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DANZARE IN GRECIA FA MALE ALLA SALUTE

OVVERO: DI ALCUNE PERIPEZIE ACCADUTE ALL’AUTORE MENTRE CERCAVA DI


SVAGARSI DAL SUO LAVORO DI ANTROPOLOGO E DI COME QUESTI EVENTI LO
ABBIANO PRONTAMENTE RICONDOTTO A FARE IL SUO MESTIERE.
IN CUI INOLTRE SI DIMOSTRA SENZA TEMA DI CONFUTAZIONE CHE LE DONNE
GRECHE SONO MEDIAMENTE ASSAI PIÙ INTELLIGENTI DELLA MAGGIORANZA
DEI LORO COMPATRIOTI MASCHI, DATO DI FATTO CHE PER ALTRO L’AUTORE
COMINCIA A SOSPETTARE SIA GENERALIZZABILE ALL’UNIVERSO MONDO

Piero Vereni, in Tessalonica, Agosto MCMXCVI

Alzati che si sta alzando/ la canzone


popolare/ se c’è qualcosa da dire ancora/
se c’è qualcosa da fare/ ce lo dirà... (Ivano
Fossati)

...e noi non ci sappiamo perdonare/ di non


sapere ballare/ nei bar davanti al mare
(sempre lui, l’ambiguo Fossati)

Nella scena finale di “Zorba il Greco” di Mikhalis Kakoiannis, quando il progetto

della teleferica è andato letteralmente in frantumi, tutto è distrutto, e ci si aspetta perlo-

meno un momento di compita tristezza, il giovane Inglese pseudo-protagonista chiede a

Zorba di insegnargli a ballare. Il Greco è stupefatto: Davvero vuoi imparare a ballare?

Davvero? E la sua gioia sale al culmine. Il film finisce proprio lì, sulla spiaggia di Creta,

con Zorba e l’Inglese che ballano ridendo come pazzi. Cosa significa questo? Zorba

balla, per sua esplicita ammissione, “come un pazzo”. Alla morte del figlio ballò fino ad

estenuarsi, e di nuovo balla alla morte della giovane e bella vedova (Irini Papas). In un

altro film, “Stella” (ancora di Kakoiannis, se non sbaglio), il protagonista balla forsen-
Piero Vereni
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natamente quando Stella (una Melina Merkouri superba) si rifiuta all’ultimo momento

di sposarlo. Cos’è: ballo come espressione del dolore? Ballo come terapia? Non so e

non lo capisco. So solo che di certo non è più così (se mai lo è stato). I giovani maschi

greci non ballano, e più sono maschi, meno ballano.

C’è un locale, a Florina, che si chiama “Irìda”. Una volta era “Metropolis”. È un

ambiente grande, situato in quello che doveva essere stato un palazzo privato, con un

giardino richiuso da mura al quale si accede ora attraverso un portone da cui sovrastano

innocui e penosamente modellati due leoni di terracotta stantia. Nel giardino c’è un lun-

go bancone-bar e diversi tavolini (una quarantina, direi del tutto a occhio). Ci si siede, si

ordina da bere e il livello della musica è tale da non impedire la comunicazione. Si può

insomma chiacchierare con un certo agio, senza essere costretti a spararsi nelle orecchie

poche parole chiave per risparmiare sulla quantità di informazione, come succede invece

in tutte le classiche discoteche. E come capita del resto nella sala interna dell’Irida. Si

tratta di uno stanzone di 200 mq, decorato con improbabili affreschi scopiazzati da qual-

che manuale di storia dell’arte per dare l’idea (perfettamente kitsch) che lì la Cultura

Alta è di casa (riconoscibilissimo, nonostante le gambe tozze e le mani tipicamente ar-

tritiche, un Adamo michelangiolesco). Il banco, di forma ellissoidale, è al centro della

sala, e ci si siede attorno, su sgabelli alti ma confortevoli. Altri tavolini in penombra non

ingombrano il locale, che rimane dunque abbastanza ampio per eventuali danzatori. La

musica è “pumped”, le luci sono quelle da discoteca. In fondo, incastonato nell’angolo

di sinistra, un altro bancone più piccolo, mentre il piano del DJ è subito vicino

all’ingresso. Si suona musica “straniera” (viene chiamata semplicemente così, “xeni

musiki”) di solito fino all’una, o anche prima se l’atmosfera si riscalda a sufficienza,

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Ballare in Grecia
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dopo di che si passa al pop ritmato greco. Nota saliente del locale: non balla nessuno.

