Sei sulla pagina 1di 66

Luigi Oreste Rintallo

I giorni della perdita

1
Copyright – 2014 Luigi O. Rintallo
Tutti i diritti riservati

2
A papà

3
4
SOMMARIO

Prefazione p. 7
14 febbraio 1966:
la puntura della «Zanzara» p. 9
12 giugno 1975:
l’assassinio di Alceste Campanile p. 23
Quel 12 maggio 1977… p. 37
28 maggio 1980:
il delitto Tobagi p. 49
Avvertenza p. 65

5
6
Prefazione

Quattro storie dall’alba dei movimenti libertari


alla notte buia degli anni di piombo: i saggi qui
raccolti rievocano fatti di cronaca del nostro
recente passato, alla luce dei quali è possibile
ricostruire il percorso che ha visto bruciare la
speranza di libertà apertasi alla fine degli anni
Sessanta.
Si comincia dal 14 febbraio 1966, quando uscì
sul giornale scolastico del liceo Parini di Milano
«La Zanzara» un’inchiesta sulle opinioni delle
giovani studentesse, che fece scalpore e sfociò in
un processo, dove ebbe modo di manifestarsi la
reazione bigotta contro la rivoluzione dei costumi
che andava delineandosi. I giovani redattori della
«Zanzara» davano, nel loro piccolo, un grande
contributo all’emancipazione da antichi tabù e
prefiguravano la trasformazione avviata con la
stagione dei diritti civili.
Un mutamento conculcato e compresso
dall’involuzione subita dai movimenti, consumati
dal fuoco delle ideologie fanatiche e violente. I
giorni degli omicidi di Alceste Campanile (12
giugno 1975), Giorgiana Masi (12 maggio 1977) e
Walter Tobagi (28 maggio 1980) rappresentano
così altrettante stazioni di una lunga processione
7
di sangue, versato in nome di falsi ideali
espressione di una violenza cieca e sorda alla
ragione.
Sono i giorni della perdita, perché dalla
violenza estremista proviene soltanto una perdita
di libertà. Quella violenza si nutriva di fondamen-
talismo, che come sempre fa leva sulla paura, la
prima e più forte limitazione di ogni libertà.
E come sempre, il suo primo nemico è la
volontà di cambiare dei riformatori, con la sua
gradualità e la sua fiducia nel progresso.
L’obiettivo di ogni fanatico è in fondo solo quello
di negare all’uomo il suo stato di essere libero e
creatore del suo destino.

8
14 febbraio 1966:
la puntura della «Zanzara»

Un’inchiesta scomoda al liceo “Parini”


È San Valentino quando comincia a essere
distribuito il numero 3 della «Zanzara», il
periodico studentesco del liceo classico “Parini” di
Milano. Al posto di messaggi per innamorati, in
prima pagina campeggia un’inchiesta dal titolo un
po’ roboante: Cosa pensano le ragazze oggi. A
firmarla sono Claudia Beltramo Ceppi e Marco
Sassano, che hanno raccolto le opinioni di nove
studentesse dell’istituto su temi come la famiglia,
la morale, la religione e il sesso.
Da un punto di vista statistico il campione non
può sicuramente dirsi rappresentativo, dal
momento che il liceo conta quasi novecento
alunni, e tuttavia le risposte sono indicative di
come nel 1966 si registrino segnali di mutamento
profondo nel costume. Ma ecco qualcuna di
queste risposte.
Tra le massime aspirazioni non sembra che ci
sia quella di diventare l’angelo del focolare: “Se mi
offrissero una vita solo dedita al matrimonio, alla
casa e ai figli - dice una liceale - piuttosto di vivere
9
così mi ammazzerei”. Sull’uso degli anti-
concezionali (fra l’altro negli stessi giorni
argomento di dibattito all’interno della scuola
confessionale “Zaccaria”), ecco un parere ripor-
tato nell’intervista: “Pongo dei limiti solo perché
non voglio correre il rischio di avere conseguenze.
Ma se potessi usare liberamente gli anti-
concezionali non avrei problemi di limiti”. Affiora
anche la consapevolezza che la religione (o meglio
la Chiesa) ha fatto della fobia sessuale il mezzo
per esercitare meglio il proprio dominio: “Il fatto
religioso per me è stato profondamente
negativo... La religione in campo sessuale è ap-
portatrice di complessi di colpa”. Superando le
ipocrisie del passato, c’è chi apertamente sostiene
che la procreazione non rappresenta il fine
primario della vita di coppia: “Nel rapporto
sessuale ciò che più pare importante è la necessità
di essere completamente uniti e perciò i figli sono
una conseguenza di secondo grado e hanno
un’importanza relativa”. Infine, quasi a
sintetizzare in forma di manifesto le sue istanze di
libertà, una ragazza dichiara: “Non vogliamo più
un controllo dello Stato e della società sui
problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia
libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non
leda la libertà altrui. Per cui, assoluta libertà
sessuale e modifica totale della mentalità”.

10
Ingenue utopie? Saccenterie di alcune giovani-
bene milanesi? Manifestazione di rivalità fra
gruppi studenteschi? O più semplicemente desi-
derio di comunicare i cambiamenti in atto nella
società? Probabilmente nell’inchiesta c’è un po’ di
tutto questo. Fatto è che essa non pare esprimere
nulla di realmente scandaloso per i tempi. Sul
piano morale non va oltre l’enunciazio-ne degli
imperativi kantiani, né - a parte qualche ruvidezza
di linguaggio - si distanzia più di tanto dallo spirito
innovatore che ha contraddistinto perfino i lavori
del Concilio Vaticano II. Ma tutto questo non
impedisce che quanto pubblicato dalla «Zanzara»
inneschi una formidabile polemica, che occuperà
per mesi le pagine di giornali e settimanali e che
deborderà nelle aule di tribunale, determinando
addirittura le dimissioni dell’allora presidente
dell’Associazione nazionale magistrati.
Quello che sembrava un episodio circoscritto
alla vita scolastica diventa l’emblema di un aspro
confronto fra due Italie: da un lato, quella
desiderosa di assaporare sino in fondo il gusto
della democrazia, senza timori o pregiudizi elitari;
dall’altro, quella da sempre restia a navigare nel
mare aperto di una società composta di liberi
individui e non di minorati da mantenere sotto
tutela, o tutt’al più in libertà vigilata. Come
avviene in ogni confronto, non mancavano
ovviamente gli strumentalismi da una parte come

11
dall’altra, ma resta il fatto che la puntura della
«Zanzara», forse più ancora delle “convergenze
parallele” morotee, contribuisce a far capire che
gli ormeggi agli anni Cinquanta erano finalmente
mollati.
La reazione
I primi a reagire contro l’inchiesta pubblicata
dalla «Zanzara» sono alcuni genitori. Dapprincipio
ne fanno motivo di contestazione al preside, pro-
fessor Daniele Mattalia, che non avrebbe “vigila-
to” a dovere su quanto veniva stampato; quindi
decidono di invocare l’intervento della
magistratura.
Anni prima, il Ministero della Pubblica istruzio-
ne consigliava di considerare benevolmen-te e,
anzi, di favorire la redazione di giornali scolastici,
contando proprio sul metro di giudizio dei singoli
capi d’istituto. L’esistenza di tali giornali, espre-
sione di corrispondenti associazioni studentesche,
tuttavia non era stata mai davvero digerita, spe-
cialmente dal mondo cattolico. E il motivo è ovvio:
nelle iniziative di stampo para-scolastico realizzate
all’interno degli istituti statali, i cattolici individua-
vano una potenziale concorrenzialità rispetto alla
famiglia e, soprattutto, a una formazione dei gio-
vani improntata secondo i caratteri religiosi. Per
altro verso, da parte della sinistra - e in special
modo del suo partito meglio organizzato, il Pci -
tanto le associazioni studentesche, che i loro
12
periodici erano visti come un formidabile viatico
per realizzare forme di proselitismo politico tra i
giovani.
Di tale contesto occorre tener conto, quando si
considera quel che accade al “Parini”. Liceo presti-
gioso di Milano, una quota consistente dei suoi
studenti è attivista di “Gioventù studentesca”,
un’organizzazione che si riconosce nell’insegna-
mento di Don Giussani (il futuro ispiratore di
“Comunione e Liberazione”). Le polemiche solle-
vate dall’inchiesta su Cosa pensano le ragazze
oggi sono quindi dovute inizialmente al contrasto
ideologico vissuto all’interno dell’istituto fra
studenti laici e cattolici. Sia le famiglie, sia il corpo
docente agiscono più che altro come figure di
contorno e sembrano anche alquanto smarriti
rispetto ai loro figli e allievi. Questi ultimi
sarebbero, secondo «L’E-spresso» del 6 marzo, i
rappresentanti di una generazione “il cui dramma
è soltanto di trovarsi ormai a un livello di maturità
culturale e morale superiore a quello delle
famiglie e di molti insegnanti”.
Ma se «L’Espresso» ritiene che il dibattito con
le nove studentesse sia stato condotto con senso
di responsabilità, ben diverso è il pensiero di
un’opinione pubblica frenata ancora da molti pre-
giudizi. Quale sia il suo tipo di approccio a temi
come il sesso, si comprende bene leggendo il
«Corriere lombardo», che in un certo senso pilota
13
l’attacco ai giovani redattori e al direttore loro
coetaneo, Marco De Poli. Sul numero del 23/24
febbraio ne fa soprattutto una questione di buon
gusto e del “buon gusto” intende far uso
“nell’affrontare temi scabrosi, non adatti
comunque a ragazzi di ginnasio e liceo. Per questo
abbiamo sentito il dovere... di rilevare la
sconcertante e scandalosa inchiesta pubblicata sul
giornale studentesco del “Parini”. [...] Certo che i
ragazzi debbono pur sapere com’è veramente la
vita! E chi non è d’accordo? Ma ciò che è scritto su
quel giornaletto pariniano passa ogni limite
consentito all’età minorile”.
Il tono della campagna condotta dal «Corriere
lombardo» è caratterizzato da una miscela di
paternalismo e ipocrisia censoria, all’insegna del
“si fa, ma non si dice”. E innanzi tutto non si dice,
né tanto meno se ne deve scrivere in spazi per
così dire “ufficiali” come i giornali d’istituto. Che
poi le stesse opinioni pubblicate dalla «Zanzara»
siano scambiate fra gli studenti negli intervalli o
durante i viaggi, poco importa: l’essenziale è che
non ci si provi neppure ad affrontare senza falsi
moralismi la sessualità. A posizioni come questa
corrisponde un certo modo di concepire l’edu-
cazione e, di conseguenza, i compiti dell’istituzio-
ne scolastica. L’alternativa al riguardo è descritta
con chiarezza da Alessandro Pizzorno, che
interviene sull’«Avanti!» del 6 marzo:
14
“possiamo volere una scuola in cui gli studenti
siano stimolati a discutere direttamente e
apertamente i loro problemi, anche i più
imbarazzanti, in un ambiente che premi...
l’impegno e il coraggio. Oppure una scuola in cui il
conformismo si misuri col metro dei giornali
nazionali e della questura; e gli argomenti
scottanti vengano compressi nelle battute salaci e
nelle moralità ciniche degli incontri di corridoio”.
Oramai, però, la vicenda travalica l’ambito
delle dispute pedagogiche e diventa oggetto delle
cronache giudiziarie. Già il 25 febbraio la
magistratura convoca il Provveditore di Milano e il
preside del “Parini”; dopo di che i tre studenti -
Claudia Beltramo Ceppi, Marco Sassano e Marco
De Poli - vengono dapprima interrogati dal vice-
questore Grappone e quindi condotti davanti al
pm Pasquale Carcasio.
Dall’incriminazione al processo
Negli uffici della Procura avviene un episodio
indicativo dello spirito reazionario e repressivo
che caratterizza ancora gran parte delle istituzioni.
Applicando alla lettera una circolare del 1934 che
prevedeva - fra l’altro solo facoltativamente - di
redigere una scheda dettagliata degli indagati
minorenni, il pm ordina ai tre studenti del “Parini”
di spogliarsi per sottoporli a visita medica. Claudia
Beltramo Ceppi rifiuta di farlo e suo padre, già
vicequestore di Milano nel ‘45, annuncia che
15
reagirà a quello che giudica un sopruso. Marco De
Poli e Marco Sassano non riescono invece a sot-
trarsi alla degradante procedura, che contrasta
con gli elementari diritti del cittadino. Ecco come
riferisce l’interrogatorio il loro avvocato, Alberto
Dall’Ora:
“È stato loro imposto di denudarsi e di
sottoporsi a visita da parte di persona che già si
trovava nell’ufficio, e in presenza del magistrato,
le domande loro poste durante tale visita
vertevano sui loro eventuali rapporti con
prostitute, su affezioni veneree eventualmente
contratte, mentre venivano fatti osservazioni e
commenti sul loro stato di apparente gracilità, con
il rilievo che le famiglie poco si curavano di loro”.
Va tenuto presente che l’accusa mossa tanto ai
tre liceali, quanto al loro preside consiste nella
violazione di due articoli della legge sulla stampa
(L. 47 dell’8 febbraio 1948): il 14 relativo alle
pubblicazioni destinate all’infanzia e all’adolescen-
za, e il 16 sulla stampa clandestina che sanziona la
mancata registrazione della testata, benché i
giornali scolastici non rientrino affatto in tale
normativa.
A indicare il comportamento corretto che si
sarebbe dovuto tenere in un caso del genere,
provvede sul «Corriere della sera» del 22 marzo
Giuseppe Maranini:

16
“Prospetto solo dei dubbi... ma di una cosa
almeno sono ben certo: la soluzione di questi
dubbi apparteneva e appartiene comunque
all’autorità scolastica, non alla questura o alla
Procura della Repubblica. La Procura della
Repubblica ha invocato a giustificazione della
procedura seguita un articolo di una vecchissima
legge in palese contrasto con la Costituzione della
Repubblica. Nessuno mi persuaderà che il giudice
si trovasse costretto da una evidenza di reato e di
pericolo a una qualunque azione di polizia
giudiziaria, meno che mai all’ispezione corporale o
alla visita medica dei tre ragazzi. Anche se questo
il giudice ha creduto e se l’applicazione di certe
misure gli è sembrata imposta dalla legge poteva -
anzi doveva pur ricordarsi della Costituzione e,
sollevata d’ufficio l’eccezione di incostituzionalità,
attendere il responso della Corte costituzionale”.
L’operato della procura aveva intanto provoca-
to la protesta di larghi settori dell’opinione pub-
blica laica e di sinistra. Sull’«Avanti!» del 20 marzo
esce a firma di Nicola Badalucco un articolo dal
titolo È questa l’Italia che fa paura, dove si legge:
“...i benpensanti si sono arrabbiati, rivelando
tutta la loro diseducazione, l’ignoranza e quel-
l’immenso odio contro le nuove generazioni che è
il segno più evidente di una classe e di un’età che
non hanno più niente da dire. I vecchi tartufi si
sono scatenati e, come spesso accade in questi
17
casi, la magistratura, che in molte sue zone e gradi
sembra ormai voler recitare la parte del primo
della classe nelle battaglie oscurantiste, si è messa
in moto. Ha dissepolto vecchie circolari... e ha
fatto sentire ai tre criminali della «Zanzara» quan-
to forte e pesante sia la giustizia, convocandoli per
un interrogatorio e invitandoli poi, con un disgu-
stoso contorno di domande insultanti e di
ammiccamenti, a spogliarsi e a farsi visitare, come
maniaci sessuali, come sifilitici da schedare. Ecco
l’Italia che fa paura”.
Il pezzo costerà al giornalista e al direttore del
quotidiano socialista, Aldo Quaglio, un’incrimina-
zione per vilipendio della magistratura. La quale
non si risparmia e, per ordine del sostituto pro-
curatore Alessi di Novara, fa sequestrare anche le
copie de «L’Espresso» dove si ricostruiva la vicen-
da. Quasi altrettanto alto sarà il prezzo pagato dal
presidente dell’Associazione nazionale dei magi-
strati Mario Berruti. Per aver chiesto il 21 marzo al
ministro di Grazia e giustizia Reale di aprire un’in-
chiesta nei confronti del pm Carcasio, una set-
timana dopo egli presenta le sue dimissioni a
seguito della vera e propria sollevazione dei suoi
colleghi, inviperiti per il vulnus arrecato all’au-
tonomia della corporazione. Riuniti in assemblea, i
magistrati voteranno in 19 un documento di
accettazione delle dimissioni sottoscritto dai
rappresentanti di Magistratura democratica e

18
Terzo potere, rispettivamente la componente di
sinistra e quella centrista dell’Anm. In 14, invece,
si schierano a favore della mozione presentata
dalla corrente Magistratura indipendente, strenua
guardiana della salvaguardia corporativa
dell’ordine giudiziario, e che verso Berruti è
ancora più severa. Come a dire, insomma, che nei
comportamenti sostanziali si soprassiede dalle
differenze ideologiche e nessuna solidarietà può
darsi a chi si permette di discutere l’operato dei
magistrati.
Il 22 marzo il preside, con la tipografa e i tre
studenti del “Parini” vengono rinviati a giudizio e il
processo si tiene per direttissima. In risposta a
questa decisione, giovedì 24 marzo, per le vie di
Milano sfilano quattromila studenti di tutte le
scuole. Anche Pietro Nenni, allora vicepresidente
del Consiglio dei ministri, esprime la sua solida-
rietà agli imputati. Lo fa con questa lettera indiriz-
zata al papà di Marco Sassano, resa pubblica il 25
marzo:
“Caro compagno, quello del liceo “Parini” è uno
scandalo di tipo borbonico. Io quasi non me ne
dolgo giacché sono arrivato alla conclusione che
soltanto gli scandali possono raddrizzare la
situazione. Noi paghiamo duramente il fatto di
avere, venti anni orsono, abbandonato lo Stato ai
moderati. I guasti sono tali e tanti che, nel
migliore dei casi, ci vorranno anni a risanarli.
19
Salutami il tuo figliolo, digli che alla sua età, o
poco più, io facevo la spola da carcere a carcere
per l’allora tristemente famoso art. 247 del C.P. Ci
sono purtroppo ancora una infinità di articoli da
far sparire. E ci riusciremo, non so in quanto tem-
po perché tutto è lento e arrugginito. Ci vuole un
tempo enorme, per varare una legge in sede
governativa. Ci vogliono mesi e mesi, e sovente
anni, per farla approvare dal Parlamento (pensa
alla riforma del Codice di procedura penale oppure
alla legge sul referendum). Il problema è sempre
quello di battere e ribattere finché la porta non si
apre (o non si sfonda)”.
Le udienze cominciano il 30 marzo: in aula la
pubblica accusa è sostenuta da Oscar Lanzi, al
quale è stata affidata la Procura di Milano dopo il
trasferimento di Carmelo Spagnuolo a Trieste e in
attesa dell’arrivo di De Peppo. Durante il dibat-
timento, Lanzi si scontra più volte con il presi-
dente del tribunale Luigi Bianchi D’Espinosa pro-
prio sui modi in cui si sono svolte le indagini preli-
minari. Accogliendo le tesi degli avvocati difensori,
il giudice riconosce infatti che l’ispezione cor-
porale non era necessaria e contrastava coi prin-
cìpi costituzionali. Alla fine tutti gli imputati sono
assolti per non aver commesso il fatto e, se pure
l’ufficio del pubblico ministero riuscirà a far acco-
gliere il suo ricorso dalla Cassazione ottenendo di
trasferire il processo a Genova, la sentenza

