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Gao Xingjian

Una canna da pesca per mio


nonno
Traduzione dal cinese di Alessandra Lavagnino

Racconti tratti, a cura dell'autore,


dalle seguenti raccolte
GEI WO LAOYE MAI YUGAN, Taipei, 1989
ZHOUMO SICHONGZOU, Hong Kong, 1996

© Gao Xingjian, Paris


© 2001 RCS Libri S.p.A., Milano

Edizione Mondolibri S.p.A., Milano


su licenza RCS Libri S.p.A., Milano

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Il Tempio della Grazia perfetta

Eravamo completamente ubriachi di felicità, immersi in quella sorta di ebbrezza, di


delirio, di tenerezza e d'incanto del viaggio di nozze che era seguito al nostro
matrimonio, anche se avevamo avuto soltanto due settimane di ferie, dieci giorni per
il matrimonio più una settimana di congedo ordinario. Certo, il matrimonio è la cosa
più importante della vita, e anche per noi non c'era nulla che contasse di più, come
non chiedere qualche altro giorno? Ma il mio direttore, che è uno spilorcio, non mette
certo a proprio agio chi va a chiedergli dei permessi, costringendolo a rispondere di
ogni minimo dettaglio. Prima sulla mia autorizzazione c'era scritto due settimane di
congedo, ma lui l'aveva corretto in una settimana, includendovi anche la domenica, e
poi mi aveva detto, leggermente in imbarazzo: «Spero tornerete per tempo al lavoro».
«Certo, certo» avevo risposto, «non possiamo proprio permetterci di dare fondo a
tutto il nostro magro stipendio.» Solo allora, con un rapido tratto di penna, aveva
firmato: il permesso era autorizzato.
Ormai non ero più scapolo, adesso avevo una famiglia. E per la verità, questo
viaggio io e Fangfang lo stavamo preparando e immaginando da tempo. Ora che
avevamo costituito una famiglia non avrei più potuto, all'inizio del mese quando
prendevo lo stipendio, andarmene al ristorante, invitare gli amici, spendere come mi
pareva, e arrivare alla fine talmente a secco da non riuscire a racimolare neanche i
soldi per comperare un pacchetto di sigarette, e dovermi frugare nelle tasche o
persino rovesciare i cassetti per cercare qualche spicciolo. Meglio non parlarne.
Volevo dire, io - cioè noi - eravamo felici. In queste nostre vite, così brevi, ben poca è
la felicità. Sia io sia Fangfang avevamo attraversato anni in cui bisognava sfidare
tempeste e affrontare il mondo intero. In quegli anni di gravi catastrofi per il nostro
popolo, le nostre famiglie, noi stessi avevamo patito tanto, e avevamo dovuto
sopportare tanta infelicità, e quanto alla sorte della nostra generazione avevamo
ancora tanti rancori. Ma anche di questo è meglio non parlare, quel che importa è che
adesso eravamo finalmente felici.
Avevamo appena due settimane di ferie, e anche se la nostra luna di miele era stata
dimezzata, era davvero più dolce del miele. Una dolcezza sulla quale non voglio
soffermarmi, che anche voi gente di mondo sicuramente avrete provato, ma
soprattutto una dolcezza che appartiene tutta solo a noi. Ciò di cui vorrei parlarvi è il
Tempio della Grazia perfetta, o Yuan'en: il termine yuan vuol dire
«completezza/perfezione», e en «grazia/benevolenza». Ma è un nome che nessuno
conosce perché si riferisce a un tempio in rovina, abbandonato, che non viene incluso
tra i luoghi da visitare negli itinerari turistici. A parte la gente del luogo, nessuno ne
sa niente. E anche tra i locali ho paura siano ben pochi quelli che lo conoscono.
Insomma, si tratta di un tempio, ma di un tempio scalcinato, dove nessuno brucia
incensi, recita preghiere, di cui nessuno si prende cura, e che noi abbiamo scoperto
per puro caso. E se non fosse stato per il nostro meticoloso insistere nel decifrare le
tracce dei caratteri incisi su una stele di pietra che stava sul fondo di un bacile, sotto
una pompa per l'acqua, nemmeno noi avremmo saputo che il tempio aveva un nome.
La gente del luogo lo chiamava semplicemente il Grande tempio, ma in effetti non
era certo gran cosa rispetto al Tempio degli Spiriti nascosti di Hangzhou, o a quello
delle Nuvole azzurre di Pechino. Non era nient'altro che un antico edificio con il tetto
a doppio ordine di cornicioni, costruito sulle alture nelle vicinanze di un capoluogo di
distretto, e davanti al quale rimaneva ancora un portale a blocchi di pietra. Il muro
che recingeva la corte era crollato, e le pietre e i mattoni con cui era stato costruito
erano stati portati via non si sa bene quando, ma ormai da tempo, dai contadini delle
vicinanze, per costruire case e recintare porcilaie, e rimaneva soltanto un pezzo di
terra invaso dalle erbacce.
Guardando dalla strada principale del capoluogo lo si scorgeva di lontano, e sulla
collina, sotto i raggi del sole, scintillavano le tegole invetriate color giallo brillante, e
catturavano lo sguardo, con qualcosa di seducente. Anche la nostra sosta nel
capoluogo era stata del tutto casuale. Il treno era fermo sul binario, era già passata
l'ora della partenza, perché probabilmente stava aspettando l'arrivo di un super-rapido
leggermente in ritardo. Terminato il viavai dei viaggiatori che salivano o scendevano
dalle carrozze, la banchina era ormai deserta, e l'inserviente stava a chiacchierare, in
piedi accanto alla porta del vagone. Oltre i binari, nella valle, si stendevano i tetti di
tegole grigie delle case. Ancora più lontano si profilavano catene di montagne verdi e
lussureggianti; questa antica cittadina sembrava diffondere calma e serenità.
D'improvviso mi balenò un'idea, e dissi: «Perché non andiamo a fare un giro in
città?»
Fangfang era seduta di fronte a me e mi stava guardando con tenerezza; mosse
leggermente la testa, parlandomi con gli occhi. I nostri sensi vibrarono all'unisono.
Senza una parola di più, tirammo giù le borse dal bagagliaio, ci avviammo correndo
verso la porta del vagone, e una volta saltati giù sulla banchina scoppiammo a ridere
insieme. Io dissi: «Prenderemo il prossimo treno».
«Stiamo pure qui» aggiunse Fangfang.
Naturalmente, eravamo in viaggio di nozze. Potevamo andare dove ci piaceva, e
fermarci dove ci pareva. La felicità di esserci appena sposati ci accompagnava
sempre e ovunque, eravamo le creature più felici del mondo, in piena libertà.
Fangfang si appoggiava a me, che portavo i bagagli, e volevamo proprio che i
ferrovieri sulla banchina e le innumerevoli paia d'occhi dietro i finestrini ci
guardassero con invidia.
Non avremmo più dovuto cercare raccomandazioni di conoscenti per conquistarci
un trasferimento in città, chiedere ai padri o alle nonne, e non avremmo più dovuto
darci da fare per ottenere un permesso di residenza o di lavoro. Potevamo già contare
su di una stanza tutta per noi, non certo grande, ma arredata in modo confortevole.
Insomma avevamo ormai una famiglia nostra, io ho te, tu hai me, so che cosa stai per
dire Fangfang: Smettila! Che c'entra? Vorremmo che tutti potessero condividere la
nostra felicità. Abbiamo avuto abbastanza preoccupazioni, e forse ve ne abbiamo
anche date, voi che pure ci avete aiutato tanto. Come ricompensarvi? Con i dolci e le
sigarette che si distribuiscono alla festa di nozze? Noi vi ricompensiamo con la nostra
felicità, non va bene?
Così arrivammo in città, in questo piccolo, antico capoluogo di distretto,
tranquillamente allungato in mezzo alla valle. La città però non era affatto calma,
come ci era apparsa dal finestrino del treno. Sotto la distesa dei tetti dalle tegole
grigie, strade e vicoli brulicavano di gente in piena attività. Erano appena suonate le
nove, e al mercato si vendevano verdure, angurie e meloni, mele e pere appena colte.
In questa strada principale, non certo larga, si affollavano carretti tirati da muli e
camion, lo schioccare delle fruste sulle bestie da soma e il continuo rincorrersi delle
grida di incitamento si mescolavano con l'acuto e intermittente suono dei clacson dei
camion.
Adesso provavamo sentimenti ben diversi rispetto a quando entravamo in una
cittadina come questa all'epoca in cui eravamo stati mandati a lavorare in campagna.
Oggi eravamo dei visitatori di passaggio in città, dei turisti, e i tormenti interiori e le
preoccupazioni degli altri non ci riguardavano più. Però quel palpitare della vita nella
piccola città, la polvere sollevata dal passaggio dei camion, l'acqua lurida gettata via
accanto ai banchi delle verdure, le bucce di anguria sparse per terra, le galline dalle
ali spelacchiate tenute ben salde nelle mani dei compratori, in un volteggiare di
piume e in un continuo chiocciare di polli, tutto ci era familiare. Questa nostra
sensazione nei confronti della gente del luogo possiamo dire fosse una sorta di lusso.
Difatti non potevamo fare a meno di provare quel senso di superiorità che viene a chi
arriva qui dopo aver vissuto in una grande città. Fangfang si teneva allacciata al mio
braccio, e anche io stavo stretto a lei. Ci sembrava che gli occhi di tutti ci stessero
guardando. Non eravamo del posto, eravamo gente venuta da un altro mondo. Li
oltrepassammo, e alle nostre spalle nessun brusìo di commento, chiacchieravano
soltanto con chi era loro accanto.
Così, arrivammo alla fine della strada, dove non c'erano più i banchetti delle
verdure, i passanti erano sempre più rari, e i confusi rumori del mercato erano rimasti
alle nostre spalle. Diedi uno sguardo all'orologio, dalla stazione avevamo impiegato
solo mezz'ora per attraversare la strada principale della cittadina, era ancora presto.
Non aveva senso tornare alla stazione ad aspettare il prossimo treno, e poi Fangfang
si preparava a passare qui la notte!
Non aveva aperto bocca, ma mi ero accorto che era leggermente delusa. Di fronte a
noi stava arrivando un uomo che aveva l'aria di essere un funzionario: si vedeva da
come camminava, da come muoveva le mani.
«Mi scusi» gli chiesi, «dov'è la foresteria del distretto?»
Prima ci guardò bene, e poi ci indicò con entusiasmo dove andare, da qui a lì, a
sinistra verso est, e quando vedevamo un edificio a due piani in mattoni rossi, ecco
quella era la foresteria del Comitato di distretto. Ci chiese anche se cercavamo
qualcuno, come per mostrarci la strada per trovarlo. Gli spiegammo che eravamo di
passaggio, in vacanza, e gli chiedemmo cosa ci fosse da vedere. Lui si grattò un po' la
testa, come se fosse difficile rispondere. Ci pensò un po' su, e poi disse: «Nel nostro
distretto non ci sono cose particolari. C'è solo un tempio, sulle colline a ovest della
città, ma bisogna arrampicarsi, la strada non è agevole».
«Benissimo! Proprio quello che volevamo!» risposi.
E Fangfang aggiunse: «Certo! Non abbiamo mica paura di arrampicarci!»
Allora lui ci accompagnò fino all'angolo della strada, e indicò al nostro sguardo, in
cima alla collina davanti a noi, il vecchio tempio dalle gialle tegole invetriate che
risplendevano ai raggi del sole.
«Ah, che meraviglia! Grazie.»
Ma lui, come si accorse delle scarpe col tacco alto indossate da Fangfang,
aggiunse: «C'è da entrare nell'acqua per traversare il fiume».
«L'acqua è profonda?» domandai.
«Non supera il ginocchio.»
Guardai Fangfang.
«Non importa, ce la farò.» Fangfang non voleva certo deludermi.
Lo ringraziammo e ci mettemmo in cammino seguendo la direzione che ci aveva
indicato. Appena imboccammo la strada grigia di polvere, non potei fare a meno di
dare uno sguardo alle scarpe di pelle, col tacco alto e il cinturino sottile, appena
comprate, che Fangfang aveva indosso: volevo quasi scusarmi. Ma lei camminava
dritta avanti, con aria decisa.
«Sei davvero pazza!» dissi.
«Pur di stare con te!» Ti ricordi, Fangfang? L'hai detto stringendoti a me.
Ci dirigemmo verso il fiume. Sulle rive cresceva rigoglioso e diritto il mais, alto
più di un uomo, e un sentiero si addentrava tra le foglie verdi, intorno non c'era anima
viva. Abbracciai Fangfang e la baciai teneramente. Ah, cosa c'è? Va bene, lei non
vuole che ne parli, allora torniamo al Tempio della Grazia perfetta! Si trovava sulla
sommità della collina, sulla sponda opposta del fiume. Tra le lucenti tegole invetriate
crescevano ciuffi di erbe selvatiche, chiaramente visibili anche da lontano.
L'acqua del fiume era limpida e fresca. Con una mano reggevo le scarpe col tacco
di Fangfang e i miei sandali di cuoio. Con l'altra le tenevo la mano, mentre lei si
teneva su la gonna. Andavamo avanti a tentoni, coi piedi nudi nell'acqua, era da tanto
che non camminavo scalzo, e mi sembrava che persino le pietre scivolose del greto
del fiume mi pungessero i piedi.
«Hai male ai piedi?» le chiesi.
«Mi piace» hai risposto piano. Durante la nostra luna di miele, persino avere male
ai piedi era una sensazione di felicità. Era come se tutta l'infelicità del mondo degli
uomini scorresse via attraverso le nostre caviglie. Ed era anche come se fossimo
ritornati agli anni dell'infanzia, a piedi nudi, bambini impertinenti che giocano
nell'acqua.
Fangfang saltava da una pietra all'altra, io le tenevo la mano stretta nella mia, e di
tanto in tanto canticchiavo una canzone. Guadato il fiume, siamo arrivati di corsa, tra
risa e grida, in cima alla collina. Ma Fangfang si era fatta male a un piede, e io mi ero
subito messo in agitazione; lei però mi tranquillizzò dicendo che non era nulla, e che
mettendosi le scarpe sarebbe passato tutto. Io replicai che era tutta colpa mia, ma lei
disse che voleva solo vedermi felice, valeva la pena anche rompersi un piede.
D'accordo, non dico altro. Ma siccome voi siete i nostri amici più cari, avete
condiviso con noi tante tribolazioni, ci sembra giusto farvi partecipare alla nostra
felicità...
Così, alla fine ci inerpicammo fin sulla cima della collina, e arrivammo al portale a
blocchi di pietra bianca che si trovava davanti al tempio. All'interno della cinta
diroccata c'era un canale in cui scorreva acqua limpidissima, che veniva dal tubo di
una pompa idrica. Nel recinto, in quella che una volta era la corte del tempio, c'era un
orto, e vicino all'orto un cumulo di letame. Di nuovo ci tornarono alla mente gli anni
in cui eravamo stati mandati a stabilirci in campagna, e raccoglievamo escrementi e
letame; adesso quei giorni difficili erano stati spazzati via dallo scorrere impetuoso
della corrente, e rimanevano soltanto alcuni ricordi tristi e pure dolci, e c'era anche il
nostro amore. Alla luce sfolgorante di questo sole ci sentivamo sicuri che nessuno
avrebbe mai più potuto interferire con il nostro amore, e mai più avrebbe potuto farci
del male.
Davanti al tempio era piazzato un grande incensiere di metallo, certo troppo
pesante per poter essere portato via, e anche talmente resistente che non si poteva
spaccare a martellate, perciò era sempre rimasto a guardia del tempio in rovina di cui
proteggeva l'ingresso. Il portone era ben chiuso, con un lucchetto di ferro. Sui tralicci
delle finestre, ormai rovinati, erano inchiodate assi di legno mezzo marcio. Forse il
tempio era diventato il granaio della squadra di produzione.
Intorno non c'era nessuno, il silenzio era assoluto. Si poteva sentire il mormorare
della brezza di montagna tra gli antichi pini davanti al tempio. Indisturbati, ci
eravamo allungati a riposare all'ombra degli alberi, in mezzo all'erba. Il vento della
montagna aveva trascinato via la calura estiva, portando folate di aria fresca.
Fangfang era appoggiata sul mio petto, e guardavamo il sottile filamento di una
nuvola bianca che svaniva nel cielo azzurro. Era una felicità difficile da esprimere a
parole, che richiede una serenità come questa.
Avremmo potuto continuare a inebriarci in tale serenità, quando sentimmo un
pesante rumore di passi. Erano passi che risuonavano, uno dopo l'altro, sulle lastre di
pietra. Mi alzai e girai la testa a guardare: era proprio un uomo, che dal portale
d'ingresso stava venendo dove noi eravamo stesi, davanti all'edificio. Anche
Fangfang si era messa a sedere. Quell'uomo avanzava, camminando nel mezzo del
sentiero di pietra. Era un uomo di mezza età, alto, i capelli arruffati, le guance invase
dalla barba non rasata, la faccia scura. Sotto le folte sopracciglia, un paio di occhi
glaciali ci guardavano fisso.
Continuava a venire verso di noi, un passo dopo l'altro. Il vento mormorava tra i
pini, e noi fummo attraversati da un brivido. Forse si era accorto del nostro sguardo
interrogativo, e allora tirò un po' su la testa guardando verso il tempio. Poi,
socchiudendo gli occhi, si mise a osservare le erbacce che si agitavano fra le tegole
invetriate che brillavano sotto il cielo azzurro.
Si fermò, in piedi davanti all'incensiere, lo batté con la mano producendo un suono
cupo e cavernoso. Anche le dita con cui aveva battuto sull'incensiere sembravano
fuse nel metallo, con le nocche dure e nodose. Nell'altra mano teneva una vecchia
borsa di tela nera lucida. Non sembrava proprio il contadino della comune agricola
incaricato di sorvegliare l'orto. Ci guardò di nuovo, esaminando le scarpe col tacco
che Fangfang aveva abbandonato sul prato e le nostre borse da viaggio. Fangfang si
mise immediatamente le scarpe. Ci colse di sorpresa, quando ci apostrofò dicendo:
«Venite da fuori, siete in vacanza?»
Annuii.
«Bel tempo, no?» Aveva voglia di chiacchierare.
Gli occhi, sotto le folte sopracciglia, avevano perso l'iniziale freddezza. Non
sembrava un malintenzionato. Ai piedi aveva scarpe di cuoio, a tratti scucite, con la
suola ritagliata da un copertone di gomma. L'orlo dei pantaloni era umido, era
evidente che per venire qui dalla città aveva dovuto guadare il fiume.
«Fa fresco, è un bel posto» dissi alzandomi.
«State pure seduti, me ne vado subito.»
Sembrava volesse scusarsi, si sentiva chiaramente. Poi però si mise anche lui a
sedere sul prato che costeggiava il sentiero di pietra. Aprì la borsa e disse: «Volete
del melone?» tirandone fuori uno dalla borsa.
«No, grazie» mi affrettai a rispondere. Ma lui aveva già gettato il melone verso di
noi. Io lo afferrai e feci per restituirglielo.
«Non fa niente, ne ho la borsa mezzo piena» disse. E per spiegarci meglio,
cominciò a soppesare la borsa e mentre parlava ne tirò fuori un altro.
Non potevamo più rifiutare, e allora io tirai fuori dalla mia borsa un sacchetto di
dolci, lo aprii, e glielo porsi. «Lei però deve assaggiare i nostri dolci, su!» dissi.
Prese un pasticcino, e lo posò sopra la borsa.
«Basta così, mangiàteli voi.» Mentre parlava, strinse un melone tra le grosse palme
delle mani, spaccandone la fragile buccia.
«Sono tutti puliti, li ho lavati nel fiume.» Con una mano scrollò via i semi dal
melone, gridando in direzione del tempio: «Riposati un attimo, vieni a mangiare il
melone!»
«Qui c'è un grillo!» La voce di un bambino arrivò da oltre il portone.
Sul crinale comparve un ragazzino che teneva in mano una gabbia di rete
metallica.
«Se c'è, tra un istante ti aiuto ad acchiapparlo» rispose l'uomo.
Il bambino ci corse incontro saltellando.
«Sei in vacanza?» anch'io volevo tener viva la conversazione e, imitandolo,
spaccai il melone con le mani.
«Oggi è domenica, l'ho portato a fare un giro» rispose l'uomo.
Immersi nella nostra festa privata, ci eravamo persino dimenticati che giorno era.
Fangfang mi lanciò un sorriso mentre addentava il melone che io avevo aperto.
Voleva dirmi che quello era un brav'uomo, e che nel mondo le brave persone sono
ancora la maggioranza.
«Mangia, è un regalo di questi signori» disse al bambino che stava guardando il
dolcetto alla crema appoggiato sulla borsa.
Di sicuro un bambino cresciuto in quella piccola città non aveva mai visto un
simile pasticcino, lo prese rapido e si mise a mangiare.
«Suo figlio?» gli chiesi.
Non rispose, ma disse al bambino: «Prendi il melone e vai a giocare, tra un attimo
vengo ad acchiapparti un grillo».
«Ne voglio cinque» rispose, prendendo il melone.
«Va bene, te ne prenderò cinque.»
Il bambino corse via reggendo la gabbia di rete metallica. Mentre l'uomo ne
guardava l'ombra di spalle, rughe profonde gli incresparono gli angoli degli occhi.
Sotto quell'aspetto severo si nascondeva il cuore tenero di un padre.
«Non è figlio mio» disse abbassando la testa e tirando fuori una sigaretta. La
accese e aspirò una boccata profonda. Si accorse del nostro stupore, e aggiunse: «È
figlio di un mio cugino, vorrei adottarlo, se vuole vivere con me».
In quel momento capimmo che nel cuore di quell'uomo severo ribollivano ondate
di sentimenti.
«E sua moglie?» Fangfang non riuscì a trattenersi dal chiedere. Lui non rispose,
ma continuando ad aspirare profondamente la sigaretta si alzò e se ne andò.
Di nuovo sentimmo il fresco del vento. Sul tetto di tegole luccicanti, la verde erba
primaverile appena cresciuta era già alta quanto i vecchi sterpi ormai secchi, e
ondeggiava al vento.
Sull'azzurro del cielo si stagliavano i cornicioni del tetto, una nuvola bianca
sembrava galleggiare, e dava l'impressione che tutto l'universo fosse inclinato.
Sull'estremità del cornicione c'era una tegola invetriata che stava per scivolare giù,
chissà da quanti anni era così, assolutamente immobile.
L'uomo stava ora in piedi su un rialzo del muro diroccato, con lo sguardo come
cristallizzato sulla vallata dietro di noi.
Lontano si stendeva una catena di monti ancora più alti di dove ci trovavamo, e
anche più impervi. Alle pendici non c'erano campi terrazzati, e non si vedevano case.
«Non dovevi fare domande» dissi.
«Non parliamone più.» Fangfang aveva l'aria dispiaciuta.
«Qui c'è un grillo!» La voce del bambino ci arrivò di nuovo da dietro la collina.
Sembrava lontana, ma si sentiva benissimo.
L'uomo si diresse a grandi passi verso la collina, facendo ondeggiare dal braccio la
borsa carica di meloni.
Scese lungo il pendio. Presi Fangfang per un braccio e la attirai verso di me.
«Non fare così» si divincolò.
«Hai un filo d'erba nei capelli» le spiegai togliendo un ago di pino che le si era
impigliato nei capelli.
«Quella tegola sta per cadere» disse. Anche lei aveva notato quella tegola dorata
inclinata, in bilico. «Se cade ora è meglio, altrimenti potrebbe fare del male a
qualcuno» mormorò.
«Potrà ancora durare per giorni» aggiunsi.
Arrivammo fino al terrapieno dove si era fermato l'uomo. La vallata era ricoperta
di campi dalle coltivazioni rigogliose, di un verde intenso e ricco, c'erano mais e
miglio in attesa del raccolto autunnale. Sotto di noi, su di un pianoro, si trovavano
alcune case di terra i cui muri erano stati recentemente imbiancati a calce fino a metà
altezza. Il sentiero che scendeva a valle costeggiava le case. L'uomo camminava
tenendo per mano il bambino lungo il sentiero che si addentrava sinuoso tra le
colture. Il bimbo all'improvviso si mise a galoppare come un cavallo a cui sia stata
sciolta la briglia, correndo in avanti e poi girandosi all'indietro, e poi di nuovo in
avanti, e la gabbia di metallo sembrava danzare nella sua mano.
«Gli avrà acchiappato dei grilli?» ti ricordi Fangfang? Mi hai chiesto proprio così.
«Forse» risposi «forse.»
«Cinque!» hai detto, impertinente. Ecco, questo è ciò che volevo raccontarvi a
proposito di quando andammo al Tempio della Grazia perfetta, durante la luna di
miele.
Pubblicato nel numero 7 della rivista
«Hai yan» (Procellaria), 1983
L'incidente

