli la “xeni musiki”, ma con la musica locale cercano di isolarci. Gianluca
non capisce, o non mi crede. Lo si nota dalla sua espressione piattamente dubbiosa. Pro-
babilmente pensa che i Martini che navigano nel mio stomaco sopra la birra mi abbiano
un pizzico alterato, e abbozza. Infatti ho ragione, e ora alcuni maschi iniziano a ballare.
È il ballo stereotipo della cultura greca: in circolo, tenendosi per mano all’altezza della
testa, ci si muove lentamente con passi (per me che non so un cazzo di balli tradizionali
greci, se non che mi annoio a morte ad ogni “manifestazione culturale” in cui mi tocca
grande del Canottieri Napoli, ci relegano ai margini in senso letterale, non riusciamo ad
entrare. Cerchiamo di tener duro e ci salva in qualche misura Fedra, la nostra cameriera
prediletta: forma lei un circolo nel quale ci fa entrare. È fatta, penso, e infatti è così. Non
ci frega niente se non sappiamo i passi (ma poi, quanti li sanno?) e continuiamo a balla-
re. Si passa di nuovo alla musica straniera. Qualcuno adesso si muove un po’ più libe-
ramente, anche tra i maschi. e le ragazze, se prima sorridevano, adesso danno segno di
spassarsela proprio. È, mi viene da pensare, la rivincita dei corpi. Flash back inevitabile:
a Mitilini, quando eravamo in dodici a fare casino, abbiamo trasformato un posto simile
in una perenne pista da ballo, e se all’inizio eravamo solo noi a scalmanarci, alla fine del
nostro soggiorno, tre mesi dopo, ballavano quasi tutti, maschi e femmine, Greci e “xe-
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noi”. E tutto questo lo penso lì, in diretta, e lo racconto a Gianluca, che però continua a
guardarmi perplesso.
e dal bicipite lucido che spunta della manica corta della maglietta aderente suddenly mi
compare di fronte come mostruosa epifania della virilità greca messa in crisi da un mo-
dello di mascolinità allo stesso tempo troppo femminile per essere imitato e troppo se-
ducente per essere tollerato. Mi prende per un braccio come cercasse di sradicarmelo
dalla spalla (ho ancora il livido) e mi dice che dobbiamo prendere le nostre scarpe e an-
darcene. Faccio finta di non capire a causa della musica troppo alta. Mi fa cenno di se-
guirlo fuori e lì, a fianco di un tavolino assediato da altri quattro cloni altrettanto nerbo-
ruti mi ripete il suo argomento irreplicabile. Gli chiedo cosa abbiamo fatto di male. Mi
risponde, unica concessione comunicativa, ma che prova oltre ogni ragionevole dubbio
che quel che scrivo è vero, che non è quello il modo di ballare. Traccheggio, per capire
se è uno di quelli abbordabili, e gli dico (sempre in greco) che siamo stranieri, e se ab-
biamo offeso qualcuno non era nostra intenzione. Come non è nostra intenzione andar-
cene, visto che ce la spassiamo e siamo lì giusto per questo. Rientro. Mi segue. Mi
prende per il bavero della camicia. Gianluca nota la situazione e si avvicina. Gli faccio
cenno di allontanarsi. Loro sono cinque e noi tre, per di più molto meno corazzati. Qual-
siasi soluzione “fisica” non solo sarebbe disastrosa per le nostre povere facce ma non
farebbe che confermare la “loro” idea del corpo come strumento per ottenere uno scopo,
mentre la nostra danza era corpo come espressione. Da questo punto di vista: corpo inu-
modo di far funzionare “fratello asino” come si deve. Cerco (e sia maledetta una volta
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per tutte le carità degli antropologi) di farlo parlare, e non risponde; gli offro da bere e
rifiuta; gli chiedo di nuovo cosa c’è che non va nel nostro comportamento, ma ormai ho
capito che ha tutti i muscoli allenati tranne quello della lingua (e provo un moto di istin-
tiva pietà anche per le sue sinapsi e per gran parte dei suoi neuroni, materiali di magaz-
zino evidentemente inutilizzati). Dato che non ottengo altra risposta se non il suo ritor-
nello (se fosse stato romano mi avrebbe continuato a ripetere: Ve ne dovete annàaaa!)