20
segnava comunque un punto di svolta decisivo.
«L’Espresso» del 10 aprile spiega il suo effetto con
queste parole:
“...Oscar Lanzi e quella parte di magistrati
presenti in aula che erano d’accordo con lui sen-
tirono che qualche cosa era finito. Questa volta
non era solo un presidente coraggioso in un’aula
di tribunale semideserta a sconfessare la posizione
della Procura. Era un giudice illuminato e un
grande giurista che difendeva i diritti dell’Italia
democratica, dinanzi e con la solidarietà di tutto il
Paese”.
Il caso della «Zanzara» ha in sé i caratteri del
passaggio epocale e fa scoprire come il boom e la
diffusione del benessere economico convivevano
con lo stato di arretratezza tipico di una società
chiusa e arcaica. Al tempo stesso, l’episodio era il
risultato di un processo, da tempo avviato, teso a
uniformare alle società moderne quella italiana.
La sua manifestazione più evidente si realizzerà
con lo sconvolgimento culturale che di lì a poco
avrebbe investito, col resto del mondo, anche
l’Italia: è infatti fuori dubbio che il ‘68 segni un
momento di svolta nel costume, prima ancora che
sul piano politico. Con la stagione sessantottina
cambiano il modo di pensare e i comportamenti di
moltissimi italiani, nonostante tutti i cascami
controriformisti ai quali si deve tuttora far fronte,

21
di cui il permanere di una giustizia inquisitoria è
una delle espressioni più eclatanti.
A ben vedere, tuttavia, quella stagione segnerà
per noi anche la fine del viaggio verso un approdo
laico-liberale così come avvenne in altre nazioni,
dove il ‘68, svincolato da ogni deriva operaista, fu
uno straordinario momento creativo. Oggi, è
lecito pensare che proprio il prevalere negli anni
Settanta della dimensione politicistica - intrisa del
vano estremismo stanco replicante di ideologie
condannate, perché di fatto contrastanti con
l’umano sentire - ha contribuito a dissipare una
straordinaria occasione di crescita civile e indivi-
duale. I suoi orizzonti erano stati intravisti dai
giovani studenti del “Parini”, che provarono a
confrontarsi col tema della sessualità senza timori,
avendo come bussola un innato desiderio di
libertà fatta di serena consapevolezza.

22
12 giugno 1975:
l’assassinio di Alceste Campanile

Nessun dubbio: è un delitto di “marca fascista”


L’una di notte di venerdì 13 giugno 1975 è
passata da poco, quando Angiolino Bergamini
rientra a casa con la moglie. Mentre percorrono in
auto il tratto di strada fra Montecchio e Sant’Ila-
rio, a un certo punto la signora chiede di fermarsi
perché si sente poco bene. È allora che intrave-
dono, lungo un viottolo di campagna, il corpo di
un ragazzo steso a terra con un braccio piegato
sotto la schiena. Bergamini non perde tempo e,
giunto in una pizzeria vicina ancora aperta, chiama
la polizia. Nel locale c’è un medico, Francesco
Fochi, ed insieme tornano nei pressi del torrente
Enza, dove giace il cadavere.
Dai primi rilievi, la polizia scopre che il giovane
è stato assassinato con un colpo di pistola alla
nuca e un altro al cuore. Una vera e propria
esecuzione, per la quale chi ha sparato ha colpito
a freddo la vittima anche dopo che era già caduta.
L’ucciso viene presto identificato: ha ventidue
anni e si chiama Alceste Campanile, uno studente
di Reggio Emilia al secondo anno di corso presso il
Dams di Bologna.
23
Persona nota alle forze dell’ordine, Alceste
Campanile militava in Lotta continua ed aveva
partecipato a varie manifestazioni. Il suo percorso
politico era stato, tuttavia, alquanto tormentato:
da giovanissimo simpatizzante dei liberali, si era
avvicinato, prima del 1970, a Giovane Italia, una
organizzazione giovanile del Msi; quindi, aveva
aderito al movimento della sinistra extra-parla-
mentare. Il delitto è pertanto da subito inquadra-
to come “politico” e, già l’indomani, Sergio
Penassi di Lotta continua lo qualifica come
“un delitto di marca fascista, una esecuzione a
freddo che si inserisce nella strategia della
tensione”.
Dopo di che, Penassi sente inoltre il bisogno di
aggiungere questa precisazione:
“Sia chiaro che Lotta continua risolve i suoi
problemi con il dibattito politico, non certamente
a pistolettate”.
Sebbene esprima un giudizio forse prematuro,
dal momento che non si sa ancora nulla sui motivi
dell’omicidio, la prima frase non deve meravigliare
molto. Anche perché, come vedremo, si affianca a
considerazioni simili provenienti da un vasto arco
di forze politiche, da Comunione e Liberazione al
Partito comunista italiano. Può lasciare, invece,
perplessi la seconda parte della dichiarazione.
Solo, però, qualora si insista ad ignorare la realtà
24
di violenza che contraddistingueva l’estremismo di
destra e di sinistra negli anni ’70.
Aggressioni e pestaggi erano all’ordine del gior-
no, sia tra i cosiddetti “fasci” e i “rossi”, sia per
regolare i conti all’interno di uno stesso raggrup-
pamento. Ma questa che oggi può risultare la
semplice constatazione di un dato di fatto, era
allora del tutto fuori portata dalle convinzioni
prevalenti, quasi sempre intrise di ideologismo e
di grezzo strumentalismo politico. Nel caso
Campanile, tutto ciò è di una evidenza lampante.
A poche ore dall’assassinio, non c’è alcun
mistero circa i suoi autori. Senza dubbio va
attribuito ai fascisti, che proseguono in tal modo
la loro azione destabilizzante nei confronti dell’or-
dine democratico. Tesi sostenuta in primo luogo
dal Pci, che in questi luoghi è qualcosa di più di un
semplice partito, rappresentando la voce di una
realtà politica, culturale e sociale a suo modo
unica nel Paese. D’altra parte, questa attribuzio-
ne immediata si basava su un precedente che, nel
comunicato emesso dalla locale sezione di Reggio
Emilia, è prontamente ricordato. Solo sei mesi
prima, la neo-fascista Legione Europea aveva
diffuso alcuni volantini, che ricordavano i trascorsi
di Alceste e lanciavano questo avvertimento:
“Compagni, attenti! Chi ha tradito una volta può
tradire ancora”. Il fatto, come pure la coincidenza
col luogo scelto (la provincia di Reggio, terra anti-
25
fascista) e con l’imminente voto amministrativo,
confermavano, secondo il Pci,
“l’esistenza di trame provocatorie e anti-
democratiche i cui fili sono tirati da forze che
vogliono gettare il Paese nel caos”.
Gli stessi argomenti si ritrovano nel
comunicato-stampa del Comitato provinciale anti-
fascista, che ricalca praticamente quello del Pci. Vi
si legge che il delitto si colloca
“nel quadro della violenza di marca fascista,
tesa a creare un grave turbamento nelle giornate
conclusive della campagna elettorale”.
Sulla matrice dell’omicidio, concorda anche
Comunione e Liberazione che, da parte sua,
dichiara:
“è un’altra vittima delle forze fasciste che
intendono far degenerare il momento elettorale
per impedire la democrazia, per imporre un falso
concetto di ordine statale”.
L’assassinio, dunque, è fatto subito rientrare in
una casistica nota e sono ben pochi a interrogarsi
sui suoi possibili moventi. Eppure, al di là della
conferma di ribadite certezze, qualche domanda
poteva anche affiorare tra i numerosi commenta-
tori. In quelle settimane, per esempio, si dice che
Renato Curcio - il capo br evaso dal carcere di
Casale Monferrato a febbraio - fosse stato