Le cose sono andate così.


Erano le cinque del pomeriggio: nel negozio di radio-riparazioni di viale Desheng
erano appena risuonati i rintocchi del segnale orario della radio; fuori si era levato un
vento che, sull'altro lato della strada, stava facendo mulinare in aria la sabbia
grigiastra davanti alla porta della Libreria Xinhua, in corso di restauro, e la polvere
aveva formato un semicerchio sulla superficie della strada asfaltata; poi la sabbia si
era depositata, e la polvere si era gradualmente dispersa. Non era ancora arrivata la
stagione in cui il cielo si riempie tutto di vento sabbioso, il tempo stava appena
facendosi più mite, tra i ciclisti alcuni portavano ancora le corte giacchette di cotone
grigio, sulle strisce pedonali le ragazze indossavano azzurri abiti primaverili, e la
circolazione di ciclisti e pedoni era sostenuta, anche se non era ancora il traffico
congestionato dell'ora di punta, alla fine del lavoro. C'è sempre qualcuno che smette
di lavorare in anticipo, altri sono in vacanza, in un viavai di frettolosi e di sfaccendati.
A quest'ora è sempre così, gli autobus non sono vuoti ma neppure pieni, i posti a
sedere sono tutti occupati, e alcuni stanno in piedi, davanti ai finestrini, aggrappati ai
sostegni.
Una bicicletta, che porta a rimorchio una carrozzina da bambino coperta da un telo
a quadretti rossi e blu, sta attraversando la strada in diagonale, un uomo è alla guida.
Dalla direzione opposta ecco sopraggiungere un autobus a due vetture, che viaggia ad
andatura sostenuta, ma non eccessiva, certamente meno sostenuta di quella della
piccola automobile verde chiaro che proprio ora sta superando la bicicletta,
comunque non necessariamente oltre la velocità consentita in città. L'uomo allora,
curvandosi in avanti, schiaccia con vigore i pedali della bici, mentre la piccola auto lo
supera. L'autobus gli sta arrivando di fronte, e allora sembra esitare un istante, ma
non dà segno di frenare, quindi la bicicletta con il carrozzino dietro attraversa
tranquillamente la strada in diagonale; il conducente dell'autobus si mette allora a
pigiare sul clacson, ma non rallenta, e proprio quando il ciclista ha appena superato la
riga bianca nel centro della strada, la sabbia portata dal vento si dirada, e non può
certo impedire la visibilità; l'uomo non ha chiuso gli occhi, e tiene la testa ben alta, è
un uomo sulla quarantina, con un cappello calcato sulla parte posteriore della testa,
che lascia scoperta una calvizie incipiente. Deve sicuramente aver visto l'autobus che
gli sta arrivando dritto di fronte, e deve sicuramente aver sentito i colpi di clacson.
Sembra ancora esitare un attimo, come se volesse dare una stretta di freno, ma forse
non frena abbastanza, e la bici, con la sua carrozzetta, ha un sussulto, ma poi continua
ad attraversare la strada in diagonale. Allora il conducente dell'autobus si mette di
nuovo a pigiare sul clacson, questa volta senza interrompersi. Il ciclista continua
imperturbabile ad avanzare, il bimbo seduto nella carrozzina, avrà due o tre anni, ha il
viso tutto arrossato. Al suono del clacson si mescola lo stridere della frenata
improvvisa, e più l'autobus si avvicina più il frastuono si fa assordante, la ruota
anteriore della bicicletta non può evitare di tagliare la strada all'autobus, mentre il
rumore del clacson e della frenata si fanno sempre più forti, più stridenti. Anche se
l'autobus ha rallentato, il suo muso piatto è come un muro verticale che continua ad
avanzare inesorabile. L'autobus e la bicicletta stanno per toccarsi, quando una donna
sulle strisce si mette a gridare, e allora sia i passanti sulle strisce sia i ciclisti si
immobilizzano, attoniti, a guardare: la ruota anteriore della bicicletta riesce a
oltrepassare il muso dell'autobus, l'uomo pigia ancora più furiosamente sui pedali,
forse può ancora farcela, però con un gesto della mano tocca la tendina a quadri rossi
e blu della carrozzetta, come per spingerla in avanti. Appena sfiorata dalla mano,
questa schizza in aria, mentre una ruota cade rimbalzando sulla strada. L'uomo allora
alza le mani e quindi viene sbalzato di lato, giù dal sellino, però una gamba gli è
rimasta imprigionata e così, tra il frastuono dei clacson, lo stridere di freni, le grida
della donna e le urla terrorizzate dei testimoni, viene stritolato dalle ruote
dell'autobus. La bicicletta intanto, tutta aggrovigliata, continua a scivolare sulla
superficie asfaltata della strada fino a rovesciarsi, dopo una decina di metri.
Sui marciapiedi ai due lati della strada, i passanti rimangono esterrefatti, mentre i
ciclisti saltano giù dalle bici. Intorno la calma si fa assoluta, si sente solo provenire
dal negozio di radioriparazioni il flebile ritornello di una canzone:

Tu devi ricordare,
tu e io, nella nebbia, ci incontrammo sotto
[un ponte diroccato...

Probabilmente è una cassetta di qualche cantante di Hong Kong, tipo Deng Lijun.
La ruota anteriore dell'autobus si è subito arrestata in mezzo a una pozza di sangue
scarlatto. Il sangue schizzato sul muso della vettura sta colando giù, gocciolando
lentamente sul corpo del morto, il primo ad accostarsi al cadavere è il conducente
dell'autobus che, aperte le porte, è subito saltato giù. Poi i passanti sono arrivati di
corsa da ogni lato della strada, mentre altri si sono stretti attorno alla carrozzina,
rovesciata sopra una bocchetta dell'acqua che ancora gocciola sotto il marciapiede.
Una donna di mezza età prende su il piccolo dalla carrozzina, e lo culla,
esaminandolo con cura.
«È morto?»
«Sì.»
«È morto?»
La gente mormora lì intorno. Il piccolo ha gli occhi chiusi, sulla pelle tenera e
bianca risaltano le vene bluastre, non c'è una goccia di sangue. E nessuna ferita
visibile.
«Non lasciatelo scappare!»
«Presto, chiamate la polizia!»
«Che nessuno tocchi niente! Non ve ne andate, lasciate tutto com'è!»
La folla si stringe intorno al muso dell'autobus. Fuori del capannello c'è solo un
uomo che per curiosità si china per tirar su la bicicletta tutta svergolata. Quando la
riappoggia il campanello si mette a suonare.
«Io però ho suonato il clacson, e ho frenato! L'hanno visto tutti, mi si è gettato tra
le ruote come se volesse ammazzarsi, che colpa ne ho io?»
La voce arrochita è quella del conducente che si sta discolpando, ma nessuno si
cura di lui.
«Potete tutti essermi testimoni, avete visto tutti!»
«Circolare, circolare, andate tutti via!» Tra la folla compare il berretto di un
poliziotto.
«Bisogna salvare il bambino, presto! Qualcuno fermi una macchina per portarlo
all'ospedale!» dice una voce maschile.
Un ragazzo con una giacca di cuoio marrone alza il braccio e corre verso il centro
della strada. Una piccola Toyota sfreccia senza fermarsi tra i passanti, suonando il
clacson. Poi arriva una camionetta modello 130, che si ferma. Dai finestrini
dell'autobus danneggiato si vedono i passeggeri che stanno discutendo con una
bigliettaia. Arriva anche un filobus. Le porte dell'autobus si aprono, e i passeggeri
schizzano fuori e lo fermano. Tutti schiamazzano.

Mai, mai potrò dimenticarti...

La musica della canzone trasmessa dallo stereo viene sopraffatta dal baccano.
Il sangue continua a colare. Nell'aria se ne diffonde l'odore.
«Ah!» risuona un lamento. È il piccolo che sta riprendendo i sensi e piange.
«Per fortuna!»
«È vivo!»
Sono esclamazioni di sorpresa e di gioia. Il pianto del piccolo si fa sempre più
forte. La gente si rianima, come se si sentisse liberata, e allora passa ad accalcarsi
intorno al capannello di quelli che circondano il corpo dell'infortunato.
«UHUHUHUHUHU! »
Arriva una macchina della polizia con un lampeggiante bluastro sul tetto. La gente
lascia spazio, e quattro poliziotti balzano giù. Due di loro, manganello alla mano,
fanno immediatamente arretrare la folla.
La circolazione è completamente bloccata, in entrambi i sensi di marcia si snoda
una lunga coda di veicoli di ogni tipo. Un concerto di clacson ha preso il posto degli
schiamazzi della gente. Un poliziotto si piazza al centro della strada e con le mani
guantate di bianco si mette a dirigere il traffico.
Una delle bigliettaie viene fatta scendere dall'autobus dai poliziotti, e deve
raccontare l'accaduto, anche se non sembra averne voglia; poi però raccoglie il
bambino dalle braccia della donna di mezza età che lo stava tenendo e sale sulla
camionetta modello 130. E così, sotto la direzione dei guanti bianchi, e con l'eco di
un pianto acuto, la vettura si allontana.
Alle ingiunzioni dei poliziotti coi manganelli, la folla degli astanti arretra
visibilmente, fino a formare una sorta di rettangolo, che circonda anche la bicicletta
accartocciata.
Ora sul lato della strada si può vedere la figura del conducente, si sta asciugando il
sudore con il berretto di tela che stropiccia tra le mani. Un poliziotto lo interroga, lui
tira fuori la patente da una custodia di plastica rossa, ma l'agente non la guarda.
Agitato, cerca di spiegarsi con il poliziotto.
«Cosa dire d'altro? L'ha messo sotto e basta!» grida un ragazzo che porta a mano la
bicicletta.
«Voleva ammazzarsi, quello! Non ha dato strada nemmeno al suono del clacson e
della frenata, si è quasi gettato sotto le ruote dell'autobus!» replica al ragazzo una
donna che porta dei coprimaniche, una bigliettaia appena scesa dall'autobus.
«In mezzo alla strada, in pieno giorno, un uomo che trasporta un bambino, è
impossibile non vederlo!» dice una voce incollerita tra la folla.
«Quelli che guidano, non gli interessa se ammazzano la gente, non rischiano mica
la loro vita!» sibilano alcuni.
«Poveretto! Se non avesse avuto il bambino ce l'avrebbe fatta!»
«C'è ancora qualche speranza?»
«Il cervello è tutto fuori?»
«Ho sentito come un crack...»
«Davvero, proprio un crack...»
«Avete sentito il rumore?»
«Davvero, proprio un crack.»
«Basta, zitti!»
«Ah, la gente davvero, quando è la fine è la fine...»
«Piange!»
«Chi?»
«Il conducente.»
Accoccolato a terra, a testa bassa, si copre gli occhi col berretto.
«Sì, nessuno l'ha fatto apposta...»
«Ma quando capita addosso...» «Trasportava un bambino? Dov'è, dov'è?» dice
qualcuno che è appena arrivato.
«Non si è fatto neanche un graffio, che fortuna!»
«Per fortuna almeno una vita è stata risparmiata.»
«L'adulto è morto.»
«Erano padre e figlio?»
«Probabilmente era andato a prendere il bambino al nido e stavano tornando a
casa.»
«Ecco, al nido non li tengono a pensione completa.»
«È già tanto riuscire a entrarci!»
«Che c'è da vedere? Adesso prova ancora a traversare la strada di corsa, senza
guardare...» Un uomo tira via per mano un bambino che si era mescolato tra la gente.
Anche la star di Hong Kong ha smesso di cantare. I gradini del negozio di
radioriparazioni sono affollati di gente in piedi.
Arriva un'ambulanza con il lampeggiante rosso. Barellieri in camice bianco
caricano il cadavere sulla vettura. La gente stipata sui gradini dei negozi sta tutta in
punta di piedi. Il grasso cuoco della piccola trattoria lì a fianco esce con il grembiule
arrotolato in vita a guardare il trambusto.
«Che succede? Un incidente? Hanno messo sotto qualcuno?»
«Padre e figlio, un morto!»
«Chi?»
«È morto il vecchio!»
«E il piccolo?»
«Non si è fatto niente!»
«Incredibile! Ma non era per mano al padre?»
«Il padre è riuscito a spingerlo via!»
«Si va di male in peggio, da una generazione all'altra, è come se il bambino fosse
nato per niente!»
«È meglio che chi non sa come stanno le cose non dica stupidaggini!»
«Chi sta dicendo stupidaggini?»
«Non mi sto riferendo a lei.»
«Il piccino è stato portato via!»
«Ah, c'era anche un bambino?»
Altra gente arriva sul posto.
«Non spingete, d'accordo?»
«Non l'ho mica spinta!»
«Ma che c'è da vedere? Andatevene, via!»
Fuori del capannello alcuni tirano via altri, sono quelli del Comitato di propaganda
per la sicurezza stradale, portano al braccio una fascia rossa. Sono più duri dei
poliziotti.
Il conducente viene spinto dentro la macchina della polizia. Gira la testa, si
divincola, ma la portiera si richiude. Alcuni se ne vanno a piedi, altri inforcano la bici
e si allontanano. La folla comincia a diradarsi, ma c'è ancora chi ferma la bici, chi
scende dal marciapiede. Da questo lato della strada un lungo corteo di macchine,
pulmini, jeep, camion, con il filobus in testa, scorre lentamente, passando accanto alla
carrozzina rovesciata vicino alla bocchetta dell'acqua, la coperta di tela a quadri rossi
e blu ormai ridotta a brandelli. Quelli che stavano in piedi sui gradini dei negozi sono
quasi tutti rientrati o andati via. Quando il lungo corteo si è disperso, nel capannello
ormai rado di chi ancora resta in mezzo alla strada un poliziotto prende le misure con
un metro a nastro, mentre un altro scrive qualcosa su un piccolo notes. La pozza di
sangue sotto la ruota comincia a coagulare, assumendo un colore scuro. La bigliettaia
che era rimasta sull'autobus fissa la strada, seduta sul sedile accanto al finestrino,
vicino alla portiera spalancata. Dall'altra parte, dai finestrini del filobus che arriva
dalla direzione opposta, tutte le facce stanno guardando fuori, e c'è anche chi si
sporge. E adesso che è arrivata l'ora di punta, dell'uscita dal lavoro, la circolazione si
fa più intensa, e anche i passanti sui marciapiedi e i ciclisti sono molto più numerosi,
ma vengono prontamente fermati dal divieto di andare ad accalcarsi in mezzo alla
strada, gridato dai poliziotti e dai membri del Comitato di propaganda per la
sicurezza stradale.
«Un incidente?»
«Ci sono stati morti?»
«Sicuramente, con tutto quel sangue.»
«L'altro ieri ce n'è stato uno in via Jiankang: aveva solo sedici anni, l'hanno portato
all'ospedale ma non c'è stato niente da fare, dicono fosse figlio unico.»
«Ma dove, oggi, non c'è un figlio solo?»
«Ah, ma i genitori come faranno a sopravvivere?»
«Se la circolazione stradale non è regolata bene, gli incidenti ci saranno sempre!»
«E non pochi.»
«Ogni giorno, all'uscita di scuola, fino a che il mio Zhiming non è rientrato, io ho
sempre il cuore in gola...»
«E i maschi sono meglio, le femmine danno ancora più preoccupazioni ai
genitori.»
«Dai, facciamo una foto.»
«Mi sembra già un po' tardi.»
«L'avrà fatto apposta a schiacciarlo?»
«Chissà.»
«Non mi pare che l'abbia preso di striscio, altrimenti come faceva a schiacciarlo
così?»
«Anch'io passavo di qui.»
«Alcuni conducenti guidano come pazzi, e quando attraversi non solo non ti danno
mai strada, ma tocca a te farti da parte!»
«Altri sembra lo facciano apposta ad ammazzare la gente, in caso di scontro è
morte sicura!»
«È inevitabile, è deciso dal destino. Al nostro paese c'era un carpentiere, un
bravissimo artigiano, purtroppo gli piaceva il vino. Una volta stava costruendo una
casa e una notte tornando ubriaco fradicio inciampò e il caso volle che battesse la
testa contro una pietra aguzza...»
«Da due giorni, non so perché, mi tremano le palpebre.»
«A tutti e due gli occhi?»
«Quando si cammina per strada non bisognerebbe mai pensare a queste
stupidaggini, ti ho visto più volte mentre...»
«Ma no!»
«Quando l'incidente capita è ormai troppo tardi, questo non lo sopporto!»
«Attenta! La gente ci sta osservando...»
Sono una coppia di innamorati, lanciano uno sguardo e poi se vanno tenendosi
stretti per mano.
Hanno ormai terminato di fotografare il luogo dell'incidente. Il poliziotto con il
metro a nastro sta portando della sabbia da spargere sulle macchie di sangue. Il vento
è caduto. La luce si fa sempre più tenue. La bigliettaia seduta sull'autobus accanto al
finestrino accende una luce per contare il denaro dei biglietti. Un poliziotto carica su
una vettura la carcassa della bicicletta. Due con la fascia rossa al braccio caricano
anche la carrozzina, e poi si allontanano con i poliziotti.
È già quasi ora di cena. E lì è rimasta solo la bigliettaia, in piedi accanto alla
portiera dell'autobus, che guarda impaziente, aspettando che dal capolinea mandino
un altro autista a portare via il veicolo. Tra i passanti, solo alcuni gettano uno sguardo
distratto verso l'autobus completamente vuoto, fermo in mezzo alla strada non si sa
per quale ragione. Il cielo si sta facendo sempre più scuro, e nessuno fa ormai più
attenzione alla macchia di sangue ricoperta di terra grigiastra, sotto la vettura.
Più tardi si accendono i fanali stradali e, non si sa bene quando, l'autobus viene
rimosso. Per strada la circolazione riprende regolare, come se non fosse mai successo
niente. Soltanto verso mezzanotte, quando in strada non c'è quasi più nessuno, da
lontano lampeggiano le luci dei semafori all'incrocio e, appesa a una barriera di
metallo, campeggia la scritta a caratteri bianchi su fondo blu: « PER LA FELICITÀ VOSTRA E
DI TUTTI, RISPETTATE LA SICUREZZA STRADALE!», solo allora arriva lenta un'idropulitrice
della nettezza urbana che, giunta sul luogo dell'incidente, rallenta ulteriormente, e
aumenta il getto dell'acqua per fare sparire completamente le tracce del sangue dal
manto stradale.
Il netturbino certo non sa che proprio lì qualche ora prima c'è stato un incidente, e
che un povero infelice ha perso la vita. Ma chi era il morto? In questa città di svariati
milioni di abitanti, lo possono sapere solo i suoi familiari e gli amici, e non è neppur
detto che adesso siano già al corrente, soprattutto se il morto non portava con sé alcun
documento che potesse consentirne l'identificazione. Suo figlio - lui probabilmente
era il padre di quel bambino - una volta ripresi i sensi, forse sarà in grado di dire
come si chiamasse il padre; ma allora doveva avere anche una moglie. E siccome
stava facendo una cosa che di solito tocca alla madre, doveva essere un buon padre
ma anche un buon marito. E siccome amava suo figlio, certo amava anche sua
moglie, ma la moglie lo amava? Ma se lo amava, allora perché non si prendeva tutte
le responsabilità di una moglie? Forse non aveva una vita felice, altrimenti perché era
stato così disattento? Forse era una debolezza del suo carattere questo essere indeciso
di fronte alle cose. O forse c'era qualcosa che lo turbava e lo agitava e che non
riusciva a risolvere? Così, non aveva proprio potuto evitare questa immane tragedia.
E se invece fosse uscito di casa un attimo dopo o un attimo prima o se, dopo aver
preso il bambino, avesse pedalato un po' più forte, o un po' più piano, o ancora se al
nido l'assistente si fosse attardata a dirgli due parole di più sul suo bambino, o se per
strada si fosse fermato a salutare un amico, non sarebbe andato incontro alla
catastrofe. Ma allora non era affatto inevitabile. Lui non era affetto da alcuna malattia
incurabile che ne facesse prevedere la morte. La morte è per tutti inevitabile, ma una
morte prematura si può evitare. Allora, se non fosse morto nell'incidente, come
sarebbe morto? In questa città gli incidenti sono imprevedibili, ineluttabili, non esiste
ancora una città dove si riescano a evitare. In ogni città esiste una percentuale di
morti per incidenti stradali, e anche se è di uno su un milione, in una città grande
come questa ogni giorno ci sono persone che possono andare incontro a questa
tragedia. E lui è stato proprio sfortunato. Aveva forse avuto qualche presentimento?
Che cosa aveva pensato mentre la tragedia si stava compiendo? Forse non aveva
nemmeno avuto il tempo di capire quale enorme disastro gli stava cadendo sulla testa,
la cosa più terribile che gli potesse succedere, anche se lui era soltanto uno su un
milione, piccolo come un granello di sabbia. Ma prima di morire aveva chiaramente
pensato a suo figlio - se davvero lo era - e il suo sacrificio non è sublime? E non solo
è sublime, non comporta anche un che di istintivo? L'istinto paterno. Si parla sempre
di istinto materno, ma esistono anche madri che abbandonano i figli. È sublime chi
arriva a sacrificarsi per loro, ma questo sacrificio era del tutto evitabile se lui fosse
uscito prima, o dopo, se al momento fosse stato un po' più attento, un po' meno
preoccupato, se fosse stato meno incerto, o anche un po' più rapido, pronto nel
muoversi. Tutti questi fattori sommati insieme hanno provocato la sua morte, questa
tragedia è diventata inevitabile. Noi stiamo ancora a parlare di filosofia, ma la vita
non è filosofia, anche se questa può derivare da quello che della vita si conosce. Le
statistiche non dovrebbero comprendere anche gli incidenti di macchina che capitano
nella vita, questi sono fatti che competono ai dipartimenti dei trasporti e della
pubblica sicurezza. Certo, un incidente può diventare una notizia per un giornale, o
materia per fare letteratura: con l'immaginazione si aggiungono dettagli e diventa una
storia estremamente commovente. Ma allora è invenzione letteraria. Mentre qui è
descritta soltanto la meccanica dell'incidente in sé, un incidente avvenuto per caso
alle cinque del pomeriggio, in viale Desheng, all'altezza del negozio di
radioriparazioni.

