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Il punto zero
della rivoluzione
Lavoro domestico, riproduzione
e lotta femminista
ombre corte
Titolo originale: devolution at Point Zero. Housework, Reproduction, and Feminist
Struggle
©2012 Silvia Federici
©2012 PM Press
Traduzione dall’americano di Anna Curdo
Prima edizione italiana: aprile 2014
© ombre corte
Via Alessandro Poerio 9 - 37124 Verona
Tel./fax: 045 8301735; e-mail: info@ombrecorte.it
www.ombrecorte.it
Progetto grafico e impaginazione: ombre corte
Immagine di copertina: “Rosy the Riveter”
ISBN: 978-88-97522-72-0
Indice
7 Prefazione
10 Ringraziamenti
13 Introduzione all’edizione italiana
19 Introduzione all’edizione americana
31 1. Salario per il lavoro domestico
“Un lavoro d’amore”; La prospettiva rivoluzionaria; La lotta sui servizi so
ciali; La lotta contro il lavoro domestico
41 2. Perché l’attività sessuale è lavoro
46 3. Contropiano dalle cucine
Ci offrono “sviluppo”; Un nuovo terreno di lotta; Il lavoro nascosto; La
mancanza di salario come disciplina; Glorificare la famiglia; Differenti mer
cati del lavoro; Rivendicare salario; Far pagare il capitale
63 4. Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione negli Stati
uniti degli anni Settanta
La rivolta contro il lavoro domestico; Riorganizzare la riproduzione sociale;
Conclusioni
81 5. La riproduzione della forza lavoro nell’economia globale e Fin-
compiuta rivoluzione femminista
Marx e la riproduzione della forza lavoro; La rivolta delle donne contro il
lavoro domestico e la ridefinizione femminista di lavoro, lotta di classe e cri
si del capitalismo; Nominare Finaccettabile: l’accumulazione originaria e la
ristrutturazione della riproduzione; Lavoro riproduttivo, lavoro delle donne
e rapporti di genere nell’economia globale
108 6. Riportare il femminismo sui piedi
120 7. Andare a Pechino. Come le Nazioni Unite hanno colonizzato il
movimento femminista
Il Piano d’azione di Pechino
130 8. Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo
La crisi della cura agli anziani nell’era globale; L’assistenza agli anziani, i
sindacati e la sinistra
146 9. Femminismo e politiche del comune al tempo della cosiddetta ac
cumulazione originaria
Introduzione: Perché i commonsì; Global commons, i commons della Banca
mondiale; Quali commonsì ; Le donne e i commons; Ricostruzioni femmini
ste
Prefazione
2 Si veda Donna J. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature,
Roudedge, London 1990, pp. 180-182. In particolare Haraway scrive: “Alcune femministe
hanno recentemente sostenuto che le donne hanno una tendenza o predisposizione per
il quotidiano, che le donne più degli uomini in qualche modo sostengono la vita e per
questo godono di una posizioni epistemologica potenzialmente privilegiata. C’è un aspetto
interessante in questa affermazione che rende visibile la disprezzata attività femminile e
la nomina come fondamento della vita. Ma è davvero il fondamento della vita?” (ivi, pp.
180-181).
Ringraziamenti
che le Nazioni Unite e altre agenzie internazionali hanno fatto per cre
are un femminismo addomesticato, assimilabile all’agenda neolibera
le. In breve, la prospettiva proposta nei lavori raccolti in questo volu
me è che se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace
di trasformare la società e creare rapporti sociali egalitari, dobbiamo
abbandonare la prospettiva sia dell’uguaglianza che della “differen
za”, poiché entrambe non contestano l’organizzazione capitalistìca del
lavoro con tutto jl suo carico di sfruttamento, rappòrti sociali razzisti'
"e'séssistL la rapina continua della ricchezza che produciamo e l’im-
miserimento generale della società. E ovvio che la “differenza” è un
obbiettivo politico legittimo se implica solamente un rifiuto di assimi
lazione agli uomini, diventa però problematica se assume un’essenza
femminile precostituita, e soprattutto se la sua affermazione diventa
un fine a sé, avulso da un progetto di trasformazione sociale.
Credo, tuttavia, che oggi siamo a una nuova svolta nel femmini
smo. Da una parte l’irruzione delle problematiche del movimento
queer stanno mettendo in discussione, e permettono di superare, una
politica dei diritti che si articola su base identitaria. Tuttavia, vorrei
sottolineare che il movimento femminista non è stato, quanto meno
nella sua fase iniziale, un movimento identitario, lo è diventato nella
misura in cui è stato istituzionalizzato. Le femministe radicali sono
state le prime a lottare contro l’identità che le donne - sia pure in
modi diversi - sono state costrette ad assumere; un’identità che con
trabbandava come “essenza” o come natura femminile tutta una serie
di compiti legati al lavoro di riproduzione non pagato. Concepire il
femminismo come un movimento identitario è ancora una volta sep
pellire la sua anima sovversiva, accreditando come femminismo solo
le tendenza cresciute all’ombra dello stato.
Dall’altra parte, oggi, sulla scia dei movimenti Occupy, si sta affer
mando una nuova generazione di femministe che mentre sempre più
collega il rifiuto della subordinazione sessuale alla lotta contro l’impo
verimento a cui sono soggette, al pari dei giovani in tutto il mondo,
si impegna per la costruzione di spazi sociali ed economici fuori della
logica del mercato. Oggi le nuove generazioni di femministe lottano
contro il costo della scuola e per creare spazi liberi e autonomi per
la circolazione e condivisione dei saperi; lottano contro la precarietà
ma senza necessariamente aspirare alla irreggimentazione del lavoro
salariato. Il vantaggio delle nuove generazioni è che possono misurare
e valutare le strategie proposte dalle cosiddette “femministe storiche”
e vedere come la pur sacrosanta la lotta per le pari opportunità o le
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA 15
“quote rosa” non ha liberato le donne, anche se (per alcune almeno)
ha aumentato l’autonomia nei confronti degli uomini. Sanno anche
che l’organizzazione del lavoro salariato non è cambiata. In questa
situazione, l’alternativa diventa allora creare una maggiore coopera
zione nel lavoro di riproduzione, per rompere l’isolamento in cui oggi
vivono tante donne e aumentare le risorse a nostra disposizione; sem
pre inteso che questa non è un’alternativa a altre forme di lotta ma la
sua condizione.
Questo è l’insegnamento che ho ricavato negli anni attraverso i miei
studi e soprattutto riflettendo sulle trasformazioni politiche e sociali
che avvenivano sul piano globale, nonché intervenendo in vari percorsi
di lotta e movimenti: contro l’aggiustamento strutturale, contro la mer
cificazione della conoscenza, contro la pena di morte, e oggi, sempre
più sul terreno di un conflitto definito teoricamente e praticamente a
partire da una politica basata sulla riappropriazione e produzione di
beni comuni.
Nello stesso tempo, però, occorre rimanere vigili perché le conqui
ste delle donne non sono mai date una volta per tutte. I processi di
ristrutturazione che interessano il lavoro di riproduzione nel presente,
passano anche per un attacco aperto al diritto di aborto. Lo vediamo
in modo conclamato in Europa: in Spagna, dove di recente è stata
presentata una proposta di legge che lo limita fortemente, e in Italia,
dove il crescente ricorso all’obiezione di coscienza riduce di fatto il
diritto delle donne ad abortire. E chiaro che il capitalismo neoliberale
ha riscoperto l’importanza della chiesa e della religione per masche
rare i suoi interessi reali. E così fa appello alla morale, al diritto alla
vita - che è veramente una farsa nel mondo in cui viviamo. Anche
negli Stati uniti la possibilità di abortire è sempre più in pericolo. Sog
getta a mille restrizioni che si moltiplicano da stato a stato, costringe
le organizzazioni femministe a una grosso dispendio di energie per
frenare questo attacco continuo. Come si può impedire tutto questo?
Io credo che la cosa essenziale sia non separare la lotta per l’aborto
dalla lotta per il controllo sul nostro corpo, che e molto più ampia e
oltrepassa anche il terreno della procreazione.
E fondamentale vedere che oggi nella politica neoliberale, nel
la politica del capitalismo internazionale, non è tanto l’aborto in sé
che conta, quanto il controllo sulla riproduzione. Non dobbiamo di
menticare che la stessa classe capitalistica che oggi cerca di limitare
l’aborto è quella che in anni molto recenti organizzava i safari della
sterilizzazione in India, Indonesia; quella che continuamente inventa
16 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
contraccettivi (come Norplant e gli iud) che le donne non possono
controllare. Non solo. E chiaro, guardando alle leggi approvate da
vari stati negli Usa, che la cosiddetta difesa della vita serve a crimina
lizzare le donne povere che si azzardano ad avere figli, al punto che,
come è stato scritto recentemente, la gravidanza oggi negli Stati uniti
pone una donna povera, soprattutto se di colore, fuori dalla costi
tuzione. Sterilizzazione e criminalizzazione dell’aborto sono parte di
una stessa logica che pone nelle mani dello stato il corpo delle donne
e il processo della procreazione, considerato come meccanismo che
determina la grandezza e qualità della forza lavoro a livello mondiale.
In altre parole, la questione non è una faccenda di pura quantità e
ovviamente tanto meno di moralità. La questione è a chi spetta deci
dere, chi deve/può venire al mondo su questo pianeta: una decisione
che gran parte della classe capitalistica, oggi, tanto quanto al tempo
della caccia alle streghe, è determinata a non lasciare nelle mani delle
donne. La sfida per noi è non ripetere lo sbaglio che tante femministe
hanno fatto negli anni Settanta, quando si tendeva a identificare la
battaglia per l’aborto con quella per il controllo sopra il nostro corpo,
isolando quindi il diritto ad abortire dalla rivendicazione della possi
bilità di avere figli alla condizioni che determiniamo e dalla questione
del lavoro a cui siamo costrette per sopravvivere.
Un discorso analogo a quello sull’aborto può essere fatto anche
per la famiglia. Mentre i politici insistono sulla sua centralità, la po
litica economica mina le condizioni materiali della sua riproduzione.
La precarizzazione del lavoro, i salari congelati hanno messo in crisi
la famiglia più di quanto non abbia fatto il rifiuto delle donne della
domesticità. E se - almeno negli Stati uniti - non si assiste a un salto
in avanti nel numero dei divorzi è solo perché le coppie non hanno
i mezzi per la pratiche burocratiche, e semplicemente si separano. Si
insiste però a livello istituzionale sulla famiglia perché essa serve an
cora ad assorbire i costi della riproduzione della forza lavoro, tanto
più in tempo di crisi. E mentre le sue risorse si assottigliano sempre di
più, è la stessa famiglia a cambiare. Crescono in modo esponenziale
quelle con a capo delle donne, si afferma la famiglia con partner dello
stesso sesso e cresce anche il numero di quelle non unite da legami di
parentela. Credo che, soprattutto per le donne, quest’ultima sia una
buona opzione, considerato il livello di violenza a cui sono esposte
nell’ambito della famiglia.
Come devono attrezzarsi le donne nei confronti dei rapporti fa
migliati e della violenza che le vede oggetto? La prima cosa è creare
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA 17
reti di supporto e autodifesa. È intollerabile che ogni giorno donne
vengano massacrate da mariti, compagni e magari anche figli, che non
accettano la loro autonomia. La vita matrimoniale sta diventando per
le donne un lavoro rischioso che le espone a molta violenza. E questo
deve cessare.
Rimane poi il fatto che la famiglia nucleare è un’istituzione che ci
espone a una crisi permanente, perché crea aspettative difficilmente
realizzabili e impone carichi di lavoro insostenibili che gravano so
prattutto sulle donne. La costruzione di beni comuni e rapporti so
ciali più ampi, più solidali, ha anche questo scopo: superare l’alterna
tiva che ci è posta tra una famiglia che (come il sindacato) ci sostiene
(anche se sempre di meno) ma troppo spesso ci soffoca e una vita di
solitudine.
E a partire dal rifiuto di queste alternative e sopratutto dal rifiu
to dell’impoverimento e della violenza a cui si cerca di condannarci,
che comincia la nostra rivoluzione. Come provo a mostrare in in que
sto libro, oggi un femminismo radicale deve operare su vari fronti,
ma senza mai limitarsi a una pratica puramente difensiva. La rico
struzione del tessuto sociale, la determinazione di nuovi rapporti di
solidarietà capaci di procurare subito, nel presente, nuove risorse e
nuovi rapporti sociali, sono la prima condizione non solo per la so
pravvivenza ma anche e soprattutto per aprire un processo di riap
propriazione della ricchezza e per recuperare il controllo sui mezzi
della nostra riproduzione. Abbiamo davanti un lavoro immenso, se si
pensa alle condizioni disastrate - ambientali, economiche, sociali - in
cui siamo costretti a vivere. Dall’educazione alla salute, all’ambiente,
alla costruzione di nuove forme di (ri)produzione. Si può davvero dire
che dobbiamo mettere il mondo sottosopra, perché la bancarotta del
sistema capitalistico è tale che ormai da esso ci si può aspettare solo
crisi, miseria e violenza.
Brooklyn, febbraio 2014
Introduzione all’edizione americana
4 La definizione welfare mothers si riferisce alle donne che ricevevano sussidi statali per i
figli a carico. Scegliamo da qui in avanti di riportare la definizione in lingua inglese per dar
conto della specificità, tutta statunitense, dell’espressione (N.d.T.).
22 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
allo stesso tempo come leva per minare le gerarchie all’interno della
classe operaia. In Italia, questa lezione politica si è concretizzata nel
le lotte di fabbrica dell’“autunno caldo” (1969), quando gli operai
chiedevano aumenti salariali sganciati dalla produttività e uguali per
tutti, decisi a rifiutare guadagni settoriali e a porre fine alle divisioni
basate sui differenziali salariali5. Questa concezione del salario - che
respingeva la separazione leninista tra lotta economica e lotta politica
- è diventata uno strumento per portare alla luce le radici materiali
della divisione sessuale e internazionale del lavoro e, nei miei lavori
successivi, “il segreto dell’accumulazione originaria”.
Altrettanto importante per lo sviluppo della nostra prospettiva è
stato il concetto operaista di “fabbrica sociale”. Esso traduceva la teo
ria proposta da Mario Tronti in Operai e capitale (1966) secondo cui, a
un certo stadio di sviluppo del capitale, i rapporti capitalistici diventa
no così egemonici che ogni rapporto sociale è sussunto dal capitale é
la distinzione tra società e fabbricacròfla: la società stessa diventa una"’’"
fabbrica e le relazioni sociali divenMrWÉirettamente rapporti di produ
zione. Tronti faceva^‘quTfiféfimento^I& crescente riorganizzazione 3hT
“territorio” come spazio sociale strutturato in vista delle esigenze del
la produzione in fabbrica e dell’accumulazione di capitale. Ma per noi
è stato subito chiaro che il circuito della produzione capitalistica, e la
“fabbrica sociale” che produce, iniziajig e si concentrano nella casa,
_ nelle cucine,„nelle camere"da letto in quanto centri per là produzione
c.dèlia forza lavoro. È da lì che H circuito della produzione capitalistica
arriva alla fabbrica, passando per la scuola, l’ufficio, il laboratorio. In
breve, non abbiamo ricevuto passivamente gli insegnamenti dei mo
vimenti che ho citato, ma li abbiamo rovesciati, confrontandoli con i
loro limiti, usando i loro tasselli teorici per costruire un nuovo tipo, di
soggettività politica e una nuova strategia.