26
segnalato in zona. Una notizia delicata, che
qualcuno nel cosiddetto “movimento” avrebbe
potuto lasciar trapelare con troppa superficialità.
Ai primi di giugno, poi, c’era stata l’irruzione dei
carabinieri nella cascina di Acqui Terme (Ales-
sandria) per liberare l’industriale Vittorio Gancia,
rapito dalla colonna brigatista di Mara Cagol,
rimasta uccisa durante lo scontro a fuoco. In
seguito a ciò, a Reggio Emilia la polizia compie un
solo controllo nell’area di estrema sinistra, perqui-
sendo proprio l’abitazione di Alceste Campanile.
Non mancavano, insomma, elementi che pote-
vano suggerire scenari diversi: lo studente di Lotta
continua poteva apparire come un soggetto sotto
pressione, forse un punto debole, un pericolo.
“Cooperazione” nelle indagini
L’inchiesta, affidata al sostituto Vittorio Scar-
petta e coordinata dal procuratore Moi, si muove
inizialmente ad ampio raggio e punta a ricostruire
prima di tutto le ultime ore del giovane assassina-
to e le sue frequentazioni.
Alceste abitava con due amici in via Ariosto, ma
la sera del 12 giugno la passa a casa dei genitori in
piazza Vallesneri. Dopo che la madre gli ha dato
duemila lire, chiede di essere accompagnato in
macchina ad un ristorante al fratello Domenico,
ma poiché questi ha un impegno esce da solo. A
piazza Duomo incontra un amico, al quale
27
promette di incontrarlo più tardi in un’osteria. Il
vuoto nella notte di Alceste Campanile comincia
pertanto dopo le dieci e la sua destinazione è il
ristorante Le Fratte, dove la polizia immagina si sia
recato con altri: gli assassini?
Mentre gli inquirenti sono impegnati nei primi
accertamenti, accade un fatto singolare. Il
presidente del Comitato anti-fascista, l’ex
partigiano Otello Montanari, esponente di spicco
del Pci emiliano, incontra il questore. Il colloquio
tra i due si protrae a lungo e, all’uscita, è il
presidente del comitato anti-fascista a fermarsi a
parlare coi giornalisti che aspettano fuori dalla
Questura. A leggere le cronache dell’epoca, quelle
scambiate fra Montanari e i cronisti sembrano più
le battute di una conferenza stampa con le
autorità investigative, che non le dichiarazioni di
una personalità del tutto estranea alle indagini.
Ecco cosa dice:
“Chi ha ucciso è certamente un professionista.
Lo dimostra la sua freddezza e il suo cinismo. Cosa
intendo per professionista? Un esempio: è un
professionista il killer che sparò a Calabresi”.
All’epoca, è il caso di precisare, quale respon-
sabile dell’omicidio Calabresi si faceva il nome del
terrorista di destra Gianni Nardi, arrestato nel
settembre ‘72 e poi resosi latitante. Montanari,
tuttavia, non si ferma qui e, mentre si accende un
sigaro prestigioso, proclama allusivamente: “sono
28
stranieri”. Facile per Vittorio Monti, del «Corriere
della sera», raccogliere il messaggio e scrivere
che:
“pur in assenza di affermazioni esplicite, il
riferimento traspare: i killer non sono locali,
diciamo dunque mercenari di un esercito molto più
esteso, che li ha mandati in trasferta”.
Ad avvalorare le sue congetture, Montanari si
sofferma quindi su quanto avvenuto durante i
cortei sfilati a Reggio dopo il delitto:
“Ieri sera, durante la manifestazione di piazza,
fra quelli di Lotta continua si erano infiltrati dei
fascisti che istigavano ad usare le armi contro la
polizia”.
In conclusione, gli assassini - quasi certamente
dei neo-fascisti - sarebbero venuti da fuori per
colpire il militante di Lotta continua. Perché
proprio Alceste, nessuno se lo chiede però.
Neppure quando suo padre, Vittorio Campanile,
ricorda che sì, “mio figlio era un giovane genero-
so, sempre pronto a dare attività per le sue idee,
ma non certamente un leader o un simbolo”.
A due giorni dal rinvenimento di Alceste Cam-
panile e poche ore dopo le esternazioni di Monta-
nari, il magistrato convoca l’estremista di destra
Claudio Mutti, un amico di Franco Freda arrestato
nel maggio per concorso in strage. Dopo l’inter-
rogatorio, l’indagine si indirizza verso gli ambienti
29
neo-fascisti di Parma, gli stessi a cui era stato
addebitato l’omicidio di un operaio, avvenuto tre
anni prima. Lo “straniero” sotto torchio è Mario
Bonazzi, fratello di Edgardo accusato dell’uccisio-
ne nel ‘72 di Mario Lupo, un altro aderente a Lotta
continua. In seguito a più approfonditi rilievi,
tuttavia, l’obiettivo Bonazzi si dissolve: il
parmense risulta infatti del tutto estraneo e gli
investigatori sono costretti ad ammettere di non
riuscire a capire il movente.
Trascorrono quasi due settimane e sui giornali
è annunciata una “svolta decisiva”: in prigione un
detenuto, Donatello Ballabeni, avrebbe fatto
importanti rivelazioni sull’omicidio di Reggio
Emilia. Ben presto, però, emergerà che si tratta
soltanto delle fantasie di un mitomane. Le piste
seguite finora non conducono da nessuna parte e
si rafforza la convinzione che anche questo delitto
spietato è destinato a rimanere senza colpevoli.
La tenacia di un padre
Per la famiglia Campanile, l’estate del 1975
somiglia all’inverno più desolato. Ma sono anche
mesi frenetici, che il papà di Alceste impiega per
sapere come sono andate le cose in quella notte
maledetta. Affigge più di duecento manifesti per
le vie della città, invitando alla collaborazione tutti
coloro che possono aver visto o sentito qualcosa
di utile; parla con decine e decine di persone;
contatta il “giro” del figlio e alla fine si convince di
30
essere vicino alla verità. Il suo punto di partenza è
che sul luogo del delitto non c’era alcun segno di
lotta; perfino gli occhiali erano a posto: fatto
questo che l’induce a concludere che Alceste non
aveva tentato né di far resistenza, né di scappare.
Le sue considerazioni vengono riportate da
«Panorama», nel numero del 2 ottobre 1975:
“...è stato ucciso a tradimento da persone di cui
si fidava ciecamente. Certamente suoi amici... Non
sarebbe mai salito in macchina con gente che non
conosceva e di cui non si fidava... Se fossero stati
avversari politici l’avrebbero buttato in fretta giù
dall’auto, una volta morto, e gli occhiali sarebbero
caduti”.
Vittorio Campanile va oltre ed afferma di
essere ormai in grado di individuare i responsabili
dell’omicidio che, a suo giudizio, è maturato
nell’ambiente politico frequentato dal ragazzo:
“Conosco i nomi. Aspetto per renderli pubblici
che anche polizia e carabinieri ci giungano per
conto loro. Per ora posso dire solo che si tratta di
gente di Reggio Emilia che può contare sulla
omertà e sulla protezione di taluni gruppi politici”.
Ufficialmente gli inquirenti tacciono, ma
«Panorama» registra comunque il loro “marcato
scetticismo” circa queste dichiarazioni, alle quali
reagisce a nome di Lotta continua Luigi Pozzoli:

31
“Non mettiamo in forse la buona fede del padre
di Alceste, ma crediamo che si sia fatto strumento
di un gioco politico inteso a screditare il nostro
movimento... Per principio non trascuriamo alcuna
ipotesi. Diciamo solo però che le prove più con-
crete portano verso i fascisti, una pista che la
polizia ha escluso con sin troppa leggerezza”.
La tesi che gli assassini vadano cercati negli
ambienti della estrema destra sembra prevalere.
Sarà ripresa anche l’anno dopo, in un libro scritto
da Daniele Barberi, Agenda nera (Coines ed.)
dove, a proposito del delitto Campanile, si con-
testa l’operato della polizia che, prima del
colloquio con Montanari, avrebbe “tardato” quasi
due giorni indagando altrove:
“Le indagini, anziché indirizzarsi subito sui
fascisti sui quali convergevano tutti gli indizi,
perdono ore e giorni preziosi sulle ipotesi più
assurde; poi alla fine, si indirizzano a destra, ma
senza successo. Gli assassini di Alceste Campanile
non sono stati ancora individuati” (p. 298).
Come si vede, non si fa alcun cenno alle
indicazioni suggerite da Vittorio Campanile, se
non forse per catalogarle fra le “ipotesi assurde”.
La svolta del febbraio 1979
Per scoprire che quelle ipotesi non erano poi
così assurde, dovranno trascorrere circa quattro
anni e sarà proprio la ricerca condotta da un
32
giovane redattore di «Lotta continua», Giorgio
Albonetti, a ribaltare la paternità dell’omicidio
Campanile. Domenica 11 febbraio 1979, sul
quotidiano sono pubblicati i risultati di una lunga
e meticolosa inchiesta sull’assassinio del giovane
militante di Lc. A compierlo, questa la sconcer-
tante conclusione, non sarebbero stati i
neofascisti ma i “compagni”.
L’uscita dell’articolo non è priva di
conseguenze: fioccano le proteste e la redazione
viene perfino occupata. Da radio Tupac, un’emit-
tente di Reggio Emilia vicina all’area di Autono-
mia, si lanciano accuse durissime: quelli di Lotta
continua sarebbero dei “veri avvoltoi”, che
“accreditano una voce e si mettono a fare i
poliziotti”.
In Emilia Romagna quella “voce” era da sempre
diffusa e non l’aveva raccolta solo il papà di
Alceste. Durante il convegno sulla repressione,
svoltosi a Bologna nel settembre 1977, diversi
partecipanti si erano sentiti ricordare in tono
minaccioso dai duri di Autonomia operaia proprio
la fine di Campanile. È appunto da allora che il
dubbio si insinua anche dentro Lotta continua e,
quando gli episodi di violenza all’interno delle
formazioni di nuova sinistra non si contano più, ha
inizio un profondo ripensamento. Spiega un
militante di Lc su «Panorama» del 6 marzo 1979:

33
“per noi è cominciato almeno un anno fa,
quando denunciammo (pur senza fare il nome
degli esecutori materiali) il selvaggio pestaggio di
un nostro militante a opera dell’Mls (Movimento
dei lavoratori per il socialismo; ndr.) che lo aveva
scambiato per un autonomo”.
Questo nuovo corso, indirizzato a dire la verità,
porta così a ricostruire ciò che accadde a Reggio
Emilia fra il 1974 e il ‘75: la città patria di buona
parte del nucleo storico delle Brigate rosse e gli
anni che videro nascere dalla diaspora di Potere
operaio una variegata area di sovversione. Fra gli
altri, a quel periodo risalgono anche due episodi
chiave dell’evoluzione dal sovversivismo al
“partito armato”. Il 5 dicembre 1974, nel corso di
una rapina al portavalori di uno zuccherificio di
Argelato (Bologna), cinque aderenti ad Autono-
mia operaia sparano e uccidono un carabiniere;
quattro mesi dopo, in aprile, c’è quindi il
sequestro e l’uccisione di un ex di Potere operaio,
Carlo Saronio (di cui poi si auto-accuserà uno dei
primi pentiti, Carlo Fioroni). Crimini che mettono
in fibrillazione l’estrema sinistra, alimentando un
confronto aspro al suo interno. A questo punto, su
«Lotta continua» si avanza soltanto un’ipotesi, ma
che non è priva di fondamento: forse Alceste
Campanile, in collegamento con uno di questi
fatti, si rifiutava di fare qualcosa o - addirittura - di

34
tacere quel che sapeva. E per questo è stato
ammazzato.
Il passo compiuto da «Lotta continua» è impor-
tante, perché dimostra che ormai non è più
possibile “avallare in modo mafioso, cioè con il
silenzio, l’operato di certi compagni e organizza-
zioni”. Tuttavia, gli estensori dell’inchiesta non si
spingono a rivelare i nomi dei responsabili e a
Valeria Gandus di «Panorama» (6 marzo 1979)
confidano:
“Tutto quello che sapevamo l’abbiamo detto...
Per ora sappiamo con certezza soltanto in che
ambienti è stato deciso e realizzato l’assassinio di
Alceste ma non chi l’ha materialmente eseguito”.
Se sia davvero così o piuttosto non si vada
avanti a causa delle discussioni scatenate dalla
scelta di alzare il velo dell’omertà, è difficile dirlo.
Del resto, come spiegano al giornale, l’obiettivo
era quello di attaccare a fondo la logica del
terrore, non quello di far arrestare i colpevoli.
Altrove, però, c’è chi pensa che la mancata
rivelazione si spieghi secondo una logica
“difensiva”: a dare un nome e un cognome si
sarebbe infatti corso il rischio di fare la fine della
vittima.
Nessuno è stato condannato per l’omicidio di
Alceste Campanile. Nel 1999 si autoaccuserà del
delitto Paolo Bellini, un neo-fascista sospetto
35
mitomane che – nella sua versione – afferma di
aver agito da solo, mentre le perizie accertarono
che i colpi partirono da due armi.
Pretendere che a distanza di decenni si possa
perseguire il vero colpevole non rientra nemmeno
fra le aspettative: un processo dopo tanto tempo
presenterebbe in parte gli stessi limiti che oggi
riscontriamo in quello subìto da Sofri, Bompressi e
Pietrostefani. In quest’ultimo, nonostante la
sentenza definitiva, permane il dubbio atroce che
si siano incolpati degli innocenti, oltre alla
sensazione - comune anche ai colpevolisti - di aver
sottoposto a giudizio tutt’altre persone da quelle
degli anni ‘70; in quello eventuale per l’uccisione
dello studente di Reggio Emilia se non altro
affiorerebbe probabilmente la medesima sensa-
zione. Una cosa si può però legittimamente
auspicare: che la verità su questo delitto non sia
più parziale e si dispieghi in ogni suo risvolto.