Pechino, 1983
Il crampo

Un crampo, sì, era proprio un crampo che aveva cominciato a contrargli l'addome.
Certo, pensava di poter nuotare ancora più in là . Però, arrivato a circa un chilometro
dalla riva, l'addome aveva cominciato a contrarsi per gli spasimi. All'inizio, appena
sentito il dolore allo stomaco, aveva pensato che continuando a muoversi sarebbe
passato. Ma l'addome si era indurito ancora e lui non era riuscito più a proseguire;
palpandosi il ventre aveva sentito a destra un punto duro. Era chiaro che i muscoli
addominali si erano irrigiditi a causa dell'acqua fredda. Forse non aveva fatto
abbastanza esercizi preparatori prima di tuffarsi. Dopo cena, dal piccolo edificio
bianco dell'ostello, era venuto soltanto lui su quella spiaggetta marina. Era già
autunno inoltrato, si era levato il vento, e verso sera era poca la gente che andava a
fare il bagno. Preferivano stare a chiacchierare, a giocare a carte. Di tutti i ragazzi che
riempivano la spiaggia in pieno giorno, ne restavano solo cinque o sei che giocavano
a pallavolo, una ragazza con un costume da bagno rosso, gli altri erano tutti ragazzi,
con i calzoncini da bagno ancora grondanti. Erano appena usciti dall'acqua, forse non
sopportavano il freddo autunnale. In quel tratto di mare nessuno era in acqua. Si era
tuffato all'improvviso, senza guardarsi dietro. Sperava forse che la ragazza lo
seguisse con gli occhi. Ora non riusciva già più a vederli. Girò la testa verso la luce, il
sole stava calando tra i monti, scomparendo proprio dietro la collina dove si trovava il
belvedere sul mare della Casa di riposo. Gli ultimi bagliori del tramonto erano
accecanti. Il belvedere in cima alla collina, il profilo indistinto degli alberi lungo la
riva, l'edificio a più piani della Casa di riposo che somigliava a una nave: i raggi del
sole che toccavano radenti la superficie dell'acqua increspata rendevano tutto
indistinto. Stavano ancora giocando a pallavolo? Si teneva a galla battendo i piedi.
Intorno, sulla superficie del mare verde scuro, bianchi ciuffi di schiuma e
sciabordio di onde, non c'era neppure un peschereccio al lavoro. Si voltò e si lasciò
portare dalla corrente: più al largo, in mezzo alle onde cupe, si vedeva un punto nero,
lontano. Lui affondava negli avvallamenti tra i flutti, e non vedeva più l'orizzonte,
l'acqua che si incurvava era di un nero terribile, più lucida della seta. La contrazione
dell'addome continuava ad aggravarsi. Stendendosi sul dorso si lasciò galleggiare sul
pelo dell'acqua, e mentre con la destra si massaggiava il punto indurito il dolore si
attenuò. Sopra, in cielo, c'era una nuvola che somigliava a un bioccolo di lana, il
vento lassù soffiava certo più forte.
Seguendo il flusso delle onde venne prima portato in alto e poi risucchiato verso il
basso, ma galleggiare in questo modo non era una soluzione. Doveva darsi da fare e
nuotare verso riva. Si girò di nuovo, e batté con forza le gambe per cercare di
contrastare la corrente e acquistare velocità. Ma il dolore all'addome, che si era
leggermente attenuato, cominciò di nuovo a farsi sentire con una fitta così rapida che
tutta la parte destra della pancia sembrò irrigidirsi, e all'improvviso il mare lo
sommerse del tutto. Vide solo il verde scuro dell'acqua, limpida e calma a parte il
rapido filo di bollicine provocate dal suo respiro, tirò di nuovo la testa fuori
dall'acqua, e strinse le palpebre per togliere via l'acqua tra le ciglia. E ancora non
riusciva a vedere la costa. Il sole era ormai scomparso e il cielo sopra la collina
risplendeva di colori rosati. Chissà se i ragazzi stavano ancora giocando a pallavolo?
E lei, la ragazza, quella con il costume da bagno rosso. Ed eccolo di nuovo sott'acqua,
con il ventre contratto dal dolore. Con molto sforzo riuscì ad allungare un paio di
bracciate, ma prendendo fiato aveva inghiottito anche dell'acqua salata, e al primo
colpo di tosse sentì come un ago che gli perforava la pancia. Dovette nuovamente
distendersi sul dorso, a braccia e gambe larghe. Solo così riuscì a rilassarsi, e il dolore
si attenuò subito. Il cielo sopra la sua testa si era fatto scuro. Forse stavano ancora
giocando a pallavolo? Dipendeva tutto da loro, forse la ragazza col costume rosso lo
aveva visto tuffarsi in acqua? Magari ora stavano proprio guardando il mare. E quel
punto nero dietro di lui, sul pelo dell'acqua, forse era una piccola imbarcazione,
oppure un galleggiante che aveva strappato gli ormeggi? Ma qualcuno vi avrebbe mai
fatto caso? Allora doveva proprio contare solo su se stesso. Poteva mettersi a urlare,
ma a udire il monotono, instancabile sciabordio delle onde, si sentì solo più che mai.
Per un po' ondeggiò, ma riuscì in fretta a stabilizzarsi. Ed ecco arrivare all'improvviso
una corrente gelida, insopportabile, che gli attraversò tutto il corpo, e lo trascinò via
senza che lui se ne accorgesse. Allora si girò di fianco, e mentre con la sinistra dava
qualche bracciata, con la destra si teneva la pancia; come rimise in moto le gambe
continuò a massaggiarsi, e pur avendo ancora dolore vide che riusciva a sopportarlo.
Comprese allora che doveva contare solo sulla forza delle gambe per poter uscire
fuori dalla corrente gelata. Doveva riuscire a sopportare persino l'insopportabile, era
l'unico modo per salvarsi. Ma anche a non voler drammatizzare, la situazione era che
comunque aveva il ventre in pieno spasimo, e si trovava in acque profonde a circa un
chilometro dalla costa. Anzi, non sapeva nemmeno più se era ancora quella la
distanza ma, vincendo gradualmente la corrente fredda proprio grazie alla forza delle
gambe, si accorse che stava galleggiando lungo costa. Doveva uscirne fuori,
altrimenti nel giro di un attimo poteva diventare come quel puntino nero tra le onde
che si era ormai perso nelle profondità del mare scuro. E doveva continuare a
sopportare il dolore, mantenere la calma, battere con forza le gambe, non doveva
lasciarsi andare ma neppure agitarsi, doveva coordinare le gambe, la respirazione, il
massaggio. Non doveva pensare ad altro, né farsi prendere dal panico, il sole era
calato in fretta, e la superfìcie del mare si faceva sempre più buia e lui non riusciva a
vedere le luci della costa. Anche la costa appariva ormai indistinta, e anche il profilo
della collina... Aveva urtato qualcosa! Si mise in agitazione, e il basso ventre riprese
a contrarsi tra gli spasimi. Delicatamente mosse la gamba, la caviglia in fiamme:
aveva toccato i tentacoli di una medusa. Effettivamente aveva visto nell'acqua una
massa grigiastra che sembrava un ombrello aperto, bordato di fluttuanti membrane
filamentose. Era perfettamente in grado di disegnarne una, tracciandone persino le
aperture dei tentacoli. Proprio in quei giorni, seguendo i ragazzini del luogo, si era
messo ad acchiappare meduse per metterle sotto sale. Sul davanzale esterno della sua
camera all'ostello, con l'aiuto di una pietra ne aveva appiattite sette, grattandone via i
tentacoli e cospargendole poi di sale in modo che, una volta evaporata tutta l'acqua,
sarebbero rimaste soltanto le pelli ormai secche, ma ecco che ora era lui a correre il
rischio di fare quella fine, un cadavere che forse non sarebbe riuscito neppure a
galleggiare fino a riva. Meglio lasciarle libere e vive le meduse! Pensò che se si fosse
salvato non sarebbe più andato a catturarle, una volta tornato a riva non avrebbe mai
più fatto un bagno in mare; si impegnò nel battere le gambe, mentre con la mano
destra si teneva il basso ventre, e non volle pensare ad altro, soltanto concentrarsi a
battere ritmicamente, regolarmente le gambe. Si mise a guardare le stelle, che
brillavano splendenti, e comprese che adesso stava proprio dirigendosi verso la costa.
Il nodo indurito nell'addome si era ormai sciolto, ma lui per prudenza continuava a
massaggiare, così procedeva più lento...
Quando raggiunse la riva e uscì dall'acqua la spiaggia era deserta, e la marea stava
salendo. Pensò che questo probabilmente lo aveva aiutato. Il vento soffiava sul suo
corpo nudo, e faceva più freddo che in acqua, gli vennero i brividi. Si gettò sulla
sabbia, ma anche questa ormai si era raffreddata. Allora si alzò e si mise a correre,
come per andar subito a dire agli altri che era appena sfuggito alla morte. Ma nel
salone dell'ostello la gente stava ancora giocando a carte, come prima, ognuno
osservava la faccia dell'avversario oppure le proprie carte, e nessuno lo degnò di uno
sguardo. Tornò nella sua stanza, il suo compagno non c'era, probabilmente stava
ancora chiacchierando nella stanza accanto. Prese l'asciugamano dal davanzale,
consapevole che là fuori c'erano ancora a sgocciolare le meduse che aveva battuto
con la pietra e cosparso di sale. Si vestì, infilandosi anche le scarpe per avere più
caldo, e tornò in spiaggia da solo.
Dal mare giungeva il frastuono delle onde. Il vento era ancora più forte, cavalloni
grigiastri si frangevano ritmicamente sulla riva e, appena toccava la spiaggia, la nera
acqua del mare dilagava così in fretta che lui non riuscì a evitare di bagnarsi le
scarpe. Allora si mise a camminare un po' più in alto, seguendo la costa nell'oscurità
della spiaggia. Le stelle erano sparite. Poi sentì delle voci, dei ragazzi che parlavano,
e percepì l'ombra di tre persone. Si fermò. Stavano spingendo due biciclette, sul
portapacchi posteriore di una era seduta una ragazza dai capelli lunghi. Le ruote
affondavano nella sabbia, e l'ombra che spingeva sembrava faticare non poco.
Comunque continuavano a chiacchierare e a ridere, e la ragazza che stava seduta sul
portapacchi aveva una voce particolarmente allegra e vivace. Si fermarono proprio
davanti a lui, appoggiarono le biciclette, e un ragazzo prese dal portapacchi posteriore
dell'altra bicicletta una grossa borsa e la dette alla ragazza, poi i due ragazzi
cominciarono a svestirsi. Erano magrissimi. Completamente nudi si misero a
saltellare sulla spiaggia, agitando le braccia e gridando: «Che freddo, che freddo!»
mentre la ragazza, felice, prorompeva in una cascata di fragorose risate.
«Ora beviamo?» chiese lei appoggiata alla bicicletta.
I ragazzi si avvicinarono, presero una bottiglia di liquore dalle mani della ragazza e
bevvero a turno, poi la restituirono alla ragazza, e corsero verso il mare.
«Ah!Ah!»
«Ah!»
Nel frastuono delle onde la marea continuava a salire.
«Presto, tornate!» era l'urlo acuto della ragazza, a cui rispondeva solo il rombo
della marea.
Grazie al debole riflesso di luce sull'acqua, vide che la ragazza che stava in piedi
appoggiata alle biciclette aveva due stampelle che le sostenevano il tronco.
22 dicembre 1984, sera
In un parco

