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Silvia Federici

Il punto zero
della rivoluzione
Lavoro domestico, riproduzione
e lotta femminista

Traduzione e cura di Anna Curdo

ombre corte
Titolo originale: devolution at Point Zero. Housework, Reproduction, and Feminist
Struggle
©2012 Silvia Federici
©2012 PM Press
Traduzione dall’americano di Anna Curdo
Prima edizione italiana: aprile 2014
© ombre corte
Via Alessandro Poerio 9 - 37124 Verona
Tel./fax: 045 8301735; e-mail: info@ombrecorte.it
www.ombrecorte.it
Progetto grafico e impaginazione: ombre corte
Immagine di copertina: “Rosy the Riveter”
ISBN: 978-88-97522-72-0
Indice

7 Prefazione
10 Ringraziamenti
13 Introduzione all’edizione italiana
19 Introduzione all’edizione americana
31 1. Salario per il lavoro domestico
“Un lavoro d’amore”; La prospettiva rivoluzionaria; La lotta sui servizi so­
ciali; La lotta contro il lavoro domestico
41 2. Perché l’attività sessuale è lavoro
46 3. Contropiano dalle cucine
Ci offrono “sviluppo”; Un nuovo terreno di lotta; Il lavoro nascosto; La
mancanza di salario come disciplina; Glorificare la famiglia; Differenti mer­
cati del lavoro; Rivendicare salario; Far pagare il capitale
63 4. Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione negli Stati
uniti degli anni Settanta
La rivolta contro il lavoro domestico; Riorganizzare la riproduzione sociale;
Conclusioni
81 5. La riproduzione della forza lavoro nell’economia globale e Fin-
compiuta rivoluzione femminista
Marx e la riproduzione della forza lavoro; La rivolta delle donne contro il
lavoro domestico e la ridefinizione femminista di lavoro, lotta di classe e cri­
si del capitalismo; Nominare Finaccettabile: l’accumulazione originaria e la
ristrutturazione della riproduzione; Lavoro riproduttivo, lavoro delle donne
e rapporti di genere nell’economia globale
108 6. Riportare il femminismo sui piedi
120 7. Andare a Pechino. Come le Nazioni Unite hanno colonizzato il
movimento femminista
Il Piano d’azione di Pechino
130 8. Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo
La crisi della cura agli anziani nell’era globale; L’assistenza agli anziani, i
sindacati e la sinistra
146 9. Femminismo e politiche del comune al tempo della cosiddetta ac­
cumulazione originaria
Introduzione: Perché i commonsì; Global commons, i commons della Banca
mondiale; Quali commonsì ; Le donne e i commons; Ricostruzioni femmini­
ste
Prefazione

Il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la


produzione e la riproduzione della vita immediata.
Frederick Engels, L ’origine della famiglia, della proprietà pri­
vata e dello Stato (Prefazione alla prima edizione del 1884)
Il compito [...] di fare della casa una comunità di resistenza è
stato condiviso globalmente dalle donne nere, in particolare
dalla donne nere delle società suprematiste bianche.
bell hooks, Elogio del margine
Questo libro raccoglie più di trentanni di riflessione e di ricerca
sul lavoro domestico, la riproduzione sociale e le lotte delle donne
su questo terreno - per sfuggire da questo terreno - per migliorare
la propria condizione e per ricostituirla in alternativa ai rapporti ca­
pitalistici. E un libro che mescola politica, storia e teoria femminista.
Riflette anche la traiettoria del mio attivismo politico nel movimento
femminista e nel movimento contro la globalizzazione, e il mio gra­
duale spostamento dal “rifiuto” alla “valorizzazione” del lavoro do­
mestico, che oggi riconosco come esito di un percorso e di una espe­
rienza collettiva.
Non c’è dubbio che nel secondo dopoguerra il rifiuto del lavoro
domestico come destino naturale delle donne sia stato un fenomeno
diffuso tra le donne della mia generazione. Questo era vero soprattut­
to in Italia, il paese in cui sono nata e cresciuta, che negli anni Cin­
quanta era ancora permeato da una cultura patriarcale, consolidata
sotto il fascismo, e tuttavia già attraversato da una “crisi dei rapporti
di genere”, in parte innescata dalla guerra e in parte dalle esigenze
della reindustrializzazione del dopoguerra.
La lezione di indipendenza che le nostre madri avevano appreso
durante la guerra, e che ci avevano trasmesso, faceva si che la pro­
spettiva di una vita dedicata al lavoro domestico, alla famiglia e alla ri-
produzione fosse inappetibile per gran parte delle donne, e per tante
intollerabile. Quando nel saggio Salano per il lavoro domestico (1974)
scrivevo che diventare una casalinga sembrava “un destino peggiore
della morte”, esprimevo il mio atteggiamento verso questo lavoro. E
infatti facevo tutto quello che potevo per sfuggirvi.
IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

Sembra ironico, allora, in retrospettiva, che abbia passato i succes­


sivi quarantanni della mia vita a occuparmi del lavoro riproduttivo,
se non nella pratica almeno dal punto di vista teorico e politico. Ten­
tando di dimostrare perché, come donne, dobbiamo lottare contro
questo lavoro, almeno per come è stato istituito nel capitalismo, ne ho
colto l’importanza, non solo per la classe capitalista ma anche per la
nostra lotta e la nostra riproduzione.
Partecipando al movimento femminista mi sono resa conto che
la produzione di esseri umani è il fondamento di ogni sistema eco­
nomico e politico. L’immensa mole di lavoro domestico retribuito e
non retribuito svolto dalle donne in casa è quello che tiene il mondo
in movimento. Questa consapevolezza teorica è cresciuta sul terreno
pratico ed emotivo fornito dalla mia esperienza in famiglia, che mi ha
messo in contatto con una serie di attività che per lungo tempo ho
dato per scontate e tuttavia da bambina e da adolescente ho spesso
osservato con grande fascino. Anche ora, alcuni dei ricordi più prezio­
si della mia infanzia sono quelli di mia madre che fa il pane, la pasta,
la salsa di pomodoro, le torte, i liquori e poi lavora ai ferri, cuce, ram­
menda, ricama e si prende cura delle sue piante. A volte l’aiutavo in
certe cose, il più delle volte però con riluttanza. Da bambina vedevo
il suo lavoro, più tardi, da femminista, ho imparato a vedere la sua
lotta e mi sono resa conto di quanto amore ci fosse in quel lavoro, ma
anche quanto costoso sia stato per mia madre che il suo lavoro fosse
dato per scontato, che non potesse mai disporre di denaro proprio, e
che dovesse sempre dipendere da mio padre per ogni centesimo che
spendeva.
Nella mia esperienza a casa - nel rapporto con i miei genitori - ho
anche scoperto quello che ora chiamo il “doppio carattere” del lavoro
riproduttivo: un lavoro che ci riproduce e “valorizza” non solo in vi­
sta della nostra integrazione nel mercato del lavoro ma anche contro
di essa. Certamente non posso paragonare le mie esperienze a quelle
di bell hooks che descrive la “casa” come un “sito di resistenza”1.
Tuttavia, la necessità di non misurare le nostre vite a partire dalle esi­
genze e dai valori del mercato è un principio che, nella mia famiglia,
ha sempre guidato la riproduzione delle nostre vite e che è stato, a
volte, apertamente affermato. Ancora oggi l’impegno di mia madre a
far crescere in noi il senso del nostro valore mi dà la forza per affron-1
1 bell hooks, Casa: un sito di resistenza, in Elogio del margine. Razza, sesso e mercato cultura­
le, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 25-35.
PREFAZIONE 9
tare le situazioni difficili. Ciò che spesso mi salva quando mi trovo in
situazioni in cui non posso proteggermi, è il mio impegno a difendere
il suo lavoro e quindi me stessa come la bambina a cui quel lavoro
era dedicato. Il lavoro riproduttivo non è certamente l’unica forma
di lavoro che solleva la questione di ciò che diamo al capitale e ciò
che diamo “alla nostra gente”. Ma è certamente il lavoro in cui le
contraddizioni connaturate al “lavoro alienato” sono più esplosive,
ed è per questo che è il punto zero della pratica rivoluzionaria, anche
se non si tratta dell’unico punto zero2. Niente infatti soffoca tanto la
nostra vita quanto la trasformazione in lavoro delle attività e relazioni
che soddisfano i nostri desideri. Ed è per questo che tramite le attività
con cui giorno per giorno produciamo la nostra esistenza, possiamo
sviluppare la capacità di cooperare e resistere alla nostra disumanizza­
zione, imparando a ricostruire il mondo come spazio di formazione,
creatività e cura.
Brooklyn, N X giugno 2011

2 Si veda Donna J. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature,
Roudedge, London 1990, pp. 180-182. In particolare Haraway scrive: “Alcune femministe
hanno recentemente sostenuto che le donne hanno una tendenza o predisposizione per
il quotidiano, che le donne più degli uomini in qualche modo sostengono la vita e per
questo godono di una posizioni epistemologica potenzialmente privilegiata. C’è un aspetto
interessante in questa affermazione che rende visibile la disprezzata attività femminile e
la nomina come fondamento della vita. Ma è davvero il fondamento della vita?” (ivi, pp.
180-181).
Ringraziamenti

Le idee politiche vengono dai movimenti, ma il loro viaggio verso


la realizzazione di un libro richiede il lavoro di molti individui. Tra
le persone che hanno reso possibile questo volume, desidero ringra­
ziarne in particolare, per il loro contributo al progetto e la creatività
e la generosità del loro attivismo politico: Malav Kanuga, il curatore
della serie Common Notion di PM Press, che mi ha incoraggiato a
pubblicare questo lavoro e aiutato nel processo della sua costruzione
con entusiasmo e ottimi consigli, e Josh MacPhee che ha disegnato la
copertina del libro dandoci un altro esempio del potere della sua arte
e della sua idea delle immagini quali semi del cambiamento1. Analoga­
mente ringrazio Anna Curcio per avermi esortato a pubblicare anche
in italiano il mio lavoro, e Gianfranco Morosato che ha creduto in
questo progetto.
Voglio infine ringraziare Nawal E1 Saadawi, femminista, scrittrice,
rivoluzionaria, il cui libro Intra’a fi nuqtat sifr, letteralmente Una don­
na al punto zero (il volume è stato tradotto in italiano con il titolo di
Firadus. Storia di una donna egiziana, Giunti, Firenze 1986), ha ispira­
to il titolo di questo libro e molto di più.
Il punto zero della rivoluzione è la trasformazione della nostra vita
quotidiana e la creazione di nuove forme di solidarietà. Con questo
spirito, dedico questo libro a Dara Greenwald, che attraverso la sua
arte, il suo attivismo politico e la sua lotta contro il cancro ha dato vita
a una comunità di cura, che si è concretamente incarnata in una “isola
della guarigione” che Dara ha costruito durante la sua malattia.
Salario per il lavoro domestico è stato pubblicato per la prima volta
come Wages against Housework, Falling Wall Press, Bristol 1975.1
1 L’autrice si riferisce ovviamente alla copertina dell’edizione americana del libro [N.d.T.]
RINGRAZIAMENTI 11
Perché l’attività sessuale è lavoro è stato scritto per la seconda con­
ferenza internazioale sul “Salario al lavoro domestico”, che si tenne a
Toronoto nel gennaio 1975. Titolo originale: Why Sexuality Is Work.
Contropiano dalle cucine (scritto con Nicole Cox) è stato pubblica­
to per la prima volta come Counterplanning from the Kitchen, Falling
Wall Press, Bristol 1975.
Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione negli Stati uniti
degli anni Settanta è un paper presentato alla conferenza del Centro
Studi americani di Roma: “The Economie Policies of Female Labor
in Italy and the United States” (sponsorizzata dal German Marshall
Fund of the United States), 9-11 dicembre 1980. Titolo originale: The
Restructuring of Social Reproduction in the United States in the 1970s.
La riproduzione della forza lavoro nell’economia globale e l’incom­
piuta rivoluzione femminista è stato pubblicato per la prima volta in
Mariarosa Dalla Costa e Giovanna Franca Dalla Costa (a cura di),
Women, Development and Labor Reproduction: Struggles and Move­
ments, Africa World Press, Trenton (NJ) 1999, con il titolo Reproduc­
tion and Feminist Struggle in the New International Division of Labor.
Riportare il femminismo sui piedi è apparso originariamente in So-
hnya Sayres et ah, The Sixties Without Apologies, University of Min­
nesota Press, Minneapolis 1984, con il titolo Putting Feminism Back
on Its Feet.
Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo è già apparso in
Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (a cura di), Uber Marx Hi-
naus, Assoziation A, Hamburg 2009, con il titolo Anmerkungen über
Altenpflegearbeit und die Grenzen des Marxismus.
Femminismo e politiche del comune al tempo della cosiddetta ac­
cumulazione originaria è stato pubblicato per la prima volta in Team
Colors (a cura di) Uses of a Whirlwind: Movement, Movements, and
Contemporary Radical Currents in the United States, AK Press, Balti­
more 2010, con il titolo Feminism and the Politics of the Commons.
Introduzione all’edizione italiana

I saggi che pubblichiamo qui in traduzione italiana non sono del


tutto una novità per il dibattito femminista in Italia, al contrario han­
no con questo una indubbia matrice comune, in particolare con le ri­
flessioni dei gruppi del salario al lavoro domestico negli anni Settanta,
che per vari anni sono stati per me un punto di riferimento politico
di grande importanza. È anche vero però che il mio lavoro politico ha
seguito percorsi diversi da quelli del femminismo che ha dominato in
Italia negli ultimi trent’anni. Senza avventurarmi in giudizi che posso­
no essere affrettati, direi che la maggiore differenza tra le mie prospet­
tive politiche e teoriche e quelle delle correnti femministe che si sono
affermate in questi anni in Italia nasce dalla diversa valutazione delle
radici storiche dello sfruttamento delle donne e del significato della
“differenza” femminile. L’assunto alla base del mio femminismo è che
la “discriminazione di genere” non è un fattore solamente culturale
ma ha'r^aT M tenali cheafFondano' nell’organizzazione capitalistica
del lavoro. mchiodato le donne al lavoro ripro-
duttivo e la radicale svalutazione di questo lavoro.
E chiaro che oggi la figura della casalinga a tempo pieno stia scom­
parendo di fronte alla necessità di un doppio salario e al rifiuto cre­
scente da parte delle donne della dipendenza economica dagli uomini
- cosa che peraltro appare praticamente impossibile in un contesto
dove il salario maschile è sempre più evanescente. Ma è altrettanto
vero che sono ancora le donne che oggi compiono la gran parte del
lavoro di riproduzione, non solo quando impiegate nel settore dei ser­
vizi ma anche in casa, sommando così nella propria vita due o anche
tre lavori. E a partire da questa constatazione che in 11punto zero della
rivoluzione parlo di una “incompiuta rivoluzione femminista” e di un
femminismo istituzionalizzato, con riferimento al grosso investimento
14 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

che le Nazioni Unite e altre agenzie internazionali hanno fatto per cre­
are un femminismo addomesticato, assimilabile all’agenda neolibera­
le. In breve, la prospettiva proposta nei lavori raccolti in questo volu­
me è che se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace
di trasformare la società e creare rapporti sociali egalitari, dobbiamo
abbandonare la prospettiva sia dell’uguaglianza che della “differen­
za”, poiché entrambe non contestano l’organizzazione capitalistìca del
lavoro con tutto jl suo carico di sfruttamento, rappòrti sociali razzisti'
"e'séssistL la rapina continua della ricchezza che produciamo e l’im-
miserimento generale della società. E ovvio che la “differenza” è un
obbiettivo politico legittimo se implica solamente un rifiuto di assimi­
lazione agli uomini, diventa però problematica se assume un’essenza
femminile precostituita, e soprattutto se la sua affermazione diventa
un fine a sé, avulso da un progetto di trasformazione sociale.
Credo, tuttavia, che oggi siamo a una nuova svolta nel femmini­
smo. Da una parte l’irruzione delle problematiche del movimento
queer stanno mettendo in discussione, e permettono di superare, una
politica dei diritti che si articola su base identitaria. Tuttavia, vorrei
sottolineare che il movimento femminista non è stato, quanto meno
nella sua fase iniziale, un movimento identitario, lo è diventato nella
misura in cui è stato istituzionalizzato. Le femministe radicali sono
state le prime a lottare contro l’identità che le donne - sia pure in
modi diversi - sono state costrette ad assumere; un’identità che con­
trabbandava come “essenza” o come natura femminile tutta una serie
di compiti legati al lavoro di riproduzione non pagato. Concepire il
femminismo come un movimento identitario è ancora una volta sep­
pellire la sua anima sovversiva, accreditando come femminismo solo
le tendenza cresciute all’ombra dello stato.
Dall’altra parte, oggi, sulla scia dei movimenti Occupy, si sta affer­
mando una nuova generazione di femministe che mentre sempre più
collega il rifiuto della subordinazione sessuale alla lotta contro l’impo­
verimento a cui sono soggette, al pari dei giovani in tutto il mondo,
si impegna per la costruzione di spazi sociali ed economici fuori della
logica del mercato. Oggi le nuove generazioni di femministe lottano
contro il costo della scuola e per creare spazi liberi e autonomi per
la circolazione e condivisione dei saperi; lottano contro la precarietà
ma senza necessariamente aspirare alla irreggimentazione del lavoro
salariato. Il vantaggio delle nuove generazioni è che possono misurare
e valutare le strategie proposte dalle cosiddette “femministe storiche”
e vedere come la pur sacrosanta la lotta per le pari opportunità o le
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA 15
“quote rosa” non ha liberato le donne, anche se (per alcune almeno)
ha aumentato l’autonomia nei confronti degli uomini. Sanno anche
che l’organizzazione del lavoro salariato non è cambiata. In questa
situazione, l’alternativa diventa allora creare una maggiore coopera­
zione nel lavoro di riproduzione, per rompere l’isolamento in cui oggi
vivono tante donne e aumentare le risorse a nostra disposizione; sem­
pre inteso che questa non è un’alternativa a altre forme di lotta ma la
sua condizione.
Questo è l’insegnamento che ho ricavato negli anni attraverso i miei
studi e soprattutto riflettendo sulle trasformazioni politiche e sociali
che avvenivano sul piano globale, nonché intervenendo in vari percorsi
di lotta e movimenti: contro l’aggiustamento strutturale, contro la mer­
cificazione della conoscenza, contro la pena di morte, e oggi, sempre
più sul terreno di un conflitto definito teoricamente e praticamente a
partire da una politica basata sulla riappropriazione e produzione di
beni comuni.
Nello stesso tempo, però, occorre rimanere vigili perché le conqui­
ste delle donne non sono mai date una volta per tutte. I processi di
ristrutturazione che interessano il lavoro di riproduzione nel presente,
passano anche per un attacco aperto al diritto di aborto. Lo vediamo
in modo conclamato in Europa: in Spagna, dove di recente è stata
presentata una proposta di legge che lo limita fortemente, e in Italia,
dove il crescente ricorso all’obiezione di coscienza riduce di fatto il
diritto delle donne ad abortire. E chiaro che il capitalismo neoliberale
ha riscoperto l’importanza della chiesa e della religione per masche­
rare i suoi interessi reali. E così fa appello alla morale, al diritto alla
vita - che è veramente una farsa nel mondo in cui viviamo. Anche
negli Stati uniti la possibilità di abortire è sempre più in pericolo. Sog­
getta a mille restrizioni che si moltiplicano da stato a stato, costringe
le organizzazioni femministe a una grosso dispendio di energie per
frenare questo attacco continuo. Come si può impedire tutto questo?
Io credo che la cosa essenziale sia non separare la lotta per l’aborto
dalla lotta per il controllo sul nostro corpo, che e molto più ampia e
oltrepassa anche il terreno della procreazione.
E fondamentale vedere che oggi nella politica neoliberale, nel­
la politica del capitalismo internazionale, non è tanto l’aborto in sé
che conta, quanto il controllo sulla riproduzione. Non dobbiamo di­
menticare che la stessa classe capitalistica che oggi cerca di limitare
l’aborto è quella che in anni molto recenti organizzava i safari della
sterilizzazione in India, Indonesia; quella che continuamente inventa
16 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
contraccettivi (come Norplant e gli iud) che le donne non possono
controllare. Non solo. E chiaro, guardando alle leggi approvate da
vari stati negli Usa, che la cosiddetta difesa della vita serve a crimina­
lizzare le donne povere che si azzardano ad avere figli, al punto che,
come è stato scritto recentemente, la gravidanza oggi negli Stati uniti
pone una donna povera, soprattutto se di colore, fuori dalla costi­
tuzione. Sterilizzazione e criminalizzazione dell’aborto sono parte di
una stessa logica che pone nelle mani dello stato il corpo delle donne
e il processo della procreazione, considerato come meccanismo che
determina la grandezza e qualità della forza lavoro a livello mondiale.
In altre parole, la questione non è una faccenda di pura quantità e
ovviamente tanto meno di moralità. La questione è a chi spetta deci­
dere, chi deve/può venire al mondo su questo pianeta: una decisione
che gran parte della classe capitalistica, oggi, tanto quanto al tempo
della caccia alle streghe, è determinata a non lasciare nelle mani delle
donne. La sfida per noi è non ripetere lo sbaglio che tante femministe
hanno fatto negli anni Settanta, quando si tendeva a identificare la
battaglia per l’aborto con quella per il controllo sopra il nostro corpo,
isolando quindi il diritto ad abortire dalla rivendicazione della possi­
bilità di avere figli alla condizioni che determiniamo e dalla questione
del lavoro a cui siamo costrette per sopravvivere.
Un discorso analogo a quello sull’aborto può essere fatto anche
per la famiglia. Mentre i politici insistono sulla sua centralità, la po­
litica economica mina le condizioni materiali della sua riproduzione.
La precarizzazione del lavoro, i salari congelati hanno messo in crisi
la famiglia più di quanto non abbia fatto il rifiuto delle donne della
domesticità. E se - almeno negli Stati uniti - non si assiste a un salto
in avanti nel numero dei divorzi è solo perché le coppie non hanno
i mezzi per la pratiche burocratiche, e semplicemente si separano. Si
insiste però a livello istituzionale sulla famiglia perché essa serve an­
cora ad assorbire i costi della riproduzione della forza lavoro, tanto
più in tempo di crisi. E mentre le sue risorse si assottigliano sempre di
più, è la stessa famiglia a cambiare. Crescono in modo esponenziale
quelle con a capo delle donne, si afferma la famiglia con partner dello
stesso sesso e cresce anche il numero di quelle non unite da legami di
parentela. Credo che, soprattutto per le donne, quest’ultima sia una
buona opzione, considerato il livello di violenza a cui sono esposte
nell’ambito della famiglia.
Come devono attrezzarsi le donne nei confronti dei rapporti fa­
migliati e della violenza che le vede oggetto? La prima cosa è creare
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA 17
reti di supporto e autodifesa. È intollerabile che ogni giorno donne
vengano massacrate da mariti, compagni e magari anche figli, che non
accettano la loro autonomia. La vita matrimoniale sta diventando per
le donne un lavoro rischioso che le espone a molta violenza. E questo
deve cessare.
Rimane poi il fatto che la famiglia nucleare è un’istituzione che ci
espone a una crisi permanente, perché crea aspettative difficilmente
realizzabili e impone carichi di lavoro insostenibili che gravano so­
prattutto sulle donne. La costruzione di beni comuni e rapporti so­
ciali più ampi, più solidali, ha anche questo scopo: superare l’alterna­
tiva che ci è posta tra una famiglia che (come il sindacato) ci sostiene
(anche se sempre di meno) ma troppo spesso ci soffoca e una vita di
solitudine.
E a partire dal rifiuto di queste alternative e sopratutto dal rifiu­
to dell’impoverimento e della violenza a cui si cerca di condannarci,
che comincia la nostra rivoluzione. Come provo a mostrare in in que­
sto libro, oggi un femminismo radicale deve operare su vari fronti,
ma senza mai limitarsi a una pratica puramente difensiva. La rico­
struzione del tessuto sociale, la determinazione di nuovi rapporti di
solidarietà capaci di procurare subito, nel presente, nuove risorse e
nuovi rapporti sociali, sono la prima condizione non solo per la so­
pravvivenza ma anche e soprattutto per aprire un processo di riap­
propriazione della ricchezza e per recuperare il controllo sui mezzi
della nostra riproduzione. Abbiamo davanti un lavoro immenso, se si
pensa alle condizioni disastrate - ambientali, economiche, sociali - in
cui siamo costretti a vivere. Dall’educazione alla salute, all’ambiente,
alla costruzione di nuove forme di (ri)produzione. Si può davvero dire
che dobbiamo mettere il mondo sottosopra, perché la bancarotta del
sistema capitalistico è tale che ormai da esso ci si può aspettare solo
crisi, miseria e violenza.
Brooklyn, febbraio 2014
Introduzione all’edizione americana

Ho esitato in passato a pubblicare un volume che raccogliesse


esclusivamente saggi sul tema della “riproduzione”, perché mi sem­
brava una scelta artificiale rispetto alle varietà di problemi e di lotte a
cui ho dedicato per molti anni il mio lavoro. Questa raccolta tuttavia
ha una sua logica, perché il tema dellajiproduzione, intesa come il
complesso di attività e relazioni- che quotidianamente rigenerano la
nostra vita, e statoli Hlo rosso che Ha attraversato tutto II mio impe­
gno teorico e militante.
Le donne della mia generazione, cresciute all’indomani della Se­
conda guerra mondiale, hanno avuto un rapporto conflittuale con il
“lavoro riproduttivo”, inteso innanzitutto come lavoro domestico.
Dopo due guerre mondiali che nello spazio di tre decenni avevano
decimato più di settanta milioni di persone, la domesticità e la pro­
spettiva di sacrificare la nostra vita per produrre più lavoratori e più
soldati per lo stato non facevano più presa sulla nostra immaginazio­
ne. In Europa, più che l’esperienza dell’autonomia che la guerra aveva
procurato a molte donne, evocata negli Stati uniti dall’iconica Rosie
thè Riveter1, è stata la memoria della carneficina in cui siamo nate a
determinare il nostro rapporto con la riproduzione. Nella storia del
movimento femminista internazionale, questo è un capitolo in gran
parte ancora da scrivere12. Eppure, ripensando alle mostre fotografi-
1 “Rosy thè Riveter” rappresenta la donna che durante la seconda guerra mondale negli
Stati uniti e stata reclutata nell’industria della guerra per sostituire gli operai maschi partiti
per il fronte. Rosy “la saldatrice” e un simbolo soprattutto dell’autonomia che le donne
hanno raggiunto in quel periodo, a partire da una nuova indipendenza economica e dalla
percezione del proprio lavoro come importante.
2 Un primo momento della scrittura di questa storia è il testo di Leopoldina Fortunati La fa­
miglia: verso la Ricostruzione (in Mariarosa Dalla Costa, Brutto ciao, Edizioni delle Donne,
Roma 1976), che esamina le grandi trasformazioni prodotte dalla guerra nell’organizza-
20 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

che dei campi di concentramento visitate da bambina con la scuola,


e ricordando le storie raccontate a cena, di tutte le volte che siamo
dovuti scappare di notte per non essere uccisi dalle bombe cercando
di metterci in salvo sotto un cielo in fiamme, non posso fare a meno
di chiedermi quanto queste esperienze abbiano pesato sulla decisione
mia e di altre donne di non avere figli e non diventare casalinghe.
Questo rifiuto della guerra è forse il motivo per cui il nostro at­
teggiamento verso la casa, la famiglia e il lavoro domestico non pote­
va essere quello delle riformatrici. Colpisce, rivedendo la letteratura
femminista dei primi anni Settanta, l’assenza del tipo di problematica
che aveva interessato le femministe degli anni Venti, quando la pre­
occupazione principale era re-immaginare la casa, rispetto alle attività
domestiche, alla tecnologia, all’organizzazione degli spazi3. Il fatto che
per la prima volta nella storia del femminismo si sia rotta l’identifica­
zione delle donne con la riproduzione si deve attribuire alla grossa
svolta che la guerra ha rappresentato per le donne, soprattutto perché
la sua minaccia non è mai finita, ma si è intensificata con lo sviluppo
delle armi nucleari.
Il lavoro domestico, al centro della politica femminista in quegli
anni, ebbe un significato speciale per l’organizzazione di cui ho fatto
parte dal 1972 e in cui sono stata attiva per i successivi cinque anni:
la campagna internazionale per il salario al lavoro domestico (Wages
for Housework Campaign). “Salario al lavoro domestico” era un’or­
ganizzazione singolare, che riuniva correnti politiche provenienti da
diverse parti del mondo e diversi settori del proletariato mondiale,
ognuno con una specifica storia di lotte, e in cerca di un terreno co­
mune che il nostro femminismo seppe fornire e trasformare. A diffe­
renza della maggior parte delle femministe che avevano come punto
di riferimento la politica liberale, o anarchica, o socialista, le donne
che lanciarono “Salario al lavoro domestico” avevano una storia di
militanza in organizzazioni di matrice marxista ma influenzate da altre
esperienze come il movimento anticoloniale, il movimento per i diritti
civili, il movimento studentesco e 1’“operaismo” italiano. Quest’ulti-
zione della famiglia italiana ed europea, a partire dalla crescita di autonomia delle donne
e dal rifiuto della disciplina e della dipendenza dagli uomini in famiglia. In particolare,
Fortunati descrive la Seconda guerra mondiale come un massiccio attacco alla classe ope­
raia che distrusse la forza lavoro ma che, allo stesso tempo, minò in modo irreparabile
l’interesse che le donne trovavano nel sacrificarsi alle proprie famiglie. Così che il tipo di
famiglia precedente alla guerra rimase sepolto sotto le macerie della guerra.
3 Sul tema cfr. Dolores Hayden, The Grand Domestic Revolution, MIT Press, Cambridge
(MA) 1985.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 21
mo, sviluppatosi in Italia negli anni Sessanta, a partire dalla ripresa
delle lotte di fabbrica, muoveva una critica radicale al “comuniSmo”
e proponeva una rilettura di Marx che ha influenzato un’intera gene­
razione di militanti senza aver ancora esaurito il suo potere analitico,
come dimostra l’interresse diffuso sul piano internazionale per quello
che viene definito il movimento dell’autonomia italiano.
E attraverso e contro le categorie articolate da questi movimenti
che la nostra analisi della “questione femminile” è diventata un’analisi
del lavoro domestico come fattore centrale per definire lo sfruttamen­
to delle donne nel capitalismo: il tema che ritorna nella maggior parte
degli articoli raccolti in questo volume. Come già avevano fatto gli
scritti di Samir Amin, André Gunder Frank e Frantz Fanon, il movi­
mento anticoloniale ci ha insegnato a estendere l’analisi marxiana del
lavoro non retribuito oltre i confini della fabbrica e a vedere quindi
la casa e il lavoro domestico non come 1’“altro” dalla fabbrica ma
come il suo fondamento. Da ciò abbiamo imparato anche a cercare i
protagonisti della lotta di classe non solo tra il proletariato industriale
maschile, ma tra gli schiavi, i colonizzati, il mondo dei lavoratori senza
salario esclusi dagli annali della tradizione comunista, a cui potevamo
ora aggiungere la figura della casalinga proletaria, riconcettualizzata
come soggetto della (ri)produzione della forza lavoro.
Il contesto sociale e politico in cui il movimento femminista negli
Stati uniti si è sviluppato ha facilitato questa identificazione. A parti­
re dal XIX secolo, la crescita dell’attivismo femminista ha seguito gli
sviluppi del processo di liberazione della popolazione nera, e il mo­
vimento femminista della seconda metà del XX secolo non ha fatto
eccezione. Il primo esempio di lotta femminista negli Stati uniti degli
anni Sessanta è stata la lotta delle welfare mothers4 che, per iniziativa
di donne afro-americane ispirate al movimento per i diritti civili, si
sono mobilitate per chiedere allo stato un salario per il lavoro che
facevano nell’accudire i propri figli. In questo modo, hanno posto le
basi su cui è potuta crescere un’organizzazione come “Salario al lavo­
ro domestico”.
Dall’operaismo, che sottolineava la centralità delle lotte operaie
per l’autonomia nel rapporto capitale-lavoro, abbiamo imparato l’im­
portanza politica del salario come mezzo per organizzare la società e

4 La definizione welfare mothers si riferisce alle donne che ricevevano sussidi statali per i
figli a carico. Scegliamo da qui in avanti di riportare la definizione in lingua inglese per dar
conto della specificità, tutta statunitense, dell’espressione (N.d.T.).
22 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

allo stesso tempo come leva per minare le gerarchie all’interno della
classe operaia. In Italia, questa lezione politica si è concretizzata nel­
le lotte di fabbrica dell’“autunno caldo” (1969), quando gli operai
chiedevano aumenti salariali sganciati dalla produttività e uguali per
tutti, decisi a rifiutare guadagni settoriali e a porre fine alle divisioni
basate sui differenziali salariali5. Questa concezione del salario - che
respingeva la separazione leninista tra lotta economica e lotta politica
- è diventata uno strumento per portare alla luce le radici materiali
della divisione sessuale e internazionale del lavoro e, nei miei lavori
successivi, “il segreto dell’accumulazione originaria”.
Altrettanto importante per lo sviluppo della nostra prospettiva è
stato il concetto operaista di “fabbrica sociale”. Esso traduceva la teo­
ria proposta da Mario Tronti in Operai e capitale (1966) secondo cui, a
un certo stadio di sviluppo del capitale, i rapporti capitalistici diventa­
no così egemonici che ogni rapporto sociale è sussunto dal capitale é
la distinzione tra società e fabbricacròfla: la società stessa diventa una"’’"
fabbrica e le relazioni sociali divenMrWÉirettamente rapporti di produ­
zione. Tronti faceva^‘quTfiféfimento^I& crescente riorganizzazione 3hT
“territorio” come spazio sociale strutturato in vista delle esigenze del­
la produzione in fabbrica e dell’accumulazione di capitale. Ma per noi
è stato subito chiaro che il circuito della produzione capitalistica, e la
“fabbrica sociale” che produce, iniziajig e si concentrano nella casa,
_ nelle cucine,„nelle camere"da letto in quanto centri per là produzione
c.dèlia forza lavoro. È da lì che H circuito della produzione capitalistica
arriva alla fabbrica, passando per la scuola, l’ufficio, il laboratorio. In
breve, non abbiamo ricevuto passivamente gli insegnamenti dei mo­
vimenti che ho citato, ma li abbiamo rovesciati, confrontandoli con i
loro limiti, usando i loro tasselli teorici per costruire un nuovo tipo, di
soggettività politica e una nuova strategia.
La definizione di questa prospettiva politica, anche in risposta alle
accuse che ci venivano mosse dalla sinistra e dalle femministe, è il
tema che unisce i saggi scritti tra il 1974 e il 1980, il periodo del mio
impegno attivo nella campagna “Salario al lavoro domestico”6. Essi
avevano vari obbiettivi: evidenziare la differenza essenziale tra il la­
voro domestico e gli .altrftÌpi di lavoro, smascherare il processo di
najuraKzjazione che questo lavoro ha subito in quanto lavoro non
5 Cfr. Marx, Salario, in Manoscritti economìco-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004.
6 Si tratta di Salario per il lavoro domestico del 1974; Perché la sessualità è lavoro? e Con­
tropiano dalle cucine (scritto insieme a Nicole Cox) del 1975 e Ristrutturazione del lavoro
domestico e riproduzione negli Stati unti degli anni Settanta del 1980.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 23
salariato, mostrare la funzione del salario nell’economia capitalistica,
je questione'della “produttivÌtà’’"^tara^stcfritamenté
,connessa alla lotta per il potere sociale. PrincipalmdnteTinWIHdevano
stabilire che gli attributi della femminilità sono in realt&funzioni del
lavoro domestico-, e confutare il modo economicistico in cui la richie­
sta di salario per il lavoro domestico era concepita da molti critici, a
causa della loro incapacità di comprendere la funzione del denaro nel
capitalismo al di là della sua forma immediata di remunerazione. ,
La campagna “Salario al lavoro domestico” fu lanciata nell’estate
del 1972 a Padova, quando donne provenienti da Italia, Inghilterra,
Francia e Stati uniti diedero vita al Collettivo internazionale femmi­
nista. Obbiettivo delle campagna era aprire un processo di mobilita­
zione femminista sul piano internazionale, per costringere lo stato a
riconoscere il lavoro domestico come lavoro, cioè come attività che
deve essere remunerata perché, contribuendo alla produzione della
forza lavoro, permette che ogni altra forma di produzione possa ave­
re luogo e quindi creare capitale. Consideravamo il salario al lavoro
domestico una prospettiva politica rivoluzionaria non solo perché
evidenziava la causa principale dell’“oppressione delle donne” nel­
la società capitalista, ma soprattutto perché smascherava i principali
meccanismi attraverso cui il capitalismo ha conservato il suo potere
e diviso la classe operaia. Mi riferisco alla svalutazione di intere sfere
dell’attività umana - a partire da quelle che sostengono la produzione
della vita - e alla capacità della classe capitalista di usare il salario per
estrarre lavoro anche dalla vasta popolazione di lavoratori apparente­
mente esclusa dai rapporti salariali: schiavi, soggetti coloniali, prigio­
nieri, casalinghe, studenti. Il salario al lavoro domestico era, a nostro
avviso, una rivendicazione rivoluzionaria anche perché, per contenere
i costi della forza lavoro, il capitalismo deve svalutare il lavoro di ri-
produzione, e ci pareva quindi che una campagna capace di svuotare
questo lavoro avrebbe interrotto l’accumulazione di capitale e por­
tato la nostra lotta con il capitale e lo stato su un terreno condiviso
dalla maggior parte delle donne. Infine, il salario al lavoro domestico
ci sembrava una prospettiva rivoluzionario perché metteva fine alla
naturalizzazione del lavoro domestico, sfatando il mito che si tratti
di un “lavoro da donne”, e proponeva che le donne fossero pagate
per il lavoro che già facevano, invece di farci lottare per avere più
lavoro. Voglio sottolineare che la nostra lotta era per il salario al lavo­
ro domestico e non per il salario alle casalinghe, convinte che questa
rivendicazione avrebbe comportato la “de-sessualizzazione” di questo
24 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
lavoro. E non chiedevamo il salario ai mariti ma allo stato in quanto
rappresentante del capitale collettivo, l’“Uomo” che realmente trae
profitto da questo lavoro.
Oggi, questo tipo di problematica può sembrare obsoleta, soprat­
tutto alle donne più giovani che possono sottrarsi- a gran parte di que­
sto lavoro. Le giovani donne sono oggi più indipendenti economica­
mente e più autonome dagli uomini rispetto alla mia generazione. Ma
il lavoro domestico non è scomparso e la sua svalutazione, monetaria
e non, continua ad essere un problema per la maggior parte di noi,
che abbiamo o meno un lavoro salariato. Oggi, dopo quattro decenni
di lavoro a tempo pieno fuori casa, l’assunto - diffuso tra le femmini­
ste negli anni Settanta - che il lavoro salariato apra un percorso di “li­
berazione”, non funziona più. Per questo la teoria legata alla proposta
del salario al lavoro domestico è più facilmente accettata, sempre che
rimanga a livello teorico. Un contribuito rilevante in questo senso è
stato il lavoro di studiose militanti femministe come Ariel Salleh in
Australia e Maria Mies in Germania, che hanno riformulato la nostra
analisi del lavoro riproduttivo da un punto di vista eco-femminista e
dal punto di vista dei movimenti di donne nelle “colonie”7. Oggi an­
che le femministe accademiche discutono le tesi classiche di “Salario
al lavoro domestico”, spesso come se le avessero appena inventate,
mentre negli anni Settanta queste stesse tesi suscitavano una veemente
opposizione.
Alla fine degli anni Settanta, due decenni di lotte internazionali,
che avevano scosso le fondamenta del processo di accumulazione ca­
pitalistica, sono state messe sulla difensiva da una crisi globale tuttora
in corso. A partire dall’embargo petrolifero a Europa e Stati uniti del
1974, cominciava un lungo periodo di sperimentazione capitalista sul
terreno della “scomposizione” di classe, condotta nel nome del “Wa­
shington Consensus”, del neoliberismo e della “globalizzazione”. Dal­
la teoria della “Crescita zero” (proposta tra il 1974 e il 1975) alla crisi
del debito e poi alla delocalizzazione industriale e all’imposizione di
un aggiustamento strutturale ai paesi ex-coloniali, veniva forzosamen­
te costruito un nuovo mondo, che modificava radicalmente i rapporti
di forza tra lavoro e capitale.
Ho discusso alcuni degli effetti di questo cambiamento per la ripro-

7 Si veda Ariel Salleh, Ecofeminism as Politica: Nature, Marx, and thè Postmodern, Zed Boo-
ks, London 1997; Maria Mies, Patriarchy and Accmmdatitìw ón a World Scale, Zed Books,
London 1986.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 25

eduzione della forza lavoro in una serie di articoli scritti negli anni No­
vanta, alcuni in collaborazione con “Midnight Notes”, in particolare
nel volume dal titolo The New Enclosures. Qui voglio aggiungere che,
grazie alle analisi che abbiamo sviluppato prima con “Salario al lavoro
domestico” e poi in “Midnight Notes”, mi è stato possibile vedere che
non era in corso una riconversione industriale ma una ristrutturazione
dei rapporti di classe che partiva proprio dal processo di riproduzione
sociale8. La mia comprensione del nuovo ordine mondiale e stataraeim
tata anche da due fattori che hanno profondamente influenzato la mia
pratica teorica e politica. In primo luogo, la mia decisione, alla metà
degli anni Settanta, di iniziare uno studio della storia delle donne nella
transizione al capitalismo, culminata con la pubblicazione nel 1984 de
Il grande Calibano scritto insieme a Leopoldina Fortunati e successiva­
mente di Caliban and thè Witch: Women, thè Body and Primitive Ac-
cumulation (del 2004). In secondo luogo, il mio lavoro come docente
a contratto presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria, nella metà
degli anni Ottanta, che mi ha dato l’opportunità di osservare le deva­
stanti conseguenze sociali innescate dai programmi di austerità eco­
nomica imposti ai “paesi debitori” dalla Banca mondiale e dal Fondo
monetario internazionale in cambio di nuovi prestiti.
Il lavoro storico sulla transizione al capitalismo ha approfondito la
mia comprensione non solo del ruolo delle “donne nel capitalismo”
ma del capitalismo stesso. Mi ha permesso di collegare i processi at­
tivati dai programmi di “aggiustamento strutturale” (il punto foca­
le della nuova economia globale) a ciò che in Caliban and thè Witch
ho definito “il segreto dell’accumulazione originaria”, a partire daña
guerra che ü capitalismo ha lanciato contro le donne nel corso di tre
secoli di caccia añe “streghe”. Ripercorrendo l’ascesa del capitalismo
ho anche potuto ampliare Ü mio concetto di riproduzione, estenden­
dolo dal lavoro domestico añ’agricoltura di sussistenza e al lavoro di
conservazione ambientale. Tali considerazioni rispetto al lavoro ripro­
duttivo sono state soUecitate anche daña situazione in Nigeria. In un
contesto in cui, nonostante l’impatto distruttivo deña produzione di
petroho, l’accesso aña terra era ancora una deüe condizioni principañ
deüa riproduzione quotidiana deña vita e l’agricoltura di sussistenza,
svolta per lo più dañe donne, continuava a fornire la maggior parte
8 Si veda The New Enclosures, in “Midnight Notes”, 10, dicembre 1990; George Caffentzis,
The Work Energy Crisis, in “Midnight Notes”, 3, dicembre 1981; Midnight Notes Collec­
tive (a cura di), Midnight Oil: Work, Energy, War. 1973-1992, Autonomedia, New York
1992.
26 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

del cibo consumato nel paese, il concetto di “lavoro domestico” assu­


meva necessariamente un significato più ampio.
Questa consapevolezza, riflessa negli articoli che ho scritto a par­
tire da quegli anni, uno dei quali pubblicato in questa raccolta9, si è
presto tradotta in nuove pratiche politiche. In particolare nella mia
militanza nel movimento contro la globalizzazione, che in Africa stava
già prendendo forma nei primi anni Ottanta, con la nascita di movi­
menti femministi come “Women in Nigeria” e di movimenti contro i
programmi di aggiustamento strutturale. Le riflessioni di quegli anni,
nel loro complesso, sono un tentativo di comprendere l’architettura
del nuovo ordine economico mondiale e contrastare le spinte riformi-
ste del movimento, particolarmente forti nei paesi cosiddetti “svilup­
pati”. A differenza di quanti e quante sostenevano che il compito del
movimento contro la globalizzazione fosse di riformare, umanizzare
e “genderizzare” la Banca mondiale e il Fondo monetario internazio­
nale, ho sempre guardato a queste istituzioni come strumenti di un
processo di ricolonizzazione e di attacco capitalista al potere operaio
su scala mondiale. I saggi di quegli anni esaminano il rapporto tra i
grandi movimenti migratori innescati dai programmi di aggiustamen­
to strutturale nei primi anni Novanta e ciò che Arlie Hochschild ha
definito la “globalizzazione della cura”101. Indagano la connessione tra
la guerra e la distruzione dell’agricoltura di sussistenza e, soprattutto,
le motivazioni che stanno dietro alla guerra che la nuova economia
globale muove contro le donne11.
Un altro tema al centro delle mie riflessioni, a partire da quegli
anni, è la critica all’istituzionalizzazione del femminismo e alla sua
riduzione a strumento del programma neoliberale delle Nazioni Uni­
te12. La progressiva perdita dell’iniziativa da parte del movimento
femminista e la sua sussunzione sotto le ali delle Nazioni Unite, appa­
riva una sconfitta a quelle tra noi che per anni avevano ostinatamen-
9 Si tratta di La riproduzione della forza lavoro e l’incompiuta rivoluzione femminista del
2008.
10 Arlie Hochschild, Global Care Chains and Emotional Surplus Vaine, in Will Hutton and
Anthony Giddens (a cura di), On thè Edge: Living ivith Global Capitalism, The New
Press, New York 2000.
11 Mi riferisco in particolare a due saggi inclusi nell’edizione originaria di Revolution at Point
Zero, che non appaiono nell’edizione italiana. Si tratta di Reproduction and Feminist Strug-
gle in thè New International Division ofLabor del 1999 e War, Globalization and Repro­
duction del 2000.
12 Tra quelli qui pubblicati: Riportare il femminismo sui piedi del 1984 e il saggio inedito
Andare a Pechino del 2000.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 27
te insistito che l’autonomia femminista doveva essere definita come
autonomia non solo dagli uomini ma anche dal capitale e dello stato.
Questo era specialmente importante in un momento in cui le Nazioni
Unite si preparavano a legittimare nuove guerre con mezzi sia militari
che economici. Retrospettivamente, posso dire che questa critica è
stata calzante. Quattro conferenze mondiali e un decennio dedicato
ai diritti delle donne non hanno prodotto un miglioramento nella vita
della maggior parte delle donne, non hanno dato origine a una seria
critica femminista né tanto meno a una mobilitazione contro l’appro­
priazione della ricchezza mondiale da parte delle imprese, o contro
la politica delle stesse Nazioni Unite. Al contrario, la celebrazione
dell’"potere femminile” è andata di pari passo all’applicazione di po­
litiche sanguinose che hanno condizionato la vita di milioni di perso­
ne, espropriato terre e acque costiere che sono state avvelenate con
sostanze tossiche, e hanno trasformato intere popolazioni in profughi.
Inevitabilmente, un attacco alla vita delle persone di tale portata
storica, consolidato dalla politica della “crisi permanente”, ha porta­
to molte e molti di noi a ripensare le proprie strategie e prospettive
politiche. Nel mio caso, mi ha spinto a riconsiderare la questione del
salario al lavoro domestico e a riesaminare il significato del crescente
interesse per la produzione dei commom, proveniente da circoli radi­
cali diversi e diffuso a livello internazionale.
Il movimento per il salario al lavoro domestico aveva identificato
la “casalinga” come il soggetto sociale centrale della lotta femminista,
a partire dall’idea che lo sfruttamento del lavoro domestico non sala­
riato e le relazioni di potere diseguali costruite interno a esso, costi­
tuissero il pilastro dell’organizzazione capitalistica della produzione.
Tuttavia, il rilancio a livello mondiale di un processo di “accumula­
zione originaria”, determinato da molteplici forme di espropriazione
e un’immensa espansione del mercato del lavoro mondiale, rendeva
impossibile scrivere ancora (come avevo fatto nei primi anni Settanta),
che il salario al lavoro domestico è l’unica forma di lotta “rivoluzio­
naria” non solo per il movimento femminista ma per “l’intera classe
operaia”. Non solo. L’esistenza di intere popolazioni pauperizzate da
drastiche svalutazioni monetarie e dal proliferare della privatizzazione
delle terre e dalla commercializzazione di tutte le risorse ha posto con
urgenza la questione della riappropriazione dei mezzi di produzione e
la creazione di nuove forme di cooperazione sociale. Questi obiettivi
non devono tuttavia essere concepiti come alternativi alle lotte per e
sul “salario”. Ad esempio, la campagna delle lavoratrici domestiche,
28 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
per lo più migranti, che negli Stati uniti lottano per il riconoscimento
istituzionale di questo lavoro, per aumenti salariali, per stabilire il loro
orario di lavoro, ma anche per la pensione, il diritto alle vacanze e
alle cure mediche, è una lotta strategicamente importante perché la
svalutazione del lavoro riproduttivo è il pilastro dello sfruttamento
capitalistico del lavoro delle donne. Costringere lo stato a pagare un
“salario sociale” o un “reddito garantito” per sostenere la riproduzio­
ne, rimane un obiettivo politico importante, visto che lo stato tiene in
ostaggio gran parte della ricchezza che abbiamo prodotto.
Ma in un contesto in cui l’occupazione è sempre più precaria, i
redditi monetari sono soggetti a continue manipolazioni, in cui flessi-
bilizzazione e gentrificazione, insieme alle migrazioni, hanno distrutto
le forme di socialità che un tempo caratterizzavano la vita proleta­
ria, la produzione del comune è un complemento e un presupposto
necessario della lotta per il salario. Chiaramente, come sostengo in
vari saggi scritto in anni recenti, alcuni dei quali pubblicati in questa
raccolta13, riappropriarsi delle terre, difendere le foreste da chi vuole
tagliarle e creare orti urbani o banche del tempo è solo un primo pas­
so. Come Massimo De Angelis e Peter Linebaugh hanno sottolineato
nei loro scritti e nella loro attività politica, ciò che più conta è la pro­
duzione di pratiche solidali, a partire dalla necessità di affrontare le
divisioni che ci separano lungo linee di razza, sesso, età e collocazione
geografica. Questo è uno dei temi che mi ha maggiormente interessato
negli ultimi anni e a cui intendo dedicare buona parte del mio lavoro
futuro, articolandolo sia sull’attuale crisi della riproduzione - com­
presa la distruzione di un’intera generazione di giovani, per lo più di
colore, che marciscono nelle nostre carceri - sia sul crescente ricono­
scimento, da parte degli attivisti negli Stati uniti, che un movimento
che non impara a riprodursi non è sostenibile14. A New York, questa
consapevolezza sta, da alcuni anni, ispirando una discussione sulla
creazione di “movimenti capaci di auto-riprodursi” e di “comunità di
cura”; una discussione che si è accompagnata dallo sviluppo di nuo­
ve strutture comunitarie. Ampliare il concetto di commons, dargli un
significato politico più ampio vuol dire anche dare una prospettiva al
movimento Occupy, alle insorgenze arabe e alle numerose e durevoli
13 Si tratta di II lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo del 2009 e, soprattutto,
Femminismo e politiche del comune al tempo della cosiddetta accumulazione originaria del
2010.
14 Sul tema si veda Team Colors, The Importarne ofSupport Building Foundations: Creating
Community Sustaining Movements, in “Rolling Thunder” 6, autunno 2008.
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE AMERICANA 29
lotte contro l’austerity nel resto del mondo. Il loro potere di trasfor­
mazione deriva, infatti, proprio dalla loro capacità di appropriarsi di
spazi che sono controllati dallo stato e mercificati dal mercato, per
trasformarli di nuovo in terre comuni.
Brooklyn, NY, marzo 2011
Salario per il lavoro domestico

Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato.