Almeno finche dura la xeni musiki nessuno balla. Solo le cameriere, che servono i nu-

merosi clienti in piedi o appartati a ridosso dei tavolini in penombra, accennano qualche

passo nei tempi morti delle consumazioni e anche qualche barista si muove da un parte

all’altra del banco sculettando o seguendo il ritmo coi piedi. Ma i clienti no. Si può dire

più precisamente che sussiste implicita una scala di tolleranza, per cui l’ammissibilità

del ballo è direttamente proporzionale alla quantità di femminilità di cui ci si fa carico.

Così le ragazze hanno di solito il diritto di muovere i fianchi rimanendo ferme sui

piedi, e le più estroverse addirittura muovono le braccia per qualche secondo.

D’abitudine sono poche spregiudicate a prendersi tale libertà, e le più si limitano a muo-

vere le spalle al ritmo dei 4/4. I maschi attorno al banco e in piedi possono battere il

piedino o, se sono seduti, seguire il ritmo con discrezione, grazie alle spalle o alla testa,

ma è chiaro che lo fanno a spese della loro mascolinità. Infatti gli indigeni più palestrati,

bicipiti gonfi di sbarra da 60 kg o da lavoro nei campi, capello spesso a spazzola, brac-

ciali d’oro e catenacce al collo, quelli insomma che il più delle volte indossano T-shirt

aderenti e non camicie, questi signori riescono (merito di un evidente esercizio mentale)

a restare assolutamente immobili mentre i bassi campionati e i ritmi ipersemplificati

costringerebbero a ballicchiare qualsiasi essere umano di età superiore agli 8 mesi. Gli

energumeni no, essi sono oltre l’umana umanità e tengono il loro corpo sotto perfetto

controllo. Dato che il volume della musica rende impossibile qualunque conversazione

che preveda frasi di più di due sillabe, questi subumani tacciono anche quando sono in

branco. Si limitano a bere (birra o whisky, secondo le possibilità economiche, non aspet-

tatevi ouzo in locali del genere), fumare e guardarsi attorno. Il sorriso non fa evidente-

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mente parte del loro ristretto set di comportamenti, e come androidi in stile Terminator

controllano la situazione monitorando il locale. Visto che la loro vitrea pupilla è inca-

strata direttamente nel cranio senza possibilità di autonomo movimento, e visto che sca-

tola cranica, collo, spalle e torso sono scolpiti in un unico blocco, il semplice guardarsi

in giro diventa un ruotare il busto attorno allo svincolo delle anche, unica porzione di

questo cosiddetto corpo in grado di manifestare, assieme a gomiti e ginocchia, una qual-

che primitiva forma di articolazione.

Quando le bevande alcoliche cominciano a fare il loro effetto vasodilatatore e di-

sinibente, si passa alla musica greca. Sono le hit del momento, canzoni cretine e piene di

ritmo, che parlano di amori traditi e litigi adolescenziali. È una musica vivace, vitale e

trascinante. Le ragazze infatti non si trattengono e iniziano a cantare, perlomeno i ritor-

nelli, che si imparano in un attimo. Anche i maschi canticchiano, ma sempre in accordo

alla gerarchia, per cui è scontato e prevedibile che i bovini appena descritti tacciano co-

me mafiosi di vecchio stampo.

Finalmente qualcuno balla. Sono balli tradizionali rivisitati, o meglio maciullati

dalla distanza che per fortuna il tempo e l’ignoranza hanno messo tra folklore e pop-

culture. Si va a braccio e a piede, si naviga a vista tra un passo e l’altro. Anche in questo

caso, come per il canto, predominano le femmine, che riescono comunque a far esplode-

re la loro tracimante sensualità muovendo le mani e le braccia e i fianchi e il culo come

non si fa in nessun altro “paese occidentale” (e i maligni ne trarrebbero prova della non-

occidentalità della Grecia moderna). Molti ragazzi “normali” (giuro: non trovo altra

parola per opporli ai quarti di manzo surgelati che costituiscono il fulcro polemico di

queste note) iniziano a danzare in circolo, anch’essi segnati da un destino tristemente