36
Quel 12 maggio del 1977...

La cronaca
Il 1977 è forse, tra i cosiddetti “anni di piom-
bo”, uno dei più drammatici. Mentre esplode lo
scandalo Lockheed, con il rinvio degli ex ministri
Tanassi e Gui al giudizio della Corte Costituzionale,
e si apre il processo di Catanzaro sulla strage di
Piazza Fontana che appurerà, se non altro, la
reticenza da parte degli apparati dello Stato,
proseguono intanto gli attentati terroristici che
culmineranno l’anno successivo con il delitto di
Aldo Moro. Fra gennaio e marzo, le Brigate Rosse
e i Nap (Nuclei armati proletari) ammazzano tre
volte. A Rho, il 19 febbraio, viene ucciso il
brigadiere della Polstrada Lino Ghedini; venti
giorni dopo, il 12 marzo, è la volta a Torino del
brigadiere di Ps Giuseppe Ciotta. A Roma, il 22
marzo, è assassinato da un nappista l’agente
Claudio Graziosi.
Avvengono altri episodi criminosi. Il 2 febbraio
in Piazza Indipendenza a Roma, di fronte al
palazzo dove ha sede il quotidiano «la
Repubblica», la polizia spara durante scontri tra
giovani di sinistra e di destra. La versione della
questura sarà contraddetta dalla testimonianza
37
dei giornalisti che assistono alla scena dalle
finestre. A Bologna, nel corso delle operazioni di
sgombero della Università occupata, l’11 marzo
resta ucciso lo studente Pier Francesco Lorusso, di
Lotta continua. Nel centro della città si scatena
una guerriglia.
Oltre ai terroristi in senso stretto, infatti, esiste
ormai una vasta area di sovversione che fa capo
ad Autonomia operaia, più volte protagonista di
violenze anche a Roma. Il 17 febbraio, all’interno
della “Sapienza” occupata, è assalito il palco da cui
Luciano Lama,segretario generale del sindacato
Cgil, sta tenendo un comizio.
Il 5 marzo, gli autonomi tornano in azione dopo
la controversa condanna di Fabrizio Panzieri a
nove anni di carcere per “concorso morale”
nell’omicidio dell’estremista di destra Mantakis.
La manifestazione si ripeterà una settimana dopo
ancora più massiccia (forse centomila),
concludendosi con assalti a vari negozi. La città
universitaria della capitale e la zona limitrofa di
San Lorenzo, dove si trova il collettivo di Via dei
Volsci, il 21 aprile sono nuovamente teatro di
scontri con la polizia. L’agente Settimio
Passamonti, di ventitre anni, rimane sull’asfalto
ucciso dagli spari di un gruppo di autonomi.
Dopo questo omicidio, il ministro Cossiga
emana un provvedimento con cui proibisce ogni
manifestazione a Roma sino al 31 maggio. La
38
scelta è contestata da più parti, in quanto al limite
del dettato costituzionale. “Se accettiamo -
scriverà Pannella - che con il pretesto di colpire gli
assassini si tolgano i diritti costituzionali ai
nonviolenti, ai democratici, all’immensa maggio-
ranza della gente e si sospenda la vita democra-
tica, il potere avrà sempre più l‘interesse a che i
morti aumentino”. Del resto, il divieto non impe-
disce di per sé gli omicidi, ma certamente riduce le
libertà politiche. È appunto a salvaguardia di
queste che i radicali decidono comunque di
festeggiare pubblicamente il 12 maggio.
Al Ministero dell’Interno, l’11 maggio, è comu-
nicato che non ci sarà alcun comizio, ma soltanto
un concerto a Piazza Navona: la domenica prima,
a misura già operante, si era d’altronde già svolta
una festa della Tv. Cossiga prende atto della
rinuncia a tenere discorsi politici. Quando, però,
nella notte si allestisce il palco in Piazza Navona,
alcuni poliziotti in una gazzella dicono che non
può essere montato. Si chiede invano di poter
conferire con un funzionario, quindi gli agenti si
allontanano. A lavori ultimati, Spadaccia telefona
in questura e ottiene garanzie affinché durante la
notte il palco non sia toccato né si molestino le
persone incari-cate di sorvegliarlo. La mattina
seguente, l’Enel compie gli allacci elettrici e la Sip
installa un telefono per le comunicazioni degli
organizzatori, mentre sulla piazza sostano due

39
pullman di agenti e un camion di CC. Attorno
all’ora di pranzo un reparto di CC comincia a
smontare le apparecchiature e trascina via quanti
si sono sdraiati per terra al fine di impedirlo. Tutte
le vie d’accesso a Piazza Navona sono presidiate
da oltre mille poliziotti, che impediscono l’ingres-
so ai cittadini convenuti ricorrendo senza motivo a
spintonamenti e pestaggi.
Ne fanno le spese anche i giornalisti: Valter
Vecellio è fermato nella piazzetta delle Cinque
Lune da due carabinieri, colpito col calcio del
fucile e steso a terra. Solo all’arrivo di un ufficiale i
due mollano la presa. Nel frattempo,
intervengono quattro deputati con l’intento di
concordare con la polizia il flusso dei partecipanti
alla festa. Fra loro c’è Mimmo Pinto, il quale, no-
nostante mostri il tesserino da parlamentare,
viene preso a pugni da più agenti in borghese alla
presenza di due vice questori. Altre cariche, con
lancio di lacrimogeni, si verificano su Corso
Vittorio sino a Campo de’ Fiori e lungo Corso
Rinascimento. Qui, nei pressi del Senato, gli agenti
si scagliano contro dei giovani che portavano un
tavolo per le firme dei referendum e lo
distruggono.
Dopo aver tentato inutilmente di parlare coi
responsabili dell’ordine pubblico, Pannella telefo-
na al presidente della Camera Ingrao e lo informa
che di lì a poco chiederà che il ministro dell’In-
40
terno riferisca in aula su quanto sta accadendo.
Ma Cossiga non lo farà, così come non riceve la
delegazione di deputati guidata dal capogruppo
del Psi, Vincenzo Balzamo, che lo invitava a so-
spendere il divieto stante il mutato carattere della
manifestazione, “trasformata in un pacifico sit-in
popolare”. Lo stesso invito era stato rivolto da
Cgil, Cisl e Uil in un comunicato congiunto.
Mentre da S. Andrea della Valle e da Piazza
della Cancelleria si odono botti secchi e si levano
colonne di fumo, tra la polizia sin dal primo pome-
riggio è fatta circolare con insistenza la notizia che
i dimostranti hanno sparato sugli agenti. In realtà,
alcuni passanti notano vari uomini in borghese
armati di pistola in buoni rap-porti coi poliziotti.
Gli scontri si acuiscono sempre più e si formano
barricate: numerosi giovani, prevalentemente di
Lotta continua, per sfuggire alle cariche e ai gas
lacrimogeni che appestano ormai tutto il centro, si
sono asserragliati a Campo de’ Fiori. Quando dalla
piazza provano a disperdersi verso Trastevere, la
polizia riprende a caricarli convogliandoli su Piazza
Belli.
Alle sette, durante il dibattito alla Camera, l’on.
Pinto racconta quanto gli è capitato fra i com-
menti ora ironici, ora insultanti dell’emiciclo: ben
altro fu il comportamento dei deputati quando
toccò al comunista Ingrao presentarsi contuso e
coi vestiti strappati dopo gli scontri del luglio
41
1960. Interviene anche il dc Licheri, che dichiara di
aver visto molti giovani manifestanti armati di
spranghe e bastoni.
Fuori da Montecitorio, intanto, la giornata sta
per concludersi tragicamente. All’angolo di Piazza
Belli giungono due moto dei vigili urbani, da cui
scendono tre poliziotti in divisa e un civile. Questi
impugna una pistola e spara ad altezza d’uomo
contro i dimostranti. Sono quasi le otto quando,
attraverso il ponte Garibaldi, parte una nuova
carica: è in questa fase che avviene l’unico
ferimento tra le forze dell’ordine. Il carabiniere
Francesco Ruggiero è colpito al polso da un proiet-
tile che gli agenti vicini intuiscono provenire da
dietro, tanto è vero che subito muovono verso via
Arenula dove arrestano sette persone. Dalla parte
opposta del ponte, sul Lungotevere di Anguillara,
cadono colpite Giorgiana Masi ed Elena Ascione.
Condotte entrambe in ospedale, Giorgiana muore
durante il tragitto.
Le parole e gli atti
L’indomani Cossiga si reca finalmente alla
Camera per riferire sugli incidenti. Inizia così una
lunga teoria di dichiarazioni che, una dopo l’altra,
verranno prima smentite dai fatti e poi corrette
con crescente e penoso imbarazzo, sino a quando
si deciderà di tacere aspettando i risultati dell’in-
dagine giudiziaria. Ma andiamo con ordine.