La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo.
Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà è un
incidente sul lavoro...
Omosessualità e eterosessualità sono entrambe condizioni di
lavoro [...] ma l’omosessualità è il controllo degli operai sulla
produzione non la fine del lavoro.
Più sorrisi? Più soldi. Niente sarà più efficace per distrugge­
re le virtù di un sorriso.
Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie professionali
della casalinga.
Molto spesso le difficoltà e le ambiguità che le donne esprimono
rispetto al salario per il lavoro domestico derivano dal fatto che lo
riducono a una cosa, a un po’ di denaro, invece di considerarlo come
una prospettiva politica. La differenza tra questi due punti di vista è
enormeTVedere H salario al lavoro domestico come una cosa invece
che come una prospettlva politica significa scindere il risultato della
nostra lotta dalla lotta stessa e quindi non, coglierne fazione di demi­
stificazione e sovversione del ruolo a cui le donne sono state relegate
nella società capitalistica.
La domanda che ci poniamo, quando consideriamo il salario al la­
voro domestico in questo modo riduttivo è: che differenza farebbero
nella nostra vita un po’ di soldi in più? Possiamo anche essere d’ac­
cordo che il salario rappresenterebbe un grosso mutamento per molte
donne che non hanno altra scelta al di fuori del lavoro domestico e del
matrimonio. Ma per quelle tra noi che sembrano avere altre possibi­
lità - una carriera, un marito “illuminato”, la vita organizzata in co­
muni, rapporti omosessuali o un insieme di tutte queste cose - non ci
sembra che farebbe molta differenza. Crediamo di poter raggiungere
l’indipendenza economica in altri modi, e l’ultima cosa che vogliamo è
ottenerla identificandoci come casalinghe, un destino che, siamo tutte
d’accordo, è, per così dire, peggiore della morte. Il problema in que­
sto caso è che nella nostra immaginazione, sommiamo un po’ di soldi
alla vita grama che facciamo e poi ci chiediamo: “Che differenza fa?”,
partendo dal falso presupposto che sia possibile ottenere questi soldi
senza rivoluzionare - nel processo della nostra lotta - tutti i nostri
rapporti sociali e familiari. Ma se consideriamo il salario al lavoro do-
32 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
mestico come una prospettiva politica, ci rendiamo conto che questa
lotta produrrà una rivoluzione nella nostra vita e nel nostro potere
sociale in quanto donne. È anche chiaro che se pensiamo che “non
abbiamo bisogno” di questi soldi è perché abbiamo accettato le forme
di prostituzione del nostro corpo e della nostra mente con le quali ci
procuriamo i soldi che nascondono questo bisogno. Come cercherò di
dimostrare, il salario per il. lavoro domestico non solo è una prospet­
tiva rivoluzionaria, ma anche l’unica prospettiva rivoluzionaria daTun
punto di vista femminista.

“Un lavoro d’amore”


E importante riconoscere che quando parliamo di lavoro domestico
non parliamo di un lavoro come gli altri, ma della più grossa manipo­
lazione, della più sottile e mistificata violenza che il capitale abbia mai
perpetrato contro un settore della classe operàia. Certo, nel capitali­
smo ogni lavoratore e ogni lavoratrice è manipolato e sfruttato e il suo
rapporto con il capitale è completamente mistificato. Il salario crea
l’impressione di un scambio equo: tu lavori e vieni pagato. Quindi tu
e il tuo padrone siete uguali, mentre in realtà il salario piuttosto che
pagare il lavoro che fai, nasconde tutto il lavoro non pagato che si tra­
duce in profitto. Ma almeno,TTsalario riconosce che^rùnl^oraforc^è
puoi contrattare le condizioni del lavoro e l’ammontare del tuo salario,
e puoi lottare contro le condizioni e la durata di questo lavoro. Avere
un salario significa essere parte di un contratto sociale e non ci sono
dubbi circa il suo significato: tu lavori non perché ti piace o ti viene
naturale, ma perché è l’unica condizione^ cui ti è permesso di vivere.
Ma per quanto fu possa essere sfruttato, tu non sei quel lavoro. Oggi
sei un postino, domani un camionista. L’unica cosa che conta è quanto
lavoro devi fare e quanti soldi riesci a prendere.
Nel caso del lavoro domestico, la situazione è qualitativamente
diversa. La differenza consiste nel fatto che il lavoro domestico non
solo è stato, imposto alle donne, ma anche trasformato in un attributo
naturale del nostro corpo e della nostra personalità femminile, un’esi­
genza interiore, un’aspirazione, che si suppone derivi dahprofondo
della nostra natura. Il lavoro domestico è stato trasformato in un at­
tributo naturale e non riconosciuto come contratto sociale, perché era
destinato a non essere retribultorn~capitaIe~ha dovuto convincerci
che si tratta di un’attività naturale, inevitabile e persino gratificante
SALARIO PER IL LAVORO DOMESTICO 33
per farci accettare di lavorare senza salario. A sua volta, il fatto che
il lavoro domestico non fosse retribuito, è stato il mezzo più potente
per rafforzare l’opinione comune secondo la quale esso non è lavoro,
impedendo alle donne di lottare contro di esso, se non durante le liti
familiari che l’intera società è concorde nel ridicolizzare, svilendo così
ancora di più le protagoniste di queste lotte. Siamo viste come bisbe­
tiche, non come lavoratrici in lotta.
In realtà, quanto poco naturale sia essere una casalinga è dimostra­
to dal fatto che ci vogliono almeno venti anni di socializzazione, un
tirocinio giornaliero diretto da una madre senza salario, per preparare
una donna a questo ruolo, e per convincerla che figli e marito sono
il meglio che può aspettarsi dalla vita. E anche così, difficilmente ha
successo. Per quanto possiamo essere ben addestrate, sono poche le
donne che non si sentono ingannate quando, passato il giorno del
matrimonio, si trovano davanti a un lavandino sporco. Molte di noi
si illudono ancora di sposarsi per amore. Molte di noi riconoscono
che ci sposiamo per soldi e per avere una sicurezza. Ma va detto che
l’amore e i soldi che otteniamo sono ben poca cosa, mentre il lavoro
che ci attende è enorme. E per questo che le donne più anziane ci di­
cono sempre: “Goditi la tua libertà fin che puoi, comprati ora quello
che vuoi”. Ma sfortunatamente è quasi impossibile godere di alcuna
libertà se fin dai primissimi giorni di vita ci insegnano a essere docili,
servizievoli, sottomesse e, ciò che più importa, pronte a sacrificarci e
persino a trarne piacere. Se tutto questo non ci piace è un nostro pro­
blema, un nostro fallimento, una nostra colpa, una nostra anormalità.
Dobbiamo ammettere che il capitale ha saputo nascondere molto
bene il nostro lavoro. Ha creato un autentico capolavoro sulla pelle
delle donne. Negando un salario al lavoro domestico e trasformando
questo lavoro in un atto d’amore, il capitale ha preso due piccioni con
una fava. Innanzitutto ha ottenuto un’enorme quantità di lavoro pres­
soché gratuito e si è assicurato che le donne, anziché lottare contro di
esso, vi aspirassero come fosse la cosa migliore nella vita (le magiche
parole: “Sì, cara, sei una vera donna”). Nello stesso tempo, ha anche
disciplinato il lavoratore maschio, rendendo la “sua” donna dipen­
dente dal suo lavoro e dal suo salario, e lo ha ingabbiato in questa di­
sciplina, dandogli una serva per compensarlo di aver servito per tante
ore in fabbrica o in ufficio. E nostro ruolo di donne, infatti, è quello
di essere le serve non pagate ma felici e soprattutto amorevoli della
classe operaia, e cioeTdi quegli strati dei proletariato a cui il capitale
è stato costretto a concedere quote crescenti di potere sociale. Nello
34 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

stesso modo in cui Dio ha creato Èva per far piacere ad Adamo, così
il capitale ha creato la casalinga per servire fisicamente, emotivamente
e sessualmente il lavoratore maschio, per allevare i suoi figli, rammen­
dare i suoi calzini, tirargli su il morale quando è a terra a causa del
lavoro e dei rapporti sociali (che sono rapporti di solitudine) che il
capitale gli ha riservato. Ed è proprio questa particolare combinazio­
ne di servizi fisici, emotivi e sessuali, impliciti nel ruolo che le donne
devono assumere per il capitale, che crea il carattere particolare di
quella serva che è la casalinga e rende il suo lavoro così opprimente e
allo stesso tempo così invisibile. Non è un caso, quindi, se la maggior
parte degli uomini cominciano a pensare di sposarsi appena hanno
il loro primo lavoro. Questo non è solo perché adesso possono per­
metterselo, ma perché avere qualcuno a casa che si prende cura di te
è l’unica condizione per non impazzire dopo un giorno trascorso alla
catena di montaggio o alla scrivania. Ogni donna sa che questo è quel­
lo che deve fare per essere una vera donna e perché il suo matrimonio
“riesca”. E anche in questo caso, tanto più povera è la famiglia tan­
to più pesante è l’asservimento della donna, e non solo a causa della
condizione economica. Il capitale ha una doppia politica: una per la
famiglia di classe media e una per la famiglia proletaria. Non è un caso
se è nella famiglia proletaria che troviamo il machismo più aperto:
tanti più colpi l’uomo riceve al lavoro tanto più sua moglie dovrà es­
sere allenata ad assorbirli, e tanto più gli sarà permesso di ricostruire
il suo equilibrio a spese di lei. Quando sei frustrato o particolarmente
stanco dal lavoro, o quando sei stato sconfitto nella lotta (ma anda­
re in fabbrica è di per sé una sconfitta) picchi tua moglie e sfoghi
la tua rabbia su di lei. Quanto più l’uomo è servo ed è comandato,
tanto più comanda. Come si dice, la casa di un uomo è la sua reggia e
sua moglie deve saper aspettare in silenzio quando lui è di malumore,
deve tirarlo su di morale quando è scoraggiato e maledice il mondo e
deve imparare a girarsi dall’altra parte quando lui dice “stasera sono
troppo stanco” o quando fa l’amore così velocemente che, come ha
detto una volta una donna, tanto vale che lo faccia con un barattolo di
maionese. Certo, le donne hanno sempre trovato il modo di ribellarsi
o di fargliela pagare, ma sempre in modo isolato, all’interno della pro­
pria casa. Il problema allora è come portare queste lotte nelle strade,
fuori dalle cucine e dalle stanze da letto.
Questo imbroglio che va sotto il nome di amore e di matrimonio
ci coinvolge tutte, anche se non siamo sposate, perché una volta che il
lavoro domestico è stato completamente naturalizzato e sessualizzato,
SALARIO PER IL LAVORO DOMESTICO 35
una volta che è diventato un attributo femminile, tutte noi in quan­
to donne ne siamo segnate. Se è naturale fare certe cose, allora ci si
aspetta che tutte le donne le facciano e persino che gli piaccia farlo.
E questo vale anche per quelle donne che, grazie alla loro posizione
sociale, potrebbero evitare parte o gran parte di questo lavoro, perché
i loro mariti possono permettersi domestiche e psicoanalisti, e conce­
dersi altre forme di distrazione e divertimento. Possiamo anche non
servire un uomo in particolare, ma siamo tutte in un rapporto subor­
dinato nei confronti dell’intero mondo maschile. “Sorridi tesoro, cosa
c’è che non va?” è una cosa che ogni uomo si sente autorizzato a chie­
derti, che sia tuo marito, il bigliettaio sul treno o il tuo capo al lavoro.

La prospettiva rivoluzionaria
Se partiamo da questa analisi possiamo vedere le implicazioni ri-
„ voluzionarie della richiesta di salario per il lavoro domestico. E la ri-
, chiesta mediante la quale la nostra natura finisce e inizia la nostra lotta,
( perché volere salario per il lavoro domestico significa già rifiutare questo
( lavoro come espressione della nostra natura e quindi rifiutare proprio
1 quel ruolo femminile che il capitale ha inventato per noi.
La stessa richiesta di un salario per il lavoro domestico indebolirà
ciò che la società si aspetta da noi, poiché queste aspettative - l’essen­
za della nostra socializzazione - sono funzionali alla nostra condizio­
ne di lavoratrici domestiche non salariate. In questo senso è assurdo
paragonare la lotta delle donne per il salario alla lotta degli operai
maschi nelle fabbriche per avere più salario. Quando l’operaio sala­
riato lotta per avere un aumento salariale attacca il suo ruolo sociale
ma ne rimane all’interno. Quando noi lottiamo per il salario lottiamo
direttamente e senza ambiguità contro il nostro ruolo sociale. C’è una
^differenza quaHtativa tra le lotte del lavoratore salariato ,ele.lotte^^
10 schlàvoljer un salarid cdnffo 1^cHla^iri57Peve comunque essere
chiaro che quando lottiamo per il salarionon lottiamo per entrare nei
rapporti di produzione capitalistici, perché non ne siamo mai state
fuori. Lottiamo per distruggere il piano del capitale sulle donne, che
è un momento essenzlale di quella divisione del lavoro e della classe
operaia che ha permesso al capitalismo di mantenere il suo potere.
11 salario per il lavoro domestico è, dunque, una richiesta rivoluzio­
naria non perché di per sé distrugge il capitale, ma perché attacca il
capitale e lo costringe a ristrutturare i rapporti sociali in termini più
36 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

favorevoli anqi e quindi più favorevoli all’unità della classe. Chiedere


IT salario per il lavoro domestico non significa dire cheTse ci pagano
continueremo a farlo. Significa esattamente il contrario. Dire che vo­
gliamo salario per il lavoro domestico è il primo passo per rifiutarlo,
perché la richiesta di s|dario rende visibile il nostro lavoro. E questa è
la condizione indispensabile per cominciare a lottare contro di esso,
sia nel suo aspetto più immediato di lavoro domestico che nel suo
carattere più insidioso di “femminilità”.
Contro ogni accusa di “economicismo” ricordiamo che il denaro è
l’essenza del capitale, cioè del potere di comando sul lavoro. Quindi
riappropriarci di quel denaro, che è il frutto del nostro lavoro - e del
lavoro delle nostre madri e delle nostre nonne - significa al tempo
stesso ridurre il potere che il capitale ha di estrarre da noi altro lavoro.
Inoltre non dobbiamo sottovalutare la capacità del denaro di demi­
stificare la nostra femminilità e rendere visibile il nostro lavoro - la
nostra femminilità come lavoro - dal momento che la mancanza di
un salario ha avuto un effetto così potente nel costruire questo ruolo
e nascondere il nostro lavoro. Chiedere il salario per il lavoro dome­
stico significa rendere visibile che la nostra mente, il nostrojzoxpQ, e
le nostre emozioni sono state distorte per una funzione specifica, in
una funzione specifica, e ci sono state poi ributtate contro come un
modello al quale dobbiamo conformarci se vogliamo essere accettate
come donne in questa società.
Dire che vogliamo il salario per il lavoro domestico significa de­
nunciare che il lavoro domestico è già denaro per il capitale, che il
capitale ha fatto e continua a fare soldi sul nostro cucinare, sorridere,
fare l’amore. Nello stesso tempo mostra che abbiamo cucinato, sor­
riso e fatto l’amore per anni, non perché fosse per noi più facile che
per altri, ma perché non avevamo altra scelta. Le nostre facce si sono
sformate a forza di sorridere, i nostri sentimenti si sono persi in tanto
amare, la nostra ultra-sessualizzazione ci ha lasciato completamente
desessualizzate.
Il salario per il lavoro domestico è soltanto l’inizio ma il suo mes­
saggio è chiaro: d’ora in poi ci dovranno pagare perché come donne
non garantiamo più niente. Vogliamo chiamare lavoro ciò che è la­
voro, in modo da poter scoprire che cosa è l’amore e creare quella
che sarà la nostra sessualità che non abbiamo mai conosciuto. E, da
questo punto di vista possiamo chiedere non uno ma più salari perché
siamo state costrette a fare molti lavori nello stesso tempo. Siamo ca­
meriere, prostitute, infermiere; questa è l’essenza dell’eroica sposa che
SALARIO PER IL LAVORO DOMESTICO 37

si celebra con la “festa della mamma”. Noi diciamo basta: smettetela


di celebrare il nostro sfruttamento, il nostro presunto eroismo. D’ora
in poi vogliamo soldi per ogni momento del nostro lavoro così da po­
terlo rifiutare in parte o completamente. In questo senso, niente può
essere più efficace del mostrare che le nostre virtù femminili hanno un
valore calcolabile in denaro. Un valore che è stato fino a oggi solo per
il capitale, cresciuto proporzionalmente alla nostra sconfitta, e d’ora
in poi sarà contro il capitale, per noi, nella misura in cui organizziamo
il nostro potere.

La lotta sui servizi sociali


Il salario è la prospettiva più rivoluzionaria che possiamo adot­
tare perché, anche se chiediamo asili per i bambini, parità salariale,
lavanderie gratuite non otterremo mai un reale cambiamento se non
attacchiamo alla radice il nostro ruolo femminile. La nostra lotta per
i servizi sociali, cioè per migliori condizioni di lavoro, sarà sempre
frustrata se prima non stabiliamo che il nostro lavoro è lavoro. Se non
lottiamo contro il lavoro domestico nella sua totalità, non raggiun­
geremo mai nessuna vittoria in merito a nessuno degli aspetti che lo
caratterizzano. Non otterremo le lavanderie gratuite se non lottiamo
prima contro il fatto che non possiamo amare se non al prezzo di
un infinito lavoro che giorno dopo giorno distrugge il nostro corpo,
la nostra sessualità e i nostri rapporti sociali. E se prima non ci sot­
traiamo al ricatto per cui il nostro bisogno di dare e ricevere affetto
ci viene ritorto contro come un obbligo di lavoro, a causa del quale
proviamo costantemente risentimento per i nostri mariti, per i nostri
figli e amici, un risentimento che a sua volta ci fa sentire in colpa. Un
secondo lavoro non cambia le cose, come dimostrano anni e anni di
lavoro femminile fuori casa. Il secondo lavoro non solo aumenta il
nostro sfruttamento ma riproduce il nostro ruolo in forme diverse.
Ovunque volgiamo lo sguardo possiamo vedere che i lavori creati per
le donne sono una semplice estensioni della condizione della casalin­
ga in tutte le sue articolazioni. Cioè non solo diventiamo infermiere,
cameriere, insegnanti, segretarie - tutte funzioni alle quali siamo state
addestrate in famiglia - ma ci troviamo di fronte alle stesse difficoltà
che frenano le nostre lotte in casa: l’isolamento, il fatto che la vita di
altre persone dipende da noi, l’impossibilità di vedere dove comincia
e finisce il nostro lavoro, dove il nostro lavoro finisce e cominciano i
38 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

nostri desideri. Portare il caffè al tuo capoufficio e chiacchierare con


lui dei suoi problemi personali è un lavoro da segretaria o un favore
personale? E il fatto che dobbiamo preoccuparci del nostro aspetto
sul posto di lavoro è una condizione di lavoro o un effetto della vanità
femminile? Fino a poco tempo fa le hostess delle linee aeree statuni­
tensi venivano periodicamente pesate e dovevano stare costantemente
a dieta - una tortura che tutte le donne conoscono - per paura di
essere licenziate. Come si dice spesso quando le esigenze del mercato
salariato ne richiedono la presenza, “una donna può fare qualsiasi la­
voro senza perdere la sua femminilità”, il che significa semplicemente
che qualunque cosa una donna faccia rimane sempre una “fica”.
Per quanto riguarda la proposta di specializzazione e collettiviz­
zazione del lavoro domestico, un paio di esempi saranno sufficienti
a mostrare le dirrerenze tra queste alternative e la nostra prospettiva.
Una cosa è mettere in piedi un asilo così come lo vogliamo e chiedere
che lo stato paghi per questo. Altra cosa è affidare i nostri figli allo
stato e chiedergli di controllarli, educarli non per cinque ma per quin­
dici o ventiquattro ore al giorno. Una cosa è organizzare in comune
come vogliamo mangiare (da sole o in gruppo) e poi chiedere allo
stato di pagarci per questo, la cosa opposta è chiedere allo stato di
organizzarci i pasti. In un caso recuperiamo parte del controllo sulla
nostra vita, nell'altro estendiamo il controllo dellp stato su di noi.

ha lotta contro il lavoro domestico


Alcune donne dicono: come farà il salario al lavoro domestico a
cambiare l’atteggiamento dei nostri mariti? Non si aspetteranno gli
stessi servizi di prima, anzi più di prima dal momento che siamo pa­
gate? Queste donne non vedono che gli uomini si aspettano così tanto
da noi proprio perché non siamo pagate per il lavoro che facciamo,
perché consideriamo questo lavoro “una cosa da donne” che non
ci costa molta fatica. Gli uomini possono accettare i nostri servizi e
goderne perché pensano che per noi il lavoro domestico sia facile,
pensano che ci piaccia, perché lo facciamo per amor loro. In effetti si
aspettano che gli siamo grate perché sposandoci, o vivendo con noi,
ci hanno dato la possibilità di esprimerci come donne (cioè di servir­
li). Dicono: “Sei fortunata ad aver trovato un uomo come me”. Solo
quando gli uomini vedranno il nostro lavoro come lavoro, il nostro
amore come lavoro, e soprattutto la nostra determinazione a rifiuta-
SALARIO PER IL LAVORO DOMESTICO 39

re entrambi, cambieranno il loro atteggiamento nei nostri confronti.


Solo quando migliaia di donne scenderanno in strada e annunceran-
no che continuare a pulire, essere sempre affettivamente disponibili,
scopare a comando per paura di perdere il posto di lavoro, è lavoro
duro, odioso che consuma le nostre vite, gli uomini si spaventeranno
e sentiranno il loro potere minacciato. Ma questa è la cosa migliore
che gli possa capitare, perché denunciando il modo in cui il capita­
le ci ha separato (il capitale ha disciplinato loro attraverso noi e noi
attraverso loro), noi - il loro sostegno, le loro schiave, le loro cate­
ne - apriamo il processo della loro liberazione. In questo senso, il
salario al lavoro domestico servirà a educarli molto più che cercar di
dimostrare che siamo capaci di lavorare come loro, e possiamo fare gli
stessi lavori. Lasciamo questi meritevoli sforzi alle donne che voglio
“la carriera”, cioèje donne che fuggono il proprio^uttam^ito_non
attraverso Punita della lotta ma attraverso il potere del padrone, ilB^P-Pfe-
potere di sfruttare altre donne. E non abbiamo bisogno di dimòstlare
che possiamo “indossare le tute operaie”. Molte di noi lo hanno già
fatto da molto tempo, e hanno scoperto che la tuta non gli dava più
potere del grembiule da cucina, se possibile anche di meno, perché
ora dovevano indossarli tutti e due, avevano quindi meno tempo e
forza per lottare contro entrambi. Quello che dobbiamo provare è la
nostra capacità di rendere visibili ciò che stiamo già facendo, ciò che il
capitale ci sta facendo, e la nostra lotta contro entrambi.
Sfortunatamente, molte donne - soprattutto donne non sposate
- temono l’idea del salario al lavoro domestico perché hanno paura
di identificarsi, anche per un istante, con la casalinga. Sanno che è la
condizione sociale con minore potere nella società e non vogliono fare
i conti con il fatto che sono casalinghe anche loro. Ma proprio qui sta
la nostra debolezza, perché il fatto che non ci identifichiamo con que­
sta condizione mantiene e perpetua il nostro asservimento. Vogliamo
e dobbiamo dire che siamo tutte casalinghe, che siamo tutte prostitute
e tutte resbiché, pef ché finché accettiamo le divisioni e pensiamo di
essere qualcosa Hi mégho, di differente da una casaMga,aceettiamola’
logica del padrone. Inamo tutte casalinghe pèféheT'dofunque siamo,
o si aspettaÌITnoÌ’più lavoro, più paura nell’avanzare le nostre richie­
ste e meno combattività, perché si pensa che le nostre menti siano
rivolte altrove, a quell’uomo nel nostro presente o nel nostro futuro
che “si prenderà cura di noi”.
Ci illudiamo anche quando pensiamo di poterci sottrarre al lavoro
domestico. Ma quante di noi sono riuscite a evitarlo realmente nono-
40 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
stante lavorassero fuori casa? E possiamo davvero così facilmente ab­
bandonare l’idea di vivere con un uomo? Cosa succede se perdiamo
il posto di lavoro? Come la mettiamo quando invecchiamo e perdia­
mo anche quel minimo di potere che la giovinezza (la produttività) e
l’essere attraenti (la produttività femminile) ci offrono oggi? E come
la mettiamo rispetto ai figli? Ci pentiremo mai di aver deciso di non
averne, di non essere state nemmeno capaci di porci la domanda in
modo realistico? E possiamo permetterci rapporti omosessuali? Sia­
mo disposte a pagarne il prezzo in termini di isolamento ed esclu­
sione? Ma possiamo permetterci veramente di avere rapporti con gli
uomini?
La questione è: perché queste sono le nostre uniche alternative, e
che tipo di lotta ci permetterà di superarle?
Perché Fattività sessuale è lavoro

L’attività sessuale è la liberazione che ci viene concessa dalla di­


sciplina del lavoro. E il complemento necessario alla routine e all’ir-
reggimentazione della settimana lavorativa. E il permesso a “essere
naturali”, a “lasciarci andare”, in modo da poter tornare più riposa­
te lunedì al lavoro. “Sabato notte” è l’irruzione dello “spontaneo”,
dell’irrazionale nella razionalità che la disciplina capitalistica impone
alla nostra vita. E il compenso per il lavoro e ci viene venduto sul
piano ideologico come F”altro” dal lavoro: uno spazio di libertà in cui
possiamo presumibilmente essere noi stesse e avere rapporti intimi,
“veri”, in un mondo di rapporti sociali in cui siamo costantemente
costrette a reprimere, rimandare e nascondere, anche a noi stesse, ciò
che desideriamo.
Questa è la promessa, ma ciò che in realtà otteniamo è lontano
dalle nostre aspettative. Come non possiamo tornare alla natura sem­
plicemente togliendoci i vestiti, così non diventiamo “noi stesse” sem­
plicemente perché è il momento di fare l’amore. Ben poca spontaneità
è possibile quando i tempi, le condizioni e la quantità di energia di­
sponibile per fare l’amore sono fuori dal nostro controllo. Dopo una
settimana di lavoro i nostri corpi e le nostre emozioni sono intorpiditi
e non possiamo metterli in movimento come macchine. E ciò che esce
fuori quando ci “lasciamo andare” è più spesso la nostra frustrazione
repressa e la violenza che il nostro io nascosto è pronto a far rinascere
a letto.
Tra le altre cose, siamo sempre consapevoli che si tratta di una
falsa spontaneità. Per quanti gemiti, sospiri ed esercizi erotici faccia­
mo a letto, sappiamo che si tratta di una parentesi e che domani ci
ritroveremo nei nostri abiti civili (prenderemo il caffè insieme prima
di andare a lavorare). Tanto più siamo consapevoli che si tratta di una
42 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

parentesi che il resto della giornata o della settimana annullerà, tanto


più diventa difficile per noi trasformarci in “selvaggi” e “dimentica­
re tutto”. E non possiamo evitare di sentirci a disagio. E lo stesso
imbarazzo che proviamo quando ci spogliamo sapendo che faremo
l’amore, l’imbarazzo del mattino dopo, quando già ci affrettiamo a ri­
stabilire le distanze; l’imbarazzo (infine) di pretendere di essere com­
pletamente diversi da quello che siamo nel resto della giornata. Que­
sto passaggio è particolarmente doloroso per le donne. Gli uomini
sembrano esserne più esperti, forse perché sono stati sottoposti a una
più severa regimentazione nel lavoro. Le donne si sono sempre chieste
come fosse possibile che dopo una notte di passione, “lui” potesse al­
zarsi già in un mondo diverso, a volte così distante da rendere difficile
ristabilire anche un rapporto fisico con lui. In ogni caso, sono sempre
le donne che soffrono di più il carattere schizofrenico dei rapporti ses­
suali, non solo perché si arriva alla fine della giornata con più lavoro
e più preoccupazioni sulle nostre spalle, ma perché abbiamo anche la
responsabilità di rendere l’esperienza sessuale piacevole per l’uomo. E
per questo che le donne sono di solito meno reattive sessualmente che
gli uomini. Il sesso per noi è lavoro, è un dovere. Il dover piacere è
così costitutivo della nostra sessualità che abbiamo imparato a godere
del dare piacere, dell’essere capaci di eccitare gli uomini.
Proprio perché da noi gli uomini si aspettano che gli diamo piace­
re, inevitabilmente diventiamo l’oggetto su cui scaricano la loro vio­
lenza repressa. Veniamo stuprate nei nostri letti e nelle strade, perché
ci è stato imposto di provvedere al loro godimento sessuale: la valvola
di sicurezza per tutto ciò che va male nella vita di un uomo. Gli uo­
mini sono sempre stati autorizzati a dirigere la loro rabbia contro di
noi se non siamo all’altezza del ruolo e soprattutto se ci rifiutiamo di
assolverlo.
La compartimentazione è solo un aspetto della mutilazione della
nostra sessualità. La subordinazione della nostra sessualità alla ripro­
duzione della forza lavoro ha fatto sì che l’eterosessualità ci sia stata im­
posta come il solo comportamento sessuale accettabile. In realtà, ogni
comunicazione vera ha una componente sessuale. I nostri corpi e le
nostre emozioni sono indivisibili e comunicano sempre su tutti i livelli.
Ma il contatto sessuale con le donne è vietato perché, nella morale bor­
ghese, tutto ciò che è improduttivo è osceno, innaturale, perverso. Ciò
significa che siamo costrette a rapporti schizofrenici, perché presto nel­
la vita dobbiamo imparare a distinguere le persone che possiamo ama­
re da quelle con cui possiamo solo parlare, quelle a cui possiamo aprire
PERCHÉ L’ATTIVITÀ SESSUALE È LAVORO 43

il nostro corpo e quelle a cui possiamo aprire solo le nostre “anime”,


gli amanti e gli amici. Il risultato è che finiamo per essere anime senza
corpo per le nostre amiche e carne senz'anima per i nostri amanti. E
questa divisione ci separa non solo dalle altre donne ma da noi stesse,
nel senso di ciò che accettiamo o non accettiamo dei nostri corpi e dei
nostri sentimenti: le parti “pulite” che sono visibili, e quelle “sporche”,
“segrete” che possono essere mostrate (e tornare quindi a essere pulite)
solo “sul luogo di produzione”, nel letto coniugale.
La stessa preoccupazione per la produzione ha fatto sì che la ses­
sualità, soprattutto nelle donne, fosse limitata a determinati periodi
della nostra vita. La sessualità è repressa nei bambini e negli ado­
lescenti, come anche nelle donne anziane. Così, gli anni in cui ci è
concesso di essere sessualmente attive sono gli anni in cui siamo più
gravate dal lavoro, quando godere dei nòstri incontri sessuali diventa
un’impresa.
Ma la ragione principale per cui non siamo in grado di godere
del piacere che l’attività sessuale può procurare è che per le donne
il sesso è lavoro. Dare piacere all’uomo è una parte essenziale di ciò
che ci si aspetta da ogni donna. La libertà sessuale non aiuta. Certo è
importante che non siamo lapidate se siamo “infedeli” o se si scopre
che non siamo “vergini”. Ma la “liberazione sessuale” ha intensificato
il nostro lavoro. In passato, ci si aspettava solo che allevassimo i figli.
Adesso ci si aspetta che abbiamo un lavoro salariato, che puliamo la
casa e facciamo figli e, al termine di una doppia giornata di lavoro,
siamo pronte a saltare sul letto ed essere sessualmente attraenti. Per
le donne il diritto di avere rapporti sessuali è il dovere di fare sesso e
di provare piacere (cosa che non ci si aspetta nella maggior parte dei
posti di lavoro). E per questo che negli ultimi anni ci sono state tante
indagini su quale parte del nostro corpo - la vagina o il clitoride - fos­
se sessualmente più produttiva.
Liberata o repressa, la nosjtra sessualità è ancora sotto controllo.
La legge, la medicina e la nostra dipendenza economica dagli uomini,
garantiscono che, anche se le regole si allentassero, non ci può essere
spontaneità nella nostra vita sessuale. La repressione sessuale all’inter­
no della famiglia è una funzione di fale controllo. Padri, fratelli, mariti
e magnaccia hanno sempre agito come agenti dello stato, garantendo
che le nostre prestazioni sessuali rispettassero le norme di produttività
stabilite e socialmente sanzionate.
La dipendenza economica è la principale forma di controllo sulla
nostra sessualità. Non a caso, il lavoro sessuale è ancora una delle
44 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

principali fonti di impiego per le donne e la prostituzione contrasse­


gna ogni incontro sessuale. In queste condizioni non ci può essere per
noi alcuna spontaneità nel sesso, ed è per questo che il piacere è così
effimero nella nostra vita sessuale.
Proprio perché vi è implicito uno scambio, la sessualità per noi è
sempre accompagnata da ansia, ed è senza dubbio tra i lavori domè­
stici quello maggiormente responsabile dell’odio che spesso proviamo
per noi stesse. Inoltre, la commercializzazione del corpo femminile ci
rende impossibile sentiroLamostro agio con il nostro corpo indipen­
dentemente dalla sua forma o fattezza. Nessuna donna può allegra­
mente spogliarsi di fronte a un uomo sapendo che non solo il suo cor­
po sarà valutato, ma che esistono degli standard per il corpo femmi­
nile di cui tutti, uomini e donne, sono consapevoli, poiché sono bene
in evidenza dappertutto, intorno noi, su tutti i muri delle nostre città
e sugli schermi televisivi. La consapevolezza che, in qualche modo, ci
vendiamo ha distrutto la nostra fiducia e il piacere per il nostro corpo.
Questo è il motivo per cui, sia che siamo magre o grassottelle, con
il naso lungo o corto, alte o basse, tutte odiamo il nostro corpo. Lo
odiamo perché siamo abituate a guardarlo dal di fuori, con gli occhi
degli uomini che incontriamo e con in mente il mercato su cui è co­
stantemente venduto. Lo odiamo perché siamo abituate a pensarlo
come una cosa da vendere, una cosa alienata e sempre in vendita.
Lo odiamo perché sappiamo che molto dipende dal nostro corpo.
Da come il nostro corpo si presenta dipende se potremo ottenere un
buon lavoro (nel matrimonio o fuori di casa), se avremo potere so­
ciale, se avremo compagnia e potremo sconfiggere la solitudine che
ci attende nella vecchiaia e spesso anche nella giovinezza. E temiamo
sempre che il nostro corpo possa rivoltarsi contro di noi, possiamo di­
ventare grasse, rugose, invecchiare velocemente, e perdere così il no­
stro diritto alla intimità e la possibilità di essere toccate o abbracciate.
In breve, siamo troppo occupate a recitare, troppo occupate a pia­
cere, abbiamo troppa paura di fallire per poter godere nel fare l’amore.
In ogni rapporto sessuale è in gioco il senso del nostro valore. Se un
uomo dice che facciamo bene l’amore, che lo eccitiamo, ci sentiamo
gratificate anche se non ci piace fare l’amore con lui. E una cosa che
aumenta il nostro senso di potere, anche se sappiamo che dopo dovre­
mo comunque fare i piatti. Ma non ci è mai permesso di dimenticare
lo scambio in gioco, perché nei nostri rapporti amorosi con un uomo
non siamo mai fuori da un rapporto di valore. “Quanto? “ E la doman­
da che sempre governa l’esperienza della nostra sessualità. La maggior
PERCHÉ L’ATTIVITÀ SESSUALE È LAVORO 45
parte dei nostri incontri sessuali sono spesi in calcoli. Sospiriamo, ge­
miamo, ansimiamo, saltiamo su e giù nel letto, ma intanto la nostra
mente continua a calcolare “quanto”: quanto di noi stesse possiamo
dare prima di svenderci, quanto potremo ottenere in cambio? Se è il
nostro primo appuntamento il “quanto” è quanto possiamo permet­
tergli di ottenere: può alzare la gonna, aprire la camicetta, mettere le
dita sotto il reggiseno? A che punto dovremmo dirgli “stop!”? Come
quanta forza dobbiamo rifiutarlo? A che punto possiamo dirgli che ci
piace prima che cominci a pensare che siamo “a buon mercato”?
Mantenere alto il prezzo, questa è la regola, almeno quella che ci
e stata insegnata. Se siamo già a letto 1 calcoli diventano ancora piu
complicati, perché dobbiamo anche calcolare che probabilità abbia­
mo di rimanere incinte, il che significa che mentre sospiriamo, ansi­
miamo e diamo mostra della nostra passione, dobbiamo anche scor­
rere rapidamente il calendario del nostro ciclo mestruale. Ma fingere
entusiasmo durante l’atto sessuale, in assenza di un orgasmo, è un
lavoro in più e un lavoro duro, perché quando fingi, non sai mai fino
a che punto andare e finisci sempre per fare di più, per paura di non
fare abbastanza.
Ci sono volute molte lotte e il raggiungimento di un certo grado
di potere per cominciare finalmente ad ammettere che non stava ac­
cadendo nulla.
Contropiano dalle cucine1
(con Nicole Cox)

A partire da Marx è stato chiaro che il capitale comanda e


si sviluppa attraverso il salario. Il fondamento della società
capitalistica è il lavoratore salariato e il di lui o di lei diretto
sfruttamento. Non è stato altrettanto chiaro, né è stato mai
assunto dalle organizzazioni del movimento operaio, che
proprio attraverso il salario viene organizzato lo sfruttamen­
to del lavoratore non salariato. E che semmai il suo sfrutta­
mento è stato tanto più efficace proprio in quanto nascosto,
mistificato dalla mancanza di un salario [...] Quindi il lavoro
delle donne appariva una prestazione di servizi personali al di
fuori del capitale12.
Non è un caso se negli ultimi mesi parecchi giornali della sinistra
abbiamo pubblicato attacchi contro “Salario al lavoro domestico”.
Ogni volta che il movimento delle donne prende una posizione au­
tonoma, la sinistra si sente minacciata. Oggi si rende conto che la
prospettiva di un salario al lavoro domestico ha implicazioni che van­
no al di là della “questione femminile” e rappresentano una rottura
netta con la sua politica, passata e presente, nei confronti delle don­
ne e del resto della classe operaia. Infatti il settarismo che la sinistra
tradizionale ha dimostrato nei confronti della lotte delle donne è la
conseguenza della sua scarsa comprensione dei modi in cui si esplica
1 Questo saggio è stato scritto originariamente in risposta a un articolo di Carol Lopate -
Wornen and thè Pay for Hausework - apparso suel giornale “Liberation” (18, 8, May-June,
1974, pp. 8-11). L’editore ha respinto la nostra risposta. Abbiamo comunque pensato di
pubblicarla perché l’articolo di Lopate rappresenta, più apertamente di tanti altri, le po­
sizioni della sinistra e il suo rapporto con il movimento femminista internazionale. Gon la
pubblicazione di questo documento non vogliamo però aprire un dibattito con la sinistra,
che sarebbe sterile, ma chiuderlo. Nota delle autrici (1975).
2 Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Venezia 1972, p.
42.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 47

il comando del capitale e della direzione che la lotta di classe deve


prendere per spezzare questo comando.
Nel nome della “lotta di classe” e dell’“interesse generale della
classe operaia” la sinistra ha sempre selezionato alcuni settori del­
la classe operaia come soggetti rivoluzionari e condannato altri a
un mero ruolo di supporto per le lotte che questi settori portavano
avanti, La sinistra ha così riprodotto nei suoi obiettivi organizzativi
e strategici le stesse divisioni di classe che caratterizzano la divisione
capitalistica del lavoro. A questo riguardo, la sinistra è sempre stata
strategicamente unita nonostante la varietà delle sue posizioni tatti­
che. Stalinisti, trotzkisti, anarco-libertari, vecchia e nuova sinistra,
quando si tratta di scegliere i soggetti rivoluzionari, tutti concordano
con le stesse premesse e gli stessi argomenti nella prospettiva di una
causa comune.

Ci offrono “sviluppo”
Poiché la sinistra ha accettato il salario come spartiacque tra lavoro
e non-lavoro, produzione e parassitismo, potere e mancanza di pote­
re, non ha visto l’enorme quantità di lavoro non pagato che le donne
fanno in casa per il capitale. Da Lenin a Juliet Mitchell, passando per
Gramsci, tutta la tradizione della sinistra si è trovata d’accordo sulla
marginalità del lavoro domestico per la riproduzione del capitale, e
sulla mjiiginaHtà della casalinga nel processo rivoluzionario. Secondo
la sinistra, le donne, in quanto casalinghe, non soffrono a causa del
^'capÌRtfé’ma a causa della sua mancanza. Sembra cioè che il nostro
problema sia che il capitale non raggiunge le nostre cucine e le nostre
camere da letto. Da ciò conseguirebbe che rimaniamo a uno stadio
feudale o pre-capitalistico e qualunque cosa facciamo nelle nostre cu­
cine o camere da letto sarebbe irrilevante ai fini di un cambiamento
sociale. Ovviamente, se le nostre cucine sono fuori dal capitale, le no­
stre lotte non riusciranno mai ad abbatterlo.
Perché mai il capitale permetterebbe la sopravvivenza di tanto la­
voro che non genera profitto, di tanto tempo di lavoro non produt­
tivo, è una domanda che la sinistra non si è mai posta, ovviamente
confidando nell’irrazionalità del capitale e nella sua scarsa capacità
di pianificare. Ironicamente, la sinistra ha tradotto la sua ignoranza
della specificità del rapporto donne-capitale in una teoria dell’arre­
tratezza politica delle donne, che può essere superata solo se le donne
48 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

oltrepassano i cancelli della fabbrica. Così, la logica di un’analisi che


riconduce l’oppressione delle donne alla loro esclusioni dai rapporti
capitanstlc la strategia di includerci in tali
rapporti invece che combatterli.
In questo senso c’è un nesso immediato tra la strategia che la si­
nistra propone alle donne e quella che propone al “Terzo mondo”!
Come vogliono portare le donne in fabbrica, così vogliono portare le
fabbriche nel “Terzo mondo”. In entrambi i casi si presuppone che i
“sottosviluppati” - chi non ha un salario e lavora ad un livello tecno­
logico più basso - siano arretrati rispetto alla “vera classe operaia” e
possono equipararsi a questa solo ottenendo un tipo più avanzato di
sfruttamento capitalistico e una quota maggiore di lavoro di fabbrica.
In entrambi i casi, la lotta che la sinistra offre a chi è senza salario, ai
“sottosviluppati”, non è una lotta contro il capitale ma per il capitale,
per uno sfruttamento più razionalizzato e più produttivo. Nel nostro
caso, non solo ci offrono il “diritto al lavoro” (questo lo offrono a
ogni lavoratore), ma il diritto a lavorare di più, il diritto a essere mas-_
giormente sfruttate. .

Un nuovo terreno di lotta


La premessa politica del salario al lavoro domestico è il rifiuto
dell’ideologia capitalistica che equipara la mancanza di salario e un
basso sviluppo tecnologico all’arretratezza politica, alla mancanza di
potere e, in definitiva, al bisogno che il capitale ci organizzi come con­
dizione per poterci organizzare. E il nostro rifiuto di accettare che
siccome siamo senza salario e lavoriamo a un livello tecnologico più
basso (e queste due condizioni sono profondamente connesse) i nostri
bisogni debbano essere diversi da quelli del resto della classe opera­
ia. Rifiutiamo di accettare che mentre un operaio metalmeccanico a
Detroit può lottare contro la catena di montaggio, nelle nostre cucine
nelle metropoli o nei campi del “Terzo mondo”, l’obiettivo della lotta
debba essere quello stesso lavoro di fabbrica che in tutto il mondo i
lavoratori oggi stanno rifiutando in misura sempre crescente. Il nostro
rifiuto dell’ideologia della sinistra non è altro che il nostro rifiuto del
capitalismo qualunque forma esso prenda. Implicita in questo rifiuto
c’è la ridefinizione di cos’è il capitalismo e chi è la classe operaia, cioè
una nuova valutazione delle forze e dei bisogni della classe.
“Salario al lavoro domestico”, dunque, non è una rivendicazione
CONTROPIANO DELLE CUCINE 49

tra le altre, ma è una prospettiva politica che apre un nuovo terreno


di lotta, che parte 33le donne ma coinvolge l’intera classe operaia3.
Questo va evidenziato, poiché un elemento comune negli attacchi del­
la sinistra è la tendenza a ridurre “Salario al lavoro domestico” a una
semplice rivendicazione, che è un modo per screditare questa pro­
spettiva ed evitare di confrontarsi con le questioni politiche che pone.
L’articolo di Carol Lopate: Women and Pay for Housework è esem­
plare in questo senso. Già il titolo - Pay for Housework (Paga per il
lavoro domestico) - misconosce la questione perchéJl salario non è
solo un po’ di denaro ma è l’espressione del rapporto di potere tra
classe operaiae capitale. Un altro modo, più indiretto, in cui Lopate
cerca di screditare “Salario al lavoro domestico” è sostenendo che è
una prospettiva importata dall’Italia e quindi di scarso rilievo per gli
Stati uniti dove le donne “lavorano”4. Questo è un altro esempio di
disinformazione. Potere femminile e sovversione sociale - la sola fonte
citata da Lopate - riconosce la dimensione internazionale da cui ha
avuto origine la prospettiva politica di “Salario al lavoro domestico”.
E, in ogni caso, l’origine geografica di “Salario al lavoro domestico”
è irrilevante alla luce dell’attuale liveho di integrazione internazionale
del capitale. Ciò che conta è la sua genesi politica, che è il rifiuto di
accettare che il lavoro, lo sfruttamento e il potere di rivoltarsi esistono
solo in presenza di un salario. E la fine della divisione tra donne “che
lavorano” e donne “che non lavorano” (che sono solo casalinghe),
cosa che implica che il lavoro non salariato non è lavoro e, parados­
salmente, che solo negli Stati uniti la maggior parte delle donne lavora
e lotta perché ha un secondo lavoro. Ma non vedere il lavoro che le
donne fanno in casa è non vedere il lavoro e le lotte della stragrande
maggioranza della popolazione del mondo che ancora oggi è senza
salario. Vuol dire anche ignorare che il capitale americano è stato co­
struito sul lavoro degli schiavi e che, tutt’ora, prospera sul lavoro non
salariato di milioni di donne e uomini nei campi, nelle cucine, e nelle
prigioni degli Stati uniti e di tutto il mondo.