La definizione di questa prospettiva politica, anche in risposta alle
accuse che ci venivano mosse dalla sinistra e dalle femministe, è il
tema che unisce i saggi scritti tra il 1974 e il 1980, il periodo del mio
impegno attivo nella campagna “Salario al lavoro domestico”6. Essi
avevano vari obbiettivi: evidenziare la differenza essenziale tra il la
voro domestico e gli .altrftÌpi di lavoro, smascherare il processo di
najuraKzjazione che questo lavoro ha subito in quanto lavoro non
5 Cfr. Marx, Salario, in Manoscritti economìco-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004.
6 Si tratta di Salario per il lavoro domestico del 1974; Perché la sessualità è lavoro? e Con
tropiano dalle cucine (scritto insieme a Nicole Cox) del 1975 e Ristrutturazione del lavoro
domestico e riproduzione negli Stati unti degli anni Settanta del 1980.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 23
salariato, mostrare la funzione del salario nell’economia capitalistica,
je questione'della “produttivÌtà’’"^tara^stcfritamenté
,connessa alla lotta per il potere sociale. PrincipalmdnteTinWIHdevano
stabilire che gli attributi della femminilità sono in realt&funzioni del
lavoro domestico-, e confutare il modo economicistico in cui la richie
sta di salario per il lavoro domestico era concepita da molti critici, a
causa della loro incapacità di comprendere la funzione del denaro nel
capitalismo al di là della sua forma immediata di remunerazione. ,
La campagna “Salario al lavoro domestico” fu lanciata nell’estate
del 1972 a Padova, quando donne provenienti da Italia, Inghilterra,
Francia e Stati uniti diedero vita al Collettivo internazionale femmi
nista. Obbiettivo delle campagna era aprire un processo di mobilita
zione femminista sul piano internazionale, per costringere lo stato a
riconoscere il lavoro domestico come lavoro, cioè come attività che
deve essere remunerata perché, contribuendo alla produzione della
forza lavoro, permette che ogni altra forma di produzione possa ave
re luogo e quindi creare capitale. Consideravamo il salario al lavoro
domestico una prospettiva politica rivoluzionaria non solo perché
evidenziava la causa principale dell’“oppressione delle donne” nel
la società capitalista, ma soprattutto perché smascherava i principali
meccanismi attraverso cui il capitalismo ha conservato il suo potere
e diviso la classe operaia. Mi riferisco alla svalutazione di intere sfere
dell’attività umana - a partire da quelle che sostengono la produzione
della vita - e alla capacità della classe capitalista di usare il salario per
estrarre lavoro anche dalla vasta popolazione di lavoratori apparente
mente esclusa dai rapporti salariali: schiavi, soggetti coloniali, prigio
nieri, casalinghe, studenti. Il salario al lavoro domestico era, a nostro
avviso, una rivendicazione rivoluzionaria anche perché, per contenere
i costi della forza lavoro, il capitalismo deve svalutare il lavoro di ri-
produzione, e ci pareva quindi che una campagna capace di svuotare
questo lavoro avrebbe interrotto l’accumulazione di capitale e por
tato la nostra lotta con il capitale e lo stato su un terreno condiviso
dalla maggior parte delle donne. Infine, il salario al lavoro domestico
ci sembrava una prospettiva rivoluzionario perché metteva fine alla
naturalizzazione del lavoro domestico, sfatando il mito che si tratti
di un “lavoro da donne”, e proponeva che le donne fossero pagate
per il lavoro che già facevano, invece di farci lottare per avere più
lavoro. Voglio sottolineare che la nostra lotta era per il salario al lavo
ro domestico e non per il salario alle casalinghe, convinte che questa
rivendicazione avrebbe comportato la “de-sessualizzazione” di questo
24 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
lavoro. E non chiedevamo il salario ai mariti ma allo stato in quanto
rappresentante del capitale collettivo, l’“Uomo” che realmente trae
profitto da questo lavoro.
Oggi, questo tipo di problematica può sembrare obsoleta, soprat
tutto alle donne più giovani che possono sottrarsi- a gran parte di que
sto lavoro. Le giovani donne sono oggi più indipendenti economica
mente e più autonome dagli uomini rispetto alla mia generazione. Ma
il lavoro domestico non è scomparso e la sua svalutazione, monetaria
e non, continua ad essere un problema per la maggior parte di noi,
che abbiamo o meno un lavoro salariato. Oggi, dopo quattro decenni
di lavoro a tempo pieno fuori casa, l’assunto - diffuso tra le femmini
ste negli anni Settanta - che il lavoro salariato apra un percorso di “li
berazione”, non funziona più. Per questo la teoria legata alla proposta
del salario al lavoro domestico è più facilmente accettata, sempre che
rimanga a livello teorico. Un contribuito rilevante in questo senso è
stato il lavoro di studiose militanti femministe come Ariel Salleh in
Australia e Maria Mies in Germania, che hanno riformulato la nostra
analisi del lavoro riproduttivo da un punto di vista eco-femminista e
dal punto di vista dei movimenti di donne nelle “colonie”7. Oggi an
che le femministe accademiche discutono le tesi classiche di “Salario
al lavoro domestico”, spesso come se le avessero appena inventate,
mentre negli anni Settanta queste stesse tesi suscitavano una veemente
opposizione.
Alla fine degli anni Settanta, due decenni di lotte internazionali,
che avevano scosso le fondamenta del processo di accumulazione ca
pitalistica, sono state messe sulla difensiva da una crisi globale tuttora
in corso. A partire dall’embargo petrolifero a Europa e Stati uniti del
1974, cominciava un lungo periodo di sperimentazione capitalista sul
terreno della “scomposizione” di classe, condotta nel nome del “Wa
shington Consensus”, del neoliberismo e della “globalizzazione”. Dal
la teoria della “Crescita zero” (proposta tra il 1974 e il 1975) alla crisi
del debito e poi alla delocalizzazione industriale e all’imposizione di
un aggiustamento strutturale ai paesi ex-coloniali, veniva forzosamen
te costruito un nuovo mondo, che modificava radicalmente i rapporti
di forza tra lavoro e capitale.
Ho discusso alcuni degli effetti di questo cambiamento per la ripro-
7 Si veda Ariel Salleh, Ecofeminism as Politica: Nature, Marx, and thè Postmodern, Zed Boo-
ks, London 1997; Maria Mies, Patriarchy and Accmmdatitìw ón a World Scale, Zed Books,
London 1986.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 25
eduzione della forza lavoro in una serie di articoli scritti negli anni No
vanta, alcuni in collaborazione con “Midnight Notes”, in particolare
nel volume dal titolo The New Enclosures. Qui voglio aggiungere che,
grazie alle analisi che abbiamo sviluppato prima con “Salario al lavoro
domestico” e poi in “Midnight Notes”, mi è stato possibile vedere che
non era in corso una riconversione industriale ma una ristrutturazione
dei rapporti di classe che partiva proprio dal processo di riproduzione
sociale8. La mia comprensione del nuovo ordine mondiale e stataraeim
tata anche da due fattori che hanno profondamente influenzato la mia
pratica teorica e politica. In primo luogo, la mia decisione, alla metà
degli anni Settanta, di iniziare uno studio della storia delle donne nella
transizione al capitalismo, culminata con la pubblicazione nel 1984 de
Il grande Calibano scritto insieme a Leopoldina Fortunati e successiva
mente di Caliban and thè Witch: Women, thè Body and Primitive Ac-
cumulation (del 2004). In secondo luogo, il mio lavoro come docente
a contratto presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria, nella metà
degli anni Ottanta, che mi ha dato l’opportunità di osservare le deva
stanti conseguenze sociali innescate dai programmi di austerità eco
nomica imposti ai “paesi debitori” dalla Banca mondiale e dal Fondo
monetario internazionale in cambio di nuovi prestiti.
Il lavoro storico sulla transizione al capitalismo ha approfondito la
mia comprensione non solo del ruolo delle “donne nel capitalismo”
ma del capitalismo stesso. Mi ha permesso di collegare i processi at
tivati dai programmi di “aggiustamento strutturale” (il punto foca
le della nuova economia globale) a ciò che in Caliban and thè Witch
ho definito “il segreto dell’accumulazione originaria”, a partire daña
guerra che ü capitalismo ha lanciato contro le donne nel corso di tre
secoli di caccia añe “streghe”. Ripercorrendo l’ascesa del capitalismo
ho anche potuto ampliare Ü mio concetto di riproduzione, estenden
dolo dal lavoro domestico añ’agricoltura di sussistenza e al lavoro di
conservazione ambientale. Tali considerazioni rispetto al lavoro ripro
duttivo sono state soUecitate anche daña situazione in Nigeria. In un
contesto in cui, nonostante l’impatto distruttivo deña produzione di
petroho, l’accesso aña terra era ancora una deüe condizioni principañ
deüa riproduzione quotidiana deña vita e l’agricoltura di sussistenza,
svolta per lo più dañe donne, continuava a fornire la maggior parte
8 Si veda The New Enclosures, in “Midnight Notes”, 10, dicembre 1990; George Caffentzis,
The Work Energy Crisis, in “Midnight Notes”, 3, dicembre 1981; Midnight Notes Collec
tive (a cura di), Midnight Oil: Work, Energy, War. 1973-1992, Autonomedia, New York
1992.
26 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
stesso modo in cui Dio ha creato Èva per far piacere ad Adamo, così
il capitale ha creato la casalinga per servire fisicamente, emotivamente
e sessualmente il lavoratore maschio, per allevare i suoi figli, rammen
dare i suoi calzini, tirargli su il morale quando è a terra a causa del
lavoro e dei rapporti sociali (che sono rapporti di solitudine) che il
capitale gli ha riservato. Ed è proprio questa particolare combinazio
ne di servizi fisici, emotivi e sessuali, impliciti nel ruolo che le donne
devono assumere per il capitale, che crea il carattere particolare di
quella serva che è la casalinga e rende il suo lavoro così opprimente e
allo stesso tempo così invisibile. Non è un caso, quindi, se la maggior
parte degli uomini cominciano a pensare di sposarsi appena hanno
il loro primo lavoro. Questo non è solo perché adesso possono per
metterselo, ma perché avere qualcuno a casa che si prende cura di te
è l’unica condizione per non impazzire dopo un giorno trascorso alla
catena di montaggio o alla scrivania. Ogni donna sa che questo è quel
lo che deve fare per essere una vera donna e perché il suo matrimonio
“riesca”. E anche in questo caso, tanto più povera è la famiglia tan
to più pesante è l’asservimento della donna, e non solo a causa della
condizione economica. Il capitale ha una doppia politica: una per la
famiglia di classe media e una per la famiglia proletaria. Non è un caso
se è nella famiglia proletaria che troviamo il machismo più aperto:
tanti più colpi l’uomo riceve al lavoro tanto più sua moglie dovrà es
sere allenata ad assorbirli, e tanto più gli sarà permesso di ricostruire
il suo equilibrio a spese di lei. Quando sei frustrato o particolarmente
stanco dal lavoro, o quando sei stato sconfitto nella lotta (ma anda
re in fabbrica è di per sé una sconfitta) picchi tua moglie e sfoghi
la tua rabbia su di lei. Quanto più l’uomo è servo ed è comandato,
tanto più comanda. Come si dice, la casa di un uomo è la sua reggia e
sua moglie deve saper aspettare in silenzio quando lui è di malumore,
deve tirarlo su di morale quando è scoraggiato e maledice il mondo e
deve imparare a girarsi dall’altra parte quando lui dice “stasera sono
troppo stanco” o quando fa l’amore così velocemente che, come ha
detto una volta una donna, tanto vale che lo faccia con un barattolo di
maionese. Certo, le donne hanno sempre trovato il modo di ribellarsi
o di fargliela pagare, ma sempre in modo isolato, all’interno della pro
pria casa. Il problema allora è come portare queste lotte nelle strade,
fuori dalle cucine e dalle stanze da letto.
Questo imbroglio che va sotto il nome di amore e di matrimonio
ci coinvolge tutte, anche se non siamo sposate, perché una volta che il
lavoro domestico è stato completamente naturalizzato e sessualizzato,
SALARIO PER IL LAVORO DOMESTICO 35
una volta che è diventato un attributo femminile, tutte noi in quan
to donne ne siamo segnate. Se è naturale fare certe cose, allora ci si
aspetta che tutte le donne le facciano e persino che gli piaccia farlo.
E questo vale anche per quelle donne che, grazie alla loro posizione
sociale, potrebbero evitare parte o gran parte di questo lavoro, perché
i loro mariti possono permettersi domestiche e psicoanalisti, e conce
dersi altre forme di distrazione e divertimento. Possiamo anche non
servire un uomo in particolare, ma siamo tutte in un rapporto subor
dinato nei confronti dell’intero mondo maschile. “Sorridi tesoro, cosa
c’è che non va?” è una cosa che ogni uomo si sente autorizzato a chie
derti, che sia tuo marito, il bigliettaio sul treno o il tuo capo al lavoro.
La prospettiva rivoluzionaria
Se partiamo da questa analisi possiamo vedere le implicazioni ri-
„ voluzionarie della richiesta di salario per il lavoro domestico. E la ri-
, chiesta mediante la quale la nostra natura finisce e inizia la nostra lotta,
( perché volere salario per il lavoro domestico significa già rifiutare questo
( lavoro come espressione della nostra natura e quindi rifiutare proprio
1 quel ruolo femminile che il capitale ha inventato per noi.
La stessa richiesta di un salario per il lavoro domestico indebolirà
ciò che la società si aspetta da noi, poiché queste aspettative - l’essen
za della nostra socializzazione - sono funzionali alla nostra condizio
ne di lavoratrici domestiche non salariate. In questo senso è assurdo
paragonare la lotta delle donne per il salario alla lotta degli operai
maschi nelle fabbriche per avere più salario. Quando l’operaio sala
riato lotta per avere un aumento salariale attacca il suo ruolo sociale
ma ne rimane all’interno. Quando noi lottiamo per il salario lottiamo
direttamente e senza ambiguità contro il nostro ruolo sociale. C’è una
^differenza quaHtativa tra le lotte del lavoratore salariato ,ele.lotte^^
10 schlàvoljer un salarid cdnffo 1^cHla^iri57Peve comunque essere
chiaro che quando lottiamo per il salarionon lottiamo per entrare nei
rapporti di produzione capitalistici, perché non ne siamo mai state
fuori. Lottiamo per distruggere il piano del capitale sulle donne, che
è un momento essenzlale di quella divisione del lavoro e della classe
operaia che ha permesso al capitalismo di mantenere il suo potere.
11 salario per il lavoro domestico è, dunque, una richiesta rivoluzio
naria non perché di per sé distrugge il capitale, ma perché attacca il
capitale e lo costringe a ristrutturare i rapporti sociali in termini più
36 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Ci offrono “sviluppo”
Poiché la sinistra ha accettato il salario come spartiacque tra lavoro
e non-lavoro, produzione e parassitismo, potere e mancanza di pote
re, non ha visto l’enorme quantità di lavoro non pagato che le donne
fanno in casa per il capitale. Da Lenin a Juliet Mitchell, passando per
Gramsci, tutta la tradizione della sinistra si è trovata d’accordo sulla
marginalità del lavoro domestico per la riproduzione del capitale, e
sulla mjiiginaHtà della casalinga nel processo rivoluzionario. Secondo
la sinistra, le donne, in quanto casalinghe, non soffrono a causa del
^'capÌRtfé’ma a causa della sua mancanza. Sembra cioè che il nostro
problema sia che il capitale non raggiunge le nostre cucine e le nostre
camere da letto. Da ciò conseguirebbe che rimaniamo a uno stadio
feudale o pre-capitalistico e qualunque cosa facciamo nelle nostre cu
cine o camere da letto sarebbe irrilevante ai fini di un cambiamento
sociale. Ovviamente, se le nostre cucine sono fuori dal capitale, le no
stre lotte non riusciranno mai ad abbatterlo.
Perché mai il capitale permetterebbe la sopravvivenza di tanto la
voro che non genera profitto, di tanto tempo di lavoro non produt
tivo, è una domanda che la sinistra non si è mai posta, ovviamente
confidando nell’irrazionalità del capitale e nella sua scarsa capacità
di pianificare. Ironicamente, la sinistra ha tradotto la sua ignoranza
della specificità del rapporto donne-capitale in una teoria dell’arre
tratezza politica delle donne, che può essere superata solo se le donne
48 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
II lavoro nascosto
Partendo da noi stesse come donne, abbiamo imparato che la gior
nata lavorativa per il capitale non produce necessariamente una busta
paga, non comincia e finisce ai cancelli della fabbrica, e soprattutto ab
biamo scoperto la natura e le dimensioni del lavoro domestico. Infatti,
non appena alziamo la testa dai calzini che rammendiamo o dai pasti
che prepariamo e guardiamo alla totalità della nostra giornata lavora
tiva, ci accorgiamo subito che sebbene il nostro lavoro non produca
un salario per noi stesse, noi produciamo il più prezioso prodotto che
appare sul mercato capitalistico: la forza lavoro. Il lavoro domestico è
molto più che pulire la casa. E servire i lavoratori salariati fisicamen
te, emotivamente, sessualmente, fare in modo che giorno dopo giorno
siano pronti per il lavoro. E prendersi cura dei nostri bambini - i futu
ri lavoratori - assistendoli dalla nascita per tutti gli anni della scuola,
assicurandoci che si comportino come ci si aspetta che si comportino
nella società capitalistica. Questo significa che dietro a ogni fabbrica,
scuola, ufficio o miniera c’è il lavoro nascosto di milioni di donne che
hanno consumato la propria vita e il proprio lavoro per produrre la
forza lavoro occupata in queste fabbriche, scuole, uffici o miniere5.