42
Venerdì 13 maggio, il ministro ricostruisce i
fatti e dichiara che la polizia ha reagito solo con il
lancio di “artifizi lacrimogeni” alle aggressioni dei
manifestanti, sin dalle tre intenti a scagliare
bottiglie incendiarie. Il dibattito parlamentare che
segue registrerà un fuoco di fila d’accuse: è a
causa della “violazione” radicale che sono
scoppiati gli scontri. L’on. Mammì (Pri), rivolto ai
radicali, esprime il timore che essi finiscano “con
l’essere obiettivi alleati di chi vuole in questa Italia
un regime di colonnelli”. Ma è interrotto da una
voce che, pronta, lo corregge: “Non obiettivi,
soggettivi!”. La voce è quella di Giuseppe D’Alema
del Pci, lo stesso partito editore de «l’Unità», il
giornale che con pochi altri fogli di destra non si fa
scrupolo di manipolare la cronaca dei fatti pur di
non incorrere nella plateale contraddittorietà
delle altre testate, dove gli editoriali, in linea con il
discorso di Cossiga, contrastano coi resoconti dei
cronisti presenti. È il caso, ad esempio, di Renato
Gaita de «Il Messaggero», che racconta le violenze
gratuite della polizia e, come lui, molti altri.
Proprio al «Messaggero» (13 maggio 1977) si
deve la pubblicazione di una foto, ripresa a Piazza
della Cancelleria, che reca questa didascalia: “un
agente in borghese appostato tra le auto con la
pistola in pugno”. La foto conferma quanto già
rivelato alla Camera da Pannella circa la presenza
di almeno una ventina di poliziotti armati

43
travestiti da “autonomi”, ma dal Ministero
dell’Interno viene emesso un comunicato in cui si
legge: “Accertamenti svolti da parte della
questura di Roma portano a escludere che
l’individuo raffigurato nella fotografia sia un
agente della polizia”.
A quella prima foto, ne seguiranno altre dove i
volti degli agenti in borghese sono ben
riconoscibili: vestiti in modo “alternativo”, con
capelli lunghi, vi compaiono armati di spranghe e
pistole. Il 16 maggio, il questore di Roma
Domenico Migliorini rende noto un suo rapporto
in cui precisa “che in apposito ordine di servizio
era stato disposto, sotto la diretta responsabilità
di funzionari di polizia l’impiego di n. 30 Guardie di
PS della Squadra Mobile e dell’Ufficio Politico, con
specifici compiti di osservazione, vigilanza, pre-
venzione e repressione in Piazza Navona e
adiacenze”. Sul «Messaggero» del 17 maggio, il
rapporto è pubblicato accompagnato da una nota
del Ministero dell’Interno che osserva “come l’or-
dinamento giuridico vigente... consenta espres-
samente l’impiego legittimo di personale di
polizia, dei carabinieri e delle guardie di finanza in
abito civile. (...) Tale personale è considerato in
ogni momento... in pieno possesso dei poteri e dei
doveri istituzionali. In ogni momento quindi, il
personale delle forze dell’ordine è autorizzato alla
detenzione e al porto delle armi”. Nel giro di tre

44
giorni, da questura e Viminale, provengono
insomma tre versioni: prima si nega la presenza di
agenti in borghese; poi la si ammette, ma solo per
controllare il corso delle operazioni; infine, si
afferma che il ruolo da essi svolto comporta anche
l’utilizzo di armi.
Ma quelle armi hanno sparato? No, nessun
agente civile o in divisa ha sparato. Lo sostiene il
governo per bocca del sottosegretario all’Interno
Nicola Lettieri, rispondendo il 24 ottobre all’inter-
pellanza presentata dai radicali e da Mimmo Pinto
il 29 giugno 1977. Il 5 novembre, però, in una
conferenza stampa gli interpellanti presentano
due filmati da cui risulta il contrario. A questo
punto, il 12 novembre, il gruppo radicale denuncia
alla magistratura, per il reato di falso rapporto, il
questore di Roma. Quando, il 23 dicembre, è
rimosso dall’incarico, questi si dimetterà, dichia-
rando alla stampa di aver sempre preven-
tivamente informato e successivamente ottenuto
il pieno consenso dei suoi diretti superiori per le
misure da lui prese. Il ministro Cossiga non darà
alcuna risposta all’interro-gazione parlamentare
presentata al riguardo, limitandosi a riconoscere
“ottime doti di funzionario” al questore Migliorini.
Perché abbia proceduto alla rimozione, resta un
mistero.
Ad occuparsi dell’intera vicenda, sul piano
giudiziario, è la Procura di Roma, alla quale già dal
45
6 giugno i radicali hanno fatto pervenire un “Libro
bianco”. Tre i procedimenti avviati e affidati al
sostituto procuratore Giorgio Santacroce: il primo,
contro ignoti, per l’assassinio di Giorgiana Masi e il
ferimento di Elena Ascione e contro i sette
arrestati per tentato omicidio del carabiniere
Ruggiero; il secondo, ancora contro ignoti,
scaturito dalla denuncia del gruppo radicale per gli
episodi di violenza e uso d’armi da fuoco delle
forze dell’ordine; il terzo per istigazione a
delinquere nei confronti dei promotori della
manifestazione del 12 maggio, che sarà rinviato a
nuovo ruolo.
L’indagine del pm dura venti mesi, ma non per
questo può dirsi esaustiva. Come rilevano gli
avvocati di parte civile abbondano le omissioni:
non si contesta il falso ideologico delle
dichiarazioni rilasciate dalla polizia; non si ascolta
neppure il questore, né tanto meno tutti gli agenti
in borghese (quasi cinquanta) che si trovavano sul
luogo del delitto; degli oltre trecento poliziotti e
CC presenti solo qualcuno è interrogato; quando
ciò accade, ci si limita a registrarne la
testimonianza senza compiere ulteriori
approfondimenti. Altrettanto lacunose appaiono
le perizie mediche, come pure quelle balistiche.
Ciononostante, il 15 gennaio 1979 il pm chiude la
sua requisitoria chiedendo l’assoluzione per non
aver commesso il fatto nei confronti dei sette

46
passanti ingiustamente coinvolti e l’archiviazione
per l’omicidio Masi, essendone “rimasti ignoti gli
autori”.
A nulla varrà il deposito di due memorie da
parte degli avvocati della famiglia Masi. In esse
chiederanno l’individuazione dello sconosciuto
che, in base al resoconto della trascrizione delle
comunicazioni intercorse tra la questura di Roma
e i funzionari in piazza, ordinò di usare le armi:
“Questore - Squicquero, sbaraccare questa
barricata che hanno formato, piglia un Reparto,
attento a metterci i mezzi blindati (...).
Vicequestore Squicquero - Va bene, vado subito.
Ignoto - Stronzo, figlio di puttana, fai sparare!”.
A processo concluso, l’assassinio di Giorgiana
Masi resterà senza responsabili.
Quel 12 maggio del 1977 sembra lontano.
Eppure rimane una data emblematica nella storia
del nostro Paese. Un Paese a cui non è stato per-
messo di spiegare a pieno le vele della democra-
zia, giacché ogni volta - allora come oggi - all’esi-
genza di cambiamento del popolo viene concesso
di esprimersi direttamente, senza la mediazione
dei partiti o dei media, cresce sempre nei palazzi il
timore che tale espressione possa essere difforme
dagli interessi dei poteri forti e si farà di tutto per
impedirla. I mezzi possono cambiare: allora
furono i burattini con le P38, oggi sono forse
meno cruenti ma molto più subdoli. Capita, a
47
volte, che a tirare le fila siano gli stessi stregoni
coadiuvati magari da nuovi apprendisti.

48
28 maggio 1980:
il delitto Tobagi

Prologo di un omicidio
Nella condizione di bersaglio dei terroristi,
Tobagi si trova già diverso tempo prima del suo
assassinio. Almeno dai primi mesi del 1978, le
Formazioni comuniste combattenti (Fcc) avevano
infatti progettato di rapirlo, nell’intento di
“punire” la stampa che avrebbe operato una sorta
di censura alla loro prima azione di rilievo:
l’imboscata del 18 gennaio contro i carabinieri di
ronda al supercarcere di Novara. Sebbene nel
volantino di rivendicazione si parli di “annienta-
mento”, i due occupanti la camionetta hanno
salva la vita, poiché gli otto colpi esplosi non
trapassano fortunatamente i vetri anti-proiettile.
Ma chi sono le Fcc e perché sotto il loro tiro
finisce Tobagi che, all’inizio del ’78, come
rammenta Giorgio Santerini succedutogli alla
presidenza dei giornalisti lombardi, ancora non
“aveva scritto nessuna analisi sui problemi
terroristici” che fosse conosciuta a un pubblico
ampio?