3 Silvia Federici, Salario contro il lavoro domestico (infra).


4 “La richiesta di una paga per il lavoro domestico viene dall’Italia dove la stragrande mag­
gioranza delle donne di tutte le classi sociali sta a casa. Negli Stati unti, circa la metà delle
donne lavora”, Carol Lopate, Women and thè Pay for Hausework in, in “Liberation”, 8,
May-June 1974, p. 9.
50 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

II lavoro nascosto
Partendo da noi stesse come donne, abbiamo imparato che la gior­
nata lavorativa per il capitale non produce necessariamente una busta
paga, non comincia e finisce ai cancelli della fabbrica, e soprattutto ab­
biamo scoperto la natura e le dimensioni del lavoro domestico. Infatti,
non appena alziamo la testa dai calzini che rammendiamo o dai pasti
che prepariamo e guardiamo alla totalità della nostra giornata lavora­
tiva, ci accorgiamo subito che sebbene il nostro lavoro non produca
un salario per noi stesse, noi produciamo il più prezioso prodotto che
appare sul mercato capitalistico: la forza lavoro. Il lavoro domestico è
molto più che pulire la casa. E servire i lavoratori salariati fisicamen­
te, emotivamente, sessualmente, fare in modo che giorno dopo giorno
siano pronti per il lavoro. E prendersi cura dei nostri bambini - i futu­
ri lavoratori - assistendoli dalla nascita per tutti gli anni della scuola,
assicurandoci che si comportino come ci si aspetta che si comportino
nella società capitalistica. Questo significa che dietro a ogni fabbrica,
scuola, ufficio o miniera c’è il lavoro nascosto di milioni di donne che
hanno consumato la propria vita e il proprio lavoro per produrre la
forza lavoro occupata in queste fabbriche, scuole, uffici o miniere5.
E per questo che ancora oggi, sia nei paesi “sviluppati” che in
quelli “sottosviluppati”, il lavoro domestico e la famiglia sono i pila­
stri della produzione capitalista. La disponibilità di forza làvòro sta-~
bile e ben disciplinata è una condizione essenziale per la produzione,
ad ogni stadio dello sviluppo capitalistico. JLe condizioni del nostro
. lavoro variano da paese a paese. In alcuni paesi siamo obbligate a una
produzione intensiva di bambini, in altri ci viene detto di non pro­
creare, soprattutto se siamo nere, se riceviamo sussidi dallo stato, e se
abbiamo la tendenza a riprodurre “ribelli”. In alcuni paesi producia­
mo lavoro non qualificato per i campi, in altri lavoratori qualificati e
tecnici. Ma in ogni paese facciamo essenzialmente lo stesso lavoro non
^salariato e svolgiamo la stessa funzione per il capitale. " "
5 ' Mariarosa dalla Costa, Quartiere, storia e fabbrica dal punto di vista della donna, in “Qua-
• demi di lotta femmista”, 1, L’offensiva, Musolino editore, Torino 1972, pp. 26-27. “Il
quartiere è essenzialmente il luogo delle donne nel senso che le donne vi appaiono e vi
; spendono direttamente il loro lavoro. Ma la fabbrica è altrettanto il luogo in cui è incor­
porato il lavoro delle donne, che non vi appaiono e che l’hanno trasferito negli uomini
che appaiono lavorarvi direttamente. Così come nella scuola è incorporato il lavoro delle
donne che non vi appaiono e che l’hanno trasferito negli studenti che si ripresentano ogni
mattina, nutriti, accuditi e stirati da madri, nonne e sorelle e (nei casi delle famiglie più
. abbienti) donne di servizio”.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 51
Avere un secondo lavoro non ci ha mai liberato dal primo. Due la­
vori, per le donne, hanno solo significato meno tempo e meno energie
per lottare contro entrambi. Inoltre, una donna, che lavori a tempo
pieno in casa o fuori, che sia sposata o single, deve spendere ore di
lavoro per riprodurre la sua stessa forza lavoro, e le donne conoscono
bene questa particolare tirannia, perché un bel vestito e i capelli in
ordine sono condizioni necessarie per ottenere un lavoro, sia sul mer­
cato del matrimonio che su quello del lavoro salariato.
Per questo dubitiamo che negli Stati uniti “scuole, asili e televi­
sione [abbiano] liberato le madri da molte delle loro responsabilità
nell’educazione dei figli”, e che “la riduzione delle dimensioni delle
abitazioni e la meccanizzazione del lavoro domestico [abbiano] signi­
ficato per la casalinga la possibilità di disporre di molto tempo libe­
ro”, da occupare con “l’acquisto, l’uso e la riparazione di aggeggi [...]
che in teoria dovrebbero farle risparmiare tempo”6.
Gli asili nido non hanno mai liberato tempo da poter dedicare a noi
stesse, ma solo tempo per altro lavoro. Quanto alla tecnologia, è pro­
prio negli Stati uniti che possiamo misurare la distanza che esiste tra la
tecnologia socialmente disponibile e quella che arriva nelle nostre cuci­
ne. E anche in questo caso, è la nostra condizione di non salariate a de­
terminare la quantità e la qualità della tecnologia che riusciamo a otte­
nere. “Se non si è pagate a ore, nessuno, entro certi limiti, si preoccupa
di controllare quanto tempo impieghiamo a svolgere il nostro lavoro”7.
Semmai, la situazione negli Stati uniti è la prova che né la tecnologia né
un secondo lavoro possono liberare le donne dal lavoro domestico, e
non è che “produrre un tecnico sia un’alternativa più leggera rispetto
a quella di produrre un manovale se tra queste due possibilità non
si pone il rifiuto della donna di lavorare gratuitamente, a qualunque
livello tecnologico si svolga tale lavoro, il rifiuto delle donne di vivere
per produrre, qualunque sia il tipo di figlio da produrre”8.
Rimane da chiarire che affermare che il lavoro domestico è pro­
duzione capitalistica non significa volersi legittimare come parte delle
“forze produttive”, in altre parole non è una questione di moralismo.
Solo dal punto di vista capitalistico essere produttive è una virtù mo­
rale, se non addirittura un imperativo morale. Dal punto di vista della
classe operaia, essere produttivi significa semplicemente essere sfrut-

6 Lopate, Women and Pay, cit. p. 9.


7 Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile, cit., p. 43.
8 Mariarosa Dalla Costa, Quartiere, scuola e fabbrica, cit., p. 29.
52 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

tati. Come ha riconosciuto lo stesso Marx: “Essere operaio produttivo


non è una fortuna ma una disgrazia”9. Quindi non è per noi una fonte
di “auto-valorizzazzione”101. Ma quando diciamo che il lavoro dome­
stico è un momento della produzione capitalistica, chiariamo la fun­
zione specifica che svolgiamo nella divisione capitalistica del lavoro e
la forma specifica che la nostra rivolta contro questa deve assumere.
Infine, quando diciamo che produciamo capitale, diciamo che possia­
mo e vogliamo distruggerlo anziché ingaggiare una battaglia perdente
per passare da una forma e un livello di sfruttamento a un altro.
Dobbiamo anche chiarire che non si tratta di “prendere a prestito
categorie dal lessico marxista”11. Ammettiamo che siamo meno di­
sposte di Lopate a liberarci di Marx, il quale ci ha fornito un’analisi
ancora oggi indispensabile per comprendere come funziona la società
capitalistica. Abbiamo anche il sospetto che l’indifferenza di Marx per
il lavoro domestico si possa ricondurre a fattori storici. Non ci riferia­
mo solo a quella dose di sciovinismo maschile che Marx certamente
condivideva con i suoi contemporanei (e non solo con loro). Al tempo
in cui Marx scriveva, la famiglia nucleare e il lavoro domestico dove­
vano ancora essere creati nella loro interezza12. Ciò che Marx aveva
davanti agli occhi era da una parte la donna proletaria che lavorava
a tempo pieno con il marito e i figli in fabbrica e dall’altra la donna
borghese che aveva una domestica e, sia che lavorasse o che non lavo­
rasse, non produceva la merce forza lavoro. Parlare di assenza della
famiglia nucleare non vuol dire che operai e operaie non si accoppias­
sero. Ma non si può parlare di rapporti familiari e lavoro domestico
in un contesto in cui ogni membro della famiglia spendeva quindici
ore al giorno in fabbrica e non c’era né il tempo né lo spazio fisico per
una vita in famiglia.
Solo dopo che la forza lavoro fu decimata dalle epidemie, dal
troppo lavoro e soprattutto dopo che negli anni Trenta e Quaranta
dell’Ottocento le lotte proletarie portarono l’Inghilterra sull’orlo della
rivoluzione, il capitale fu indotto a organizzare la famiglia nucleare
come centro per la riproduzione di una forza lavoro più stabile e di­
sciplinata. Lungi dall’essere una struttura pre-capitalistica, la famiglia*.
9 Karl Marx, II Capitale, Libro Primo, Einaudi, Torino 1975, p. 622.
10 Scrive Lopate: “Può darsi che le donne abbiano bisogno di diventare salariate per acqui­
stare quella sicurezza, quella stima di se stesse che sono il primo passo verso l’eguaglianza”
(Lopate, Women and Pay, cit., p. 9).
11 Ivi, p. 11.
12 Stiamo lavorando sull’origine della famiglia nucleare come stadio dei rapporti capitalistici.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 53
come la conosciamo oggi in Occidente, è una creazione del capitale
maper il capitale; è un’istituzione che devègarantirela quantità e la qua­
lità della forza lavoro e il suo controllo. Così, “come il sindacato, la
famiglia protegge l’operaio, ma garantisce anche che sia lui che lei
ndiTsarannó mai altro che operai. E questa è la ragione per cui la lotta
~ delle donne della classe operaia contro la famiglia è decisiva”13.

La nostra mancanza di salario come disciplina


La famiglia è essenzialmente l’istituzionalizzazione del nostro la-
voro non salariato e della nostra! dipendènza dah’uomo proprip in
quanto non salariate. E quindi l’istituzionalizzazione di una divisione
dì potere che disciplina sia noi che gli uomini. La nostra mancanza di
salario e la nostra dipendenza è ciò che ha mantenuto gli uomini legati
ai loro posti di lavoro; perché ogni volta che hanno voluto rifiutare
questo lavoro hanno dovuto fare i conti con moglie e figli che dipen­
devano dal loro salario. Sono queste le basi di quelle “vecchie abitudi­
ni, nostre e degli uomini” che Lopate trova così difficili da superare.
Non è, infatti, un caso che sia difficile per gli uomini “chiedere orari
speciali per essere ugualmente coinvolti nella cura dei figli”14. Uno
dei motivi per cui gli uomini non possono avere un lavoro part-time
è che il salario maschile è cruciale per la sopravvivenza della famiglia,
anche quando la donna porta a casa un secondo salario. E se “abbia­
mo preferito o trovato lavori meno logoranti, per avere più tempo per
la casa”, è perché ci siamo opposte a uno sfruttamento più intensivo:
essere logorate in fabbrica, e poi, ancor più rapidamente, in casa15.
La mancanza di salario per il lavoro che facciamo in casa è stata
anche la principale causa della nostra debolezza sul mercato del lavo­
ro salariato. I datori di lavoro sanno che siamo abituate a lavorare per
niente e che abbiamo un tale bisogno di avere soldi nostri che posso­
no assumerci a un prezzo molto basso. E siccome donna è diventato
sinonimo di casalinga, dovunque andiamo ci portiamo dietro questa
13 Dalla Costa, Potere femminile, cit., p. 59.
14 Scrive Lopate: “La maggior parte di noi, dopo essersi battuta per ristrutturare la propria
vita, è periodicamente ricaduta nella disperazione. In primo luogo, bisognava infrangere
certe vecchie abitudini, nostre e degli uomini. Secondo, ci sono dei reali problemi di tem­
po [...] Chiedete a un uomo quanto sia difficile per lui avere un lavoro part-time o chie­
dere speciali orari di lavoro per essere egualmente coinvolto nella cura dei figli! ” (Lopate,
Women Pay, cit., p. 11).
15 Ibidem.
54 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
identità e le “attitudini domestiche” che abbiamo acquisito fin dalla
nascita. E per questo che l’occupazione femminile è spesso un’esten­
sione del lavoro domestico, e la nostra via al salario ci conduce spesso
ad altro lavoro di cura. Il fatto che il lavoro domestico non sia retribu­
ito dà a questa condizione, che è imposta socialmente, un’apparenza
di naturalezza (la femminilità) che ci influenza dovunque andiamo.
Quindi non abbiamo bisogno di sentirci dire da Lopate che “la cosa
essenziale da ricordare è che siamo un ‘sesso’”16. Per anni il capitale
ci ha ripetuto che siamo buone solo per il sesso o per fare bambini.
Questa è la divisione sessuale del lavoro e ci rifiutiamo di renderla
eterna come inevitabilmente accade se ci chiediamo “cosa significa
effettivamente essere donne, non ci saranno forse delle qualità speci­
fiche sempre necessariamente inerenti a questa caratteristica?”17. Fare
questa domanda vuol dire aspettarsi una risposta sessista. Chi può
dire chi siamo? Tutto quello che oggi possiamo stabilire è che cosa
non siamo, nella misura in cui con la nostra lotta conquistiamo il po­
tere di spezzare l’identità sociale che ci è stata imposta. ~~~~~~
E la classe dominante, o chi aspira a comandare, che ha postulato
l’esistenza una personalità umana naturale ed eterna, questo per ren­
dere eterno il suo potere su di noi.

Glorificare la famiglia
Non ci sorprende che la ricerca dell’essenza della femminilità con­
duca Lopate alla più spudorata glorificazione del lavoro domestico
non salariato e in generale del lavoro non pagato.
La casa e la famiglia hanno tradizionalmente fornito Túnico spazio di vita
nel sistema capitalistico in cui possiamo soddisfare reciprocamente i no­
stri bisogni per amore e affetto, anche se spesso lo facciamo per paura o
soggezione. I genitori si prendono cura dei figli almeno in parte per amore
[...] Penso anche che questo ricordo rimanga con noi mentre cresciamo,
cosicché rammentiamo sempre come una sorta di utopia il lavoro e le cure
che provengono dall’affetto, invece di essere basate su una retribuzione
economica18.

16 “La cosa essenziale da ricordare è che siamo un SESSO. Questa è veramente l’unica parola
che si sia trovata finora per descrivere ciò che abbiamo in comune” {ivi, p. 11).
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 10.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 55
La letteratura del movimento femminista ha mostrato gli effetti
devastanti cKé questo amore, questa cura e questi servizi hanno avuto
sulle donne. Sono le catene che ci hanno tenuto legate a una condizio­
ne’eli semi schiavitù. Ci rifiutiamo quindi di propagare ed elevare ad
utopia la miseria delle nostre madri e nonne e la nostra stessa miseria
di bambine! Quando il capitale o lo stato non pagano un salario, a
pagare con la vita sono coloro che sono amati e curati, anch’essi sènza
salario e con ancora minor potere.
Rifiutiamo ànche l’idea di Lopate secondo cui chiedere un com­
penso economico “servirebbe solo ad allontanarci ancora di più dalla
possibilità di un lavoro non alienato”19, il che significa che il modo più
rapido per “disalienare” il lavoro è di lavorare gratis. Senza dubbio il
presidente Ford apprezzerebbe questo suggerimento. Il lavoro volon­
tario, su cui lo stato moderno si appoggia in maniera crescente, si basa
su queste magnanime elargizioni del nostro tempo. Tuttavia, ci sembra
che se le nostre madrise, invece di contare semplicemente sull’amore
e l’affetto, avessero avuto un compenso economico, sarebbero state
meno aspre, meno dipendenti e meno ricattate. Avrebbero ricattato
meno i propri figli a cui costantemente sono stati ricordati i sacrifici
delle proprie madri. Avrebbero avuto più tempo e più potere per lot­
tare contro quel lavoro e ci avrebbero consegnato la lotta a un livello
più avanzato.
E l’essenza stessa dell’ideologia capitalista a glorificare la famiglia
come un “mondo privato”, l’ultima frontiera dove uomini e donne ri-
escono a rar sopravvivere le [loro] anime”, e non c’è da meravigliarsi
se questa ideologia stia godendo di una rinnovata popolarità presso
chi pianifica lo sviluppo capitalistico in questo periodo di “crisi”, “au­
sterità” e “difficoltà”20. Come ha sostenuto di recente Russel Baker
sul “New York Times”, l’amore ci ha riscaldato durante la Grande
Depressione e faremo bene a portarcelo con noi in questo viaggio
verso tempi difficili21. Questa ideologia che oppone la famiglia (o la
comunità) alla fabbrica, il personale al sociale, il privato al pubblico,
il lavoro produttivo al lavoro improduttivo è funzionale al nostro as­
servimento nella casa che, in assenza di un salario, è sempre apparso
19 Scrive Lopate: “L’eliminazione dell’unica grande area di vita nel sistema capitalistica in
cui non tutte le transazioni hanno valore di scambio servirebbe solo a offuscare ancora di
più la possibilità di un lavoro libero e non alienato” {ibidem).
20 Scrive Lopate: “Credo che è nel nostro mondo privato che riusciamo a far sopravvivere le
nostre anime” {ibidem).
21 Russell Baker, Love and Potatoes, in “New York Times”, 24 novembre 1974.
56 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

come un atto d’amore. È un’ideologia profondamente radicata nella


divisione capitalistica del lavoro, che trova nell’organizzazione della
famiglia nucleare una delle sue più chiare espressioni.
Il modo in cui il rapporto salariato ha mistificato la funzione socia­
le della famiglia è un’estensione del modo in cui il capitalismo misti­
fica il lavoro salariato e subordina i nostri rapporti sociali al “vincolo
del denaro”. Abbiamo imparato da Marx che il salario nasconde il
lavoro non pagato che genera il profitto. Ma misurare il lavoro at­
traverso il salario nasconde anche la misura in cui la nostra famiglia
e i nostri rapporti sociali sono stati subordinati ai rapporti di produ­
zione - sono diventati rapporti di produzione - per cui ogni momento
della nostra vita funziona per 1’accumulazione del capitale. Il salario e
la sua mancanza permettono anche al capitale di nascondere la reale
estensione della nostra giornata lavorativa. Il lavoro ci appare come
un settore particolare delle nostre vite che ha luogo solo in certi de­
terminati spazi e tempi. Invece, il tempo che passiamo nella “fabbrica
sociale”, preparandoci per il lavoro, andando al lavoro o ristorando i
nostri “muscoli, nervi, ossa, cervello”22 con pasti rapidi e sesso rapido,
ci appare come svago, tempo libero, scelta individuale.

Differenti mercati del lavoro


L’uso che il capitale fa del salario nasconde chi è la classe operaia e
divide i lavoratori. Attraverso il rapporto salariale il capitale organizza
differenti mercati del lavoro (per i neri, i giovani, le donne e i maschi
bianchi) e contrappone una “classe lavoratrice” a un proletariato “che
non lavora” che si suppone viva in modo parassitario del lavoro dei
primi. Così se riceviamo sussidi dallo stato ci dicono che viviamo alle
spalle di “chi lavora”, se siamo casalinghe ci dipingono come i pozzi
senza fondo delle buste paga dei nostri mariti.
Ma in realtà la debolezza sociale dei senza salario si traduce nella
debolezza sociale dell’intera classe operaia rispetto al capitale. Come
dimostra la storia della “fabbrica in fuga” (runaway shop),ladispo­
nibilità di lavoratori non salariati, sia nei paesi “sottosviluppati” che
nelle metropoli, ha permesso al capitale di abbandonare le aree m cùÌ
il costo del lavoro era diventato troppo elevato e minafAc6srtt'poter
re che lì gli operai avevano conquistato. Quando il càpitàlB ìlon può
22 Marx, Il Capitale, cit., p. 703.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 57
fuggire nel “Terzo mondo”, apre i cancelli delle fabbriche alle donne,
ai neri e ai giovani delle aree metropolitane o ai migranti che arrivano
dal “Terzo mondo”. Non è un caso, dunque, che mentre si ritiene che
il capitalismo si basi sul lavoro salariato, più di metà della popolazione
, mondiale sia senza salario. Mancanza di salario e sottosviluppo sono
elementi essenziali del piano del capitale a livello nazionale e interna­
zionale. Si tratta di meccanismi molto efficaci per far competere gli
operai tra loro sul mercato del lavoro nazionale e internazionale, e
per farci credere che i nostri interessi sono differenti e contradditori23.
Qui si trovano le basi del sessismo, del razzismo e del welfarismo
(che è il disprezzo per i lavoratori che sono riusciti a ottenere denaro
dallo stato) che sono la diretta espressione di differenti mercati del la­
voro e cioè differenti modi di regolare e separare la classe lavoratrice.
Se ignoriamo tale uso dell’ideologia capitalistica e il suo radicamento
nel rapporto salariale non solo finiamo per considerare razzismo, ses­
sismo e welfarismo come malattie morali, prodotti di un’insufficiente
educazione, di una “falsa coscienza”, ma rimaniamo anche legati a
una strategia educativa che non-ci lascia nient’altro che “imperativi
morali a nostro sostegno”24.
Siamo infine d’accordo con Lopate quando afferma che la nostra
strategia pey raggiungere lacerazione ci esonera dal fare affidamento
sul fatto che gH uomini “diventino ‘buoni”25. Come ha mostrato la
lotta dei neri negli anni Sessanta, non sono state Je buone parole ma
l’organizzazione del loro potere a far “comprendere” le loro esigenze.
Nel caso delle donne, provare a educare gli uomini ha significato solo
che la nostra lotta è stata privatizzata e combattuta nella solitudine
delle nostre cucine e camere da letto. E il potere che educa. All’inizio
gli uomini avranno paura, poi impareranno perché sarà il capitale ad
avere paura. Perché non stiamo lottando per una più equa ridistri­
buzione del nostro lavoro. Stiamo lottando per porre fine a questo
lavoro e il primo passo è dargli un prezzo.

Rivendicare salario
Come donne, il nostro potere comincia con la lotta sociale per
23 Selma James, Sex, Race and Class, Falling Wall Press and Race Today Publications, Bristol
1975.
24 Lopate, Women Pay, cit., p. 11.
25 Ibidem.
58 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
il salario, non per entrare nel rapporto salariale (dal quale non sia­
mo mai state fuori) ma per uscirne e per tirarne fuori ogni settore
della classe operaia. Occorre però chiarire quale è la natura della
lotta salariale. Quando la sinistra sostiene che la lotta sul terreno del
salario è “economicistica” e “sindacale”, ignora che il salario, come
la sua mancanza, è la misura diretta del nostro sfruttamento e quindi
l’espressione diretta del rapporto di potere tra capitale e classe ope­
raia, e all’interno della stessa classe operaia. Ignora anche che la lotta
per il salario prende molte forme e non si limita agli aumenti salaria­
li. Riduzione del tempo e dei ritmi di lavoro, ottenere servizi sociali
migliori e guadagnare più soldi, sono tutte conquiste salariali che de­
terminano immediatamente quanta parte del nostro lavoro ci viene
tolta e quanto di questa riusciamo a riappropriarci. E per questo che
il salario è stato storicamente il principale terreno dello scontro tra
capitale e lavoro. In quanto espressione del rapporto di classe, il sala-
rio ha sempre due facce: da una parte la faccia del capitale che lo usa
per controllare i lavoratori, tentando di compensare ogni aumento
salariale con un aumento della produttività, dall’altra la faccia dei
lavoratori che sempre più combattono per avere più soldi, più potere
e meno lavoro.
Come l’attuale crisi capitalistica dimostra, gli operai sono sempre
meno disposti a sacrificare la propria vita al servizio della produzio­
ne e a rispondere agli appelli perché aumentino la produttività26. Ma
quando l’“equo scambio” fra salario e produttività si rompe, la lotta
sul salario diventa un attacco diretto al profitto e alla capacità del
capitale di imporci altro lavoro. Così la lotta per il salario è nello stes­
so tempo una lotta contro il salario, per il potere che esso esprime,
e contro il rapporto capitalistico che rappresenta. Nel caso di chi è
senza salario, nel nostro caso, la lotta per il salario è ancora più chia­
ramente un attacco al capitale. “Salario al lavoro domestico” significa
che il capitale dovrà pagare per l’enorme quantità di servizi sociali che
attualmente ricadono sulle nostre spalle. Ma la cosa più importante è
che chiedere salario per il lavoro domestico significa rifiutare di accet­
tare questo lavoro come destino biologico. E questa è una condizióne
indispensàbile per la hÒsffalotta^TSiienté, in fatti, è stato tanto efficace
nell’istituzionalizzare il nostro lavoro gratuito, la famiglia, e la nostra
dipendenza dagli uomini, quanto il fatto che il nostro lavoro è sempre
stato pagato non con un salario ma con 1’”amore”. Ma per noi, come
26 Si veda “Fortune”, dicembre 1974.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 59
per i lavoratori salariati, il salario non è un premio di produttività.
In cambio del salario, non intendiamo lavorare come prima o più di
prima, lavoreremo meno. Vogliamo un salario per poter disporre del
nostro tempo e delle nostre energie, per poter lottare, e per non essere
costrette dal nostro bisogno di indipendenza economica a un secondo
lavoro.
^Lajnostra lotta per il salario apre sia per i salariati che per i non sa-
lariati la questione della reale lunghezza della giornata lavorativa. Fino
a oggi, la classe operaia maschile e femminile ha visto la sua giornata
lavorativa definita dal capitale, tra un timbro di cartellino all’entrata
e uno all’uscita. Questo definiva il tempo in cui appartenevamo al
capitale e il tempo in cui appartenevamo a noi stessi. Ma non siamo
mai appartenuti a noi stessi. Ogni momento della nostra vita è sempre
appartenuto al capitale ed è arrivato il momento che il capitale paghi
per ognuno di questi momenti. In terminici classe, ciò significa chie-
dere un salario per ogni istante che vìviamo al servizio del capitale.

Far pagare il capitale


È questa la prospettiva di classe che negli anni Sessanta, sul pia­
no internazionale, ha dato forma alle lotte. Negli Stati uniti, le lotte
dei neri e delle welfare mothers - il Terzo mondo delle metropoli -
sono state l’espressione della rivolta dei senza salario e del loro rifiuto
dell’unica alternativa offerta dal capitale: più lavoro. Queste lotte, che
hanno avuto come centro di potere le comunità, non erano lotte per
lo sviluppo ma per la riappropriazione della ricchezza sociale che il
capitale ha accumulato dallo sfruttamento di salariati e non salariati.
In questo senso, esse hanno sfidato l’organizzazione capitalistica della
società che ci impone il lavoro come condizione della nostra esisten­
za. E al contempo hanno messo in discussione il dogma della sinistra
secondo cui la classe operaia può organizzare il suo potere solo dentro
la fabbrica.
Ma non è necessario entrare in fabbrica per essere parte di un’or­
ganizzazione della classe operaia. Quando Lopate afferma “che le
condizioni ideologiche per la solidarietà di classe sono i legami e le
connessioni che sorgono dal lavorare insieme” e che “queste condi­
zioni non possono darsi tra donne isolate che lavorano in case tra loro
60 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
separate”27, ignora le lotte che queste donne “isolate” hanno fatto ne­
gli anni Sessanta (scioperi dell’affitto, lotte per il welfare, ecc.). Il suo
presupposto è che non possiamo organizzarci se prima non siamo sta­
te organizzate dal capitale e siccome non vede che il capitale ci ha già
organizzate, nega l’esistenza della nostra lotta. Tuttavia, confondere
l’organizzazione del nostro lavoro da parte del capitale nelle cucine o
nelle fabbriche con l’organizzazione delle nostre lotte contro di esso
è la strada più sicura per essere sconfitte. Lottare per lavorare è già
una sconfitta. E possiamo essere certe che ogni nuova forma di orga­
nizzazione del lavoro cercherà di isolarci ancora di più. Per questo è
un’illusione pensare che il capitale non ci divida quando lavoriamo
insieme.
Contro la divisione tipica dell’organizzazione del lavoro capitalista,
dobbiamo organizzarci a partire dai nostri bisogni. In questo senso
“Salario al lavoro domestico” è tanto il rifiuto della socializzazione
di fabbrica quanto il rifiuto di una possibile “razionalizzazione’\,ca-
pitalistica della casa come Lopate propone: “EfoBbiamb seriamente
considerare quali compiti sono ‘necessari’ per mandare avanti la casa
[...] dobbiamo indagare quali dispositivi ci permettono di risparmiare
tempo e lavoro, e decidere quali sono utili e quali sono solo causa di
ulteriore degradazione del lavoro domestico”28.
Ma non è la tecnologia in sé che ci degrada ma l’uso che ne fa il
capitale. Inoltre abbiamo sempre avuto in casa “autogestione” e “con­
trollo operaio”. Abbiamo sempre potuto scegliere se fare il bucato
martedì o sabato, se comprare una lavastoviglie o un aspirapolvere,
ammesso che potessimo permettercelo. Per questo non chiediamo al
capitale di cambiare la natura del nostro lavoro ma lottiamo per ri­
fiutare di riprodurre noi stesse e gli altri come lavoratori, come forza
lavoro, come merce. E, la condizione per raggiungere questo obiettivo
è che questo lavoro sia riconosciuto come tale attraverso un salario.
Ovviamente fin quando esisterà il rapporto salariale, esisterà anche
il capitalismo. Non diciamo, allora, che ottenere un salario è la ri­
voluzione. Diciamo che si tratta di una strategk^ivoluzionaria che
indebolisce il ruolo che ci è stato assegnato nella divisione capitalistica
del lavoro e di conseguenza .cambia i rapporti di potere in termini più
favorevoli a noi e all’unità di classe.
Per quanto riguarda gli aspetti economici del salario al lavoro
27 Lopate, Women Pay, cit., p. 9.
28 Ibidem.
CONTROPIANO DELLE CUCINE 61
domestico, essi appaiono “altamente problematici” solo dal punto
di vista del capitale, dal punto di vista del ministero del tesoro, che
sempre piange miseria quando si rivolge ai lavoratori29. Ma siccome
non siamo il ministero del tesoro e non aspiriamo a esserlo, non pos­
siamo pensare di pianificare per loro sistemi di pagamento, differenze
salariali e premi di produttività. Non spetta a noi porre limiti al no­
stro potere, non spetta a noi misurare il nostro valore. A noi spetta
soltanto il compito di organizzare una lotta per ottenere tutto quello
che vogliamo, per tutte noi e alle nostre condizioni. Il nostro obiettivo
è di non avere prezzo, di renderci così costose che il nostro lavoro
domestico e quello in fabbrica o in ufficio, diventino “diseconomici”.
Analogamente rifiutiamo l’ipotesi che altri settori della classe ope­
raia debbano pagare il prezzo dei nostri eventuali guadagni. Secondo
questa logica potremmo dire che i lavoratori salariati sono pagati con
i soldi che il capitale non da a noi. Ma questo è il modo in cui parla lo
stato. Ed è puro razzismo sostenere che la richiesta di programmi di
toelfare da parte dei neri negli anni Sessanta abbia avuto “effetti disa­
strosi per una strategia a lungo termine [...] sui rapporti tra bianchi
e neri” poiché “gli operai sapevano che sarebbero stati loro alla fine
a pagare per quei programmi e non le imprese”30. Se assumiamo che
ogni lotta debba concludersi con una redistribuzione della povertà,
assumiamo rinevitabilità della nostra sconfitta. E l’articolo di Lopate
è scritto nel segno della sconfitta, nel senso che accetta come inevita­
bili le istituzioni capitalistiche. Lopate non riesce a immaginare che
qualora il capitale tentasse di ridurre i salari di altri lavoratori per dare
a noi un salario, quei lavoratori sarebbero in grado di difendere i loro
e i nostri interessi. E ritiene anche che “ovviamente gli uomini riceve­
rebbero un salario più alto per lavorare in casa”, assumendo così che
non vinceremo mai31.
Infine, Lopate ci avverte che se ottenessimo un salario per il lavo­
ro domestico, il capitale invierebbe dei supervisori per controllare il
nostro lavoro. Poiché vede le casalinghe solo come vittime, incapaci
di lottare, non può immaginare che, qualora ci venissero imposti dei
controllori, potremmo organizzarci collettivamente per chiudergli le
porte in faccia. Presuppone inoltre che il nostro lavoro non sia già
controllato solo perché non abbiamo controllori ufficialmente rico-

29 Ibidem.
30 Ivi, p. 10.
31 Ibidem.
62 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

nosciuti. Ma anche se l’essere salariate comportasse un maggior con­


trollo da parte dello stato sul nostro lavoro, sarebbe preferibile alla
situazione attuale, perché renderebbe visibile chi comanda il nostro
lavoro. Ed è meglio sapere chi è il nostro nemico anziché incolpare
e odiare noi stesse perché siamo costrette ad “amare o curare” per
“paura o soggezione”32.

32 Ibidem.
Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione
negli Stati uniti degli anni Settanta

Se le donne desiderano che la posizione della moglie abbia


l’onore che gli attribuiscono, non dovranno parlare del valo­
re dei loro servizi e di reddito, ma vivranno con i loro mariti,
nello spirito del voto del matrimonio inglese, prendendoli
“nel bene e nel male, in ricchezza e in povertà, in salute e
in malattia, da amare, onorare, obbedire”. Questo è essere
una moglie.
Wives’ Wages - New York Times, 10 agosto 1876.
Il più prezioso di tutti i capitali è quello investito negli esseri
umani, e di questo capitale la parte più preziosa è il risultato
delle cure e della influenza materne, fintanto che la madre
conserva i suoi istinti teneri e altruistici.
Alfred Marshall, Principi di economia (1890)
Benché in genere si riconosca che Tenorme espansione della for­
za lavoro femminile sia probabilmente il più importante fenomeno
sociale degli anni Settanta, c’è ancora incertezza tra gli economisti
circa le sue origini. Quali possibili motivi di tale espansione si citano
l’incremento delle tecnologie domestiche, la riduzione delle dimen-
sioni della iamielia e la crescita del settore dei servizi. Ma si afferma
anche che questi fattori possono essere un effetto dell’ingresso delle
donne nel mercato del lavoro, e il cercamela causa conduce a un cir­
colo vizioso, come il problema dell’uovo e della gallina. L’incertezza
. degli economisti deriva dallhncapacità_di riconoscere che l’immensa
crescita della forza lavoro femminile negli anni Settanta riflette il ri-
fiuto_ delle domi e di continuarla, funzionare come lavoratrici dome­
stiche non pagate per riprodurre la forza lavoro nazionale. Infatti
ciò che chiamiamo “lavoro domestico” è (per usare l’espressione di
Gary Becker) un processo di “consumo produttivo”1 che produce
e riproduce “capitale umano” o, nelle parole di Alfred Marshall, la
“capacità generale” di lavorare*2. Chi pianifica il sociale spesso ri­
conosce l’importanza economica di questo lavoro. Eppure, come
1 Gary S. Becker, A Theory of thè Allocation ofTime, in “Economie Journal”, 75,299,1965,
pp. 493-517.
2 Alfred Marshall, Principi di economia, Utet, Torino 1972, p. 321.
64 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Becker ha sottolineato, il consumo produttivo che si svolge in casa
ha avuto “un’esistenza prolungata, ma non sistematica nel pensiero
economico”3; perché in una società dove lavoro e salario sono sino­
nimi, il fatto che questo lavoro non sia salariato lo rende invisibile
come lavoro, al punto che i servizi che garantisce non sono inclusi nel
TPfddottó intefno lordo (Pii) e chi li fornisce non rientra nel calcolo
della forza lavoro nazionale.
Non sorprende dunque che, data la sua invisibilità sociale, gli eco­
nomisti non siano riusciti a vedere che tra gli anni Sessanta e Settanta
il lavoro domestico è stato il principale campo di battaglia delle don­
ne, tanto che anche la scelta di entrare nel mercato del lavoro salariato
deve essere vista come una strategia che hanno usato per liberarsi da
questo lavoro. In questo modo, le donne hanno innescato una pro­
fonda riorganizzazione della riproduzione sociale che mette in crisi
la divisione sessuale del lavoro e le politiche sociali che hanno deter­
minato l’organizzazione della riproduzione nel dopoguerra. Tuttavia,
benché sia evidente che le donne stanno prendendo le distanze dal
lavoro domestico non retribuito, oggi, negli Stati uniti più del 30 per
cento lavora principalmente come casalinga, e anche quelle che hanno
un lavoro salariato dedicano una notevole quantità del loro tempo ad
un lavoro che non gli dà diritto ad alcuna retribuzione e a nessuna
forma di previdenza, assistenza o pensione. Questo significa che il
lavoro domestico è ancora la principale fonte di occupazione per le
donne americane e che molte di loro spendono la maggior parte del
proprio tempo a fare un lavoro che non offre nessuno dei benefici che
si accompagnano a un lavoro salariato.
E anche evidente che in assenza di una remunerazione moneta­
ria, le donne hanno molta difficoltà a raggiungere 1’’’indipendenza
economica”, per non parlare del prezzo pesante che spesso devono
pagare per questo: l’impossibilità di scegliere se avere figli o no, bassi
salari, l’onere di un doppio lavoro quando hanno un lavoro salariato.
I problemi che le donne incontrano appaiono particolarmente gravi
alla luce delle attuali prospettive economiche, quali emergono dal
dibattito in corso sulla “crisi energetica” e sulla validità o meno della
crescita economica. Ma è chiaro che, indipendentemente da quale
3 Gary S. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, il Mulino, Bologna 1998,
p. 193. Occorre segnalare che la traduzione italiana della citazione di Becker non rende
pienamente il senso che Federici vuole dare alla frase. In inglese si parla di “bandit-like
existence", testualmente “esistenza come quella di un bandito” che nella traduzione italia-
na e stato reso con il meno esplicito esistenza prolungata, ma non sistematica LN.d.T.J.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 65
politica economica prevalga, le donne saranno quelle che avranno
la peggio nella “battaglia per controllare l’inflazione” e il consumo
energetico. La recente esperienza di Three Mile Island4 ha mostra­
to quali effetti potrebbe avere sulla vita delle donne il tipo di svi­
luppo economico promosso dal business e dal governo, che si basa
sull’espansione del nucleare, la deregolamentazione di molte attività
economiche e l’aumento della spesa militare. D’altra parte, anche
l’alternativa della “non-crescita” è poco promettente, perché, basan­
dosi sulla riduzione dei servizi e l’aumento del loro costo, è articolata
in modo da costringere le donne a un’intensificazione illimitata del
lavoro domestico.

La rivolta contro il lavoro domestico


Anche se raramente lo si riconosce, i primi segnali del rifiuto del
lavoro domestico non pagato da parte delle donne non sono venuti
dal bestseller di Betty Friedan La mistica della femminilità, ma dalla
lotta, negli anni Sessanta, dellewelfare mothers, le donne cioè che ri­
cevevano sussidi statali per i figli a carico (gli Aid for Dependent Chil-
dren - a f d c ). Sviluppatasi sulla scia del movimento per i diritti civili,
e solitamente rappresentata come la lotta di una minoranza, essa ha
dato voce al malcontento diffuso tra molte donne americane di fronte
a una politica sociale che ignorava il lavoro che svolgevano in casa e
stigmatizzava come parassitaria la loro richiesta di assistenza pubblica.
E questo nonostante le donne fornissero una vasta gamma di servizi
che contribuivano al mantenimento della forza lavoro nazionale. Le
welfare mothers, per esempio, hanno denunciato l’assurdità della poli­
tica del governo che riconosceva la cura dei bambini come lavoro solo
quando si trattava dei figli di altri, e quindi pagava i genitori putativi
ifoster parents) più che la stessa madre, mentre elaborava programmi
per “far lavorare” le madri che recepivano il welfare. Le parole di una
delle organizzatrici esprimono efficacemente lo spirito della lotta per
il welfare: “Se il governo fosse intelligente comincerebbe a chiamare
il programma di Aiuti per i figli a carico (a f d c ) come “lavoro di cura
diurno e notturno”, creerebbe una nuova agenzia e comincerebbe a
pagarci un salario decente per il lavoro che facciamo, e così potrebbe
4 Si tratta di un incidente nucleare avvenuto il 28 marzo 1979 nella contea di Dauphin in
Pennsylvania, che ha provocato il rilascio nell’ambiente di gas e iodio radioattivi [N.d.T.].
66 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

dire che la crisi del welfare è stata risolta perché le welfare mothers
sono state messe al lavoro”5.
Pochi anni dopo, nel 1971, discutendo la proposta per un Piano
di assistenza familiare ( f a p ) presentata dall’amministrazione Nixon,
il senatore Daniel Patrick Moynihan ammetteva che questa richiesta
era tutt’altro che stravagante: “Se la società americana riconoscesse il
lavoro domestico e il crescere i figli come lavoro produttivo da inclu­
dere nei bilanci economici nazionali [...] ricevere welfare potrebbe
non implicare dipendenza. Ma non lo facciamo. Si può sperare che
l’attuale Movimento delle donne possa cambiare le cose, anche se fino
a ora non è successo”6.
Moynihan è stato presto smentito. Proprio mentre richiamava le
vicissitudini legislative del f a p , emergeva negli Stati uniti un movi­
mento per il salario al lavoro domestico abbastanza forte da far sì che
la Conferenza Nazionale delle Donne, che si tenne a Houston nel
1977, sostenesse nel suo Piano d’Azione che il welfare doveva essere
chiamato salario7. La lotta delle welfare mothers non solo ha posto
nell’agenda nazionale la questione del lavoro domestico, anche se ma­
scherato come una “questione di povertà”. Ha anche chiarito che il
governo non poteva più sperare di governare il lavoro delle donne tra­
mite l’organizzazione del salario maschile. Cominciava una nuova era
in cui il governo avrebbe avuto a che fare direttamente con le donne,
senza la mediazione degli uomini.
Che il rifiuto del lavoro domestico fosse diventato un fenomeno
sociale diffuso lo hanno dimostrato anche gli sviluppi nel movimento
femminista. La contestazione delle fiere matrimoniali e dei concorsi
di Miss America erano un’indicazione che le donne sempre meno ac­
cettavano la “femminilità”, il matrimonio e la casa come un destino
naturale.
All’inizio degli anni Settanta, il rifiuto del lavoro domestico si tra­
dusse nella migrazione delle donne nel mondo del lavoro salariato.
Gli economisti collegano questo fenomeno al progresso della tecno-
5 Milwaukee County Welfare Rights Organization, Welfare Mothers Speak Out, W.W. Nor­
ton Co., New York 1972, p. 79.
6 Daniel P. Moynihan, The Politics of a Guaranteed Income, Random House, New York
1973, p. 17.
7 II testo della proposta dice: “Il Congresso dovrebbe approvare un piano federale per for­
nire un livello di vita adeguato al costo della vita in ogni stato. E come nel caso degli altri
lavoratori, le casalinghe dovrebbero ricevere un reddito che abbia la dignità di essere
chiamato salario, non welfare”. Cfr. National Pian of Action approvato dalla National
Women’s Conference tenutasi a Houston nel novembre 1977.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 67
logia domestica e alla diffusione del controllo delle nascite, che pre­
sumibilmente avrebbero “liberato il tempo delle donne per il lavoro”.
Eppure, negli anni Settanta, ad eccezione del forno a microonde e del
robot da cucina, l’innovazione tecnologica che è entrata in casa è stata
minima, non abbastanza da giustificare la crescita record della forza
lavoro femminile salariata8. Per quanto poi riguarda il calo delle nasci­
te, le tendenze precedenti indicano che grandezza della famiglia non
è di per sé un fattore determinante nella decisione delle donne di cer­
care un lavoro salariato. Lo dimostra l’esempio degli anni Cinquan­
ta quando, in presenza di un vero baby-boom, le donne, soprattutto
quelle sposate e con figli piccoli, hanno iniziato in numero record a
entrare nelle forza lavoro salariata9. Quanto poco il tempo delle don­
ne sia stato liberato dal lavoro domestico appare anche dai risultati di
alcuni studi, come quello condotto nel 1971 dalla Chase Manhattan
Bank, che documentava come alla fine degli anni Sessanta, le donne
americane spendessero ancora una media di quarantacinque ore alla
settimana per i lavori domestici e le ore aumentavano facilmente in
presenza di bambini piccoli.
Se consideriamo poi che la maggior parte delle donne che entra
nel mercato del lavoro ha bambini in età prescolare, non possiamo
certo concludere che è il lavoro in quanto tale che gli manca, consi­
derando anche che per lo più trovano lavori che sono un’estensione
del lavoro domestico. La verità, come sottolinea Juanita Kreps, è che
le donne “desiderano cambiare la propria condizione (il lavoro dome­
stico) per un lavoro salariato, anche se altrettanto ripetitivo, perché
quest’ultimo (a differenza del primo) gli garantisce uno stipendio”10.
Un altro motivo che spiega l’espansione record della forza lavoro
femminile, soprattutto dopo il 1973, sono stati gli ampi tagli che nel
corso degli anni Settanta sono stati fatti al programma di welfare. A
partire dall’amministrazione Nixon, una campagna stampa quotidiana
8 Anche dal punto di vista della spesa per gli elettrodomestici, gli anni Settanta non hanno
registrato alcuna crescita (rispetto agli anni Sessanta) e addirittura un calo rispetto agli
anni Cinquanta. E anche dubbio che un maggiore impiego di tecnologia possa liberare le
donne dal lavoro. Spesso è successo che le tecnologie che dovevano risparmiare il lavoro
domestico hanno aumentato il lavoro delle donne. Si veda Ruth Cowan, More Work for
Mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave ,
Basic Books, New York 1983.
9 E quanto sostiene Valerie Kincaid Oppenheimer in The Female Labor Force in the United
States: Demographic and Economic Factors Governing Its Growth and Changing Composi­
tion, Praeger, Westport (CT) 1976.
10 Juanita M. Kreps, Sex in the Marketplace (Policy Studies in Employment & Welfare), Johns
Hopkins University Press, Baltimore (MD) 1971, p. 68.
68 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ha ricondotto tutti i problemi sociali al “pasticcio del welfare". Nel
frattempo, in tutto il paese, si sono ristretti i criteri di eleggibilità,
cosicché si è ridotto il numero delle donne che ricevono il sussidio,
mentre il sussidio veniva decurtato nonostante il continuo aumento
del costo della vita11.
Di conseguenza, mentre fino al 1969 gli indennizzi previsti dal
programma di aiuti alle famiglie con figli a carico ( a f d c ) sono stati
superiori al salario medio femminile, dalla metà degli anni Settanta
la tendenza si è invertita, benché la media del salario reale sia scesa
rispetto agli anni Sessanta. Di fronte a questo attacco al welfare, le
donne sembrano aver seguito l’indicazione di quella welfare mother
che una volta ha dichiarato che se il governo è disposto a pagare le
donne solo quando si prendono cura dei figli degli altri, allora le don-
‘"fìe'dóvrebbero “scambiarsi i figli”. Dato che sul mercato del lavoro le
’“ donne sono concentrate nel settore dei sè rv i^
stenere che hanno scambiato il lavoro domestico gratuito in famighà^
con il lavoro domestico retribuito sul mercato.
Il fatto che la crescita della forza lavoro femminile rifletta il rifiuto
del lavoro domestico da parte delle donne spiega anche l’apparente
paradosso per cui mentre le donne entravano in massa nel mercato
del lavoro, il lavoro domestico cominciava ad emergere come terreno
di indagine economica. Gli anni Settanta hanno visto un boom di stu­
di sul lavoro domestico. Poi, nel 1975, anche il governo ha deciso di
misurare il contributo del lavoro delle casalinghe con il Pii. Ancora,
nel 1976, i ricercatori della Social Security Administration, che studia­
no l’impatto delle malattie sulla produttività nazionale, hanno incluso
nelle cifre del loro studio il valore in dollari del lavoro domestico1112. Le
stime raggiunte, calcolate in base ai costi di mercato, erano estrema-
mente prudenti. Ma il fatto stesso che si facessero questi calcoli mo­
stra la crescente preoccupazione del governo per “la crisi del lavoro
domestico all’interno della famiglia”. Effettivamente, dietro quest’im­
provviso interesse per il lavoro domestico si cela l’antica verità se­
condo cui questo lavoro rimane invisibile solo finché c’è qualcuno
11 A New York, i sussidi del welfare sono stati congelati ai livelli del 1972 (rivisti nel 1974),
anche se il costo della vita è, ad oggi [cioè nel 1980, quando l’articolo è stato scritto] rad­
doppiato.
12 I ricercatori del Social Security Administration hanno calcolato che il valore di una casa­
linga a tempo pieno è di 6.000 dollari l’anno, una cifra molto bassa rispetto ai 13.000 mila
dollari calcolati dallo studio della Chase Manhattan Bank, e ai 20.000 mila di uno studio
più recente dell’economista Peter Snell.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 69
che lo fa. Altri fattori hanno fatto della “crisi del lavoro domestico”
una fonte di preoccupazione per i politici. Prima di tutto la minaccia
alla “stabilità della famiglia”, fissata a partire da una correlazione tra
l’aumentata capacità di guadagno delle donne americane, l’aumento
nel numero dei divorzi e l’aumento del numero di famiglie con a capo
una donna.
A metà degli anni Settanta, il governo cominciava anche a pre­
occuparsi perché l’espansione della forza lavoro femminile salariata
cresceva al di là delle sue previsioni, rivelando un carattere autonomo
che ostacolava i piani governativi in merito13. Per esempio, invece di
fornire una “soluzione” o un’alternativa all’espansione del welfare,
l’aumento del numero di donne in cerca di un lavoro salariato giusti­
ficava il welfare e lo “proteggeva”, mostrando la differenza tra il nu­
mero di donne in cerca di un lavoro e i posti di lavoro effettivamente
disponibili, cosa che ha continuamente bloccato ogni tentativo del go­
verno di “far lavorare” le donne che ricevevano i sussidi. Altrettanto
preoccupante per il governo, di fronte alla più grave recessione eco­
nomica dopo la Grande Depressione e a un lungo periodo di disoccu­
pazione, era l’apparente “rigidità” della partecipazione femminile al
mercato del lavoro salariato. ~
Sarebbero state disposte le donne a tornare a casa a mani vuote,
come avevano fatto nel dopoguerra, dopo aver sperimentato i benefici
finanziari di un salario?14E in questo contesto che si è avuta una riva-
lutazione del lavoro domestico. Tuttavia, ben poco è stato fatto. Alcu­
ne minori proposte legislative hanno riconosciuto il suo valore econo­
mico. Ad esempio, un piano pensionistico del governo, approvato nel
1976 (come parte del Tax Reform Act), ha permesso ai mariti di con­
tribuire a un piano pensionistico individuale (Individuai Retirement
Pian - ira)^a favore delle mogli “che non lavorano”. Inoltre, diversi
stati negli ultimi anni hanno almeno formalmente, riconosciuto, con le
nuove leggi sul divorzio, il contributo della moglie al benessere della
13 Nel 1976, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro ha raggiunto cifre che il Diparti­
mento del Lavoro non si aspettava prima del 1985.
14 È importante qui menzionare la proposta di riformare i sussidi di disoccupazione discussa
dal?amministrazione Ford. Anche se non lo si ammette apertamente, questa proposta
punta a tagliare i sussidi di disoccupazione per le persone - si legga casalinghe - che
hanno appena “lasciato la casa”. Propone, inoltre, che i disoccupati con coniugi che la­
vorano non debbano essere inclusi tra quanti hanno diritto al sussidio di disoccupazione.
Dovrebbero anche essere escluse dai sussidi di disoccupazione le persone non qualificate
per mancanza di formazione o di precedenti esperienze di lavoro. Eileen Shanahan, Study
on Definitions of]obless Urged, in “New York Times”, 11 gennaio 1976.
70 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
famiglia, permettendo una divisione dei beni della famiglia in base ai
servizi forniti dalla moglie (anche se, recenti casi giudiziari hanno re­
spinto la richiesta avanzata da alcune donne di dividere in parti eque
il salario maschile). Infine, il Tax Reform Act del 1976 ha permesso ai
genitori di detrarre dalle tasse le spese per la crescita dei figli fino a un
massimo di quattrocento dollari per bambino (ma i genitori devono
spendere duemila dollari per beneficiare di tale detrazione). Quanto
V alla possibilità di un compenso per il lavoro domestico, l’unica pro­
posta finora è stata quella di un prezzo simbolico funzionale alla sua
inclusione nel Pii. Il presupposto è che questo darebbe alle donne un
maggiore senso del valore del proprio lavoro e aumenterebbe la loro
soddisfazione rispetto al lavoro domestico. Tipica di questo approccio
è la raccomandazione fatta da un gruppo di specialisti che studiano il
lavoro in America:
E evidente che gestire la casa e crescere i figli è un lavoro - un lavoro che in
media è tanto difficile fare bene quanto è utile alla società, come quasi tutto
il lavoro retribuito che riguarda la produzione di beni e servizi. Il proble­
ma è [...] che come società non lo abbiamo riconosciuto nel nostro sistema
pubblico di valori e ricompense. Tale riconoscimento può iniziare semplice-
mente contando le casalinghe come parte della forza lavoro, e assegnando
un valore monetario alla loro lavoro15.
In realtà, l’unica risposta alla rivolta delle donne contro il lavoro
domestico è stata la continua crescita dell’inflazione, che ha aumenta­
to il loro lavoro in casa e la loro dipendenza dal salario maschile. Tut­
tavia, nonostante l’assenza di una legislazione favorevole e la crescita
dell’inflazione, il rifiuto del lavoro domestico gratuito da parte delle
donne è andato avanti per tutti gli anni Settanta, producendo signifi­
cativi cambiamenti nell’organizzazione di questo lavoro e nel processo
di riproduzione sociale.