E per questo che ancora oggi, sia nei paesi “sviluppati” che in
quelli “sottosviluppati”, il lavoro domestico e la famiglia sono i pila
stri della produzione capitalista. La disponibilità di forza làvòro sta-~
bile e ben disciplinata è una condizione essenziale per la produzione,
ad ogni stadio dello sviluppo capitalistico. JLe condizioni del nostro
. lavoro variano da paese a paese. In alcuni paesi siamo obbligate a una
produzione intensiva di bambini, in altri ci viene detto di non pro
creare, soprattutto se siamo nere, se riceviamo sussidi dallo stato, e se
abbiamo la tendenza a riprodurre “ribelli”. In alcuni paesi producia
mo lavoro non qualificato per i campi, in altri lavoratori qualificati e
tecnici. Ma in ogni paese facciamo essenzialmente lo stesso lavoro non
^salariato e svolgiamo la stessa funzione per il capitale. " "
5 ' Mariarosa dalla Costa, Quartiere, storia e fabbrica dal punto di vista della donna, in “Qua-
• demi di lotta femmista”, 1, L’offensiva, Musolino editore, Torino 1972, pp. 26-27. “Il
quartiere è essenzialmente il luogo delle donne nel senso che le donne vi appaiono e vi
; spendono direttamente il loro lavoro. Ma la fabbrica è altrettanto il luogo in cui è incor
porato il lavoro delle donne, che non vi appaiono e che l’hanno trasferito negli uomini
che appaiono lavorarvi direttamente. Così come nella scuola è incorporato il lavoro delle
donne che non vi appaiono e che l’hanno trasferito negli studenti che si ripresentano ogni
mattina, nutriti, accuditi e stirati da madri, nonne e sorelle e (nei casi delle famiglie più
. abbienti) donne di servizio”.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 51
Avere un secondo lavoro non ci ha mai liberato dal primo. Due la
vori, per le donne, hanno solo significato meno tempo e meno energie
per lottare contro entrambi. Inoltre, una donna, che lavori a tempo
pieno in casa o fuori, che sia sposata o single, deve spendere ore di
lavoro per riprodurre la sua stessa forza lavoro, e le donne conoscono
bene questa particolare tirannia, perché un bel vestito e i capelli in
ordine sono condizioni necessarie per ottenere un lavoro, sia sul mer
cato del matrimonio che su quello del lavoro salariato.
Per questo dubitiamo che negli Stati uniti “scuole, asili e televi
sione [abbiano] liberato le madri da molte delle loro responsabilità
nell’educazione dei figli”, e che “la riduzione delle dimensioni delle
abitazioni e la meccanizzazione del lavoro domestico [abbiano] signi
ficato per la casalinga la possibilità di disporre di molto tempo libe
ro”, da occupare con “l’acquisto, l’uso e la riparazione di aggeggi [...]
che in teoria dovrebbero farle risparmiare tempo”6.
Gli asili nido non hanno mai liberato tempo da poter dedicare a noi
stesse, ma solo tempo per altro lavoro. Quanto alla tecnologia, è pro
prio negli Stati uniti che possiamo misurare la distanza che esiste tra la
tecnologia socialmente disponibile e quella che arriva nelle nostre cuci
ne. E anche in questo caso, è la nostra condizione di non salariate a de
terminare la quantità e la qualità della tecnologia che riusciamo a otte
nere. “Se non si è pagate a ore, nessuno, entro certi limiti, si preoccupa
di controllare quanto tempo impieghiamo a svolgere il nostro lavoro”7.
Semmai, la situazione negli Stati uniti è la prova che né la tecnologia né
un secondo lavoro possono liberare le donne dal lavoro domestico, e
non è che “produrre un tecnico sia un’alternativa più leggera rispetto
a quella di produrre un manovale se tra queste due possibilità non
si pone il rifiuto della donna di lavorare gratuitamente, a qualunque
livello tecnologico si svolga tale lavoro, il rifiuto delle donne di vivere
per produrre, qualunque sia il tipo di figlio da produrre”8.
Rimane da chiarire che affermare che il lavoro domestico è pro
duzione capitalistica non significa volersi legittimare come parte delle
“forze produttive”, in altre parole non è una questione di moralismo.
Solo dal punto di vista capitalistico essere produttive è una virtù mo
rale, se non addirittura un imperativo morale. Dal punto di vista della
classe operaia, essere produttivi significa semplicemente essere sfrut-
Glorificare la famiglia
Non ci sorprende che la ricerca dell’essenza della femminilità con
duca Lopate alla più spudorata glorificazione del lavoro domestico
non salariato e in generale del lavoro non pagato.
La casa e la famiglia hanno tradizionalmente fornito Túnico spazio di vita
nel sistema capitalistico in cui possiamo soddisfare reciprocamente i no
stri bisogni per amore e affetto, anche se spesso lo facciamo per paura o
soggezione. I genitori si prendono cura dei figli almeno in parte per amore
[...] Penso anche che questo ricordo rimanga con noi mentre cresciamo,
cosicché rammentiamo sempre come una sorta di utopia il lavoro e le cure
che provengono dall’affetto, invece di essere basate su una retribuzione
economica18.
16 “La cosa essenziale da ricordare è che siamo un SESSO. Questa è veramente l’unica parola
che si sia trovata finora per descrivere ciò che abbiamo in comune” {ivi, p. 11).
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 10.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 55
La letteratura del movimento femminista ha mostrato gli effetti
devastanti cKé questo amore, questa cura e questi servizi hanno avuto
sulle donne. Sono le catene che ci hanno tenuto legate a una condizio
ne’eli semi schiavitù. Ci rifiutiamo quindi di propagare ed elevare ad
utopia la miseria delle nostre madri e nonne e la nostra stessa miseria
di bambine! Quando il capitale o lo stato non pagano un salario, a
pagare con la vita sono coloro che sono amati e curati, anch’essi sènza
salario e con ancora minor potere.
Rifiutiamo ànche l’idea di Lopate secondo cui chiedere un com
penso economico “servirebbe solo ad allontanarci ancora di più dalla
possibilità di un lavoro non alienato”19, il che significa che il modo più
rapido per “disalienare” il lavoro è di lavorare gratis. Senza dubbio il
presidente Ford apprezzerebbe questo suggerimento. Il lavoro volon
tario, su cui lo stato moderno si appoggia in maniera crescente, si basa
su queste magnanime elargizioni del nostro tempo. Tuttavia, ci sembra
che se le nostre madrise, invece di contare semplicemente sull’amore
e l’affetto, avessero avuto un compenso economico, sarebbero state
meno aspre, meno dipendenti e meno ricattate. Avrebbero ricattato
meno i propri figli a cui costantemente sono stati ricordati i sacrifici
delle proprie madri. Avrebbero avuto più tempo e più potere per lot
tare contro quel lavoro e ci avrebbero consegnato la lotta a un livello
più avanzato.
E l’essenza stessa dell’ideologia capitalista a glorificare la famiglia
come un “mondo privato”, l’ultima frontiera dove uomini e donne ri-
escono a rar sopravvivere le [loro] anime”, e non c’è da meravigliarsi
se questa ideologia stia godendo di una rinnovata popolarità presso
chi pianifica lo sviluppo capitalistico in questo periodo di “crisi”, “au
sterità” e “difficoltà”20. Come ha sostenuto di recente Russel Baker
sul “New York Times”, l’amore ci ha riscaldato durante la Grande
Depressione e faremo bene a portarcelo con noi in questo viaggio
verso tempi difficili21. Questa ideologia che oppone la famiglia (o la
comunità) alla fabbrica, il personale al sociale, il privato al pubblico,
il lavoro produttivo al lavoro improduttivo è funzionale al nostro as
servimento nella casa che, in assenza di un salario, è sempre apparso
19 Scrive Lopate: “L’eliminazione dell’unica grande area di vita nel sistema capitalistica in
cui non tutte le transazioni hanno valore di scambio servirebbe solo a offuscare ancora di
più la possibilità di un lavoro libero e non alienato” {ibidem).
20 Scrive Lopate: “Credo che è nel nostro mondo privato che riusciamo a far sopravvivere le
nostre anime” {ibidem).
21 Russell Baker, Love and Potatoes, in “New York Times”, 24 novembre 1974.
56 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Rivendicare salario
Come donne, il nostro potere comincia con la lotta sociale per
23 Selma James, Sex, Race and Class, Falling Wall Press and Race Today Publications, Bristol
1975.
24 Lopate, Women Pay, cit., p. 11.
25 Ibidem.
58 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
il salario, non per entrare nel rapporto salariale (dal quale non sia
mo mai state fuori) ma per uscirne e per tirarne fuori ogni settore
della classe operaia. Occorre però chiarire quale è la natura della
lotta salariale. Quando la sinistra sostiene che la lotta sul terreno del
salario è “economicistica” e “sindacale”, ignora che il salario, come
la sua mancanza, è la misura diretta del nostro sfruttamento e quindi
l’espressione diretta del rapporto di potere tra capitale e classe ope
raia, e all’interno della stessa classe operaia. Ignora anche che la lotta
per il salario prende molte forme e non si limita agli aumenti salaria
li. Riduzione del tempo e dei ritmi di lavoro, ottenere servizi sociali
migliori e guadagnare più soldi, sono tutte conquiste salariali che de
terminano immediatamente quanta parte del nostro lavoro ci viene
tolta e quanto di questa riusciamo a riappropriarci. E per questo che
il salario è stato storicamente il principale terreno dello scontro tra
capitale e lavoro. In quanto espressione del rapporto di classe, il sala-
rio ha sempre due facce: da una parte la faccia del capitale che lo usa
per controllare i lavoratori, tentando di compensare ogni aumento
salariale con un aumento della produttività, dall’altra la faccia dei
lavoratori che sempre più combattono per avere più soldi, più potere
e meno lavoro.
Come l’attuale crisi capitalistica dimostra, gli operai sono sempre
meno disposti a sacrificare la propria vita al servizio della produzio
ne e a rispondere agli appelli perché aumentino la produttività26. Ma
quando l’“equo scambio” fra salario e produttività si rompe, la lotta
sul salario diventa un attacco diretto al profitto e alla capacità del
capitale di imporci altro lavoro. Così la lotta per il salario è nello stes
so tempo una lotta contro il salario, per il potere che esso esprime,
e contro il rapporto capitalistico che rappresenta. Nel caso di chi è
senza salario, nel nostro caso, la lotta per il salario è ancora più chia
ramente un attacco al capitale. “Salario al lavoro domestico” significa
che il capitale dovrà pagare per l’enorme quantità di servizi sociali che
attualmente ricadono sulle nostre spalle. Ma la cosa più importante è
che chiedere salario per il lavoro domestico significa rifiutare di accet
tare questo lavoro come destino biologico. E questa è una condizióne
indispensàbile per la hÒsffalotta^TSiienté, in fatti, è stato tanto efficace
nell’istituzionalizzare il nostro lavoro gratuito, la famiglia, e la nostra
dipendenza dagli uomini, quanto il fatto che il nostro lavoro è sempre
stato pagato non con un salario ma con 1’”amore”. Ma per noi, come
26 Si veda “Fortune”, dicembre 1974.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 59
per i lavoratori salariati, il salario non è un premio di produttività.
In cambio del salario, non intendiamo lavorare come prima o più di
prima, lavoreremo meno. Vogliamo un salario per poter disporre del
nostro tempo e delle nostre energie, per poter lottare, e per non essere
costrette dal nostro bisogno di indipendenza economica a un secondo
lavoro.
^Lajnostra lotta per il salario apre sia per i salariati che per i non sa-
lariati la questione della reale lunghezza della giornata lavorativa. Fino
a oggi, la classe operaia maschile e femminile ha visto la sua giornata
lavorativa definita dal capitale, tra un timbro di cartellino all’entrata
e uno all’uscita. Questo definiva il tempo in cui appartenevamo al
capitale e il tempo in cui appartenevamo a noi stessi. Ma non siamo
mai appartenuti a noi stessi. Ogni momento della nostra vita è sempre
appartenuto al capitale ed è arrivato il momento che il capitale paghi
per ognuno di questi momenti. In terminici classe, ciò significa chie-
dere un salario per ogni istante che vìviamo al servizio del capitale.
29 Ibidem.
30 Ivi, p. 10.
31 Ibidem.
62 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
32 Ibidem.
Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione
negli Stati uniti degli anni Settanta
dire che la crisi del welfare è stata risolta perché le welfare mothers
sono state messe al lavoro”5.
Pochi anni dopo, nel 1971, discutendo la proposta per un Piano
di assistenza familiare ( f a p ) presentata dall’amministrazione Nixon,
il senatore Daniel Patrick Moynihan ammetteva che questa richiesta
era tutt’altro che stravagante: “Se la società americana riconoscesse il
lavoro domestico e il crescere i figli come lavoro produttivo da inclu
dere nei bilanci economici nazionali [...] ricevere welfare potrebbe
non implicare dipendenza. Ma non lo facciamo. Si può sperare che
l’attuale Movimento delle donne possa cambiare le cose, anche se fino
a ora non è successo”6.
Moynihan è stato presto smentito. Proprio mentre richiamava le
vicissitudini legislative del f a p , emergeva negli Stati uniti un movi
mento per il salario al lavoro domestico abbastanza forte da far sì che
la Conferenza Nazionale delle Donne, che si tenne a Houston nel
1977, sostenesse nel suo Piano d’Azione che il welfare doveva essere
chiamato salario7. La lotta delle welfare mothers non solo ha posto
nell’agenda nazionale la questione del lavoro domestico, anche se ma
scherato come una “questione di povertà”. Ha anche chiarito che il
governo non poteva più sperare di governare il lavoro delle donne tra
mite l’organizzazione del salario maschile. Cominciava una nuova era
in cui il governo avrebbe avuto a che fare direttamente con le donne,
senza la mediazione degli uomini.
Che il rifiuto del lavoro domestico fosse diventato un fenomeno
sociale diffuso lo hanno dimostrato anche gli sviluppi nel movimento
femminista. La contestazione delle fiere matrimoniali e dei concorsi
di Miss America erano un’indicazione che le donne sempre meno ac
cettavano la “femminilità”, il matrimonio e la casa come un destino
naturale.
All’inizio degli anni Settanta, il rifiuto del lavoro domestico si tra
dusse nella migrazione delle donne nel mondo del lavoro salariato.
Gli economisti collegano questo fenomeno al progresso della tecno-
5 Milwaukee County Welfare Rights Organization, Welfare Mothers Speak Out, W.W. Nor
ton Co., New York 1972, p. 79.
6 Daniel P. Moynihan, The Politics of a Guaranteed Income, Random House, New York
1973, p. 17.
7 II testo della proposta dice: “Il Congresso dovrebbe approvare un piano federale per for
nire un livello di vita adeguato al costo della vita in ogni stato. E come nel caso degli altri
lavoratori, le casalinghe dovrebbero ricevere un reddito che abbia la dignità di essere
chiamato salario, non welfare”. Cfr. National Pian of Action approvato dalla National
Women’s Conference tenutasi a Houston nel novembre 1977.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 67
logia domestica e alla diffusione del controllo delle nascite, che pre
sumibilmente avrebbero “liberato il tempo delle donne per il lavoro”.
Eppure, negli anni Settanta, ad eccezione del forno a microonde e del
robot da cucina, l’innovazione tecnologica che è entrata in casa è stata
minima, non abbastanza da giustificare la crescita record della forza
lavoro femminile salariata8. Per quanto poi riguarda il calo delle nasci
te, le tendenze precedenti indicano che grandezza della famiglia non
è di per sé un fattore determinante nella decisione delle donne di cer
care un lavoro salariato. Lo dimostra l’esempio degli anni Cinquan
ta quando, in presenza di un vero baby-boom, le donne, soprattutto
quelle sposate e con figli piccoli, hanno iniziato in numero record a
entrare nelle forza lavoro salariata9. Quanto poco il tempo delle don
ne sia stato liberato dal lavoro domestico appare anche dai risultati di
alcuni studi, come quello condotto nel 1971 dalla Chase Manhattan
Bank, che documentava come alla fine degli anni Sessanta, le donne
americane spendessero ancora una media di quarantacinque ore alla
settimana per i lavori domestici e le ore aumentavano facilmente in
presenza di bambini piccoli.
Se consideriamo poi che la maggior parte delle donne che entra
nel mercato del lavoro ha bambini in età prescolare, non possiamo
certo concludere che è il lavoro in quanto tale che gli manca, consi
derando anche che per lo più trovano lavori che sono un’estensione
del lavoro domestico. La verità, come sottolinea Juanita Kreps, è che
le donne “desiderano cambiare la propria condizione (il lavoro dome
stico) per un lavoro salariato, anche se altrettanto ripetitivo, perché
quest’ultimo (a differenza del primo) gli garantisce uno stipendio”10.