gli chiedo infine che diritto ha di scacciarci. Millanta di essere il proprietario. Beh! Sia-
mo di gran lunga i migliori clienti qui dentro! Conosco le usanze dei giovani greci e
posso dire con certezza che in un paio d’ore abbiamo speso quel che una comitiva di
indigeni non scialacqua in una settimana ininterrotta al bar. L’argomento non regge, e
conferma i miei dubbi sulla sua autorità. Del resto, se è il padrone, allora è matto suona-
to, e una vocina maliziosa, cattiva e un filo razzista mi ricorda le buone doti dei Greci
per gli affari: no, non può essere il proprietario. Mi rivolgo al banco. Fedra chiaramente
non lo conosce e il barista cui mi rivolgo, oramai più in cerca di solidarietà che di chia-
rimenti, alla mia domanda di chi sia il locale, prima mi dice “È mio”, e poi cambia subi-
to opinione quando gli faccio notare che il tizio che sta arrivando con il chiaro intento di
picchiarmi accampa gli stessi diritti sul locale: “Sì, è vero, il locale è suo”, e abbassa
pronto gli occhi. Stupito più che incazzato che io osi ancora trovarmi da quelle parti, il
nerboruto buco con la merda intorno (al cervello) mi trascina fuori. Gianluca e Gerard
mi fanno compagnia.
Dire rabbia non basta. La mia frustrazione prende forma di lacrime gelide che non
posso contenere. L’odio diventa una palla amara che non riesco a deglutire. Chiacchie-
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riamo, a casa, fino alle cinque e mezzo, per spiegarci quel che è successo. Faccio fatica
ad addormentarmi.
Un’ultima nota, di tipo comparativo, su questo episodio che non ho ancora digeri-
to. Questa concezione del corpo maschile come forma metonimica del membro eretto
massimo) non è tipicamente greca, ed esiste in varie forme anche da noi. Ho visto gli
delle discoteche italiane (soprattutto della “mia” campagna veneta). C’è però una diffe-
renza sostanziale. In Italia questi brutti musi, questi infelici nel midollo della loro ani-
ma, sono chiaramente minoritari di numero e, quel che più conta, minoritari cultural-
mente, minorati subalterni. Non vedono l’ora di passare alle mani, ma hanno bisogno di
una scusa plausibile. Il servizio d’ordine delle discoteche fa il resto. In Italia avrebbero
preso il cazzone brizzolato e l’avrebbero gettato fuori coi suoi coglioni-compari che gli
facevano compagnia, e noi saremmo rimasti a ballare fino all’alba. In Grecia invece
questa idea di mascolinità come turgido immobilismo è del tutto egemone nel senso
tecnico: esercita cioè un potere che raramente ha bisogno della forza esplicita per man-
femminile (e anche di parte di quella maschile, verso la fine) per la nostra danza, che
definire liberatoria non è un puro stilema in questo caso, e con tutto che fosse palese
l’evidente sopruso che stavamo subendo, nessuno ha detto una parola o fatto un gesto in
nostra difesa. Questo terrore sacro per il corpo maschile femminilizzato, che si manife-
sta come paura profanissima verso il corpo maschile disumanizzato e insaccato nel suo
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Ben prima di questo episodio avevo commentato con amici (italiani, greci e va-
riamente “stranieri”) quest’idiosincrasia al ballo dei giovani maschi greci, e non ero riu-
cultura diversa dalla mia. Va da sé che non ho nessuna intenzione di ringraziare quel
token brizzolato del type “testa-di-cazzo” per avermi aiutato a capire. Se c’è un inferno,
sivo sarà costretto a ballare xeni musiki pungolato dai forconi di sensualissime diavoles-
se per i secoli dei secoli. È quello che gli auguro di tutto cuore. Quanto a me, la prossi-
ma volta che vorrò ballare in Grecia, procurerò di far parte di una compagnia più so-
stanziosa.
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