Riorganizzare la riproduzione sociale


Il rapporto delle donne con il lavoro domestico negli anni Settanta
è un buon esempio di ciò che gli economisti chiamano 1’”effetto reddi­
to”, cioè la tendenza dei lavoratori a ridurre il proprio lavoro di fronte
15 Department of Health, Education and Welfare, Work in America, MIT, Cambridge (MA)
1975.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 71

a un aumento dei propri guadagni, anche se nel caso delle donne è


stato ridotto solo il lavoro non retribuito in casa. Tre modalità sono
emerse in questo senso: la riduzione, la redistribuzione (conosciuta an­
che come “condivisione”), e la socializzazione del lavoro domestico.
La riduzione del lavoro domestico si è ottenuta principalmente con
la riorganizzazione di molte attività domestiche su base di mercato e
con la riduzione delle dimensioni della famiglia a partire da una dra­
stica riduzione nel numero dei figli. Hanno invece svolto un ruolo mi­
nore i dispositivi o gli utensili che permettono di risparmiare lavoro.
Poche innovazioni tecnologiche sono entrate in casa negli anni Settan­
ta. Anche la persistente stagnazione delle vendite di elettrodomestici16
mostra una tendenza alla dis-accumulazione di “capitale domestico”,
in linea con la riduzione della famiglia e la dis-accumulazione dei ser­
vizi forniti dal nucleo familiare. Anche la forma dell’abitazione e dei
mobili - la cucina quasi inesistente, la tendenza a unità modulari, i
mobili convertibili e smantellabili - indicano la tendenza a espellere
dalle case molte delle sue precedenti funzioni riproduttive^ Lunico
vero dispositivo per risparmiare lavoro che le dorme hanno utilizzato
“ negli" antri Settanta sono stati i contraccettivi, come dimostra il crollo
del tasso di natalità, che è precipitato nel ì 9 / 9TT¡7Tfigli'per ogni'
mille donne-di età- compresa tra i quindici e i quarantaquattro anni.
Come ci viene spesso ricordato, il baby-boom degli anni Cinquanta
si è trasformato in un collasso delle nascite, che sta profondamente
intaccando ogni settore della vita sociale: il sistema scolastico, la for­
za lavoro che - se questa tendenza continua - subirà un progressivo
invecchiamento e la produzione industriale che deve rivedere le sue
priorità per soddisfare le esigenze di una popolazione più vecchia17.
Nonostante le previsioni di un nuovo baby-boom, questa tendenza
è destinata a continuare. Contrariamente agli anni Cinquanta, le don­
ne americane oggi sono disposte a rinunciare alla maternità, al punto
di accettare la sterilizzazione per mantenere un posto di lavoro18, piut­
tosto che accettare il lavoro e i sacrifici che avere dei figli comporta.
16 Confrontando le vendite nel settore dei servizi con le vendite di elettrodomestici, l’aumen­
to delle prime (rispetto alle vendite di elettrodomestici) risulta raddoppiato in meno di
dieci anni: 6,3 per cento nel 1965; 8,7 per cento nel 1970; 11,8 per cento nel 1975; 11 per
cento nel 1976.
17 L’attuale crollo del tasso della natalità sta svolgendo un ruolo importante nella discussione
sulle politiche in materia di immigrazione. Si veda il lavoro di Michael L. Wachter (Mi­
chael L. Wachter, The Labor Market and lllegal Immigration: The Outlook for thè 1980s,
in “Industrial and Labor Relations Review”, 33,3, Aprii 1980, pp. 342-354).
18 È il caso di cinque lavoratrici dello stabilimento della Cyanamid Company a Wilson Island
72 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

La riduzione del lavoro domestico è testimoniata anche dal cre­


scente numero di donne che rimandano il matrimonio o non si sposa­
no (vivono da sole o in coppie dello stesso sesso, o in ambienti comu­
ni), così come dal crescente tasso di divorzi (richiesti soprattutto da
donne) che nel corso degli anni Settanta hanno segnato ogni anno un
nuovo record. Sembra che il matrimonio abbia smesso di essere per
le donne un “buon affare” o una necessità. E se il rifiuto del matrimo­
nio non è ancora all’ordine del giorno, le donne hanno chiaramente
acquisito una nuova flessibilità rispetto agli uomini e sono ora in gra­
do di stabilire rapporti a tempo parziale, dove l’elemento del lavoro
• domestico è sostanzialmente ridotto. Il rifiuto delle donne a servire
gratuitamente gli uomini si riflette anche nella continua crescita di
famiglie con a capo una donna, Qui, però, è necessario fare qualche
precisazione, perché troppo spesso questa tendenza è stata interpre­
tata come una “sindrome del nido infranto (broken home syndrome)”,
causata dalle politiche del welfare che impediscono la corresponsione
dei sussidi alle famiglie con figli a carico (a f d c ) quando c’è un uomo
in casa. In altre parole, troppo spesso la crescita nel numero delle
famiglie con a capo una donna è stata vista in un’ottica vittimistica,
che ignora il tentativo delle donne di ridurre il proprio lavoro e la
disciplina che una presenza maschile in casa comporta. Che l’impatto
delle politiche del welfare sia stato sopravvalutato lo prova anche un
recente esperimento condotto a Seattle, in cui sono stati dati i sussidi
ad alcune coppie. A distanza di un anno si è registrato lo stesso tasso
di rottura del matrimonio delle famiglie in welfare. Ciò dimostra che
le famiglie non si spaccano perché hanno accesso al welfare, ma che
il welfare permette alle donne di acquistare autonomia dagli uomini
we porre fine „a rapp^gtf.che esistono solo dmbase allaNecessità econo­
mica1^.
(Pleasant County) in West Virginia, che per paura di perdere il posto di lavoro hanno
deciso di sterilizzarsi quando l’azienda ha ridotto il numero di sostanze chimiche a cui le
donne in età fertile potevano esporsi senza pericolo (cfr. West Virginia Women’s History,
redatto dall’Archivio di Stato del West Virginia). Questo non è un caso isolato, come è
emerso nel corso del processo che il sindacato dei lavoratori dell’auto, United Auto Wor-
kers (uaw), ha intentato contro General Motors, in opposizione all’imposizione di limiti
lavorativi per le donne in età fertile.
19 II tasso più alto di crescita delle famiglie con a capo una donna è stato tra le donne di­
vorziate. La situazione delle donne capo-famiglia mostra le difficoltà che esse affrontano
quando cercano di “farcela da sole”, come segnalano i livelli di reddito più bassi rispetto
a ogni altro gruppo della popolazione. Ciò è dovuto sia ai bassi livelli dei sussidi per i figli
a carico (afdc) che ai bassi salari che le casalinghe percepiscono quando entrano nel mer­
cato del lavoro. Finché il lavoro domestico non sarà riconosciuto come lavoro, la casalinga
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 73
Le donne non hanno solo ridotto il lavoro domestico, hanno anche
cambiato le condizioni di tale lavoro. Hanno, ad esempio, messo in
discussione il diritto del marito di rivendicare dalla moglie prestazioni
sessuali indipendentemente dal suo consenso. Il processo, nel 1979, a
unimmo accusato di aver violentato la moglie è stato una grossa svol­
ta in questo senso; perché mai, prima di allora, costringere la moglie
a fare sesso era stato considerato un crimine. Altrettanto significativa
è stata la rivolta delle donne contro le percosse, cioè contro le puni-
zidmTisicKe-domestiche, tradizionalmente condonate dai tribunali e
implicitamente legittimate dalla polizia come condizione dell’essere
casalinga. Di fronte al nuovo potere che le donne hanno acquisito e
alla loro determinazione a rifiutare i tradizionali “rischi” del lavoro
domestico, i tribunali hanno riconosciuto il diritto della moglie mah,
trattata all’autodifesa.
Un altra tena^za che si e attenuata nel corso degli anni settanta
è stata la “con divisione del lavoro”, a lungo reclamata da molte fem­
ministe comeTTsoluzione ideale al problema del lavoro domestico.
Tuttavia, quando si considera quanto si è ottenuto a tal proposito, ci
si rende conto degli ostacoli che le donne devono affrontare quando
cercano di far rispettare una divisione più egualitaria del lavoro in casa.
Indubbiamente oggi gli uomini sono più propensi a fare alcuni
lavori domestici, in particolare quando si tratta di coppie in cui en-
...trambi i partner lavorano. Ci sono anche molte coppie che stipulano
per contratto matrimoniale la divisione del lavoro in famiglia. Negli
anni Settanta è anche apparso un nuovo fenomeno: il casalingo, forse
più diffuso di quanto si pensi, data la riluttanza di molti uomini ad
ammettere di essere mantenuti dalle mogli. Ma nonostante una ten­
denza alla desessualizzazione del lavoro domestico, come indica un
recente sondaggio, la maggior parte del lavoro fatto in casa è ancora
svolto dalle donne, anche quando hanno un secondo lavoro. Anche le
'l coppie che stabiliscono relazioni più egualitarie si trovano di fronte
1a uña vera svolta quando nasce un bambino. Il motivo del cambia-
Imento sono i benefici salariali che un uomo perde quando si assenta
jdal lavoro per prendersi cura dei figli. Ciò significa che innovazioni
¡come il “tempo flessibile” non sono sufficienti a garantire un’equa
^divisione del lavoro domestico, dato il calo nel tenore di vita che com­
porta l’assenza degli uomini dal lavoro salariato. Ciò indica anche che
sarà sempre considerata priva di qualifiche e costretta ad accettare i lavori con i salari più
bassi.
74 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

il tentativo delle donne di ridistribuire il lavoro domestico in famiglia


è più facilmente scoraggiato dai bassi salari che le donne percepiscono
nel mercato del lavoro che non dagli atteggiamenti maschili rispetto
a questo lavoro.
La prova più chiara del fatto che le donne hanno usato il potere
ottenuto con il salario per ridurre il lavoro domestico è stata r.egpl°-
sione del settore dei servizi20. Cucinare, pulire, prendersi cura dei fi­
gli e finanche procurarsi una compagnia sono attività che sempre più
“sono portate fuori dalla casa”, organizzate su base commerciale. Si
calcola che, oggi, gli americani fanno la metà dei pasti fuori casa e
negli anni Settanta l’industria del fast-food è cresciuta a un tasso del
15 per cento annuo, nonostante l’inflazione abbia favorito la rinascita
del “fai-da-te”. Altrettanto significativa è stata l’esplosione del settore
della ricreazione e del divertimento che sta raccogliendo il compito
tràdmonalmente femminile di rendere febee sfar rilassa la famiglia.
Infatti, nel momento in cui mogli e madri sono entrate in “sciopero”,
molti dei loro servizi precedentemente invisibili sono diventati merci
sul mercato, attorno alle quali si sono costruite intere industrie. Tipici
esempi sono l’industria del corpo - dal centro benessere alla sala mas­
saggi, con i suoi molteplici servizi sessuali, terapeutici ed emotivi - e
le industrie create attorno al jogging. La popolarità del jogging è di
per sé un segno della nuova consapevolezza che ci si deve “prendere
cura di sé “, perché nessun altro lo farà. Un’altra prova della tendenza
al dis-accumulo dei servizi domestici è la crescita degli asili e il note­
vole aumento del numero di bambini iscritti alle scuole materne (pari
al 194 per cento dei bambini di tre anni tra il 1966' e il 1976)21.

20 U.S. Department of Commerce, Service Industries: Trends and Prospects, U. S. Gover­


nment Printing Office, Washington DC, 1975, pp. 3-13.
21 Tuttavia, si è calcolato che a partire dal 1977 solo il 3 per cento dei bambini con meno
di due anni e il 5 per cento di quelli di età compresa tra i 3 e i 5 hanno frequentato un
asilo nido. In uno studio del 1975 del Census Bureau sui servizi per l’infanzia, la maggior
parte dei genitori intervistati individuava se stessi o il sistema pubblico come i principali
erogatori di servizi per i loro figli. La responsabilità per il divario tra il numero di asili
nido disponibili e le esigenze delle donne che lavorano - comprese quelle che lavorano in
casa - va attribuita alla politica del governo federale che considera il sussidio all’asilo nido
legittimo solo nel caso di famiglie “con handicap” e paga il sussidio per l’asilo nido solo
alle donne sole con figli a carico (afdc). Se si fa eccezione per la detrazione dalle tasse,
l’investimento federale negli asilo nido è diminuita negli anni Settanta, soprattutto dopo
il 1975. In questo contesto l’unica alternativa per le madri è organizzarsi personalmente o
affrontare i costi considerevoli di un asilo nido a pagamento, a una media di 50 dollari per
settimana, una somma che incide sui loro guadagni senza d’altra parte fornire un servizio
adeguato.
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 75
Considerate nel loro complesso, queste tendenze indicano una
trasformazione importante nell’organizzazione della riproduzione
sociale, nel senso che il lavoro di riproduzione è sempre più deses-
sualizzato, portato fuori casa e, cosa più importante, salariato. Così,
mentre la casa rimane il centro per la riproduzione della forza lavo­
ro (o del capitale “umano”, dal punto di vista del business)., cala la
sua importanza come spina dorsale dei servizi riproduttivi. E la crisi
dell’organizzazione della riproduzione che ha caratterizzato l’econo-
mia keynesiana del dopoguerra. In questo modello economico, il lavo­
ro domestico era comandato e regolato mediante l’organizzazione del
salario maschile, che funzionava sia come investimento diretto nel ca­
pitale umano, sia come stimolo alla produzione, attraverso il suo ruolo
di stimolo alla domanda e al consumo. In questo contesto, mentre il
lavoro domestico delle donne veniva nascosto dal salario maschile e
l’unica attività riconosciuta come lavoro era la produzione (salariata)
di merci, le donne stesse diventavano appendici, variabili dipendenti
dai cambiamenti e dalle trasformazioni nel posto di lavoro. Dove il
marito viveva, che lavoro faceva, che salario percepiva determinava
direttamente l’intensità del lavoro delle donne e i livelli di produtti­
vità loro richiesti. Rifiutando di lavorare gratis le donne hanno rotto
questo accordo. Hanno rotto con il rapporto casa/fabbrica, salario
maschile/lavoro domestico, e si sono poste come “variabili indipen­
denti”, con cui il governo e i datori di lavoro devono confrontarsi
direttamente anche sul piano della riproduzione. In questo processo la
riproduzione della forza lavoro assume uno status economico autonomo
in rapporto alla produzione di merci, tanto che la produttività del lavò1
ro riproduttivo non viene più (come in passato) misurata in base alla
'produttività del lavoratore maschio nel suo lavoro, ma direttamente'
nel punto jnxui i servizi sono forniti.
Indubbiamente, per tutti gli anni Settanta, il governo e le imprese
hanno utilizzato la riorganizzazione della riproduzione per contene­
re i salari maschili che avevano continuato a crescere nel corso de­
gli anni Sessanta e per smantellare i programmi di assistenza sociale
che hanno sostenuto le politiche di “sviluppo del capitale umano”
dal dopoguerra fino al programma di una “Grande Società” lanciato
dal presidente democratico Lyndon B. Johnson negli anni Sessanta22.
22 Si tratta di un programma di riforme sul piano nazionale (conosciuto negli Stati uniti
come Great Society) che puntava a eliminare la povertà e l’ingiustizia razziale attraverso
una politica di incentivi per l’istruzione, le cure mediche, i servizi urbani e i trasporti
(N.d.T.).
76 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Affermando che la spesa sociale non aveva dato i risultati attesi, il go­
verno ha incoraggiato la riorganizzazione della riproduzione su base
di mercato, perché sembrava che ciò potesse garantire (nonostante il
basso livello di produttività, almeno rispetto alle misure convenziona­
li) un tornaconto immediato, indipendentemente dalla produttività
della forza lavoro prodotta. Ma pur riducendo la spesa sociale e cre­
ando un clima in cui il welfare veniva denunciato come uno dei prin­
cipali problemi della società americana, il governo non è riuscito a eli­
minare quello che può essere considerato il primo esempio di “salario
al lavoro domestico”23. Non solo, mentre il welfare/salario percepito
dalle donne crollava, e “donne” rimaneva sinonimo di “povertà”, il
salario totale nelle mani delle donne è decisamente aumentato. Anche
il tentativo di usare la richiesta di lavoro salariato da parte delle don­
ne per comprimere i salari maschili (con una riorganizzazione della
produzione che smantella la manifattura e incoraggia lo sviluppo del
settore dei servizi), non ha fornito i risultati attesi.
Si è notato che, nonostante gli alti tassi di disoccupazione, non c’è
stata negli anni Settanta quella reazione violenta contro l’occupazione
femminile (soprattutto contro l’impiego delle donne sposate), che si
"era avuta negli anni Trenta e Quaranta24. Gli uomini sembrano aver
riconosciuto i benefici di un doppio rèddito, come indica la continua
riduzione della partecipazione maschile alla forza lavoro. Si nota an­
che che in rapporto al lavoro, gli uomini si comportano sempre più
come le donne. Non solo si è rotto quel modello che vede il marito-
“portare a casa i soldi” e la moglie-casalinga (secondo le statistiche
del Dipartimento del Lavoro questo vale oggi per solo il 34 per cen-

23 Lo smantellamento del welfare, e in particolare del programma di sussidi alle famiglie con ,,
figli a carico, è avvenuto nel 1996, per iniziativa dell’amministrazione Clinton. La riforma
ha sostituito il programma federale di Aiuti alle famiglie con figli a carico con l’elargizione
.di-fondi ai vari stati da dedicare all’Assistenza Temporanea alle Famiglie Bisognose, In
questo modo gli stati, e non più il governo federale, sono diventati responsabili per gli
aiuti, che ora amministrano in modo discrezionale e sempre, comunque, in modo tempo­
raneo. Su questo argomento si veda: Rebecca Blank e Ron Haskins (a cura di), The New
World of Welfare, Brooking Institution Press, Waskington DC 2001.
24 Come sottolinea Valerie K. Oppenheimer, negli anni Trenta e Quaranta, prevalevano at­
teggiamenti negativi nei confronti delle donne sposate che lavoravano, in quanto si teme­
va che avrebbero tolto il lavoro agli uomini. Ventisei stati dell’Unione hanno approvato
disegni di legge contro l’occupazione delle donne sposate. Oppenheimer osserva anche
che prima della crisi del 1929, “il sistema scolastico, per la gran parte, non era disposto
ad assumere donne sposate come insegnanti, e circa la metà degli istituti scolastici aveva
chiesto alle insegnanti di ritirarsi al momento matrimonio” (Oppenheimer, Female Labor
Force, cit, p. 127-28,130).
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 77
to degli uomini in età lavorativa), è anche cambiato il rapporto del
marito rispetto al lavoro. Se la moglie ha un lavoro salariato è, per
esempio, meno facile che il marito accetti un trasferimento di lavoro.
Oggi i mariti sono più disposti a rinunciare a una promozioni piutto­
sto che affrontare uno spostamento che comprometterebbe il lavoro
delle mogli; cambiano più spesso lavoro, preferiscono quelli dove la­
vorano meno ore a quelli con salari più alti, e vanno in pensione prima
rispetto al passato. Inoltre, il doppio stipendio in famiglia ha fornito
un’importante difesa contro la disoccupazione e l’inflazione. Negli ul­
timi anni, grazie alla costante espansione dei consumi (e del debito),
la recessione che era stata prognosticata non si è verificata. Con la
prospettiva di un doppio reddito, le famiglie hanno avuto meno paura
di spendere e indebitarsi, al punto che l’inflazione ha avuto l’effetto
opposto a quello classico: ha aumentato la spesa invece di diminuirla.

Conclusioni
È chiaro che il rifiuto delle donne di lavorare in casa senza retribu­
zione ha innescato importanti cambiamenti nell’organizzazione della
riproduzione e nelle condizioni del lavoro femminile. Stiamo assisten­
do alla crisi della tradizionale divisione sessuale del lavoro che confina
le donne al lavoro riproduttivo (non salariato) e gli uomini alla produ­
zione (salariata) di merci. Tutti i rapporti di potere tra uomini e donne
sono stati costruiti sulla base di questa “differenza” e la maggior parte
delle donne non ha avuto altra alternativa che dipendere dagli uomini
per la sopravvivenza economica, sottoponendosi alla disciplina che
deriva da questa dipendenza. Come già indicato, il principale cam­
biamento in questo senso è stato compiuto dalla crescente migrazione
delle donne nella forza lavoro salariata, che, nel corso degli anni Set­
tanta, ha costituito il più importante fattore di crescita del loro potere
socio-economico. Questa strategia, tuttavia, ha molti limiti. Mentre
il lavoro degli uomini è diminuito nel corso dell’ultimo decennio, le
donne di oggi lavorano decisamente di più rispetto al passato. Ciò è
particolarmente vero per le donne capofamiglia e per quelle con bassi
salari che sono spesso costrette a fare un secondo lavoro in nero per
sbarcare il lunario25. Il fardello che portano ancora le donne è ben
25 La quota di lavoro nero delle donne è quasi raddoppiato nel periodo 1969-1979, anche se
le cifre potrebbero essere più alte se includessimo l’occupazione femminile nell’economia
78 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
riflesso nella loro storia medica. Si è dato molto risalto, al fatto che le
donne vivono più degli uomini. Ma le loro cartelle cliniche raccon­
tano una storia diversa. Le donne, in particolare intorno ai trent’am
ni, hanno iljpiù alto tasso di suicidio tra i giovani, i più alti tassi di
consumo di droga, di esaurimento nervoso e di terapie per problemi
mentali (ospedaliere e ambulatoriali); sono più propense degli uomi­
ni a segnalare stress e disagio26. Queste statistiche sono un sintomo
del prezzo che le donne stanno pagando tanto per la loro vita come
casalinghe quanto per il peso di un doppio lavoro, ovvero il peso di
una vita costruita esclusivamente sul lavoro. E ovvio che senza una
profonda trasformazione nelle politiche sociali ed economiche e nelle
priorità sociali, nessun cambiamento positivo potrà avvenire nella vita
delle donne.
Eppure se ciò che il neo-eletto presidente Reagan ha promesso di­
venterà realtà, le donne dovranno combattere una battaglia ancora
più dura per difendere ciò che hanno conquistato negli anni Sessanta
e Settanta. Ci dicono che taglieranno la spesa sociale, che sarà aumen­
tato il bilancio militare, che si ridurranno le tasse ma in un modo che
awantaggerà le imprese mentre darà scarso sollievo alle persone con
reddito basso e nessuno a quelle senza reddito. Inoltre, il tipo di cre­
scita economica promosso dagli economisti dell’entourage di Reagan,
minaccia le donne con l’incubo di una continua crescita dell’inquina­
mento, dovuto all’accumulazione di scorie nucleari e alla de-regola-
mentazione industriale. In altre parole, ci promette altre Three Mile
Island, altre Love Canals27, altre malattie in famiglia, altre preoccupa­
zioni quotidiane per la nostra salute e quella dei nostri figli e parenti,
e dunque altro lavoro per far fronte alle malattie.
Allo stesso tempo dubitiamo che un tasso di crescita economica
più lento, basata su un minor consumo di energia, “possa avere un
<KÌ<

sommersa. Nel 1969, le donne erano il 16 per cento di tutti i lavoratori in nero, mentre ■
nel 1979 erano il 30 per cento. Si calcola che le donne lavorano in nero per una media di '
cinquantadue ore settimanali (Monthly Labor Report 103, 5, maggio 1980).
26 Women and Health, United States 1980, pp. 9-11, 36-37.
27 Si tratta di un quartiere, poi demolito, nella città di Niagara Falls, nello stato di New
York, che nel 1978 è stato al centro di un’emergenza sanitaria federale. La zona era stata
precedentemente utilizzata per seppellire ventunomila tonnellate di rifiuti tossici dell’im­
presa Hooker Chemical (oggi Occidental Petroleum Corporation) con gravi ripercussioni
sull’ambiente e sulla salute dei residenti: disturbi nervosi, tumori, aborti spontanei, mal-
formazioni e ritardi mentale nei nuovi nati. Dopo un’intensa campagna di mobilitazione
da parte dei cittadini e soprattutto da parte delle donne, il quartiere nel 1979 è stato
demolito e l’area bonificata [N.d.T.].
RISTRUTTURAZIONE DEL LAVORO DOMESTICO E RIPRODUZIONE 79
effetto benefico sul ruolo che le donne ricoprono nella società”28. Il
modello economico della crescita lenta che viene solitamente propo­
sto è il modello di una società basato sul lavoro intensivo, che aumen­
ta in modo particolare quella parte di lavoro che non è non salariata:
il lavoro domestico. Quali “attività personali creative” siano previste
per le donne con la proposta di un tipo di tecnologia soft, ce lo descri­
ve uno dei suoi sostenitori, l’economista inglese Amory Lovins, che
raccomanda di crescere ortaggi, far marmellate di frutta e verdure,
tessere, cucire vestiti, isolare le finestre e i solai, riciclare i materiali29.
Esaltando il ritorno al “fai-da-te” come una vittoria della qualità sulla
mediocrità, dell’individualismo sul sistema (le emozioni che liberano
tali attività - ci viene detto - sono “potenti, di lunga duratura e con­
tagiose”), Lovins lamenta che: “Abbiamo sostituito il guadagno alla
vecchia etica del servire e della cura come unica motivazione legittima
per il lavoro. Così l’alienazione ha preso il posto dell’appagamento
lasciandoci in uno stato di povertà interiore”30.
Sulla stessa linea, Nancy Barrett prevede che in un’econopiia a cre­
scita lenta: .
Il confine tra lavoro e tempo libero può sfocarsi [...] e chi sta a casa, lui o
lei, non si sentirà inutile se contribuisce al risparmio di carburante e all’au­
mento delle provviste alimentari. Se l’attività non-di-mercato è percepita
come socialmente utile, è più probabile che le persone che non lavorano
(in prevalenza donne, dati i modelli di comportamento prevalenti) si sen­
tano appagate, più che in passato, anche quando restano fuori della forza
lavoro31.
Ma - è legittimo chiedersi - questo quadro idilliaco di una vita
interamente costruita attorno alla nostra riproduzione e quella degli
altri non è la vita che le donne hanno sempre fatto? Non si tratta,
ancora una volta, della solita glorificazione del lavoro domestico, che
tradizionalmente è servita a giustificare la sua condizione di lavoro
npn pagato, contrapponendo questa “importante, utile e soprattutto
altruista attività” con le presunte avide aspirazioni di quante chiedono
28 Nancy Smith Barrett, The Economy Ahead ofUs, in Juanita M. Kreps (a cura di), 'Women
and thè American Economy: A Look to thè 1980s, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ
1976, p. 165.
29 Amory Lovins, Soft Energy Paths: Towards a Durable Peace, Harper Collins, New York
1979, p. 151.
30 Ivi, p. 169.
31 Smith Barrett, The Economy Ahead ofUs, cit., p. 166.
80 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

di essere pagate per il loro lavoro? Infine, non siamo di fronte alla
vecchia logica usata per fare in modo che le donne ritornino a casa?
Se i cambiamenti che le donne negli Stati uniti hanno fatto negli
ultimi dieci anni sono un segno della direzione in cui si stanno muo­
vendo, è improbabile che possano essere soddisfatte di un aumento
del lavoro domestico, anche se accompagnato da un riconoscimento
universale, ma puramente morale, del suo valore. In questo contesto,
siamo d’accordo con Nancy Barrett che le donne:
Potrebbero trovare necessario interessarsi a forme di appoggio finanziario
per le loro attività non di mercato, per il salario al lavoro domestico, per la
Sicurezza Sociale [...] ... anche altri tipi di ricompensa per il lavoro domesti­
co potrebbero diventare oggetto di crescente interesse32.

32 Ibidem.
La riproduzione della forza lavoro nell’economia globale
e l’incompiuta rivoluzione femminista

Il lavoro delle donne è profondamente radicato nell’essenza


stessa della struttura sociale ed economica del capitalismo.
David Staples, No Place Like Home (20,06)
E chiaro che il capitalismo ha portato al super-sfruttamento
delle donne. Sarebbe poco confortante se ciò avesse causato
solo un’intensificazione della miseria e dell’oppressione, ma
per fortuna ha anche prodotto resistenza. E il capitalismo ha
imparato che ignorare o sopprimere questa resistenza può
renderla sempre più radicale e trasformarla in un movimen­
to per l’autonomia e magari anche nel nucleo di un nuovo
ordine sociale.
Robert Biel, The New Imperialism (2000)
La forza non salariata delle donne, che attraverso il loro
lavoro restano connesse alle attività economiche che ripro­
ducono la vita, è il soggetto emergente nel processo di li­
berazione del Terzo Mondo. Le donne sono interessate alla
produzione della vita non alla produzione delle merci. Sono
l’energia occulta che sostiene l’economia mondiale e l’equi­
valente salariale del loro lavoro di riproduzione è stimato
intorno ai 16.000 miliardi dollari.
John McMurtry, The Cancer State ofCapitalism (1999)
Il mortaio si è rotto dopo tanto pestare. Domani andrò a
casa. Fino a domani, fino a domani. [...] Dopo tanto pestare,
domani andrò a casa.
Canzone di donne in lingua Hausa della Nigeria
Questo saggio è una lettura politica della ristrutturazione del
processo di (ri)produzione della forza lavoro nell’economia globale,
ma è anche una critica femminista a Marx che, in modi diversi, si è
sviluppata fin dagli anni Settanta. E una critica che ha origine all’in­
terno della campagna “Salario al lavoro domestico”, a partire dalle
riflessioni di Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Leopoldina Fortu­
nati, più tardi riprese da Ariel Salleh in Australia e dalle femministe
della scuola di Bielefeld: Maria Mies, Claudia von Werlhof, Veronica
Bennholdt-Thomsen. La tesi centro è che l’analisi di Marx del capita-
82 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
lismo non riesce a concepire il lavoro che produce valore se non nella
forma della produzione di merci. Da qui la sua cecità rispetto all’im­
portanza del lavoro di riproduzione, e del lavoro domestico in parti­
colare, nel processo di accumulazione capitalista. Come ho sostenuto
in Caliban and thè Witch, aver ignorato questo lavoro fa sì che Marx
non colga la reale dimensione dello sfruttamento capitalistico e la
funzione del salario nella creazione di divisioni all’interno della classe
operaia, a cominciare dal rapporto tra donne e uomini. Se Marx aves­
se riconosciuto che il capitalismo deve mobilitare un’immensa quan­
tità di lavoro domestico non retribuito per produrre la forza lavoro e
' deve, inoltre, svalorizzare il lavoro e i soggetti di questa produzione
per tenerne basso il costo, sarebbe forse stato meno incline a con­
siderare come necessario e progressivo lo sviluppo del capitalismo.
Quanto a noi, un secolo e mezzo dopo la pubblicazione del Capitale,
abbiamo almeno tre ragioni per mettere in discussione questa ipotesi.
In primo luogo, cinque secoli di sviluppo capitalistico hanno
esaurito le risorse del pianeta invece di creare le “condizioni mate­
riali” per il passaggio al “comunismo”, mediante l’espansione delle
“forze produttive” come Marx ipotizzava. Lo sviluppo capitabstico,
inoltre, non ha, come Marx prevedeva, reso obsoleta la “scarsità”,
che farebbe da ostacolo alla liberazione dell’umanità. Al contrario, la
creazione della scarsità su scala mondiale è oggi non solo una diretta
conseguenza ma una necessità logica della produzione capitalistica.
Non a caso, all’immensa crescita delle forze produttive si accompa­
gna l’impoverimento di gran parte della popolazione del pianeta. In
secondo luogo, mentre il capitalismo apparentemente rafforza la co­
operazione tra i lavoratori nella produzione di merci, in realtà li se­
para: attraverso una divisione ineguale del lavoro, attraverso la diver­
sificazione salariale che conferisce ai salariati potere sui non salariati,
e attraverso l’istituzionalizzazione del sessismo e del razzismo che
naturalizzano e mistificano, con l’attribuzione di diverse “persona­
lità”, l’organizzazione di differenti regimi del lavoro. In terzo luogo,
a partire dalle rivoluzioni messicana e cinese, le lotte antisistemiche
più significative del secolo scorso non sono state combattute solo
o principalmente dai lavoratori industriali salariati - i soggetti rivo­
luzionari secondo le previsioni di Marx - ma dai movimenti rurali,
indigeni, anticoloniali, antiapartheid e femministi. Anche oggi le lotte
antisistemiche coinvolgono agricoltori che difendono le proprie for­
me di sussistenza, occupanti di case e territori nelle periferie urbane,
nonché lavoratori industriali in Africa, India, America Latina e Cina.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 83
Queste lotte sono combattute soprattutto da donne che, contro ogni
previsione, stanno riproducendo le proprie famiglie indipendente­
mente dal valore che il mercato riconosce alla loro vita, valorizzando
la loro esistenza, riproducendole per se stesse, anche quando i capi­
talisti le dichiarano inutili come forza lavoro.
Che prospettive ha dunque la teoria marxista di porsi come guida
della “rivoluzione” del nostro tempo? Pongo questa domanda a par­
tire da un’analisi della ristrutturazione della riproduzione nell’econo­
mia globale e dei suoi effetti sulla posizione sociale delle donne. Se la
teoria marxista vuole parlare ai movimenti anticapitalisti del xix seco­
lo, deve ripensare la questione della “riproduzione” e deve assumere
una prospettiva planetaria. Riflettere sulle attività che riproducono la
nostra vita dissolve anzitutto l’illusione che l’automazione possa crea­
re le condizioni materiali per una società senza sfruttamento. Mostra
che l’ostacolo alla “rivoluzione” non sono la scarsità o la mancanza di
know-how tecnologico ma la sistematica svalutazione della vita umana
e dei sistemi ecologici, e le divisioni che lo sviluppo capitalistico con­
tinua a produrre nella classe operaia. Il pericolo oggi è anche che il
capitalismo, oltre a divorare la terra, scateni altre guerre come quella
che gli Stati uniti hanno avviato in Afghanistan e in Iraq, fomentate
dalla volontà delle imprese di appropriarsi delle risorse naturali del
pianeta e controllare l’economia mondiale.

Marx e la riproduzione della forza lavoro


Sorprende, se si considera la raffinatezza della sua riflessione, che
Marx abbia ignorato nella sua vasta produzione teorica e politica resi­
stenza del lavoro riproduttivo svolto dalle donne. Egli riconosce che
la forza lavoro, non meno di ogni altra merce, deve essere prodotta e,
nella misura in cui ha un valore monetario, rappresenta “una quantità
determinata di lavoro sociale medio aggettivato in essa”1. Ma mentre
esamina meticolosamente la dinamica della produzione dei filati e di
altre forme di valorizzazione capitalistica, è sintetico quando affron­
ta la questione della riproduzione della forza lavoro, che è ridotta al
consumo delle merci che i lavoratori possono acquistare con il salario
e al lavoro richiesto per la produzione di tali merci. Per Marx, quin­
di, il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza lavoro1
1 Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, Einaudi, Torino 1975, p. 205.
84 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

coincide con il tempo necessario per la produzione dei suoi mezzi


di sussistenza. In altre parole, anche nell’analisi di Marx, come nello
schema neoliberista, tutto quello che è necessario per (ri)produrre la
forza lavoro sono la produzione di merci e il mercato. Nessun altro la­
voro interviene nella preparazione delle merci che i lavoratori consu­
mano o nella ricostituzione fisica, emotiva e intellettuale della capacità
lavorativa. Non c’è nessuna differenza tra la produzione di merci e la
v produzione della forza lavoro2. Sono entrambe prodotte da una stessa
catena di montaggio. Quindi il valore della forza lavoro è misurato dal
valore delle merci (cibo, vestiti, abitazioni) di cui ha bisogno il lavo­
ratore, l’individuo per la sua “conservazione”, cioè il tempo di lavoro
necessario per la loro produzione3.
Anche quando discute la riproduzione generazionale della forza
lavoro, Marx è estremamente conciso. Ci dice che i salari devono
essere sufficientemente elevati per garantire che il lavoratore possa
essere continuamente reintegrato dai suoi figli, in modo che la forza
lavoro perpetui la sua presenza sul mercato4. Ma, ancora una vol­
ta, gli unici attori di questo processo sono i lavoratori maschi che si
auto-riproducono e i loro salari e mezzi di sussistenza. La produzione
dei lavoratori si compie attraverso la produzione di merci. Non si fa
accenno al lavoro domestico, all’attività sessuale o alla procreazio­
ne. Marx parla della procreazione come di un fenomeno naturale,
puramente biologico, e non come di un’attività sociale, che è stata
storicamente terreno di programmazione capitalistica e di resistenza
da parte delle donne. Marx presume inoltre che lo stesso processo di
accumulazione sia capace di fornire ai capitalisti tutta la forza lavoro
necessaria per la produzione, nella misura in cui la continua inno­
vazione tecnologica crea una popolazione “in eccesso” pronta per
nuove forme di sfruttamento. Pur riconoscendo, quindi, che “la con­
servazione e la riproduzione costante della classe operaia rimane con­
dizione costante della riproduzione del capitale”, conclude che “il
capitalista può tranquillamente affidare all’istinto di conservazione e
di procreazione degli operai il soddisfacimento di questa condizione
[e provvedere] soltanto a limitare il più possibile al puro necessario
il loro consumo individuale”5. In ciò Marx si dimostrava più otti­
mista di molti riformatori del suo tempo che, scandalizzati dall’alta
2 Ivi, pp. 206-207.
3 Ivi, p. 206.
4 Ivi, p. 207.
5 Ivi, p. 703.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 85
mortalità infantile nei distretti proletari, ammonivano che le donne
non avrebbero continuato a riprodurre la specie, se non fossero state
liberate dal lavoro industriale6.
Perché Marx ignora in modo così persistente il lavoro riprodutti­
vo delle donne? Perché, per esempio, non si domanda come devono
essere trasformate le materie prime implicate nel processo di ripro­
duzione della forza lavoro perché possano trasferire il loro valore nei
loro prodotti - in questo caso la forza lavoro stessa - come avviene nel
caso delle altre materie prime? Una prima risposta è che le condizioni
della classe operaia in Inghilterra - il punto di riferimento di Marx ed
Engels - spiegano in parte questa omissione7. Marx descrive la condi­
zione del proletariato industriale del suo tempo così come lo vedeva,
e il lavoro domestico delle donne non ne faceva parte.
Il lavoro domestico, come ramo specifico della produzione ca­
pitalistica, non compariva nell’orizzonte storico e politico di Marx,
quanto meno in rapporto alla classe operaia industriale. Sebbene già
nella prima fase dello sviluppo capitalistico, e soprattutto nel periodo
mercantilista, il lavoro riproduttivo fosse stato formalmente sussunto
nell’accumulazione capitalistica, solo alla fine del xix secolo il lavoro
domestico emergerà come motore fondamentale per la riproduzione
della forza lavoro industriale, organizzato dal capitale per il capitale,
in base alle esigenze della produzione in fabbrica. Fino alla seconda
metà del xix secolo, la politica della classe capitalistica è stata 1’“esten­
sione illimitata della giornata lavorativa” e la massima compressione
del costo di produzione della forza lavoro, cosicché il lavoro ripro­
duttivo veniva ridotto al minimo. Le conseguenze di questa tendenza
sono vividamente descritte nel primo Libro Primo del Capitale, nel
capitolo sulla giornata lavorativa, e in La situazione della classe opera­
ia Inghilterra (1845) di Engels, dove si vede una classe operaia quasi
incapace di riprodursi, che muore in gioventù per troppo lavoro con
un’aspettativa di vita media di trent’anni8.
Solo alla fine del XIX secolo, la classe capitalistica ha cominciato a
investire nella riproduzione del lavoro, in concomitanza con un cam­
biamento nella forma di accumulazione - dall’industria leggera a quel­
la pesante - che richiedeva una maggiore disciplina del lavoro e lavora-
6 Wally Seccombe, Weathering thè Storm: Working-Class Families from thè Industriai Revo­
lution to thè Fertility Decline, Verso, London 1993, p. 56.
7 Silvia Federici, Caliban and thè Witch. Women, thè Body and Primitive Accumulation,
Autonomedia, Brooklyn 2004.
8 Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p. 296.
86 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

tori meno emaciati. In termini marxiani, possiamo dire che lo sviluppo


del lavoro riproduttivo e la conseguente nascita della casalinga a tempo
pieno sono stati il prodotto di una nuova modalità di sfruttamento del
lavoro, che Marx definisce come il passaggio dal “plusvalore assoluto”
al “plusvalore relativo”. Si tratta del passaggio da un sistema di sfrut­
tamento basato sul prolungamento assoluto della giornata lavorativa a
uno in cui la riduzione della stessa veniva compensata, mediante una
V rivoluzione tecnologica, dall’intensificazione dello sfruttamento del la­
voro. E in questa congiuntura che si è reso necessario incrementare
l’investimento (di fondi e lavoro) nella riproduzione della forza lavoro.
Da qui la promulgazione di vari Factory Acts che hanno ridotto il la­
voro delle donne in fabbrica e introdotto una nuova politica salariale
che aumentava (del 40 per cento alla fine del secolo) il salario maschile.
Ma al tempo in cui Marx scriveva il Capitale, la maggior parte delle
proletarie lavoravano in fabbrica dalla mattina alla sera, per una media
di quattordici ore al giorno e avevano ben poco tempo per il lavoro
domestico. Notando questo fenomeno, Marx scriveva che “i lavori ri­
chiesti dal consumo familiare, come cucito, rammendo, ecc., debbono
essere sostituiti con l’acquisto di merci finite”9, e al tempo della Guerra
Civile negli Stati uniti commentava che la crisi dell’industria del co­
tone, che la guerra aveva provocato, era almeno servita alle operaie a
imparare a cucinare e allattare i figli invece che di avvelenarli con gli
oppiacei. “Ci volevano - scriveva - una rivoluzione in America e una
crisi [economica] mondiale perché le figlie degli operai che filavano
per tutto il mondo imparassero a cucirei ”10.
È plausibile, dunque, che Marx non abbia visto il lavoro dome­
stico perché fino alla fine del xix secolo non si ha un’organizzazione
specificamente capitalistica di questo lavoro. Possiamo poi supporre,
come ulteriore motivazione, che Marx abbia taciuto su questo argo­
mento per le difficoltà che poneva la classificazione di una forma di
lavoro non oggetto di misurazione monetaria. Ma c’è anche un altro
motivo da considerare, che attiene ai limiti del marxismo come teoria
politica, se vogliamo spiegare perché non solo Marx ma intere gene­
razioni di marxisti, cresciuti in epoche in cui il lavoro domestico e la
domesticità trionfavano, hanno continuato a non vederlo.
Vorrei suggerire che Marx ha ignorato il lavoro riproduttivo delle
donne, perché è rimasto legato a un concetto tecnicista di rivoluzio-
9 Ivi, p. 484 (nota 121).
10 Ivi, p. 483 (nota 120).
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 87
ne, dove la libertà passa attraverso la macchina, dove Faumento della
produttività del lavoro è inteso come base materiale per il comunismo
e dove l’organizzazione capitalistica del lavoro è vista come il più alto
modello di razionalità storica che attiene a ogni forma di produzione,
compresa la riproduzione della forza lavoro. In altre parole, Marx non
è riuscito a riconoscere l’importanza del lavoro riproduttivo perché ha
accettato i criteri capitalistici in merito a ciò che costituisce il lavoro,
e perché ha creduto che il lavoro salariato industriale sarebbe stato il
palcoscenico sul quale si sarebbe giocata la battaglia per l’emancipa­
zione dell’umanità.
Con poche eccezioni, i seguaci di Marx hanno riprodotto le sue
stesse ipotesi (ne è testimone la continua storia d’amore con il famoso
“Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, 1857-1858), prova che
l’idealizzazione della scienza e della tecnologia come forze di libe­
razione, continua a essere una componente essenziale della visione
marxista della storia e della rivoluzione fino ai nostri giorni. Anche
il femminismo socialista, pur riconoscendo l’esistenza del lavoro ri-
produttivo nel capitalismo come lavoro specificamene femminile, l’ha
spesso definito come precapitalistico, antiquato, arretrato, immagi­
nando la ricostruzione socialista del lavoro riproduttivo come un pro­
cesso di razionalizzazione, che ne aumentasse la produttività al livello
dei settori di punta della produzione capitalistica.
La conseguenza di tale cecità è che i teorici marxisti contemporanei
non hanno colto l’importanza storica della rivolta delle donne contro
il lavoro riproduttivo, espressa dal Movimento Femminista e hanno
quindi ignorato la ridefinizione di quel movimento a proposito di cosa
è il lavoro, chi è la classe operaia e cosa è la lotta di classe. I marxisti
hanno riconosciuto l’importanza politica del Movimento di liberazione
della donna solo quando le donne hanno lasciato le organizzazioni del­
la sinistra. Ancora oggi, molti marxisti o non riconoscono il carattere
di genere di molto lavoro riproduttivo, come è il caso persino di un
eco-marxista come Paul Burkett, o lo riconoscono ma solo a parole,
come fanno Negri e Hardt nella loro analisi del “lavoro affettivo”. Ge­
neralmente, i teorici marxisti sono ancora più indifferenti alla questio­
ne della riproduzione di quanto non lo fosse Marx, il quale ha dedicato
varie pagine del Capitale alle condizioni dei bambini in fabbrica, men­
tre oggi, con rare eccezioni, è estremamente difficile trovare nei testi
dei teorici marxisti qualche riferimento alle condizioni dei minori.
Tornerò in seguito sui limiti del marxismo contemporaneo, riflet­
tendo sulla sua incapacità a cogliere il significato della svolta neoli-
88 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

berista e del processo di globalizzazione. Per il momento mi limito


a osservare che, a partire dagli anni Sessanta, l’analisi di Marx del
capitalismo e dei rapporti di classe, è stata sottoposta a una critica
radicale da parte degli studiosi terzomondisti, come Samir Amin e
Andre Gunder Frank, che ne hanno criticato l’eurocentrismo e la ten­
denza a privilegiare il proletariato industriale salariato quale principa­
le artefice dell’accumulazione capitalistica e soggetto rivoluzionario11.
Tuttavia, è stata la rivolta delle donne contro il lavoro domestico, in
Europa e negli Stati uniti e la diffusione dei movimenti femministi in
tutto il mondo, negli anni Ottanta e Novanta, ad avviare un più radi­
cale ripensamento del marxismo.