Un altro motivo che spiega l’espansione record della forza lavoro
femminile, soprattutto dopo il 1973, sono stati gli ampi tagli che nel
corso degli anni Settanta sono stati fatti al programma di welfare. A
partire dall’amministrazione Nixon, una campagna stampa quotidiana
8 Anche dal punto di vista della spesa per gli elettrodomestici, gli anni Settanta non hanno
registrato alcuna crescita (rispetto agli anni Sessanta) e addirittura un calo rispetto agli
anni Cinquanta. E anche dubbio che un maggiore impiego di tecnologia possa liberare le
donne dal lavoro. Spesso è successo che le tecnologie che dovevano risparmiare il lavoro
domestico hanno aumentato il lavoro delle donne. Si veda Ruth Cowan, More Work for
Mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave ,
Basic Books, New York 1983.
9 E quanto sostiene Valerie Kincaid Oppenheimer in The Female Labor Force in the United
States: Demographic and Economic Factors Governing Its Growth and Changing Composi
tion, Praeger, Westport (CT) 1976.
10 Juanita M. Kreps, Sex in the Marketplace (Policy Studies in Employment & Welfare), Johns
Hopkins University Press, Baltimore (MD) 1971, p. 68.
68 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ha ricondotto tutti i problemi sociali al “pasticcio del welfare". Nel
frattempo, in tutto il paese, si sono ristretti i criteri di eleggibilità,
cosicché si è ridotto il numero delle donne che ricevono il sussidio,
mentre il sussidio veniva decurtato nonostante il continuo aumento
del costo della vita11.
Di conseguenza, mentre fino al 1969 gli indennizzi previsti dal
programma di aiuti alle famiglie con figli a carico ( a f d c ) sono stati
superiori al salario medio femminile, dalla metà degli anni Settanta
la tendenza si è invertita, benché la media del salario reale sia scesa
rispetto agli anni Sessanta. Di fronte a questo attacco al welfare, le
donne sembrano aver seguito l’indicazione di quella welfare mother
che una volta ha dichiarato che se il governo è disposto a pagare le
donne solo quando si prendono cura dei figli degli altri, allora le don-
‘"fìe'dóvrebbero “scambiarsi i figli”. Dato che sul mercato del lavoro le
’“ donne sono concentrate nel settore dei sè rv i^
stenere che hanno scambiato il lavoro domestico gratuito in famighà^
con il lavoro domestico retribuito sul mercato.
Il fatto che la crescita della forza lavoro femminile rifletta il rifiuto
del lavoro domestico da parte delle donne spiega anche l’apparente
paradosso per cui mentre le donne entravano in massa nel mercato
del lavoro, il lavoro domestico cominciava ad emergere come terreno
di indagine economica. Gli anni Settanta hanno visto un boom di stu
di sul lavoro domestico. Poi, nel 1975, anche il governo ha deciso di
misurare il contributo del lavoro delle casalinghe con il Pii. Ancora,
nel 1976, i ricercatori della Social Security Administration, che studia
no l’impatto delle malattie sulla produttività nazionale, hanno incluso
nelle cifre del loro studio il valore in dollari del lavoro domestico1112. Le
stime raggiunte, calcolate in base ai costi di mercato, erano estrema-
mente prudenti. Ma il fatto stesso che si facessero questi calcoli mo
stra la crescente preoccupazione del governo per “la crisi del lavoro
domestico all’interno della famiglia”. Effettivamente, dietro quest’im
provviso interesse per il lavoro domestico si cela l’antica verità se
condo cui questo lavoro rimane invisibile solo finché c’è qualcuno
11 A New York, i sussidi del welfare sono stati congelati ai livelli del 1972 (rivisti nel 1974),
anche se il costo della vita è, ad oggi [cioè nel 1980, quando l’articolo è stato scritto] rad
doppiato.
12 I ricercatori del Social Security Administration hanno calcolato che il valore di una casa
linga a tempo pieno è di 6.000 dollari l’anno, una cifra molto bassa rispetto ai 13.000 mila
dollari calcolati dallo studio della Chase Manhattan Bank, e ai 20.000 mila di uno studio
più recente dell’economista Peter Snell.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 69
che lo fa. Altri fattori hanno fatto della “crisi del lavoro domestico”
una fonte di preoccupazione per i politici. Prima di tutto la minaccia
alla “stabilità della famiglia”, fissata a partire da una correlazione tra
l’aumentata capacità di guadagno delle donne americane, l’aumento
nel numero dei divorzi e l’aumento del numero di famiglie con a capo
una donna.
A metà degli anni Settanta, il governo cominciava anche a pre
occuparsi perché l’espansione della forza lavoro femminile salariata
cresceva al di là delle sue previsioni, rivelando un carattere autonomo
che ostacolava i piani governativi in merito13. Per esempio, invece di
fornire una “soluzione” o un’alternativa all’espansione del welfare,
l’aumento del numero di donne in cerca di un lavoro salariato giusti
ficava il welfare e lo “proteggeva”, mostrando la differenza tra il nu
mero di donne in cerca di un lavoro e i posti di lavoro effettivamente
disponibili, cosa che ha continuamente bloccato ogni tentativo del go
verno di “far lavorare” le donne che ricevevano i sussidi. Altrettanto
preoccupante per il governo, di fronte alla più grave recessione eco
nomica dopo la Grande Depressione e a un lungo periodo di disoccu
pazione, era l’apparente “rigidità” della partecipazione femminile al
mercato del lavoro salariato. ~
Sarebbero state disposte le donne a tornare a casa a mani vuote,
come avevano fatto nel dopoguerra, dopo aver sperimentato i benefici
finanziari di un salario?14E in questo contesto che si è avuta una riva-
lutazione del lavoro domestico. Tuttavia, ben poco è stato fatto. Alcu
ne minori proposte legislative hanno riconosciuto il suo valore econo
mico. Ad esempio, un piano pensionistico del governo, approvato nel
1976 (come parte del Tax Reform Act), ha permesso ai mariti di con
tribuire a un piano pensionistico individuale (Individuai Retirement
Pian - ira)^a favore delle mogli “che non lavorano”. Inoltre, diversi
stati negli ultimi anni hanno almeno formalmente, riconosciuto, con le
nuove leggi sul divorzio, il contributo della moglie al benessere della
13 Nel 1976, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro ha raggiunto cifre che il Diparti
mento del Lavoro non si aspettava prima del 1985.
14 È importante qui menzionare la proposta di riformare i sussidi di disoccupazione discussa
dal?amministrazione Ford. Anche se non lo si ammette apertamente, questa proposta
punta a tagliare i sussidi di disoccupazione per le persone - si legga casalinghe - che
hanno appena “lasciato la casa”. Propone, inoltre, che i disoccupati con coniugi che la
vorano non debbano essere inclusi tra quanti hanno diritto al sussidio di disoccupazione.
Dovrebbero anche essere escluse dai sussidi di disoccupazione le persone non qualificate
per mancanza di formazione o di precedenti esperienze di lavoro. Eileen Shanahan, Study
on Definitions of]obless Urged, in “New York Times”, 11 gennaio 1976.
70 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
famiglia, permettendo una divisione dei beni della famiglia in base ai
servizi forniti dalla moglie (anche se, recenti casi giudiziari hanno re
spinto la richiesta avanzata da alcune donne di dividere in parti eque
il salario maschile). Infine, il Tax Reform Act del 1976 ha permesso ai
genitori di detrarre dalle tasse le spese per la crescita dei figli fino a un
massimo di quattrocento dollari per bambino (ma i genitori devono
spendere duemila dollari per beneficiare di tale detrazione). Quanto
V alla possibilità di un compenso per il lavoro domestico, l’unica pro
posta finora è stata quella di un prezzo simbolico funzionale alla sua
inclusione nel Pii. Il presupposto è che questo darebbe alle donne un
maggiore senso del valore del proprio lavoro e aumenterebbe la loro
soddisfazione rispetto al lavoro domestico. Tipica di questo approccio
è la raccomandazione fatta da un gruppo di specialisti che studiano il
lavoro in America:
E evidente che gestire la casa e crescere i figli è un lavoro - un lavoro che in
media è tanto difficile fare bene quanto è utile alla società, come quasi tutto
il lavoro retribuito che riguarda la produzione di beni e servizi. Il proble
ma è [...] che come società non lo abbiamo riconosciuto nel nostro sistema
pubblico di valori e ricompense. Tale riconoscimento può iniziare semplice-
mente contando le casalinghe come parte della forza lavoro, e assegnando
un valore monetario alla loro lavoro15.
In realtà, l’unica risposta alla rivolta delle donne contro il lavoro
domestico è stata la continua crescita dell’inflazione, che ha aumenta
to il loro lavoro in casa e la loro dipendenza dal salario maschile. Tut
tavia, nonostante l’assenza di una legislazione favorevole e la crescita
dell’inflazione, il rifiuto del lavoro domestico gratuito da parte delle
donne è andato avanti per tutti gli anni Settanta, producendo signifi
cativi cambiamenti nell’organizzazione di questo lavoro e nel processo
di riproduzione sociale.
23 Lo smantellamento del welfare, e in particolare del programma di sussidi alle famiglie con ,,
figli a carico, è avvenuto nel 1996, per iniziativa dell’amministrazione Clinton. La riforma
ha sostituito il programma federale di Aiuti alle famiglie con figli a carico con l’elargizione
.di-fondi ai vari stati da dedicare all’Assistenza Temporanea alle Famiglie Bisognose, In
questo modo gli stati, e non più il governo federale, sono diventati responsabili per gli
aiuti, che ora amministrano in modo discrezionale e sempre, comunque, in modo tempo
raneo. Su questo argomento si veda: Rebecca Blank e Ron Haskins (a cura di), The New
World of Welfare, Brooking Institution Press, Waskington DC 2001.
24 Come sottolinea Valerie K. Oppenheimer, negli anni Trenta e Quaranta, prevalevano at
teggiamenti negativi nei confronti delle donne sposate che lavoravano, in quanto si teme
va che avrebbero tolto il lavoro agli uomini. Ventisei stati dell’Unione hanno approvato
disegni di legge contro l’occupazione delle donne sposate. Oppenheimer osserva anche
che prima della crisi del 1929, “il sistema scolastico, per la gran parte, non era disposto
ad assumere donne sposate come insegnanti, e circa la metà degli istituti scolastici aveva
chiesto alle insegnanti di ritirarsi al momento matrimonio” (Oppenheimer, Female Labor
Force, cit, p. 127-28,130).
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 77
to degli uomini in età lavorativa), è anche cambiato il rapporto del
marito rispetto al lavoro. Se la moglie ha un lavoro salariato è, per
esempio, meno facile che il marito accetti un trasferimento di lavoro.
Oggi i mariti sono più disposti a rinunciare a una promozioni piutto
sto che affrontare uno spostamento che comprometterebbe il lavoro
delle mogli; cambiano più spesso lavoro, preferiscono quelli dove la
vorano meno ore a quelli con salari più alti, e vanno in pensione prima
rispetto al passato. Inoltre, il doppio stipendio in famiglia ha fornito
un’importante difesa contro la disoccupazione e l’inflazione. Negli ul
timi anni, grazie alla costante espansione dei consumi (e del debito),
la recessione che era stata prognosticata non si è verificata. Con la
prospettiva di un doppio reddito, le famiglie hanno avuto meno paura
di spendere e indebitarsi, al punto che l’inflazione ha avuto l’effetto
opposto a quello classico: ha aumentato la spesa invece di diminuirla.
Conclusioni
È chiaro che il rifiuto delle donne di lavorare in casa senza retribu
zione ha innescato importanti cambiamenti nell’organizzazione della
riproduzione e nelle condizioni del lavoro femminile. Stiamo assisten
do alla crisi della tradizionale divisione sessuale del lavoro che confina
le donne al lavoro riproduttivo (non salariato) e gli uomini alla produ
zione (salariata) di merci. Tutti i rapporti di potere tra uomini e donne
sono stati costruiti sulla base di questa “differenza” e la maggior parte
delle donne non ha avuto altra alternativa che dipendere dagli uomini
per la sopravvivenza economica, sottoponendosi alla disciplina che
deriva da questa dipendenza. Come già indicato, il principale cam
biamento in questo senso è stato compiuto dalla crescente migrazione
delle donne nella forza lavoro salariata, che, nel corso degli anni Set
tanta, ha costituito il più importante fattore di crescita del loro potere
socio-economico. Questa strategia, tuttavia, ha molti limiti. Mentre
il lavoro degli uomini è diminuito nel corso dell’ultimo decennio, le
donne di oggi lavorano decisamente di più rispetto al passato. Ciò è
particolarmente vero per le donne capofamiglia e per quelle con bassi
salari che sono spesso costrette a fare un secondo lavoro in nero per
sbarcare il lunario25. Il fardello che portano ancora le donne è ben
25 La quota di lavoro nero delle donne è quasi raddoppiato nel periodo 1969-1979, anche se
le cifre potrebbero essere più alte se includessimo l’occupazione femminile nell’economia
78 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
riflesso nella loro storia medica. Si è dato molto risalto, al fatto che le
donne vivono più degli uomini. Ma le loro cartelle cliniche raccon
tano una storia diversa. Le donne, in particolare intorno ai trent’am
ni, hanno iljpiù alto tasso di suicidio tra i giovani, i più alti tassi di
consumo di droga, di esaurimento nervoso e di terapie per problemi
mentali (ospedaliere e ambulatoriali); sono più propense degli uomi
ni a segnalare stress e disagio26. Queste statistiche sono un sintomo
del prezzo che le donne stanno pagando tanto per la loro vita come
casalinghe quanto per il peso di un doppio lavoro, ovvero il peso di
una vita costruita esclusivamente sul lavoro. E ovvio che senza una
profonda trasformazione nelle politiche sociali ed economiche e nelle
priorità sociali, nessun cambiamento positivo potrà avvenire nella vita
delle donne.
Eppure se ciò che il neo-eletto presidente Reagan ha promesso di
venterà realtà, le donne dovranno combattere una battaglia ancora
più dura per difendere ciò che hanno conquistato negli anni Sessanta
e Settanta. Ci dicono che taglieranno la spesa sociale, che sarà aumen
tato il bilancio militare, che si ridurranno le tasse ma in un modo che
awantaggerà le imprese mentre darà scarso sollievo alle persone con
reddito basso e nessuno a quelle senza reddito. Inoltre, il tipo di cre
scita economica promosso dagli economisti dell’entourage di Reagan,
minaccia le donne con l’incubo di una continua crescita dell’inquina
mento, dovuto all’accumulazione di scorie nucleari e alla de-regola-
mentazione industriale. In altre parole, ci promette altre Three Mile
Island, altre Love Canals27, altre malattie in famiglia, altre preoccupa
zioni quotidiane per la nostra salute e quella dei nostri figli e parenti,
e dunque altro lavoro per far fronte alle malattie.
Allo stesso tempo dubitiamo che un tasso di crescita economica
più lento, basata su un minor consumo di energia, “possa avere un
<KÌ<
sommersa. Nel 1969, le donne erano il 16 per cento di tutti i lavoratori in nero, mentre ■
nel 1979 erano il 30 per cento. Si calcola che le donne lavorano in nero per una media di '
cinquantadue ore settimanali (Monthly Labor Report 103, 5, maggio 1980).
26 Women and Health, United States 1980, pp. 9-11, 36-37.
27 Si tratta di un quartiere, poi demolito, nella città di Niagara Falls, nello stato di New
York, che nel 1978 è stato al centro di un’emergenza sanitaria federale. La zona era stata
precedentemente utilizzata per seppellire ventunomila tonnellate di rifiuti tossici dell’im
presa Hooker Chemical (oggi Occidental Petroleum Corporation) con gravi ripercussioni
sull’ambiente e sulla salute dei residenti: disturbi nervosi, tumori, aborti spontanei, mal-
formazioni e ritardi mentale nei nuovi nati. Dopo un’intensa campagna di mobilitazione
da parte dei cittadini e soprattutto da parte delle donne, il quartiere nel 1979 è stato
demolito e l’area bonificata [N.d.T.].
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 79
effetto benefico sul ruolo che le donne ricoprono nella società”28. Il
modello economico della crescita lenta che viene solitamente propo
sto è il modello di una società basato sul lavoro intensivo, che aumen
ta in modo particolare quella parte di lavoro che non è non salariata:
il lavoro domestico. Quali “attività personali creative” siano previste
per le donne con la proposta di un tipo di tecnologia soft, ce lo descri
ve uno dei suoi sostenitori, l’economista inglese Amory Lovins, che
raccomanda di crescere ortaggi, far marmellate di frutta e verdure,
tessere, cucire vestiti, isolare le finestre e i solai, riciclare i materiali29.
Esaltando il ritorno al “fai-da-te” come una vittoria della qualità sulla
mediocrità, dell’individualismo sul sistema (le emozioni che liberano
tali attività - ci viene detto - sono “potenti, di lunga duratura e con
tagiose”), Lovins lamenta che: “Abbiamo sostituito il guadagno alla
vecchia etica del servire e della cura come unica motivazione legittima
per il lavoro. Così l’alienazione ha preso il posto dell’appagamento
lasciandoci in uno stato di povertà interiore”30.