49
Le Fcc rappresentano una delle tante sigle che,
come asteroidi, si disseminano nel firmamento
della lotta armata dopo gli arresti del 1975-76 che
scardinano i vertici delle Br. Le guida l’ex brigatista
Corrado Alunni, che ha al suo fianco il nemmeno
ventenne Marco Barbone. Nella sua Storia del
partito armato (Rizzoli, 1986; p. 230), Giorgio Galli
descrive così le Fcc:
“un gruppo di scarsa consistenza, composto da
mogli, fidanzate e amici degli amici, il cui capo
(Alunni) è arrestato già nel settembre 1978”.
Tra le “fidanzate” del gruppo c’è Caterina
Rosenzweig, allora ragazza di Barbone, ed è
proprio lei a suggerire il nome di Tobagi, fra i
giornalisti che si potevano sequestrare. A renderlo
noto non è però Barbone, che anzi nella sua
confessione non risulta citare la Rosenzweig, ma
un altro “pentito”, Rocco Ricciardi, il quale, in una
deposizione resa il 3 dicembre 1981 al giudice
Caimmi, ricorda come “la proposta fu avanzata
perché questa sembrava la persona meglio nota a
Caterina... Avendolo frequentato avrebbe potuto
fornire utili informazioni sia sulla sua abitazione
che sulle sue abitudini”.
Caterina Rosenzweig nel 1980 ha ventotto anni
ed abita con Barbone in via Solferino n. 34, la
strada del «Corriere della sera». Iscritta alla Facol-
tà di Lettere di Milano negli stessi anni in cui
Tobagi collabora coi professori Vigezzi e Rumi, pur
50
avendo fatto parte delle Fcc, non si è mai vista
contestare il reato di “banda armata”: già coinvol-
ta in vari episodi di sovversione (espropri, incendi
dolosi) subisce solo lievi condanne provvidenzial-
mente amnistiate. Appena uscita dal carcere, alla
fine degli anni Settanta, capita nella redazione di
«Repubblica», dove ricorda di averla vista Guido
Passalacqua, il giornalista ferito il 7 maggio 1980
dallo stesso gruppo che uccide Tobagi: “venne -
testimonia Passalacqua il 30 maggio 1983 -
accompagnata da un maresciallo, credo, della
Digos”, il quale “disse che lei si voleva rifare una
vita, voleva fare la giornalista”.
Di Rocco Ricciardi soltanto dopo il processo, nel
dicembre 1983, si viene a sapere che è un
confidente dei carabinieri almeno dal marzo ’79.
Non solo, ma anche che già nel dicembre di quel-
l’anno egli aveva informato le autorità inquirenti
dell’attentato che si stava preparando contro
Tobagi: sei mesi più tardi a Milano, il giornalista è
ucciso da Marco Barbone e Mario Marano.
Dagli spari in via Salaino alle manette
Walter Tobagi, in quel mese di maggio così
poco primaverile, passava tutta la settimana fuori
città, impegnato com’era a seguire la campagna
elettorale per le elezioni amministrative. Tornava
la domenica per cui è un’eccezione che quel mer-
coledì sia a Milano. Il giorno prima, 27 maggio,
partecipa infatti, al Circolo della Stampa,a un
51
dibattito su “Fare cronaca tra segreto istruttorio e
segreto professionale” che si conclude a tarda ora.
Dibattito assai agitato e durante il quale è fatto
oggetto di ripetute aggressioni verbali.
Fatto, di certo, non nuovo, come ammette il
suo collega al giornale Gianluigi Da Rold:
“Negli anni del suo impegno professionale e
come responsabile sindacale dei giornalisti
lombardi, Walter Tobagi viene violentemente
attaccato, più di una volta, sia dalla parte
comunista della redazione del «Corriere», sia dai
giornalisti di altre ‘testate’ milanesi di cosiddetta
‘area comunista’” (La battaglia di via Solferino,
SugarCo, 1984; p.93).
All’interno della corporazione giornalistica certi
gruppi, maestri nella gestione e nel controllo del
“regime” delle assemblee, rimproverano a Tobagi
la sua aperta adesione al riformismo. Quale fosse
il clima di quel tempo, del resto, verrà
efficacemente descritto proprio sul «Corriere»
cinque anni dopo la morte di Tobagi, durante un
dibattito aperto da un onesto articolo di Gaspare
Barbiellini Amidei, che lamenterà la “mancanza di
sufficiente indignazione” per quella coltivazione in
vitro della violenza politica.
Violenza e fanatismo nutrono anche Barbone e
i suoi compagni che, dopo l’incursione dei
carabinieri in via Fracchia a Genova, assumono la
52
nuova denominazione di “Brigata 28 marzo”, in
memoria dei quattro componenti la colonna
genovese delle Br che quel giorno restano uccisi.
Si tratta di un piccolo gruppo “di fuoco”, alle cui
riunioni partecipano stabilmente in sei: Manfredi
De Stefano, Francesco Giordano, Daniele Laus,
Mario Marano, Paolo Morandini, oltre ovviamente
Barbone che, nonostante sia il più giovane (ha 21
anni), vi riveste tuttavia un chiaro ruolo egemone.
Con Paolo Morandini, il cui padre Morando è
critico cinematografico de «Il Giorno», anche lui è
figlio di una personalità dell’ambiente editoriale:
Donato Barbone, dirigente della Sansoni affiliata
alla Rizzoli. Sia Paolo Morandini che Marco
Barbone hanno frequentato il liceo Berchet ma,
pur avendone la possibilità, non proseguono gli
studi contrariamente a Laus e Marano che si
iscrivono ad Architettura. Molto diversa la storia
di Francesco Giordano e Manfredi De Stefano. Il
primo emigra con i suoi dalla Calabria a Rho nel
1965 e già due anni dopo, quindicenne, comincia
a lavorare in fabbrica; il secondo proveniente
anche lui da una famiglia modesta, lavora per
alcuni anni alla Ignis di Varese e, dopo il processo,
sarà colto in carcere da un ictus cerebrale che lo
stroncherà il 6 aprile 1984.
Quale fosse il campo d’azione della Brigata 28
marzo, si apprende proprio dalla deposizione resa
da Barbone il 5 ottobre 1980: obiettivi privilegiati

53
sono quei giornalisti che “non avevano l’intento di
insultare o aizzare, ma funzionavano come sonda
all’interno della sinistra rivoluzionaria. Quasi
naturalmente, quindi, saltò fuori il nome di Walter
Tobagi”. L’indicazione dell’inviato del «Corriere»
sarà pure “naturale”, ma non appare ovvia visto
che altri si dichiarano più propensi a “colpire
personaggi... espressamente di destra”, come
testimonia Marano al processo. Ogni dubbio è
pervicacemente fugato da Barbone, il quale,
sostiene Giordano in un memoriale presentato
durante il dibattimento, “portò argomenti tali che
ci fecero cambiare idea. Diceva che Tobagi era il
presidente dell’Associazione lombarda dei
giornalisti... un personaggio ambiguo, nel senso
che era amato ed odiato e quindi i risultati
dell’azione sarebbero stati destabilizzanti per gli
assetti interni sia all’Associazione che nel
«Corriere»”.
Non sono digiuni di notizie sul mondo dell’in-
formazione, i giovani componenti della Brigata 28
marzo e lo dimostra anche il volantino che riven-
dica l’omicidio. La sua preparazione inizia contem-
poraneamente ai primi pedinamenti e, pertanto,
va fatta risalire ad almeno un mese prima dell’at-
tentato. Il risultato sono tre pagine scritte fitte,
che verranno parzialmente ridotte per contenere
il testo in tre anziché quattro fogli dattiloscritti. La
battitura avviene nella casa di via Solferino, nel

54
pomeriggio del 28 maggio, ad opera di Morandini,
Laus e Barbone, al quale tuttavia si dovrebbe,
come conferma egli stesso, gran parte
dell’ideazione del documento. Per stenderlo egli si
sarebbe avvalso di riviste specializzate come
«Ikon» e «Prima comunicazione».
In effetti, il suo contenuto rivela un’approfon-
dita conoscenza sia dei fenomeni allora in atto nel
settore della carta stampata, sia dei fatti riguar-
danti la vita professionale della vittima. Di Tobagi,
per esempio, si scrive che “preso il volo dal
Comitato di redazione CORSERA dal ’74, si è subito
posto come dirigente capace di ricomporre le
grosse contraddizioni politiche esistenti fra le varie
correnti”.
Il riferimento al “Cdr CORSERA”, che riuniva le
rappresentanze dei quotidiani e periodici, dalla
«Domenica del Corriere» al «Corriere d’informa-
zione», allora collegati al «Corriere della sera»,
attira l’attenzione di molti, fra cui Gianluigi Da
Rold che nel suo libro Da Ottone alla P2 (SugarCo,
1982; pp.80-1) si chiede:
“Come fanno a sapere che Walter Tobagi fece
parte del comitato di redazione del CORSERA
(termine usato solo all’interno di via Solferino)
quale rappresentante sindacale del «Corriere
d’informazione» anche se per poco tempo [due
mesi, ndr], nel 1974?”.

55
Il volantino cita un fatto molto particolare che,
tuttavia, Barbone in aula sostiene esser frutto di
una sua imprecisione. Nel riprendere un articolo
di «Ikon», ci si sarebbe sbagliati e scritto 1974
anziché 1977, l’anno in cui Tobagi entrò effettiva-
mente a far parte del comitato di redazione del
quotidiano. Ma il cdr del «Corriere della sera» è
cosa diversa dal cdr CORSERA ed è ben strano che,
laddove il testo appare consapevole della dif-
ferenza, nella sua dichiarazione Barbone invece
dimostra di non avercela ben presente, afferman-
do di essersi semplicemente confuso sulla data di
ingresso di Tobagi nel cdr del «Corriere della
sera».
Appreso che Tobagi martedì 27 sarà presente
al convegno, Barbone racconta di aver girato
attorno al Circolo della stampa con la sua auto
“per rintracciare eventualmente quella del Tobagi
e avere conferma che ci fosse, ma senza averla
vista, me ne andai subito. La mattina successiva,
quindi, agimmo”. Da quel che confessa Barbone, si
deduce necessariamente che il rinvenimento
dell’auto del giornalista era del tutto secondario
all’acquisizione della certezza della sua presenza a
Milano. Tant’è vero che l’indomani il gruppo si
mobilita comunque e quando, attorno alle undici,
Tobagi esce di casa in via Solari, Barbone e
Marano lo seguono brevemente per un tratto in
via Salaino e quindi gli sparano alle spalle. Caduto