La rivolta delle donne contro il lavoro domestico


e la ridefinizione femminista di lavoro, lotta di classe
e crisi del capitalismo
Che il valore del lavoro sia dimostrato e, forse, creato dal suo ri­
fiuto, sembra essere una legge sociale. Questo è il caso del lavoro do­
mestico che è rimasto invisibile e senza valore finché non è emerso
un movimento di donne che l’hanno rifiutato come destino naturale.
E stata la rivolta delle donne contro il lavoro domestico, negli anni
Sessanta e Settanta, a svelarne le centralità nell’economia capitalistica,
riconfigurando la società come un immenso circuito di piantagioni e
catene di montaggio domestiche dove la forza lavoro è prodotta ogni
giorno e generazione dopo generazione.
Le femministe hanno dimostrato che non solo la riproduzione
della forza lavoro richiede una gamma di attività molto più ampia
che non il consumo di merci, poiché il cibo deve essere preparato,
i vestiti devono essere lavati, i corpi devono essere coccolati e curati.
Riconoscere l’importanza della riproduzione e del lavoro domestico
per l’accumulazione capitalista significa anche ripensare le categorie
marxiane, nonché la storia e i fondamenti dello sviluppo capitalistico
e della lotta di classe. A partire dai primi anni Settanta si è delineata
così una teoria femminista che ha radicalizzato la svolta teorica inau-I
II Si veda Samir Amin, Accumulation on a World Scale: A Critique of thè Theory ofUnder-
development, Monthly Review Press, New York 1970; Andre Gunder Frank, The De-
velopment of Underdevelopment, Monthly Review Press, New York 1966 e Capitalism
and Underdevelopment in Latin America: Historical Studies of Chile and Brazil, Monthly
Review Press, New York 1967.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 89
gurata dalla critica terzomondista a Marx. Da un lato ha confermato
che il capitalismo non è riducibile al lavoratore salariato e al lavoro
a contratto ma che nella sua essenza è piuttosto lavoro non-libero,
dall’altro, ha rivelato Tintima connessione tra la svalorizzazione del la­
voro riproduttivo e la svalutazione della posizione sociale delle donne.
Questo cambio di paradigma ha avuto anche conseguenze po­
litiche. La più immediata è stata il rifiuto degli slogan della sinistra
marxista, come “sciopero generale” o “rifiuto del lavoro”, che non
includevano mai chi lavora in casa. Nel corso del tempo, è maturata
poi la convinzione che il marxismo, filtrato attraverso il leninismo e
la social-democrazia, abbia espresso gli interessi di un settore limita­
to del proletariato mondiale, quella dei lavoratori bianchi, adulti, di
sesso maschile, che traggono gran parte del loro potere dal fatto di
lavorare nei settori di punta della produzione industriale capitalista e
ai massimi livelli di sviluppo tecnologico.
In positivo, la scoperta del lavoro riproduttivo ha permesso di
comprendere che la produzione capitalistica si basa sulla formazione
di un particolare tipo di lavoratore - così come di un particolare tipo
di famiglia, sessualità, procreazione. E stato quindi possibile ridefinire
la “vita privata” come sfera dei rapporti di produzione e interpretare
molti comportamenti femminili come forme “invisibili” di lotta. Nel
crollo dei tassi di natalità, per esempio, come nell’aumento del nu­
mero dei divorzi, si è vista la resistenza delle donne alla disciplina ca­
pitalistica del lavoro e della famiglia, mente le politiche antiabortiste
potevano essere decodificate come dispositivi per la regolamentazione
del mercato del lavoro. Il personale è così diventato politico, e si è
scoperto che il capitale e lo stato hanno inglobato la nostra vita e la
nostra riproduzione fin dentro la camera da letto.
Sulla base di questa analisi, dalla metà degli anni Settanta - mo­
mento cruciale nel processo decisionale capitalista, che ha visto Tini-
zio della ristrutturazione neoliberale dell’economia mondiale - molte
femministe hanno letto la crisi capitalistica in atto come risposta non
solo alle lotte di fabbrica ma anche al rifiuto del lavoro domestico da
parte delle donne e alla crescente resistenza delle nuove generazioni
di africani, asiatici, latino-americani e caraibici all’eredità del colonia­
lismo. Figure di riferimento in questa prospettiva sono state le attivi­
ste del movimento “Salario al lavoro domestico” che hanno mostrato
che le lotte delle donne contro la disciplina domestica sovvertivano
il modello di riproduzione che era stato il pilastro del patto fordista.
Dalla Costa, per esempio, in Emigrazione e Riproduzione (1974) ha
90 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
sottolineato come dalla fine della seconda guerra mondiale, le donne
in Europa siano state impegnate in uno sciopero silenzioso contro la
procreazione, come si evince dal crollo del tasso di natalità e dalla
promozione dell’immigrazione da parte dei governi. Fortunati in Brut­
to Ciao (1976) ha indagato le motivazioni dell’esodo dalle aree rurali
delle donne italiane dopo la seconda guerra mondiale, il riorientamen­
to del salario familiare verso la riproduzione delle nuove generazioni e
ü nesso tra la ricerca d’indipendenza, la crescita dell’investimento nei
figli e la maggiore combattività delle nuove generazioni di lavoratori.
A sua volta Selma James in Sex, Race and Class (1975) ha mostrato
• come il comportamento delle donne sul piano “culturale” e il loro
“ruolo” sociale debbano essere letti come risposta contro l’insieme
delle condizioni di vita nel capitalismo.
Già agli inizi degli anni Settanta, la lotta delle donne non era più
“invisibile”, ma si definiva come rifiuto aperto della divisione sessuale
del lavoro con tutti i suoi corollari: dipendenza economica dagli uo­
mini, subordinazione sociale, confinamento a una forma di lavoro na­
turalizzata e non retribuita, controllo da parte dello stato della sessua­
lità femminile e della procreazione. Contrariamente a un diffuso equi­
voco, la crisi della divisione sessuale del lavoro non rimase confinate
alle donne bianche di classe media. Al contrario, il primo movimento
di liberazione delle donne negli Stati uniti è stato senza dubbio for­
mato da donne nere. Era il Welfare Mothers Movement12 che, ispirato
dal movimento per i diritti civili, ha guidato la prima campagna per il
salario al lavoro domestico sotto forma di una lotta per gli Aiuti alle
famiglie con figli a carico (il programma Aid to Families with Depen-
dent Children). Una campagna che ha affermato il valore economico
del lavoro riproduttivo e dichiarato il welfare un diritto delle donne13.
Le donne erano in movimento anche in Africa, Asia, America La­
tina, come dimostra la decisione delle Nazioni Unite di intervenire
nella politica femminista, sponsorizzando i diritti delle donne, a par­
tire dalla Conferenza mondiale delle donne tenutasi a Città del Mes­
sico nel 1975. Nel saggio Afidare a Rechino discuto come le Nazioni
Unite abbiano giocato lo stesso ruolo, in rapporto al movimento delle
donne, già svolto negli anni Sessanta in relazione alle lotte anticolo-

12 Movimento per i diritti delle welfare mothers attivo negli Stati uniti a partire dalla fin e
degli anni Sessanta.
13 Milwaukee County Welfare Rights Organization, Welfare Mothers Speak Out, W.W. Nor­
ton, New York 1972.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 91
niali14. Come nel caso della sponsorizzazione (selettiva) alla “decolo­
nizzazione”, le Nazioni Unite hanno fatto sì che la loro promozione
dei diritti delle donne fosse compatibile con le esigenze e i programmi
del capitale internazionale e dell’agenda neoliberista. La conferenza
a Città del Messico e le altre che vi hanno fatto seguito nascevano in
parte dalla consapevolezza che le lotte delle donne sul terreno della
riproduzione riorientavano le economie postcoloniali determinando
un aumento dell’investimento nella forza lavoro nazionale, cosa che
costituiva la causa maggiore del fallimento dei piani di sviluppo della
Banca mondiale per la commercializzazione dell’agricoltura. In Afri­
ca, le donne spesso rifiutavano di aiutare i mariti a produrre raccolti
per il mercato, difendendo invece l’agricoltura orientata alla sussi­
stenza. In questo modo i villaggi, invece di riprodurre manodopera a
basso costo - come nell’immagine proposta da Claude Meillassoux15
- si trasformavano in luoghi di resistenza allo sfruttamento. Negli anni
Ottanta, la Banca mondiale ha riconosciuto che la resistenza delle
donne nei villaggi era il principale fattore di crisi per i suoi progetti di
sviluppo agricolo. Ciò ha stimolato molta ricerca sul “contributo delle
donne allo sviluppo” e, successivamente, nuovi tentativi di integrazio­
ne delle donne nell’economia monetaria, come i “progetti generatori
di reddito” e i piani di “microcredito” gestiti dalle Ong. Alla luce
di questi eventi non sorprende che la ristrutturazione dell’economia
abbia comportato una profonda riorganizzazione della riproduzione
e istigato una campagna contro le donne in nome del “controllo della
popolazione”.
Nelle pagine successive tratteggio le modalità di questa ristruttu­
razione, individuandone le principali tendenze, le conseguenze sociali
e l’impatto sui rapporti di classe. Prima, però, vorrei spiegare perché
continuo a usare il concetto di forza lavoro, che varie femministe ri­
tengono riduttivo, sostenendo che le donne producono individui vi­
venti - figli, parenti, amici - e non “forza lavoro”. La loro critica è
convincente: la “forza lavoro” è un’astrazione. Come afferma Marx,
facendo eco a Sismondi, la forza-lavoro “se non è venduta [e utilizza-
14 Silvia Federici, Andare a Pechino. Come le Nazioni Unite hanno colonizzato il movimento
femminista (infra).
15 Claude Meillassoux, Donne, granai e capitale. Uno studio antropologico dell’imperialismo
contemporaneo, Zanichelli, Bologna 1978. Meillassoux ha scritto che l’agricoltura di sussi­
stenza delle donne è stato un bonus per i governi, le imprese e le agenzie per lo sviluppo,
poiché ha permesso loro di sfruttare in modo più efficace il lavoro africano, attraverso il
costante trasferimento di ricchezza e lavoro dalle aree rurali a quelle urbane (pp. 132-134).
92 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ta], non è niente"xb. Tuttavia, ci sono buone ragioni per cui continuo
ad usare questo concetto. In primo luogo è per evidenziare che nella
società capitalistica il lavoro riproduttivo non è la libera riproduzione
di noi stessi o degli altri secondo i nostri e i loro desideri. Nella mi­
sura in cui, direttamente o indirettamente, si scambia con un salario,
il lavoro di riproduzione è sempre soggetto alle condizioni imposte
dall’organizzazione capitalistica del lavoro e dai rapporti di produzio­
ne. In altre parole, il lavoro domestico non è un’attività libera. E “la
produzione e riproduzione del mezzo di produzione più indispensa­
bile per il capitalista, cioè dell’operaio stesso”1617. In quanto tale è sog-
• getto a tutti i vincoli legati alla necessità che il suo prodotto soddisfi i
requisiti del mercato del lavoro.
In secondo luogo, evidenziare la riproduzione della “forza lavoro”
rivela il duplice carattere e la contraddizione del lavoro riproduttivo e,
quindi, il suo carattere instabile e potenzialmente dirompente. Nella
misura in cui la forza lavoro può esistere solo negli individui viventi, la
sua riproduzione deve essere contemporaneamente produzione e va­
lorizzazione di capacità e qualità umane desiderate e adattamento agli
standard del mercato del lavoro imposti dall’esterno. Essendo, añora,
impossibñe tracciare una linea di demarcazione tra l’individuo viven­
te e la sua forza lavoro, risulta altrettanto impossibñe separare i due
aspetti del lavoro riproduttivo che corrispondono a queña demarca­
zione. Ciononostante, insistere sul concetto di forza lavoro permette di
evidenziare la tensione, la potenziale separazione intrinseca aña forza
lavoro, suggerendo l’esistenza di innumerevoli conflitti, resistenze e
contraddizioni che hanno un significato poMtico. Tra le altre cose (e
in modo fondamentale per fl movimento di ñberazione deüe donne) fl
concetto di forza lavoro ci ricorda che possiamo lottare contro ü lavoro
domestico, senza temere di rovinare la nostra comunità poiché questo
lavoro imprigiona tanto chi lo produce quanto chi ne è riprodotto.
Voglio anche difendere, a dispetto deüe tendenze postmoderne,
la mia scelta di continuare a mantenere separate produzione e ripro­
duzione. Sicuramente la differenza tra le due è divenuta in un certo
senso superflua. Le lotte degh anni Sessanta, in Europa e negli Sta­
ti uniti, in particolare i movimenti studenteschi e femministi, hanno
insegnato aña classe capitañsta che investire neña riproduzione deña
generazione futura di lavoratori “non paga”. Non garantisce l’aumen-
16 Marx, Il Capitale, Libro primo, cit. p. 209.
17 Ivi, p. 703.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 93
to della produttività del lavoro. Per questo, non solo gli investimenti
pubblici nella forza lavoro sono drasticamente diminuiti, ma le attività
riproduttive sono state riorganizzate come servizi producenti valore,
che i lavoratori devono acquistare e pagare. In questo modo, il valore
prodotto dalle attività riproduttive viene realizzato immediatamente,
invece di dipendere dalla produttività delle prestazioni dei lavorato­
ri che esse riproducono. Tuttavia, l’espansione del settore dei servizi
non ha in alcun modo eliminato il lavoro riproduttivo non retribuito
in casa, né ha abolito la divisione sessuale del lavoro che continua a
separare produzione e riproduzione e i rispettivi soggetti di queste
attività attraverso la funzione discriminante del salario o della man­
canza di esso.
Infine, parlo di lavoro “riproduttivo”, piuttosto che di lavoro “af­
fettivo”, perché nelle descrizioni dominanti, il secondo descrive solo
una parte limitata del lavoro richiesto dalla riproduzione degli esseri
umani, e cancella il potenziale sovversivo del concetto femminista di
lavoro riproduttivo. Tale concetto, invece, evidenziando il suo ruolo
nella produzione della forza lavoro, e svelando le contraddizioni che
la caratterizzano, riconosce la possibilità di alleanze cruciali e nuove
forme di cooperazione tra produttori e riprodotti: madri e figli, inse­
gnanti e studenti, infermieri e pazienti.
Tenendo presente il carattere particolare del lavoro riproduttivo,
chiediamoci allora come la globalizzazione economica ha ristrutturato
la riproduzione della forza lavoro. E quali sono stati gli effetti di questa
ristrutturazione per i lavoratori e in particolare per le donne che sono
tradizionalmente i principali soggetti del lavoro riproduttivo? Infine
cosa impariamo da questa ristrutturazione per quanto riguarda lo svi­
luppo capitalistico e il posto che occupa la teoria marxista nelle lotte
anticapitaliste del nostro tempo? La mia risposta a queste domande
si articola in due parti. In primo luogo, vorrei brevemente discutere i
principali cambiamenti che la globalizzazione ha prodotto nel generale
processo di riproduzione sociale e nei rapporti di classe e poi trattare
più ampiamente la ristrutturazione del lavoro riproduttivo.

Nominare Vinaccettabile: l’accumulazione originaria


e la ristrutturazione della riproduzione
La ristrutturazione dell’economia mondiale, come risposta al ciclo
di lotte degli anni Sessanta e Settanta, ha seguito cinque principali
94 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
modalità che hanno trasformato l’organizzazione della riproduzione
e i rapporti di classe. In primo luogo, vi è stata un’espansione del
mercato del lavoro. La globalizzazione ha prodotto un salto storico
nella dimensione del proletariato mondiale, sia attraverso un processo
globale di “recinzioni” che hanno separato milioni di persone dalle
loro terre, dal loro lavoro, dai loro “diritti consuetudinari”, sia attra­
verso l’aumento dell’occupazione femminile. Non a caso, dunque, la
globalizzazione si è presentata come un processo di “accumulazione
originaria” che ha preso forme diverse. Nel Nord, ha assunto la forma
della deconcentrazione e delocalizzazione industriale, della flessibiliz-
' zazione e precarizzazione del lavoro e della produzione just-in-time.
Nei paesi ex socialisti, si è data come destatalizzazione del settore in­
dustriale, decollettivizzazione dell’agricoltura e privatizzazione della
ricchezza sociale. Nel Sud, abbiamo invece assistito alla maquilizzazio-
ne della produzione, alla liberalizzazione delle importazioni e alla pri­
vatizzazione delle terre. L’obiettivo, tuttavia, è stato ovunque lo stesso.
Distruggendo le economie di sussistenza, separando i produttori
dai mezzi di sostentamento, facendo dipendere milioni di persone dal
reddito monetario, anche in assenza di accesso a un’occupazione sa­
lariata, la classe capitalista ha rilanciato il processo di accumulazione
e ridotto enormemente il costo del lavoro. Due miliardi di persone
sono state immesse nel mercato mondiale del lavoro, il che dimostra
l’infondatezza della teoria secondo cui il capitalismo non avrebbe più
bisogno di lavoro vivo, perché si baserebbe sulla crescente automa­
zione del lavoro.
In secondo luogo, la deterritorializzazione del capitale e la finan­
ziarizzazione delle attività economiche, rese possibili dalla “rivolu­
zione informatica”, hanno fatto dell’accumulazione originaria un
processo permanente, mediante la circolazione quasi istantanea dei
capitali in tutto il mondo, che spezza la resistenza dei lavoratori allo
sfruttamento.
In terzo luogo, abbiamo assistito al disinvestimento dello stato nel­
la riproduzione della forza lavoro, attuato attraverso 1’”aggiustamento
strutturale” e lo smantellamento dello “stato del benessere” (il welfare
state). Come già accennato, le lotte degli anni Sessanta hanno insegna­
to alla classe capitalista che investire nella riproduzione della forza
lavoro non si traduce necessariamente in una maggiore produttività
del lavoro. Il risultato è stato l’emergere di una politica e di un’ide­
ologia che hanno riconfigurato i lavoratori come microimprenditori
responsabili del proprio auto-investimento, in quanto presunti bene­
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 95
ficiari esclusivi delle attività riproduttive disponibili. È di conseguen­
za saltata la successione temporale tra riproduzione e accumulazione.
Con i tagli ai sussidi sanitari, all’istruzione, alle pensioni e ai trasporti
pubblici e, dall’altra parte, con l’aumento delle tasse, i lavoratori sono
stati costretti ad assumersi il costo della loro riproduzione, mentre
ogni momento della riproduzione della forza lavoro veniva trasforma­
to in un immediato punto di accumulazione.
In quarto luogo, l’appropriazione e distruzione da parte delle
imprese di foreste, oceani, acque, pesca, barriere coralline, specie
animali e vegetali ha raggiunto un livello storico. Paese dopo paese,
dall’Africa alle Isole del Pacifico, immense distese di terreni colti­
vabili e acque marino-costiere - residenza e fonte di sostentamento
per molte popolazioni - sono state privatizzate e rese disponibile per
Yagrobusiness, l’estrazione di minerali o la pesca industriale. La globa­
lizzazione ha così inequivocabilmente svelato i costi della produzione
capitalistica e dello sviluppo tecnologico, rendendo inconcepibile par­
lare, come fa Marx nei Grundrisse, dell’’’influenza civilizzatrice del ca­
pitale” quale risultato della sua “universale appropriazione [...] della
natura”18 o affermare che : “Soltanto col capitale la natura diventa [...]
un puro oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza
per sé; e la stessa conoscenza teorica delle sue leggi autonome si pre­
senta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni
umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione”19.
Nel 2011, dopo la fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma della
BP nel Golfo del Messico e dopo il disastro nucleare di Fukushima
- tra i tanti altri disastri causati dalle imprese commerciali - con gli
oceani che muoiono imprigionati da isole di spazzatura e lo spazio
che diventa una discarica e un deposito di armi, queste parole non
possono che avere per noi riverberi inquietanti.
Questo tipo di sviluppo ha colpito, secondo modalità differenti,
tutte la popolazioni del pianeta. Tuttavia, il Nuovo Ordine Mondia­
le può essere meglio descritto come un processo di ricolonizzazione.
Lungi dall’aver livellato il mondo in una rete di circuiti interdipen­
denti, ha piuttosto ricostruito una struttura piramidale aumentando
le disuguaglianze e la polarizzazione economica e sociale, approfon­
dendo le gerarchie che hanno storicamente caratterizzato la divisione

18 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della crìtica dell’economia politica 1857-1857, voi. 2,
La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 11.
19 Ibidem.
96 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
sessuale e internazionale del lavoro che le lotte anticoloniali e il movi­
mento di liberazione delle donne avevano messo in discussione.
Il centro strategico dell’accumulazione primitiva è stato il mondo
ex-coloniale che ha storicamente rappresentato il ventre molle del si­
stema capitalistico, luogo di schiavitù e piantagioni. Lo chiamo “cen­
tro strategico” perché la sua ristrutturazione è stata il fondamento e
il presupposto per la riorganizzazione globale della produzione e del
mercato del lavoro mondiale. E qui, infatti, che abbiamo assistito al
primo e più radicale processo di espropriazione e di impoverimento,
e al più estremo processo di disinvestimento da parte dello stato nella
riproduzione della forza lavoro. E tutto ben documentato. A partire
dai primi anni Ottanta, come conseguenza dei piani di aggiustamento
strutturale, la disoccupazione nella maggior parte dei paesi del “Terzo
Mondo” ha avuto una tale impennata che l’Agenzia internazionale per
lo sviluppo della Banca mondiale ha potuto reclutare lavoro da ripa­
gare con nient’altro che cibo20.1 salari sono caduti così in basso che
le donne che lavorano nelle maquiladora hanno riferito di aver acqui­
stato latte al bicchiere e uova o pomodori uno per volta. Intere popo­
lazioni sono state demonetizzate, mentre le terre sono state sottratte
per progetti governativi o date in gestione a investitori stranieri. At­
tualmente, la metà del continente africano si trova all’interno di pro­
grammi emergenziali di assistenza alimentare21. In Africa occidentale,
dal Niger alla Nigeria, al Ghana, l’energia elettrica è stata staccata, le
reti nazionali disattivate e coloro che possono permettersi di acqui­
stare un generatore sono costretti a vivere con il loro costante ronzio,
che riempie le notti e rende difficile dormire. Le spese governative
per la sanità e l’istruzione, i sussidi agli agricoltori o il sostegno per
i beni di prima necessità sono stati tutti tagliati o eliminati. Di con­
seguenza, sono calate le aspettativa di vita e sono riapparsi fenomeni
che l’influenza “civilizzatrice” del capitalismo doveva aver cancellato
dalla faccia della terra: carestie, fame, epidemie e perfino la caccia alle
streghe22. Dove non sono arrivati i programmi di “austerità” e le terre
non sono state sottratte, la guerra ha completato il lavoro, aprendo
20 Si tratta dei programmi “Food for Work” lanciati nel 2004 in centocinquanta distretti
dell’India rurale gestiti a livello statale e aperti ai contadini poveri disposti a svolgere
lavoro manuale non qualificato in cambio di riso e cereali [N.d.T.].
21 Sam Moyo e Paris Yeros (a cura di), Reclaiming thè Land: The Resurgence ofRuralMove-
ment in Africa, Asia and Latin America, Zed Books, London 2005, p. 1.
22 Silvia Federici, Witch-Hunting, Globalization, and Reminist Solidarity in Africa Today, in
“Journal of International Women’s Studies”, special issue, 'Women’s Gender Activism in
Africa, 10, 1, ottobre 2008, pp. 21-35.
LA REPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 97
nuovi terreni alla trivellazione petrolifera e alla raccolta di diamanti
o coltan. Gli espulsi dalle proprie terre a causa di tali processi sono
diventati i soggetti di una nuova diaspora che ha visto milioni di per­
sone spostarsi dalle zone rurali a città che.assomigliano sempre più ad
accampamenti. Mike Davis ha in proposito parlato di “pianeta degli
slum”, ma sarebbe più corretto parlare di un “pianeta di ghetti” e di
un regime di “apartheid globale”.
Se consideriamo inoltre che, attraverso la crisi del debito e Taggiu­
stamento strutturale, i paesi del “Terzo Mondo” sono stati costretti a
dirottare la loro produzione alimentare dal mercato nazionale a quello
estero, a trasformare terre coltivabili in zone di estrazione di minerali
e produzione di biocarburanti, a distruggere le proprie foreste e a
diventare discariche per rifiuti di tutti i tipi, nonché riserve di caccia
per i “cacciatori” di materiale genetico, allora, dobbiamo concludere
che nei piani del capitale internazionale ci sono regioni del mondo de­
stinate a una riproduzione vicina allo zero. Infatti, la distruzione della
vita, in tutte le sue forme, è oggi tanto importante quanto lo è la forza
produttiva del “biopotere” nella-formazione dei rapporti capitalisti­
ci, come mezzo per acquisire materie prime, disaccumulare lavoratori
indesiderati, smussare le resistenze e tagliare il costo di produzione
della forza lavoro.
E tuttavia una misura del disinvestimento nella riproduzione della
forza lavoro sul piano mondiale che milioni di persone decidano di
emigrare, affrontando disagi indicibili e la prospettiva della morte e
della detenzione. Indubbiamente l’emigrazione non è solo necessità,
ma un esodo di lotta, un mezzo per riappropriarsi della ricchezza ru­
bata, come tra altri hanno sostenuto Yann Moulier Boutang e Dimitris
Papadopoulos23. Questo è il motivo per cui l’emigrazione ha assunto
un carattere autonomo che rende difficile il suo utilizzo come mecca­
nismo normativo per la strutturazione del mercato del lavoro. Ma non
c’è dubbio che se milioni di persone lasciano il proprio paese per un
destino incerto a migliaia di chilometri di distanza da casa, è perché
non possono riprodursi, almeno non in condizioni di vita adeguate.
Ciò è particolarmente evidente se si considera che la metà dei migran­
ti oggi sono donne, molte delle quali sposate con figli che si lasciano
alle spalle. E una pratica decisamente inusuale da un punto di vista

23 Yann Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, manifestolibri, Roma 2007; Di­
mitris Papadopoulos, Niamh Stephenson, Vassilis Tsianos, Escape Routes: Control and
Subversion in thè 2 lst Century, Pluto Press, London 2008.
98 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

storico. Le donne di solito sono quelle che restano, non per mancanza
di iniziativa o vincoli tradizionali, ma perché rese responsabile della
riproduzione della famiglia. Sono loro che devono fare in modo che i
bambini abbiamo cibo anche quando loro stesse rimangono senza, e
che devono assicurarsi della cura di anziani o malati. Così, quando cen­
tinaia di migliaia di donne lasciano le proprie case, per affrontare anni
di umiliazioni e di isolamento vivendo con l’angoscia di non essere in
grado di dare alle persone che amano la stessa cura che danno agli sco­
nosciuti di tutto il mondo, sappiamo che è sta accadendo qualcosa di
drammatico nell’organizzazione della riproduzione in tutto il mondo.
Dobbiamo però rifiutare la conclusione che l’indifferenza che la
classe capitalista mostra per la perdita di vite umane che la globaliz­
zazione produce sia la prova che il capitale non ha più bisogno del
lavoro vivo. In realtà, la distruzione della vita umana su larga scala è
stata sempre una componente strutturale del capitalismo sin dai suoi
esordi, la controparte necessaria dell’accumulazione di forza lavoro,
che è un processo inevitabilmente violento. Le ricorrenti “crisi della
riproduzione” a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni in Africa
sono radicate in questa dialettica tra accumulazione e distruzione del
lavoro. Anche l’espansione del lavoro non contrattuale, e altri feno­
meni che possono sembrare abominazioni in un “mondo moderno”
- l’incarcerazione di massa, il traffico di sangue, organi e altre parti
umane - vanno letti in questo contesto.
Il capitalismo genera una crisi permanente della riproduzione. Se
ciò non appare evidente a chi vive in molte zone del Nord del mondo,
è perché la catastrofe umana che ciò comporta è stata quasi sempre
esternalizzata, confinata nelle colonie e giustificata come un effetto di
arretratezza culturale o attaccamento a tradizioni inadeguate e “triba­
lismo”. Inoltre, per gran parte degli anni Ottanta e Novanta, le con­
seguenze della ristrutturazione globale dell’economia, con l’eccezione
delle comunità di colore, sono state appena avvertite nel Nord e, in
alcuni casi (si pensi alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavo­
ro), sono persino apparse come una liberazione dalla regimentazione
del lavoro o come anticipazioni di una società senza lavoro.
Ma, visti dal punto di vista della totalità della relazione capitale-
lavoro, questi sviluppi dimostrano il continuo potere del capitale di
disperdere i lavoratori e minare gli sforzi per organizzarsi sul posto di
lavoro. Combinate insieme, queste due tendenze hanno comportato
l’abrogazione di contratti sociali, la deregolamentazione dei rapporti
di lavoro e la reintroduzione di forme contrattuali che distruggono le
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 99
conquiste di un secolo di lotte operaie e minacciano la produzione di
nuovi “commons”.
Anche nel Nord redditi e occupazione sono crollati, l’accesso alla
terra e agli spazi urbani è stato ridotto, mentre si diffondevano impo­
verimento e fame. Secondo un recente rapporto, negli Stati uniti 37
milioni di persone soffrono la fame mentre, da stime effettuate nel
2011, il 50 per cento della popolazione è considerato “a basso reddi­
to”. Va poi aggiunto che l’introduzione di tecnologie che permetto­
no di risparmiare lavoro, lungi dal ridurre la lunghezza della giornata
lavorativa l’hanno largamente estesa, al punto che (in Giappone) è
comparso il fenomeno della “morte per lavoro”, mentre “tempo li­
bero” e pensione sono diventati un lusso. Per molti lavoratori, negli
Stati uniti, avere più lavori è ormai una necessità, mentre molte per­
sone tra i sessanta e i settanta anni, private delle loro pensioni, stanno
ritornando al mercato del lavoro. Ancor più significativo è che stiamo
assistendo alla crescita dei senzatetto e di una forza lavoro itinerante,
costretta al nomadismo, sempre in movimento su camion, rimorchi,
autobus, in cerca di lavoro ovunque appaia un’opportunità, un desti­
no che una volta negli Stati uniti era riservato ai lavoratori agricoli sta­
gionali che, come uccelli migratori, andavano a caccia di coltivazioni
per tutto il paese.
Insieme a impoverimento, disoccupazione, extralavoro, crescita
dei senzatetto e debito, è cresciuta anche la criminalizzazione della
classe operaia, attraverso una carcerazione di massa che ricorda il
Grande internamento del xvn secolo, e la formazione di un proleta­
riato ex-lege fatto di lavoratori immigrati privi di documenti, studenti
che non possono ripagare i prestiti universitari, produttori o venditori
di beni illeciti, lavoratrici e lavoratori del sesso. E una moltitudine di
proletari che esiste e lavora nell’ombra, e che ci ricorda che la produ­
zione di popolazioni senza diritti - schiavi, servi a contratto, peones,
detenuti, sans papiers - rimane una necessità strutturale dell’accumu­
lazione capitalista.
L’attacco ai giovani, soprattutto della classe operaia nera, potenzia­
le erede della politica del Black Power, è stato particolarmente duro.
Nulla è stato loro concesso, né la possibilità di un lavoro sicuro, né
l’accesso all’istruzione. Ma il futuro è in questione anche per molti
giovani della classe media. Studiare ha un costo così alto che occorre
indebitarsi con il rischio, molto alto, di non poter ripagare il prestito.
La competizione per il lavoro è dura e le relazioni sociali sempre più
sterili, poiché l’instabilità rende estremamente difficile la costruzio-
100 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

ne di una vita comunitaria. Non sorprende dunque che, tra le con­


seguenze sociali della ristrutturazione della riproduzione, vi sia stato
un aumento dei suicidio tra i giovani e della violenza contro donne e
bambini, compreso l’infanticidio. E impossibile quindi condividere
l’ottimismo di chi, come Negri e Hardt, ha in questi anni sostenuto
che le nuove forme di produzione create della ristrutturazione globale
dell’economia permettono già la possibilità di forme più autonome e
più cooperative di lavoro.
L’attacco alla riproduzione non è però rimasto senza opposizio­
ne. La resistenza ha assunto molte forme. Alcune restano invisibili
' fin quando non sono riconosciute come fenomeni di massa. Anche la
finanziarizzazione quotidiana della riproduzione - in particolare negli
Stati uniti - può essere vista come una forma di resistenza, nel senso
che l’uso di carte di credito, prestiti e indebitamento non sono solo
un prodotto della manipolazione finanziaria, sono anche una risposta
al declino dei salari che esprime il rifiuto dell’austerità imposta. E poi
cresciuto nel mondo un “movimento dei movimenti” che, sin dagli
anni Novanta, ha messo in discussione ogni aspetto della globalizza­
zione - attraverso manifestazioni di massa, occupazioni di terre, la
costruzione di economie solidali e altre strutture comuni. Ricordiamo
soprattutto le rivolte di massa e i movimenti Occupy che nel corso
degli ultimi anno si sono diffusi in gran parte del mondo, dalla Tunisia
all’Egitto, alla Spagna e agli Stati uniti, aprendo un spazio in cui è di
nuovo possibile immaginare una grande trasformazione sociale. Dopo
anni di apparente chiusura, in cui nulla sembrava in grado di fermare
i poteri distruttivi di un ordine capitalista in declino, la “primavera
araba” e la diffusione delle “tende” nel paesaggio americano - che si
sono aggiunte alle molte già esistenti della popolazione dei senzatet­
to - hanno mostrato che ancora una volta si è toccato il fondo e una
nuova generazione sta marciando nelle piazze decisa a reclamare il
proprio futuro, con forme di lotta che possono costruire nuovi ponti
e superare le principali divisioni sociali.

Lavoro riproduttivo, lavoro delle donne e rapporti di genere


nell’economia globale
Esaminiamo ora come la ristrutturazione dell’economia globale ha
modificato il lavoro riproduttivo e in particolare la divisione sessuale
del lavoro e i rapporti tra donne e uomini.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 101
Anche in questo caso è necessario assumere una posizione critica
nei confronti dei discorsi dominanti, che insistono sull’effetto emanci-
patorio dell’aumentato impiego delle donne in molte parti del mondo.
Dobbiamo anche riconsiderare la tesi secondo cui l’aumento dell’oc­
cupazione femminile e la simultanea precarizzazione dei lavori tipica­
mente maschili hanno livellato le gerarchie che storicamente hanno
caratterizzato la divisione sessuale del lavoro. Queste tesi, infatti, non
trovano conferma nei processi di ristrutturazione del lavoro dome­
stico prodotti dalla globalizzazione. Va sottolineato, anzitutto, che
l’aumento nel numero di donne impiegate nel lavoro salariato non
è in alcun modo un dato uniforme a livello mondiale. Anzi, è possi­
bile che l’impiego femminile, su scala mondiale, sia diminuito nelle
ultime quattro decadi, se si considera il crollo dell’impiego femmini­
le nell’industria e nel settore pubblico, nei paesi ex-socialisti e nelle
aree soggette ai programmi di “aggiustamento strutturale” (Africa,
Asia, America Latina), che non è stato compensato dal loro impiego
nelle Zone di Libero Commercio. Gran parte, inoltre, della crescita
dell’impiego femminile, dalla fine anni Settanta al presente, è avvenu­
ta nell’economia “informale”, cioè in attività non soggette ad alcuna
regolamentazione, con salari molto spesso sotto il livello di sussistenza
e in condizioni di lavoro spesso coercitive. Anche in Europa e negli
Stati uniti, le donne sono generalmente impiegate in lavori monotoni,
sottopagati, in condizioni di isolamento, che lasciano molto poco tem­
po per rapporti familiari o attività “autovalorizzanti”.
Bisogna anche sfatare il mito che l’impiego nel lavoro salariato ab­
bia liberato le donne dal lavoro domestico o che il peso di questo
lavoro sia stato significativamente ridotto dalla sua commercializza­
zione, la “globalizzazione della cura”, e dall’introduzione nella casa di
nuove tecnologie.
Il primo dato che emerge è che mentre nel processo di produzio­
ne si è avuto un salto tecnologico che ha rivoluzionato settori chiave
dell’economia mondiale, nessun salto tecnologico è intervenuto nella
riproduzione della forza lavoro, nonostante il massiccio aumento nel
numero delle donne occupate fuori casa. Nel Nord, il personal com­
puter è entrato a far parte della riproduzione di gran parte della po­
polazione, così che fare shopping, socializzare, acquisire informazioni
e anche alcune forme di lavoro sessuale si possono ora fare on-line.
In Giappone sono comparsi i robot che fanno compagnia o permet­
tono l’accoppiamento. Tra le altre recenti invenzioni troviamo il “ro­
bot infermiere”, che fa il bagno agli anziani e l’amante interattiva che
102 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

può essere assemblata dal cliente e realizzata secondo le sue fantasie


e desideri. Ma anche nei paesi tecnologicamente più avanzati, a parte
il forno a microonde e la maggiore diffusione dei telefoni e dei tele­
visori, ben poca tecnologia è entrata nel lavoro domestico dagli anni
Settanta a oggi. Questo è dovuto, soprattutto, al fatto che a differenza
di altri lavori, la cura degli esseri umani è in gran parte irriducibile
alla meccanizzazione, poiché richiede un elevato grado di interazione
umana e la soddisfazione di bisogni complessi, in cui gli elementi fisici
e affettivi sono indissolubilmente uniti. Che il lavoro riproduttivo sia
essenzialmente “lavoro vivo” e lavoro intensivo è evidente soprattutto
' nella cura dei bambini e degli anziani non auto-sufficienti, che anche
nei suoi aspetti più fisici, ha una forte componente emotiva, dovendo
fornire un senso di sicurezza, consolare, anticipare paure e desideri24.
Nessuna di queste attività è puramente “materiale” o “immateriale”,
né può essere frammentata, in modo da renderne possibile la mecca­
nizzazione, o sostituita da un flusso virtuale di comunicazione on-line.
Si dovrebbe inoltre riflettere sull’uso/abuso delle tecnologie riprodut­
tive, come la televisione diventata la babysitter per bambini e anziani,
oggi indicata come una delle possibili cause dell’Alzheimer.
Anche la commercializzazione e la ‘"globalizzazione” del lavoro
domestico non hanno ridotto l’onere del lavoro riproduttivo, se non
in settori limitati della classe media. Indubbiamente varie attività do­
mestiche sono state portate fuori dalla casa e organizzate su base di
mercato, come testimonia il boom dei servizi, oggi il settore economi­
co dominante dal punto di vista del lavoro salariato. Ciò significa che
un numero maggiore di pasti sono consumati fuori casa, un numero
maggiore di vestiti sono lavati in lavanderia e una quantità maggio­
re di cibo è acquistato già pronto per il consumo. Ma la dipendenza
di molti proletari da servizi generalmente a basso costo ha generato
nuovi problemi, come l’obesità, che è chiaramente collegata alla dif­
fusione del fast food.
Analoghe considerazioni valgono per quella che è stata definita la
“globalizzazione” del lavoro di cura, che ha trasferito sulle spalle di
donne immigrate provenienti dal Sud molta assistenza ai bambini, agli
anziani e la riproduzione sessuale dei lavoratori maschi25. E mentre
ciò ha permesso ai governi di ridurre l’investimento nella riproduzio-
24 Si veda Nancy Folbre, Nursebots to thè Resene? Immigration, Automation and Care, in
“Globalizations 3”, 3,2006, pp. 349-60.
25 Si veda Silvia Federici, Riproduzione e lotta femminista nella nuova divisione internaziona­
le del lavoro in Mariarosa Dalla Costa e Giovanna Franca Dalla Costa (a cura di), Donne,
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 103
ne, è chiaro che questa “soluzione” ha avuto un enorme costo sociale
per le donne immigrate e le comunità da cui provengono.
In breve, né la commercializzazione, né la globalizzazione del la­
voro riproduttivo e tanto meno la sua tecnologizzazione hanno “libe­
rato le donne” da questo lavoro. L’unico fattore che ha ridotto il peso
del lavoro domestico è stato il suo rifiuto, a cominciare dal rifiuto
dalla disciplina imposta dal matrimonio e dall’allevamento dei figli.
Negli Stati uniti, il numero delle nascite è sceso da 118 per mille don­
ne nel 1960 a 63.2 nel 2011, con un conseguente aumento dell1età
media delle madri da 30 anni nel 1980 a 36,4. Il calo della crescita
demografica è stato particolarmente elevata in Europa occidentale
e orientale, dove continua (soprattutto in Italia e Grecia ), lo “scio­
pero” delle donne contro la procreazione. Il consolidamento di un
regime demografico a crescita zero preoccupa gli esponenti politici
ed è il principale motivo della crescente richiesta di un incremento
dell’immigrazione. C’è stato anche un calo nel numero dei matrimoni
e delle coppie sposate, dal 72 per cento delle famiglie nel 1960 al 51
per cento nel 2011 negli Stati uniti, e simultaneamente un incremen­
to nel numero di persone che vivono sole - passato negli Stati uniti
da quattro milioni negli anni Cinquanta a circa 32 milioni nel 2012,
di cui più della metà sono donne.
Va aggiunto che in ogni paese sono ancora le donne che fanno la
maggior parte del lavoro domestico, pagato e non pagato. Non solo. A
causa dei tagli ai servizi sociali e del decentramento della produzione
industriale, la quantità di lavoro domestico che le donne svolgono è
probabilmente aumentato, anche quando le donne hanno un lavoro
extradomestico.
Tre fattori hanno allungato la giornata lavorativa domestica delle
donne e riportato il lavoro domestico a casa. In primo luogo, le donne
sono state gli ammortizzatori della globalizzazione economica, doven­
do compensare con il loro lavoro il deterioramento delle condizioni
economiche prodotte dalla liberalizzazione dell’economia mondiale
e il disinvestimento degli stati nella riproduzione della forza lavoro.
Questo è stato particolarmente vero nei paesi sottoposti a programmi
di aggiustamento strutturale in cui lo stato ha completamente tagliato
la spesa per l’assistenza sanitaria, l’istruzione e i beni di prima necessi-
tà. A seguito di questi tagli, in gran parte dell’Africa e del Sud Ameri-
sviluppo e lavoro di riproduzione. Questioni delle lotte e dei movimenti, Franco Angeli,
Milano 1996, pp. 57-82.
104 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

ca, le donne spendono ora più tempo per prendere l’acqua, procurarsi
e preparare il cibo e per curare le malattie, che sono molto più fre­
quenti da quando la privatizzazione della sanità ha reso inaccessibili
a molti la cura nelle cliniche, mentre la malnutrizione e la distruzione
dell’ambiente hanno aumento la vulnerabilità alle malattie.
Negli Stati uniti poi, a causa dei tagli nella spesa pubblica, gran
parte del lavoro che in passato aveva luogo negli ospedali e in altri
enti pubblici è stato trasferito nelle case. Oggi, infatti, dopo un inter­
vento chirurgico i degenti vengono dimessi quasi immediatamente, e
più in generale si cerca di ridurre al minimo la degenza in ospedale,
' cosi che le famiglie - soprattutto madri e mogli - debbono svolgere
una varietà di attività postoperatorie e praticare terapie (ad esempio,
per i malati cronici), che in passato sarebbe stato svolte da medici e
infermieri26. Anche l’assistenza pubblica agli anziani (per la pulizia e
la cura personale) è stata tagliata, sono state diminuite le visite domi­
ciliari e ridotti i servizi erogati.
Il secondo fattore che ha riportato il lavoro riproduttivo in casa è
stata l’espansione dei “lavoro a domicilio”, dovuto in parte al decen­
tramento della produzione industriale e in parte alla diffusione del
lavoro informale. Come scrive David Staples in No Place Like Home,
il lavoro a domicilio, lungi dall’essere una forma anacronistica, ha
mostrato di essere una strategia capitalista a lungo termine, che oggi
occupa milioni di donne e bambini in città, villaggi e periferie di tut­
to il mondo. Staples sottolinea giustamente che il lavoro domestico
non retribuito attrae inesorabilmente altre forme di lavoro, perché il
lavoro a domicilio ha il vantaggio di essere invisibile, di evadere i ten­
tativi di sindacalizzazione e ridurre i salari al minimo. Molte donne
scelgono il lavoro a domicilio nel tentativo di conciliare l’accesso a un
reddito con la cura della famiglia, ma il risultato è l’asservimento a un
lavoro che garantisce salari “molto al di sotto della media di quello
che sarebbe pagato in un contesto formale e riproduce una divisione
sessuale del lavoro che lega in modo più profondo le donne al lavoro
domestico”27.
Infine, la crescita dell’occupazione femminile e la ristrutturazione
della riproduzione non ha eliminato le gerarchie di genere nel lavoro.
Nonostante la crescente disoccupazione maschile, le donne guadagna-
26 Nona Glazer, Women’s Paid and Unpaid Labor: Work Transfer in Health Care and Retati,
Tempie University Press, Philadelphia 1993.
27 David E. Staples, No Place Like Home: Organizing Home-Based Labor in thè Era ofStruc-
tural Adjustment, Roudedge, New York 2006.
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 105

no ancora una parte minima rispetto ai salari maschili. Abbiamo an­


che assistito ad un aumento della violenza maschile contro le donne,
innescata in parte dal timore della concorrenza economica, in parte
dalla frustrazione degli uomini per non essere in grado di provvedere
adeguatamente al mantenimento della propria famiglia, e sopratutto
dal fatto che gli uomini hanno oggi meno controllo sui corpi e sul
lavoro delle donne, poiché sempre più donne hanno soldi propri e
trascorrono più tempo fuori casa. In un contesto di diminuzione dei
salari e disoccupazione diffusa, che rende difficile per gli uomini avere
una famiglia, molti di loro inoltre usano il corpo delle donne come
mezzo di scambio e di accesso al mercato mondiale, attraverso l’orga­
nizzazione di pornografia e prostituzione.
L’aumento della violenza contro le donne è difficile da quantifica­
re. Ma se lo consideriamo anche in termini qualitativi, dal punto di
vista delle nuove forme che prende, ne comprendiamo meglio il signi­
ficato. In molti paesi, sotto l’impatto dei programmi di aggiustamen­
to strutturale e dell’ormai perenne “crisi economica”, la famiglia si è
disintegrata. Spesso ciò avviene con un mutuo consenso, quando uno
o entrambi i partner emigrano o si separano in cerca di una qualche
forma di reddito. Ma molte volte si tratta di un evento più traumatico,
come quando di fronte all’impoverimento i mariti abbandonano le
mogli e i figli. In alcune parti dell’Africa e dell’India, ci sono stati an­
che attacchi contro donne anziane che, accusato di stregoneria, sono
state espulse dalle loro case o assassinate. Questo fenomeno riflette
probabilmente una crisi più profonda, che riguarda il sostegno che, di
fronte a una rapida diminuzione dei beni di sostentamento, la famiglia
garantisce a quei membri che non sono più percepiti come produttivi.
E significativo che questa nuova persecuzione sia anche associata allo
smantellamento del sistema di proprietà comunitaria della terra che
è in atto28. Ma è anche una manifestazione della svalorizzazione che
il lavoro riproduttivo e i soggetti di questo lavoro hanno subito con
l’estensione dei rapporti monetari29.
Altri esempi di violenza riconducibili al processo di globalizzazio­
ne sono stati l’aumento degli “omicidi per dote” in India e l’incre­
mento della “tratta” e di altre forme di lavoro sessuale coatto. Ma al di
là delle motivazioni rimane la crescita continua in tutto il mondo del
28 Hugo F. Hinfelaar, Witch-Hunting in Zambia and International Illegal trade, in Gerrie Ter
Haar (a cura di), Witchcraft Beliefs and Accusations in Contemporary Africa, Africa World
Press, Trenton (NJ) 2007.
29 Federici, Witch-Hunting, cit.
106 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

numero di donne assassinate o scomparse. Centinaia di giovani don­


ne, per lo più lavoratrici nelle maquila, sono state assassinate a Ciudad
Juárez e in altre città messicane nelle zone di confine con gli Stati uni­
ti, apparentemente vittime di stupro o di reti criminali che producono
pornografia e “video snuff”. Uno spaventoso aumento del numero di
donne uccise si è registrato anche in Messico e in Guatemala. Ma è
soprattutto la violenza istituzionale ad essere aumentata. E la violen­
za dell’impoverimento assoluto, delle condizioni di lavoro disumane,
delle migrazioni in condizioni di clandestinità. E che la migrazione
possa anche essere vista come lotta per una maggiore autonomia e
■ autodeterminazione e come ricerca di rapporti di forza più favorevoli,
non può cancellare tutto questo.
Da questa analisi si possono trarre diverse conclusioni. In primo
luogo, la lotta per il lavoro salariato o, come piaceva dire ad alcune
femministe marxiste, la lotta per “unirsi alla classe lavoratrice sul po­
sto di lavoro” non può essere un percorso di liberazione. Il lavoro
salariato può essere una necessità ma non può essere una strategia
politica. Finché il lavoro riproduttivo sarà svalorizzato, finché sarà
considerato una questione privata e una responsabilità delle donne,
le donne si rapporteranno sempre al capitale e allo stato con meno
potere degli uomini e in condizioni di estrema vulnerabilità sociale
ed economica. Nello stesso tempo, è anche importante riconoscere
che esistono seri limiti alla riorganizzazione del lavoro riproduttivo su
base di mercato. Come possiamo, per esempio, ridurre o commercia­
lizzare la cura per i bambini, gli anziani, i malati, senza imporre loro
un grande costo? E istruttivo in questo senso il modo in cui la merci­
ficazione della produzione alimentare ha contribuito al deterioramen­
to della nostra salute, comportando, come già accennato, l’aumento
dell’obesità anche tra i bambini.
Quello di cui necessitiamo è una lotta collettiva sulla riproduzione,
che reclami il controllo sulle sue condizioni materiali e crei forme di
lavoro riproduttivo più cooperative e meno soggette alla logica del
mercato. Questa non è un’utopia ma un processo già in atto in molte
parti del mondo. I governi tentano di usare la crisi per imporci un
regime di austerità per molti anni a venire. Ma con le occupazioni (di
terre, case, aree urbane), l’agricoltura su base comunitaria e varie for­
me di mutuo aiuto, istruzione e assistenza sanitaria alternative - per
nominare alcuni dei terreni in cui la riorganizzazione della riprodu­
zione sta procedendo - sta emergendo una nuova economia capace di
trasformare il lavoro riproduttivo da attività soffocante e discriminan-
LA RIPRODUZIONE DELLA FORZA LAVORO NELL’ECONOMIA GLOBALE 107

te in un terreno di liberazione, creatività e sperimentazione di nuovi


rapporti umani.
Come ho detto, questa non è un utopia. Le conseguenze della ri­
strutturazione dell’economia globale sarebbero state indubbiamente
molto più nefaste se milioni di donne non avessero riprodotto le loro
famiglie, indipendentemente dal loro valore sul mercato del lavoro
capitalistico. Attraverso le loro attività di sussistenza e diverse forme
di azione diretta (dall’occupazione di terreno pubblico all’agricoltura
urbana), le donne hanno aiutato le loro comunità a evitare la spolia­
zione totale, a far crescere i bilanci familiari e a mettere altro cibo
nelle pentole. Tra guerre, crisi economiche e svalutazioni monetarie,
mentre il mondo intorno a loro cadeva a pezzi, hanno piantato mais
sui terreni urbani abbandonati, cucinato cibo da vendere al lato delle
strade, hanno creato cucine comunitarie - ola comunes, come in Cile
e Perù - resistendo alla mercificazione totale della vita e iniziando un
processo di riappropriazione e ricollettivizzazione della riproduzione
indispensabile se vogliamo riprendere il controllo sulle nostre vite. Le
piazze festose e i movimenti Occupy del 2011 sono in qualche modo
una continuazione di questo processo. Le “moltitudini” hanno capito
che nessun movimento è possibile se non pone al centro la riproduzio­
ne di coloro che vi partecipano, trasformando anche la manifestazioni
di protesta in momenti di riproduzione collettiva e cooperazione.
Riportare il femminismo sui piedi