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tradizionale, al quale però fanno di tutto per sottrarsi attraverso l’inventiva di chi non sa

assolutamente un cazzo, ma ci prova gusto. Ma loro, le forme supreme dell’etnia ma-

schile (rubo questo sublime concetto a Tiziano Scarpa), queste espressioni metonimiche

della più turgida delle erezioni anzi, queste erezioni tout court (tout longue?), queste

teste di cazzo letterali, questi Priapi semi-semoventi, queste Paniche Mentule, questi

corpi cavernosi di cavernicoli, queste minchie autoreferenziali, questi grandi glandi,

imperterriti piegano il gomito nodoso per portare all’orifizio inutile il bicchiere o il

mozzicone. Veri campioni dell’elefantiasi inguino-scrotale, essi fanno alla perfezione

ciò per cui sono stati programmati: ergersi. E nulla riesce a mutare la loro espressione o,

cercando di essere più precisi, nulla riesce a caricare di senso un vuoto prossemico e

mimico che definire “espressione” sarebbe un ingiusto antropocentrismo. Del resto, da

quando una verga in erezione possiede una sua espressione (tanto più facciale)?

Ora, se qualcuno è arrivato a pensare che questa mia descrizione nasconda dietro

la fredda lucidità di una scrittura piatta il caldo rancore di un sentimento personale, sap-

pia allora quel qualcuno di non essersi sbagliato: sono qui, in fondo, per raccontare la

genesi di questo mio novello sentire. Sappia però altrettanto chiaramente che tutto

l’astio, l’odio, il profondo disprezzo che provo per queste mosciamente turgide prove

del fallimento dell’evoluzione della specie umana non mi impedisce di essere lucido e

freddo nella descrizione, anzi, acuisce il mio senso di osservazione e affina la mia per-

cezione. L’odio insomma come molla cognitiva, perché so di essere ben lontano da e-

ventuali fumi obnubilanti: la rabbia è un sentimento luccicante, in questo caso. È una

rabbia profonda e ragionevole, calda fino a far male alle ossa e ai nervi, la cui radice più

carnosa si nutre della mia incapacità assoluta di accettare l’imperialismo culturale di chi

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non si limita a non accettare o non capire la tua diversità, ma pretende invece di unifor-

marla, di omologarla alla sua eguaglianza.

Di certo, qualcosa che uno spirito come il mio non poteva non percepire in un lo-

cale come l’Irida, oltre alla strana opposizione già indicata, tra corpo maschile abbarbi-

cato a se stesso e corpo femminile invece potenzialmente fluttuante, è l’animosità che si

coglie oltre la pupilla spenta di chi non balla, soprattutto se comparata allo sguardo di

chi invece classifica come naturale e normale una dose minima di espressione corporea,

almeno quando sollecitata da uno stimolo ritmico così incalzante. Il nerboruto paralitico,

paralizzato dal semplice aderire ad una definizione elementare, tutta-d’-un-pezzo, di sé,

non si limita a proporre la propria versione cazzutamente castrata di una mascolinità

perennemente protesa e in tensione come una delle alternative logicamente possibili di

quella che si può chiamare all’ingrosso la varietà intraculturale. No: evidentemente obe-

rato da un imperativo di natura etica, egli proselitizza. Non potendolo fare con le forme

dell’espressione linguistica (per ragioni di natura contestuale, data la musica ad alto

volume, ma sospetto fortemente anche e prima di tutto per suoi limiti strutturali), lo

sguardo bovino di questo toro tarato, di questo tarello tarlato, si raddensa in guizzi

(grumi schizzati in faccia a chi balla o almeno accenna a farlo) che prima che disprezzo

e superiority complex manifestano una forma di stizza animosa che ci si può immagina-

re sempre ai limiti dell’esplosione violenta. Se è legittimo tradurre in forma verbale

quello che nella sua testa-cappella assume credo primariamente la forma poliedrica di

sinestesie massicciamente olistiche, questo coso che solo gratuitamente si può pronomi-

nare in “egli” si dice: “Ma perché questi vermi che provano a ballare non accettano

l’evidente e indiscutibile superiorità della mia condizione ontologica? Perché mi fanno

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“arrabbiare”?” In forma elementare, questo soprammobile da locale notturno manifesta

il classico sintomo della patologia culturale che pretende l’eguaglianza in nome

dell’ovvietà: “La superiorità di quel che io epifanizzo in forma sì sublime è tale e tanta

rispetto ad ogni possibile e financo concepibile alternativa, che il più modesto accenno a

questa pretesa e pretestuosa alternatività comportamentale produce all’interno della mia

perfezione un’irritazione del tutto giustificata. Un’espressione vieppiù esplicita, e dun-

que contrastiva nei miei sublimi riguardi, di questa variegata multiformità di espressione

corporea non può che andar contro l’ordine naturale delle cose e dunque va severamente

punita.”