«È da tanto che non venivo a passeggiare in un parco. Non ho mai tempo, e poi
non è che mi piaccia tanto.»
«Siamo tutti uguali, finito il lavoro, di corsa a casa. La vita è una corsa continua.»
«Ricordo che da bambino mi piaceva soprattutto andare al parco a fare le capriole
nell'erba.»
«Accompagnato dai tuoi.»
«Soprattutto quando ero insieme ai miei amici.»
«Certo.»
«Ma soprattutto quando c'eri anche tu.»
«Me lo ricordo.»
«Tu all'epoca portavi le trecce.»
«E tu avevi una tuta, ti davi un sacco di arie.»
«Tu eri sempre così inavvicinabile, così superba.»
«Davvero?»
«Sì, nessuno osava avvicinarsi.»
«Proprio non mi ricordo, e invece adoravo giocare con te, giocavamo insieme
anche a pallone.»
«Ma che dici, quando mai hai giocato a pallone? Tu portavi delle scarpette
bianche, e avevi sempre paura di sporcarle.»
«È vero, da piccola mi piaceva portare sempre scarpe da tennis bianche.»
«Come una principessa.»
«Proprio così, una principessa con le scarpe da tennis.»
«Poi avete cambiato casa.»
«Sì.»
«All'inizio venivi spesso da noi la domenica, poi sempre meno.»
«Ero cresciuta.»
«Piacevi moltissimo a mia madre.»
«Lo so.»
«In famiglia non c'erano femmine.»
«Dicevano tutti che ci somigliavamo come fratello e sorella.»
«Non dimenticare che siamo nati lo stesso anno, io due mesi prima.»
«Io però sembravo più grande di te, ero più alta di almeno un palmo, come una
sorella più grande.» «A quell'età le femmine crescono più in fretta. Basta, parliamo
d'altro!»
«Di che?»
Sotto gli alberi del viale erano piantate siepi di cipresso ben potate, e sulla discesa
dietro la siepe c'era una ragazza con la gonna, una borsetta rossa al braccio, seduta su
una panca di pietra.
«Sediamoci anche noi.»
«Va bene.»
«Il sole sta per tramontare.»
«Sì, è bellissimo.»
«Non mi piace questa bellezza in un ambiente costruito dall'uomo.»
«Ma non hai appena detto che adoravi venire al parco?»
«Sì, da piccolo, poi ho vissuto tra le montagne, per sette anni sono stato boscaiolo,
in mezzo a foreste vergini.»
«Ma ce l'hai fatta.»
«La foresta è dura.»
La ragazza con la gonna si alza dalla panca, e si mette a guardare verso l'imbocco
del viale, oltre le siepi di cipresso perfettamente potate. Ci sono alcune persone che
stanno arrivando, tra cui un ragazzo alto, con i capelli lunghi sulle tempie. La luce
della sera, di un rosso carico, un rosso che dà sul viola, pervade il cielo oltre le cime
degli alberi e delle mura di cinta, e si diffonde sulle teste seguendo le forme sinuose
delle nuvole.
«È da tanto che non vedevo un tramonto così bello, sembra stia prendendo fuoco.»
«È come un grande incendio.»
«Come?»
«Un grande incendio nella foresta...»
«Parla, parlane ancora.»
«Quando la foresta prendeva fuoco il cielo era proprio come adesso, il fuoco si
diffondeva con una tale velocità e violenza che non riuscivamo neppure più a tagliare
gli alberi: era terribile, le piante abbattute venivano proiettate in aria, da lontano
sembravano pagliuzze di riso che volteggiavano in mezzo al fuoco. I leopardi
schizzavano a terra, come impazziti, si gettavano nel fiume e nuotavano verso gli
uomini.»
«Ma i leopardi non attaccano l'uomo?»
«Non ci guardavano nemmeno più.»
«Non potevate sparargli?»
«Anche noi eravamo inebetiti dal terrore, tutti in riva al fiume, a guardare
impietriti.»
«Non c'era proprio scampo?»
«Anche il torrente non costituiva più una barriera, persino i tronchi degli alberi
dell'altra riva avevano preso fuoco, e risuonavano di scricchiolii e di schiocchi mentre
cominciavano a bruciare. Il fumo e le fiamme avevano completamente invaso tutto,
per chilometri, e l'aria era irrespirabile. Bisognava solo aspettare che il vento girasse
o che il fuoco arrivasse fino al fiume per perdere di vigore e spegnersi naturalmente.»
La ragazza con la gonna si era seduta di nuovo sulla panca di pietra, con accanto la
sua borsetta rossa.
«Raccontami ancora di cosa ti è capitato in quegli anni.»
«Non c'è un granché da dire.»
«Ma come? Hai appena detto cose molto interessanti.»
«No, non mi sembra valga la pena parlare ora di tutto questo. Dimmi tu piuttosto
che cosa hai fatto in quel periodo.»
«Io?»
«Sì, tu.»
«Ho una figlia.»
«Quanti anni ha?»
«Sei.»
«Ti somiglia?»
«Sì, dicono tutti di sì.»
«Somiglia a te quando eri piccola? Porta scarpe da tennis bianche?»
«No, le piacciono le scarpe di cuoio. Il padre gliene compra un paio dopo l'altro.»
«Devi essere proprio felice. È una brava persona?»
«Sì, con me sì. Ma non so se sono felice.»
«Sei soddisfatta anche del lavoro, no?»
«Sì, rispetto ad altri della mia età, non è male: sto in ufficio, seduta alla scrivania,
rispondo al telefono e trasmetto i documenti in direzione.»
«Fai la segretaria?»
«Sono archivista.»
«È un lavoro delicato, si fidano di te.»
«Meglio che fare l'operaia. Ma tu non avevi fatto di tutto per andartene? Hai fatto
l'università, sei diventato un tecnico, no?»
«Sì, finalmente, dopo molti sforzi, ce l'ho fatta.»
I bagliori del tramonto sono ormai svaniti, lasciando un colore rosso cupo, solo
all'orizzonte brilla una lama di luce giallo pallido che si intravede in cima agli alberi,
tra i contorni di un festone di nuvole nere. Sulla discesa, il bosco è ormai in
penombra. La ragazza siede a testa bassa sulla panca di pietra, sembra guardare
l'orologio, poi si alza, prende la borsetta, quindi la rimette sulla panca, guardando di
nuovo il viale oltre la siepe di cipressi, evidentemente si è accorta della luna tra le
nuvole, si volta e si incammina, a testa bassa, misurando il passo.
«Sta aspettando qualcuno.» «Aspettare non è piacevole. Ora sono i ragazzi a non
rispettare gli appuntamenti.»
«In città ci sono più ragazze, vero?»
«Ma anche i ragazzi non mancano. Il punto è che sono pochi quelli perbene.»
«Lei è proprio carina.»
«La ragazza che si dichiara per prima non sarà mai felice.»
«Arriverà?»
«Chissà. È questo che logora i nervi.»
«Per fortuna abbiamo ormai superato quell'età. Hai mai aspettato qualcuno?»
«Era sempre lui che mi cercava. E tu, ti sei mai fatto aspettare?»
«Non ho mai mancato un appuntamento.»
«Ora hai una compagna?»
«Direi di sì.»
«E perché non vi sposate?»
«Può darsi.»
«Forse non ti piace davvero.»
«Mi fa pena.»
«La pena non è amore. Se non la ami non devi prenderla in giro così!»
«Prendo in giro solo me stesso.»
«No, anche l'altra persona.» «Non parliamone.»
«Va bene.»
La ragazza si è di nuovo seduta. All'improvviso si rialza guardando verso il viale
che ormai non si distingue quasi più, all'orizzonte si riesce appena a intravedere
l'ultimo tocco di rosso. Si risiede. Quasi si fosse accorta che qualcuno la sta
guardando, abbassa la testa, come per sistemarsi la gonna sulle ginocchia.
«Dici che arriverà?»
«Chissà.»
«Non si fa così!»
«Ci sono tante cose che non si dovrebbero fare.»
«È bella la tua ragazza?»
«Fa molta pena.»
«Non devi adoperare queste parole! Se non l'ami, non prenderla in giro, trovati una
ragazza che ti piaccia davvero. Che sia giovane e carina.»
«Una bella ragazza non guarda certo me!»
«Perché?»
«Io non ho un padre importante.»
«Non dire queste parole, mi rifiuto di ascoltarti!»
«Non ascoltarmi allora! Forse è meglio se ce ne andiamo.»
«Vieni da me?» «Forse dovrei portare un regalo per tua figlia, per mostrarmi
educato con te.»
«Ma non dire così.»
«Che cosa ho detto di sbagliato?»
«Continui a fare del sarcasmo su di me.»
«Non ne avevo intenzione.»
«Ti auguro di essere felice.»
«Detesto questa parola.»
«Allora non sei felice?»
«Non voglio continuare a parlare di questo. In questi anni per tutti noi non è stato
facile incontrarsi, non dirmi cose così deludenti!»
«Allora d'accordo, parliamo d'altro!»
A un tratto la ragazza si alza; alla fine del viale avanza a grandi passi l'ombra di un
uomo.
«Eccolo, finalmente!»
È un ragazzo che porta una cartella di tela, ma oltrepassa la ragazza senza fermarsi
e se ne va. Lei si volta dall'altra parte.
«Non è lui che stava aspettando. Succede spesso, è curioso, no?»
«Si è messa a piangere.»
«Chi?»
La ragazza si siede, col viso tra le mani, come per nascondersi; nel bosco sul
pendio l'oscurità è ormai tale da rendere tutto indistinto. Si sente un cinguettio di
passeri.
«Ci sono ancora degli uccelli?»
«Ormai sono solo nelle foreste.»
«Sono passeri.»
«Sei diventato arrogante.»
«Lo sono sempre stato. Se non avessi mantenuto la mia arroganza oggi non sarei
qui.»
«Non dovresti essere così astioso nei confronti degli altri, non sei tu l'unico ad
avere sofferto, siamo dovuti tutti andare in campagna, dovresti capirlo: una ragazza
che viene spedita in campagna, senza parenti né amici, ha molte difficoltà in più
rispetto a voi uomini. Io mi sono sposata proprio perché non avevo una scelta
migliore. Sono stati i suoi genitori a trovare il modo per farmi tornare in città.»
«Non ti ho mica rimproverata.»
«Non ne avresti alcun diritto!»
«Nessuno ha il diritto di rimproverare nessuno.»
Si accendono i lampioni, tra il verde fogliame degli alberi compare una luce
giallastra.
Sulla città, nel nebuloso grigiore del cielo notturno, anche il brillìo delle stelle è
velato, indistinto. Invece la luce dei lampioni in mezzo alla boscaglia sembra perfino
troppo forte.
«Credo che dovremmo proprio andare.»
«Sì, non dovevamo venire qui.»
«La gente crederà che siamo due innamorati. Se tuo marito lo sapesse potrebbe
pensare male?»
«Non è il tipo.»
«Allora è proprio in gamba.»
«Potresti venire a trovarci.»
«Se è lui a invitarmi.»
«Se ti invito io non è uguale?»
«Peccato non sapessi il tuo indirizzo, per questo ti ho cercato al lavoro. Altrimenti
sarei venuto direttamente a farti visita a casa.»
«Non usare questo tono.»
«Sì, smettiamola di parlare a vanvera!»
«Ma sei tu che mi provochi.»
«Scusami, non l'ho fatto apposta.»
«Parliamo d'altro, allora.»
«Va bene.»
Il bosco è ormai immerso nella completa oscurità, e della ragazza non si distingue
neppure il profilo. Il fogliame dei pioppi bianchi, per il riflesso della luce dei
lampioni, appare di un verde luminosissimo, quasi fosforescente. Spira un vento
leggero. Le foglie dei pioppi bianchi tremolano delicatamente, lucide come una
superficie di raso.
«La ragazza non se n'è ancora andata, vero?»
«No, è appoggiata a un albero.»
A qualche passo dalla panca di pietra ormai vuota c'è un albero dal tronco
massiccio, e proprio lì è appoggiata una figura umana.
«Che cos'ha?»
«Sta piangendo.»
«Non ne vale la pena!»
«Perché?»
«Non vale la pena che pianga per lui. Di sicuro potrà trovare qualche bravo
ragazzo che le vuol bene, un uomo che valga la pena di amare. Deve solo andarsene.»
«Lei spera ancora.»
«In fin dei conti il cammino della vita è vasto, e lei potrà certo trovare la propria
strada.»
«Non credere di poter capire tutto, tu non capisci proprio nulla del cuore delle
donne. Niente è più facile per un uomo che ferire una donna. Le donne sono esseri
deboli.»
«Ma se sanno di esserlo perché non imparano a essere un po' più forti?»
«Queste sono proprio belle parole.»
«Non bisogna cercarsi altri guai. I guai nella vita sono già abbastanza. Bisogna
solo pensare a uscirne fuori.»
«Sono tante le cose che bisogna fare.» «Voglio dire che la gente deve fare solo il
proprio dovere.»
«Stai parlando a vuoto.»
«È proprio così, non dovevo venirti a cercare.»
«Un'altra frase inutile.»
«Giusto, meglio andarcene. T'invito a cena.»
«Non ho proprio fame. Non potremmo parlare d'altro?»
«Di che?»
«Parliamo un po' di te.»
«Meglio parlare dei più giovani. Come si chiama tua figlia?»
«Prima speravo di avere un maschio.»
«Ma una femmina è lo stesso!»
«No, i maschi quando sono grandi non devono soffrire tanto.»
«In avvenire la gente soffrirà di meno perché noi abbiamo pagato per loro.»
«Sta piangendo.»
Si riesce a sentire soltanto il leggero fremere delle foglie alla brezza; ma in mezzo
a questo fremito è come se ci fosse una sorta di singhiozzo che si diffonde dal tronco
dietro la panca di pietra.
«Bisognerebbe andare a consolarla.»
«Non c'è modo di consolarla.»
«Ma almeno provarci.»
«Va', allora.»
«Queste cose vanno bene solo se le fanno le donne.»
«Non è questa la consolazione che le serve.»
«Non capisco.»
«Tu non capisci proprio nulla.»
«Forse è meglio.»
«Capire troppo diventa un peso.»
«Ma allora perché vorresti andare a consolarla? Faresti meglio a consolare te
stesso.»
«Che vuoi dire?»
«Tu davvero non capisci i sentimenti degli altri. Se divengono un peso, allora
meglio non capire.»
«Andiamo!»
«A casa mia?»
«Inutile.»
«Ci separiamo così?»
«Ma non ti avevo invitato a cena domani a casa mia? Ci sarà anche lui.»
«Credo sia meglio se non vengo. Che ne dici?»
«Come preferisci.»
Nell'oscurità, l'eco dei singhiozzi si fa sempre più distinto. Sono sussulti trattenuti,
che si mescolano al frusciare delle foglie che tremolano al vento leggero.
«Quando mi sposo ti scriverò.»
«Meglio di no.»
«Forse tornerò a trovarti se passo di qui per lavoro.»
«Meglio di no.»
«Sì, è stato proprio uno sbaglio.»
«Che cosa?»
«Non avrei proprio dovuto tornare a trovarti.»
«No, non è vero.»
«Tu e io non abbiamo colpa, l'errore è di quegli anni. Ma ormai è tutto passato,
dobbiamo imparare a dimenticare.»
«Per me è difficile dimenticare tutto.»
«Forse, col tempo...»
«Ora va'!»
«Non vuoi che ti accompagni all'autobus?»
Si alzano entrambi. L'eco dei singhiozzi trattenuti, ma ormai inarrestabili, giunge
dalla panca di pietra vuota che si distingue a malapena dietro il tronco nerastro, la
figura della persona non si riesce a vedere.
«Forse sarebbe meglio se andassimo a consigliarle di tornare a casa?»
Nell'alone luminoso dei lampioni, si agitano appena le foglie nuove, verde tenero,
dei pioppi, simili a morbido raso di seta.