Sono passati quasi quattordici anni da quando per la prima volta


mi sono avvicinata al movimento delle donne. In un primo momento
è stato con una certa distanza. Andavo a qualche incontro ma con
riserve poiché, data la mia idea del “politico”, mi sembrava difficile
conciliare il femminismo con una “prospettiva di classe”. O almeno
questa era la logica. Più probabilmente, dopo aver riposto per anni
tutte le speranze sulla mia capacità di passare per un uomo, non ero
disposta ad accettare la mia identità di donna. Due esperienze sono
state decisive nel mio impegno come femminista. In primo luogo il
fatto di coabitare con Ruth Geller, che è poi diventata una scrittrice
e ha documentato l’inizio del movimento nel suo romanzo Seed of a
Woman del 1979, e che continuamente, nel tipico stile femminista del
tempo, deprecava il mio asservimento agli uomini. E poi la lettura di
Potere femminile e sovversione di Mariarosa Dalla Costa, un opusco­
lo che sarebbe diventato uno dei documenti femministi più discussi
dell’epoca. All’ultima pagina ho capito di aver trovato la mia casa, la
mia tribù e me stessa, come donna e come femminista. Da qui derivava
anche il mio coinvolgimento nella campagna “Salario al lavoro dome­
stico”, che donne come Mariarosa Dalla Costa e Selma James stavano
organizzando in Italia e in .Gran Bretagna, e la decisione, nel 1973, di
avviare un gruppo per il salario al lavoro domestico negli Stati uniti.
Di tutte le posizioni che si sono sviluppate nel movimento delle
donne, la proposta di “Salario al lavoro domestico” è stata probabil­
mente la più controversa e senz’altro la più contrastata. Io credo che
ciò sia stato un grave errore che ha indebolito il movimento. Credo
anche che se ora il movimento femminista vuole ritrovare il suo slan­
cio, e non fare da pilastro a un sistema di gerarchie, deve più che mai
confrontarsi con la condizione materiale di vita delle donne.
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 109
Oggi le nostre scelte sono più definite, perché possiamo valutare
ciò che abbiamo realizzato e vedere più chiaramente i limiti e le possi­
bilità delle strategie adottate in passato. Ad esempio, possiamo ancora
reclamare un “salario uguale per un lavoro uguale” quando le diffe­
renze salariali sono entrate ormai anche nelle tradizionali roccaforti
della classe operaia maschile? Oppure possiamo ancora avere dubbi
su “chi è il nemico”, quando l’attacco ai lavoratori maschi, con la di­
soccupazione tecnologica e i tagli salariali, serve a contenere anche le
nostre rivendicazioni? E possiamo ancora credere che la liberazione
inizi “trovando un lavoro e entrando nel sindacato”, quando i posti
di lavoro che otteniamo sono al salario minimo e i sindacati sembrano
capaci solo di contrattare i termini della nostra sconfitta?
Quando il movimento delle donne è nato, alla fine degli anni Ses­
santa, credevamo che stesse a noi donne rovesciare il mondo. La “so­
rellanza” era un appello a costruire una società libera da rapporti di
potere, in cui avremmo imparato a cooperare e condividere in modo
eguale la ricchezza che il nostro lavoro e il lavoro delle altre gene­
razioni prima di noi avevano prodotto. “Sorellanza” esprimeva an­
che un rifiuto massiccio di essere casalinghe, una posizione che, con­
cordavamo, è la prima causa della discriminazione contro le donne.
Come altre femministe prima di noi, abbiamo scoperto che la cucina
è la nostra piantagione, e che se volevamo liberarci dovevamo rom­
pere la nostra identificazione con il lavoro domestico. Nelle parole
di Marge Piercy, dovevamo rifiutare di essere una “grande riserva di
manovalanza”1. Volevamo riprendere il controllo sui nostri corpi e
sulla nostra sessualità, porre fine alla schiavitù della famiglia nucleare
e alla nostra dipendenza dagli uomini, e esplorare che genere di esse­
ri umani saremmo volute diventare una volta liberate dalle cicatrici
che secoli di sfruttamento ci hanno lasciato. Nonostante l’emergere
di differenze politiche, questi erano gli obiettivi del movimento delle
donne e abbiamo combattuto su ogni fronte per realizzarli. Nessun
1 Marge Piercy, The Grand Coolie Damn, in Robin Morgan (a cura di), Sisterhood is Po-
werful, Vintage Books, New York 1970, pp. 473-492. L’espressione usata da Piercy “thè
grand coolie damn” è intraducibile; si basa sul richiamo alla grande diga che Roosevelt
fece costruire, tra il 1933 e il 1942, sul fiume Columbia, nello stato di Washington, che
è il più grande impianto idroelettrico negli Stati uniti e una delle più grandi costruzioni
in cemento nel mondo. Con un’estensione di 243 chilometri, la costruzione della Grand
Coulee Dam richiese una forza lavoro di ottomila uomini. In Marge Piercy “Coulee” di­
venta “coolie”, termine derogatorio che designa i lavoratori di origine asiatica che furono
importati a cavallo tra il XEX e il X X secolo negli Stati uniti. Indica un lavoratore non quali­
ficato e sottopagato [N.d.T.].
no IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
movimento, tuttavia, può sostenersi e crescere se non sviluppa una
prospettiva strategica che unifichi le sue lotte e concili gli obiettivi
a lungo termine con le possibilità che si danno nel presente. Questo
senso della strategia è ciò che è mancato al movimento delle donne,
che si è continuamente mosso tra una dimensione utopica che poneva
la necessità di un cambiamento totale e una pratica quotidiana che
presumeva l’immutabilità del sistema istituzionale.
Uno dei limiti maggiori del movimento delle donne è l’aver soprav­
valutato il ruolo della coscienza nel cambiamento sociale, quasi che
la schiavitù fosse una condizione mentale e la liberazione si potesse
' raggiungere con un atto di volontà. Presumibilmente, se lo volevamo,
potevamo smettere di essere sfruttate dagli uomini e dai datori di la­
voro, potevamo crescere i nostri figli secondo i nostri criteri, “uscire”2
e rivoluzionare la nostra vita quotidiana a partire dal presente. Indub­
biamente alcune donne avevano il potere di fare queste cose, così che
1 cambiamenti nella loro vita potevano effettivamente sembrare un
atto di volontà. Ma per milioni di noi, questa convinzione poteva solo
trasformarsi in un’imputazione di colpa, nella mancanza delle con­
dizioni materiali che la rendessero possibile. E quando la questione
delle condizioni materiali è stata affrontata, la scelta del movimento
è stata quella di combattere per ciò che sembrava compatibile con la
struttura del sistema economico e non per ciò che avrebbe allargato la
nostra base sociale e dato più potere a tutte le donne.
Anche se il momento “utopico” non è mai stato completamente
abbandonato, il femminismo ha sempre più operato in un’ottica in
cui il sistema - i suoi obiettivi, le sue priorità, i suoi patti di produt­
tività - non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale
poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti
perfettibili. Il femminismo è stato identificato con il raggiungimento
delle pari opportunità nel posto di lavoro, dalla fabbrica all’azienda,
con l’uguaglianza agli uomini, con la trasformazione delle nostre vite
e personalità in funzione dell’adattamento a nuove attività produttive.
Che “lasciare la casa” e “andare a lavorare” fosse la condizione per la
nostra liberazione è una cosa di cui poche femministe hanno mai du­
bitato, e questo già nei primi anni Settanta. Per le femministe liberali
il lavoro aveva il fascino della carriera, per quelle socialiste significava

2 “Uscire” qui è nel senso dell’inglese “come out", espressione che il movimento gay ha
adottato per indicare la decisione di non continuare a nascondere la propria omosessualità
[N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 111
“unirsi alla lotta di classe” e fare un “lavoro produttivo socialmente
utile”. In entrambi i casi, quella che per le donne era una necessità
economica è diventata una strategia, per cui il lavoro stesso diventava
un mezzo di liberazione. Una misura dell’importanza strategica che
si è attribuita all’“ingresso delle donne nel posto di lavoro” è stata
la grande opposizione alla campagna “Salario al lavoro domestico”,
accusata di essere economicista e di voler istituzionalizzare il ruolo
delle donne nella casa. Tuttavia, la richiesta di salario per il lavoro
domestico è stata fondamentale da molti punti di vista. In primo luo­
go ha riconosciuto che il lavoro domestico è un lavoro - il lavoro di
produzione e riproduzione della forza lavoro - e in questo modo ha
rivelato l’enorme quantità di lavoro non retribuito che, incontrasta­
to e invisibile, esiste in questa società. Ha riconosciuto anche che il
lavoro domestico è un problema che le donne hanno in comune, e
rappresenta quindi il terreno di lotta su cui le donne potenzialmente
sono più forti. Infine, pensavamo che proporre il lavoro extra-dome­
stico come la condizione principale per diventare indipendenti dagli
uomini avrebbe alienato le donne che lo rifiutano, perché lavorano
già abbastanza curando le proprie famiglie. Le donne “vanno a la­
vorare” perché hanno bisogno di soldi, non perchq lo considerano
un’esperienza liberante, tanto più che avere un lavorò salariato non ti
libera dal lavoro domestico. Eravamo poi convinte che il movimento
delle donne non dovesse creare modelli a cui avremmo dovuto con­
formarci, ma piuttosto elaborare strategie per incrementare le nostre
possibilità. Perché se si pensa che trovare un lavoro sia necessario per
la nostra liberazione, la donna che rifiuta di scambiare il suo lavoro in
cucina con quello in fabbrica è inevitabilmente bollata come arretrata
e i suoi problemi, oltre a essere ignorati, si trasformano in una colpa.
È probabile che molte donne, che in seguito sono state mobilitate
dalla New Moral Majority3, avrebbero potuto unirsi al nostro movi­
mento se questo avesse colto le loro esigenze. Spesso, quando appa­
riva un articolo sulla nostra campagna, o quando eravamo invitate a
parlare in un programma radiofonico, ricevevamo decine di lettere di
donne che ci raccontavano la loro vita o semplicemente scrivevano:
“Cara signora, mi dica cosa devo fare per ottenere un salario per il
lavoro domestico”. Le loro storie erano sempre le stesse. Lunghe ore
3 La New Moral Majority era un movimento di destra, che all’inizio degli anni Ottanta,
dopo l’elezione di Reagan, condusse una campagna moralizzatrice contro l’aborto, contro
il movimento gay e, più in generale, per cancellare gli effetti del movimento femminista e
dei movimenti degli anni Sessanta [N.d.T.].
112 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
di lavoro, senza tempo per se stesse e senza soldi propri. E poi c’era­
no le donne più anziane, che pativano la fame con il Supplementary
Security Income4 e ci chiedevano se potevano tenere un gatto, perché
temevano che se l’assistente sociale lo avesse scoperto le avrebbero
tagliato il sussidio. Che cosa ha offerto a queste donne il movimento
femminista? Uscite di casa e trovatevi un lavoro, così potrete unirvi
alle lotte della classe operaia? Ma il loro problema era che lavora­
vano già troppo e otto ore a un registratore di cassa o a una catena
di montaggio non è certo una proposta allettante quando ci si deve
destreggiare anche con marito e figli a casa. Come abbiamo spesso
• ripetuto, quello di cui abbiamo bisogno è più tempo e più soldi, non
più lavoro. Abbiamo bisogno di asili nido, non solo per liberarci del
lavoro ma per fare una passeggiata, parlare con i nostri amici o andare
a una riunione di donne.
Chiedere il salario per il lavoro domestico ha significato aprire di­
rettamente una lotta sulla questione della riproduzione e decretare
che l’educazione dei figli e la cura delle persone è una responsabilità
sociale. In una società futura libera dallo sfruttamento decideremo
come questa responsabilità sociale possa essere assolta nel modo mi­
gliore e condivisa. In questa società, in cui il denaro governa tutte le
nostre relazioni, definire il lavoro di riproduzione una responsabilità
sociale vuol dire chiedere a coloro che ne beneficiano (le imprese e lo
stato nella veste del “capitalista collettivo”) di pagarne il costo. Altri­
menti sosteniamo il mito - così costoso per noi donne - che crescere e
educare i figli e servire chi lavora è una questione individuale, privata,
e che la colpa del modo soffocante in cui viviamo, ci amiamo e ci
incontriamo è solo della “cultura maschile”. Purtroppo il movimento
delle donne ha ampiamente ignorato la questione della riproduzione
e offerto soluzioni individuali - come la condivisione del lavoro do­
mestico - che non forniscono un’alternativa reale alle battaglie isolate
che molte di noi stanno già conducendo. Anche durante la lotta per
l’aborto, la maggior parte delle femministe ha combattuto solo per il
diritto a non avere figli, benché questo sia solo un aspetto del con­
trollo sui nostri corpi e della scelta riproduttiva. E se volessimo avere
bambini, ma non potessimo permetterci di crescerli se non a costo di
non avere più tempo per noi stesse e di essere continuamente afflitte
da preoccupazioni economiche? Finché il lavoro domestico non sarà
retribuito, non ci saranno neanche incentivi per creare i servizi sociali
4 II Supplementary Security Income è un sussidio per chi è inabile al lavoro [N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 113
necessari a ridurre il nostro lavoro. E questo è mostrato anche dal
fatto che, nonostante un forte movimento delle donne, gli asili sov­
venzionati sono stati costantemente ridotti nel corso degli anni Set­
tanta. Vorrei aggiungere che il salario per il lavoro domestico non è
semplicemente uno stipendio. Significava anche più servizi sociali e
servizi sociali gratuiti.
E stata un’utopia? Molte donne sembravano pensarla così. Io so,
però, che in diverse città italiane, al tempo del movimento studen­
tesco, gli autobus erano gratuiti nelle ore in cui gli studenti andava­
no a scuola. Ad Atene, fino alle nove del mattino, nel periodo in cui
la maggior parte delle persone va a lavorare, la metropolitana non si
paga. E questi non sono paesi ricchi. Perché, allora, negli Stati uniti,
dove si accumula più ricchezza che nel resto del mondo, non dovreb­
be essere realistico pretendere che le donne con figli abbiano diritto
al trasporto gratuito, dal momento che tutti sanno che a tre dollari
a viaggio si resta inevitabilmente confinate in casa, a prescindere da
quanto sia alto il nostro livello di coscienza? Quella del salario per il
lavoro domestico è stata una strategia di riappropriazione, per allar­
gare il famoso “paniere” a cui si presume i lavoratori in questo pae­
se abbiano diritto. Avrebbe significato una maggiore redistribuzione
della ricchezza a favore delle donne e anche dei lavoratori di sesso
maschile, poiché una volta retribuito questo lavoro sarebbe stato rapi­
damente desessualizzato. Ma c’è stato un tempo in cui denaro era una
parola sporca per molte femministe.
Una delle conseguenze dell’opposizione al salario al lavoro dome­
stico è stata che il movimento femminista non si è mobilitato contro
l’attacco al welfare che è cominciato all’inizio degli anni Settanta, cosa
che ha compromesso la lotta su questo terreno. Perché, sostenere che
il lavoro domestico non deve essere pagato, convalidava l’idea che le
donne che ricevevano l’“Aid to Dependent Children” (a d c )5 non ave­
vano diritto a questi soldi, ed era giusto che lo stato cercasse di “farle
lavorare” per gli assegni che percepivano. Nei confronti delle donne
in welfare, molte femministe avevano lo stesso atteggiamento che mol­
ti hanno nei confronti “dei poveri”: compassione ma non identifica­
zione, anche se in genere si ammetteva che “tra noi e il welfare c’è solo
un marito”.

5 adc è il sussidio per i figli a carico di donne sole, un tempo condizionato dalla non pre­
senza di un uomo - marito o amante - in casa. Questo programma è di fatto terminato nel
1996 con l’amministrazione Clinton [N.d.T.].
114 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

Un esempio delle divisioni generate dalla politica del movimento


è la storia della Coalition of labor union women ( c l u w ). Quando nel
1974 la CLUW si è costituita, le femministe si sono mobilitate. In cen­
tinaia hanno partecipato alla conferenza di fondazione che si è tenuta
a Chicago nel marzo di quell’anno. Ma quando un gruppo di welfare
mothers, guidato da Beulah Sanders, insieme alle mogli dei minato­
ri in sciopero nella contea di Harlan hanno chiesto di partecipare,
sostenendo di essere anche loro lavoratrici, la loro richiesta è stata
respinta, sia pure con la promessa di una “cena di solidarietà” quel
sabato, adducendo il fatto che la conferenza era riservata ai tesserati
• del sindacato.
La storia degli ultimi cinque anni ha dimostrato i limiti di que­
ste politiche. Come tutti ammettono, “donne” è diventato sinonimo
di “povertà”, visto che i loro salari sono costantemente calati sia in
termini assoluti sia in rapporto a quelli maschili (nel 1984, il 72 per
cento delle donne che lavorava a tempo pieno guadagnava meno di 14
mila dollari, la maggior parte tra i 9 mila e i 10 mila dollari, mentre le
donne in welfare con due bambini guadagnavano al massimo 5 mila
dollari). Abbiamo perso poi anche molte forme di assistenza all’in­
fanzia sovvenzionata, e molte donne oggi lavorano a cottimo in casa,
con guadagni spesso al di sotto del salario minimo, perché è l’unica
possibilità che hanno per guadagnare qualche soldo e prendersi allo
stesso tempo cura dei figli.
Le femministe hanno accusato il salaro al lavoro domestico di iso­
lare le donne in casa. Ma sei forse meno isolata quando sei costretta a
lavorare in nero e non hai soldi per andare in qualsiasi luogo, per non
parlare del tempo per fare lavoro politico? Isolamento vuol dire anche
essere costrette a competere con altre donne per lo stesso lavoro, o
con un uomo nero o bianco su chi debba essere licenziato per primo.
Questo non vuol dire che non dobbiamo lottare per mantenere i no­
stri posti di lavoro. Ma un movimento che pretende di lottare per la
liberazione deve avere una prospettiva più ampia, soprattutto in un
paese come gli Stati uniti, dove il livello di ricchezza accumulata e lo
sviluppo tecnologico raggiunto possono tradurre l’utopia in una realtà
concreta.
Il movimento delle donne deve rendersi conto che il lavoro non è
liberazione. Lavorare in un sistema capitalistico vuol dire sfruttamen­
to e non c’è piacere, orgoglio o creatività nell’essere sfruttati. Anche
la “carriera” è un’illusione per quanto riguarda l’auto-realizzazione.
Ciò che raramente si riconosce è che la maggior parte dei lavori ri-
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 115
chiede che si eserciti potere su altre persone, spesso altre donne, cosa
che approfondisce le divisioni tra di noi. Cerchiamo di sfuggire dalle
fabbriche o dai ghetti impiegatizi per avere più tempo e più soddisfa­
zioni, ma il prezzo che paghiamo è la distanza che si instaura tra noi
e le altre donne. Non c’è d’altra parte disciplina che imponiamo agli
altri che non imponiamo allo stesso tempo a noi stesse, il che significa
che facendo questi lavori in realtà compromettiamo le nostre lotte.
Anche lavorare nell’accademia non ci rende più soddisfatte o crea­
tive. In assenza di un forte movimento di donne, lavorare nell’univer­
sità può essere soffocante, perché devi conformarti a criteri che non
puoi determinare e presto cominci a parlare una lingua che non è la
tua. Da questo punto di vista non fa alcuna differenza se si insegna la
geometria euclidea o la storia delle donne, anche se i Women’s Studies
rappresentano ancora una enclave che, relativamente, ci permette di
essere “più libere”. Ma le piccole isole non sono sufficienti. Quello
che deve cambiare è la nostra relazione con il lavoro intellettuale e le
istituzioni accademiche. I Women’s Studies sono riservati a chi può
pagare o è disposto a fare sacrifici aggiungendo, in percorsi di forma­
zione continua, un giorno di scuola alla giornata lavorativa. Ma tutte
le donne dovrebbero avere libero accesso alla scuola. Però finché lo
studio è una merce, o una pedina nella “caccia al lavoro”, il nostro
rapporto con il lavoro intellettuale non potrà mai essere un’esperienza
liberatoria.
In Italia nel 1973, gli operai metalmeccanici hanno vinto 150 ore
di scuola retribuite all’interno delle ore lavorative, come parte del loro
contratto. Rapidamente altri lavoratori, hanno cominciato a ottenere
questa possibilità anche se non era nel loro contratto. Più recente­
mente, in Francia una riforma della scuola proposta dal governo Mit­
terrand ha aperto l’accesso all’università per le donne, indipendente­
mente da eventuali qualifiche. Perché il movimento delle donne non
si è proposto di liberare l’università non solo cambiando gli argomenti
di studio ma eliminando i costi dello studio?
Ciò che mi interessa è la costruzione di una società in cui la cre­
atività è una condizione di massa e non un dono riservato a pochi
fortunati, anche se la metà sono donne. La nostra storia è oggi quella
di migliaia di donne che languiscono su libri, dipinti o musiche che
non potranno mai finire o che non possono nemmeno cominciare per­
ché non hanno né tempo né denaro. Dobbiamo anche espandere la
nostra concezione di ciò che significa essere creativi. Nella migliore
delle ipotesi, una delle attività più creative è essere coinvolti in una
116 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

lotta con altre persone, rompere il nostro isolamento, vedere cambiare


i nostri rapporti con gli altri, scoprire nuove dimensioni nella nostra
vita. Non dimenticherò mai la prima volta che mi sono trovata in una
stanza con altre cinquecento donne, il Capodanno del 1970, per as­
sistere alla performance di un gruppo teatrale femminista: è stato un
salto di coscienza che pochi libri hanno mai prodotto. Questa è stata
un’esperienza di massa nel movimento delle donne. Donne che non
erano capaci di dire una parola in pubblico hanno imparare a fare di­
scorsi, altre che erano convinte di non avere capacità artistiche hanno
scritto canzoni, striscioni e manifesti. E stata un’esperienza collettiva
forte. Per fare lavoro creativo è indispensabile superare il nostro senso
di impotenza. E ovvio che non si può produrre nulla di utile se non
si parla di ciò che conta nella vostra vita. Bertolt Brecht ha detto che
ciò che si produce nella noia può solo generare noia, e aveva ragione.
Ma per tradurre i nostri dolori e i nostri piaceri in una pagina, una
canzone o un disegno dobbiamo credere che le nostre parole saranno
ascoltate. Questo è il motivo per cui il movimento delle donne ha
prodotto un’esplosione di creatività. Si pensi alle riviste dei primi anni
Settanta, come “Notes from thè first year” e “No more fun and ga-
mes”, un linguaggio potente, all’ improvviso, dopo che eravamo state
mute per così tanto tempo.
E il potere - non il potere sugli altri ma contro coloro che ci op­
primono - che espande la nostra coscienza. Elo detto spesso che la
nostra coscienza è molto diversa a seconda che siamo con diecimila
donne per strada, in piccoli gruppi o da sole nelle nostre camere da
letto. Questa è stata la forza che ci ha dato il movimento delle donne.
Donne che dieci anni prima sarebbero state sottomesse casalinghe si
sono chiamate “streghe”, hanno sabotato le fiere matrimoniali ibri­
dai fairs), hanno osato essere blasfeme, come con la proposta, nello
SCUM Manifesto (del 1967), di centri di suicidio per gli uomini; han­
no dichiarato che bisognava scuotere l’intero sistema sociale fino alle
sue fondamenta. Ma ha prevalso l’anima moderata del movimento.
Femminismo oggi significa lotta per l’Equal rights amendment (era),
come se l’obiettivo delle donne fosse la generalizzazione della condi­
zione maschile. Vorrei chiarire, dal momento che ogni critica all’ERA
è considerata un tradimento al movimento femminista, che non sono
contraria a un atto legislativo che affermi che siamo uguali agli uomi­
ni. Ma sono contraria al fatto di concentrare tutte le nostre energie
nella lotta per una legge che nella migliore delle ipotesi può avere un
effetto limitato sulle nostre vite. Inoltre, dobbiamo decidere in che
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 117
cosa vogliamo essere uguali agli uomini, a meno che non diamo per
scontato che gli uomini sono già liberati. Un tipo di uguaglianza che
dovremmo rifiutare è l’uguaglianza in campo militare, cioè il dirit­
to delle donne a combattere in guerra. E un obbiettivo per cui negli
anni Settanta organizzazioni come la National organization for wo-
men ( n o w ) si sono battute, tanto che la sconfitta della proposta di
Carter di arruolare le donne paradossalmente è stata presentata come
una sconfitta per il femminismo. Ma se questo è il femminismo pon
sono una femminista, perché io non voglio appoggiare la politica im­
perialista degli Stati uniti e magari morire per questo. Lottare per la
parità dei diritti mette in questo caso in pericolo la lotta degli uomini
per rifiutare l’arruolamento. Come si può, infatti, legittimare una lotta
quando ciò che rifiuti è considerato un privilegio da parte dell’altra
metà della popolazione? Un altro esempio dei limiti dell’er a è la le­
gislazione protettiva per il lavoro delle donne. Non c’è dubbio che le
legislazioni protettive sono sempre state istituite con il solo scopo di
escludere le donne da determinati lavori e da alcuni sindacati, e non
per interesse al nostro benessere-. Non possiamo però semplicemen­
te chiedere che la legislazione protettiva venga abolita in un paese
dove ogni anno quattordici mila persone muoiono per infortuni sul
lavoro, per non parlare di chi rimane mutilato o muore lentamente di
cancro, o per intossicazione chimica. Altrimenti l’uguaglianza che ot­
teniamo è l’uguaglianza dei polmoni neri, il pari diritto a morire in una
miniera come già hanno fatto le donne minatrici. Dobbiamo cambiare
le condizioni di lavoro sia per le donne che per gli uomini, in modo che
ognuno sia protetto. Inoltre, I’era, non ha nemmeno .cominciato ad
affrontare la questione del lavoro domestico e della crescita dei figli,
ma fin quando i bambini sono nostra responsabilità, ogni nozione di
uguaglianza è destinata a rimanere un’illusione.
Sono convinta che sono questi i problemi che il movimento delle
donne deve affrontare se vuole essere una forza politica autonoma.
Certo c’è oggi una consapevolezza diffusa delle rivendicazioni femmi­
niste. Ma il femminismo rischia di diventare un’istituzione. Non c’è
un politico che non professi la sua devozione ai diritti delle donne e lo
fa con ragione visto che ciò che hanno in mente è il nostro “diritto al
lavoro”. Il basso costo del lavoro femminile è una cornucopia per il si­
stema. Nel frattempo le eroine femministe non sono più Emma Gold­
man o Mother Jones, ma Sally Ride, la prima donna nello spazio, sim­
bolo ideale della donna autosufficiente e altamente specializzata, in
grado di conquistare i territori maschili più esclusivi, e poi la signora
118 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Wilson, capo del National Women’s Politicai Caucus6 che, nonostante
la sua gravidanza, ha deciso di proporsi per un secondo mandato.
Un ulteriore prova della crisi del movimento delle donne è che
nel momento in cui, in questo paese, si assiste all’attacco più intenso
contro la classe operaia dal tempo della Grande Depressione, e a una
militarizzazione tale da far temere un’altra guerra mondiale, uno dei
maggiori dibattiti tra le femministe è sui meriti e demeriti del sado­
masochismo.
Glorificare il sado-masochismo mi sembra un passo indietro ri­
spetto ai rapporti d’amore tra le donne che volevamo costruire nel
movimento. Penso anche che i desideri sado-masochisti sono il pro­
dotto di una società in cui la sessualità è talmente implicata in rap­
porti di potere che piacere sessuale e violenza, sofferta o inflitta, dif­
ficilmente si possono separare. Può essere un bene, quindi, smettere
di sentirci in colpa per le nostre “perversioni”, e che perversioni, fra
l’altro, in confronto a ciò che pratica ogni giorno il governo con tutti
i crismi della moralità. Punzecchiarci il seno con gli spilli è un atto
di grande civiltà in confronto a ciò che avviene ogni giorno alla Casa
Bianca. E anche un bene che cerchiamo di realizzare le nostre fanta­
sie in un momento in cui siamo continuamente esortate a centrare la
nostra vita sulla chiesa, sul lavoro e sui rapporti eterosessuali. Tuttavia
possiamo dire che praticare il sado-masochismo è liberare la nostra
sessualità? Può avere un effetto terapeutico ammettere i nostri deside­
ri segreti e smetterla di vergognarci di ciò che siamo. Ma liberazione
vuol dire potere determinare quando, in quali condizioni, e con chi
possiamo fare l’amore e liberarci da ogni rapporto di sfruttamento.
La realtà è che le nostre vite sessuali sono diventate molto noiose
perché la possibilità di sperimentare nuovi rapporti sociali è stata dra­
sticamente ridotta. Così ci annoiamo reciprocamente, perché quando
non siamo capaci di cambiare il mondo intorno a noi abbiamo poco
da offrire alle nostre campagne al di là delle nostre lamentele. Così
punzecchiamo la nostra sensibilità, cerchiamo nuovi modi per stimo­
larci. In realtà sono modi vecchi, la differenza è che ora sono le donne
a praticarli. Questo è un altro aspetto dell’aspirazione all’uguaglianza,
pari a trovar lavoro come muratrici. Ma liberazione è poter andar al
di là di queste opzioni.

6 Fondato nel 1971, il National Women’s Politicai Caucus è un gruppo formato da rappre­
sentanti dei due partiti politici: Democratici e Repubblicani, il cui compito è promuovere
la partecipazione delle donne al processo politico [N.d.T.].
RIMETTERE IL FEMMINISMO IN PIEDI 119
Ci sembra, tuttavia, che la paralisi sofferta dal movimento delle
donne stia per finire. Un punto di svolta è stata l’organizzazione del
“Seneca Women’s Encampment”, che ha segnato l’inizio di un movi­
mento femminista-lesbico contro la guerra. Con questo movimento si
completa il cerchio delle nostre esperienze. I primi gruppi femministi
erano formati da donne attive nelle organizzazioni contro la guerra,
ma avevano scoperto che i loro “fratelli rivoluzionari”, così sensibili
ai bisogni degli sfruttati del mondo, non si sarebbero mai interessati
ai loro problemi finché loro stesse non si fossero direttamente fatte
carico della loro lotta. Ora, quattordici anni dopo, le donne stanno
costruendo il loro movimento contro la guerra partendo direttamente
dai loro bisogni.
Oggi la rivolta delle donne contro ogni tipo di guerra è visibile in
tutto il mondo: da Greenham Common a Seneca Falls, dall’Argentina,
dove le madri dei desaparecidos sono state in prima linea nella resi­
stenza alla repressione militare, all’Etiopia, dove questa estate le don­
ne sono scese in piazza per salvare i propri figli arruolati dal governo.
Un movimento di donne contro la guerra è particolarmente importan­
te negli Stati uniti, un paese che sembra intenzionato a far valere, con
il potere dei bombardieri, il suo dominio su tutto il pianeta.
Negli anni Sessanta, ci siamo ispirate alle lotte delle donne vietna­
mite, che hanno mostrato come anche noi potevamo lottare e cambia­
re il corso del mondo. Oggi dovremmo leggere come un avvertimento
la disperazione che vediamo sui volti delle donne, buttate ogni sera
sui nostri schermi, mentre affollano i campi profughi o vagano con i
loro figli tra i relitti delle loro case distrutte dalle bombe pagate con i
tagli ai nostri salari. Se non recuperiamo il nostro impulso a cambiare
questa società dal basso, potremmo presto subire la stessa agonia.
Andare a Pechino
Come le Nazioni Unite hanno colonizzato
il movimento femminista

In questo saggio esamino la campagna che negli anni Ottanta e


Novanta le Nazioni Unite hanno lanciato in appoggio ai “diritti delle
donne” e l’impatto che ciò ha avuto sulla politica dei movimenti fem­
ministi a livello internazionale e sulla resistenza delle donne ai proces­
si di globalizzazione. Paragono inoltre questo intervento nella politica
del femminismo internazionale al ruolo che le Nazioni Unite hanno
giocato nel processo di decolonizzazione degli anni Sessanta, soste­
nendo che, in entrambi i casi, l’iniziativa delle Nazioni Unite ha ridot­
to il potenziale rivoluzionario di questi movimenti e fatto sì che i loro
obbiettivi si conformassero a quelli del capitale internazionale e delle
sue istituzioni. In altre parole sostengo che “il femminismo globale”
promosso dalle Nazioni Unite hanno1ha depoliticizzato il movimento
femminista, ne ha minato l’autonomia, contribuendo a disarmare le
donne che si opponevano all’espansione del rapporti capitalistici.
La tempistica di questo intervento è stata tutt’altro che accidentale.
Già all’inizio degli anni Settanta era evidente che i movimenti femmi­
nisti rappresentavano un’importante forza sociale. Non solo si oppo­
nevano alla diseguaglianza nei rapporti di genere, ma nelle loro artico­
lazioni più radicali mettevano in discussione l’intera società “patriar­
cale”. Lottavano per un profondo cambiamento nei rapporti sociali
1 Una sintesi delle attività sponsorizzate delle Nazioni Unite include: il Decennio delle Na­
zioni Unite per le donne, tra il 1976 e il 1985; la Conferenza mondiale di Nairobi del 1985
- una conferenza epocale con la partecipazione di quindicimila donne e cinquemila giorna­
listi, che ha prodotto il documento Forward Looking Stratega Documenta la Conferenza per
i diritti umani di Vienna del 1993; la Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo nel
1994 - “l’anno della famiglia” per le Nazioni Unite (e va notato che le Nazioni Unite hanno
sostenuto la Banca mondiale nel suo progetto di “controllo della popolazione”, fondato
sull’idea che la crescita della popolazione sia la causa della povertà nel mondo e le donne
siano responsabili dell’impoverimento dei loro paesi); la Conferenza di Pechino del 1995.
ANDARE A PECHINO 121
mettendo in discussione non solo la casa e la famiglia, ma l’economia,
la scuola, la religione, l’esercito. E si stavano espandendo. Gruppi, ini­
ziative e organizzazioni emergevano in ogni parte del mondo. Presumi­
bilmente la decisione delle Nazioni Unite di intervenire e presentarsi
come l’agenzia incaricata di de-patriarcalizzare la struttura internazio­
nale del potere politico è stata motivata da tre considerazioni. In pri­
mo luogo, la consapevolezza che il rapporto tra donne, capitale e stato
non poteva più essere organizzato tramite la mediazione del lavoratore
maschio-salariato, dato che il Movimento di liberazione della donna
esprimeva un massiccio rifiuto di tale mediazione e una rivendicazione
d’autonomia dagli uomini che non poteva più essere repressa. Di qui
la necessità di un cambiamento negli assetti istituzionali, conforme ai
nuovi ruoli produttivi assegnati alle donne, e all’introduzione di un
rapporto più diretto tra donne stato e capitale. In secondo luogo, si
doveva addomesticare un movimento che aveva un grande potenziale
sovversivo, essendo (fino a quel momento) fieramente autonomo, im­
pegnato in una trasformazione radicale della vita quotidiana e diffiden­
te nei confronti di ogni rappresentanza e partecipazione politica. Do­
mare il movimento femminista era particolarmente urgente alla metà
degli anni Settanta, in un momento in cui, in risposta a un’irriducibile
“crisi del lavoro”, era in corso una controffensiva capitalista su scala
globale che mirava a ristabilire il comando della classe capitalista sulla
disciplina del lavoro e a distruggere le forme organizzative responsabili
della resistenza allo sfruttamento.
“Crisi del lavoro” è un termine riduttivo in questo contesto. Infatti
la crisi che il capitalismo affrontava alla metà degli anni Settanta era
una crisi strutturale, il risultato di un intenso ciclo di lotte che ha per­
corso tutto il xx secolo, culminando negli anni Sessanta con il movi­
mento anti-coloniale, il Civil Rights e il Black Power Movement negli
Stati uniti, e la rivolta delle fabbriche in quasi ogni paese industriale.
Come una vasta letteratura ha documentato, a partire dalla metà degli
anni Settanta, la crisi del comando sul lavoro è diventata così intensa
che per un certo periodo si è dubitato della capacità stessa del sistema
di riprodursi. Non a caso, nel 1974, uno dei discorsi dominanti nei
circoli capitalistici internazionali era la “crescita zero”, che in pratica
si traduceva in uno sciopero degli investimenti, il primo passo verso la
deterritorializzazione della produzione e l’insieme di manovre che più
tardi sarebbero andate sotto il nome di “aggiustamento strutturale” e
“globalizzazione”. Non è questo il luogo per ripercorrere questa sto­
ria, già oggetto di un’ampia letteratura. Basterà dire che nel momento
122 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
in cui si lanciava un attacco di portata storica contro i mezzi più ba­
silari della riproduzione sociale e del potere operaio, porre un freno
al movimento femminista era compito indispensabile per la pianifica­
zione capitalista. Inoltre, l’esistenza nel movimento di forti tendenze
liberali, che identificavano la liberazione delle donne con il “diritto al
lavoro” e l’uguaglianza con gli uomini, anche nell’esercito, dimostrava
che era possibile usare il femminismo per rafforzare istituzioni scre­
ditate contro cui i lavoratori lottavano a livello internazionale. Così
paradossalmente il massiccio ingresso delle donne nel lavoro salariato,
negli Stati uniti e in Europa, era in coincidenza con il più risoluto at-
' tacco ai diritti dei lavoratori dagli anni Venti, un attacco che in pochi
anni avrebbe smantellato il “contratto sociale” che vigeva nelle fabbri­
che dal tempo del New Deal e della seconda guerra mondiale.
E in questo contesto che le Nazioni Unite si sono proposte di
trasformare il Movimento di liberazione della donna da movimento
“anti-sistemico” in movimento che avrebbe legittimato e sostenuto
l’agenda neoliberale. Come già accennato, vi è uno stretto rapporto
tra questa iniziativa e il ruolo che le Nazioni Unite hanno giocato ne­
gli anni Sessanta in risposta alla lotta anticoloniale. Le Nazioni Unite
si compiacciono del ruolo svolto nel processo di decolonizzazione,
sostenendo che esso si è ispirato ai principi inscritti nella Dichiara­
zione dei Diritti dell’Uomo del 1945. In realtà, la decolonizzazione
ha proceduto in modo estremamente selettivo e secondo il mandato e
le esigenze dei principali membri del Consiglio di Sicurezza deU’Onu
(Stati uniti, Francia, Regno unito). Quando è stato evidente che la
lotta anticoloniale non poteva essere sconfitta, le Nazioni Unite hanno
preteso di prenderne la guida, dichiarando il loro sostegno ai coloniz­
zati e guidando il processo di decolonizzazione in maniera compati­
bile con i piani del capitalismo internazionale e soprattutto degli Stati
uniti, che vedevano la decolonizzazione come un’opportunità per la
creazione di un mercato globale libero dai vincoli che gli imperi co­
loniali ponevano alla circolazioni mondiale delle merci e dei capitali2.
Analogamente a quanto è accaduto con il processo di “decoloniz­
zazione”, a partire dalla metà degli anni Settanta, con l’organizzazione
della prima conferenza mondiale sulle donne a Città del Messico, le
Nazioni Unite si sono impegnate in una politica di “depatriarcaliz-

2 Si veda sul tema (tra gli altri) Tony Evans, The Politics of Human Rights. A Global Per-
spective, Pluto Press, London 2001, soprattutto il primo capitolo: The Politics ofUniversal
Human Rights.
ANDARE A PECHINO 123

zazione” che ha introdotto un nuovo contratto sociale tra donne e


stato. Discuterò più avanti i contorni di questo contratto. Qui voglio
precisare le tattiche che le Nazioni Unite hanno usato per realizzare
questo programma: a) sponsorizzare conferenze globali, ben pubbli­
cizzate, che hanno diretto l’energia e gli sforzi delle femministe a li­
vello internazionale verso attività e programmi istituzionali; b) creare
commissioni a cui sono state invitate a partecipare note femministe,
sradicandole dai movimenti di cui erano parte. Il fatto che molte fem­
ministe abbiano accettato di lavorare con le Nazioni Unite ha dato
legittimità e credibilità ai suoi programmi, consentendogli di determi­
nare i tempi, gli spazi e le forme dell’attivismo femminista; c ) creare
un quadro di “femministe globali”, operanti come un sindacato delle
donne a livello mondiale, con l’incarico di rappresentare i bisogni e i
desideri delle donne agli occhi del mondo, e decidere quali questioni
e quali lotte si possano definire femministe; d) incentivare i governi
per convincerli a istituire uffici e ministeri per le donne, e a sotto­
scrivere dichiarazioni a favore dei loro diritti, come la Dichiarazione
sull’eliminazione della violenza contro le donne adottata dall’Assem­
blea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993.
Va osservato che al successo di queste iniziative ha contributo non
solo la propaganda di cui sono state oggetto, ma la stretta collabora­
zione tra le Nazioni Unite e un ampio numero di aziende, tra cui mol­
te che, negli stessi anni, pauperizzavano le comunità di provenienza
delle femministe a cui hanno sovvenzionato il viaggio a Pechino. Nella
costruzione di queste conferenze il ruolo delle aziende fu tale che i
loro nomi furono anche stampati nel programma che venne distribui­
to a Pechino3. Per quanto riguarda poi il denaro speso in questa ope­
razione - inclusi gli incontri preparatori che hanno preceduto ogni
conferenza - alcune femministe che vi hanno partecipano, soprattutto
quelle provenienti dal terzo mondo, ne sono rimaste turbate.
“Li pregai di darmi i soldi che stavano pagando per la mia stanza
(più 100 dollari al giorno in un hotel del centro), perché quei sol­
di, nel paese da cui vengo, avrebbero sostenuto un villaggio per una
3 L’elenco degli sponsor del Forum sulle donne delle Ong - Look at thè World Through
Women’s Eyes. NGO Forum Beijin ‘95 - è lungo due pagine. Include i maggiori rappre­
sentanti del capitalismo internazionale: Banca mondiale, United States Agency for Inter­
national Development, il governo dell’Australia e del Giappone, Apple, Hewlett Packard,
Midland Bank, The Royal Thai International Airways, Samsung Electronics, Fatima Bin
Mubarak la sorella dell’allora presidente egiziano, e decine di gruppi di imprese e agenzie
internazionali affiliate o in quota alle Nazioni Unite.
124 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
settimana, ma si sono rifiutati”, lamentava una donna proveniente
dall’Africa invitata a New York per una conferenza preparatoria. La
cosa non sorprende; l’obiettivo dell’intervento delle Nazioni Unite
non era il miglioramento della condizione delle donne. Lo prova il
fatto che nel decennio (1976-1985) dedicato dalle Nazioni Unite ai
diritti delle donne, le condizioni di vita delle donne nel mondo sono
drammaticamente peggiorate a causa di politiche adottate da agenzie
legate alle Nazioni Unite, come la Banca mondiale, il Fondo moneta­
rio internazionale e 1’ Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
I programmi di aggiustamento strutturale che la Banca mondiale e
il Fondo monetario internazionale hanno imposto a gran parte del
“Terzo Mondo” in risposta alla cosiddetta “crisi del debito”, hanno
sprofondato la maggior parte delle regioni interessate in una pover­
tà senza precedenti, mettendo in pericolo la possibilità stessa che le
donne (tranne una piccola minoranza) potessero migliorare la propria
vita e avere accesso a istruzione, sanità, cibo eccetera. L’unico servi­
zio “gratuito” che le donne hanno ricevuto è stata la sterilizzazione,
letteralmente imposta a milioni di donne attraverso le tattiche più in­
gannevoli e il ricatto4.
Ciò che le Nazioni Unite hanno ottenuto con queste iniziative è
stata la neutralizzazione del Movimento di liberazione della donna,
che è stato integrato nel loro programma politico come vetrina per
il loro progetto di “democratizzazione”. Ma fin dall’inizio non sono
mancate le critiche. Già nel 1975, era chiaro che questi eventi erano
l’occasione per eliminare le componenti più radicali del movimento
femminista e ridisegnarne l’agenda. Le “femministe di stato” prove­
nienti dagli Stati uniti, disponendo di maggiori mezzi economici ri­
spetto alle altre partecipanti, hanno dominato la scena. Ciò ha reso
impossibile sollevare questioni di grande importanza come l’occu­
pazione israeliana della Palestina, anche perché le rappresentanti dei
movimenti di base presenti alla conferenza erano spesso finanziate
dagli Stati uniti o da agenzie delle Nazioni Unite, cosa che ne limitava
la capacità critica.
Le successive conferenze (Copenaghen 1980, Nairobi 1985, Pechi­
no 1995) hanno confermato la crescente burocratizzazione del mo­
vimento prodotta dalle iniziative delle Nazioni Unite, e la crescente

4 Significativamente le donne sono costrette ad adottare contraccettivi, come Norplant e


la spirale, di cui non possono controllare l’uso, nonostante sia provato che sono dannosi,
perché possono produrre infezioni, depressione e altri disturbi.
ANDARE A PECHINO 125
disparità tra le promesse delle conferenze e la realtà delle donne. Nel
1983 esistevano già cento settanta organizzazioni internazionali di
donne create dalle conferenze delle Nazioni Unite. Eppure, questo è
stato anche l’anno del lancio, a Seoul, dei primi programmi di aggiu­
stamento strutturale.