A me piace ballare. In locali come l’Irida non l’ho mai fatto, da quando sono in

Grecia, cioè da più di un anno, chiaramente condizionato da questa atmosfera di terrore

implicito cui tutti soggiacciono. Ho giustificato il mio disagio come vergogna, come

desiderio di non mettermi in mostra, finché non sono stato costretto a constatare che si

trattava di paura. Il fatto che questa conferma sia avvenuta a Salonicco e non a Florina

non toglie di certo validità alla mia ipotesi, ma semmai ne aggiunge, rendendo infatti

chiaramente generalizzabile quel che, limitato a Florina, potrebbe passare per patologia

provinciale: Salonicco è una grande città, e per molti versi più “moderna” di Atene, di

certo più cosmopolita.

Sono sceso a Salonicco per incontrare il mio amico Gerard, olandese, antropologo,

in vacanza in Grecia. Io, lui e Gianluca (un altro antropologo, a Salonicco invece per

lavoro) la sera del mio arrivo siamo usciti per spassarcela un poco. Dopo aver cenato in

uno dei migliori ristoranti della città, verso le 23 ci siamo avviati in direzione del quar-

tiere con la più alta concentrazione di locali (in pratica è costituito esclusivamente di bar

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affiancati uno all’altro). Lo schema del bar del ladadika (questo il nome del quartiere)

ricalca quello dell’Irida. C’è una parte all’aperto coi tavolini (più piccola rispetto a quel-

la dell’Irida, qui siamo sul marciapiede di una strada, in fin dei conti) e una sala interna

con musica a palla e luci intermittenti. L’arredamento, i pavimenti e la scala che porta al

soppalco superiore sono tutti di legno, come all’Irida. I bar si susseguono uno accanto

all’altro, senza interruzioni rilevanti e tutti utilizzano questo schema, non ho notato ec-

cezioni, per cui si può dire che uno vale l’altro (anche i prezzi, salati, sono sempre quel-

li). Ci sediamo più o meno a caso, forse attirati dalla vistosa bellezza di una cameriera,

ma c’è da dire che il personale (femminile per il servizio ai tavoli e maschile per il ban-

co) sembra chiaramente selezionato in base a criteri estetici in tutti i locali. Il nostro ha

dunque più o meno lo stesso numero di clienti di quelli che gli stanno a fianco. Se la

parola ha un senso, è un locale “tipico” del ladadika. Beviamo un paio di birre appol-

laiati sugli alti sgabelli attorno a un tavolino. Si chiacchiera del più e del meno, ma la

conversazione ruota su un argomento che avevamo iniziato a dibattere con il cameriere

del ristorante: l’evidente sensualità di questa città e - cosa che ci interessa forse anche di

più - della sua etnia femminile. La conversazione scivola veloce dal teorico al persona-

lissimo, un bell’esempio, posso dire, di solidarietà maschile e non maschia. Anche per-

ché nessuno di noi tre appartiene per carattere o educazione alla versione del maschio

“minchia-sfonda-muri”. Così ci raccontiamo le nostre debolezze e anche le nostre scon-

fitte, ma soprattutto non abbiamo paura di dirci come non ci capiamo, alcune volte, e

come non capiamo quel che vogliamo. Dopo un po’ di tempo (un’ora? due? non ho ide-

a. Mi accorgo adesso di non aver guardato l’orologio per l’intera serata, segno che era

una di quelle giuste) decidiamo di entrare nella parte interna, per gettare un occhio, co-

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me si dice. Lo spazio (che vedevamo già da fuori, dato che non ci sono porte, visto il

caldo torrido) è ristretto, forse 40 mq, forse meno, più un soppalco di un’altra decina di

mq. Date le dimensioni, ci vuol poco a riempirlo, e infatti è pieno (ripeto, come tutti gli

altri. E questa mia insistenza sull’assoluta normalità del locale serve solo come trucchet-

to retorico, per rendere del tutto “normale” anche quello che accadrà fra poco). Come di

prammatica, non balla nessuno, con le stesse sfumature che ho indicato descrivendo

l’Irida: quanto più si è “femminili”, tanto più è tollerato un minimo di movimento. Nes-