Pechino, 24 aprile 1983


Una canna da pesca per mio nonno

Ero passato davanti a un negozio di articoli da pesca appena aperto, dove erano
esposte canne di ogni tipo; mi era venuto in mente il nonno, e avevo pensato di
regalargliene una. C'era, particolarmente in evidenza, una canna d'importazione in
fibra di vetro, scomponibile in dieci segmenti, ma non capivo se fosse la canna o la
fibra di vetro a essere importata, e nemmeno perché questa canna fosse migliore delle
altre, insomma, i dieci segmenti si innestavano l'uno dentro l'altro, per arrivare a
rimpicciolirsi tutti dentro l'ultimo tubo di colore nero, il quale a una estremità aveva
un'impugnatura a calcio di pistola, sulla quale era fissato il mulinello del filo da
pesca. Somigliava a una pistola dalla canna allungata, o anche a una Mauser ultimo
tipo. Una Mauser il nonno di sicuro non l'aveva mai vista, e neanche per sogno
sarebbe mai riuscito a immaginarsi l'esistenza di una simile canna, quelle che aveva
lui erano tutte di bambù, mai comprate, erano canne che lui trovava non si sa bene
dove, di bambù ritorto, che da sé lavorava sul fuoco fino a che gli si bruciavano le
mani, così i rami ingialliti dal fumo si raddrizzavano e finivano per somigliare a
vecchie canne da pesca ereditate da generazioni di pescatori.
Il nonno si faceva da solo anche le reti, e anche per un retino doveva intrecciare
decine di migliaia di nodi, giorno e notte annodava senza fermarsi, ogni tanto
muoveva le labbra, e non si capiva se stesse contando le maglie o dicendo le
preghiere, contando o pregando, insomma passava più tempo lui con le reti che mia
madre col lavoro a maglia, ma non riesco a ricordare se mai avesse pescato un pesce
degno di questo nome, di solito prendeva pesciolini buoni per i gatti.
Quando ero piccolo - le cose di allora le ricordo tutte - se veniva a sapere che
qualcuno andava in città, voleva che gli comprasse degli ami, come se i pesci
abboccassero solo agli ami comprati in città, e ricordo che continuava a borbottare
che in città si vendevano canne da pesca che avevano il mulinello, e quando si era
lanciato l'amo ci si poteva tranquillamente mettere a fumare in attesa che in cima alla
canna suonasse un campanellino, e gli sarebbe piaciuto proprio tanto averne una così,
fissarla a terra mentre lui poteva tirar su le mani e arrotolarsi una sigaretta, il nonno
non aveva mai fumato sigarette già confezionate, che disprezzava profondamente, le
chiamava «fumo di carta», secondo lui dentro c'erano soprattutto erbacce, e sapevano
di poco. Ora, qui, rivedo ancora le sue dita, simili agli artigli di un vecchio gallo,
sbriciolare nel palmo della mano le foglie secche del tabacco finché diventavano
polvere, e allora strappava un pezzo di giornale vecchio e lo arrotolava con la punta
delle dita, lo inumidiva con un po' di saliva ed ecco pronto quello che lui chiamava
«arrotolarsi un cannone», il gusto di quelle foglie di tabacco doveva essere davvero
forte, perché il nonno continuava a tossire, ma seguitava imperterrito ad arrotolare,
lasciando per la nonna le sigarette confezionate che gli venivano offerte.
Ricordo che sono stato proprio io, cadendo, a spaccargli la sua canna preferita,
stavamo andando insieme a pescare, io mi ero offerto di portargli la canna e,
tenendola in spalla, correvo davanti a lui quando in un attimo di distrazione scivolai a
terra e la canna volò fin dentro la finestra di una casa, e il nonno dal dispiacere poco
mancò che si mettesse a piangere, accarezzava la sua canna spezzata, e sembrava la
nonna quando carezzava la sua stuoia tagliata, quella stuoia di striscioline di bambù
intrecciate, sulla quale in casa si dormiva da non so quanti anni, era come quella
canna da pesca, ormai diventata bruna come agata, e la nonna non mi ci faceva
dormire sopra perché diceva che mi sarebbe venuta la diarrea, lei però ci dormiva, e
affermava che quella stuoia si poteva persino piegare, io ci avevo provato di nascosto,
ma dove l'avevo piegata si era tagliata, io naturalmente non avevo osato dirlo alla
nonna, avevo solo detto che non credevo che la stuoia si piegasse, ma lei, dura,
continuava a dire che quella era una stuoia di corteccia verde di bambù che si poteva
piegare, io non volevo discutere con lei, era vecchia, mi faceva anche un po' pena, se
lei diceva che si poteva piegare allora doveva aver ragione, anche se dove si piegava
era tagliata, e ogni estate i tagli si allargavano di più, ma lei continuava ad aspettare
l'arrivo del riparatore di stuoie, erano anni che aspettava ma lui non era mai venuto,
io allora dicevo che ormai non si trovava più chi sapesse fare queste cose, e non
valeva la pena aspettare tanto, era meglio comprarne una nuova, ma la nonna non era
affatto d'accordo, pensava che una stuoia più vecchia era meglio era, proprio come
lei, la nonna, che più invecchiava e più si addolciva, e amava chiacchierare ripetendo
sempre le stesse cose, mentre il nonno era il contrario, più invecchiava e più si faceva
taciturno, magro, come un'ombra che si aggirava senza rumore, solo la notte tossiva e
tossiva, senza mai smettere, e io avevo paura che un giorno o l'altro non sarebbe più
riuscito a riprendere fiato, ma lui continuava sempre a fumare quelle foglie di tabacco
sbriciolate, tanto che aveva la pelle del viso e le unghie dello stesso colore del
tabacco, e lui stesso andava sempre più somigliando a una foglia di tabacco secca,
sottile e friabile, che poteva sbriciolarsi solo a toccarla inavvertitamente.
Lui però non era solo un pescatore, gli piaceva anche andare a caccia, e possedeva
persino un fucile perfettamente oliato, aveva trovato qualcuno che glielo aveva
fabbricato usando una canna di acciaio temperato, certo era stato un grosso favore
che lui aveva dovuto chiedere e richiedere per almeno sei mesi, io però lo ricordo
solo una volta tornare a casa con una lepre, era entrato e aveva gettato sul pavimento
della cucina una grossa lepre dal pelo giallo, si era tolto le scarpe, chiedendo alla
nonna di scaldare dell'acqua per immergerci i piedi, poi si era messo a sminuzzare le
foglie di tabacco dentro il sacchetto, mentre io e Nero, il cane di casa nostra,
giravamo eccitatissimi intorno alla lepre morta, chi avrebbe mai immaginato che mia
madre entrando avrebbe gridato: presto, gettate via questa lepre morta, perché
cacciare questa roba? Il nonno aveva appena balbettato qualcosa che la mamma lo
aveva aggredito: se vuoi mangiare del coniglio, non devi fare altro che andare per
strada dove li vendono già spellati! Da allora mi sono reso conto che il nonno era
proprio diventato vecchio, quando la mamma non c'era lui vantava l'acciaio tedesco,
se avesse avuto un fucile da caccia con la canna in acciaio tedesco allora sì che
avrebbe potuto abbattere bestie feroci, e non solo conigli.
Il nonno diceva che un tempo, tanto tempo prima, sulle colline intorno alla città
c'erano ancora i lupi che, soprattutto all'arrivo della primavera quando cominciava a
crescere l'erba nuova, stremati dalla fame di un intero inverno, non esitavano a
penetrare nei villaggi a rubare maiali o a sbranare mucche, e che una volta erano
persino arrivati a sbranare una pastorella, e della piccola non erano rimaste che due
treccine, allora sì che ci sarebbe voluto un bel fucile in acciaio tedesco, mentre a lui
non restava più nemmeno quel fucile rudimentale che si era fatto fabbricare apposta
con la canna d'acciaio, perché quando durante la rivoluzione avevano bruciato i libri,
avevano anche detto che quella era un'arma pericolosa, e gliel'avevano portato via, e
lui seduto sullo sgabello aveva guardato con occhi impassibili, senza aprire bocca, e
quando ci ripenso non posso non provare tristezza per il nonno, avevo persino
pensato di comprargli un bel fucile da caccia, fabbricato in Germania, ma non se ne
trovavano, solo una volta, in un reparto di articoli sportivi avevo visto una doppietta,
ma mi avevano detto che era solo un articolo dimostrativo e che per comprarlo
bisognava esibire una lettera di presentazione del Comitato provinciale per lo sport e
l'autorizzazione della Pubblica Sicurezza, e allora avevo deciso che gli potevo solo
comprare una canna da pesca, anche se sapevo benissimo che ormai, anche con quella
canna d'importazione, telescopica e in fibra di vetro, laggiù non si sarebbe più potuto
pescare, perché ormai da anni casa nostra era diventata una landa di sabbia.
In origine, non lontano da casa c'era un lago, ricordo che casa nostra era in via
Lago del Sud. Quando andavo a scuola passavo più volte lungo la riva del lago, e
quando, finite le elementari, cominciai le medie, non so come mai il lago si era
trasformato in uno stagno di acqua fetida in cui proliferavano solo le zanzare ma i
pesci non c'erano più, e poi era stato promosso non so quale provvedimento per
l'igiene, ed era stato definitivamente ricoperto di terra.
E certo, ricordo benissimo che c'era anche un fiume, ma ho l'impressione fosse in
un luogo selvaggio e desolato, lontano dalla città, ricordo che in tutta la mia infanzia
ci sarò andato solo una o due volte, e quando il nonno era venuto a trovarmi mi aveva
detto che sul corso superiore del fiume avevano costruito una diga e quindi il fiume
era ormai secco, però io pensavo ancora di comprare una canna da pesca al nonno,
non so dire perché, né voglio saperlo, insomma era un mio desiderio, come se la
canna da pesca fosse il nonno, e il nonno la canna da pesca.
Così, con la canna in spalla mi incamminai per il viale, i segmenti di fibra di vetro
tutti ben inseriti l'uno sull'altro, ma così mi sembrava che tutti mi guardassero, e
siccome un uomo come me non ama farsi notare, pensai di prendere l'autobus per non
rimanere in strada sotto gli sguardi di tutti, però non riuscii a smontare i dieci
segmenti della canna, io detesto essere sottoposto agli sguardi degli altri, fin da
piccolo sono sempre stato terribilmente timido, mi sento particolarmente a disagio
quando ho indosso abiti nuovi, mi stringono, mi sento come un manichino dentro una
vetrina, sono goffo nei movimenti, tanto più allora, mentre portavo in spalla quella
canna nera e lucida, lunghissima e ondeggiante; affrettai il passo, ma la canna si mise
a ondeggiare ancor di più, e allora non potei far altro che rallentare, sempre con la
canna in spalla, e guardarmi intorno nel bel mezzo della strada, imbarazzato come se
avessi il cavallo dei pantaloni scucito, o la cerniera rotta.
So bene che in città i pescatori non vanno certo a cercare pesci ma, comprandosi
una licenza per pescare nei parchi, cercano la calma e l'ozio, e ne approfittano per
scappar via di casa, sottrarsi alle mogli e ai figli, e starsene tranquilli in totale
contemplazione, certo so anche che la pesca oggi viene considerata uno sport, si
organizzano competizioni, e sui giornali della sera si tiene gran conto di tali eventi, si
pubblicano i risultati per categoria, vengono stabiliti in anticipo i luoghi, ma se ci si
va subito dopo una gara e non si vede nemmeno l'ombra di un pesce, non è strano si
faccia del sarcasmo, anche se dicono che la sera prima della competizione i membri
del Comitato per la pesca avevano gettato in acqua reti piene di pesci vivi, e di sicuro
i partecipanti li avranno pescati, saranno già tutti nelle reti, e io portando in spalla
quella canna nuova fiammante pensavo di sicuro la gente crederà che anch'io sono
diventato un maniaco delle gare di pesca, mentre so che cosa penserebbero a casa se
portassi una canna come questa, vedo già la schiena incurvata del nonno, che si tira
subito su, e tiene in mano un secchiello di metallo arrugginito in cui mettere vermetti
umidi di terra, e penso che questa volta devo proprio approfittare e tornare a casa,
proprio per fugare la nostalgia.
Prima di tutto, però, devo trovare un posto dove sistemare la canna, se mio figlio,
che è un bambino, la vede, ci vorrà assolutamente giocare e la romperà, e allora: che
l'hai comprata a fare? In casa si sta stretti, dove si potrà metterla? Sento già mia
moglie che si lamenta, posso solo sistemarla in bagno, sopra lo sciacquone, dove mio
figlio non riuscirà mai ad arrivare neanche arrampicandosi su uno sgabello,
comunque devo assolutamente tornare a casa per cercare di dissipare quella nostalgia
che, quando prende, non vuole più andarsene, ed ecco che d'improvviso si sente un
gran baccano, io penso sia mia moglie che in cucina taglia la carne, e invece la sento
gridare, ma come, perché non vieni a vedere? E anche io sento venire dal bagno il
pianto di mio figlio, e capisco che la canna ha provocato un disastro, ed ecco che ho
preso la decisione, bisogna assolutamente portare la canna al paese.
Ma il paese è ormai quasi irriconoscibile, la strada grigia e polverosa è stata
asfaltata, e le case sono diventate tutte uguali, fatte con elementi prefabbricati, le
donne per strada, vecchie e giovani, portano tutte il reggiseno e indossano abiti così
leggeri che sembrano quasi voler mostrare di proposito la biancheria intima, i tetti
sono tutti muniti di antenne, segno che nelle case hanno la televisione, e quelli che
non hanno l'antenna è come se avessero un'anomalia congenita, certo tutti vedono gli
stessi programmi, dalle sette alle sette e mezza le notizie dall'interno, dalle sette e
mezza alle otto quelle dall'estero, dalle otto alle nove cortometraggi televisivi più la
pubblicità, dalle nove alle nove e un quarto le previsioni del tempo, dalle nove e un
quarto alle nove e quarantacinque lo sport, dalle nove e quarantacinque alle dieci la
pubblicità e un programma musicale, dalle dieci alle undici un vecchio film, certo
non c'è il film tutti i giorni, veramente il lunedì, il mercoledì e il venerdì c'è il
teleromanzo, il film è il martedì, il giovedì, il sabato e solo il fine settimana c'è un
programma culturale che dura fino a mezzanotte, ma la cosa più rimarchevole sono
tutte quelle antenne, è come se sui tetti fosse cresciuta una piccola foresta, e dopo il
passaggio di un vento gelato fossero cadute tutte le foglie e fossero rimasti soltanto i
tronchi e i rami completamente spogli, ed è come se tu ti fossi perduto in questa
foresta, e cerchi qua e là, ma non arrivi a ritrovare la strada di casa.
Ricordo, ogni giorno sulla strada che portava a scuola si doveva traversare un
ponte di pietra, a sinistra del ponte c'era un lago dalle acque sempre un po' mosse,
anche se non c'era vento, perciò pensavo che le onde fossero provocate dalle pinne
dorsali dei pesci, non avrei mai immaginato che tutti i pesci di quel lago sarebbero
morti, che quelle acque limpidissime sarebbero diventate fetide, e che quello stagno
putrido sarebbe poi stato coperto di terra, e così io non sarei più riuscito a trovare la
strada di casa.
Domandai allora dove fosse via Lago del Sud, ma la gente mi guardava con
stupore come se non avesse capito quel che avevo detto, io riuscivo ancora a parlare
il dialetto del paese, bastava che mi rivolgessi alla gente del luogo per prenderne
immediatamente la cadenza, noi abbiamo l'abitudine di chiamare «signore» (laoye) il
nonno paterno, e se voglio indicare «mio» nonno, il termine wo (io/mio) è un misto
tra una gutturale e una prepalatale, e chi viene da fuori pensa somigli a «e (oca)
signore/nonno», allora e «io/ e (oca)» ho domandato la strada proprio pronunciando
in questo modo, tra una gutturale e una prepalatale, ma nei loro sguardi non sono
riuscito a cogliere il calore di chi ritrova un compaesano, solo quando ho fermato due
ragazze per chiedere di nuovo loro si sono messe a ridere, e «io / e (oca)» non capivo
perché, ma loro per il gran ridere non riuscivano a rispondermi, e gli è venuta la
faccia rossa come un pezzo di stoffa, voglio dire che sono tanto arrossite non certo
perché portassero il reggiseno, ma perché dicendo io «Via Lago del Sud», Sud (Nan)
l'avevo detto ancora con quel suono tra gutturale e prepalatale, più tardi avevo
incontrato un uomo di mezza età al quale chiesi dove si trovasse il lago, perché una
volta trovato il lago avrei ritrovato anche il ponte di pietra e quindi la Via Lago del
Sud. E una volta trovata la strada avrei sicuramente ritrovato la mia casa.
Lago, quale lago? Il lago interrato, ah, quel lago, quello interrato, è proprio qui, e si
mise a battere il piede per terra, prima proprio qui sotto c'era un lago, noi ora siamo
proprio sul fondo del lago, ma da queste parti non c'era un ponte di pietra? Ma non
hai visto la grande strada asfaltata? Il ponte di pietra è stato demolito per costruirne
uno in cemento armato, è chiaro, è tutto chiaro, quel che c'era prima è ormai
scomparso, e ovviamente non ha più senso chiedere ancora dei vecchi nomi delle
strade, e dei numeri, devi contare solo sulla memoria.
Ricordo, era un cortile all'antica, in uno stile piuttosto ricercato, con l'ingresso
schermato da un paravento in muratura nel mezzo del quale erano incisi i caratteri
«felicità», «fortuna», «lunga vita», «gioia», c'era anche il ritratto di un Vecchio
patrono della longevità a cui era caduta via mezza testa, appoggiato a un bastone con
una testa di drago e, anche se ormai era in gran parte indistinta, noi da piccoli
sapevamo benissimo essere davvero una testa di drago quella a cui si appoggiava il
Vecchio patrono della longevità, non si poteva sbagliare, su quella parete c'era anche
un cervo pezzato, le cui macchie erano ormai sbiadite, quei buchi sul suo manto
erano di fatto le macchie, e quando entravamo o uscivamo ci piaceva toccargli le
corna che col nostro tocco avevamo ormai reso lisce e lucenti. Il cortile era diviso in
due, nella parte posteriore vivevano i proprietari, che erano falliti, e avevano una
bambina, Zaowa, che quando guardava le persone spalancava gli occhi in modo un
po' curioso, ma comunque gradevole.
Insomma, questo cortile era esistito davvero, e davvero c'erano alcuni alberi di
giuggiole piantati dal nonno, e agli spioventi del tetto erano appese delle gabbie in cui
il nonno allevava degli uccellini, un tordo e anche un merlo canterino, ma mia madre
pensava facesse troppo baccano e allora il nonno l'aveva subito venduto,
sostituendolo con un passero di montagna dalle guance rosse, che però era morto di
rabbia, il passero di montagna è molto irritabile, non si dovrebbe allevare in gabbia, il
nonno diceva che del passero gli piacevano le guance rosse, ma la nonna lo sgridava
perché alla sua età 1 era proprio senza ritegno, ricordo tutto benissimo, il cortile era al
numero 10 di via Lago del Sud, ma ho paura che ormai sia il numero sia la strada
siano cambiati, però non potevano aver distrutto questo bel cortile allo stesso modo
dello stagno fetido, e io chiedevo e richiedevo, cercavo qua e là, tra una strada e
l'altra, un vicolo dopo l'altro, era come se mi stessi rovesciando le tasche per tirarne
fuori anche l'ultima briciola senza trovare nulla, ero ormai scoraggiato, e trascinavo le
gambe senza forza, quasi non appartenessero al mio corpo.
D'improvviso qualcosa mi balenò in mente, e mi ricordai del tempio
dell'Imperatore Guan; si trovava nella direzione opposta alla scuola, sulla strada che
facevamo quando mia madre mi portava al cinema, e bisognava attraversare proprio il
vicolo del tempio dell'Imperatore Guan, bastava allora trovare il tempio e non
sarebbe stato difficile localizzare anche la posizione di casa mia, quindi dovevo
chiedere del tempio.
Ah, cerchi il tempio dell'Imperatore Guan? A che numero? Questo dimostrava che
il tempio era ancora in piedi, e poi avevo incontrato una persona gentile, che mi
chiedeva persino il numero, ma io non fui pronto a rispondere perché non me lo
ricordavo, e quasi balbettando dissi che volevo solo sapere se questo posto esisteva
ancora. Ma come può sparire un luogo? Lei chi cerca? La casa di chi? La persona
chiedeva in modo sempre più preciso, forse pensava fossi un cinese d'oltremare
venuto a cercare le proprie radici? Oppure uno che faceva ritorno a casa dopo anni di
silenzio? Dovevo soltanto spiegarmi, noi allora vivevamo in una casa d'affitto, la casa
non era dei nonni, come si chiamava il proprietario? Mi ricordavo solo che aveva una
figlia che si chiamava Zaowa, ma certo non potevo rispondergli così, e l'altro
vedendomi balbettare si è come fatto più scuro in volto, e lo sguardo di simpatia che
gli brillava negli occhi si è raffreddato, mi ha squadrato per bene, chiedendosi se
doveva segnalare la mia presenza alla polizia.
Se cerchi il numero 1 devi andare avanti, è la prima stradina a sinistra a sud della
strada grande, se cerchi il 37 devi girare di là e prendere la seconda stradina, dopo
circa cento passi ne attraversi un'altra, continui dritto ed è a sinistra sul lato nord della
strada, mi affrettai a ringraziarlo, e poi mi sentii sulla schiena il suo sguardo
penetrante.
Continuai ad avanzare fino a quando non trovai la prima stradina a destra, e ancor
prima di imboccarla vidi una targa stradale blu, nuova di zecca, proprio sopra la targa
rossa del gabinetto pubblico per uomini, capii senza ombra di dubbio che era proprio
il tempio dell'Imperatore Guan, ma non corrispondeva affatto alle mie vecchie
impressioni dell'infanzia, entrai nella stradina, proprio per mostrare che ero venuto
solo a cercare la vecchia casa e non altro, ma non avevo alcun bisogno di ispezionare
dal numero 1 al 37, questa stradina si abbracciava tutta in un'occhiata, non somigliava
affatto alla strada lunga e tortuosa delle mie impressioni degli anni dell'infanzia, non
ricordo se allora qui ci fosse o meno un tempio, ai due lati della strada non c'erano
edifici alti, c'era solo una casa a due piani, in mattoni rossi, che spiccava tra questi
vecchi cortili in stile antico, ed era una costruzione semplice, che rispetto ai vecchi
1 L'espressione «guance rosse» allude alle ragazze giovani, cosa che un vecchio non dovrebbe apprezzare [N.d.T.]
cortili sembrava ancora più disadorna, mi viene allora in mente che qui ci doveva
proprio essere stato un tempio dell'Imperatore Guan, ma che era stato distrutto da un
fulmine ancora prima che io potessi ricordarmi, era il nonno che me ne aveva parlato,
diceva che questo posto attirava i fulmini, era un luogo maledetto, che il tempio era
stato costruito proprio per cacciare via i demoni e annientare il malocchio e invece
era stato distrutto proprio da un fulmine, dimostrando così che qui non si dovevano
costruire case, casa nostra però non si trovava nel tempio bensì di fronte, ma ora per
me davvero non era facile guardare indietro agli anni dell'infanzia per cercare di
ritrovare la strada dove mia madre mi portava tenendomi per mano, considerato che
oggi anch'io ho un bambino, e sapevo anche che non serviva chiedere, avevo appena
girato in lungo e in largo dov'era il lago, ma se anche l'oceano si può trasformare in
un campo di gelsi, che cosa mai poteva essere accaduto di questo laghetto, mi
sembrava che la casa della mia infanzia si nascondesse nei recessi di questa piccola
foresta di antenne piantate su semplici edifici vecchi, nuovi, mezzi nuovi o mezzi
vecchi, ma non si può trovarla girando in questo modo, si può soltanto pensarla in un
certo modo grazie alla memoria, forse è dietro questo muro di cinta, o forse è stata
inglobata in chissà quale stazione municipale per la supervisione della protezione
ambientale, come alloggio per i dipendenti, oppure è diventata il deposito della locale
fabbrica di bottoni di plastica, ci hanno messo un portone di ferro, una portineria, e se