Il Viano d’azione di Pechino


Qual è l’agenda femminista proposta dalle Nazioni Unite e dal mo­
vimento femminista globale? Il luogo migliore per valutarlo è il Piano
d’azione (Platform for Action) adottato alla conferenza di Pechino
del 1995.
Il Piano ha spianato la strada a un maggiore sfruttamento delle
donne, eliminando presumibilmente gli ostacoli alla loro “partecipa­
zione all’economia”, cioè al lavoro extra-domestico, senza però alcuna
considerazione rispetto alle modalità di questo lavoro. Ad esempio,
nel Piano, non si fa alcun accenno alle condizioni disastrose in cui
milione di donne, spesso giovanissime, lavorano nelle Zone di Libe­
ro Commercio, aree industriali dove tuttora non esiste alcuna regola­
mentazione. Il Piano prometteva poi l’uguaglianza tra donne e uomi­
ni, ma anche in questo caso senza riconoscere che anche i lavoratori
maschi erano destinati a perdere tutti i benefici in precedenza garan­
titi dal salario. E prometteva di “integrare” le donne in programmi
di “sviluppo sostenibile”, una beffa in un momento in cui, in gran
parte del mondo, le riforme indotte dall’aggiustamento strutturale
imponevano i più micidiali programmi di austerità e tagli ai posti di
lavoro. Tipiche della vacuità del programma di emancipazione delle
Nazioni Unite sono le proposte avanzate per sollevare le donne dalla
povertà, difenderle dalla violenza e eliminare le disparità di genere. A
donne che stavano perdendo le terre, il posto di lavoro, l’istruzione
e l’assistenza sanitaria gratuite, il Piano di Pechino ha proposto di
diventare più “auto-sufficienti”, di fare formazione. Al contempo ha
raccomandato ai governi di sviluppare “politiche nazionali e interna­
zionali orientate al genere” e “assegnare alle donne rurali parità di
accesso alle risorse produttive, compreso l’accesso legale alla terra e
al credito, e l’estensione dei servizi”. Sottolineo “legale” e “credito”
perché sono termini che mostrano le reali intenzioni delle Nazioni
Unite. Garantire l’accesso “legale”, nel linguaggio delle Nazioni Unite
e dei governi, significava rafforzare i diritti di proprietà privata della
126 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
terra, in aree in cui prevaleva ancora la proprietà comune (come in
gran parte dell’Africa e dell’America Latina, per esempio in Messico),
e dove la Banca mondiale si era impegnata a istituire titoli di possesso
individuale della terra incontrando però una forte resistenza. Non a
caso, il Movimento per i diritti delle donne alla terra, che è emerso
a Pechino, ha avvantaggiato le donne professioniste che avevano la
possibilità di acquistare terreni, di condividere la terra del marito o di
\ ereditarla in caso di morte senza incontrare l’opposizione dei parenti
^ di lui che spesso ricorrevano alla forza o a cavilli legali per sottrar­
gliela. Ma per la maggior parte delle donne, in Africa, Asia, America
•Latina, quotidianamente espropriate dalle compagnie minerarie o dai
progetti di sviluppo agricolo, tali garanzie legali erano e continuano
a essere irrilevanti, poiché il loro unico mezzo per acquisire terra è
occuparla e coltivare terreni pubblici inutilizzati, una pratica molto
diffusa soprattutto in Africa.
Anche il riferimento al “credito” conferma il carattere neoliberale
della politica delle Nazioni Unite a favore dei diritti delle donne. Il
“credito” promesso è il credito concesso agli agricoltori o il “micro­
credito” che, sin dalla fine degli anni Settanta, la Banca mondiale e va­
rie Ong, hanno promosso come soluzioni alla povertà rurale, ma che
in realtà hanno portato milioni di contadini e piccoli commercianti
all’indebitamento, rendendoli schiavi delle banche5.
Il Piano promette anche di combattere le disparità di gene­
re nell’istruzione, di aiutare le ragazze ad accedere allo studio delle
scienze e della tecnologia, di ridurre la mortalità infantile e di soste­
nere la ricerca sull’assistenza sanitaria alle donne. Ma non menziona il
fatto che, a seguito dei programmi di aggiustamento strutturale, anche
l’accesso all’istruzione primaria è diventato un lusso in molte parti del
mondo, dal momento che sono state introdotte tasse a tutti i livelli del
sistema educativo. Anche la sanità è stata privatizzata a tal punto che
in Africa la gente ritorna dai guaritori mentre pratiche una volta co­
muni, come la vaccinazione contro le principali malattie dei bambini,
sono state drasticamente ridotte, per non parlare della malnutrizione
che rappresenta oggi il principale ostacolo all’assistenza sanitaria.
Il Piano si propone anche di eliminare la violenza contro le donne,
ma definisce come violenza solo quella perpetrata da individui. Non

5 In Messico, alla fine degli anni Novanta, ciò ha generato una serie di rivolte che si sono
concluse con il movimento di E1 Barzon (il giogo), diffuso in tutto il paese tra il 2000-
2005.
ANDARE A PECHINO 127

parla della violenza istituzionale, come la brutalità inflitta alle donne


proletarie, soprattutto alle donne nere e latine nelle carceri degli Stati
uniti, o della violenza a cui sono esposte le donne nelle maquilas e in
altri sweatshop o della violenza della guerra. C’è un riferimento alla
necessità di “proteggere le donne dai conflitti armati”, ma non c’è
alcuna condanna di tali conflitti e di chi li promuove. Si suggerisce,
invece, di incrementare la partecipazione delle donne alla loro “risolu­
zione” e di rafforzare il loro contributo “all’educazione alla pace nella
società e in famiglia”. Insomma la piattaforma è una miscela di propo­
ste irrealizzabili, di evasioni dai problemi reali e di ambiguità. Sarebbe
tuttavia un errore pensare che la sua stesura sia stata uno sforzo inuti­
le. La piattaforma è parte di una complessa macchina che ha avuto il
compito epocale (per lo più riuscito) di addomesticare un movimento
potenzialmente sovversivo e farne parte integrante del programma di
ristrutturazione neoliberale dell’economia mondiale e della sua spinta
espansionistica. Inoltre, dietro il linguaggio fumoso possiamo intra­
vedere una serie di obiettivi molto concreti: a) creare una squadra di
“femministe di stato”, vale a dire una popolazione di donne presenti
nei vari governi, incaricate di istituire le modifiche necessarie a uno
sfruttamento più approfondito del lavoro e delle capacità delle donne;
b) creare una squadra di “femministe globali” con il ruolo di ridefi­
nire l’agenda femminista e mediare tra i movimenti delle donne e le
istituzioni, fornendo a quest’ultime il linguaggio e i concetti necessari;
c) creare reti di movimenti da poter consultare periodicamente, sia
pur formalmente, per legittimare le decisioni prese; d) ridefinire la
povertà come mancanza di capitali e applicazione impropria delle leg­
gi sulla proprietà. Perciò si nota tanta insistenza sull’importanza del
“credito” e la riforma delle leggi in materia di proprietà della terra.
Proposti come panacea per le popolazioni rurali e soprattutto per le
donne, questi “rimedi alla povertà” corrispondono alla missione della
Banca mondiale, che è quella di privatizzare la terra e accantonare una
volta per tutte l’idea di una sua ridistribuzione, che era stato il vero
obiettivo della lotta anticoloniale.
Non ultimo, l’intervento delle Nazioni Unite ha contribuito a sep­
pellire il movimento femminista6, o meglio a creare un nuovo femmi-
6 Ha contribuito nel senso che non è stato l’unico fattore che ha determinato la scomparsa
del movimento femminista come forza sociale. In questo processo ha certamente giocato
un ruolo chiave la ristrutturazione economica globale, così come le divisioni all’interno del
movimento, lungo linee di classe, razza, e “preferenze” sessuali e la conseguente mancanza
di strategie comuni.
128 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
nismo, integrato alla politica istituzionale, esclusivamente focalizzato
sulle ineguaglianze di genere, e cieco invece delle crescenti inegua­
glianze prodotte dalla ristrutturazione economica. Anche la figura
della femminista è cambiata. Alle donne capellute, orgogliose della
loro autonomia degli anni Settanta, si sono sostituite le burocrate
del femminismo, la cui attività “principale” è cercare di influenzare
i politici, partecipare a conferenze governative internazionali, lottare
per cambiare il linguaggio dei documenti e delle dichiarazioni uffi­
ciali, sforzarsi di “femminizzare” le istituzioni e le organizzazioni che
le rappresentano, come la Banca mondiale, e spesso entrare a farne
•parte.
In questo modo il “femminismo” è diventato complice della poli­
tica istituzionale - ed è per questo che molte giovani donne radicali
oggi lo rifiutano. Tale complicità è particolarmente evidente in rap­
porto alla questione della guerra. Nei primi anni Ottanta, le femmini­
ste, sia negli Stati uniti che in Europa, si sono opposte con decisione
alla politica della guerra, per esempio facendo occupazioni, a volte
durate per mesi e anche anni, come contro il dispiegamento dei missili
Pershing, nelle vicinanze delle basi missilistiche di Greenham Com­
mon (Inghilterra), Seneca Falls (Stato di New York), Puget Sound
(Stato di Washington ), spesso affrontando gli attacchi della polizia,
dell’esercito e della popolazione locale. Negli anni Novanta, invece,
l’esercito statunitense poteva essere rappresentato nei media come un
simbolo di civiltà, con le sue reclute femminili in kaki, contrapposte
all’immagine delle donne afghane avvolte nel chador, e senza che vi
fosse alcuna protesta da parte delle femministe.
Dagli incontri internazionali promossi dalle Nazioni Unite qual­
che sviluppo positivo è indubbiamente emerso. La politica femminista
è stata internazionalizzata. Molte donne che hanno partecipato alle
conferenze hanno avuto la possibilità di confrontarsi con problemi
e storie di cui probabilmente sarebbero rimaste all’oscuro. Questo è
particolarmente vero per le donne provenienti dall’Europa e dal Nord
America che hanno acquisito una comprensione più ampia della poli­
tica mondiale e, in alcuni casi, sviluppato relazioni politiche con grup­
pi e reti che operavano al di fuori del controllo delle Nazioni Unite.
Ma vorrei aggiungere che questi sviluppi si sarebbero potuti ottenere
anche senza l’intervento delle Nazioni Unite. Dagli anni Novanta gli
Zapatisti hanno creato una rete internazionale completamente auto­
noma, che ha circolato informazioni, elaborato teorie e sviluppato
varie forme di cooperazione con i movimenti internazionali, senza
ANDARE A PECHINO 129
dover ricorrere ad alcuna istituzione o partito. Al contrario, le Nazio­
ni Unite hanno appoggiato politiche che sono una negazione palese
deH’internazionalismo, sostenendo i richiami alla guerra degli Stati
uniti e appoggiando l’ingresso delle donne negli eserciti, di modo che
ora abbiamo anche noi il privilegio di poter uccidere, altre donne e
uomini come noi.
Oggi sembra che l’entusiasmo istituzionale per i diritti delle donne
stia scemando, plausibilmente perché il movimento femminista non
costituisce più un pericolo, anche se la lotta delle donne continua a
essere il maggior ostacolo all’espansione delle recinzioni di terre, delle
foreste, e delle acque. Ma molto è già stato ottenuto. I governi han­
no creato uffici incaricati di seguire le questioni relative alle donne e
la bandiera dei diritti delle donne può essere utilizzata per qualsiasi
impresa, inclusa quelle militari. Nel frattempo, milioni di donne sono
state reclutate negli sweatshop o hanno lasciato i loro paesi in cerca
di un reddito che non è più disponibile nel loro paese d’origine, sono
sfollate in campi profughi, il tutto mentre le Nazioni Unite sponsoriz­
zavano e celebravano “il decennio delle donne”.
Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo

Introduzione
Il “lavoro di cura”, specialmente quello prestato agli anziani, è da
alcuni anni al centro dell’attenzione pubblica nei paesi dell’Organiz­
zazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (ocse), come
risposta agli sviluppi economici e sociali che hanno messo in crisi le
tradizionali forme di assistenza. Tra questi vi è innanzitutto la crescita
- in termini assoluti e relativi - della popolazione anziana e l’aumento
dell’aspettativa media di vita, a cui però non ha corrisposto un incre­
mento dei servizi per gli anziani1. Ma va anche considerato l’aumento
nel numero di donne impiegate nel lavoro salariato, che ha ridotto il
loro contributo alla riproduzione della famiglia12. A questi fattori si
deve aggiungere il continuo processo di urbanizzazione e la gentri-
ficazione dei quartieri operai, che hanno distrutto le reti di sostegno
e le forme di aiuto reciproco di cui potevano disporre gli anziani che
vivono da soli, in quanto i vicini di casa gli portavano da mangiare,
gli rifacevano il letto, andavano a fare una chiacchierata. A seguito
di tutto ciò, per un gran numero di anziani, gli effetti positivi di una
vita più lunga sono stati annullati o appannati dalla prospettiva della
solitudine, dell’esclusione sociale e di una maggiore vulnerabilità ad
abusi fisici e psicologici. Tenendo questo presente, esaminerò come le
politiche sociali, soprattutto negli Stati uniti, affrontano oggi la que­
stione dell’assistenza agli anziani, per capire poi quali iniziative si pos­
sono prendere su questo terreno, e perché la questione della cura agli
anziani è assente nella letteratura della sinistra radicale.
1 Laurence J. Kotlikoff, Scott Burns, The Corning Generational Storm: What You Need to
Know About America’s Economie Future, MIT Press, Cambridge (MA) 2004.
2 Nancy Folbre, Nursebots to thè Resene? Immigration, Automation and Care, in “Globali-
zations” 3,3,2006, pp. 349-360.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 131
Il mio principale obiettivo, in questo contesto, è incentivare una
redistribuzione della ricchezza sociale a favore dell’assistenza agli an­
ziani, e la costruzione di forme collettive di riproduzione che gli per­
mettano, quando non più autosufficienti, di essere curati senza che i
costi di queste cure ricadano sulle vite di chi provvede loro. Perché ciò
avvenga, la lotta per l’assistenza agli anziani deve essere politicizzata e
messa sull’agenda dai movimenti per la giustizia sociale. È necessaria
anche una rivoluzione culturale che investa il concetto stesso di vec­
chiaia, contro la sua rappresentazione degradata, che ne fa oggi un
onere fiscale a carico dello stato oppure una fase della vita “opziona­
le”, che possiamo superare o prevenire, adottando la giusta tecnologia
medica e i rimedi per “migliorare la vita” escogitati dal mercato3. In
gioco nella politicizzazione della cura agli anziani c’è non solo il loro
destino e l’insostenibilità di movimenti radicali che non si occupino
di un problema così cruciale per la nostra vita, ma anche la solidarietà
inter-generazionale e di classe, che è stata per anni il bersaglio di una
campagna implacabile da parte di economisti e governi, che hanno
dipinto le conquiste dei lavoratori per la loro vecchiaia (le pensioni e
le altre forme di sicurezza sociale) come una bomba a orologeria sul
piano economico e una pesante ipoteca sul futuro dei giovani.

La crisi della cura agli anziani nell’era globale


Per certi versi l’attuale crisi della cura agli anziani non è una no­
vità. La cura agli anziani, nella società capitalista è sempre stata in
crisi, sia a causa della svalorizazzione del lavoro riproduttivo, sia per­
ché gli anziani, invece di essere apprezzati come lo erano in molte
società precapitalistiche quali depositari della memoria e dell’espe­
rienza collettive, sono visti come non più produttivi. In altre parole,
la cura degli anziani soffre di una doppia svalutazione culturale e so­
ciale. Come ogni lavoro riproduttivo non è riconosciuta come lavoro,
ma a differenza della riproduzione della forza lavoro il cui prodotto
3 Come sottolineano Kelly Joyce e Laura Marno in Graying thè Cyborgs (in Toni M. Cala­
santi e Kathleen F. Slevin (a cura di), Age Matters. Realigning Feminist Thinking, Rout-
ledge, New York 2007), è stata messa in atto una vasta campagna, trainata dalla ricerca
del profitto e da un pregiudizio ideologico a favore della gioventù, rivolta agli anziani in
quanto “consumatori”, che promette di “rigenerare” i loro corpi e ritardarne l’invecchia-
mento mediante l’uso di appropriati prodotti e tecnologie farmaceutiche. La vecchiaia
è diventata così quasi peccato, una situazione difficile di cui siamo responsabili se non
approfittiamo degli ultimi prodotti per il ringiovanimento.
132 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
ha un valore riconosciuto, si presume che assorba valore ma non ne
produca. Così, i fondi destinati all’assistenza agli anziani sono stati
tradizionalmente erogati con una avarizia che ricorda le Poor Laws
del xix secolo. E la cura dell’anziano non più autosufficiente è lasciata
alle famiglie e ai parenti, con poco supporto esterno, in base all’assun­
to che le donne dovrebbero naturalmente assumersi questo compito
come parte del lavoro domestico.
E occorsa una lunga lotta per costringere il capitale a riprodurre
non solo forza lavoro “in uso” ma Tintero ciclo di vita della classe
operaia, fornendo assistenza anche a coloro che non fanno più parte
del mercato del lavoro. Tuttavia, neanche lo stato keynesiano è stato
all’altezza di questo obiettivo. Lo testimonia la legislazione sulla sicu­
rezza sociale del New Deal, emanata negli Stati uniti nel 1940, che è
considerata “una delle conquiste del nostro secolo”, ma risponde solo
in parte ai problemi degli anziani, in quanto lega l’assicurazione socia­
le agli anni di lavoro salariato e fornisce altrimenti assistenza solo agli
anziani che si trovano in uno stato di assoluta povertà4.
Il trionfo del neoliberismo ha peggiorato la situazione. In alcuni
paesi dell’ocSE, negli anni Novanta, sono stati compiuti dei passi avanti
per incrementare il finanziamento delle cure a domicilio e fornire con­
sulenze e servizi a chi presta la cura5. In Inghilterra il governo ha dato
ai familiari che si prendono cura di un anziano il diritto di richiedere
orari di lavoro flessibili, in modo da poter “conciliare” lavoro salariato
e lavoro di cura6. Ma lo smantellamento dello “stato sociale” e l’insi­
stenza neoliberale che la riproduzione è responsabilità personale dei
lavoratori, hanno innescato una controtendenza che sta guadagnando
terreno e che sarà senza dubbio accelerata dall’attuale crisi economica.
I tagli alla spesa sociale per gli anziani sono stati particolarmente
pesanti negli Stati uniti, tanto che spesso i lavoratori si impoveriscono
prestando assistenza a un genitore invalido. A creare particolari disagi
4 Dora L. Costa, The Evolution ofRetirement: An American Economie History, 1880-1990,
The University of Chicago Press, Chicago 1998, p. 1.
5 Health Project, Long-Term Care for Older People, OECD Publications, Paris 2005; Lourdes
Beneria, The Crisis of Care, International Migration, and Public Policy, in “Feminist Eco-
nomics”, 14, 3, luglio 2008, pp. 2-3,5.
6 In Inghilterra e in Galles, dove si calcola che 5,2 milioni di persone forniscono assistenza
informale, a partire dall’aprile 2007, chi fa lavoro di cura ha diritto di richiedere orari di
lavoro flessibili. In Scozia, il Community Care and l’Health Act del 2002 “ha introdotto
l’assistenza gratuita agli anziani”, e ridefinito chi fa lavoro di cura come “cooperatori a cui
si danno risorse invece che consumatori... obbligati a pagare per i servizi” (Fiona Carmi-
chael et al, in “Feminist Economics”, 14, 2, aprile 2008, p. 7).
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 133
è stato il trasferimento nella casa di molte cure ospedaliere. Motiva­
ta da preoccupazioni puramente finanziarie, questa tendenza è stata
realizzata senza tener conto delle strutture necessarie per sostituire i
servizi forniti dagli ospedali. Come osserva Nona Glazer, tale provve­
dimento non ha solo aumentato la quantità di lavoro di cura a carico
dei membri della famiglia e soprattutto delle donne7, ma ha anche
trasferito in casa operazioni “pericolose” e “potenzialmente mortali”
che in passato sarebbero state effettuate da infermieri professionisti
negli ospedali8. Allo stesso tempo, quanti prestano servizio pubblico
di assistenza agli anziani nelle loro case hanno visto raddoppiare il
loro carico di lavoro, mentre il tempo delle visite domiciliari è stato
ridotto9, per cui hanno dovuto a loro volta ridurre il lavoro di “ma­
nutenzione della casa e cura del corpo”101. Anche le case per anziani
finanziate con fondi pubblici sono state “taylorizzate”, ricorrendo allo
studio dei “tempi di lavoro per decidere a quanti pazienti ogni lavora­
tore può prestare servizio”11.
La “globalizzazione dell’assistenza”, negli anni Ottanta e Novanta,
non ha posto rimedio a questa situazione. La nuova divisione inter­
nazionale del lavoro riproduttivo, che il processo di globalizzazione
ha prodotto, ha scaricato un grossa quota di lavoro di cura sulle spal­
le di donne immigrate. Di questo si sono avvantaggiati i governi che
hanno potuto risparmiare miliardi di dollari che altrimenti avrebbero
7 Nona Glazer, Women’s Paid and Unpaid Labor: Work Transfer in Health Care and Retati,
Tempie University Press, Philadelphia 1993. Secondo quanto rilevato da diverse indagini,
negli Stati uniti, una conseguenza di questi tagli è stato l’aumento esponenziale nel nu­
mero di familiari - una cifra compresa tra i venti e i cinquanta milioni - che forniscono il
lavoro di cura tradizionalmente svolto da infermieri e assistenti sociali. I familiari svolgono
circa l’80 per cento della cura di cui hanno bisogno parenti malati o disabili, una cifra de­
stinata ad aumentare a seguito dell’invecchiamento della popolazione e della capacità del­
la medicina moderna di prolungare la vita. Secondo un rapporto del Archives of Internai
Medicine del gennaio 2007, con la sempre crescente scelta da parte dei malati terminali di
rimanere a casa fino alla fine dei loro giorni, familiari o amici, nel corso della vita, fanno
lavoro di cura informale per quasi tre quarti degli adulti malati o degli anziani disabili che
vivono nella comunità (Jane E. Brody, When Families Take Care ofTheir Own, in “New
York Times”, 11 novembre 2008).
8 Questo “trasferimento” - scrive Glazer - ha trasformato la casa in una clinica, dove si fa la
dialisi in camera da letto, e le casalinghe e chi le aiuta devono imparare a inserire cateteri
e a medicare ferite, mentre si fabbricano nuove attrezzature mediche per uso domestico
(Glazer, Womens Paid and Unpaid Labor, cit., p. 154).
9 Ivi, pp. 166-167,173-174.
10 Eileen Boris and Jennifer Klein, We Were thè Invisible Workforce: Unionizing Home Care,
in Dorothy Sue Cobble (a cura di), The Sex of Class: Women Transforming American La­
bor, Cornell University Press, Ithaca 2007, p. 180.
11 Glazer, Women’s Paid and Unpaid Labor, cit., p. 174.
134 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

dovuto spendere per provvedere ai servizi per gli anziani. Ciò ha an­
che permesso a molti anziani, che volevano mantenere la propria indi-
pendenza, di rimanere nelle proprie case senza andare in bancarotta.
Ma finché non cambiano le condizioni economiche e sociali di chi fa
lavoro di cura per gli anziani e le ragioni che ne motivano la “scelta”,
questa non può essere considerata una “soluzione”.
E l’impoverimento causato dalla “liberalizzazione economica” e
dall’"aggiustamento strutturale” nei loro paesi di origine che spinge
milioni di donne in Africa, Asia, nelle isole dei Caraibi e nell’Europa
dell’Est a migrare verso le regioni più ricche d’Europa, il Medio Orien-
' te e gli Stati uniti, per lavorare come bambinaie, domestiche e badanti.
Per fare questo devono lasciare le loro famiglie, compresi bambini e
genitori anziani, e reclutare parenti o assumere altre donne con an­
cora minor potere per sostituire il lavoro che non possono più fare12.
Prendendo l’Italia come esempio, si calcola che tre badanti su quattro
hanno figli propri ma solo il 15 per cento ha con sé il proprio nucleo
familiare13. Ciò vuol dire che la maggior parte di loro vivono in un
continuo stato d’ansia, sapendo che alle proprie famiglie manca quella
cura che loro stesse danno ad altre persone in tutto il mondo. Arlie
Hochschild ha parlato, in questo senso, di un trasferimento di cura ed
emozioni su scala globale, e della formazione di “catene globali della
cura”14. Ma le catene spesso si rompono: le donne immigrate diventa­
no delle estranee per i propri figli, gli accordi stipulati cadono in pezzi,
i parenti muoiono durante la loro assenza. Inoltre, sia perché il lavoro
riproduttivo è svalutato, sia perché sono migranti, spesso senza docu­
menti e di colore, le donne che fanno lavoro di cura sono soggette una
grande quantità di ricatti e abusi: lunghe ore di lavoro, nessuna vacan­
za pagata, niente pensione, e in più l’esposizione a comportamenti raz­
zisti e aggressioni sessuali. Negli Stati uniti la retribuzione del lavoro di
cura domestico è così bassa che quasi la metà delle donne impegnate
nel settore deve ricorrere ai buoni pasto ed altre forme di assisten­
za pubblica per sbarcare il lunario15. Per questo, come ha dichiarato
12 Jean L. Pyle, Transnational Migration and Gendered Care Work: Introduction, in “Globa-
lizations”, 3, 3, 2006, p. 289; Arlie Hochschild and Barbara Ehrenreich, Donne globali.
Tate, colf, badanti, Feltrinelli, Milano 2004.
13 Dario Di Vico, Le badanti, il nuovo welfare privato. Aiutano gli anziani e lo Stato risparmia,
in “Corriere della Sera”, 13 giugno 2004, p. 15.
14 Arlie Hochschild, Global Care Chains and Emotional Surplus Value, in Will Hutton and
Anthony Giddens (a cura di), On thè Edge: Living with Global Capitalism, The New
Press, New York 2000, p. 131. Si veda anche Hochschild e Ehrenreich, Donne globali, cit.
15 “New York Times”, 28 gennaio 2009.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 135

Domestic Workers United - la principale organizzazione di lavoratrici


domestiche nello stato di New York, che ha lottato per l’approvazione
di una legge che riconosca i diritti delle lavoratrici domestiche - chi
lavora nel settore della cura, vive e lavora “all’ombra deña schiavitù”16.
E anche importante sottolineare che la maggior parte deUe per­
sone anziane e le loro famiglie non possono permettersi di assumere
persone che fanno lavoro di cura o pagare per i servizi di cui avreb­
bero bisogno. Questo è particolarmente vero per gli anziani con in­
validità che necessitano di cure durante l’intero arco deUa giornata.
Secondo le statistiche del Cnel, nel 2003, in Italia, solo ü 2,8 per cento
di anziani ha ricevuto assistenza in casa da parte di non famñiari; in
Francia tale cifra è pari al doppio e in Germania al triplo17. Ma il
numero rimane basso. Un gran numero di anziani vivono da soli, do­
vendo affrontare disagi che sono tanto più devastanti quanto più sono
invisibili. NeUa “estate calda” del 2003 , migliaia di anziani sono morti
in tutta Europa per disidratazione, mancanza di cibo e di medicine o
semplicemente per ñ caldo insopportabüe. A Parigi ci sono stati così
tanti morti che le autorità hanno dovuto ammassare i loro corpi in
spazi pubblici refrigerati finché le loro famiglie non ne hanno richie­
sto la restituzione.
Quando sono i familiari a prendersi cura degli anziani, il lavoro
ricade soprattutto sulle spalle delle donne18 che per mesi o anni vi­
vono, a volte, suH’orlo dell’esaurimento nervoso e fisico, consumate
dal lavoro e dalla responsabilità di dover fornire una cura e spesso
svolgere mansioni per le quali non sono preparate. Molte hanno un
lavoro fuori casa, che devono abbandare se ñ lavoro di cura aumenta.
Particolarmente sotto stress è la cosiddetta “generazione sandwich”
che deve simultaneamente occuparsi deña crescita dei figli e prendersi
cura dei propri genitori19. La crisi del lavoro di cura ha raggiunto un
punto tale che negli Stati uniti, ñeñe famiglie monoparentali a basso
reddito, adolescenti e bambini, alcuni con non più di undici anni, si
prendono cura degli anziani, anche somministrando medicine e prati-
16 II Bill of Rights, al centro della campagna di Domestic Workers United, è stato approvato
nel 2010 nello stato di New York, che è diventato il primo stato che riconosce il lavoro di
cura come lavoro, e garantisce pertanto a chi lo svolge gli stessi diritti di cui godono altre
categorie di lavoratori.
17 Di Vico, Le badanti, cit.
18 Anche se, secondo il “New York Times”, sarebbe in costante aumento negli Stati uniti il
numero di uomini che si occupano di genitori anziani.
19 Martin Beckford, ‘Sandwich Generation’ Families Tom between Demandi ofChildren and
Parenti, in “Telegraph”, 1 aprile, 2009.
136 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
cando iniezioni. Come riportava il “New York Times”, nel 2005 uno
studio condotto a livello nazionale ha rivelato che “nel 3 per cento
delle famiglie con bambini tra gli otto e i diciotto anni, ci sono bambi­
ni che fanno lavoro di cura”20.
L’alternativa, per coloro che non possono permettersi una qualche
forma di “assistenza”, sono le Case di cura 0nursing homes) finanziate
con fondi pubblici, che, però, sono più simili a prigioni che a ricoveri
per gli anziani. In genere, a causa della mancanza di personale e di
fondi, queste strutture forniscono cure minimali. Nella migliore delle
ipotesi, lasciano gli anziani a letto per ore senza nessuno che li aiuti
■ a cambiare posizione, gli sistemi i cuscini, gli massaggi le gambe, gli
curi le piaghe da decubito, o semplicemente parli con loro; tutte cose
essenziali perché gli anziani possano mantener il senso della propria
identità e dignità e sentirsi ancora vivi e preziosi. Nella peggiore delle
ipotesi, le Case di cura sono luoghi in cui gli anziani vengono drogati,
legati ai loro letti, lasciati a giacere nei loro escrementi e sottoposti a
ogni tipo di abuso fisico e psicologico. Molte informazioni in questo
senso sono emerse da una serie di relazioni, tra cui una pubblicata
dal governo degli Stati uniti nel 2008, che parlano di storie di abuso,
negligenza e violazione delle norme di sicurezza e di salute nel 94 per
cento delle Case di cura21. In altri paesi la situazione non è più inco­
raggiante. In Italia, le segnalazioni di abusi perpetrati a danno di an­
ziani disabili o malati cronici nelle Case di cura sono molto frequenti,
così come sono frequenti le richieste di assistenza medica negate22.

Lassistenza agli anziani, i sindacati e la sinistra


I problemi che ho descritto sono così comuni e pressanti da far
pensare che l’assistenza agli anziani dovrebbe essere un tema centrale
20 Pam Belluck, In Turnabout, Children Take Caregiver Role, in “New York Times”, 22
febbraio 2009. Altri paesi in cui i bambini fanno lavoro di cura sono la Gran Bretagna
e l’Australia, che spesso riconosce ai bambini il diritto di partecipare alle “discussioni
sull’assistenza al paziente” e chiedere compensi per il lavoro svolto.
21 “New York Times”, 30 agosto 2008.
22 Si veda sul tema: Francesco Santanera, Violenze e abusi dovuti anche alla mancata applica­
zione delle Leggi, in “Prospettive Assistenziali”, 169 (gennaio-marzo 2010). “Prospettive
Assistenziali” è una rivista dedicata alla lotta contro l’esclusione sociale, in particolare dei
disabili e delle persone anziane. L’articolo di Santanera può anche essere letto on-line
(www.superando.it/content/voew/5754/121). Secondo i controlli governativi realizzati nel
2010, un terzo degli istituti per anziani viola le norme giuridiche (www.ansa.it/notizie/
rubriche/cronaca/2010/02/26/visualizza_new).
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 137

nei programmi dei sindacati e dei movimenti per la giustizia sociale, a


livello internazionale. Ma non è così. Quando non lavorano nelle isti­
tuzioni, coloro che prestano assistenza agli anziani sono ignorati dai
sindacati, anche dai più combattivi come il Congress of South Africa
Trade Unions ( c o s a t u )23.
I sindacati negoziano salari, pensioni, e l’assistenza sanitaria. Ma
nei loro programmi non si occupano dei sistemi di supporto per le
persone anziane e di quelli che li curano nell’ambito della famiglia,
che siano retribuiti o meno per il lavoro che svolgono. Negli Stati
uniti, fino a qualche tempo fa, i sindacati non provavano nemmeno
a organizzare chi prestava assistenza a pagamento a individui o a fa­
miglie, e tanto meno chi lavorava gratuitamente in casa. Fino ad oggi,
il lavoro di cura, fuori dalle istituzioni, è stato anche escluso dal Fair
Labor Standards Act, un provvedimento del New Deal che garantisce
“il diritto al salario minimo, alla retribuzione degli straordinari, alla
contrattazione e altre protezioni riguardo al posto di lavoro”24. Come
già accennato, tra i cinquanta stati dell’unione, solo quello di New
York ha finora riconosciuto che il lavoro di cura è lavoro, e questo
dopo che nel novembre 2010 è stato approvato un disegno di legge
per il quale Domestic Workers United aveva a lungo combattuto. Gli
Stati uniti non sono un caso isolato. Secondo un sondaggio dell’In-
ternational Labour Organization, nel 2004, “i tassi di sindacalizzazio-
ne cross-nazionali nel settore dei servizi domestici sono pari appena
all’1 per cento”25. Anche le pensioni sono previste solo per coloro che
hanno avuto un lavoro salariato e certamente non per chi fa lavoro
di cura non retribuito in famiglia. Poiché il lavoro riproduttivo non è
riconosciuto come lavoro e le pensioni sono calcolate sulla base degli
anni trascorsi nel mondo del lavoro salariato, le donne che sono state
casalinghe a tempo pieno possono avere la pensione solo attraverso
un marito che ha avuto un lavoro salariato e, in caso di divorzio non
hanno accesso ai programmi di sicurezza sociale.
Queste iniquità non sono state contestate né dai sindacati, né dai
movimenti sociali, né dalla sinistra marxista che, con poche eccezio­
ni, sembra aver cancellato gli anziani dai suoi programmi di lotta, a
giudicare dall’assenza di qualsiasi riferimento alla cura degli anziani
23 Shireen AJly, Carìng about Care Workers: Organizing in thè Female Shadow ofGlobaliza-
tion, in Center for Global Justice, San Miguel De Allende (Mexico): International Confe-
rence on Women and Globalization, 27 luglio-3agosto, 2005.
24 Boris e Klein, We Were thè Invisible Workforce, cit., p. 182.
25 Ally, Caring about Care Workers, cit., p. 1.
138 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

nell’analisi marxista contemporanea. La responsabilità di questo stato


di cose può essere in parte ricondotta a Marx. La cura dell’anziano
non è un tema che troviamo nelle sue opere, anche se la questione del­
la vecchiaia era stata al centro dell’agenda politica rivoluzionaria fin
dal xvni secolo e, ai tempi di Marx abbondavano, le società di mutuo
soccorso e le comunità ispirate da visioni utopiche dei rapporti sociali
(fourieriste, oweniste, icariane )26.
Marx era interessato a comprendere i meccanismi della produ­
zione capitalistica e i molteplici modi in cui la lotta di classe poteva
incepparli. La sicurezza nella vecchiaia e l’assistenza agli anziani non
' rientravano in quest’ottica. La vecchiaia era una rarità tra gli operai e
i minatori del suo tempo e, se possiamo fidarci dei rapporti dei con­
temporanei di Marx, l’aspettativa di vita media di questi lavoratori,
nelle aree industriali come Manchester e Liverpool, non superava i
trenta anni27.
Soprattutto, Marx non riconosceva la centralità del lavoro ripro­
duttivo, né per l’accumulazione di capitale, né per la costruzione della
nuova società comunista. E, sebbene sia lui che Engels descrivessero
le condizioni spaventose in cui viveva e lavorava la classe operaia in
Inghilterra, Marx finisce quasi per naturalizzare il processo di ripro­
duzione, senza mai chiedersi come il lavoro riproduttivo possa essere
riorganizzato in una società postcapitalista o nel corso stesso della lot-
26 Robin Blackburn, Banking on Deatb or Investing in Life: The History and Future o f thè
Tensions, Verso, London, 2002, pp. 39-41. Come sottolinea Robin Blackburn, le prime
proposte per il pagamento delle pensioni alle persone anziane sono apparse con la Rivolu­
zione francese. Tom Paine ne discuteva nella seconda parte de I diritti dell’Uomo (1792),
e il suo amico Condorcet le mise in pratica elaborando un piano che interessava tutti i
cittadini. Sulle orme di queste proposte, “La Convention Nationale dichiarava che il 10
Fruttidoro dovesse essere la data della Fête de la Veillesse e che si dovessero prevedere
case per gli anziani in ogni dipartimento. Nel giugno del 1794, pochi mesi dopo l’abolizio­
ne della schiavitù, la Convenzione adottò il principio della pensione civile per gli anziani”
(Blackburn, Banking on Death, cit. pp. 40-41). Attempo di Marx, forme di assistenza per
malattia, vecchiaia, morte o disoccupazione erano forniti dalle “società di mutuo soccor­
so”, associazioni di lavoratori, organizzate in base ai mestieri, che John Foster ha descritto
come “l’unica istituzione sociale che si è occupata dalla vita di una buona parte degli
adulti che lavoravano” (John Foster, Class Struggle and thè Industriai Revolution, Wei-
denfeld & Nicolson, London 1974, p. 216). Inoltre, benché il socialismo utopico avesse
raggiunto il suo apice nella prima parte del XIX secolo, ancora nel 1860 continuavano, spe­
cialmente negli Stati uniti, gli esperimenti comunitari intesi a proteggere gli aderenti dalla
povertà, dalla mancanza di aiuti, e dalla vecchiaia. Un giornalista contemporaneo, Charles
Nordhoff, contava almeno settantadue gruppi organizzati secondo principi cooperativi/
comunisti.
27 Wally Seccombe, Weathering thè Storm: Working-Class Families from thè Industriai Revo­
lution to thè Fertility Decline, Verso, London 1993 & 1995, pp. 75-77.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 139

ta. Marx, ad esempio, discute della “cooperazione” solo nel processo


di produzione delle merci, mentre ignora le forme, qualitativamente
diverse, di cooperazione proletaria che si costruiscono nel processo
di riproduzione, che Kropotkin in seguito avrebbe chiamato “mutuo
appoggio”28.
La cooperazione tra i lavoratori è per Marx una caratteristica fon­
damentale dell’organizzazione capitalistica del lavoro, “è un sempli­
ce effetto del capitale” che emerge solo quando i lavoratori “hanno
già cessato di appartenere a se stessi” ed è puramente funzionale alla
crescita dell’efficienza e della produttività del lavoro29. Così intesa, la
cooperazione non lascia spazio alle molteplici espressioni di solidarie­
tà e alle tante “istituzioni di mutuo appoggio”, “associazioni, società,
fraternite, alleanze” che Kropotkin aveva trovato tra la popolazione
industriale del suo tempo30. Come ha osservato Kropotkin, queste
forme di aiuto reciproco costituiscono un limite al potere che capi­
tale e stato esercitano sulla vita dei lavoratori, poiché permettono a
numerosissimi proletari di non cadere in rovina, e gettano i semi di
un sistema di assicurazione autogestita che è garanzia di protezione
contro disoccupazione, malattia, vecchiaia e morte31.
Quali siano i limiti della prospettiva marxiana lo deduciamo dal
“Frammento sulle macchine” nei Grundrisse (1857-1858), che pro­
spetta un mondo in cui le macchine fanno tutto il lavoro e gli esseri
umani le controllano, operando solo come supervisori. Questa imma­
gine ignora infatti che, anche nei paesi a capitalismo avanzato, gran
parte del lavoro socialmente necessario consiste in attività riprodutti­
ve che sono irriducibili alla meccanizzazione.
Solo in minima parte i bisogni e i desideri degli anziani possono
essere soddisfatti incorporando tecnologie nel lavoro che li riprodu­
ce. L’automazione dell’assistenza agli anziani è un percorso già ben
tracciato. Come ha dimostrato Nancy Folbre (la maggiore economi­
sta femminista e studiosa dei sistemi di assistenza agli anziani negli
Stati uniti), nell’industria giapponese, il tentativo di tecnologizzare il
lavoro di cura è abbastanza avanzato, come lo é anche la produzione
di robot interattivi. Sul mercato sono già disponibili, benché a costi
28 Per il concetto di “mutuo appoggio” di Peter Kropotkin si vedano in particolare gli ultimi
due capitoli del lavoro omonimo, II mutuo appoggio fattore dell’evoluzione (1902) , trad. it.
Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna 1950.
29 Karl Marx, Il Capitale, Libro Primo, cit. pp. 405 e 407.
30 Kropotkin, Il mutuo appoggio, cit. pp. 374 e 399.
31 Ivi, p. 413.
140 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
proibitivi, infermieri-robot che lavano le persone o “camminano [con
loro] per fare esercizio” e “robot “da compagnia” (cani o orsacchiotti
robotici)32. Sappiamo anche che televisori e personal computer sono
diventati badanti surrogate per molti anziani. E non c’è dubbio che le
sedie a rotelle comandate elettronicamente migliorano la mobilità di
chi è in grado di padroneggiare i loro comandi.
Questi sviluppi scientifici e tecnologici possono offrire grandi van-
taggi alle persone anziane che possono permetterseli economicamen-
" te. La circolazione del sapere che forniscono mette certamente a loro
disposizione una grande ricchezza. Ma questo non può sostituire il
'lavoro di cura, soprattutto nel caso di anziani che vivono da soli o
che soffrono di malattie e invalidità. Come sottolinea Folbre, i part­
ner robot possono anche aumentare la solitudine e l’isolamento delle
persone33. Né l’automazione può far superare le difficoltà - paure,
ansie, perdita di identità e senso della propria dignità - che le persone
sperimentano quando invecchiano e diventano dipendenti dagli altri
anche per la soddisfazione dei bisogni più elementari.
Ciò che è necessario per provvedere alla cura degli anziani non
è l’innovazione tecnologica, ma la determinazione di nuovi rapporti
sociali, tali per cui la nostra vita cessi di essere comandata dalla lo­
gica del profitto e la riproduzione diventi un processo collettivo. A
questo cambiamento però il marxismo non potrà contribuire se non
mediante un ripensamento della questione del lavoro, in linea con
le teorie proposte da varie femministe all’inizio degli anni Settanta
riguardo alla funzione del lavoro domestico e l’origine della discrimi­
nazione di genere. Le femministe hanno respinto la centralità che il
marxismo ha storicamente assegnato al lavoro industriale salariato e
alla produzione di merci, intesi quali siti cruciali per la trasformazio­
ne sociale, e hanno criticato lo scarso interesse nella teoria marxista
per la riproduzione degli esseri umani e della forza lavoro. Il movi­
mento femminista ha insegnato inoltre che non solo la riproduzione
è il pilastro della “fabbrica sociale”, ma cambiare le condizioni della
nostra riproduzione è essenziale per poter creare movimenti capaci
di auto-riprodursi34, perché ignorare che il “personale” è “politico”
mina notevolmente la forza della nostra lotta.
32 Folbre, Nursebots to thè Resene?, cit., p. 356.
33 Ibidem.
34 II concetto di “movimenti capaci di auto-riprodursi” è diventato un grido di battaglia per
un certo numero di collettivi statunitensi, che rifiutano la separazione - tipica della politi­
ca di sinistra - tra il lavoro politico e la riproduzione quotidiana della vita. Per un appro-
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 141
Su questo, i marxisti contemporanei non sono più avanti di Marx.
La teoria del lavoro “affettivo” e “immateriale” del cosiddetto “mar­
xismo autonomo”35, è un esempio di come la ricca problematica del
lavoro riproduttivo nel capitalismo, evidenziata dall’analisi femmini­
sta, venga sistematicamente elusa. Secondo tale teoria, nell’attuale fase
dello sviluppo capitalistico, in cui il lavoro diventa “immateriale” - e
cioè produzione di stati d’essere, di “affetti” invece che di oggetti fi­
sici - la distinzione tra produzione e riproduzione si perde36. In que­
sta prospettiva, il “lavoro affettivo” diventa una componente di ogni
forma di lavoro, piuttosto che una forma specifica di (ri)produzione.
Gli esempi forniti riguardo al tipico “lavoratore affettivo” sono le la­
voratrici dei fast-food, che devono rigirare gli hamburger al McDo­
nald sorridendo, o le hostess che devono vendere senso di sicurezza
alle persone che assistono. Ma questi esempi sono ingannevoli, perché
gran parte del lavoro riproduttivo, come dimostra la cura agli anzia­
ni, richiede un impegno completo con le persone da riprodurre, un
rapporto che difficilmente può essere concepito come “immateriale”.
E importante, comunque, riconoscere che anche il concetto di “la­
voro di cura” è in una certa misura riduttivo. Il termine è entrato
nell’uso comune negli anni Ottanta e Novanta in concomitanza con
l’emergere di una nuova divisione del lavoro all’interno del lavoro ri-
produttivo, che distingueva gli aspetti fisici del lavoro da quelli emo­
tivi. Questa distinzione è stata sostenuta dalle lavoratrici domestiche,
che si occupano di bambini o di anziani, con un duplice obiettivo:
precisare (e limitare) le mansioni che i datori di lavoro possono aspet­
tarsi da loro, e stabilire che si tratta di lavoro qualificato. Ma que­
sta distinzione è insostenibile e le stesse lavoratrici sono le prime a
riconoscerlo. Ciò che differenzia la riproduzione degli esseri umani
dalla produzione di merci è il carattere distico di molti dei compiti
da svolgere. Se separiamo gli aspetti “materiali” e “immateriali” del
lavoro di cura, se cioè gli anziani non autosufficienti o i bambini, sono
fondimento si veda la raccolta di articoli pubblicati da Team Colors su In the Middle of a
Whirlwind (\vww.teamcolors.wordpress.com/2008/04/01/will-you-join-us-in-the- middle-
of-a-whirlwind) e il testo di Craig Hughes e Kevin Van Meter in “Rolling Thunder”, The
Importance of Support. Building Foundations, Creating Community Sustaining Movements.
35 Mi riferisco in particolare alla teoria del “lavoro immateriale” di Hardt e Negri nella tri­
logia costituita da Impero (Rizzoli, Milano 2002), Moltitudine (Rizzoli, Milano 2004) e
Comune (Rizzoli, Milano 2010).
36 Per un approfondimento si veda Silvia Federici, On Affective Labor, in Michael A. Peters
and Eergin Blut (a cura di) Cognitive Capitalism, Education and Digital Labor, Peter Lang,
New York 2011.
142 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
imboccati, lavati, pettinati, massaggiati, se vengono loro somministra­
te le medicine senza alcuna considerazione per la loro risposta “affet­
tiva”, entriamo in un mondo di completa alienazione. La teoria del
“lavoro affettivo” ignora questa problematica e la complessità insita
nella riproduzione della vita. Suggerisce, inoltre, che nel capitalismo
“postindustriale” le forme di lavoro sono sempre più omogenee37. Ep­
pure, basta un breve sguardo all’attuale organizzazione dell’assistenza
agli anziani perché questa illusione svanisca.