suno, comunque, balla come si potrebbe ballare in una qualsiasi discoteca italiana. Sento

lì in fondo una vocina polemica che dice: ehi, ma stai parlando di un bar, non di una

discoteca, per questo non ballano! Bene, cerchiamo di chiarirci: non esiste in Italia un

tipo di locale comparabile a questi, ed è vero che esistono in Grecia discoteche “classi-

che” (con la pista da ballo regolarmente vuota, manco a dirlo...) ma se io vi dico: musica

cazzona a quattro quarti che non ci si smuove da quel rtimo; nessuno “bianco” tra una

canzone e l’altra, e invece giochi di sfumature e mixaggi; volume da otite perforante;

giochi di luci colorate e laser che disegnano figure nell’aria; impossibilità totale di

chiacchierare; pagamento delle consumazioni al momento della consegna. Bene: cosa

diavolo pensate se non ad un posto PER BALLARE?

Infatti: la musica, non particolarmente aggressiva e per fortuna lontana da “te-

chno” e “underground” attira le mie mani e i miei piedi. Non so chi abbia cominciato,

quasi di certo assieme, e sia come sia nel giro di pochi minuti io, Gerard e Gianluca

stiamo ballando. Eravamo una bella compagnia, e questo rendeva per ognuno di noi

meno “individualista” la nostra decisione, e le ridotte dimensioni del locale facevano in

qualche misura più discreta la nostra danza (negli spazi enormi dell’Irida ogni gesto è

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setacciato e registrato dalla maggior parte degli altri clienti, del resto il nome del locale,

che in Italiano sarebbe Iride, non credo sia casuale). Io, quando ballo, non è che stia

proprio lì a pensare, più che altro ballo. In Italia il mio stile passa del tutto inosservato,

ma da precedenti esperienze greche sapevo bene che il modo in cui mi muovo, soprat-

tutto se sono particolarmente “ispirato” come lo ero quella sera a Salonicco, attira

l’attenzione, normalmente assai benevola da parte femminile. Insomma si balla. Io che,

frustrato dalle mie negative sensazioni all’Irida, non avevo neppure pensato a questa

stupenda possibilità, indosso quelle orrende e comodissime ciabatte tedesche chiamate

Birkenstock. Comode sì, ma non per ballare. Me le tolgo e le getto in un angolo. Gian-

luca mi imita e i suoi mocassini indiani finiscono a fianco delle mie ciabattone. Sudia-

mo e, come giusto, beviamo. Attacchiamo bottone con la cameriera che aveva attirato la

nostra iniziale attenzione. Le offriamo un giro, ce ne offre uno lei. Noi non siamo per

nulla invadenti e lei pare tutto tranne che scocciata delle nostre attenzioni. Ci chiede di

dove siamo, si informa sulle ragioni del nostro soggiorno a Salonicco e quando può si

unisce a noi per sorseggiare la sua bevanda che le custodiamo come il sangue di San

Gennaro quando deve lasciarci per seguire le ordinazioni. La musica “straniera” conti-

nua e noi, più o meno, diventiamo il centro d’attenzione del locale. Me ne accorgo, e un

po’ me ne frego (quando si tratta di constatare le risatine apotropaiche che i maschietti si

scambiano tra di loro al nostro indirizzo) e un po’ me ne compiaccio (almeno ricambio

volentieri un paio di sorrisi genuini di alcune ragazze cui la nostra performance sembra

particolarmente gradita). Ripeto, ho già avuto a Mitilini lo stesso tipo di esperienza, ma

quel che mi interessa del ballo è il corpo che si ricorda di se stesso (ballo anche da solo,

nella mia stanza, se l’urgenza è forte) e quindi non sono particolarmente impressionato

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dallo svolgersi degli eventi. Ne faccio invece una specie di telecronaca/riassunto a Gian-

luca, che sembra del tutto ignaro di quel che succede e balla e basta (Gerard era con me

a Mitilini, sa benissimo quel che stiamo “socialmente” facendo). Quando si passa di

colpo alla musica greca, spiego a Gianluca: stanno cercando di farci fuori, o di vedere

quanto siamo tosti. Sanno che siamo stranieri e dunque è in qualche modo tollerabile

che noi si balli la “xeni musiki”, ma con la musica locale cercano di isolarci. Gianluca

non capisce, o non mi crede. Lo si nota dalla sua espressione piattamente dubbiosa. Pro-

babilmente pensa che i Martini che navigano nel mio stomaco sopra la birra mi abbiano

un pizzico alterato, e abbozza. Infatti ho ragione, e ora alcuni maschi iniziano a ballare.