Sulla stessa linea, Nancy Barrett prevede che in un’econopiia a cre
scita lenta: .
Il confine tra lavoro e tempo libero può sfocarsi [...] e chi sta a casa, lui o
lei, non si sentirà inutile se contribuisce al risparmio di carburante e all’au
mento delle provviste alimentari. Se l’attività non-di-mercato è percepita
come socialmente utile, è più probabile che le persone che non lavorano
(in prevalenza donne, dati i modelli di comportamento prevalenti) si sen
tano appagate, più che in passato, anche quando restano fuori della forza
lavoro31.
Ma - è legittimo chiedersi - questo quadro idilliaco di una vita
interamente costruita attorno alla nostra riproduzione e quella degli
altri non è la vita che le donne hanno sempre fatto? Non si tratta,
ancora una volta, della solita glorificazione del lavoro domestico, che
tradizionalmente è servita a giustificare la sua condizione di lavoro
npn pagato, contrapponendo questa “importante, utile e soprattutto
altruista attività” con le presunte avide aspirazioni di quante chiedono
28 Nancy Smith Barrett, The Economy Ahead ofUs, in Juanita M. Kreps (a cura di), 'Women
and thè American Economy: A Look to thè 1980s, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ
1976, p. 165.
29 Amory Lovins, Soft Energy Paths: Towards a Durable Peace, Harper Collins, New York
1979, p. 151.
30 Ivi, p. 169.
31 Smith Barrett, The Economy Ahead ofUs, cit., p. 166.
80 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
di essere pagate per il loro lavoro? Infine, non siamo di fronte alla
vecchia logica usata per fare in modo che le donne ritornino a casa?
Se i cambiamenti che le donne negli Stati uniti hanno fatto negli
ultimi dieci anni sono un segno della direzione in cui si stanno muo
vendo, è improbabile che possano essere soddisfatte di un aumento
del lavoro domestico, anche se accompagnato da un riconoscimento
universale, ma puramente morale, del suo valore. In questo contesto,
siamo d’accordo con Nancy Barrett che le donne:
Potrebbero trovare necessario interessarsi a forme di appoggio finanziario
per le loro attività non di mercato, per il salario al lavoro domestico, per la
Sicurezza Sociale [...] ... anche altri tipi di ricompensa per il lavoro domesti
co potrebbero diventare oggetto di crescente interesse32.
32 Ibidem.
La riproduzione della forza lavoro nell’economia globale
e l’incompiuta rivoluzione femminista
12 Movimento per i diritti delle welfare mothers attivo negli Stati uniti a partire dalla fin e
degli anni Sessanta.
13 Milwaukee County Welfare Rights Organization, Welfare Mothers Speak Out, W.W. Nor
ton, New York 1972.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 91
niali14. Come nel caso della sponsorizzazione (selettiva) alla “decolo
nizzazione”, le Nazioni Unite hanno fatto sì che la loro promozione
dei diritti delle donne fosse compatibile con le esigenze e i programmi
del capitale internazionale e dell’agenda neoliberista. La conferenza
a Città del Messico e le altre che vi hanno fatto seguito nascevano in
parte dalla consapevolezza che le lotte delle donne sul terreno della
riproduzione riorientavano le economie postcoloniali determinando
un aumento dell’investimento nella forza lavoro nazionale, cosa che
costituiva la causa maggiore del fallimento dei piani di sviluppo della
Banca mondiale per la commercializzazione dell’agricoltura. In Afri
ca, le donne spesso rifiutavano di aiutare i mariti a produrre raccolti
per il mercato, difendendo invece l’agricoltura orientata alla sussi
stenza. In questo modo i villaggi, invece di riprodurre manodopera a
basso costo - come nell’immagine proposta da Claude Meillassoux15
- si trasformavano in luoghi di resistenza allo sfruttamento. Negli anni
Ottanta, la Banca mondiale ha riconosciuto che la resistenza delle
donne nei villaggi era il principale fattore di crisi per i suoi progetti di
sviluppo agricolo. Ciò ha stimolato molta ricerca sul “contributo delle
donne allo sviluppo” e, successivamente, nuovi tentativi di integrazio
ne delle donne nell’economia monetaria, come i “progetti generatori
di reddito” e i piani di “microcredito” gestiti dalle Ong. Alla luce
di questi eventi non sorprende che la ristrutturazione dell’economia
abbia comportato una profonda riorganizzazione della riproduzione
e istigato una campagna contro le donne in nome del “controllo della
popolazione”.
Nelle pagine successive tratteggio le modalità di questa ristruttu
razione, individuandone le principali tendenze, le conseguenze sociali
e l’impatto sui rapporti di classe. Prima, però, vorrei spiegare perché
continuo a usare il concetto di forza lavoro, che varie femministe ri
tengono riduttivo, sostenendo che le donne producono individui vi
venti - figli, parenti, amici - e non “forza lavoro”. La loro critica è
convincente: la “forza lavoro” è un’astrazione. Come afferma Marx,
facendo eco a Sismondi, la forza-lavoro “se non è venduta [e utilizza-
14 Silvia Federici, Andare a Pechino. Come le Nazioni Unite hanno colonizzato il movimento
femminista (infra).
15 Claude Meillassoux, Donne, granai e capitale. Uno studio antropologico dell’imperialismo
contemporaneo, Zanichelli, Bologna 1978. Meillassoux ha scritto che l’agricoltura di sussi
stenza delle donne è stato un bonus per i governi, le imprese e le agenzie per lo sviluppo,
poiché ha permesso loro di sfruttare in modo più efficace il lavoro africano, attraverso il
costante trasferimento di ricchezza e lavoro dalle aree rurali a quelle urbane (pp. 132-134).
92 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ta], non è niente"xb. Tuttavia, ci sono buone ragioni per cui continuo
ad usare questo concetto. In primo luogo è per evidenziare che nella
società capitalistica il lavoro riproduttivo non è la libera riproduzione
di noi stessi o degli altri secondo i nostri e i loro desideri. Nella mi
sura in cui, direttamente o indirettamente, si scambia con un salario,
il lavoro di riproduzione è sempre soggetto alle condizioni imposte
dall’organizzazione capitalistica del lavoro e dai rapporti di produzio
ne. In altre parole, il lavoro domestico non è un’attività libera. E “la
produzione e riproduzione del mezzo di produzione più indispensa
bile per il capitalista, cioè dell’operaio stesso”1617. In quanto tale è sog-
• getto a tutti i vincoli legati alla necessità che il suo prodotto soddisfi i
requisiti del mercato del lavoro.
In secondo luogo, evidenziare la riproduzione della “forza lavoro”
rivela il duplice carattere e la contraddizione del lavoro riproduttivo e,
quindi, il suo carattere instabile e potenzialmente dirompente. Nella
misura in cui la forza lavoro può esistere solo negli individui viventi, la
sua riproduzione deve essere contemporaneamente produzione e va
lorizzazione di capacità e qualità umane desiderate e adattamento agli
standard del mercato del lavoro imposti dall’esterno. Essendo, añora,
impossibñe tracciare una linea di demarcazione tra l’individuo viven
te e la sua forza lavoro, risulta altrettanto impossibñe separare i due
aspetti del lavoro riproduttivo che corrispondono a queña demarca
zione. Ciononostante, insistere sul concetto di forza lavoro permette di
evidenziare la tensione, la potenziale separazione intrinseca aña forza
lavoro, suggerendo l’esistenza di innumerevoli conflitti, resistenze e
contraddizioni che hanno un significato poMtico. Tra le altre cose (e
in modo fondamentale per fl movimento di ñberazione deüe donne) fl
concetto di forza lavoro ci ricorda che possiamo lottare contro ü lavoro
domestico, senza temere di rovinare la nostra comunità poiché questo
lavoro imprigiona tanto chi lo produce quanto chi ne è riprodotto.
Voglio anche difendere, a dispetto deüe tendenze postmoderne,
la mia scelta di continuare a mantenere separate produzione e ripro
duzione. Sicuramente la differenza tra le due è divenuta in un certo
senso superflua. Le lotte degh anni Sessanta, in Europa e negli Sta
ti uniti, in particolare i movimenti studenteschi e femministi, hanno
insegnato aña classe capitañsta che investire neña riproduzione deña
generazione futura di lavoratori “non paga”. Non garantisce l’aumen-
16 Marx, Il Capitale, Libro primo, cit. p. 209.
17 Ivi, p. 703.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 93
to della produttività del lavoro. Per questo, non solo gli investimenti
pubblici nella forza lavoro sono drasticamente diminuiti, ma le attività
riproduttive sono state riorganizzate come servizi producenti valore,
che i lavoratori devono acquistare e pagare. In questo modo, il valore
prodotto dalle attività riproduttive viene realizzato immediatamente,
invece di dipendere dalla produttività delle prestazioni dei lavorato
ri che esse riproducono. Tuttavia, l’espansione del settore dei servizi
non ha in alcun modo eliminato il lavoro riproduttivo non retribuito
in casa, né ha abolito la divisione sessuale del lavoro che continua a
separare produzione e riproduzione e i rispettivi soggetti di queste
attività attraverso la funzione discriminante del salario o della man
canza di esso.
Infine, parlo di lavoro “riproduttivo”, piuttosto che di lavoro “af
fettivo”, perché nelle descrizioni dominanti, il secondo descrive solo
una parte limitata del lavoro richiesto dalla riproduzione degli esseri
umani, e cancella il potenziale sovversivo del concetto femminista di
lavoro riproduttivo. Tale concetto, invece, evidenziando il suo ruolo
nella produzione della forza lavoro, e svelando le contraddizioni che
la caratterizzano, riconosce la possibilità di alleanze cruciali e nuove
forme di cooperazione tra produttori e riprodotti: madri e figli, inse
gnanti e studenti, infermieri e pazienti.
Tenendo presente il carattere particolare del lavoro riproduttivo,
chiediamoci allora come la globalizzazione economica ha ristrutturato
la riproduzione della forza lavoro. E quali sono stati gli effetti di questa
ristrutturazione per i lavoratori e in particolare per le donne che sono
tradizionalmente i principali soggetti del lavoro riproduttivo? Infine
cosa impariamo da questa ristrutturazione per quanto riguarda lo svi
luppo capitalistico e il posto che occupa la teoria marxista nelle lotte
anticapitaliste del nostro tempo? La mia risposta a queste domande
si articola in due parti. In primo luogo, vorrei brevemente discutere i
principali cambiamenti che la globalizzazione ha prodotto nel generale
processo di riproduzione sociale e nei rapporti di classe e poi trattare
più ampiamente la ristrutturazione del lavoro riproduttivo.
18 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della crìtica dell’economia politica 1857-1857, voi. 2,
La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 11.
19 Ibidem.
96 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
sessuale e internazionale del lavoro che le lotte anticoloniali e il movi
mento di liberazione delle donne avevano messo in discussione.
Il centro strategico dell’accumulazione primitiva è stato il mondo
ex-coloniale che ha storicamente rappresentato il ventre molle del si
stema capitalistico, luogo di schiavitù e piantagioni. Lo chiamo “cen
tro strategico” perché la sua ristrutturazione è stata il fondamento e
il presupposto per la riorganizzazione globale della produzione e del
mercato del lavoro mondiale. E qui, infatti, che abbiamo assistito al
primo e più radicale processo di espropriazione e di impoverimento,
e al più estremo processo di disinvestimento da parte dello stato nella
riproduzione della forza lavoro. E tutto ben documentato. A partire
dai primi anni Ottanta, come conseguenza dei piani di aggiustamento
strutturale, la disoccupazione nella maggior parte dei paesi del “Terzo
Mondo” ha avuto una tale impennata che l’Agenzia internazionale per
lo sviluppo della Banca mondiale ha potuto reclutare lavoro da ripa
gare con nient’altro che cibo20.1 salari sono caduti così in basso che
le donne che lavorano nelle maquiladora hanno riferito di aver acqui
stato latte al bicchiere e uova o pomodori uno per volta. Intere popo
lazioni sono state demonetizzate, mentre le terre sono state sottratte
per progetti governativi o date in gestione a investitori stranieri. At
tualmente, la metà del continente africano si trova all’interno di pro
grammi emergenziali di assistenza alimentare21. In Africa occidentale,
dal Niger alla Nigeria, al Ghana, l’energia elettrica è stata staccata, le
reti nazionali disattivate e coloro che possono permettersi di acqui
stare un generatore sono costretti a vivere con il loro costante ronzio,
che riempie le notti e rende difficile dormire. Le spese governative
per la sanità e l’istruzione, i sussidi agli agricoltori o il sostegno per
i beni di prima necessità sono stati tutti tagliati o eliminati. Di con
seguenza, sono calate le aspettativa di vita e sono riapparsi fenomeni
che l’influenza “civilizzatrice” del capitalismo doveva aver cancellato
dalla faccia della terra: carestie, fame, epidemie e perfino la caccia alle
streghe22. Dove non sono arrivati i programmi di “austerità” e le terre
non sono state sottratte, la guerra ha completato il lavoro, aprendo
20 Si tratta dei programmi “Food for Work” lanciati nel 2004 in centocinquanta distretti
dell’India rurale gestiti a livello statale e aperti ai contadini poveri disposti a svolgere
lavoro manuale non qualificato in cambio di riso e cereali [N.d.T.].
21 Sam Moyo e Paris Yeros (a cura di), Reclaiming thè Land: The Resurgence ofRuralMove-
ment in Africa, Asia and Latin America, Zed Books, London 2005, p. 1.
22 Silvia Federici, Witch-Hunting, Globalization, and Reminist Solidarity in Africa Today, in
“Journal of International Women’s Studies”, special issue, 'Women’s Gender Activism in
Africa, 10, 1, ottobre 2008, pp. 21-35.
LA REPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 97
nuovi terreni alla trivellazione petrolifera e alla raccolta di diamanti
o coltan. Gli espulsi dalle proprie terre a causa di tali processi sono
diventati i soggetti di una nuova diaspora che ha visto milioni di per
sone spostarsi dalle zone rurali a città che.assomigliano sempre più ad
accampamenti. Mike Davis ha in proposito parlato di “pianeta degli
slum”, ma sarebbe più corretto parlare di un “pianeta di ghetti” e di
un regime di “apartheid globale”.
Se consideriamo inoltre che, attraverso la crisi del debito e Taggiu
stamento strutturale, i paesi del “Terzo Mondo” sono stati costretti a
dirottare la loro produzione alimentare dal mercato nazionale a quello
estero, a trasformare terre coltivabili in zone di estrazione di minerali
e produzione di biocarburanti, a distruggere le proprie foreste e a
diventare discariche per rifiuti di tutti i tipi, nonché riserve di caccia
per i “cacciatori” di materiale genetico, allora, dobbiamo concludere
che nei piani del capitale internazionale ci sono regioni del mondo de
stinate a una riproduzione vicina allo zero. Infatti, la distruzione della
vita, in tutte le sue forme, è oggi tanto importante quanto lo è la forza
produttiva del “biopotere” nella-formazione dei rapporti capitalisti
ci, come mezzo per acquisire materie prime, disaccumulare lavoratori
indesiderati, smussare le resistenze e tagliare il costo di produzione
della forza lavoro.
E tuttavia una misura del disinvestimento nella riproduzione della
forza lavoro sul piano mondiale che milioni di persone decidano di
emigrare, affrontando disagi indicibili e la prospettiva della morte e
della detenzione. Indubbiamente l’emigrazione non è solo necessità,
ma un esodo di lotta, un mezzo per riappropriarsi della ricchezza ru
bata, come tra altri hanno sostenuto Yann Moulier Boutang e Dimitris
Papadopoulos23. Questo è il motivo per cui l’emigrazione ha assunto
un carattere autonomo che rende difficile il suo utilizzo come mecca
nismo normativo per la strutturazione del mercato del lavoro. Ma non
c’è dubbio che se milioni di persone lasciano il proprio paese per un
destino incerto a migliaia di chilometri di distanza da casa, è perché
non possono riprodursi, almeno non in condizioni di vita adeguate.
Ciò è particolarmente evidente se si considera che la metà dei migran
ti oggi sono donne, molte delle quali sposate con figli che si lasciano
alle spalle. E una pratica decisamente inusuale da un punto di vista
23 Yann Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, manifestolibri, Roma 2007; Di
mitris Papadopoulos, Niamh Stephenson, Vassilis Tsianos, Escape Routes: Control and
Subversion in thè 2 lst Century, Pluto Press, London 2008.
98 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
storico. Le donne di solito sono quelle che restano, non per mancanza
di iniziativa o vincoli tradizionali, ma perché rese responsabile della
riproduzione della famiglia. Sono loro che devono fare in modo che i
bambini abbiamo cibo anche quando loro stesse rimangono senza, e
che devono assicurarsi della cura di anziani o malati. Così, quando cen
tinaia di migliaia di donne lasciano le proprie case, per affrontare anni
di umiliazioni e di isolamento vivendo con l’angoscia di non essere in
grado di dare alle persone che amano la stessa cura che danno agli sco
nosciuti di tutto il mondo, sappiamo che è sta accadendo qualcosa di
drammatico nell’organizzazione della riproduzione in tutto il mondo.