non riesci a spiegare il motivo di lavoro per cui sei venuto, è vano credere di entrare
anche solo a sbirciare, dovrebbe essere consolante pensare che gli uomini di solito
non sono crudeli fino al punto di distruggere senza una ragione quel paravento in
muratura tutto istoriato, anche se la natura umana è cattiva, la cattiveria è più forte
della bontà, i santi, i saggi e i filosofi di ogni età e di ogni paese lo hanno detto tutti,
ma tu propendi ancora per la bontà del cuore umano, una volta nutriti a sazietà, non
possono avere ancora voglia di perseguitare i ricordi della tua infanzia, perché anche
loro possono avere avuto un'infanzia che valga la pena di essere ricordata, è una
verità così evidente come uno più uno non fa tre, uno più uno può cambiare qualità o
quantità, persino trasformarsi in qualcosa di bizzarro, ma non farà mai tre, se vuoi
liberarti dalle elucubrazioni provocate dalla tua idea fissa devi abbandonare questa
bella strada asfaltata, e questi edifici nuovi, vecchi, mezzi vecchi, mezzi nuovi, che
stanno diventando vecchi, già invecchiati, semplici, mezzo semplici, non semplici, e
case, case, case sotto la foresta di antenne televisive, e case, case, case, con i rami
secchi spogliati dalle foglie, e case, case, case, ah, case, case, case...
Andare fuori città! Laggiù, in riva al fiume dove il nonno più volte mi portò... a
pescare? Ricordo che il nonno mi portò in riva al fiume, ma non so più se avessimo
preso dei pesci o no, ricordo però di avere un nonno, di aver trascorso gli anni
dell'infanzia, e in quegli anni, quando mia madre mi lavava il sedere in cortile, io
tutto nudo mi sentivo a disagio, ed eccomi a cercare la casa dove ho trascorso quegli
anni, e ricordo poi che una volta mi sono alzato in piena notte per andare a caccia con
qualcuno che non era il nonno, e abbiamo camminato tutto il giorno per ammazzare
un gatto selvatico che avevamo preso per una volpe, e questo mi fa pensare a una
poesia, in cui il protagonista ha il corpo ricoperto di coltelli da caccia appesi che
risuonano con clangore, e una libellula senza coda volteggia sulla pianura sbattendo
le ali, e negli occhi dei critici spuntano aculei, e cresce un grosso mento, vorrei
scrivere un romanzo che avesse un significato così profondo da farci annegare dentro
le mosche, e poi ho visto il nonno, accovacciato su uno sgabelletto, la schiena
incurvata, che aspirava grandi boccate di fumo, nonno, lo chiamo, lui non sente, gli
vado davanti e lo richiamo, nonno, e allora si volta e, anche se non ha la pipa in
mano, ha il viso rigato di lacrime, gli occhi pieni di venuzze rosse, come irritati dal
fumo, d'inverno per scaldarsi gli piace accoccolarsi accanto alla stufa dove brucia un
po' di legna, perché piangi, nonno? domando, si soffia il naso tra le dita, si strofina la
mano, emette un gran sospiro, e poi si asciuga la mano con cui si era soffiato il naso
sul dorso della scarpa di pezza, attento a non lasciare alcuna traccia sulla superficie
della scarpa, porta vecchie scarpe di pezza dalla suola particolarmente alta cucite da
mia madre, mi guarda, gli occhi arrossati, senza parlare, ti ho comprato una canna da
pesca col mulinello, gli dico, e lui tossicchia raschiandosi la gola, senza manifestare
alcun interesse, e così eccomi arrivato sulla spiaggia in riva al fiume, e la sabbia mi
scricchiola sotto i piedi, sembra i lamenti della nonna, lei davvero amava bisbigliare
frasi incomprensibili, e se tu d'improvviso le chiedevi: nonna, che stai dicendo? lei
era come smarrita, tirava su la testa, e dopo un po' diceva: ah, sei tornato da scuola?
oppure, hai fame? In cucina, nella pentola erano già pronte delle patate dolci al
vapore, e quando lei stava lì a bisbigliare, era meglio non disturbarla, raccontava
sempre di quello che faceva da ragazza, ma se la si ascoltava nascosti dietro lo
schienale di una seggiola, era proprio come se continuasse a ripetere coperto, coperto,
coperto, coperto, coperto che cosa, sempre coperto che cosa, e questi ricordi hanno
tutti lo stesso crepitìo della sabbia sotto i piedi.
Il corso del fiume è ormai inaridito, vi scorrono solo pietre, e tu cammini sulle
pietre arrotondate dalla corrente del fiume, saltando da una all'altra, e vorresti veder
scendere scrosciando l'acqua limpida, ma quando dalla montagna si rovesciava la
piena travolgeva cielo e terra e arrivava dritta fino in città, e persino per attraversare
la strada bisognava arrotolarsi i pantaloni fino alle cosce, e la gente sguazzava nella
fanghiglia giallastra dove galleggiavano scarpe vecchie e cartacce strappate, e quando
l'acqua si ritirava, rimanevano attaccate su tutti gli angoli dei muri tracce di fango
giallastro che, dopo qualche giorno, seccato dal sole, formava una crosta che si
staccava, come le scaglie di un pesce, un pezzo dopo l'altro. Era proprio questo il
fiume dove il nonno mi portava a pesca, mentre adesso anche negli interstizi tra le
pietre non passa neppure un filo d'acqua, e il letto del fiume è fatto tutto di massi
immobili, che sembrano un gregge di montoni ebeti, attaccati gli uni agli altri come
per paura di essere cacciati via, ed eccomi arrivato su una duna, dove si trova ancora
un groviglio di radici di salice, gli alberi sono stati sicuramente tagliati di nascosto
per costruire dei mobili, e più in là non cresce neanche un filo d'erba, e mentre resti là
in piedi, ecco che affondi, e affondi fino alle caviglie, e allora ti metti a correre
perché hai paura di continuare ad affondare fino ai polpacci, e poi alle ginocchia, e
poi alle cosce, e potresti essere inghiottito e sepolto da questa duna che somiglia a
una grande tomba, mentre la sabbia scricchiola minacciosa, come se volesse
inghiottire tutto, ha già inghiottito le rive del fiume, e sta per inghiottire la città, e i
ricordi della mia/tua infanzia, non ha certo buone intenzioni, e non capisco perché il
nonno resta lì seduto e non scappa via, io credo si debba andar via al più presto, ho
visto la duna di sabbia gonfiarsi davanti a me, e sotto il sole cocente è comparso un
bambino con le natiche nude - io di allora - e quindi il nonno si è alzato in piedi, e le
rughe sul viso si sono come distese, ha preso nella mano il minuscolo pugno di me
bambino, il nonno aveva indosso larghi pantaloni incrociati e io, bambinetto nudo
come un verme, mi sono messo a seguirlo saltellando.
«Ci sono lepri?»
«Mmm...»
«Anche Nero viene con noi?»
«Mmm...»
«Ma Nero ce la fa a correre dietro alle lepri?»
«Mmm...»
Per anni Nero era stato il nostro cane, poi era scomparso, e dopo un po' qualcuno
aveva detto al nonno di aver visto la sua pelle scuoiata nel cortile di certa gente,
allora il nonno era andato a cercarlo, e si erano ostinati a dirgli che Nero aveva
sbranato le loro galline, ma erano tutte menzogne, perché nessuno era più rispettoso
del nostro Nero, solo una volta si era messo a giocare con il nostro gallo e gli aveva
strappato qualche piuma, ma aveva ricevuto una bella lezione dalla nonna a colpi di
scopa, le zampe anteriori appiattite a terra guaiva accucciato chiedendo grazia, anche
il nonno aveva la faccia scura, come se fosse stato bastonato anche lui, le galline
erano il tesoro della nonna, mentre il cane stava sempre con il nonno, e dopo quelle
botte Nero con le galline non aveva mai più giocato, come si dice, i bravi ragazzi
lasciano in pace le ragazze.
«E se incontriamo un lupo?»
«Mmm...»
«O forse un orso?»
«Mmm...»
«Nonno, hai mai ammazzato un orso?»
Il nonno aveva borbottato un po' più forte, ma non si era capito se avesse mai
ammazzato un orso, da piccolo io avevo una speciale ammirazione per il nonno,
proprio perché aveva un fucile con la canna d'acciaio, e quando lui preparava le
cartucce riempiendole di polvere io ero eccitatissimo e continuavo a girargli intorno
senza fermarmi un istante, fino a che lui si arrabbiava, era difficile che il nonno si
arrabbiasse, con me era successo una volta sola, mi aveva gridato addosso con tutte le
sue forze: vattene, vattene! e batteva il piede per terra, ero appena entrato in casa,
quando avevo sentito lo scoppio di un'esplosione provenire da fuori, e dalla paura
stavo quasi per nascondermi sotto il letto, poi avevo dato un'occhiata alla porta e
avevo visto il nonno che, una mano tutta insanguinata, cercava con l'altra di spargervi
sopra della polvere nera, senza piangere malgrado il dolore.
«Nonno, sai anche cacciare le tigri?»
«Parli davvero troppo!»
Solo da grande ho capito che i veri cacciatori sono di poche parole, e che i
compagni del nonno che tornavano sempre a casa a mani vuote erano quelli che
stavano sempre a chiacchierare, ma anche il nonno che pure parlava poco non vedeva
un granché, però il nonno da giovane aveva davvero incontrato una tigre, era una
tigre di montagna, non certo una dello zoo, diceva che era stato al suo paese, quello
del nonno e poi di mio padre e in fin dei conti anche il mio, allora i boschi erano
ancora fitti, non come quando ci sono ripassato in macchina, ero in missione e sono
passato proprio da qui, ed erano tutte colline di terra gialla completamente spoglie, e
solo in cima erano stati fatti i campi a terrazze, e proprio lassù, dove all'epoca c'era
ancora una foresta densa e folta, lì la tigre aveva guardato e riguardato il nonno,
prima di andarsene, e la televisione dice che la tigre del sud della Cina ormai è estinta
da più di dieci anni, tranne quelle che si allevano in cattività, questi animali selvatici
non solo non uccidono, ma non si riescono neppure a vedere, rimane solo la tigre del
nordest, e gli esperti ritengono che ne sopravvivano al massimo un centinaio, ma
ignorano su quale picco di montagna si nascondano, e incontrarne una sarebbe
davvero una fortuna.
«Nonno, quando hai visto la tigre hai avuto paura?»
«Non è delle tigri che si deve aver paura, ma degli uomini cattivi.»
«Nonno, hai mai incontrato uomini cattivi?»
«Gli uomini cattivi sono più delle tigri, e non puoi prenderli a fucilate.»
«Ma sono cattivi.»
«Ma non puoi saperlo prima.»
«E se lo sai? Li puoi prendere a fucilate?»
«Chi colpisce un uomo viola la legge.»
«Ma i cattivi non sono fuorilegge?»
«La legge non può punire i cattivi che sono cattivi nel cuore.»
«Ma hanno fatto cose cattive.»
«Non è detto.»
«Nonno, abbiamo ancora molto da camminare?»
«Mmm...»
«Nonno, non ce la faccio più.»
«Stringi i denti e cammina.»
«Mi sono caduti, i denti!»
«Coraggio, piccolo delinquente, alzati!»
Il nonno si accovaccia, e quell'esserino nudo gli si arrampica sulla schiena, e lui
barcolla, sulla sabbia, e procede a piedi larghi, un passo dopo l'altro, portando sulle
spalle quel bimbetto col culo nudo che continua a gridare hop! hop! agitando le
gambe a cavallo della sua schiena, e lo sprona come fosse un cavallo, e tu a lungo,
davvero a lungo hai guardato il profilo della schiena del nonno farsi sempre più
lontano, fino a scomparire dietro la duna di sabbia, e allora eccoti rimasto solo con il
vento, qui sulla duna, Voeller, il numero due, e altri tre giocatori che lo difendono, il
suo corpo robusto costituisce già una barriera naturale, non è certo facile rubargli il
pallone, seguendo l'estremità delle dune si leva un fumo giallastro, e poi, come per la
carezza di una mano informe, questa immensa duna eccola diventare come una
distesa di seta lucente che si srotola piano, così si arriva fino al deserto, un mare arido
e sconfinato, di un rosso cocente, una desolazione di morte, come un aereo che stesse
sorvolando il deserto di Taklamakan, dove si ergono catene di montagne simili alla
grande lisca di un pesce spolpato, enormi catene di montagne che anch'esse debbono
prima o poi esser inghiottite, sepolte in questo mare arido e infuocato, e invece a
marzo fa proprio freddo nel Taklamakan, e in questo arido mare tutto rosso alcuni
cerchi blu debbono essere laghi ghiacciati, e le rive bianche sono di sabbia fine, e i
punti profondi sono dei tondi verde scuro che sembrano occhi di pesci morti, e tutti
hanno visto benissimo che nel secondo tempo della partita la squadra della Germania
Federale ha rinforzato l'attacco e spinge in modo da poter guadagnare terreno in
avanti, e in questa situazione la squadra argentina è costretta a rafforzare la difesa, e
bisogna vedere come contrattaccano, occupando gli spazi vuoti delle retrovie
avversarie, bel tiro, il numero undici, Valdano, ha ora il pallone, e... rete! Non c'è
vento, solo le leggere vibrazioni del motore, fuori del finestrino non si riesce a vedere
la linea dell'orizzonte, il Taklamakan spicca in verticale, e si muove in linea retta, una
linea perfettamente diritta, come si può tracciare sulla carta solo con l'aiuto di una
riga, e lunga, tanto da non vederne l'inizio e la fine, che taglia a metà l'oblò e sembra
seguire il senso dello sguardo e la direzione dell'aereo, e si sposta come le lancette di
un orologio passando dalla posizione di 0:05 minuti a quelle di 0:11, 0:12, 0:13 e poi
si accorcia, all'estremità della lancetta c'è una città morta, l'antica Loulan? O forse c'è
un'altra antica Loulan? Queste rovine sono sotto di te, e riesci persino a distinguere
quel che resta delle mura, i palazzi non hanno più le cupole, o forse avevano grandi
tetti piatti, appartengono alla cultura dell'antica Persia oppure Han, oppure proprio
qui è avvenuto un incrocio tra le due culture poi sepolte dal deserto, e tutti guardano
un'altra volta, questa rete viene da un veloce contrattacco della squadra argentina, che
la difesa avversaria non ha saputo intercettare, e in un attimo il pallone è entrato in
rete, e nelle cinquantuno partite disputate in questo campionato sono state segnate
centoventisette reti, e se si contano anche quelle segnate ai rigori dopo i tempi
supplementari, si arriva a centoquarantotto, oggi ne hanno segnate altre due, e senza
contare quelle ai rigori dopo i supplementari, siamo alla centoventottesima e alla
centoventinovesima, ora è Maradona ad avere il pallone, la sabbia e il pallone, quella
sabbia gialla che turbina e si ammassa tra le urla del vento, pian piano si accumula e
poi di nuovo si disperde formando onde che si gonfiano una dopo l'altra, si agitano
ritmicamente, e il loro è un lamento, non un grido, come se cantassero, come se
qualcuno cantasse sotto la sabbia che scorre, un lamento che comporta una sorta di
singhiozzo, e tu vorresti metterti subito a estirparlo via, ma questo suono è sotto i tuoi
piedi, vorresti scavare un buco per liberare questo suono concentrato, ma proprio
quando stai per raggiungerlo, si immerge di nuovo, e non vuole più risalire, è come
un'anguilla che cerchi in ogni modo di acchiappare, ma di cui non riesci a trattenere
che la coda sgusciarne e viscida, stringi e stringi, ma nelle mani hai solo sabbia, una
volta, in riva al fiume, bastava scavare per una trentina di centimetri per far sgorgare
l'acqua, acqua di fiume purissima e filtrata, adesso non c'è più altro che gelida
graniglia, ci metti le mani dentro e provi un certo piacere, ma ecco che urti una cosa
appuntita che ti ferisce un dito, senza però farti sanguinare, e tu vuoi sapere cos'è, e
allora continui a scavare, e finalmente trovi un pesce morto, la testa piantata nel
terreno, ed era la coda che ti aveva ferito la mano, è un pesce secco, ormai rigido e
inaridito proprio come il fiume, il corpo indurito, la bocca serrata, le orbite vuote, le
pupille ormai secche, e anche se tu lo schiacci, lo stringi, lo pesti, lo torci, lo sbatti, su
questa riva sabbiosa non si sente niente, l'unica cosa che emette suoni è la sabbia, non
il pesce, che gemendo si prende gioco di te, sotto il sole cocente, quel pesce morto
dalla coda inarcata, disteso sulla sabbia, tu non lo guardi, ma lui ti fissa con quegli
occhi impietriti, e tu vuoi solo filar via, e pensi che quando il vento sabbioso l'avrà di
nuovo sepolto non ti rimetterai certo a scavare di nuovo. Lo lascerai sottoterra,
sepolto nel profondo delle sabbie, il numero dieci Burruchaga è fuori gioco, ha
mancato una magnifica occasione, la difesa ha mandato la palla fuori campo, la
squadra argentina ha ottenuto il terzo calcio d'angolo del secondo tempo, la Germania
Federale tira, rete! al ventisettesimo minuto Rummenigge ha tirato una palla a
Maradona. Ora sono uno a due, e tutti guardano Maradona calciare in rete.
«Nonno, sai giocare a pallone?»
«È il pallone che gioca con tuo nonno.»
«Con chi stai parlando?»
«Parli con te stesso, con te ragazzo.»
«Con quel ragazzino coi piedi nudi?»
«Con quell'anima nuda.»
«Tu hai un'anima?»
«Spero di sì, altrimenti sarei troppo solo in questo mondo.»
«Sei solo?»
«Penso di sì, in questo mondo.»
«In quale mondo?»
«In questo tuo mondo interiore sconosciuto agli altri.»
«Tu hai anche un tuo mondo interiore?»
«Spero esista questo mondo interiore, perché solo in questo ti senti libero.»
Maradona, Maradona tenendo la palla supera gli altri, e tira in porta! Quale porta?
Ora siamo due a due, è il primo pareggio, una colomba di pace sorvola il campo,
mancano ancora diciassette minuti alla fine, diciassette minuti in cui si può fare un
sogno, qualcuno dice che basta un attimo per sognare, che i sogni si possono
comprimere, come i biscotti sotto vuoto, hai mai mangiato biscotti sotto vuoto? Io ho
mangiato del pesce secco, confezionato in una busta di plastica, senza spine, senza
occhi, e senza neppure quella coda dura e appuntita che ferisce le dita, in questa vita
non riuscirai mai ad andare a esplorare Loulan, potrai soltanto sorvolarla dall'alto,
comodamente seduto in aereo, sorseggiando la birra che la hostess ti serve, mentre
una musica ti suona nelle orecchie, uno due tre quattro cinque sei sette otto, diversi
canali si trovano sul tuo bracciolo, un rock assordante, coraggio, balliamo tutti!
Ballare come pazzi!
I love you, I love you, miagola una voce roca di mezzosoprano, tu osservi le rovine
dell'antica Loulan, ma senza pensare ti distendi sulla spiaggia, la sabbia fine scorre
via dagli spazi tra le dita e forma una piccola montagnola, alla cui base è sepolto il
pesce morto che ti aveva ferito il dito senza farlo sanguinare, anche i pesci hanno il
sangue, che ha lo stesso fetore di quello umano, quel pesce duro e secco non poteva
certo sanguinare, perciò non devi pensare al tuo dito dolorante, continui ancora a
scavare, fino a che trovi un muro in rovina, e allora capisci che è il muro del cortile
della tua infanzia, ricordi che dietro c'era l'albero di giuggiole, e tu di nascosto
prendevi la canna da pesca del nonno per farle cadere, e poi le dividevi con lei, e lei,
lei alla fine è uscita fuori dalle rovine, tu l'hai inseguita, per capire se davvero era
proprio lei, ma potevi solo vederle la schiena, hai dimenticato perché, le sei corso
dietro, e lei camminava tranquillamente, come un soffio di vento, ma come mai non
sei riuscito a raggiungerla, Maradona, Maradona si cerca la strada ma è una strada
senza uscita, e gli altri sono più veloci, lui cade, ma la sua idea avanza, tira in porta,
rete! Hai gridato forte, e finalmente lei ha girato la testa verso di te, un viso di donna
che tu non vuoi riconoscere, le guance, gli angoli degli occhi, la fronte sono tutti
pieni di rughe, questo viso floscio, rilasciato, che ha perso di colore, tu rimani
stupefatto, non hai cuore di guardare di nuovo, non sai se dovresti rivolgerle un breve
sorriso, ma hai paura diventi di scherno, preferisci allora abbozzare una smorfia,
certo, neppure il tuo è un bel viso, alla fine sei completamente solo in mezzo a queste
rovine dell'antica Loulan, ti guardi intorno, e riconosci il mucchio di mattoni del
paravento di pietra con i caratteri «felicità», «fortuna», «lunga vita», «gioia», lì c'è la
cuccia di Nero, lì c'è l'angolo dove il nonno lasciava il secchiello di ferro pieno di
vermi, lì c'è la stanza del nonno, quando il muro non era ancora crollato stava appeso
il suo fucile da caccia, e quello deve essere il passaggio che si attraversava per
arrivare a casa di Zaowa, nella corte posteriore, lì, nell'apertura di una finestra del
muro sbrecciato sta accovacciato un lupo che mi sta fissando dritto negli occhi, io
però non ho affatto paura, so che nel deserto dove di solito non c'è traccia di uomini
si possono trovare solo lupi, effettivamente tra le mura in rovina qui intorno si
aggirano dei lupi, che proprio tra queste rovine hanno le tane, non bisogna guardarsi
indietro, il nonno mi aveva insegnato che quando ci si trova in un luogo deserto, se si
viene colpiti sulla schiena, non bisogna assolutamente voltarsi perché allora «quello»
potrebbe saltarti alla gola e sbranarti, e adesso se il mio spirito dà anche il minimo
segno di incertezza, «quelli» che stanno acquattati di sicuro mi verranno addosso, io
non posso manifestare alcun cenno di paura, sotto la finestra, quegli affari feroci
stanno in piedi, come uomini, tengono la testa poggiata sulla zampa anteriore destra,
e mi guardano di traverso con l'occhio sinistro, sento anche tutt'intorno i lupi che
schioccano le loro lunghe lingue, stanno perdendo la pazienza, e di nuovo mi ricordo
la scena del nonno, giovane, che sui campi a terrazza di casa sua si trovava a
fronteggiare la tigre, se allora fosse rimasto a corto di fiato nel darsela a gambe la
tigre gli sarebbe saltata addosso e l'avrebbe divorato, e allora io non posso certo
arretrare, ma non posso neppure avanzare, posso soltanto piegare la schiena, e con le
mani cercare a tentoni per terra fino a che non trovo il fucile da caccia del nonno che
un tempo stava appeso a quel muro sbrecciato, e come se nulla fosse lo sollevo, lo
dirigo verso il vecchio lupo che mi sta di fronte, e tranquillamente prendo la mira,
premo il grilletto, come se fossi un tiratore provetto, e devo colpirli uno dopo l'altro e
rovesciarli a terra, senza dar loro neanche un attimo per pensare, devo colpire
innanzitutto quello vecchio che sta alla finestra, e girare intorno verso sinistra, un
colpo dopo l'altro, debbo calcolare per bene tutto tra me e me, non posso permettermi
la minima incertezza o confusione, cari telespettatori, finora, nel corso di questa
edizione della Coppa del mondo di calcio sono state realizzate centotrentadue reti,
questa partita è terminata, la squadra argentina ha sconfitto la Germania Federale per
tre reti a due, conquistando il titolo di Campione del mondo della XIII edizione del
Campionato mondiale di calcio, io ho sparato, ma si è spaccato il grilletto, proprio
come era avvenuto con il fucile che il nonno mi aveva fabbricato quando ero piccolo
con una canna di granturco, e i lupi si sono messi a sghignazzare, ah, ah, ah, tutti
possono constatare che allo stadio Azteca di Città del Messico le grida di giubilo
riempiono le gradinate come grandiose ondate, una più alta dell'altra, e questo mi
provoca una certa confusione, ma contemporaneamente so anche che il pericolo
ormai è scampato, non erano dei veri «quelli», portavano delle maschere sul viso e
delle pelli di lupo, stavano solo recitando, cari telespettatori, guardate, i giocatori
vengono circondati dalla folla come degli eroi, vengono portati in trionfo, Maradona
è già stato messo sotto scorta, Maradona ha detto lasciatemi baciare i ragazzi di tutto
il mondo, e poi sento mia moglie parlare, anche i suoi zii venuti da lontano stanno
parlando, adesso ricordo che questa partita è stata trasmessa in diretta all'alba e ora la
trasmissione è finita, bisogna che mi alzi per andare a vedere se la canna da pesca in
dieci segmenti di fibra di vetro che ho comprato per mio nonno morto è ancora sopra
lo sciacquone del bagno.