È il ballo stereotipo della cultura greca: in circolo, tenendosi per mano all’altezza della

testa, ci si muove lentamente con passi (per me che non so un cazzo di balli tradizionali

greci, se non che mi annoio a morte ad ogni “manifestazione culturale” in cui mi tocca

di assistervi) piuttosto inespressivi. Ci stanno escludendo, hanno fatto un circolo più

grande del Canottieri Napoli, ci relegano ai margini in senso letterale, non riusciamo ad

entrare. Cerchiamo di tener duro e ci salva in qualche misura Fedra, la nostra cameriera

prediletta: forma lei un circolo nel quale ci fa entrare. È fatta, penso, e infatti è così. Non

ci frega niente se non sappiamo i passi (ma poi, quanti li sanno?) e continuiamo a balla-

re. Si passa di nuovo alla musica straniera. Qualcuno adesso si muove un po’ più libe-

ramente, anche tra i maschi. e le ragazze, se prima sorridevano, adesso danno segno di

spassarsela proprio. È, mi viene da pensare, la rivincita dei corpi. Flash back inevitabile:

a Mitilini, quando eravamo in dodici a fare casino, abbiamo trasformato un posto simile

in una perenne pista da ballo, e se all’inizio eravamo solo noi a scalmanarci, alla fine del

nostro soggiorno, tre mesi dopo, ballavano quasi tutti, maschi e femmine, Greci e “xe-

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noi”. E tutto questo lo penso lì, in diretta, e lo racconto a Gianluca, che però continua a

guardarmi perplesso.

In mezzo minuto tutto cambia. Un pene al colmo dell’erezione, di pelo brizzolato

e dal bicipite lucido che spunta della manica corta della maglietta aderente suddenly mi

compare di fronte come mostruosa epifania della virilità greca messa in crisi da un mo-

dello di mascolinità allo stesso tempo troppo femminile per essere imitato e troppo se-

ducente per essere tollerato. Mi prende per un braccio come cercasse di sradicarmelo

dalla spalla (ho ancora il livido) e mi dice che dobbiamo prendere le nostre scarpe e an-

darcene. Faccio finta di non capire a causa della musica troppo alta. Mi fa cenno di se-

guirlo fuori e lì, a fianco di un tavolino assediato da altri quattro cloni altrettanto nerbo-

ruti mi ripete il suo argomento irreplicabile. Gli chiedo cosa abbiamo fatto di male. Mi

risponde, unica concessione comunicativa, ma che prova oltre ogni ragionevole dubbio

che quel che scrivo è vero, che non è quello il modo di ballare. Traccheggio, per capire

se è uno di quelli abbordabili, e gli dico (sempre in greco) che siamo stranieri, e se ab-

biamo offeso qualcuno non era nostra intenzione. Come non è nostra intenzione andar-

cene, visto che ce la spassiamo e siamo lì giusto per questo. Rientro. Mi segue. Mi

prende per il bavero della camicia. Gianluca nota la situazione e si avvicina. Gli faccio

cenno di allontanarsi. Loro sono cinque e noi tre, per di più molto meno corazzati. Qual-

siasi soluzione “fisica” non solo sarebbe disastrosa per le nostre povere facce ma non

farebbe che confermare la “loro” idea del corpo come strumento per ottenere uno scopo,

mentre la nostra danza era corpo come espressione. Da questo punto di vista: corpo inu-

tile. Curiosamente francescani, questi trogloditi incazzati hanno finalmente trovato il

modo di far funzionare “fratello asino” come si deve. Cerco (e sia maledetta una volta

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per tutte le carità degli antropologi) di farlo parlare, e non risponde; gli offro da bere e

rifiuta; gli chiedo di nuovo cosa c’è che non va nel nostro comportamento, ma ormai ho

capito che ha tutti i muscoli allenati tranne quello della lingua (e provo un moto di istin-

tiva pietà anche per le sue sinapsi e per gran parte dei suoi neuroni, materiali di magaz-

zino evidentemente inutilizzati). Dato che non ottengo altra risposta se non il suo ritor-

nello (se fosse stato romano mi avrebbe continuato a ripetere: Ve ne dovete annàaaa!)