Dobbiamo però rifiutare la conclusione che l’indifferenza che la
classe capitalista mostra per la perdita di vite umane che la globaliz
zazione produce sia la prova che il capitale non ha più bisogno del
lavoro vivo. In realtà, la distruzione della vita umana su larga scala è
stata sempre una componente strutturale del capitalismo sin dai suoi
esordi, la controparte necessaria dell’accumulazione di forza lavoro,
che è un processo inevitabilmente violento. Le ricorrenti “crisi della
riproduzione” a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni in Africa
sono radicate in questa dialettica tra accumulazione e distruzione del
lavoro. Anche l’espansione del lavoro non contrattuale, e altri feno
meni che possono sembrare abominazioni in un “mondo moderno”
- l’incarcerazione di massa, il traffico di sangue, organi e altre parti
umane - vanno letti in questo contesto.
Il capitalismo genera una crisi permanente della riproduzione. Se
ciò non appare evidente a chi vive in molte zone del Nord del mondo,
è perché la catastrofe umana che ciò comporta è stata quasi sempre
esternalizzata, confinata nelle colonie e giustificata come un effetto di
arretratezza culturale o attaccamento a tradizioni inadeguate e “triba
lismo”. Inoltre, per gran parte degli anni Ottanta e Novanta, le con
seguenze della ristrutturazione globale dell’economia, con l’eccezione
delle comunità di colore, sono state appena avvertite nel Nord e, in
alcuni casi (si pensi alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavo
ro), sono persino apparse come una liberazione dalla regimentazione
del lavoro o come anticipazioni di una società senza lavoro.
Ma, visti dal punto di vista della totalità della relazione capitale-
lavoro, questi sviluppi dimostrano il continuo potere del capitale di
disperdere i lavoratori e minare gli sforzi per organizzarsi sul posto di
lavoro. Combinate insieme, queste due tendenze hanno comportato
l’abrogazione di contratti sociali, la deregolamentazione dei rapporti
di lavoro e la reintroduzione di forme contrattuali che distruggono le
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 99
conquiste di un secolo di lotte operaie e minacciano la produzione di
nuovi “commons”.
Anche nel Nord redditi e occupazione sono crollati, l’accesso alla
terra e agli spazi urbani è stato ridotto, mentre si diffondevano impo
verimento e fame. Secondo un recente rapporto, negli Stati uniti 37
milioni di persone soffrono la fame mentre, da stime effettuate nel
2011, il 50 per cento della popolazione è considerato “a basso reddi
to”. Va poi aggiunto che l’introduzione di tecnologie che permetto
no di risparmiare lavoro, lungi dal ridurre la lunghezza della giornata
lavorativa l’hanno largamente estesa, al punto che (in Giappone) è
comparso il fenomeno della “morte per lavoro”, mentre “tempo li
bero” e pensione sono diventati un lusso. Per molti lavoratori, negli
Stati uniti, avere più lavori è ormai una necessità, mentre molte per
sone tra i sessanta e i settanta anni, private delle loro pensioni, stanno
ritornando al mercato del lavoro. Ancor più significativo è che stiamo
assistendo alla crescita dei senzatetto e di una forza lavoro itinerante,
costretta al nomadismo, sempre in movimento su camion, rimorchi,
autobus, in cerca di lavoro ovunque appaia un’opportunità, un desti
no che una volta negli Stati uniti era riservato ai lavoratori agricoli sta
gionali che, come uccelli migratori, andavano a caccia di coltivazioni
per tutto il paese.
Insieme a impoverimento, disoccupazione, extralavoro, crescita
dei senzatetto e debito, è cresciuta anche la criminalizzazione della
classe operaia, attraverso una carcerazione di massa che ricorda il
Grande internamento del xvn secolo, e la formazione di un proleta
riato ex-lege fatto di lavoratori immigrati privi di documenti, studenti
che non possono ripagare i prestiti universitari, produttori o venditori
di beni illeciti, lavoratrici e lavoratori del sesso. E una moltitudine di
proletari che esiste e lavora nell’ombra, e che ci ricorda che la produ
zione di popolazioni senza diritti - schiavi, servi a contratto, peones,
detenuti, sans papiers - rimane una necessità strutturale dell’accumu
lazione capitalista.
L’attacco ai giovani, soprattutto della classe operaia nera, potenzia
le erede della politica del Black Power, è stato particolarmente duro.
Nulla è stato loro concesso, né la possibilità di un lavoro sicuro, né
l’accesso all’istruzione. Ma il futuro è in questione anche per molti
giovani della classe media. Studiare ha un costo così alto che occorre
indebitarsi con il rischio, molto alto, di non poter ripagare il prestito.
La competizione per il lavoro è dura e le relazioni sociali sempre più
sterili, poiché l’instabilità rende estremamente difficile la costruzio-
100 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ca, le donne spendono ora più tempo per prendere l’acqua, procurarsi
e preparare il cibo e per curare le malattie, che sono molto più fre
quenti da quando la privatizzazione della sanità ha reso inaccessibili
a molti la cura nelle cliniche, mentre la malnutrizione e la distruzione
dell’ambiente hanno aumento la vulnerabilità alle malattie.
Negli Stati uniti poi, a causa dei tagli nella spesa pubblica, gran
parte del lavoro che in passato aveva luogo negli ospedali e in altri
enti pubblici è stato trasferito nelle case. Oggi, infatti, dopo un inter
vento chirurgico i degenti vengono dimessi quasi immediatamente, e
più in generale si cerca di ridurre al minimo la degenza in ospedale,
' cosi che le famiglie - soprattutto madri e mogli - debbono svolgere
una varietà di attività postoperatorie e praticare terapie (ad esempio,
per i malati cronici), che in passato sarebbe stato svolte da medici e
infermieri26. Anche l’assistenza pubblica agli anziani (per la pulizia e
la cura personale) è stata tagliata, sono state diminuite le visite domi
ciliari e ridotti i servizi erogati.
Il secondo fattore che ha riportato il lavoro riproduttivo in casa è
stata l’espansione dei “lavoro a domicilio”, dovuto in parte al decen
tramento della produzione industriale e in parte alla diffusione del
lavoro informale. Come scrive David Staples in No Place Like Home,
il lavoro a domicilio, lungi dall’essere una forma anacronistica, ha
mostrato di essere una strategia capitalista a lungo termine, che oggi
occupa milioni di donne e bambini in città, villaggi e periferie di tut
to il mondo. Staples sottolinea giustamente che il lavoro domestico
non retribuito attrae inesorabilmente altre forme di lavoro, perché il
lavoro a domicilio ha il vantaggio di essere invisibile, di evadere i ten
tativi di sindacalizzazione e ridurre i salari al minimo. Molte donne
scelgono il lavoro a domicilio nel tentativo di conciliare l’accesso a un
reddito con la cura della famiglia, ma il risultato è l’asservimento a un
lavoro che garantisce salari “molto al di sotto della media di quello
che sarebbe pagato in un contesto formale e riproduce una divisione
sessuale del lavoro che lega in modo più profondo le donne al lavoro
domestico”27.
Infine, la crescita dell’occupazione femminile e la ristrutturazione
della riproduzione non ha eliminato le gerarchie di genere nel lavoro.
Nonostante la crescente disoccupazione maschile, le donne guadagna-
26 Nona Glazer, Women’s Paid and Unpaid Labor: Work Transfer in Health Care and Retati,
Tempie University Press, Philadelphia 1993.
27 David E. Staples, No Place Like Home: Organizing Home-Based Labor in thè Era ofStruc-
tural Adjustment, Roudedge, New York 2006.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 105
2 “Uscire” qui è nel senso dell’inglese “come out", espressione che il movimento gay ha
adottato per indicare la decisione di non continuare a nascondere la propria omosessualità
[N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 111
“unirsi alla lotta di classe” e fare un “lavoro produttivo socialmente
utile”. In entrambi i casi, quella che per le donne era una necessità
economica è diventata una strategia, per cui il lavoro stesso diventava
un mezzo di liberazione. Una misura dell’importanza strategica che
si è attribuita all’“ingresso delle donne nel posto di lavoro” è stata
la grande opposizione alla campagna “Salario al lavoro domestico”,
accusata di essere economicista e di voler istituzionalizzare il ruolo
delle donne nella casa. Tuttavia, la richiesta di salario per il lavoro
domestico è stata fondamentale da molti punti di vista. In primo luo
go ha riconosciuto che il lavoro domestico è un lavoro - il lavoro di
produzione e riproduzione della forza lavoro - e in questo modo ha
rivelato l’enorme quantità di lavoro non retribuito che, incontrasta
to e invisibile, esiste in questa società. Ha riconosciuto anche che il
lavoro domestico è un problema che le donne hanno in comune, e
rappresenta quindi il terreno di lotta su cui le donne potenzialmente
sono più forti. Infine, pensavamo che proporre il lavoro extra-dome
stico come la condizione principale per diventare indipendenti dagli
uomini avrebbe alienato le donne che lo rifiutano, perché lavorano
già abbastanza curando le proprie famiglie. Le donne “vanno a la
vorare” perché hanno bisogno di soldi, non perchq lo considerano
un’esperienza liberante, tanto più che avere un lavorò salariato non ti
libera dal lavoro domestico. Eravamo poi convinte che il movimento
delle donne non dovesse creare modelli a cui avremmo dovuto con
formarci, ma piuttosto elaborare strategie per incrementare le nostre
possibilità. Perché se si pensa che trovare un lavoro sia necessario per
la nostra liberazione, la donna che rifiuta di scambiare il suo lavoro in
cucina con quello in fabbrica è inevitabilmente bollata come arretrata
e i suoi problemi, oltre a essere ignorati, si trasformano in una colpa.
È probabile che molte donne, che in seguito sono state mobilitate
dalla New Moral Majority3, avrebbero potuto unirsi al nostro movi
mento se questo avesse colto le loro esigenze. Spesso, quando appa
riva un articolo sulla nostra campagna, o quando eravamo invitate a
parlare in un programma radiofonico, ricevevamo decine di lettere di
donne che ci raccontavano la loro vita o semplicemente scrivevano:
“Cara signora, mi dica cosa devo fare per ottenere un salario per il
lavoro domestico”. Le loro storie erano sempre le stesse. Lunghe ore
3 La New Moral Majority era un movimento di destra, che all’inizio degli anni Ottanta,
dopo l’elezione di Reagan, condusse una campagna moralizzatrice contro l’aborto, contro
il movimento gay e, più in generale, per cancellare gli effetti del movimento femminista e
dei movimenti degli anni Sessanta [N.d.T.].
112 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
di lavoro, senza tempo per se stesse e senza soldi propri. E poi c’era
no le donne più anziane, che pativano la fame con il Supplementary
Security Income4 e ci chiedevano se potevano tenere un gatto, perché
temevano che se l’assistente sociale lo avesse scoperto le avrebbero
tagliato il sussidio. Che cosa ha offerto a queste donne il movimento
femminista? Uscite di casa e trovatevi un lavoro, così potrete unirvi
alle lotte della classe operaia? Ma il loro problema era che lavora
vano già troppo e otto ore a un registratore di cassa o a una catena
di montaggio non è certo una proposta allettante quando ci si deve
destreggiare anche con marito e figli a casa. Come abbiamo spesso
• ripetuto, quello di cui abbiamo bisogno è più tempo e più soldi, non
più lavoro. Abbiamo bisogno di asili nido, non solo per liberarci del
lavoro ma per fare una passeggiata, parlare con i nostri amici o andare
a una riunione di donne.
Chiedere il salario per il lavoro domestico ha significato aprire di
rettamente una lotta sulla questione della riproduzione e decretare
che l’educazione dei figli e la cura delle persone è una responsabilità
sociale. In una società futura libera dallo sfruttamento decideremo
come questa responsabilità sociale possa essere assolta nel modo mi
gliore e condivisa. In questa società, in cui il denaro governa tutte le
nostre relazioni, definire il lavoro di riproduzione una responsabilità
sociale vuol dire chiedere a coloro che ne beneficiano (le imprese e lo
stato nella veste del “capitalista collettivo”) di pagarne il costo. Altri
menti sosteniamo il mito - così costoso per noi donne - che crescere e
educare i figli e servire chi lavora è una questione individuale, privata,
e che la colpa del modo soffocante in cui viviamo, ci amiamo e ci
incontriamo è solo della “cultura maschile”. Purtroppo il movimento
delle donne ha ampiamente ignorato la questione della riproduzione
e offerto soluzioni individuali - come la condivisione del lavoro do
mestico - che non forniscono un’alternativa reale alle battaglie isolate
che molte di noi stanno già conducendo. Anche durante la lotta per
l’aborto, la maggior parte delle femministe ha combattuto solo per il
diritto a non avere figli, benché questo sia solo un aspetto del con
trollo sui nostri corpi e della scelta riproduttiva. E se volessimo avere
bambini, ma non potessimo permetterci di crescerli se non a costo di
non avere più tempo per noi stesse e di essere continuamente afflitte
da preoccupazioni economiche? Finché il lavoro domestico non sarà
retribuito, non ci saranno neanche incentivi per creare i servizi sociali
4 II Supplementary Security Income è un sussidio per chi è inabile al lavoro [N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 113
necessari a ridurre il nostro lavoro. E questo è mostrato anche dal
fatto che, nonostante un forte movimento delle donne, gli asili sov
venzionati sono stati costantemente ridotti nel corso degli anni Set
tanta. Vorrei aggiungere che il salario per il lavoro domestico non è
semplicemente uno stipendio. Significava anche più servizi sociali e
servizi sociali gratuiti.
E stata un’utopia? Molte donne sembravano pensarla così. Io so,
però, che in diverse città italiane, al tempo del movimento studen
tesco, gli autobus erano gratuiti nelle ore in cui gli studenti andava
no a scuola. Ad Atene, fino alle nove del mattino, nel periodo in cui
la maggior parte delle persone va a lavorare, la metropolitana non si
paga. E questi non sono paesi ricchi. Perché, allora, negli Stati uniti,
dove si accumula più ricchezza che nel resto del mondo, non dovreb
be essere realistico pretendere che le donne con figli abbiano diritto
al trasporto gratuito, dal momento che tutti sanno che a tre dollari
a viaggio si resta inevitabilmente confinate in casa, a prescindere da
quanto sia alto il nostro livello di coscienza? Quella del salario per il
lavoro domestico è stata una strategia di riappropriazione, per allar
gare il famoso “paniere” a cui si presume i lavoratori in questo pae
se abbiano diritto. Avrebbe significato una maggiore redistribuzione
della ricchezza a favore delle donne e anche dei lavoratori di sesso
maschile, poiché una volta retribuito questo lavoro sarebbe stato rapi
damente desessualizzato. Ma c’è stato un tempo in cui denaro era una
parola sporca per molte femministe.
Una delle conseguenze dell’opposizione al salario al lavoro dome
stico è stata che il movimento femminista non si è mobilitato contro
l’attacco al welfare che è cominciato all’inizio degli anni Settanta, cosa
che ha compromesso la lotta su questo terreno. Perché, sostenere che
il lavoro domestico non deve essere pagato, convalidava l’idea che le
donne che ricevevano l’“Aid to Dependent Children” (a d c )5 non ave
vano diritto a questi soldi, ed era giusto che lo stato cercasse di “farle
lavorare” per gli assegni che percepivano. Nei confronti delle donne
in welfare, molte femministe avevano lo stesso atteggiamento che mol
ti hanno nei confronti “dei poveri”: compassione ma non identifica
zione, anche se in genere si ammetteva che “tra noi e il welfare c’è solo
un marito”.
5 adc è il sussidio per i figli a carico di donne sole, un tempo condizionato dalla non pre
senza di un uomo - marito o amante - in casa. Questo programma è di fatto terminato nel
1996 con l’amministrazione Clinton [N.d.T.].
114 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
6 Fondato nel 1971, il National Women’s Politicai Caucus è un gruppo formato da rappre
sentanti dei due partiti politici: Democratici e Repubblicani, il cui compito è promuovere
la partecipazione delle donne al processo politico [N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 119
Ci sembra, tuttavia, che la paralisi sofferta dal movimento delle
donne stia per finire. Un punto di svolta è stata l’organizzazione del
“Seneca Women’s Encampment”, che ha segnato l’inizio di un movi
mento femminista-lesbico contro la guerra. Con questo movimento si
completa il cerchio delle nostre esperienze. I primi gruppi femministi
erano formati da donne attive nelle organizzazioni contro la guerra,
ma avevano scoperto che i loro “fratelli rivoluzionari”, così sensibili
ai bisogni degli sfruttati del mondo, non si sarebbero mai interessati
ai loro problemi finché loro stesse non si fossero direttamente fatte
carico della loro lotta. Ora, quattordici anni dopo, le donne stanno
costruendo il loro movimento contro la guerra partendo direttamente
dai loro bisogni.