Pechino, 18 luglio 1986


Attimi

È solo sulla spiaggia, allungato su una sdraio di tela, con le spalle al mare. Il vento
è forte. Il cielo è nitido, non c'è traccia di nubi, la superficie del mare riflette i raggi
abbaglianti del sole, il viso si intravede appena.
Una enorme porta di ferro trasuda umido, è macchiata di ruggine, un rivolo d'acqua
da una invisibile gronda scorre ininterrotto verso il basso. I due battenti della pesante
porta si aprono lentamente e, man mano che si allarga lo spiraglio, si diffonde
concitata l'eco del traffico stradale. I grattacieli a schiera che si parano davanti allo
specchio della porta ostruiscono la luce del sole. Continua il lamento delle sirene
delle vetture della polizia, una dopo l'altra.
Il profilo di una donna nell'andito oscuro della porta che dà sulla sala; non accende
la luce, ha il cappotto, indugia un istante, la mano appoggiata sulla maniglia della
porta, ne apre uno spiraglio e va via. La maniglia ruota lentamente indietro, e con uno
scatto la porta si richiude.
Il sole è tiepido, invita al sonno. Chiude il libro, si appoggia allo schienale della
sdraio, mette degli occhiali neri, due piccole lenti tonde gli parano gli occhi. Poi
prende un cappello nero a tesa larga, se lo calca sul viso, e ascolta solo il rumore del
mare.
Le onde conquistano la spiaggia, e prima che riescano a ritirarsi sono già
inghiottite in un risucchio dalla sabbia, lasciando qua e là tracce di schiuma giallastra.
Il braccio che pende gli formicola. Le formiche si arrampicano su, prima è una
sola, poi una dopo l'altra si susseguono in fila indiana su per il suo braccio.
Lei dice che è stato molto eccitante fare l'amore con due uomini, davanti al
camino. È stesa di traverso sul letto, la testa poggiata sul bordo, gli occhi chiusi, fuori
del cerchio della luce. La lampada illumina solo i suoi capelli sparsi, la sottoveste e il
collant gettati a terra.
Lui ha l'impressione che la marea stia salendo, l'acqua lambisce i piedi della sdraio,
indugia un attimo, poi si ritrae. Nell'aria si diffonde una melodia antica, leggiadra e
triste, sembra una nenia funebre cantata da una contadina, o il dolce lamento di un
vecchio flauto.
Con un guizzo della caviglia, lei si toglie rapida le scarpe, e si china per indossarne
un altro paio, nuove. Una, col tacco consumato, la getta in fondo al corridoio.
La foto in bianco e nero di un manifesto mostra una donna in punta di piedi, della
quale si vede solo la parte inferiore del corpo con la gonna tirata su a esibire uno
splendido paio di gambe, ancora una pubblicità di una marca di scarpe, affissa nei
sottopassi delle stazioni della metropolitana. Sul binario una vecchia con al braccio
un borsone vuoto, e un uomo di mezza età seduto che sta leggendo il giornale. Arriva
il treno, alcune porte si aprono, altre no, quelli che scendono vanno verso l'uscita, e
nessuno fa neppure cenno di alzare la testa per un'occhiata alla pubblicità. Sul binario
resta soltanto la sagoma di uno, ma poi arriva qualcun altro e anche questa svanisce.
I quattro piedi della sdraio ora sono completamente immersi nell'acqua, che
continua a salire. E ancora quella melodia triste, che ora si è fatta più indistinta,
sembra sempre più il suono di un vecchio flauto.
Lei dice che vorrebbe un uomo che pesasse il doppio di lei per schiacciarlesi
addosso. Nell'oscurità, è stesa sul letto, i grandi occhi aperti. Lui, a torso nudo, è
seduto al tavolo e le domanda, senza voltare la testa, se ce la farebbe. Lei dice che
adora esser schiacciata tanto da perdere il fiato, e poi si mette a ridere. Risuona
metallico il segnale del computer.
La melodia si fa sempre più sonora e confusa allo stesso tempo, come il suono del
vento che fischia fra la carta incollata alla finestra, mescolato al vorticare dei granelli
di sabbia, la melodia è sempre più indistinta, ma resta penetrante. L'acqua ormai
arriva a lambire il fondo della sdraio, che ondeggia piano.
Sta seduto davanti al computer, la sigaretta che gli pende dalla bocca. Sullo
schermo illuminato compare una lunga frase: «Che cosa non capire che cosa capire
non capire che cosa capire e non capire che cosa è capire e ancora che cosa è non
capire che cosa è che cosa non è non capire è non pensare di capire oppure davvero
non capire qualcosa perché voler capire oppure volere o non voler capire è davvero
non capire oppure non voler capire o davvero non capire oppure fingere di non capire
ostinarsi a non capire o mostrare di capire di proposito voler capire ma non capire
fondamentalmente voler capire ma non capire sinceramente non capire e non capire
non capire come prima perché affannarsi a capire...»
Un pagliaccio da circo col naso imbiancato suona la fisarmonica, apre e chiude il
mantice, apre e chiude, chiude e apre, e la fisarmonica si allunga, poi si restringe,
l'organetto si spacca e il suono si interrompe.
Nell'aria resta soltanto il suono del vento e delle onde, la luce del sole è accecante.
Mette nel posacenere la cenere che stava per cadere dalla sigaretta e, andando a
ritroso sullo schermo, cancella una dopo l'altra le parole della frase ancora
incompiuta.
Con le mani mischia le pedine del mahjong, ne sceglie una, la tasta, appare un
«drago rosso», ne tocca un'altra, è un «drago verde», poi prende un «drago bianco»,
le scopre una dopo l'altra, un «rosso», un «verde», un «bianco». Continua con un
altro «verde», poi un «rosso», un «bianco», e poi «verde», «rosso», «bianco», un
«vento dell'est», un «verde», un «rosso», un «vento», un «Nord», un «Est», un
«Sud», un «vento», un «Ovest», un «Nord», ha scoperto tutte le pedine, e ricomincia
a mescolare.
«Raccontami una favola!» Si gira, la luce della lampada sul comodino gli illumina
la nuca, e guarda nella penombra sul letto il corpo nudo di lei inarcato come un pesce.
Una sedia vuota galleggia dritta sull'acqua, riflessa tra le onde. Dal mare non si
percepisce alcun rumore, nell'aria vaga soltanto un suono grave, monotono e
persistente.
Un bimbetto all'angolo di un muro sta singhiozzando forte, ma non si sente nulla. È
un muro di pietra su cui rigogliosa si arrampica l'edera primaverile, che i raggi del
sole illuminano di taglio.
Su di un prato verde smeraldo tagliato di fresco, un uomo di una certa età che
indossa una camicia bianca col colletto sbottonato, i pantaloni retti da bretelle, sta
tirando una corda, fa un certo sforzo, ma se la prende comoda.
Sta in piedi, per strada, davanti a una vetrina, prima non ci fa caso, ma poi si mette
a leggere sempre più attento quello che c'è scritto dentro. La strada è deserta, a parte
uno o due passanti.
Lei sta in piedi all'incrocio, mentre il fiume delle macchine scorre senza posa.
Attraversa senza attendere il rosso. Una macchina arriva veloce e lei affretta il passo
per rifugiarsi sulla bianca linea spartitraffico, osserva la direzione delle macchine, e
poi, tenendo dietro a una piccola vettura che è appena passata, attraversa a piccoli
passi, arrivata sul marciapiede sale dei gradini, ci pensa un po' su, e poi digita un
numero di codice sulla tastiera a lato di un portone, allo scatto della porta spinge ed
entra. Prima che la porta lentamente si richiuda, gira indietro la testa, ma nell'androne
scuro il suo viso si intravede appena.
Sull'acqua, la sedia non c'è più. Solo schiuma. Il suono grave continua a tratti,
sembra galleggiare nell'aria, non si interrompe mai davvero, è una sorta di
sottofondo.
La pioggia gocciola sulla vetrina, lui se ne va. La vetrina è piena di annunci di
vendite di case, con i prezzi. Alcuni hanno anche le foto, sono quasi tutte residenze
private, di campagna. Quelli delle case in affitto, se il prezzo è basso, sono tutti
barrati con la scritta in rosso «AFFITTATO», in bella calligrafia.
Ecco arrivare un altro uomo a tirare la corda, tutto ben vestito, con la cravatta a
farfalla, fa un saluto all'uomo di mezza età che porta le bretelle, impugna la corda, ed
eccoli entrambi, tra una chiacchiera e una risata, impegnarsi, pur senza troppa fatica,
nel loro lavoro. Da qualche parte, non lontano, arriva lo stridere di uno scontro, e
l'ultimo arrivato aggrotta le sopracciglia.
Sulla superficie del mare galleggia una bottiglia vuota di acqua minerale, che
danza sulle onde. La luce del sole è sempre magnifica, il cielo è tanto limpido da
sembrare finto ma, forse proprio per la troppa limpidezza, la troppa luminosità, la
eccessiva vastità, la bottiglia di plastica vuota che galleggia lontano diventa
completamente scura, quando le onde riflettono i raggi accecanti del sole, sembra un
uccello acquatico, o un altro oggetto galleggiante. Il suono continuo è cessato non si
sa quando, come un filo che ondeggia al vento, ormai perduto.
«Qui, in riva al mare, è arrivata una coppia di cigni, poi ne è rimasto uno solo,
l'altro forse sarà stato ammazzato per farne un trofeo, e dopo un po' anche quello
rimasto è volato via.» È la voce di una donna, che chiaramente sta parlando a un
uomo, e mentre lei dice questo, l'oggetto che galleggia sempre più lontano sembra
proprio qualcosa di vivo, un uccello acquatico.
Anche un uomo con gli occhiali guarda i due che tirano la corda, li osserva attento
attraverso le lenti, poi si leva gli occhiali, li pulisce per bene, come se altrimenti non
riuscisse a vedere, e non si sa se ci vede o no, o se gli interessi o meno di vedere,
semplicemente mette gli occhiali in tasca e raggiunge gli altri due a tirare la corda.
Sta in piedi in mezzo a una stradina deserta, il cui lastrico si arrampica fino
all'estremità, vecchie case in pietra ne costeggiano i bordi, e siccome le imposte dei
negozi sulla strada non chiudono bene, sono protette da serrande di ferro. Alza la
testa per osservare intorno, in alto le finestre hanno tutte le tende chiuse, sono al buio,
rimane solo una striscia lunga e sottile di cielo azzurro. Là dove la superficie della
strada e il cielo si incontrano nulla impedisce di pensare che ci sia il mare.
Dei gabbiani volteggiano nel cielo, con grida acute, forse per il bisogno di cibo,
forse per esprimere piacere, una lingua che gli uomini non comprendono. Ma non è
importante capire o no, l'importante è che questi uccelli stanno volando vigorosi in
mezzo al cielo azzurro, e stanno gridando forte.
Ha il viso rivolto verso il lungo rettangolo di cielo di un intenso azzurro
incastonato fra le case ai due lati della strada, il suo profilo si staglia come carta
ritagliata, la cravatta ondeggia al vento, unico oggetto in movimento in mezzo alla
strada in ombra.
Lei dice di non sapere cosa dovrebbe fare! Ha la voce concitata. Lui invece è
freddo, dice di sapere benissimo quel che deve fare, ma che non ce la fa. Nell'oscurità
lei si arrampica sul letto e, prona, tira su i piedi e li sbatte l'uno contro l'altro. Lui si
siede davanti alla lampada, batte sulla tastiera, e sullo schermo compaiono in ordine:

?!#@&é"'ù$$/≠ ©ƒ‡Î®êØЋ≈ ∆☼Ω

Di quell'ombra di spalle si vede solo la cravatta che ondeggia alla brezza ma,
girando fino a guardarlo di fronte, ci si accorge che è un manichino appendiabiti, con
la testa senza volto, e i vestiti che danzano seguendo il vento. Il piedistallo è
appoggiato sul marciapiede, per strada neppure un passante, e nemmeno automobili,
anche le porte del negozio sono tutte sbarrate.
Un gabbiano grida forte, scende in picchiata e si tuffa nell'acqua, mentre altri
restano a galleggiare sul mare. Lontano, in superficie, si susseguono onde gonfie di
schiuma bianca. Il rombo sordo, cadenzato delle onde arriva piano, più lento del
montare della marea.
Quando l'eco tumultuoso delle onde finalmente si avvicina, si vede quel gabbiano
che vola via dall'acqua, il collo teso, le ali spiegate, i grandi occhi spalancati, le
piume lucenti.
Una mela rossa, rotonda, striata di verdeazzurro, come lucida di cera, pulitissima,
ruota lentamente, poi la mano delicata della donna, che l'aveva presa per osservarla
minuziosamente, la posa di nuovo.
Sulla tavola coperta da una tovaglia bianca, vino rosso come sangue nei bicchieri
di cristallo finemente intagliato, posate che tintinnano leggere. Dietro i bicchieri,
uomini con irreali abiti da sera con cravatte e papillon, e scollature ingioiellate,
altrettanto irreali, come le spalle nude delle donne. Gli uomini stanno parlando, ma
non si riesce a sentire di che, pur se in modo disteso e allegro.
La mano della donna si mette di nuovo a rigirare lentamente la mela, e la
conversazione intorno alla tavola diventa gradualmente percettibile: molto
affettuoso... Barbara... davvero interessante... non prendo il dolce... Lili mangi troppo
poco... grazie... fantastico... che dice... scusi... d'estate... un antiquario... geniale...
vado a Hong Kong... non capisco la guerra... omosessuale... una sorta di tensione...
oh, no... davvero adorabile... uno scoop... un massaggio per i piedi... un bagno turco...
non ha il suo stile... perché... difficile da dire... provaci... ieri pomeriggio... lei è
pazza... non è riutilizzabile... il gatto di casa... troppo doloroso... forse è vero... il
governo... come si chiama... una birra scura... scoprire... un vero idiota...
Un Buddha dalla tunica scarlatta, aperta, decorata di fili d'oro, ornata di svastika, di
simboli propiziatori, il mento arricchito da pieghe di grasso, le mani a reggere il
grosso ventre tondo, tranquillamente assiso nella meditazione, sulla mensola di
marmo nero del camino, l'espressione felice, in piena tranquillità, le labbra aperte in
un ampio sorriso. A guardarlo da vicino, sembra quasi uno sbadiglio. E ad andare
ancora più vicino, gli occhi semichiusi sembrano addormentati. Ma se ci si avvicina
ancora, sembra rovesciare il bianco degli occhi, indescrivibile.
Entra in un bar, si siede su un alto sgabello, il cameriere porta due grandi bicchieri
di birra e glieli posa davanti. Nel bar, alla luce delle lampade di un blu fluorescente,
si distinguono appena i visi dei pochi avventori, completamente assorti nel bere,
soltanto un pianoforte sistemato davanti, su una piccola pedana, è illuminato, una
negra sta suonando. Un blues, triste. Lei è vecchia e brutta, un vero rospo,
ritmicamente carezza la tastiera, così concentrata, così attenta, come se toccasse il suo
amante. Accanto a lei, un negro vecchio come lei, una corona di crespi capelli grigi
gli circonda la testa. Lui picchia sui tamburi grandi e piccoli che lo circondano, e ogni
tanto si avvicina al microfono per cantare qualche frase.
Il fuoco nella stufa è incandescente, la legna che brucia emette crepiti e scoppi,
anche da lontano si sente il sibilo dell'aria aspirata dentro il camino. Intorno al
camino bordato di marmo nero non c'è un filo di cenere. Davanti è disteso un folto
tappeto di lana.
Proprio ora arriva il quarto uomo, porta una giacca di pelle, senza dire una parola si
mette anche lui a tirare la corda. Sono tutti molto impegnati, impassibili, la corda è
tesa. Una mano dopo l'altra, tirano senza perdere un colpo, con tutte le forze.
«Un piccolo cinese...» canta in inglese il vecchio negro, ma non guarda lui. La
vecchia negra carezza veloce la tastiera, prostrata sul pianoforte, si dondola, ubriaca o
stregata, immersa nella musica, e non guarda lui. Nel bar, in quella luce blu
fluorescente, nessuno guarda gli altri, tutti completamente presi dalla musica
sembrano un gruppo di marionette che continuano a muovere la testa.
Il cavallo ha sollevato le zampe anteriori, i garretti ricoperti di folti peli. «Va in
giro per il mondo...» canta la voce del vecchio negro.
La vecchia negra piazza un accordo, un suono cupo, che risuona sotto gli zoccoli
dei cavalli. «Va in giro per il mondo, va in giro per il mondo...», mentre canta il
vecchio negro percuote la batteria, e il pubblico segue il ritmo muovendo la testa.
La corda scorrendo avanza tra le mani degli uomini, sotto di essa, sul prato verde, i
piedi calzati di scarpe di cuoio restano saldi, spingendo con forza.
Spruzzi di schiuma schizzano alti, le onde battono sullo sbarramento. Sotto, la
marea monta, la spiaggia è ormai completamente scomparsa. Il sole è forte come al
solito, mentre il cielo e il mare sembrano ancora più azzurri.
Alla fine appare l'estremità della corda, a un amo laccato di rosso è attaccato un
grossissimo pesce morto, che viene tirato sul prato verde. La grande bocca uncinata è
spalancata, come se respirasse ancora, e invece no. Gli occhi tondi sono ormai senza
luce, ma sembrano ancora mostrare un'espressione di terrore.
L'acqua del mare scavalca lo sbarramento e straripa dal parapetto fradicio. Il cielo
si fa azzurro cupo, e la luce del sole appare stranamente trasparente.
Un grosso scarafaggio dalle ali lucenti fa danzare le antenne, si arrampica sul folto
tappeto di lana color bianco latte, e avanza piano lungo la fitta trama di fili di lana.
Nel cerchio di luce che proviene dal lampadario appeso sopra il tappeto si staglia la
parte posteriore di un cavallo intagliato nel legno di palissandro: le zampe posteriori e
le cosce sono tornite e lucenti, gli zoccoli ricoperti da una lamina di bronzo,
artisticamente fissata da chiodini bruni.
«Va in giro - per il mondo! Va in giro - in giro - per il mondo!» La tastiera, sotto le
mani nere piene di rughe, si rimette a cantare. Lui continua a muovere la testa
seguendo la musica. Davanti a lui, sul tavolo, sono allineati tre boccali e in mano ne
tiene un altro, mezzo pieno di birra. Una donna bianca viene ad appollaiarsi sull'alto
sgabello accanto a lui, i fianchi stretti in una minigonna di pelle nera sono torniti e
lucenti come quelli di un cavallo.
Come una pezza di raso nero, l'acqua del mare scivola giù dal parapetto, un pesce
morto rimane nell'acqua di mare che si va disperdendo. Non c'è suono, la marea e il
vento si sono all'improvviso arrestati. Anche il tempo sembra essersi fermato.
Soltanto l'acqua marina continua a scorrere, come una pezza di lucido raso nero, o
forse non si muove affatto, è soltanto un'impressione, una sensazione, un'immagine
che si percepisce.
Sulla piastra elettrica corre uno scarafaggio, lui lo schiaccia con la mano. Apre il
rubinetto ma non si lava, guarda solo l'acqua scorrere.
«Vuoi dell'hashish?» La voce è sottile, sembra quasi un soffio, mentre la musica è
forte, le mani nere attraversate dalle rughe corrono veloci sulla tastiera, fanno pensare
quasi a una ripresa più leggera delle parole della canzone. Il vecchio negro non sta
cantando, a testa bassa si concentra nel ritmare con la batteria.
Un bossolo di proiettile in bronzo chiaro è appeso al lobo carnoso dell'orecchio
della donna bianca, e tremolando luccica.
Gli scarafaggi si arrampicano sulle piastrelle decorate sopra il lavandino, sul
coperchio della pentola di smalto, sulla custodia di cuoio dell'apparecchio radio, sulla
credenza, sugli stipiti della porta della cucina, lui si mette i guanti di gomma.
Sulla coscia della donna, sotto la gonna di pelle nera, una grande mano su cui
risaltano vene bluastre, non si sa di chi sia, dove sia, e neppure se il vecchio negro
stia ancora battendo sui tamburi, se il pianoforte stia suonando, da dove provenga
quel ripetuto picchiare, è come se tutto si fosse messo a vacillare.
Un occhio, l'occhio grigio del pesce morto, livido, tondo, impietrito.
La mano prende una pinza appuntita, ed estrae un dente, alla cui radice rimane
attaccato un sottile filamento di sangue, il naso si avvicina per odorarla, puzza, la
mano getta via il dente.
Tra la folla che si arrampica sul monte sembra si faccia, come a gara, a chi è più
forte. Uomini, donne, in calzoncini, con lo zaino, vecchi e giovani, che si appoggiano
al bastone, che si tirano dietro i bambini, ragazzi che tengono per mano le ragazze,
non è veramente una gara. Tutti insieme a fare ginnastica, forse è un villaggio-
vacanze? La popolazione di un quartiere? Tutti quanti, maschi e femmine, vecchi e
giovani senza eccezione stanno facendo sport, come vuole la moda?
Gli scarafaggi si arrampicano dovunque, i guanti che lui indossa sono pieni di
scarafaggi morti, lui si accovaccia e batte con tutte le forze.
Un paio di gambe che calzano scarpe a punta si leva in alto, è il pagliaccio dal naso
macchiato di bianco che fa la verticale, avanza sulla pista da ballo camminando sulle
mani, al ritmo della fisarmonica che ormai non emette più suoni, ma solo soffi.
La folla ansima, le fronti sono imperlate di sudore, e allora tutti quanti tirano fuori
lo stesso tipo di bottiglia, la stessa marca di acqua minerale: il viso di tutti si atteggia
in un identico sorriso di felicità.
Su un bastone da passeggio ruota silenzioso, senza fermarsi, un cappello.
Il vento ansima, sulla superficie sterminata del mare, spingendo una dopo l'altra
onde bordate di schiuma bianca. Il sole è sempre forte, il cielo è sempre color
turchese, i gabbiani emettono grida acute.
Sotto i raggi del sole una fila di uomini avanza lungo il crinale della montagna, li
precede una bandiera stracciata che ondeggia al vento. Malgrado la distanza si riesce
a sentirla schioccare nell'aria.
L'acqua del mare arriva a lambire i gradini di pietra fuori della porta, onda dopo
onda, ininterrottamente.
Il pavimento è tutto pieno di scarafaggi, dovunque. Lui sta in piedi, e si guarda
intorno abbassando la testa, è esausto, può solo togliersi i guanti macchiati di
scarafaggi morti.
Silenziosamente, superata la porta, l'acqua del mare dilaga nella stanza, gli
scarafaggi si danno alla fuga, arrampicandosi sui muri, i più lenti vengono risucchiati
dall'acqua e si mettono a galleggiare, arrampicandosi l'uno addosso all'altro, o
rovesciandosi nell'acqua come morti. Istintivamente lui si china a guardare, agita un
po' i guanti e poi li getta nell'acqua. Si tira su guardandoli con distacco. Le gambe del
tavolo e delle sedie sono ormai immerse nell'acqua, e alcuni degli scarafaggi sono
riusciti ad arrampicarvisi sopra.
Sul crinale della montagna, la fila degli uomini con la bandiera si sta avvicinando,
l'uomo che cammina in testa tiene ben saldo il bastone, la bandiera che schiocca
ondeggiando al vento in realtà è fatta di reggiseni di seta bianca e rosso scuro
ricamati di color rosa carne, annodati con calze di nylon nere, c'è anche un minuscolo
reggiseno di pelle nera che ondeggia nel mezzo, come un uccellino che non riesce a
scappare.
La maggior parte del soffitto di cemento è impregnata d'acqua, che gocciolando
forma delle perle.
In cantina, un corpo è steso su un letto sfondato, il viso nascosto da un cappello
nero, il corpo coperto da un lenzuolo bianco, il letto è piazzato proprio nel centro, tra
i quattro muri impregnati di umidità. Le gocce d'acqua cadono picchiettando sul
lenzuolo e lo imbevono pian piano.
Un ventre grasso e nudo tutto ricoperto di ventose applicate, un lenzuolo nasconde
le parti basse.
Un calzolaio è seduto su uno sgabello, ha in testa un vecchio feltro, con la mano
prende un chiodo che mastica tra i denti, poi lo pianta nel tacco della scarpa che
stringe tra le gambe.
La nera acqua del mare scorre giù dai gradini di pietra, scende piano, senza alcun
rumore.
Leva in alto lo sguardo, verso un castello ormai diroccato che si erge sul crinale, e
sale i gradini di pietra sbrecciata, cammina nell'ombra, mentre il castello è illuminato
dal sole, perciò i contorni di ogni pietra risaltano nitidi.
Una volta penetrato nell'androne buio scavato nella muraglia, sente
improvvisamente il rumore di un piccone che perfora la pietra. Si ferma, e il rumore
scompare. Come si rimette in moto, il suono riprende seguendo il ritmo dei suoi
passi. Si ferma di nuovo, e anche il suono scompare. Di proposito allora batte il
piede, e il piccone riprende a battere. Allora si mette proprio a correre, e il suono
tace.
Un lungo passaggio buio. Lui rallenta il passo, e avanza a tentoni, alla fine
compare un raggio di luce, si comincia a distinguere l'uscita, un'apertura, fuori il sole
è fortissimo. Il battere del piccone arriva chiaro fin lì. Cammina prudente fino
all'uscita e, nascosto dal buio, vede un uomo che con un maglio sta spaccando pietre.
Si avvicina e gli si ferma alle spalle. L'altro si gira: è il viso rinsecchito di un
vecchio, giallo e nero, segnato da rughe profonde, i pochi denti che gli rimangono in
bocca sono anneriti dal fumo. È proprio un vecchio montanaro cinese, l'abbagliante
luce del sole gli fa stringere gli occhi, e lo sguardo vuoto, nella fessura tra le
palpebre, sembra guardare altrove. Risuona confuso il rumore del mare, poi svanisce.
Le acque scure del mare risalgono dalla rampa di sinistra, senza rumore, dalla porta
semiaperta una lama di luce filtra sulla rampa di destra, e dal riflesso si capisce che
l'acqua sta arrivando con un certo impeto.
È in bicicletta, sta pedalando, le ruote girano regolarmente, la bici è un vecchio
modello col manubrio largo, avanza lungo una stretta strada di campagna. Lontano,
sulla destra, su un vasto prato in leggera pendenza, quattro uomini, curvi in avanti,
sembrano tirare qualcosa con una certa forza, non si capisce che cosa, sicuramente
qualcosa di pesante, forse una barca, o una bara, che lascia l'impronta quando scivola
sull'erba. Avanzano con difficoltà, un passo dopo l'altro, lentamente. Nell'aria aleggia
un pianto di donna, come un canto o un lamento, sembra una delle nenie funebri
cantate dalle donne dei villaggi cinesi.
Sul manubrio della bicicletta il campanello riflette il sole in modo accecante, il
pianto assomiglia sempre più a un canto, o alle grida di chi sta issando qualcosa. Le
ruote della bici corrono sulla dritta strada asfaltata.
Quattro tipi magri e asciutti, le facce rubizze, la schiena e il torace imperlati di
sudore, lucida la colonna vertebrale, la vita stretta da un'alta cintura di tela, scarpe di
canapa ai piedi. Lui avanza guardando la corda in tensione: all'improvviso uno
strappo!
Una macchina supera la bicicletta, e se ne va. Lui volta la testa, il sole che brilla
sul prato alla sua sinistra lo costringe a socchiudere gli occhi. Nessuno all'orizzonte,
il lamento che ancora risuona sembra un canto di grilli, o forse gli fischiano soltanto
le orecchie.
In cantina, il materasso è già gonfio di acqua scura, il bianco lenzuolo che ricopre
il letto è già fradicio, il corpo dal viso nascosto dal cappello nero resta rigido, come
un cadavere. Dal soffitto l'acqua continua a gocciolare, risuonando come bolle che
scoppiano sull'acqua.
È disteso sul fianco all'ombra di un albero, la bicicletta accostata accanto, guarda e
riguarda la distesa di meli selvatici. Dai rami pendono ancora delle mele rosse non
colte. Non lontano gorgoglia un ruscello.
Una bimbetta a piedi nudi, con un secchiello in mano, appare sotto la prima fila di
meli, ha l'aria affaccendata. Indossa una camicetta a quadri scarlatti e dei pantaloni di
tela a fiori stampati su un fondo azzurro, arrotolati sotto le ginocchia, ha due lunghe
trecce, e gli occhi neri lucenti sembrano forse troppo grandi per quel visino. Esita un
attimo, incerta se proseguire. In quell'istante tutt'intorno è deserto.
Un piccolo albero ondeggia nel vento che solleva zolle di terra, si alza un denso
fumo nerastro misto a polvere che all'improvviso oscura il cielo. Poi si sente il rombo
di un aereo che passa, colpi di mitragliatrice e scoppi di bombe seguiti
immediatamente dal vagito dei neonati e dal pianto delle donne.
Alcuni bambini si accucciano facendo cerchio intorno a un badile di ferro, che
osservano mentre da un piede viene spinto nella terra. Una palata di terra viene tirata
su, poi la terra è sminuzzata col badile, poi un'altra, e un'altra. Un ragazzo più grande
si china e raccoglie tra la terra sbriciolata un bossolo di proiettile di mitragliatrice,
che pulisce per bene sul vestito e poi infila nella tasca dei pantaloni. Prende di nuovo
il badile, e si mette a scavare un po' più in là. Tra i bambini che lo circondano uno
gira la testa e vede la terra che è tutta buchi.
Lo scrosciare dell'acqua, l'acqua nera del mare che scivola lungo i gradini, è
inarrestabile.
Nel buio si accende un fiammifero, che rischiara la vecchia foto ingiallita di un
ragazzo vestito all'occidentale, con la cravatta, e di una ragazza con l'abito cinese
tradizionale che tiene in braccio un bambino di due o tre anni, i due adulti sono
vicini, le spalle si sfiorano, un sorriso d'occasione stampato in viso. Il piccino, stretto
fra i genitori, ha gli occhi spalancati, l'aria un po' stupita. Dal bordo della foto il fuoco
arriva a lambire i genitori, la foto si rimpicciolisce, si accartoccia, e in un soffio si
infiamma tutta, i genitori ormai sono bruciati, e il piccolo ha preso un colore
brunastro.
La bolla di sapone più si soffia e più cresce, in superficie l'acqua insaponata vortica
sempre più forte, i colori riflessi dal sole sono ancora più brillanti, e variegati,
raggiunto il massimo si dilegua senza rumore svelando il viso stupito del bambino
che le soffiava dentro.
Nell'acqua scura galleggia piano il materasso, leggermente inclinato, si piega verso
il basso, poi ritorna in alto, e dopo due o tre ondeggiamenti si stabilizza lentamente
galleggiando sul pelo dell'acqua.
L'acqua gocciola ovunque. Lui alza la testa per guardare la pioggia che cade sulla
gronda, nel cortile lì davanti sono in deposito pezzi di macchinari agricoli e un aratro
di ferro che non si usano più. Due cani gli ringhiano. Torna in casa, e la stanza
dall'alto soffitto è completamente stipata di fascine di paglia. In mezzo a questo
granaio buio un lungo tavolo, intorno a cui è seduto un gruppo di ragazze, ognuna
con una diversa espressione in viso, ma tutte hanno sugli occhi, sulla punta del naso,
le sopracciglia, le guance, gli angoli della bocca, le orecchie, tracce di farina, a testa
bassa la impastano con le mani, cantando, immerse nella tristezza. Solo davanti a una
ragazza che porta lunghe trecce è appoggiata, di fronte a uno specchio, una lampada a
olio protetta da un paralume. Dietro di lei una compagna le ha sciolto le trecce e la sta
pettinando. D'istinto lui si avvicina allo specchio e vede un paio di forbici tagliare
quei lunghi capelli, poi sente i cani che abbaiano.
Un giorno di pioggia, una vuota stradina di paese, un silenzio tale che non si sente
neppure il gocciolare della pioggia. Sulle facciate in pietra, le vecchie imposte di
legno delle finestre sono serrate. Sopra la superficie stradale lastricata è piazzata nel
muro, ad altezza d'uomo, una porta di legno a un solo battente rinforzata da una
sbarra di ferro. Il legno è già stagionato e mostra spesse striature. Il canto doloroso di
una sposa in lacrime confusamente si diffonde dalla porta chiusa. Ma più ci si
avvicina, e più la vista si confonde.
La mano spinge un pesante portone, è una chiesa, sul pavimento a lastre coperto di
file di sedie vuote i passi che avanzano risuonano e vengono amplificati dall'eco. Sul
muro, i resti di un affresco medievale, dai tratti grossolani, i colori cupi, i volti
sbiaditi degli apostoli non si riescono a distinguere.
Un ruscello, i ciottoli tondi, il gorgogliare dell'acqua. A guardare indietro, sotto un
cielo plumbeo gonfio di pioggia, un villaggio è arrampicato sulle pendici del monte,
collegato alla strada da una scalinata di pietra, il campanile della chiesa si staglia al
centro, e la pioggia aumenta. Lui cammina sulla strada del villaggio, i vestiti quasi
completamente fradici, la pioggia gli cola sulla nuca. Una macchina lo supera, lui fa
segno con la mano e la macchina, che è già a una decina di passi di distanza, si ferma.
Lui corre, la portiera si apre.
Alla guida è una donna, dallo specchietto retrovisore ne vede il profilo, ha delle
rughe agli angoli degli occhi. Lei gli chiede qualcosa, lui risponde. La donna si volta
per guardarlo, è truccata con cura. Lei gli fa un'altra domanda, lui risponde. La donna
guarda di nuovo avanti, e dallo specchietto la bocca si incurva in un piccolo sorriso.
La pioggia continua a cadere sul vetro spazzato dai tergicristalli.
La nera acqua di mare superati i gradini di pietra dietro la porta continua a colare
dentro, è come se una lunga pezza di lucido raso nero si stesse srotolando verso non
si sa dove, rischiarata da una lama di luce.
In basso, lo sguardo cade su un lungo tavolo di legno, su cui sono allacciati
strettamente un uomo e una donna, nudi; continuano a contorcersi senza sosta, un
liquido farinoso colore del latte cola gocciolando dai loro corpi sulla tavola, in una
pioggia sottile, e come la pioggia risuona. Dovunque fascine di paglia e granturco
secco, forse è un granaio, ma i nitriti intermittenti fanno pensare a una scuderia.
È seduto a una vecchia tavola tonda, indossa un costume da bagno blu scuro, le
mani appoggiate sulla tavola di legno duro striato da lucide venature, poi con una
mano rigira un bicchiere mezzo pieno di vino rosso. La luce di un lampadario sospeso
in mezzo al tavolo, schermato da un paralume metallico, gli illumina la mano. Nel
cerchio di luce c'è anche un globo di pietra levigata e lucida, la cui ombra si staglia
nitida sul tavolo. La mano che tiene il bicchiere esce dal cerchio di luce, mentre l'altra
spinge via il globo di pietra, la cui ombra, allontanandosi, si allunga. Si sente una
musica, sembra un blues, ritmata, a scatti, ora forte ora debole, si avvicina, si
allontana, sembra bloccarsi, per poi riprendere come sospesa nell'aria... Lui si alza,
gira intorno alla tavola e osserva il continuo mutare di posizione del globo di pietra e
della sua ombra nel cerchio di luce.
Accanto alle tende bianche della finestra, sul muro è appesa una testa di donna
scolpita, illuminata da una luce, il volto bianco, le labbra scure, i capelli neri raccolti
in alto, le palpebre abbassate, le labbra semiaperte, come se facesse mostra di
dormire. A guardarla più da vicino, un occhio è aperto e l'altro è chiuso, se poi ci si
allontana ci si accorge che uno è più in alto dell'altro. Di traverso, il labbro inferiore
sembra più carnoso. Di profilo, ha le labbra sporgenti. Se la si osserva a lungo sembra
stia aprendo la bocca, come se volesse tirare fuori la lingua. Controluce, si scopre che
ha delle cicatrici sulle guance, una strega dal viso funesto. A guardarla con gli occhi
socchiusi, ecco che quel viso torna ad essere attraente. Clic! La luce si spegne.
L'acqua continua a scrosciare, cola giù dai gradini di pietra, intermittente, e
siccome si è messo a piovere la luce scintilla, tenue.
La tenda si muove, si apre. Alla finestra compare il profilo di una donna nuda. Lei
la apre, fuori i tetti grigi e più lontano un intrico di balconi e di mansarde di vecchi
palazzi, il cielo di un azzurro intenso sembra particolarmente nitido, ma non si riesce
a capire se sia mattino o sera. La donna si volta, si appoggia alla ringhiera in ferro
battuto della finestra, come affaticata, il viso e il corpo si riescono solo a intravedere,
solo gli occhi brillano, intensi, come quelli di un gatto nel buio. Anche il bracciale
che porta al polso, appoggiato sulla ringhiera, brilla. Una macchina che passa risuona
come un'onda rombante.
Uno stormo di gabbiani volteggia sul mare; gridano come avessero trovato
qualcosa, seguendo il moto del mare. Le onde sono alte, e tra una cresta e l'altra
l'acqua riluce di profondo azzurro.
Sotto i piedi, l'erba ingiallita si piega al vento, senza rumore. Lui avanza lungo la
china del monte, girando intorno a un muro in rovina; dei ragazzi lo stanno
aspettando. Uno di loro porta occhiali da miope, dalle lenti tonde e spesse, come gli
occhi di un pesce rosso, c'è anche una ragazza coi capelli corti, la pelle ambrata, che
mastica semi di cocomero, le bucce che sputa volteggiano un po', e poi si poggiano
sull'erba. Nessuno parla, quando vedono che sta arrivando, vanno tutti quanti verso
valle, dove si delinea un cerchio di case, un campanile, un campo sportivo.
Nella cantina inondata di acqua di mare, il materasso fradicio galleggia
dolcemente, il continuo, indistinto rombo delle macchine che passano somiglia al
vento.
I ragazzi entrano nel lungo corridoio dove la luce del sole, ritagliata dai pilastri, è
particolarmente accecante. Una dopo l'altra, superano le aule dai finestroni aperti,
piene di banchi e di sedie, deserte, ma il rumore dei passi risuona solo dopo il loro
passaggio.
In fondo al corridoio una porta chiusa a chiave, con una targa. Si fermano a
osservare la targa su cui non è scritto nulla. Esitano un attimo, come per mettersi
d'accordo, poi bussano. Senza alcun rumore la porta si apre, e nella stanza davanti a
ogni banco sta seduto, come uno studente, un professore che a testa bassa sta
correggendo i compiti. I ragazzi non capiscono se possono fare domande, quando una
professoressa compare alle loro spalle, sembra giovane come allora, ha solo il viso
molto pallido, come una statua di cera. Ha la faccia stanca, gli occhi un po' gonfi,
segnati da occhiaie scure. Dice che porterà tutti dal preside, che è molto contenta che
siano tornati nella loro scuola tanto tempo dopo essersi diplomati. Dice di ricordarsi
di quella classe, che erano ancora bambini ma già vivacissimi, e ha una voce e una
risata che somigliano a quelle di un pupazzo di cartapesta. Certo che si ricorda di
quella volta, quando avevano fatto ancor più baccano, e su quei banchi non si sa bene
chi aveva cominciato a battere e tutti poi gli erano andati dietro, scatenando un
terribile frastuono. Appena lei era arrivata davanti alla cattedra, il libro stretto sotto il
braccio, aveva fulminato con gli occhi tutta la classe ma, non riuscendo a individuare
i colpevoli, aveva gettato via il libro e, sconfitta, era fuggita via in lacrime. I ragazzi,
stupefatti, si erano improvvisamente fermati, ammutoliti.
Lei indica loro lo sportello dell'infermeria segnata dalla croce rossa sulla porta del
corridoio, nella stanzetta buia sono ammassati parecchi oggetti, tra cui alcuni
strumenti musicali, un violino a due corde, un liuto cinese, un tamburo, sono poggiati
a terra, impolverati. Lui sa che qui venivano messi in punizione a studiare gli alunni
che non avevano fatto i compiti, e chi passava poteva vedere dal finestrino quel
povero banco tutto pieno di tagli fatti con il temperino e di scritte a matita.
Lui indugia a lungo a guardare il banco, il suo sguardo mette gradualmente a fuoco
la figura di un omino e di una casetta inclinata disegnate a matita, incrociate a scritte
incise col coltello, alcune disegnate a matita nera, altre portano ancora tracce di
inchiostro nero sbiadito su cui è stata ripassata la matita e l'intaglio del coltello, e
formano un quadro il cui disordine porta a fantasticare.
L'acqua gocciola incessante nella cantina ormai invasa dal mare, gocciola sul
materasso che sta galleggiando, impregnando anche le coperte, un'acqua scurissima
che continua dolcemente a salire. Il materasso galleggiando arriva a urtare il muro
stillante d'acqua, allora arretra un po', e comincia a dirigersi altrove.
Il volto color porpora, il pomo d'Adamo in evidenza, una sorda voce di petto, il
preside racconta loro la storia di questa scuola elementare, la voce rimbomba del
vuoto del salone delle cerimonie, tra le file di lunghe assi del soffitto, come sotto la
volta di un tempio, dove si intersecano pilastri e travi di legno. La campanella si
mette a suonare, i passeri volano via. Sotto la volta alcuni monaci taoisti dalle lunghe
tonache grigie e dai capelli raccolti, le teste basse e le mani giunte, il primo agita uno
scacciamosche, e intorno a una bara, recitano preghiere.
Il coperchio della bara è ancora aperto, lui intuisce che il cadavere disteso lì dentro,
il viso ricoperto da un sudario, forse è proprio lui, gli sembra di ritrovare qualcosa di
perduto, ma quando gira la testa a guardare non ricorda più cosa cercasse, riesce solo
a distinguere alle sue spalle un portone semiaperto, le due ante in ombra, mentre fuori
alla luce del sole, sui gradini di pietra, è appoggiato un piccolo secchio di legno per
tirare su l'acqua, dalla vernice scrostata, e davanti una lucertola si arrampica su di un
gradino sbrecciato.
Esce da quel salone da cerimonie, che forse prima era un tempio, trasformato poi
nel salone di una scuola, o forse era proprio un salone da cerimonie, nel buio del
corridoio una stele a cui manca un angolo, scritta in un folle corsivo, forse di Mi Fu, 2
ma la cui parte finale, incisa in caratteri regolari, recita: «Calligrafata la prima luna
dell'anno Dingmao del regno di Yuanyu dei Song», 3 negli anni era stata spesso
ricalcata con inchiostro su carta, deteriorandosi gravemente, del testo rimane ormai
ben poco, lo si riesce a decifrare da vicino, ma da lontano è tutto confuso.
Lui cammina nel sole, un bambino vestito con maglietta e calzoncini gli passa
accanto su una biciclettina blu metallizzato, nuova fiammante. Lui gli chiede una
cosa, il bambino si ferma, poggia un piede sul prato indicando qualcosa davanti a sé,
2 Mi Fu (1051-1107), pittore, poeta e calligrafo vissuto durante la Dinastia dei Song Settentrionali [N.d.T.].
3 Corrisponde all'anno 1091 [N.d.T.]
e si affretta a ripartire.
Avanza dritto, e arriva su un prato accuratamente tosato. Superato il prato,
crescono alte le erbacce, da cui emerge, brillante, il manubrio di una bicicletta. Si
avvicina, e vede la biciclettina blu metallizzato gettata in un fosso, ricoperta di erbe
selvatiche.
A grandi passi risale la collina, e via via si mette a correre, sempre più rapido fino
a non avere più fiato, ed è come se man mano che corre gli apparisse sempre più
chiaro: non sta forse inseguendo se stesso, gli anni della sua giovinezza? In cima alla
collina un piccolo albero di giuggiole amare, le cui foglie delicate tremolano al vento.
Quel bambino, finalmente, torna correndo da dietro la collina, a testa alta, e si
ferma a guardare davanti all'albero di giuggiole, l'aria leggermente turbata, forse ha
scoperto qualcosa, e allora si mette a correre quasi volando verso una certa direzione.
Non lontano dalla cima, un boschetto di alberi radi, tra due di essi è steso ad
asciugare un lenzuolo bianco, dietro il quale sembra ci sia qualcosa che si muove.
Quel bambino vi si getta dentro di scatto, ma rimane impigliato nel lenzuolo e non
riesce a districarsi.
Anche il vento gioca con il lenzuolo, mentre quel bambino, ansimando, si dibatte
con difficoltà, finalmente riesce a liberarsi, ma subito dopo scopre di avere davanti un
altro lenzuolo bianco, appeso come l'altro tra due alberi, che ondeggia incessante al
vento.
Il bambino osserva, poi si avvicina furtivo. Dietro il lenzuolo si profila una forma
umana, e allora ne solleva circospetto un lembo, non c'è nulla, ma vicino, sulla
sinistra, tra due alberi è appeso un altro lenzuolo. Quel bambino, d'istinto, si guarda
intorno.
Dovunque, intorno a lui, lenzuoli bianchi ondeggiano danzando nel vento. Si ferma
davanti a uno, quando vede comparire un paio di gambe di donna. Lui guarda
trattenendo il respiro, ecco un capezzolo ergersi da un candido, opulento seno. Apre
di scatto il lenzuolo, e si vede di fronte quel bambino che sta in piedi e mentre lo
guarda tra il bianco della tenda, gli occhi atterriti, emette un grido, che è quello di un
suona 4 e si nasconde il viso tra le mani.
Il bambino si arrampica davanti alla bara circondata di bianchi stendardi di carta, e
piangendo si allontana di corsa, mentre il vibrare di un suona fa da eco al suo pianto
silenzioso. Quando il bambino e il suono dello strumento non ci sono più, resta solo
la bara aperta circondata da stendardi di carta e tende bianche che ondeggiano nel
vento.
Le acque nere del mare continuano a salire senza fermarsi, e il materasso fradicio
d'acqua è mezzo sommerso. Il cappello nero che copre la faccia si avvicina sempre di
più al soffitto.
Lui salta fuori dalla bara intorno a cui garriscono gli stendardi di carta, liberandosi
del sudario in cui è avvolto. Incespicando scappa via dalla collina coperta di drappi e
di bandiere, e corre verso un lago dalle acque verdeggianti, a valle, entra nell'acqua,
ma rimane di nuovo impigliato, forse sono alghe, e cerca di divincolarsi. Da lontano,
le onde che increspano l'acqua si disperdono, e non si riesce a distinguere se sta
4 Strumento tradizionale cinese a fiato, ad ancia, a forma di tromba, di legno con imboccatura ed estremità in bronzo
[N.d.T.].
annegando oppure sta nuotando verso il centro del lago.
L'acqua del mare arriva al soffitto, gorgogliando, come un uomo che, affogando,
continui senza volere a inghiottire acqua, o come un tubo intasato che ribolle.
Il corso d'acqua, di un azzurro che diviene sempre più intenso, arriva fino al mare,
la luce scintilla sulle onde, cielo e mare, lontano, sono una cosa sola.
Un oggetto nerastro galleggia fra le onde. Fra la marea che sale, nell'incavo di
un'onda, si distingue il corpo nudo di un uomo disteso su un materasso che sta per
essere risucchiato dai flutti.
Onde blu scuro, dai riflessi neri, contornate da ciuffi di schiuma bianco azzurra
balzano dalle profondità del mare, il cielo è ancora così chiaro, il vento così forte.
La superficie del mare si alza d'improvviso, e nel cavo di un'onda si vede un corpo
nudo, disteso su un materasso che sta per essere sommerso, con il collo stretto in una
cravatta di pelle nera, che con una mano afferra il cappello nero che gli copriva la
faccia, e con l'altra recupera i suoi occhiali neri, e nell'attimo in cui il mare sta per
sommergerlo, mostra un paio d'occhi da pesce morto, e ha la faccia congelata in
un'espressione di sorriso che non è un sorriso.
Lontano, sulla spiaggia desolata, dalla finestra sembra di vedere in controluce un
uomo allungato in una sdraio, che dà le spalle al mare, un asciugamano sulla schiena;
con una mano tira su il cappello che gli copriva la faccia, con l'altra tira su un libro
dalla sabbia, e si rimette a leggere.

Parigi, ottobre 1990


Indice

Il Tempio della Grazia perfetta


L'incidente
Il crampo
In un parco
Una canna da pesca per mio nonno
Attimi
Finito di stampare nel mese di gennaio 2002
per conto di MONDOLIBRI S.p.A., Milano
presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche
Bergamo

Stampato in Italia - Printed in Italy

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