gli chiedo infine che diritto ha di scacciarci. Millanta di essere il proprietario. Beh! Sia-

mo di gran lunga i migliori clienti qui dentro! Conosco le usanze dei giovani greci e

posso dire con certezza che in un paio d’ore abbiamo speso quel che una comitiva di

indigeni non scialacqua in una settimana ininterrotta al bar. L’argomento non regge, e

conferma i miei dubbi sulla sua autorità. Del resto, se è il padrone, allora è matto suona-

to, e una vocina maliziosa, cattiva e un filo razzista mi ricorda le buone doti dei Greci

per gli affari: no, non può essere il proprietario. Mi rivolgo al banco. Fedra chiaramente

non lo conosce e il barista cui mi rivolgo, oramai più in cerca di solidarietà che di chia-

rimenti, alla mia domanda di chi sia il locale, prima mi dice “È mio”, e poi cambia subi-

to opinione quando gli faccio notare che il tizio che sta arrivando con il chiaro intento di

picchiarmi accampa gli stessi diritti sul locale: “Sì, è vero, il locale è suo”, e abbassa

pronto gli occhi. Stupito più che incazzato che io osi ancora trovarmi da quelle parti, il

nerboruto buco con la merda intorno (al cervello) mi trascina fuori. Gianluca e Gerard

mi fanno compagnia.

Dire rabbia non basta. La mia frustrazione prende forma di lacrime gelide che non

posso contenere. L’odio diventa una palla amara che non riesco a deglutire. Chiacchie-

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riamo, a casa, fino alle cinque e mezzo, per spiegarci quel che è successo. Faccio fatica

ad addormentarmi.

Un’ultima nota, di tipo comparativo, su questo episodio che non ho ancora digeri-

to. Questa concezione del corpo maschile come forma metonimica del membro eretto

(per cui ogni sinuosità è connotata negativamente e dunque il ballo è stigmatizzato al

massimo) non è tipicamente greca, ed esiste in varie forme anche da noi. Ho visto gli

stessi ceffi inespressivamente astiosi circondare immoti e irremovibili le piste da ballo

delle discoteche italiane (soprattutto della “mia” campagna veneta). C’è però una diffe-

renza sostanziale. In Italia questi brutti musi, questi infelici nel midollo della loro ani-

ma, sono chiaramente minoritari di numero e, quel che più conta, minoritari cultural-

mente, minorati subalterni. Non vedono l’ora di passare alle mani, ma hanno bisogno di

una scusa plausibile. Il servizio d’ordine delle discoteche fa il resto. In Italia avrebbero

preso il cazzone brizzolato e l’avrebbero gettato fuori coi suoi coglioni-compari che gli

facevano compagnia, e noi saremmo rimasti a ballare fino all’alba. In Grecia invece

questa idea di mascolinità come turgido immobilismo è del tutto egemone nel senso

tecnico: esercita cioè un potere che raramente ha bisogno della forza esplicita per man-

tenere la sua posizione. Nonostante fosse evidente il compiacimento della clientela

femminile (e anche di parte di quella maschile, verso la fine) per la nostra danza, che

definire liberatoria non è un puro stilema in questo caso, e con tutto che fosse palese

l’evidente sopruso che stavamo subendo, nessuno ha detto una parola o fatto un gesto in

nostra difesa. Questo terrore sacro per il corpo maschile femminilizzato, che si manife-

sta come paura profanissima verso il corpo maschile disumanizzato e insaccato nel suo

stesso gonfiore muscolare, non mi piace, proprio non mi piace.

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Ben prima di questo episodio avevo commentato con amici (italiani, greci e va-

riamente “stranieri”) quest’idiosincrasia al ballo dei giovani maschi greci, e non ero riu-

scito a raccontarmela in modo adeguato, relegandola tra le ennesime “stranezze” di una

cultura diversa dalla mia. Va da sé che non ho nessuna intenzione di ringraziare quel

token brizzolato del type “testa-di-cazzo” per avermi aiutato a capire. Se c’è un inferno,

cosa di cui purtroppo dubito, quell’allofono sbiadito di un fonema (mentalmente) occlu-

sivo sarà costretto a ballare xeni musiki pungolato dai forconi di sensualissime diavoles-

se per i secoli dei secoli. È quello che gli auguro di tutto cuore. Quanto a me, la prossi-

ma volta che vorrò ballare in Grecia, procurerò di far parte di una compagnia più so-

stanziosa.

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