Donne, invecchiamento e cura agli anziani in una prospettiva


di economia femminista
Come sostiene l’economia femminista, la crisi dell’assistenza agli
anziani, sia dal punto di vista degli anziani che da quello di chi li assi­
ste, è essenzialmente una questione di genere. Gran parte del lavoro di
cura, benché sempre più mercificato, è ancora fatto dalle donne come
lavoro non retribuito e senza alcun diritto a una pensione. Parados­
salmente, quanto più assistenza le donne fanno agli altri, tanto meno
ne possono ricevere a loro volta, perché dedicano meno tempo degli
uomini al lavoro salariato mentre l’assicurazione sociale è calcolata
sugli anni di lavoro salariato svolto. Anche chi fa lavoro di cura retri­
buito, come abbiamo visto, risente dalla svalorizzazione del lavoro ri-
produttivo costituendo una “sottoclasse” che deve ancora lottare per
essere socialmente riconosciuta come classe di lavoratori. In breve, a
causa della svalorizzazione del lavoro riproduttivo, quasi dovunque le
donne devono affrontare la vecchiaia con meno risorse degli uomini,
in termini di sostegno familiare, reddito monetario e beni disponibili.
Negli Stati uniti, dove le pensioni e la sicurezza sociale sono calcolati
in base agli anni di lavoro, le donne sono il maggior gruppo di anziani
poveri e il maggior numero di residenti a basso reddito nelle Case di
cura statali - i lager del nostro tempo - proprio perché spendono gran
parte della loro vita fuori dal lavoro salariato, impegnate in attività
non riconosciute come lavoro.
Scienza e tecnologia non possono risolvere questo problema. Oc­
corre invece un cambiamento nella divisione sociale/sessuale del la­
voro e, soprattutto, il riconoscimento del lavoro riproduttivo come
lavoro, cosa che autorizzerebbe la remunerazione di coloro che lo
37 Negri e Hardt, Multitudine, cit., pp. 135-140.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 143

svolgono, in modo che in una famiglia nessuno sia penalizzato38. Il ri­


conoscimento e la valorizzazione del lavoro riproduttivo è fondamen­
tale anche per superare le divisioni che esistono nel lavora di cura,
che contrappongono da un lato i familiari che cercano di ridurre al
minimo le spese e, dall’altro, chi è assunto per fare questo lavoro, che
vive le conseguenze demoralizzanti di lavorare al limite della povertà
e della svalutazione.
L’economia femminista che si occupa di questo tema ha articolato
possibili alternative ai sistemi attuali. In Warm Hands in Colà Age,
Nancy Folbre, Lois B. Shaw e Agneta Stark discutono le riforme ne­
cessarie per dare sicurezza alla popolazione, e soprattutto alle donne
anziane, in una prospettiva internazionale che valuta come ogni paese
è posizionato a questo riguardo39. In testa hanno posto i paesi scandi­
navi che forniscono sistemi quasi universali di assicurazione. In fon­
do ci sono gli Stati uniti e l’Inghilterra, dove l’assistenza agli anziani
è legata alla loro storia lavorativa. Ma in entrambi i casi le politiche
istituzionali riflettono una ineguale divisione sessuale del lavoro e ri­
specchiano aspettative tradizionali riguardo al ruolo delle donne nella
famiglia e nella società. Questa dunque è un’area cruciale in cui deve
avvenire un cambiamento.
Folbre propone una redistribuzione della spesa pubblica, che con­
geli l’investimento nel complesso militare-industriale e in altre impre­
se distruttive, e l’indirizzi invece verso la cura delle persone in età
avanzata. Ammette che questo può sembrare non “realistico,” perché
è come pretendere una rivoluzione. Ma insiste che questa rivendica­
zione entri nella “nostra agenda”, perché c’è in gioco il futuro di ogni
lavoratore; inoltre una società cieca dell’enorme sofferenza a cui mol­
te persone sono soggette quando invecchiano - come avviene oggi
negli Stati uniti - è una società destinata all’autodistruzione.
Non vi è alcun segno, tuttavia, che tale cecità possa essere superata
in breve tempo. Appellandosi alla crisi economica, i politici rivolgono
lo sguardo altrove, cercando di tagliare ovunque possibile la spesa
sociale, e prendendo di mira le pensioni statali e il sistema di sicu­
rezza sociale, comprese le sovvenzioni al lavoro di cura. Si lamenta
la crescita di una popolazione anziana, più energica e più vitale che
38 Sul tema si veda Mariarosa Dalla Costa, Womeri s Autonomy and Remuneration for Ca-
rework in thè New Emergencies, in “The Commoner”, 15, inverno 2012 (www.commoner.
org).
39 Nancy Folbre, Lois B. Shaw, Agneta Stark (a cura di), Warm Hands in Cold Age: Gender
andAging, Roudedge, New York 2007, p. 164.
144 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

insisterebbe caparbiamente a vivere, portando così alla bancarotta


il sistema pensionistico finanziato dallo stato. E forse per timore dei
milioni di americani determinati a vivere oltre gli ottanta, che Alan
Greenspan, il capo della Federai Reserve negli anni Novanta disse di
essersi spaventato quando si rese conto che l’amministrazione Clin­
ton aveva accumulato un surplus finanziario!40. Comunque, già prima
della crisi, i politici avevano da anni orchestrato una guerra genera­
zionale, denunciando incessantemente che la crescita della popola­
zione sopra i sessantacinque anni avrebbe mandato in bancarotta il
sistema di sicurezza sociale, lasciando una pesante ipoteca sulle spalle
- delle generazioni più giovani. Oggi, mentre la crisi si approfondisce,
l’assalto all’assistenza e alla cura degli anziani è destinato ad aumen­
tare, sia sotto forma di un’iperinflazione che decima i redditi fissi, sia
attraverso la parziale privatizzazione dei sistemi di sicurezza sociale e
l’aumento dell’età pensionabile. Quel che è certo è che nessuno sta
contemplando un aumento dei finanziamenti pubblici per la cura agli
anziani41.
E urgente allora che i movimenti per la giustizia sociale, compresi
gli studiosi e gli attivisti radicali, intervengano su questo terreno per
evitare che la crisi sia “risolta” a scapito degli anziani. E per formulare
iniziative che possano unire i diversi soggetti sociali interessati all’as­
sistenza agli anziani - chi fa questo lavoro, le famiglie degli anziani e,
prima di tutto, gli anziani stessi - che oggi spesso vengono posti in un
rapporto antagonistico tra loro. Esempi di una possibile alleanza già
si vedono in alcune lotte in cui infermieri e pazienti, le “badanti” e le
famiglie dei loro assistiti, sempre più spesso collaborano, consapevoli
del fatto che quando i rapporti di riproduzione diventano antagonisti­
ci a pagarne il prezzo è sia chi riproduce sia chi è riprodotto.
Nel frattempo, si “mette in comune” il lavoro riproduttivo/di cura.
In alcune città italiane stanno emergendo forme comuni di vita basate
su “contratti di solidarietà”, promosse da anziani che non potendo
contare sulle proprie famiglie o non potendo assumere qualcuno che
li assista, mettono insieme le proprie forze e risorse, per evitare di do­
ver finire in qualche ospizio. Negli Stati uniti, nuove generazioni di at­
tivisti politici stanno costituendo “comunità di cura” (communities of
care) che mirano a socializzare l’esperienza della malattia, del dolore,
40 Alan Greenspan, The Age ofTurbulence: Adventures in a New World, Penguin Press, New
York 2007, p. 217.
41 Elizabeth A. Watson and Jane Mears, Women, Work and Care of thè Elderly, Ashgate,
Burlington (VT) 1999, p. 193.
IL LAVORO DI CURA AGLI ANZIANI E I LIMITI DEL MARXISMO 145
del lutto e il “lavoro di cura” richiesto. Nello stesso tempo vogliono
ridefinire che cosa significa essere malato, essere anziano, morire42.
Questi sforzi vanno moltiplicati. Sono essenziali per la riorganizzazio­
ne della nostra vita quotidiana e per creare relazioni sociali non basa­
te sullo sfruttamento. I semi del nuovo mondo non saranno piantati
“online”, ma nella cooperazione che riusciamo a sviluppare tra di noi,
a partire da chi deve affrontare il momento più vulnerabile della pro­
pria esistenza senza le risorse e l’aiuto di cui ha bisogno: una forma di
tortura nascosta ma senza dubbio diffusa nella nostra società. '

42 Le “comunità di cura” sono un progetto portato avanti, su entrambe le coste degli Stati
uniti, da alcuni collettivi anarchici ispirati dal do it yourself (la pratica del fare da se), come
presupposto per la costruzione di movimenti capaci di “auto-riprodursi”. Un modello è
il lavoro di solidarietà organizzato da Act Up, in risposta alla diffusione dell’Aids nella
comunità gay degli anni Ottanta, che, di contro a tutte le aspettative, ha contribuito in
modo importante alla crescita di quel movimento. Informazioni sul progetto delle “comu­
nità di cura” si possono trovare su alcuni siti web (come il Collettivo Dicentra di Portland
in Oregon), e su una serie di zines sul tema. Si veda The Importarne of Supporti Building
Foundations, Sustaining Community, in “Rolling Thunder: An Anarchist Journal ofDan-
gerous Living”, 6, autunno 2008, pp. 29-39.
Femminismo e politica del comune al tempo
della cosiddetta accumulazione originaria

La nostra prospettiva è quella dei commoners del pianeta: es­


seri umani con corpi, bisogni e desideri, la cui tradizione più
essenziale è la cooperazione nella produzione e conservazio­
ne della vita, e tuttavia sono stati costretti a farlo in condi­
zioni di sofferenza e di isolamento dagli altri, dalla natura
e dalla comune ricchezza che abbiamo creato generazione
dopo generazione.
The Emergency Exit Collettive, The Great Eight Masters
and thè Six Billion Commoners, Bristol, Primo maggio 2008
I modi in cui il lavoro di sussistenza delle donne e il contri­
buto dei commons alla sopravvivenza delle popolazioni locali
sono stati resi invisibili dalla loro idealizzazione sono non
solo simili ma hanno radici comuni [...] In un certo senso,
le donne sono trattate come i commons e i commons sono
trattati come le donne.
Marie Mies e Veronika Bennholdt-Thomsen, Defen-
ding, Reclaiming, Reinventing thè Commons, 1999
La riproduzione precede la produzione sociale. Tocca le
donne, tocca la roccia.
Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, 2008
Introduzione: Perché i commons?
Almeno da quando gli Zapatisti hanno occupato lo zocalo a San
Cristobai, il 31 dicembre del 1993, per protestare contro la legislazio­
ne che eliminava la proprietà comunale della terra in Messico, il con­
cetto di commons ha acquistato popolarità negli ambienti della sinistra
radicale, sia a livello internazionale che negli Stati uniti, diventando
terreno di convergenza per anarchici, marxisti, socialisti, ecologisti ed
eco-femministe1.
Ci sono buone ragioni perché quest’idea, apparentemente arcaica,
sia ora al centro del discorso politico dei movimenti sociali contem-
1 La rivista on-line, pubblicata nel Regno unito, The Commoner, è da oltre dieci anni una
fonte essenziale per la politica dei commons e i suoi fondamenti teorici (www.commoner.
org.uk).
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 147

poranei. Due in particolare vanno citate. Da una parte, c’è il declino


del modello statalista di rivoluzione che per anni ha indebolito gli
sforzi dei movimenti radicali per creare un’alternativa al capitalismo.
Dall’altra, il tentativo neoliberale di subordinare ogni forma di vita e
ogni area del sapere alla logica del mercato ha accentuato la nostra
consapevolezza del pericolo di vivere in un mondo in cui non ci sia
più concesso l’accesso ai mari, agli alberi, agli animali e agli altri es­
seri umani, se non attraverso il denaro. Le nuove enclosures hanno
reso visibile un mondo di beni e rapporti comuni che molti avevàno
creduto estinti o considerato senza valore finché non sono stati minac­
ciati dalla privatizzazione2. Ironicamente, le nuove enclosures hanno
dimostrato non solo che i commons non sono spariti, ma che nuove
forme di cooperazione sociale sono continuamente prodotte, anche in
settori della vita dove in precedenza non esistevano, come, per esem­
pio Internet.
In questo contesto, l’idea dei beni comuni ha offerto un’alternati­
va logica e storica ai concetti di proprietà privata e pubblica, stato e
mercato, liberandoci dall’illusione che siano reciprocamente esclusivi
ed esauriscano le nostre possibilità politiche. L’idea del comune ha
inoltre svolto una funzione ideologica, come concetto prefigurante
quella società basata sulla cooperazione che i movimenti radicali cer­
cano di realizzare. Ciononostante se vogliamo tradurre il principio dei
commons in un progetto politico coerente, è necessario chiarire alcu­
ne ambiguità e differenze che esistono nell’interpretazione di questo
concetto3.
Che cosa si intende per bene comune? Gli esempi abbondano. La
terra, l’acqua, l’aria, i servizi sono beni comuni; abbiamo beni comuni
digitali. Spesso i nostri diritti acquisiti (ad esempio le pensioni erogate
dallo stato) sono descritti come beni comuni e altrettanto lo sono i lin­
guaggi, le biblioteche, gli insegnamenti delle culture del passato. Ma
sono questi commons equivalenti dal punto di vista del loro potenziale
politico? E sono compatibili tra loro? E siamo sicuri che non proietti­
no un’unità ancora da costruire?
2 Un caso emblematico è la lotta che sta avendo luogo in molte comunità del Maine contro
il tentativo, da parte della Nesdè, di appropriarsi delle sorgenti d’acqua per imbottigliarla
con l’etichetta Portland Spring. Il furto compiuto della Nesdè ha reso la popolazione più
consapevole dell’importanza vitale di queste acque e delle loro sergenti, contribuendo a
costituirle come un bene comune (cfr. Food and Water Watch Faci Sheet, giugno 2006).
3 Per un’eccellente rassegna del dibattito sui commons si veda il numero di Dicembre 2009
della rivista di movimento Turbulence. Ideas ForMovement (www.turbulence.org.uk).
148 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
Partendo da tali questioni, in questo saggio considero la politica
dei commons da una prospettiva femminista, dove femminista sta per
un punto di vista forgiato dalla lotta contro la discriminazione sessua­
le e sul terreno della riproduzione, che è il fondamento su cui è co­
struita la società e a partire dal quale ogni modello di organizzazione
sociale deve essere valutato. Questo tipo di intervento è necessario,
a mio avviso, per allargare un dibattito che fin ad ora è rimasto in
predominanza maschile e chiarire a quali condizioni il principio del
comune può diventare la base di un programma anti-capitalista. Due
considerazioni rendono questo compito particolarmente importante.

Global commons, i commons della Banca mondiale


Anzitutto, già dall’inizio degli anni Novanta, la Banca mondiale
e le Nazioni Unite si sono appropriate del linguaggio dei commons
mettendolo al servizio della privatizzazione. Con il pretesto di pro­
teggere la bio-diversità e preservare i global commons, cioè il patrimo­
nio comune dell’umanità, la Banca mondiale ha trasformato le foreste
pluviali in riserve ecologiche, allontanando popolazioni che per secoli
da quelle hanno tratto il proprio sostentamento, e le ha rese acces­
sibili a persone che non ne hanno bisogno, ma possono pagare, per
esempio, attraverso il turismo ecologico4. Da parte loro, le Nazioni
Unite, sempre appellandosi alla necessità di preservare l’eredità co­
mune dell’umanità, hanno modificato le leggi internazionali che rego­
lano l’accesso agli oceani, permettendo ai governi di concentrare l’uso
dell’acqua del mare in poche mani5.
La Banca mondiale e le Nazioni Unite non sono le sole organiz­
zazioni che cercano di adattare l’idea dei commons agli interessi del
mercato. Tra gli economisti e tra chi fa programmazione sociale, oggi
4 Per un utile approfondimento: Ana Isla, Who Pays for thè Kyoto Protocol?, in Ariel Salleh
(a cura di), Eco-Sufficiency and Global Justice. Women Write Politicai Ecology, Macmillan
Paigrave, New York, London 2009. L’autrice descrive come la conservazione della bio­
diversità abbia fornito il pretesto alla Banca mondiale e ad altre agenzie internazionali
per appropriarsi delle foreste pluviali, con la scusa che rappresenterebbero “riserve di
carbone” e “generatori di ossigeno”.
5 La Convenzione delle Nazioni Unite per la Legislazione sugli Oceani, adottata nel N o­
vembre 1994, stabilisce una zona di duecento miglia di distanza dalla costa che viene
definita Zona di Esclusività, in cui i paese possono sfruttare, gestire o proteggere le ri­
sorse, dalla pesca al gas naturale. Essa stabilisce inoltre le norme per l’estrazione in acque
profonde e per l’uso ai fini del profitto.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 149
c’è la tendenza a rivalutare i beni comuni, come testimonia la mole
crescente di letteratura accademica sull’argomento e su temi affini
quali: “capitale sociale”, “economia del dono”, “altruismo”. Lo te­
stimonia anche il conferimento del premio Nobel per l’economia, nel
2009, a una delle maggiori voci in questo campo, la politologa Elinor
Ostrom6.
Gli esponenti politici e coloro che pianificano lo sviluppo hanno
scoperto che, in certe condizioni, il controllo collettivo delle risorse
naturali può essere più efficiente e meno controverso della privatiz­
zazione, e che i commons sono compatibili con la produzione per il
mercato7. Si sono resi conto che portata alle sue estreme conseguenze
la mercificazione di tutti rapporti sociali può avere effetti distruttivi.
Si afferma che il dominio della forma-merce sopra ogni aspetto del
sociale - l’obbiettivo che il neoliberalismo propone e che è il limi­
te ideale dell’ideologia capitalista - è un progetto irrealizzabile e in­
desiderabile anche dal punto di vista della riproduzione del sistema
capitalistico. L’accumulazione capitalistica dipende strutturalmente
dall’appropriazione di immense quantità di mano d’opera e risorse
che devono apparire come esterne al mercato, come nel caso del la­
voro domestico non retribuito fornito dalle donne, di cui i datori di
lavoro si sono avvalsi per la riproduzione della forza lavoro.
Non è un caso, allora, se anche prima del crollo di Wall Street, vari
economisti e sociologi hanno avvertito che l’estensione del mercato a
tutte le sfere della vita è dannoso per il buon funzionamento del mer­
cato stesso, perché persino i mercati - secondo tale ragionamento -
dipendono dall’esistenza di relazioni non monetarie come la sicurezza,
la fiducia e lo scambio di doni8. In breve, il capitale sta apprendendo
le virtù del “bene comune”. Finanche “The London Economist”, l’or­
gano di stampa che da più di centocinquanta anni rappresenta il punto
di vista del libero mercato, si è prudentemente unito al coro. “L’eco­
nomia dei nuovi commons - ha scritto il giornale - è ancore giovane.
E troppo presto per fidarsi delle sue ipotesi. Ma può dimostrarsi utile
6 Ostrom ha concentrato il suo lavoro sulle risorse comuni, enfatizzando il modo in cui
gli esseri umani interagiscono con gli ecosistemi per mantenere serbatoi di produzione
sostenibili a lungo termine (cfr. Ostrom, Elinor, Governing thè Commons: Evolutión of
Institutions for Collective Action. Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1990).
7 Per un approfondimento vedi: Calestous Juma and J.B. Ojwang (a cura di), In Land We
Trust, Zed Books, London 1996. Si tratta di un trattato sull’efficacia dei rapporti di pro­
prietà collettiva nel contesto dello sviluppo capitalista.
8 David Bollier, Sileni Theft: The Private Plunder ofOur Common Wealth, Roudedge, New
York-London 2002, pp. 36-39.
150 EL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

per il trattamento di problemi come la gestione di Internet, della pro­


prietà intellettuale o dell’inquinamento internazionale, cose per cui i
legislatori hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile”. Dobbiamo stare
molto attenti, quindi, a non costruire il discorso sui commons in modo
tale che finisca per rivitalizzare una classe capitalista in profonda crisi,
permettendole, per esempio, di proporsi come custode del pianeta.

Quali Commons?
Una seconda questione è che, mentre le istituzioni internazionali
hanno imparato a far funzionare i commons secondo le regole di mer­
cato, non è ancora chiaro come i commons possano diventare il fonda­
mento di un’economia non capitalista. Dal lavoro di Peter Linebaugh
e soprattutto da The Magna Carta Manifesto9 abbiamo appreso che i
commons sono il filo conduttore che percorre la storia della lotta di
classe fino ai nostri giorni e, in effetti, la lotta per i commons è oggi
dappertutto intorno a noi. Le popolazioni del Maine stanno lottando
per proteggere l’accesso alle proprie riserve di pesca dall’attacco delle
multinazionali; gli abitanti degli Appalachi si stanno organizzando per
salvare le loro montagne minacciate dall’estrazione del carbone; i mo­
vimenti per Yopen source e il free software si oppongono alla mercifica­
zione del sapere e stanno aprendo nuovi spazi per la comunicazione e
la cooperazione. Ci sono inoltre le attività cooperative create da molte
comunità in Nord America descritte da Chris Carlsson in Nowtopia910.
Come Carlsson dimostra, molta creatività viene investita oggi nella cre­
azione di “commons virtuali” e forme di socializzazione che prospera­
no sfuggendo al controllo dell’economia monetaria e di mercato.
Molto importante è stato lo sviluppo degli orti urbani, che si sono
diffusi, negli anni Ottanta e Novanta in tutto il paese, grazie soprat­
tutto all’iniziativa di comunità di migranti dall’Africa, dai Caraibi e
dal Sud degli Stati uniti. La loro importanza non è sovrastimata. Gli
orti urbani hanno aperto la strada a quel processo di “riurbanizza­
zione” che è indispensabile se vogliamo recuperare il controllo sulla
produzione alimentare, rigenerare l’ambiente e provvedere al nostro
sostentamento. Ma gli orti sono molto di più che una fonte di sicurez-

9 Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto. Liberties and Commons for All, University
of California Press, Berkley 2008.
10 Chris Carlsson, Nowtopia, AK Press, Oakland (CA) 2008.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 151
za alimentare. Sono centri di produzione di socialità e saperi, di scam­
bi culturali e intergenerazionali. Come ha scritto Margarita Fernandez
a proposito di New York, i giardini urbani “rafforzano la coesione
della comunità” in quanto luoghi in cui la gente si ritrova non solo per
lavorare la terra ma anche per giocare a carte, celebrare matrimoni o
compleanni. Alcuni orti stabiliscono relazioni con le scuole del quar­
tiere, istruendo i bambini sull’ambiente. Non da ultimo, gli orti sono
“un mezzo per promuovere incontri tra diverse tradizioni culturali”,
nel senso che ortaggi e pratiche agricole africane si mescolano, per
esempio, con quelle provenienti dai Caraibi11.
In ogni caso, l’aspetto più significativo degli orti urbani rimane il
fatto che producono per il consumo del quartiere e non per la vendita
commerciale. Ciò li differenzia da altri tipi di commons “riproduttivi”
che producono per il mercato (come le riserve di pesca lungo la “Co­
sta delle aragoste” nel Maine1112) o sono acquistati sul mercato (come i
“community land trust”13 che salvaguardano gli spazi aperti). Il proble­
ma, tuttavia, è che gli orti urbani sono rimasti un fenomeno popolare
spontaneo e ci sono stati pochi tentativi, da parte dei movimenti politi­
ci negli Stati uniti, per moltiplicare la loro presenza e fare dell’accesso
alla terra un importante terreno di lotta. Più in generale, la sinistra non
si è posta il problema di come unificare i numerosi commons che si
stanno sviluppando, e come questi possano essere complessivamente
pensati quali fondamenta di un nuovo modo di produzione.
Un’eccezione è la teoria proposta da Antonio Negri e Michael
Hardt in Impero (2002), Moltitudine (2004) e Comune (2010), se­
condo cui una società costruita sul principio del “comune” si sta già
sviluppando a partire dal processo di informatizzazione della produ-
11 Sul tema, Margarita Fernandez, Cultivating Community, Food and Empowerment, mano­
scritto inedito, 2003, pp. 23-6. Un importante lavoro sugli orti metropolitani è quello di
Bill Weinberg and Peter Lamborn Wilson (a cura di), Avant Gardening: Ecological Strug­
gle in the City & the World, Autonomedia, Brooklyn (NY) 1999.
12 Tuttavia, i commons dei pescatori del Maine sono al momento minacciati da una nuova
politica di privatizzazione, applicata in nome della conservazione ambientale, ironicamen­
te denominata “pesca condivisa”. Si tratta di un sistema, già diffuso in Canada ed Alaska,
per cui i governi locali fissano dei limiti sulla quantità di pesce da pescare, assegnando
quote individuali in base alla quantità di pesce pescato in passato da ogni peschereccio.
Questo sistema si è rivelato disastroso per i piccoli pescherecci che si trovano presto co­
stretti a vendere la propria parte di pescato al miglior offerente. Le proteste contro questo
sistema stanno aumentando nelle comunità di pescatori del Maine. Si veda Cash Shares or
Share-Croppers?, in “Fishermen’s Voice”, 14, 12, dicembre 2009.
13 Società no-profit che costruiscono alloggi, orti comunitari, edifici civili, spazi commerciali
e altre attività comunitarie a prezzi accessibili.
152 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
zione. Secondo questa teoria, nella misura in cui la produzione di­
venta prevalentemente produzione di sapere organizzato attraverso
Internet, si costituisce una spazio comune che sfugge al problema di
definire regole di inclusione e di esclusione, perché l’uso e l’accesso
moltiplicano le risorse disponibili invece di ridurle. Ciò significhereb­
be la possibilità di una società basata sull’abbondanza, in cui l’unico
problema che le “moltitudini” dovrebbero affrontare sarebbe impedi­
re la “cattura” della ricchezza prodotta da parte del capitale.
Il vantaggio di questa teoria è che non separa la creazione del “co­
mune” dall’organizzazione del lavoro e della produzione, ma la vede
immanente ad essa. Il suo limite è che non si interroga sulle basi ma­
teriali delle tecnologie digitali usate da Internet e trascura il fatto che
i computer dipendono da attività economiche - estrazione mineraria,
produzione di microchip, estrazione di minerali rari - che, per come
sono attualmente organizzate, sono estremamente distruttive sul pia­
no sociale ed ecologico-ambientale14. Inoltre, privilegiando la scienza,
la produzione del sapere e dell’informazione, questa teoria non af­
fronta la questione della riproduzione della vita quotidiana. Questo
vale, comunque, per tutto il discorso sui commom, che si è preoc­
cupato soprattutto delle condizioni formali della loro esistenza, ma
ha fatto meno attenzione alle possibilità che l’esistenza dei commom
crea e alla loro potenziale funzione nella costruzione di forme di ri-
produzione che ci permettano di resistere alla dipendenza dal lavoro
salariato e alla subordinazione ai rapporti capitalistici.

Le donne e i commons
È in questo contesto che una prospettiva femminista sui commom
diventa cruciale. Tale prospettiva nasce dalla consapevolezza che, in
quanto soggetti primari del lavoro riproduttivo, le donne, storicamen­
te e nel presente, dipendono più degli uomini dall’accesso alle risorse
comuni, e per questo sono maggiormente impegnate nella loro difesa.
Come ho scritto in Caliban and thè Witch15, nella prima fase dello svi-
14 Si calcola, per esempio, che solo per produrre un computer siano necessari 33 mila litri
d’acqua e tra le quindici e le diciannove tonnellate di materiali (cfr. Sarai Sarkar, Eco-
Socialism or Eco-Capìtalism? A Critical Analysis of Humanity’s Fundamental Choices, Zed
Books, London 1999, p. 126).
15 Silvia Federici, Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation,
Autonomedia, Brooklyn (NY) 2004.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 153
luppo capitalistico, le donne sono state in prima linea nella lotta contro
le recinzioni delle terre sia in Inghilterra che nel “Nuovo Mondo” e le
più accanite nella difesa delle culture comunitarie che la colonizzazio­
ne europea tentava di distruggere. In Perù, quando i conquistadores
spagnoli hanno preso il controllo dei villaggi, le donne sono fuggite
sulle montagne dove hanno ricreato forme di vita collettiva che sono
sopravvissute fino ai nostri giorni. Non sorprende allora che nel XVI
e XVII secolo sia stato lanciato contro le donne il più violento attacco
nella storia mondiale: la persecuzione delle “streghe”. Anche oggi, di
fronte a un nuovo processo di “accumulazione originaria”, le donne
sono la principale forza sociale che contrasta la completa commercia­
lizzazione della natura. In tutto il mondo le donne sono i soggetti prin­
cipali dell’agricoltura di sussistenza. In Africa le donne producono l’80
per cento del cibo consumato dalla popolazione, nonostante i tentativi
della Banca mondiale e di altre organizzazioni di convincerle a produr­
re per il mercato. Il rifiuto di un modello di sviluppo che le avrebbe la­
sciate senza terra è stato così forte che nelle città, molte donne, si sono
impossessate di pezzi di terra pubblica per piantare mais e manioca. In
questo modo hanno modificato il paesaggio urbano delle città africane,
ponendo fine alla separazione tra città e campagna16. Anche in India le
donne hanno rivitalizzato le foreste in degrado, hanno difeso gli alberi,
facendogli scudo col proprio corpo, cacciando chi voleva tagliarli, e
hanno costruito barricate contro le operazioni minerarie e la costru­
zione di dighe17.
L’altra faccia della lotta delle donne per l’accesso diretto ai mezzi
di riproduzione è stata la creazione in tutto il Terzo Mondo - dalla
Cambogia al Senegai - di associazioni di credito che funzionano come
banche di denaro comune18. Descritte con nomi diversi, le tontines
(così vengono chiamate in alcune parti dell’Africa) sono sistemi di
credito autonomi e auto-organizzati, creati dalle donne, che garanti­
scono liquidità a individui o gruppi che non hanno accesso al sistema
creditizio bancario e funzionano sulla base della fiducia. Sotto que­
sto aspetto, sono completamente diverse dai sistemi di micro-credito
16 Silvia Federici, Women, Land Struggles, and thè Reconstruction ofthe Commons, in “Wor­
king USA: The Journal of Labor and Society”,14, 1, marzo 2011, p. 52.
17 Vandana Shiva, Staying Aline: Women, Ecology and Development, Zed Books, London
1989, pp. 102-17; Ecology and thè Politics ofSurvival: Conflicts Over Naturai Resources in
India, Sage Publications, New Delhi-London 1991, p. 274.
18 Leo Podlashuc, Saving Women: Saving Commons, in Ariel Salleh (a cura di), Eco-Sufficien-
cy and Global Justice: Women Write Politicai Ecology, Macmillan Paigrave, New York-
London 2009.
154 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
promossi dalla Banca mondiale che funzionano sul principio della
vergogna, arrivando all’estremo (per esempio in Niger) di esporre in ,
pubblico le fotografie delle donne che non hanno ripagato il credito,
cosa che ha portato alcune al suicidio19.
Le donne hanno anche guidato i tentativi di collettivizzare il la­
voro riproduttivo, sia per ridurre il costo della riproduzione, sia per
proteggersi dalla povertà e dalla violenza dello stato e degli uomini.
Un caso esemplare è quello delle ola communes (cucine comuni) che
sono state organizzato in Cile e in Perù negli anni Ottanta quando, a
causa di una spaventosa inflazione, le donne non potevano più per­
mettersi di far la spesa individualmente20. Si tratta di pratiche che,
come la riforestazione collettiva e la riappropriazioni di terre, rivelano
un mondo in cui i legami collettivi sono ancora forti. Sarebbe tuttavia
un errore considerare queste pratiche come prepolitiche, “naturali”, o
prodotte dalla “tradizione”. Come ha scritto Leo Podlashuc in Saving
Women: Saving thè Commons, queste lotte costruiscono un’identità
collettiva, rappresento un contropotere nella casa e nella comunità,
e aprono un processo di autovalorizzazione e autodeterminazione dal
quale abbiamo molto da imparare21.
La prima lezione che apprendiamo da queste lotte è che il “com-
moning dei mezzi materiali di riproduzione costituisce il principale
meccanismo attraverso cui si creano un interesse collettivo e legami
mutuali. E la prima linea di resistenza ad una vita di schiavitù sotto le
armi, nei bordelli o negli sweatshop. A noi, in Nord America, insegna
anche che mettendo in comune le nostre risorse e rivendicando l’ac­
cesso comune alla terra e alle acque, possiamo cominciare a separare
la nostra riproduzione dai flussi di merci che, attraverso il mercato
mondiale, espropriano milioni di persone in tutto il mondo. Possiamo
separare il nostro sostentamento non solo dal mercato mondiale, ma
anche dalla macchina della guerra e dal sistema carcerario dai quali
dipende l’egemonia del mercato. E possiamo infine superare quella
solidarietà astratta che così spesso ha caratterizzato i rapporti all’inter­
no del movimento e che limita il nostro impegno, la nostra resistenza
e i rischi che siamo disposti ad affrontare.
19 Devo quest’informazione a Ousseina Alidou, direttrice del Centro per gli Studi Africani
all’università Rutgers in New Jersey.
20 Jo Fisher, Out of thè Shadows: Women, Resístame and Politics in South America. Latin
America Bureau, London 1993; Carol Andreas, Why Women Rebel: The Rise of Popular
Feminism in Perù, Lawrence Hill Company, Westport (CT) 1985.
21 Leo Podlashuc, Saving Women: Saving Commons, cit.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 155
Si tratta senza dubbio di un progetto formidabile, che può esse­
re realizzata solo attraverso un lungo processo di presa di coscienza,
scambio interculturale e la costruzione di coalizioni tra tutte le comu­
nità che, negli Stati uniti, sono interessate alla rivendicazione della
terra: a partire dalle comunità dei nativi americani. Benché oggi ciò
possa sembrare un obbiettivo irraggiungibile, non si può fare alcu­
na concessione al pessimismo, perché questa è la sola possibilità che
abbiamo per allargare gli spazi della nostra autonomia, per cessare di
alimentare il processo di accumulazione del capitale, e per rifiutare
che la nostra riproduzione avvenga a spese degli altri commons e com-
moners del mondo.

Ricostruzioni femministe
Ciò che questo implica è colto efficacemente da Maria Mies, quan­
do afferma che la produzione dei commons richiede anzitutto una
profonda trasformazione nella nostra vita quotidiana, per rimettere
insieme ciò che la divisione sociale del lavoro ha separato. Infatti, la
separazione della produzione dal consumo ci induce a ignorare le
condizioni in cui è stato prodotto ciò che mangiamo, indossiamo o
usiamo per lavorare, il suo costo sociale ed ecologico, e il destino delle
popolazioni sulle quali scarichiamo i nostri rifiuti22.
In altre parole, dobbiamo superare lo stato di diniego e irresponsa­
bilità in cui oggi viviamo riguardo alle conseguenze delle nostre azio­
ni, dovuto al modo distruttivo in cui è organizzata la divisione del
lavoro nel capitalismo, altrimenti la produzione della nostra vita di­
venta inevitabilmente produzione di morte per altri. Come nota Mies,
la globalizzazione ha peggiorato questa crisi, aumentando la distanza
tra quello che viene prodotto e quello che viene consumato, e quindi
aumentando, nonostante l’apparente crescita dell’interconnessione
globale, la nostra cecità rispetto al sangue versato per il cibo che man­
giamo, il petrolio che usiamo, i vestiti che indossiamo e i computer
con i quali comunichiamo23.
La prospettiva femminista ci insegna a superare questa inconsape­
volezza per dare inizio alla ricostruzione dei nostri commons. Nessun

22 Veronika Bennholdt-Thomsen and Maria Mies, The Subsistence Perspective: Beyond thè
Globalised. Economy. Zed Books, London 1999, p. 141.
23 Ibidem.
156 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE
comune è possibile infatti finché non rifiutiamo di vederci separati da­
gli altri. Se la nozione di “commoning ha un significato, deve essere
quello della produzione di noi stessi come soggetti comuni. Questo è
il modo in cui dobbiamo intendere lo slogan “non c’è commom senza
comunità”. La comunità deve però essere intesa non nel senso di una
realtà segregata, un raggruppamento cioè di persone unite da interessi
esclusivi e separate dagli altri, come nelle comunità fondate su base
religiosa o etnica. “Comunità” deve essere intesa come una qualità dei
nostri rapporti, come principio di cooperazione e di responsabilità:
tra di noi, e rispetto alla terra, le foreste, i mari, gli animali.
Certo, lo sviluppo di simili comunità, così come la collettivizza­
zione del nostro lavoro quotidiano di riproduzione, può essere solo
un inizio. Non può sostituire campagne più ampie contro la privatiz­
zazione e per la riappropriazione della nostra ricchezza comune. Ma
è un passo essenziale per apprendere a governarci collettivamente e
per concepire la storia come progetto collettivo, una capacità che il
neoliberalismo ha cercato in tutti i modi di distruggere.
Tenendo conto di ciò, dobbiamo includere nella nostra agenda
politica la comunalizzazione/collettivizzazione del lavoro domestico,
rivitalizzando quella ricca tradizione femminista che negli Stati uniti
va dagli esperimenti del socialismo utopico della metà del XIX secolo
fino ai tentativi delle “femministe matèrialiste” tra la fine del xix e gli
inizi del XX secolo. Mi riferisco ai molti tentativi intrapresi in questo
periodo per riorganizzare e socializzare il lavoro domestico, e con ciò
la casa e il quartiere, attraverso la collettivizzazione del lavoro dome­
stico - tentativi che continuarono finché negli anni Venti del Nove­
cento la “Paura rossa” non vi pose fine24. Queste pratiche e la capacità
delle femministe del passato di guardare al lavoro riproduttivo come
la sfera chiave dell’attività umana, non vanno negate ma rivoluzionate
e rivalorizzate.
Una ragione cruciale per la creazione di forme di vita collettiva è
che la riproduzione degli esseri umani è uno dei lavori più laboriosi e
intensivi al mondo, ed è un lavoro che, per la maggior parte, non può
essere meccanizzato. Non possiamo meccanizzare la cura dei bambi­
ni, la cura dei malati o il lavoro psicologico necessario a reintegrare il
nostro equilibrio psico-fisico. Nonostante gli sforzi compiuti da indu­
striali futuristi, è impossibile robotizzare la “cura”, se non ad un costo
24 Dolores Hayden, The Grand Domestic Revolution and Redesigning the American Dream:
The future of Housing Work and Family Life, Norton and Company, New York 1986.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 157
terribile per tutte le persone coinvolte. Nessuno si affiderebbe ad un
infermiere-robot, specialmente per la cura dei bambini e dei malati. Il
lavoro di cura richiede la garanzia di una responsabilità condivisa e di
attività cooperative da svolgere in modo che non si ripercuotano sulla
salute di chi le fornisce. Per secoli la riproduzione degli esseri umani
è stata parte di un processo collettivo. Era il lavoro delle famiglie este­
se e di comunità su cui, soprattutto nei quartieri proletari, si poteva
contare anche quando si viveva da soli, cosicché la vecchiaia non era
caratterizzata dalla solitudine desolata e dalla dipendenza nella quale
molti anziani vivono oggi. E solo con l’avvento del capitalismo che
la riproduzione è stata completamente privatizzata, all’interno di un
processo che oggi ha raggiunto un livello distruttivo. Ed è questo che
dobbiamo cambiare se vogliamo porre fine alla costante svalutazione
e frammentazione della nostra vita.
Il momento attuale è propizio per tale inizio. Di fronte a una crisi
capitalista che distrugge i mezzi più fondamentali per la riproduzione
di milioni di persone in tutto il mondo, Stati uniti compresi, la rico­
struzione della nostra vita quotidiana è non solo possibile ma neces­
saria. Le crisi economico-sociali, come gli scioperi, interrompono la
disciplina del lavoro salariato, costringendoci a nuove forme di socia­
lità. Così è avvenuto durante la Grande depressione, che ha prodotto
un movimento di hobo-men, i quali hanno trasformato i treni merci in
commons, cercando la libertà nella mobilità e nel nomadismo25. Nei
punti di incrocio delle linee ferroviarie essi organizzarono le hobo jun-
gles che, con le loro norme di autogoverno e solidarietà, prefigurava­
no quel mondo comunista in cui molti dei residenti credevano26. Tut­
tavia, a parte rare donne come Boxcar Bertha27, si trattò di un mondo
prevalentemente maschile, di una fraternità di uomini, che alla lunga
non potè sostenersi. Non appena la crisi economica e la guerra finiro­
no, gli hobo furono riaddomesticati grazie ai due grandi meccanismi
propulsori della stabilità della forza lavoro: la famiglia e la casa. Con-
25 George Caffentzis, Three Temporal Dimensioni of Class Struggle, paper presentato alla
conferenza annuale dell’International Studies Association, tenutasi a San Diego (CA) nel
marzo 2006.
26 Nels Anderson, Men on thè Move, Chicago University Press, Chicago 1998; Todd Depa­
stino, Citizen Hobo, The University of Chicago Press, Chicago 2003.
27 Box-Car Bertha. Autobiografia di una vagabonda americana (Giunta, Firenze 1986) è la tra­
duzione italiana di Sister of thè Road. The Autobiography of Boxcar Bertha di Ben Reitman
(1937), autobiografia romanzata della “vagabonda” radicale Bertha Thompson. Martin
Scorsese ha prodotto nel 1972 l’adattamento cinematografico del romanzo, nelle sale ita­
liane con il titolo America 1929: sterminateli senza pietà.
158 IL PUNTO ZERO DELLA RIVOLUZIONE

sapevole della minaccia proveniente dalla ricomposizione della classe


operaia durante la Grande depressione, il capitale americano eccelse
nell’applicazione del principio che ha caratterizzato l’organizzazione
della vita economica nel capitalismo: cooperazione nella produzione e
separazione e atomizzazione nella riproduzione. La casa atomizzata e
serializzata, proposta da Levittown, con la sua appendice ombelicale
costituita dall’automobile, non solo ha fissato i lavoratori, ma ha, so­
prattutto, messo fine al tipo di commons operai autonomi che le hobo
jungles rappresentavano28. Oggi, che le case e le macchine di milioni
di americani sono state messe all’asta e i pignoramenti, gli sfratti e la
*disoccupazione a livello di massa stanno nuovamente sconvolgendo
la disciplina lavorativa tipica del capitalismo, prendono forma nuovi
spazi comuni, come le tendopoli {tent cities) che stanno spuntando
sulle due coste. Questa volta però sono le donne che devono costruire
i nuovi commons e fare in modo che non rimangano spazi transito­
ri, zone temporaneamente autonome, ma diventino il fondamento di
nuove forme di riproduzione sociale.
Se la casa rappresenta Yoikos sul quale si fonda l’economia, sono
allora le donne, storiche lavoratrici e prigioniere dell’ambito domesti­
co, che devono prendere l’iniziativa per reclamare la casa come cen­
tro della vita collettiva; una vita attraversata da molte persone e da
forme multiple di cooperazione, capace di procurare sicurezza senza
isolare, permettendo la condivisione e la circolazione dei beni comu­
nitari e, soprattutto, provvedendo alla costruzione di forme collettive
di riproduzione. Come già ricordato, possiamo trarre ispirazione dai
programmi delle “femministe matèrialiste” che, convinte che la casa
fosse un’importante “componente spaziale dell’oppressione contro le
donne”, organizzarono cucine comuni e ambienti domestici di tipo
cooperativo per rivendicare il controllo sulla riproduzione29. Questi
obbiettivi sono oggi cruciali. Rompere l’isolamento della vita nello
spazio privato della casa non è solo la condizione che ci permette di
soddisfare i nostri bisogni essenziali e accrescere il nostro potere ri­
spetto ai datori di lavoro e allo stato. Come ci ricorda Massimo de
Angelis, è anche uno strumento di protezione dal disastro ecologico.
Non ci sono dubbi, infatti, su quanto sia distruttiva e “diseconomica”
la moltiplicazione dei sistemi riproduttivi e delle nostre case che, sepa-

28 Dolores Hayden, Redesigning thè American Dream: The future of Housing, Work, and
Family Life, Norton and Company, New York 1986.
29 Dolores Hayden, The Grand Domestic Revolution, cit.
FEMMINISMO E POLITICA DEL COMUNE 159
rate l’una dall’altra, durante l’inverno dissipano il calore nell’atmosfera
e in estate ci espongono al calore. Soprattutto, non possiamo costruire
una società alternativa e un movimento forte, capace di autoriprodur-
si, se non ridefiniamo la nostra riproduzione in modo più cooperativo
e non mettiamo fine alla separazione fra il personale e il politico, fra
l’attivismo politico e la riproduzione della vita di ogni giorno.
Rimane a questo punto da chiarire che assegnare alle donne il
compito di produrre comune, e collettivizzare la riproduzione, non
ha niente a che fare con una concezione naturalistica della “femmini­
lità”. Comprensibilmente, molte femministe considerano questa pos­
sibilità “un destino peggiore della morte”. E profondamente scolpito
nella nostra coscienza collettiva che le donne sono state designate ad
essere “il comune” degli uomini, una risorsa naturale di ricchezza e
servizi di cui gli uomini possono appropriarsi liberamente, così come
i capitalisti si sono appropriati liberamente delle ricchezze della na­
tura. Tuttavia, parafrasando Dolores Hayden, la riorganizzazione del
lavoro riproduttivo, e quindi la riorganizzazione della casa e dello spa­
zio pubblico, non sono una questione di identità, sono una questione
lavorativa e, possiamo aggiungere, una questione di potere e sicurez­
za30. Vorrei ricordare a questo proposito l’esperienza delle donne del
Movimento Sem Terra in Brasile che, quando le loro comunità hanno
ottenuto il diritto di tenere la terra che avevano occupata, hanno insi­
stito affinché le nuove case fossero costruite una accanto all’altra, così
da poter continuare a condividere il lavoro domestico, fare il bucato
insieme, cucinare insieme, dandosi il cambio con gli uomini come ave­
vano fatto durante la lotta. E anche poter essere pronte a correre l’una
in supporto dell’altra per proteggersi dagli abusi dei loro compagni.
Affermare che le donne dovrebbero guidare il processo di collettiviz­
zazione del lavoro riproduttivo non vuol dire naturalizzare il lavoro
domestico come vocazione femminile. E piuttosto il rifiuto di annulla­
re le esperienze collettive, il sapere e le lotte che le donne hanno accu­
mulato sul terreno del lavoro riproduttivo; una storia che rappresenta
una parte essenziale della nostra resistenza al capitalismo. Ricollegarsi
a questa storia costituisce oggi un passo cruciale per le donne e gli
uomini sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per
ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni.

30 Dolores Hayden, Redesigning the American Dream, cit.

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