Oggi la rivolta delle donne contro ogni tipo di guerra è visibile in
tutto il mondo: da Greenham Common a Seneca Falls, dall’Argentina,
dove le madri dei desaparecidos sono state in prima linea nella resi
stenza alla repressione militare, all’Etiopia, dove questa estate le don
ne sono scese in piazza per salvare i propri figli arruolati dal governo.
Un movimento di donne contro la guerra è particolarmente importan
te negli Stati uniti, un paese che sembra intenzionato a far valere, con
il potere dei bombardieri, il suo dominio su tutto il pianeta.
Negli anni Sessanta, ci siamo ispirate alle lotte delle donne vietna
mite, che hanno mostrato come anche noi potevamo lottare e cambia
re il corso del mondo. Oggi dovremmo leggere come un avvertimento
la disperazione che vediamo sui volti delle donne, buttate ogni sera
sui nostri schermi, mentre affollano i campi profughi o vagano con i
loro figli tra i relitti delle loro case distrutte dalle bombe pagate con i
tagli ai nostri salari. Se non recuperiamo il nostro impulso a cambiare
questa società dal basso, potremmo presto subire la stessa agonia.
Andare a Pechino
Come le Nazioni Unite hanno colonizzato
il movimento femminista
2 Si veda sul tema (tra gli altri) Tony Evans, The Politics of Human Rights. A Global Per-
spective, Pluto Press, London 2001, soprattutto il primo capitolo: The Politics ofUniversal
Human Rights.
ANDARE A PECHINO 123
5 In Messico, alla fine degli anni Novanta, ciò ha generato una serie di rivolte che si sono
concluse con il movimento di E1 Barzon (il giogo), diffuso in tutto il paese tra il 2000-
2005.
ANDARE A PECHINO 127
Introduzione
Il “lavoro di cura”, specialmente quello prestato agli anziani, è da
alcuni anni al centro dell’attenzione pubblica nei paesi dell’Organiz
zazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (ocse), come
risposta agli sviluppi economici e sociali che hanno messo in crisi le
tradizionali forme di assistenza. Tra questi vi è innanzitutto la crescita
- in termini assoluti e relativi - della popolazione anziana e l’aumento
dell’aspettativa media di vita, a cui però non ha corrisposto un incre
mento dei servizi per gli anziani1. Ma va anche considerato l’aumento
nel numero di donne impiegate nel lavoro salariato, che ha ridotto il
loro contributo alla riproduzione della famiglia12. A questi fattori si
deve aggiungere il continuo processo di urbanizzazione e la gentri-
ficazione dei quartieri operai, che hanno distrutto le reti di sostegno
e le forme di aiuto reciproco di cui potevano disporre gli anziani che
vivono da soli, in quanto i vicini di casa gli portavano da mangiare,
gli rifacevano il letto, andavano a fare una chiacchierata. A seguito
di tutto ciò, per un gran numero di anziani, gli effetti positivi di una
vita più lunga sono stati annullati o appannati dalla prospettiva della
solitudine, dell’esclusione sociale e di una maggiore vulnerabilità ad
abusi fisici e psicologici. Tenendo questo presente, esaminerò come le
politiche sociali, soprattutto negli Stati uniti, affrontano oggi la que
stione dell’assistenza agli anziani, per capire poi quali iniziative si pos
sono prendere su questo terreno, e perché la questione della cura agli
anziani è assente nella letteratura della sinistra radicale.
1 Laurence J. Kotlikoff, Scott Burns, The Corning Generational Storm: What You Need to
Know About America’s Economie Future, MIT Press, Cambridge (MA) 2004.
2 Nancy Folbre, Nursebots to thè Resene? Immigration, Automation and Care, in “Globali-
zations” 3,3,2006, pp. 349-360.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 131
Il mio principale obiettivo, in questo contesto, è incentivare una
redistribuzione della ricchezza sociale a favore dell’assistenza agli an
ziani, e la costruzione di forme collettive di riproduzione che gli per
mettano, quando non più autosufficienti, di essere curati senza che i
costi di queste cure ricadano sulle vite di chi provvede loro. Perché ciò
avvenga, la lotta per l’assistenza agli anziani deve essere politicizzata e
messa sull’agenda dai movimenti per la giustizia sociale. È necessaria
anche una rivoluzione culturale che investa il concetto stesso di vec
chiaia, contro la sua rappresentazione degradata, che ne fa oggi un
onere fiscale a carico dello stato oppure una fase della vita “opziona
le”, che possiamo superare o prevenire, adottando la giusta tecnologia
medica e i rimedi per “migliorare la vita” escogitati dal mercato3. In
gioco nella politicizzazione della cura agli anziani c’è non solo il loro
destino e l’insostenibilità di movimenti radicali che non si occupino
di un problema così cruciale per la nostra vita, ma anche la solidarietà
inter-generazionale e di classe, che è stata per anni il bersaglio di una
campagna implacabile da parte di economisti e governi, che hanno
dipinto le conquiste dei lavoratori per la loro vecchiaia (le pensioni e
le altre forme di sicurezza sociale) come una bomba a orologeria sul
piano economico e una pesante ipoteca sul futuro dei giovani.
dovuto spendere per provvedere ai servizi per gli anziani. Ciò ha an
che permesso a molti anziani, che volevano mantenere la propria indi-
pendenza, di rimanere nelle proprie case senza andare in bancarotta.
Ma finché non cambiano le condizioni economiche e sociali di chi fa
lavoro di cura per gli anziani e le ragioni che ne motivano la “scelta”,
questa non può essere considerata una “soluzione”.
E l’impoverimento causato dalla “liberalizzazione economica” e
dall’"aggiustamento strutturale” nei loro paesi di origine che spinge
milioni di donne in Africa, Asia, nelle isole dei Caraibi e nell’Europa
dell’Est a migrare verso le regioni più ricche d’Europa, il Medio Orien-
' te e gli Stati uniti, per lavorare come bambinaie, domestiche e badanti.
Per fare questo devono lasciare le loro famiglie, compresi bambini e
genitori anziani, e reclutare parenti o assumere altre donne con an
cora minor potere per sostituire il lavoro che non possono più fare12.
Prendendo l’Italia come esempio, si calcola che tre badanti su quattro
hanno figli propri ma solo il 15 per cento ha con sé il proprio nucleo
familiare13. Ciò vuol dire che la maggior parte di loro vivono in un
continuo stato d’ansia, sapendo che alle proprie famiglie manca quella
cura che loro stesse danno ad altre persone in tutto il mondo. Arlie
Hochschild ha parlato, in questo senso, di un trasferimento di cura ed
emozioni su scala globale, e della formazione di “catene globali della
cura”14. Ma le catene spesso si rompono: le donne immigrate diventa
no delle estranee per i propri figli, gli accordi stipulati cadono in pezzi,
i parenti muoiono durante la loro assenza. Inoltre, sia perché il lavoro
riproduttivo è svalutato, sia perché sono migranti, spesso senza docu
menti e di colore, le donne che fanno lavoro di cura sono soggette una
grande quantità di ricatti e abusi: lunghe ore di lavoro, nessuna vacan
za pagata, niente pensione, e in più l’esposizione a comportamenti raz
zisti e aggressioni sessuali. Negli Stati uniti la retribuzione del lavoro di
cura domestico è così bassa che quasi la metà delle donne impegnate
nel settore deve ricorrere ai buoni pasto ed altre forme di assisten
za pubblica per sbarcare il lunario15. Per questo, come ha dichiarato
12 Jean L. Pyle, Transnational Migration and Gendered Care Work: Introduction, in “Globa-
lizations”, 3, 3, 2006, p. 289; Arlie Hochschild and Barbara Ehrenreich, Donne globali.
Tate, colf, badanti, Feltrinelli, Milano 2004.
13 Dario Di Vico, Le badanti, il nuovo welfare privato. Aiutano gli anziani e lo Stato risparmia,
in “Corriere della Sera”, 13 giugno 2004, p. 15.
14 Arlie Hochschild, Global Care Chains and Emotional Surplus Value, in Will Hutton and
Anthony Giddens (a cura di), On thè Edge: Living with Global Capitalism, The New
Press, New York 2000, p. 131. Si veda anche Hochschild e Ehrenreich, Donne globali, cit.
15 “New York Times”, 28 gennaio 2009.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 135
42 Le “comunità di cura” sono un progetto portato avanti, su entrambe le coste degli Stati
uniti, da alcuni collettivi anarchici ispirati dal do it yourself (la pratica del fare da se), come
presupposto per la costruzione di movimenti capaci di “auto-riprodursi”. Un modello è
il lavoro di solidarietà organizzato da Act Up, in risposta alla diffusione dell’Aids nella
comunità gay degli anni Ottanta, che, di contro a tutte le aspettative, ha contribuito in
modo importante alla crescita di quel movimento. Informazioni sul progetto delle “comu
nità di cura” si possono trovare su alcuni siti web (come il Collettivo Dicentra di Portland
in Oregon), e su una serie di zines sul tema. Si veda The Importarne of Supporti Building
Foundations, Sustaining Community, in “Rolling Thunder: An Anarchist Journal ofDan-
gerous Living”, 6, autunno 2008, pp. 29-39.
Femminismo e politica del comune al tempo
della cosiddetta accumulazione originaria
Quali Commons?
Una seconda questione è che, mentre le istituzioni internazionali
hanno imparato a far funzionare i commons secondo le regole di mer
cato, non è ancora chiaro come i commons possano diventare il fonda
mento di un’economia non capitalista. Dal lavoro di Peter Linebaugh
e soprattutto da The Magna Carta Manifesto9 abbiamo appreso che i
commons sono il filo conduttore che percorre la storia della lotta di
classe fino ai nostri giorni e, in effetti, la lotta per i commons è oggi
dappertutto intorno a noi. Le popolazioni del Maine stanno lottando
per proteggere l’accesso alle proprie riserve di pesca dall’attacco delle
multinazionali; gli abitanti degli Appalachi si stanno organizzando per
salvare le loro montagne minacciate dall’estrazione del carbone; i mo
vimenti per Yopen source e il free software si oppongono alla mercifica
zione del sapere e stanno aprendo nuovi spazi per la comunicazione e
la cooperazione. Ci sono inoltre le attività cooperative create da molte
comunità in Nord America descritte da Chris Carlsson in Nowtopia910.
Come Carlsson dimostra, molta creatività viene investita oggi nella cre
azione di “commons virtuali” e forme di socializzazione che prospera
no sfuggendo al controllo dell’economia monetaria e di mercato.
Molto importante è stato lo sviluppo degli orti urbani, che si sono
diffusi, negli anni Ottanta e Novanta in tutto il paese, grazie soprat
tutto all’iniziativa di comunità di migranti dall’Africa, dai Caraibi e
dal Sud degli Stati uniti. La loro importanza non è sovrastimata. Gli
orti urbani hanno aperto la strada a quel processo di “riurbanizza
zione” che è indispensabile se vogliamo recuperare il controllo sulla
produzione alimentare, rigenerare l’ambiente e provvedere al nostro
sostentamento. Ma gli orti sono molto di più che una fonte di sicurez-
9 Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto. Liberties and Commons for All, University
of California Press, Berkley 2008.
10 Chris Carlsson, Nowtopia, AK Press, Oakland (CA) 2008.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 151
za alimentare. Sono centri di produzione di socialità e saperi, di scam
bi culturali e intergenerazionali. Come ha scritto Margarita Fernandez
a proposito di New York, i giardini urbani “rafforzano la coesione
della comunità” in quanto luoghi in cui la gente si ritrova non solo per
lavorare la terra ma anche per giocare a carte, celebrare matrimoni o
compleanni. Alcuni orti stabiliscono relazioni con le scuole del quar
tiere, istruendo i bambini sull’ambiente. Non da ultimo, gli orti sono
“un mezzo per promuovere incontri tra diverse tradizioni culturali”,
nel senso che ortaggi e pratiche agricole africane si mescolano, per
esempio, con quelle provenienti dai Caraibi11.
In ogni caso, l’aspetto più significativo degli orti urbani rimane il
fatto che producono per il consumo del quartiere e non per la vendita
commerciale. Ciò li differenzia da altri tipi di commons “riproduttivi”
che producono per il mercato (come le riserve di pesca lungo la “Co
sta delle aragoste” nel Maine1112) o sono acquistati sul mercato (come i
“community land trust”13 che salvaguardano gli spazi aperti). Il proble
ma, tuttavia, è che gli orti urbani sono rimasti un fenomeno popolare
spontaneo e ci sono stati pochi tentativi, da parte dei movimenti politi
ci negli Stati uniti, per moltiplicare la loro presenza e fare dell’accesso
alla terra un importante terreno di lotta. Più in generale, la sinistra non
si è posta il problema di come unificare i numerosi commons che si
stanno sviluppando, e come questi possano essere complessivamente
pensati quali fondamenta di un nuovo modo di produzione.
Un’eccezione è la teoria proposta da Antonio Negri e Michael
Hardt in Impero (2002), Moltitudine (2004) e Comune (2010), se
condo cui una società costruita sul principio del “comune” si sta già
sviluppando a partire dal processo di informatizzazione della produ-
11 Sul tema, Margarita Fernandez, Cultivating Community, Food and Empowerment, mano
scritto inedito, 2003, pp. 23-6. Un importante lavoro sugli orti metropolitani è quello di
Bill Weinberg and Peter Lamborn Wilson (a cura di), Avant Gardening: Ecological Strug
gle in the City & the World, Autonomedia, Brooklyn (NY) 1999.
12 Tuttavia, i commons dei pescatori del Maine sono al momento minacciati da una nuova
politica di privatizzazione, applicata in nome della conservazione ambientale, ironicamen
te denominata “pesca condivisa”. Si tratta di un sistema, già diffuso in Canada ed Alaska,
per cui i governi locali fissano dei limiti sulla quantità di pesce da pescare, assegnando
quote individuali in base alla quantità di pesce pescato in passato da ogni peschereccio.
Questo sistema si è rivelato disastroso per i piccoli pescherecci che si trovano presto co
stretti a vendere la propria parte di pescato al miglior offerente. Le proteste contro questo
sistema stanno aumentando nelle comunità di pescatori del Maine. Si veda Cash Shares or
Share-Croppers?, in “Fishermen’s Voice”, 14, 12, dicembre 2009.
13 Società no-profit che costruiscono alloggi, orti comunitari, edifici civili, spazi commerciali
e altre attività comunitarie a prezzi accessibili.
152 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
zione. Secondo questa teoria, nella misura in cui la produzione di
venta prevalentemente produzione di sapere organizzato attraverso
Internet, si costituisce una spazio comune che sfugge al problema di
definire regole di inclusione e di esclusione, perché l’uso e l’accesso
moltiplicano le risorse disponibili invece di ridurle. Ciò significhereb
be la possibilità di una società basata sull’abbondanza, in cui l’unico
problema che le “moltitudini” dovrebbero affrontare sarebbe impedi
re la “cattura” della ricchezza prodotta da parte del capitale.
Il vantaggio di questa teoria è che non separa la creazione del “co
mune” dall’organizzazione del lavoro e della produzione, ma la vede
immanente ad essa. Il suo limite è che non si interroga sulle basi ma
teriali delle tecnologie digitali usate da Internet e trascura il fatto che
i computer dipendono da attività economiche - estrazione mineraria,
produzione di microchip, estrazione di minerali rari - che, per come
sono attualmente organizzate, sono estremamente distruttive sul pia
no sociale ed ecologico-ambientale14. Inoltre, privilegiando la scienza,
la produzione del sapere e dell’informazione, questa teoria non af
fronta la questione della riproduzione della vita quotidiana. Questo
vale, comunque, per tutto il discorso sui commom, che si è preoc
cupato soprattutto delle condizioni formali della loro esistenza, ma
ha fatto meno attenzione alle possibilità che l’esistenza dei commom
crea e alla loro potenziale funzione nella costruzione di forme di ri-
produzione che ci permettano di resistere alla dipendenza dal lavoro
salariato e alla subordinazione ai rapporti capitalistici.
Le donne e i commons
È in questo contesto che una prospettiva femminista sui commom
diventa cruciale. Tale prospettiva nasce dalla consapevolezza che, in
quanto soggetti primari del lavoro riproduttivo, le donne, storicamen
te e nel presente, dipendono più degli uomini dall’accesso alle risorse
comuni, e per questo sono maggiormente impegnate nella loro difesa.