56
a terra Tobagi, ormai esanime, è Barbone a tirare
quello che, nelle sue intenzioni, doveva essere il
colpo di grazia dietro l’orecchio sinistro e che, solo
per un caso, risulterà all’autopsia non ledere alcun
organo vitale. Attorno all’ora di pranzo, due
telefonate a «la Repubblica» e alla radio Black out,
rivendicano l’omicidio e preannunciano il
volantino-documento, che viene infatti spedito
per posta due giorni dopo.
Ad appena due settimane dall’agguato, i
carabinieri intercettano col benestare della Pro-
cura i telefoni di Barbone, Caterina Rosenzweig e
Morandini. Purtroppo il contenuto di tali intercet-
tazioni, sebbene l’avvocato di parte civile ne faccia
espressa richiesta, non è reso noto durante il
processo. D’altra parte, dalla testimonianza del
colonnello Bozzo, appare evidente che, sebbene
non avessero ancora prove certe che Barbone e i
suoi erano i responsabili dell’assassinio di Tobagi, i
carabinieri erano fin da allora convinti di essere
sulla pista giusta. Rivela il col. Bozzo: “dall’11
giugno avevamo già formulato delle ipotesi
precise che poi si sono concretizzate attraverso
l’estate”.
Difatti, come è scritto in un documento dell’in-
chiesta sulla brigata Lo Muscio, datato 24
settembre e firmato dal pm Armando Spataro, “su
ordine di cattura emesso dalla Procura della
Repubblica di Milano, veniva arrestato dai CC del
57
locale nucleo operativo Marco Barbone... I CC di
Milano, inoltre, per una serie di ragioni che non è
utile riassumere, avevano indicato in Marco
Barbone uno dei probabili autori dell’omicidio di
Walter Tobagi”. Nella requisitoria al processo
dello stesso Spataro, scompare però questa “indi-
cazione” dei CC, per cui l’arresto di Barbone, fatto
eseguire il 25 settembre,ha come motivazione
soltanto “l’appartenenza alle Fcc, a Guerriglia
rossa e la rapina ai Vigili urbani di via Colletta”.
Come sia, Barbone viene catturato mentre sta
svolgendo il servizio militare come bersagliere e
condotto quindi in una piccola caserma alla
periferia di Milano al cospetto del generale Dalla
Chiesa. A quest’ultimo, il settimanale «Panorama»
dedica un articolo nel numero del 22 settembre,
dove si fa cenno al caso Tobagi e alla Brigata 28
marzo che “secondo il generale Dalla Chiesa,
proviene dalle Formazioni comuniste combattenti
e «ha tra i giornalisti qualche sostenitore»”. La
frase, virgolettata, va attribuita direttamente al
generale che avrebbe anche detto: “Abbiamo
usato la stessa tecnica adottata a Torino nel ‘74-
75 per la cattura di Renato Curcio: massima
riservatezza, conoscenza anche culturale
dell’avversario, infiltrazione”.
Dunque, già dall’arresto di Barbone le forze
dell’ordine sanno molte cose e sono in grado di
associarlo, sulla base se non di prove almeno di
58
indizi concreti, all’assassinio di Tobagi. Cionono-
stante la Procura di Milano, nell’istruire il proces-
so, attribuisce il merito esclusivo della ricostruzio-
ne della verità a Barbone. Questi, dopo l’incontro
con Dalla Chiesa, il 4 ottobre annuncia il suo penti-
mento e decide di confessare. Da quel momento
sui magistrati precipita una vera valanga di
informazioni, riguardanti oltre che il terrorismo
anche la più vasta area della sovversione, dalle
quali essi trarranno motivo per allestire un
processo con più di 150 imputati e che, dal nome
di una rivista di estrema sinistra, si chiamerà
«Rosso»-Tobagi.
Il processo e dopo
Le 102 udienze si aprono il 1° marzo 1983 a
Milano, in un’aula bunker dell’ex carcere minorile
di piazza Filangieri, e dureranno sino al 28
novembre. Un maxi-dibattimento, dove l’assassi-
nio di Tobagi affoga sotto un mare di altri reati
che vanno dalla partecipazione a corteo non
autorizzato alla banda armata, dall’esproprio
proletario all’apologia di reato. Già in apertura,
questa anomalia suscita più di una diffidenza nel
segretario provinciale socialista Ugo Finetti, di
Tobagi vecchio amico, che così ne parla sull’
«Avanti!»:
“un processo che sulla carta dovrebbe andare
in scena perché si parli poco e male della vittima e
con gli assassini più che altro messi sul banco non
59
degli imputati, bensì degli accusatori, perché la
sceneggiatura prevede che il centro
dell’attenzione processuale riguardi altri fatti e
altre persone”.
Che le cose non siano poi tanto lontano da
come le descrive Finetti, lo si ricava anche dall’ar-
ringa dell’avvocato Gentili, difensore di Barbone, il
quale a suo dire avrebbe “agito per motivi di
particolare valore umano, sociale e morale”.
Motivi non riconosciuti dalle leggi in vigore, in
quanto “malgrado i loro sforzi i terroristi non sono
riusciti a far condividere i loro ideali della lotta
armata alla maggioranza della popolazione”,
sebbene essi “si battevano per tutti, per una
maggior giustizia sociale, generosamente, anche
se in modo criminale”.
E poi c’è ancora qualcuno che si meraviglia del
fatto che il terrorismo sia durato in Italia vent’an-
ni.
Se l’avvocato Gentili quasi invita a ringraziare
Barbone, certo il pm Spataro non gli si dimostra
ingrato. Tanto che, dopo aver richiesto una con-
danna a otto anni e sei mesi in nome del suo “ec-
cezionale contributo” alle indagini, non si opporrà
alla libertà provvisoria perorata dalla difesa. Una
uniformità di visione fra il difensore e il pm, a cui
corrisponde l’insolita contrapposizione fra que-
st’ultimo e la parte civile che, durante il processo,
vedrà sistematicamente rigettata ogni sua istanza
60
tesa a meglio chiarire sia le dinamiche del delitto,
sia le motivazioni del pentimento.
Alla fine la corte, presieduta dal giudice
Cusumano, fa sue le richieste del pm Spataro e,
applicando la legge sui pentiti in modo assai
difforme dal tribunale di Roma che l’anno prima
aveva condannato i terroristi pentiti delle Unità
comuniste combattenti (Ucc) a oltre venti anni di
carcere, concede a Barbone e Morandini di uscire
di prigione, mentre riserva ai “gregari” De
Stefano, Giordano e Laus le pene più pesanti (circa
trent’anni).
La sentenza ha una coda amara di polemiche,
che culmina con la querela da parte del pm
Spataro contro il direttore dell’ «Avanti!» Ugo
Intini e altri commentatori che, da quelle pagine,
avevano sollevato dubbi sull’indagine: dalla
presenza di un informatore all’impunità garantita
alla Rosenzweig; come pure certe incongruenze
della confessione di Barbone. Intini e altri deputati
socialisti saranno quindi condannati, dopo che la
Camera concederà prontamente l’autorizzazione a
procedere: fatto, questo, quanto mai raro per i
cosiddetti reati d’opinione. Soltanto tre anni
dopo, proprio la magistratura milanese accerterà
che quanto scritto sull’ «Avanti!» corrispondeva
nella sostanza alla verità: come aveva rivelato,
subito dopo il processo, una nota del ministro
dell’Interno Scalfaro, il delitto Tobagi era stato
61
preannunciato davvero dall’informatore dei CC
Rocco Ricciardi, già componente delle Fcc assieme
a Barbone e a Caterina Rosenzweig.
È inevitabile, allora, dubitare della “eccezio-
nalità del contributo” di Marco Barbone. La sua
appare, infatti, una collaborazione priva dei crismi
della spontaneità, dal momento che in qualche
modo era già “instradata”. Scriveva nell’83 Valter
Vecellio («Avanti!», 24 dicembre):
“Se il pentito è ‘costruito’, evidentemente deve
essere utilizzato, là dove la sua testimonianza può
risultare determinante, decisiva, per la conclusione
di una vicenda processuale ancora in corso”.
Questa vicenda, nel caso di Barbone, è il
processo “7 aprile”.Qui la sua testimonianza
servirà a rafforzare le tesi dell’accusa, secondo cui
l’area di Autonomia, derivata da Potere operaio,
altro non era se non il livello palese della lotta
armata, per nulla in conflitto con il suo secondo
livello costituito dalle formazioni terroristiche
entrate in clandestinità. Al processo di Roma, il
giovane terrorista ricostruirà la storia degli scontri
di piazza e punterà un indice accusatore contro
quelli di Autonomia. Un’accusa dalla quale
traspare, con tutta evidenza, il tragico equivoco
consumato tra due generazioni: da un lato quella,
dei “cattivi maestri” e dall’altro la sua, quella di
Barbone, con meno anni sulle spalle ma più cinica

62
e pronta a compiere il grande salto che l’ha
condotta su un sentiero di morte.
Gli uni come gli altri lontani anni luce dalla
tolleranza e dalla naturale predisposizione al
ragionare pacato di Walter Tobagi, che così si
esprimeva nella dedica di una sua opera:
“Non sono le parole tonanti ma i
comportamenti di ogni giorno che modificano le
situazioni, danno senso all’impegno sociale: il
gradualismo, il riformismo, l’umile passo dopo
passo sono l’unica strada percorribile per chi vuole
elevare per davvero la condizione dei lavoratori.
Ecco la lezione che le dure repliche della storia
ripetono ancora una volta. È la lezione che ci
venne, giorno dopo giorno, dalla paziente
educazione familiare. Ed è del tutto naturale,
perciò, che questo libro sia dedicato ai miei
genitori, papà Ulderico e mamma Luisa, il cui
insegnamento è valso e vale più di qualunque
astratta ideologia”.

63
64
Avvertenza

I quattro capitoli di questo testo riproducono, con


lievi varianti, i saggi usciti sulla rivista «Quaderni
Radicali» diretta da Giuseppe Rippa:
- 14 febbraio 1966: la puntura della «Zanzara», n.
50/51, settembre-dicembre 1996;
- 12 giugno 1975: l’assassinio di Alceste Campanile,
n. 58/59/60, marzo-agosto 1998;
- Quel 12 maggio 1977…, n. 42/43, inverno 1995;
- 28 maggio 1980: il delitto Tobagi, n. 44/45,
primavera-estate 1995.

65
66

Potrebbero piacerti anche