Come ho scritto in Caliban and thè Witch15, nella prima fase dello svi-
14 Si calcola, per esempio, che solo per produrre un computer siano necessari 33 mila litri
d’acqua e tra le quindici e le diciannove tonnellate di materiali (cfr. Sarai Sarkar, Eco-
Socialism or Eco-Capìtalism? A Critical Analysis of Humanity’s Fundamental Choices, Zed
Books, London 1999, p. 126).
15 Silvia Federici, Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation,
Autonomedia, Brooklyn (NY) 2004.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 153
luppo capitalistico, le donne sono state in prima linea nella lotta contro
le recinzioni delle terre sia in Inghilterra che nel “Nuovo Mondo” e le
più accanite nella difesa delle culture comunitarie che la colonizzazio
ne europea tentava di distruggere. In Perù, quando i conquistadores
spagnoli hanno preso il controllo dei villaggi, le donne sono fuggite
sulle montagne dove hanno ricreato forme di vita collettiva che sono
sopravvissute fino ai nostri giorni. Non sorprende allora che nel XVI
e XVII secolo sia stato lanciato contro le donne il più violento attacco
nella storia mondiale: la persecuzione delle “streghe”. Anche oggi, di
fronte a un nuovo processo di “accumulazione originaria”, le donne
sono la principale forza sociale che contrasta la completa commercia
lizzazione della natura. In tutto il mondo le donne sono i soggetti prin
cipali dell’agricoltura di sussistenza. In Africa le donne producono l’80
per cento del cibo consumato dalla popolazione, nonostante i tentativi
della Banca mondiale e di altre organizzazioni di convincerle a produr
re per il mercato. Il rifiuto di un modello di sviluppo che le avrebbe la
sciate senza terra è stato così forte che nelle città, molte donne, si sono
impossessate di pezzi di terra pubblica per piantare mais e manioca. In
questo modo hanno modificato il paesaggio urbano delle città africane,
ponendo fine alla separazione tra città e campagna16. Anche in India le
donne hanno rivitalizzato le foreste in degrado, hanno difeso gli alberi,
facendogli scudo col proprio corpo, cacciando chi voleva tagliarli, e
hanno costruito barricate contro le operazioni minerarie e la costru
zione di dighe17.
L’altra faccia della lotta delle donne per l’accesso diretto ai mezzi
di riproduzione è stata la creazione in tutto il Terzo Mondo - dalla
Cambogia al Senegai - di associazioni di credito che funzionano come
banche di denaro comune18. Descritte con nomi diversi, le tontines
(così vengono chiamate in alcune parti dell’Africa) sono sistemi di
credito autonomi e auto-organizzati, creati dalle donne, che garanti
scono liquidità a individui o gruppi che non hanno accesso al sistema
creditizio bancario e funzionano sulla base della fiducia. Sotto que
sto aspetto, sono completamente diverse dai sistemi di micro-credito
16 Silvia Federici, Women, Land Struggles, and thè Reconstruction ofthe Commons, in “Wor
king USA: The Journal of Labor and Society”,14, 1, marzo 2011, p. 52.
17 Vandana Shiva, Staying Aline: Women, Ecology and Development, Zed Books, London
1989, pp. 102-17; Ecology and thè Politics ofSurvival: Conflicts Over Naturai Resources in
India, Sage Publications, New Delhi-London 1991, p. 274.
18 Leo Podlashuc, Saving Women: Saving Commons, in Ariel Salleh (a cura di), Eco-Sufficien-
cy and Global Justice: Women Write Politicai Ecology, Macmillan Paigrave, New York-
London 2009.
154 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
promossi dalla Banca mondiale che funzionano sul principio della
vergogna, arrivando all’estremo (per esempio in Niger) di esporre in ,
pubblico le fotografie delle donne che non hanno ripagato il credito,
cosa che ha portato alcune al suicidio19.
Le donne hanno anche guidato i tentativi di collettivizzare il la
voro riproduttivo, sia per ridurre il costo della riproduzione, sia per
proteggersi dalla povertà e dalla violenza dello stato e degli uomini.
Un caso esemplare è quello delle ola communes (cucine comuni) che
sono state organizzato in Cile e in Perù negli anni Ottanta quando, a
causa di una spaventosa inflazione, le donne non potevano più per
mettersi di far la spesa individualmente20. Si tratta di pratiche che,
come la riforestazione collettiva e la riappropriazioni di terre, rivelano
un mondo in cui i legami collettivi sono ancora forti. Sarebbe tuttavia
un errore considerare queste pratiche come prepolitiche, “naturali”, o
prodotte dalla “tradizione”. Come ha scritto Leo Podlashuc in Saving
Women: Saving thè Commons, queste lotte costruiscono un’identità
collettiva, rappresento un contropotere nella casa e nella comunità,
e aprono un processo di autovalorizzazione e autodeterminazione dal
quale abbiamo molto da imparare21.
La prima lezione che apprendiamo da queste lotte è che il “com-
moning dei mezzi materiali di riproduzione costituisce il principale
meccanismo attraverso cui si creano un interesse collettivo e legami
mutuali. E la prima linea di resistenza ad una vita di schiavitù sotto le
armi, nei bordelli o negli sweatshop. A noi, in Nord America, insegna
anche che mettendo in comune le nostre risorse e rivendicando l’ac
cesso comune alla terra e alle acque, possiamo cominciare a separare
la nostra riproduzione dai flussi di merci che, attraverso il mercato
mondiale, espropriano milioni di persone in tutto il mondo. Possiamo
separare il nostro sostentamento non solo dal mercato mondiale, ma
anche dalla macchina della guerra e dal sistema carcerario dai quali
dipende l’egemonia del mercato. E possiamo infine superare quella
solidarietà astratta che così spesso ha caratterizzato i rapporti all’inter
no del movimento e che limita il nostro impegno, la nostra resistenza
e i rischi che siamo disposti ad affrontare.
19 Devo quest’informazione a Ousseina Alidou, direttrice del Centro per gli Studi Africani
all’università Rutgers in New Jersey.
20 Jo Fisher, Out of thè Shadows: Women, Resístame and Politics in South America. Latin
America Bureau, London 1993; Carol Andreas, Why Women Rebel: The Rise of Popular
Feminism in Perù, Lawrence Hill Company, Westport (CT) 1985.
21 Leo Podlashuc, Saving Women: Saving Commons, cit.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 155
Si tratta senza dubbio di un progetto formidabile, che può esse
re realizzata solo attraverso un lungo processo di presa di coscienza,
scambio interculturale e la costruzione di coalizioni tra tutte le comu
nità che, negli Stati uniti, sono interessate alla rivendicazione della
terra: a partire dalle comunità dei nativi americani. Benché oggi ciò
possa sembrare un obbiettivo irraggiungibile, non si può fare alcu
na concessione al pessimismo, perché questa è la sola possibilità che
abbiamo per allargare gli spazi della nostra autonomia, per cessare di
alimentare il processo di accumulazione del capitale, e per rifiutare
che la nostra riproduzione avvenga a spese degli altri commons e com-
moners del mondo.
Ricostruzioni femministe
Ciò che questo implica è colto efficacemente da Maria Mies, quan
do afferma che la produzione dei commons richiede anzitutto una
profonda trasformazione nella nostra vita quotidiana, per rimettere
insieme ciò che la divisione sociale del lavoro ha separato. Infatti, la
separazione della produzione dal consumo ci induce a ignorare le
condizioni in cui è stato prodotto ciò che mangiamo, indossiamo o
usiamo per lavorare, il suo costo sociale ed ecologico, e il destino delle
popolazioni sulle quali scarichiamo i nostri rifiuti22.
In altre parole, dobbiamo superare lo stato di diniego e irresponsa
bilità in cui oggi viviamo riguardo alle conseguenze delle nostre azio
ni, dovuto al modo distruttivo in cui è organizzata la divisione del
lavoro nel capitalismo, altrimenti la produzione della nostra vita di
venta inevitabilmente produzione di morte per altri. Come nota Mies,
la globalizzazione ha peggiorato questa crisi, aumentando la distanza
tra quello che viene prodotto e quello che viene consumato, e quindi
aumentando, nonostante l’apparente crescita dell’interconnessione
globale, la nostra cecità rispetto al sangue versato per il cibo che man
giamo, il petrolio che usiamo, i vestiti che indossiamo e i computer
con i quali comunichiamo23.
La prospettiva femminista ci insegna a superare questa inconsape
volezza per dare inizio alla ricostruzione dei nostri commons. Nessun
22 Veronika Bennholdt-Thomsen and Maria Mies, The Subsistence Perspective: Beyond thè
Globalised. Economy. Zed Books, London 1999, p. 141.
23 Ibidem.
156 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
comune è possibile infatti finché non rifiutiamo di vederci separati da
gli altri. Se la nozione di “commoning ha un significato, deve essere
quello della produzione di noi stessi come soggetti comuni. Questo è
il modo in cui dobbiamo intendere lo slogan “non c’è commom senza
comunità”. La comunità deve però essere intesa non nel senso di una
realtà segregata, un raggruppamento cioè di persone unite da interessi
esclusivi e separate dagli altri, come nelle comunità fondate su base
religiosa o etnica. “Comunità” deve essere intesa come una qualità dei
nostri rapporti, come principio di cooperazione e di responsabilità:
tra di noi, e rispetto alla terra, le foreste, i mari, gli animali.
Certo, lo sviluppo di simili comunità, così come la collettivizza
zione del nostro lavoro quotidiano di riproduzione, può essere solo
un inizio. Non può sostituire campagne più ampie contro la privatiz
zazione e per la riappropriazione della nostra ricchezza comune. Ma
è un passo essenziale per apprendere a governarci collettivamente e
per concepire la storia come progetto collettivo, una capacità che il
neoliberalismo ha cercato in tutti i modi di distruggere.
Tenendo conto di ciò, dobbiamo includere nella nostra agenda
politica la comunalizzazione/collettivizzazione del lavoro domestico,
rivitalizzando quella ricca tradizione femminista che negli Stati uniti
va dagli esperimenti del socialismo utopico della metà del XIX secolo
fino ai tentativi delle “femministe matèrialiste” tra la fine del xix e gli
inizi del XX secolo. Mi riferisco ai molti tentativi intrapresi in questo
periodo per riorganizzare e socializzare il lavoro domestico, e con ciò
la casa e il quartiere, attraverso la collettivizzazione del lavoro dome
stico - tentativi che continuarono finché negli anni Venti del Nove
cento la “Paura rossa” non vi pose fine24. Queste pratiche e la capacità
delle femministe del passato di guardare al lavoro riproduttivo come
la sfera chiave dell’attività umana, non vanno negate ma rivoluzionate
e rivalorizzate.
Una ragione cruciale per la creazione di forme di vita collettiva è
che la riproduzione degli esseri umani è uno dei lavori più laboriosi e
intensivi al mondo, ed è un lavoro che, per la maggior parte, non può
essere meccanizzato. Non possiamo meccanizzare la cura dei bambi
ni, la cura dei malati o il lavoro psicologico necessario a reintegrare il
nostro equilibrio psico-fisico. Nonostante gli sforzi compiuti da indu
striali futuristi, è impossibile robotizzare la “cura”, se non ad un costo
24 Dolores Hayden, The Grand Domestic Revolution and Redesigning the American Dream:
The future of Housing Work and Family Life, Norton and Company, New York 1986.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 157
terribile per tutte le persone coinvolte. Nessuno si affiderebbe ad un
infermiere-robot, specialmente per la cura dei bambini e dei malati. Il
lavoro di cura richiede la garanzia di una responsabilità condivisa e di
attività cooperative da svolgere in modo che non si ripercuotano sulla
salute di chi le fornisce. Per secoli la riproduzione degli esseri umani
è stata parte di un processo collettivo. Era il lavoro delle famiglie este
se e di comunità su cui, soprattutto nei quartieri proletari, si poteva
contare anche quando si viveva da soli, cosicché la vecchiaia non era
caratterizzata dalla solitudine desolata e dalla dipendenza nella quale
molti anziani vivono oggi. E solo con l’avvento del capitalismo che
la riproduzione è stata completamente privatizzata, all’interno di un
processo che oggi ha raggiunto un livello distruttivo. Ed è questo che
dobbiamo cambiare se vogliamo porre fine alla costante svalutazione
e frammentazione della nostra vita.
Il momento attuale è propizio per tale inizio. Di fronte a una crisi
capitalista che distrugge i mezzi più fondamentali per la riproduzione
di milioni di persone in tutto il mondo, Stati uniti compresi, la rico
struzione della nostra vita quotidiana è non solo possibile ma neces
saria. Le crisi economico-sociali, come gli scioperi, interrompono la
disciplina del lavoro salariato, costringendoci a nuove forme di socia
lità. Così è avvenuto durante la Grande depressione, che ha prodotto
un movimento di hobo-men, i quali hanno trasformato i treni merci in
commons, cercando la libertà nella mobilità e nel nomadismo25. Nei
punti di incrocio delle linee ferroviarie essi organizzarono le hobo jun-
gles che, con le loro norme di autogoverno e solidarietà, prefigurava
no quel mondo comunista in cui molti dei residenti credevano26. Tut
tavia, a parte rare donne come Boxcar Bertha27, si trattò di un mondo
prevalentemente maschile, di una fraternità di uomini, che alla lunga
non potè sostenersi. Non appena la crisi economica e la guerra finiro
no, gli hobo furono riaddomesticati grazie ai due grandi meccanismi
propulsori della stabilità della forza lavoro: la famiglia e la casa. Con-
25 George Caffentzis, Three Temporal Dimensioni of Class Struggle, paper presentato alla
conferenza annuale dell’International Studies Association, tenutasi a San Diego (CA) nel
marzo 2006.
26 Nels Anderson, Men on thè Move, Chicago University Press, Chicago 1998; Todd Depa
stino, Citizen Hobo, The University of Chicago Press, Chicago 2003.
27 Box-Car Bertha. Autobiografia di una vagabonda americana (Giunta, Firenze 1986) è la tra
duzione italiana di Sister of thè Road. The Autobiography of Boxcar Bertha di Ben Reitman
(1937), autobiografia romanzata della “vagabonda” radicale Bertha Thompson. Martin
Scorsese ha prodotto nel 1972 l’adattamento cinematografico del romanzo, nelle sale ita
liane con il titolo America 1929: sterminateli senza pietà.
158 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
28 Dolores Hayden, Redesigning thè American Dream: The future of Housing, Work, and
Family Life, Norton and Company, New York 1986.
29 Dolores Hayden, The Grand Domestic Revolution, cit.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 159
rate l’una dall’altra, durante l’inverno dissipano il calore nell’atmosfera
e in estate ci espongono al calore. Soprattutto, non possiamo costruire
una società alternativa e un movimento forte, capace di autoriprodur-
si, se non ridefiniamo la nostra riproduzione in modo più cooperativo
e non mettiamo fine alla separazione fra il personale e il politico, fra
l’attivismo politico e la riproduzione della vita di ogni giorno.
Rimane a questo punto da chiarire che assegnare alle donne il
compito di produrre comune, e collettivizzare la riproduzione, non
ha niente a che fare con una concezione naturalistica della “femmini
lità”. Comprensibilmente, molte femministe considerano questa pos
sibilità “un destino peggiore della morte”. E profondamente scolpito
nella nostra coscienza collettiva che le donne sono state designate ad
essere “il comune” degli uomini, una risorsa naturale di ricchezza e
servizi di cui gli uomini possono appropriarsi liberamente, così come
i capitalisti si sono appropriati liberamente delle ricchezze della na
tura. Tuttavia, parafrasando Dolores Hayden, la riorganizzazione del
lavoro riproduttivo, e quindi la riorganizzazione della casa e dello spa
zio pubblico, non sono una questione di identità, sono una questione
lavorativa e, possiamo aggiungere, una questione di potere e sicurez
za30. Vorrei ricordare a questo proposito l’esperienza delle donne del
Movimento Sem Terra in Brasile che, quando le loro comunità hanno
ottenuto il diritto di tenere la terra che avevano occupata, hanno insi
stito affinché le nuove case fossero costruite una accanto all’altra, così
da poter continuare a condividere il lavoro domestico, fare il bucato
insieme, cucinare insieme, dandosi il cambio con gli uomini come ave
vano fatto durante la lotta. E anche poter essere pronte a correre l’una
in supporto dell’altra per proteggersi dagli abusi dei loro compagni.
Affermare che le donne dovrebbero guidare il processo di collettiviz
zazione del lavoro riproduttivo non vuol dire naturalizzare il lavoro
domestico come vocazione femminile. E piuttosto il rifiuto di annulla
re le esperienze collettive, il sapere e le lotte che le donne hanno accu
mulato sul terreno del lavoro riproduttivo; una storia che rappresenta
una parte essenziale della nostra resistenza al capitalismo. Ricollegarsi
a questa storia costituisce oggi un passo cruciale per le donne e gli
uomini sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per
ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni.