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David Halberstam è stato un giornalista e uno storico americano.

Ha
iniziato la sua carriera negli anni Cinquanta, raccontando il movimento per i
diritti civili, per poi continuare nel decennio seguente come corrispondente
per la guerra del Vietnam. In seguito si è dedicato al giornalismo sportivo,
parlando soprattutto di basket. Nella sua carriera è stato insignito di tutti i
premi più importanti per il giornalismo, compreso il Premio Pulitzer. Nei
suoi libri è riuscito a unire la prospettiva di un grande storico, le conoscenze
di un tenace giornalista sportivo e la passione di un tifoso, per ritrarre alcuni
tra i giocatori e le squadre
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Titolo originale:

Playing for Keeps. Michael Jordan and the World He Made

ISBN 978-88-9367-944-2

Immagine di copertina © Greg Gorman, 1996

Copertina di Andrea Balconi

Copyright © 1999, 2000 by The Amateurs Limited. All rights reserved.

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma o attraverso alcun
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permesso scritto dell’editore. Per ulteriori informazioni: Random House, 201 East 50th Street, New
York, NY 10022.

La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 1999 da Random House. Questa nuova
edizione è stata predisposta da Random House.

Copyright © 2020 Adriano Salani Editore s.u.r.l.

Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: settembre 2020


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1
Parigi, ottobre 1997

Nell’autunno del 1997, Michael Jeffrey Jordan, originario di Wilmington,


nella Carolina del Nord, ma residente a Chicago, arrivò a Parigi con la sua
squadra, i Chicago Bulls, per giocare un torneo di preparazione al
campionato organizzato da McDonald’s, uno dei suoi principali sponsor,
nonché sostenitore molto importante dell’intera National Basketball
Association. Sebbene vi partecipassero alcune delle migliori squadre
europee, il livello di gioco del torneo non poteva essere all’altezza dei
Bulls, una delle squadre più forti dell’NBA. Ma nemmeno doveva esserlo:
era solo parte del tentativo (incessante ma di straordinario successo)
dell’NBA di portare il gioco e le sue stelle in zone del mondo dove il basket
stava guadagnando popolarità, specialmente tra i giovani. In gran parte,
inoltre, veniva organizzato perché la possibilità di solidificare dei mercati
strategici internazionali ingolosiva i grandi sponsor della Lega. Non c’era
da stupirsi che i giocatori americani non prendessero la competizione molto
seriamente. (Non lo facevano neppure gli speaker ufficiali delle squadre.
Quando i Celtics avevano partecipato a quello stesso torneo, qualche anno
prima, il loro storico speaker Johnny Moist, un uomo che faceva fatica a
pronunciare anche i nomi dei giocatori americani, alzò bandiera bianca con
quelli degli europei e i tifosi a Boston dovettero accontentarsi di: ‘Ecco che
il tizio basso coi baffi passa a quello alto con la barba…’).
Come capitava spesso, i Bulls arrivarono a giocare questo torneo delle
patatine circondati dal clamore di una rock band. Qualche anno prima un
giornalista li aveva definiti i Beatles della pallacanestro, e in effetti
volavano sul Boeing 747 usato dai Rolling Stones per i loro tour. C’era
stato un tempo in cui Michael Jordan considerava la Francia una sorta di
santuario, un posto dove poteva prendersi una vacanza libero dal fardello
della sua fama, sedendosi fuori da un caffè e godendosi il ruolo di turista
qualunque. Ma la sua apparizione nel Dream Team delle Olimpiadi di
cinque anni prima e il conseguente aumento della sua notorietà in tutto il
mondo avevano messo fine a quei giorni. I suoi guadagni lordi erano più
che raddoppiati, ma aveva perso Parigi: ormai tutti lo conoscevano ed era
seguito qui come in qualunque altra città. Enormi folle aspettavano fuori dal
suo albergo per intere giornate, sperando di poter dare anche solo il più
fugace degli sguardi a quello che i giornalisti francesi chiamavano il più
grande basketteur al mondo. Anche durante le partite, i raccattapalle non
sembravano intenzionati a servire le loro squadre, e volevano lavorare solo
per i Bulls. Alcuni giocatori francesi avevano scritto il 23, il numero di
Michael, sulle loro scarpe, per commemorare il loro incontro ravvicinato
con la leggenda. A Bercy, il palazzetto dove si giocava, repliche della sua
maglia furono vendute per l’equivalente di 80 miseri dollari.
Il quotidiano sportivo L’équipe, annunciando il suo arrivo, titolò ‘JORDAN
ATTESO COME UN RE’. I biglietti per le partite erano esauriti da settimane e la
stampa francese sembrava pronta ad accoglierlo come un capo di Stato e a
perdonargli qualsiasi cosa – durante una conferenza stampa confuse il
Louvre, il famoso museo, con il luge (slittino), pericoloso sport invernale,
ma nessuno ci andò giù pesante con lui, nonostante fosse il tipico errore che
un americano avrebbe potuto commettere e a cui i francesi si sarebbero
normalmente attaccati per mostrare la barbarie del nuovo mondo. Un altro
giornale titolò ‘MICHAEL HA CONQUISTATO PARIGI’, e il giornalista
aggiungeva: ‘I giovani parigini abbastanza fortunati da entrare a Bercy
devono aver fatto sogni meravigliosi, perché il loro idolo ha fatto
esattamente tutto ciò che speravano’. Notando che Jordan indossava il suo
famoso cappellino, il giornalista Terry Marchand esplose: ‘Potremmo
arrivare a chiamarlo Michel’. France-soir andò perfino oltre: ‘Michael
Jordan è a Parigi. È meglio che avere il papa. È Dio in persona’.
Le partite, in realtà, non furono granché; anzi, furono quasi imbarazzanti.
I Bulls tennero i ritmi bassi, ma riuscirono a battere in finale i greci
dell’Olympiacos. I più noti compagni di squadra di Jordan, Dennis Rodman
e Scottie Pippen, non erano presenti e Toni Kukoc ˇ , uno dei migliori
giocatori d’Europa, segnò solo cinque punti. Jordan ne segnò ventisette, ma
non fu felice di dover giocare senza due compagni fondamentali al suo
fianco. Rimanere a casa sarebbe stato senza dubbio più rilassante, anche
perché aveva un’infezione all’alluce.
Jordan sapeva bene che il vero vincitore, a Parigi, era stato David Stern, il
commissioner dell’NBA. Il torneo non aveva incarnato soltanto il riflesso
della crescente internazionalizzazione del basket, che Stern aveva aiutato a
progettare, ma anche la celebrazione dei rapporti tra l’NBA e McDonald’s,
una delle aziende più quotate sul mercato statunitense.
Fu un gran momento per Stern, costantemente circondato dalla maggior
parte dei dirigenti dell’NBA e di quelli di McDonald’s. Chiunque avesse un
nome nell’industria del basket era lì. Ma c’era un’eccezione piuttosto
importante: l’assenza di Jerry Reinsdorf, il proprietario dei Bulls, che di
rado si faceva vedere a eventi del genere. Stern aveva cercato di
convincerlo a godersi un po’ di nachas (‘spasso’ in yiddish), ma quello
specifico tipo di nachas non sembrava attrarre un uomo che preferiva la
propria privacy ai lustrini e all’adulazione ipocrita che anche un
proprietario poteva ricevere in occasioni del genere. Inoltre, negli ultimi
tempi si era vociferato parecchio della presenza di un altro vip: Dick
Ebersol, direttore della divisione sport della NBC. Una voce importante
correva per Parigi: anche se il torneo di McDonald’s coincideva con l’inizio
delle World Series, Ebersol, il cui cuore batteva più per il basket che per il
baseball, non si sarebbe seduto in una qualsiasi tribuna vip facendosi
inquadrare dalle sue stesse telecamere, ma sarebbe venuto a Parigi.
Stern ed Ebersol erano molto amici: comprensibile, visto il rapporto
simbiotico tra la televisione e i massimi livelli dello sport. Ebersol era
abituato a definire Stern il suo capo, e viceversa. Stern era un creatore di
immagine, il più appassionato e sofisticato al mondo, ed era l’azienda di
Ebersol a decidere quali immagini trasmettere alla nazione. A differenza di
molte altre persone che lavoravano nel mondo dello sport, Stern aveva
capito che nel loro campo l’immagine contava molto più della realtà.
Controllava molto da vicino la copertura mediatica della Lega e spesso
sembrava prendere sul personale il fatto che le reti televisive e le loro
telecamere ignorassero quello che lui considerava un miglioramento
dell’immagine. In effetti, quando cominciò a guidare l’NBA, in un periodo
in cui la rappresentazione della Lega era ancora molto negativa, divenne
famoso perché chiamava i dirigenti delle reti al lunedì per qualsiasi
presunto danno d’immagine subito la domenica. A Ebersol e Stern va la
maggior parte del merito per la buona immagine del basket e soprattutto per
il comportamento pubblico delle sue stelle: avevano lavorato duro e la loro
collaborazione aveva prodotto un enorme aumento della popolarità di
quello sport, nonché dei suoi indici d’ascolto. La semplice possibilità che
Ebersol ignorasse le World Series per seguire delle amichevoli di basket
giocate all’estero contro squadre piuttosto scarse in un torneo organizzato
da una catena di fast food mostrava quanto la sorte dei due sport fosse
cambiata negli ultimi anni. Le World Series che stavano per iniziare, tra i
Cleveland Indians e i Florida Marlins, non sembravano particolarmente
appetibili per l’appassionato medio: mancava il senso di rivalità storica, o
almeno una qualche forma di antagonismo geografico. Una squadra di
Miami di cui i tifosi non sapevano granché avrebbe giocato contro una di
Cleveland, ricca di talento ma non molto conosciuta. Nessuno dei due team
si era costruito un personaggio attorno adatto al grande pubblico. Non
correva nessuna rivalità, né storica né geografica. Alla fine Ebersol rimase
in America a guardare le World Series. Stern ci aveva provato: «Dick, se
vuoi rimanere negli Stati Uniti e goderti le World Series con l’audience più
basso di sempre, fai pure» gli aveva detto. (In realtà, Stern aveva torto: le
World Series con l’audience più basso di sempre furono quelle del 1993,
quando, per la prima volta, furono superate dalle Finals di NBA).

Erano stati due giorni davvero molto positivi per David Stern: il baseball
stava perdendo immagine e pubblico, mentre Michael Jordan aumentava a
dismisura la fama dell’NBA, perfino in una città solitamente restia a
omaggiare le celebrità americane. Poi, la sera dell’ultima partita, un uomo
di mezza età, nero e molto alto, si avvicinò al settore dove sedevano Stern e
la moglie Dianne. Michael Ray Richardson disse a Stern: «Voglio
ringraziarla per avermi salvato la vita». Da giovane, Richardson era stato
una stella dell’NBA, prima scelta dei Knicks al draft, ma si era rovinato con
l’alcol e la droga ed era stato uno dei primi giocatori esclusi dalla Lega per
via della politica del ‘alla terza che fai, sei fuori per sempre’. Ora si era
stabilito a Nizza e giocava per una squadra di lì. «Se non fosse stato per lei,
avrei continuato a rovinarmi. Ma grazie a quello che lei ha fatto, ho smesso
e ora sono pulito». Fu un momento commovente: in campo, alcuni dei
migliori giocatori al mondo stavano ultimando il riscaldamento, mentre
sulle tribune c’era qualcuno che aveva giocato al loro stesso livello e che
ora aveva quarantadue anni e un po’ di pancia, che si era distrutto con la
droga e che giocava in un campionato di basso livello, che probabilmente
aveva perso tutti i suoi soldi ma che era grato di essere ancora vivo. Di
solito, David Stern aveva la risposta pronta, ma quella volta rimase in
silenzio. Mise un braccio attorno alle spalle di Richardson e lo abbracciò.
In quel periodo, subito prima dell’inizio della stagione 1997/98, Michael
Jordan era all’apice della sua fama. Era il miglior giocatore di basket al
mondo, ma alcuni lo ritenevano addirittura il miglior giocatore di basket
della storia. Un buon numero di esperti era d’accordo. Ormai, la questione
era andata anche oltre la pallacanestro: Michael Jordan era il più grande
atleta di sempre? Veniva paragonato al leggendario Babe Ruth, un giocatore
che aveva superato di gran lunga anche i migliori tra i suoi contemporanei.
Certo, a fare questi paragoni erano soprattutto giovani uomini sulla trentina,
anche se Ruth era morto da quarantanove anni e aveva giocato la sua ultima
partita nel 1935.
I paragoni all’interno del mondo del basket erano ugualmente difficili.
Allora, i Bulls di Jordan avevano vinto il campionato in tutte le ultime
cinque stagioni in cui lui aveva potuto giocare sempre, ma i Boston Celtics
avevano trionfato undici volte nei tredici anni in cui avevano avuto il
grande Bill Russell, un giocatore dominante, con un’intelligenza, una
velocità e una potenza eccezionali. Ovviamente, tutto ciò era successo in
un’NBA molto diversa, con molte meno squadre e in cui il livello atletico di
molti giocatori non era altrettanto elevato; in quell’NBA, il talentuoso
general manager dei Celtics Red Auerbach era quasi sempre riuscito a
spennare i suoi rivali e a circondare Russell di compagni di squadra
straordinari. Di conseguenza, la questione su chi fosse il migliore tra Jordan
e Russell rimaneva irrisolta, anche se il famoso regista e appassionato di
basket Spike Lee espresse un’opinione molto netta: «Jordan è stato il
migliore di tutti i tempi» dichiarò, «perché è stato un giocatore completo.
Non c’era nulla che non potesse fare in campo: tirare, passare, andare a
rimbalzo, difendere». Perciò, concluse Lee, cinque Michael Jordan
avrebbero potuto battere cinque Bill Russell o cinque Wilt Chamberlain. Un
ragionamento affascinante, perché tiene conto di un certo tipo di
completezza atletica.
Che sia stato o meno il migliore, non c’è dubbio che sia stato il
personaggio più coinvolgente e carismatico nell’intero mondo sportivo
degli anni novanta. Era l’atleta che gli spettatori in tutto il mondo volevano
vedere giocare, specialmente nelle partite importanti, perché sembrava
sempre in grado di essere all’altezza.
Era già ricco, avendo guadagnato circa 78 milioni di dollari tra stipendio
e sponsor nella stagione precedente, e quella in arrivo sembrava
prometterne altrettanti o addirittura di più. Stava per diventare un uomo-
azienda, e chiamava ‘i miei partner’ tanto i proprietari della squadra di
basket per cui giocava quanto i dirigenti delle aziende di scarpe, di
hamburger e di bibite che rappresentava. Era probabilmente il più famoso
americano al mondo, e in molte remote parti del globo era più famoso del
Presidente statunitense o di qualunque star del cinema o del rock. I
giornalisti e i diplomatici americani inviati nelle zone più arretrate dell’Asia
e dell’Africa restavano senza parole quando visitavano dei piccoli villaggi e
incontravano dei bambini che indossavano riproduzioni sdrucite della
maglia dei Bulls di Michael Jordan.
C’erano ottime prove statistiche dell’importanza di Jordan per il basket e
di quanto il suo lustro personale avesse aggiunto all’incredibile successo e
alla fonte di guadagni della pallacanestro. Mentre la carriera di Jordan
cominciava a sbocciare il basket era già in rampa di lancio, grazie ai
notevoli risultati ottenuti da Magic Johnson e Larry Bird, ma il suo arrivo
nei playoff accrebbe di gran lunga il pubblico, avvicinando al gioco milioni
di persone che erano più fan di Michael Jordan che del basket
professionistico. Durante le sue prime apparizioni alle Finals lo share
televisivo aumentò in maniera sistematica, raggiungendo un inaudito 17.9%
nella sua terza apparizione ai playoff, nel 1993 contro i Phoenix Suns.
Questa percentuale si tradusse in circa 27,2 milioni di americani. Ma per
Dick Ebersol, quello che era davvero interessante di questi risultati era che
gran parte di essi era dovuta direttamente a Jordan.
Il network e la Lega provarono sulla loro pelle quanto questo fosse vero
un anno dopo, quando Jordan si prese un anno sabbatico giocando a
baseball e i Bulls non arrivarono alle Finals. Lo share di buona parte dei
playoff rimase più o meno lo stesso, ma quello delle Finals crollò a 12,4%
(circa 17 milioni di spettatori). Questo significava che circa un terzo del
pubblico aveva seguito le finali essenzialmente per ammirare Michael
Jordan. Due anni dopo, quando ritornò a giocare a basket e portò i Bulls a
vincere altri due anelli, lo share tornò al 16,7% nel 1996 e al 16,8% nel
1997: più o meno 25 milioni di persone.
L’espressione ‘il migliore che si sia mai allacciato un paio di sneakers’
veniva usata sempre più spesso per descriverlo. ‘Se Michael Jordan non è
infallibile’ scrisse Melissa Isaacson del Chicago Tribune ‘è comunque la
prova più valida che abbiamo che nulla è impossibile’. Fu nominato più e
più volte come possibile MVP del campionato e delle Finals e più e più
volte sembrò in grado di portare un gruppo di giocatori discreti ma non
eccezionali a diventare dei campioni. Alla fine di ogni serie di playoff,
all’MVP veniva regalata una macchina, consegnata da David Stern in
persona; negli ultimi anni Stern aveva cominciato a definirsi il
parcheggiatore di Michael Jordan.
La parola genio era usata per definirlo in maniera sempre più frequente.
Harry Edwards, un sociologo dell’Università di Berkeley, non era molto
impressionato dai risultati degli sportivi contemporanei, quanto piuttosto
preoccupato che i clamorosi successi degli atleti di colore gettassero
un’ombra impositiva su molti giovani neri, impedendo loro di fare carriera
in altri campi. Eppure, parlò di Jordan come del più alto livello mai
raggiunto dall’umanità, ai livelli di Gandhi, Einstein o Michelangelo. Se,
aggiunse, avesse dovuto mostrare a un alieno «l’epitome del potenziale
umano, della creatività, della perseveranza e dello spirito, presenterei
sicuramente Michael Jordan». Doug Collins, il terzo allenatore
professionista di Jordan, una volta disse che Michael apparteneva a quella
rara categoria di persone che erano così tanto sopra la norma da poter essere
identificate come geni. Come Einstein o Edison, per esempio. Collins non
aveva mai detto quella frase prima, sicuramente non riferendosi a un
giocatore. Un compagno di squadra di Jordan, il pur talentuoso B.J.
Armstrong, nei suoi primi anni ai Bulls accumulò una frustrazione enorme,
perché non riusciva ad arrivare al livello di Jordan o delle sue apparenti
aspettative: credeva che il gioco fosse troppo più semplice per Jordan che
per chiunque altro, ed era andato in biblioteca a leggere una serie di libri sul
genio, per capire se c’era qualcosa che potesse imparare per essere come
Jordan o quantomeno competere con lui.
E quando Jordan, dopo il terzo anello, decise di ritirarsi, fu riluttante nel
dare al suo coach Phil Jackson quella che per lui sarebbe sicuramente stata
la peggior notizia possibile. Fece presente il suo desiderio, ma aggiunse che
se Jackson avesse cercato di convincerlo a continuare lui non si sarebbe
ritirato. Il suo tono fu molto cauto: temeva che Jackson, uomo molto furbo,
avrebbe effettivamente cercato di trattenerlo. Ma l’abile risposta di Jackson
fu che lui non avrebbe provato a fargli cambiare idea: doveva essere
Michael ad ascoltare e assecondare le voci dentro di sé. Ricordò solo a
Jordan il piacere tutto particolare che avrebbe negato a milioni di persone
lasciando la pallacanestro, perché le sue doti erano uniche. Il suo talento, gli
disse Jackson, non era semplicemente quello di un grande atleta, ma
trascendeva lo sport per diventare una forma d’arte. Il suo dono era simile a
quello di Michelangelo e quindi Jordan doveva almeno comprendere che
esso non apparteneva solo all’artista, ma anche a tutti quei milioni di
persone che restavano a bocca aperta davanti alle sue opere e che
ricavavano, in una vita altrimenti piena di banalità, un enorme piacere da
quello che faceva. «Michael» aggiunse, «il puro genio è qualcosa di
veramente molto raro e se sei abbastanza fortunato da averlo, devi pensarci
bene prima di rinunciare a usarlo».
Jordan ascoltò attentamente e rispose: «Apprezzo molto, ma credo che
tutto ciò sia finito, ormai». Diede retta alle voci dentro di sé e lasciò il
gioco, ma il fatto che Jackson, in quel momento, non fece valere il proprio
interesse personale cementò un rapporto già molto forte, e contribuì in
qualche modo a creare il processo che avrebbe un giorno portato al rientro
di Michael Jordan.
Quello che aveva di speciale era il suo effetto non solo sui tifosi, ma
anche sui suoi colleghi. «È il figlio di Dio» disse il compagno di squadra
Wes Matthews durante il primo anno di Jordan. Un buon numero di
giocatori più talentuosi di Matthews era d’accordo, anche se usavano parole
leggermente diverse. Jayson Williams dei Nets lo definì ‘Gesù con un paio
di Nike’.
Anche Jerry West, universalmente riconosciuto come uno dei cinque-sei
migliori giocatori di tutti i tempi, diventato il general manager dei Lakers,
ne parlò come di un genio, dicendo che era straordinariamente completo
non solo come giocatore di basket, ma anche come uomo, destinato, grazie
al suo straordinario talento, a diventare l’immagine pubblica di una lega un
tempo molto problematica. «È come se un Dio generoso avesse gettato più
polvere d’oro su Michael che su chiunque altro» disse.
Dopo che Jordan portò i Bulls alla conquista del loro secondo anello,
Larry Bird disse che non che non c’era mai stato un atleta come lui. «Su
una scala da 1 a 10, le altre superstar sono a 8, e lui a 10».
«Michael Jordan» dichiarò lo scrittore Scott Turow, residente a Chicago,
«gioca a basket meglio di come chiunque altro al mondo faccia qualunque
altra cosa».
Oltre a doti fisiche uniche, aveva un impareggiabile desiderio di
eccellere, un’innata rabbia competitiva e una passione ineguagliabile. Con
gli anni, tutto ciò era diventato sempre più evidente. All’inizio della carriera
gli osservatori, impressionati dalla sua maestria, cercavano di spiegare la
sua ascesa ai massimi livelli citando soltanto il suo talento; ora, in una fase
più avanzata della sua carriera, non poteva più contare su tutte quelle
giocate individuali che lo avevano reso celebre, ed era diventato sempre più
ovvio che quello che davvero lo distingueva era la sua volontà, il suo rifiuto
di lasciare che qualunque avversario o anche il passare del tempo
ostacolassero la sua fame di vittorie. «Vuole strapparti il cuore e fartelo
pure vedere» disse una volta Doug Collins. «È come Hannibal Lecter» disse
l’esperto giornalista del Boston Globe Bob Ryan, citando lo spietato killer
del Silenzio degli innocenti. Il suo stesso compagno di squadra Luc
Longley, quando un reporter televisivo gli chiese una sua descrizione in una
sola parola, disse semplicemente ‘predatore’.
All’inizio della nuova stagione, che molte persone pensavano potesse
essere la sua ultima, Michael Jordan dominava non solo il gioco, ma anche
l’immaginario degli appassionati di sport negli Usa, al punto che tutti i
giornalisti stavano già cominciando a scrivere articoli su chi sarebbe
diventato il prossimo Michael Jordan. Uno dei primi fu scritto da Mike
Lupica per Men’s Journal, che aveva nominato tra i papabili Grant Hill dei
Detroit Pistons, un giovane che mostrava talento sia in campo che fuori ma
che non era carismatico come Jordan; Kobe Bryant, una giovanissima stella
dei Los Angeles Lakers, forse più emozionante di Hill ma ancora
drammaticamente acerbo in campo; e naturalmente Shaquille O’Neal, il
gigante buono dei Lakers, un giovane di talento e potenza evidenti. Tutti
questi discorsi sul nuovo Michael Jordan divertivano molto quello
originale: «Io sono ancora qui» disse al suo amico e preparatore Tim
Grover. «Non vado da nessuna parte. Non ancora».
Il fatto stesso che uno come Michael Jordan sia esistito sembra, col senno di
poi, il risultato di un meraviglioso errore genetico e l’idea che qualcuno
possa arrivare in così poco tempo dove lui è arrivato e fare quello che lui ha
fatto sia sul campo che fuori sembra altamente improbabile. Perché oltre
alle sue eccezionali abilità atletiche, aveva anche altre qualità. Era piacente
e affascinante, con un sorriso che sembrava suscitare gioia e mettere a
proprio agio chiunque lo ricevesse. Inevitabilmente, si rese presto conto dei
benefici che derivavano dall’avere così tanto successo nello sport ed essere
anche di bell’aspetto, dal poter sfruttare la combinazione tra fama e
bellezza. Era alto ma non troppo – 2,01 m – e con un corpo che sembrava
inquietantemente perfetto, con spalle larghe, vita stretta e solo il 4% di
grasso corporeo. (L’atleta professionista medio americano era tra il 7 e
l’8%, mentre l’uomo medio americano tra il 15 e il 20%). Curava il suo
abbigliamento e si vestiva straordinariamente bene, era forse l’uomo
americano meglio vestito dai tempi di Cary Grant, anche se la gamma di
abiti che poteva indossare era molto più ampia. Uno dei membri della
troupe che girò le pubblicità della Nike notò che era più elegante lui in tuta
da ginnastica rispetto a molte star del cinema in giacca e cravatta. Jordan
incalzava Jim Riswold, il pubblicitario di Portland responsabile degli spot
della Nike, prima di ogni ripresa: «Fammi fare bella figura». Riswold una
volta gli rispose: «Michael, potrei filmarti mentre spingi delle bambine
sotto delle macchine nel traffico del centro o mentre getti dei cuccioli
nell’acqua bollente. Faresti comunque bella figura».
Nel passato, l’ideale americano di bellezza era sempre stato bianco: per
molto tempo gli uomini statunitensi si erano guardati allo specchio
sperando di vedere Cary Grant, Gregory Peck o Robert Redford. Jordan,
senza barba né capelli, aveva dato all’America niente meno che una nuova
definizione di bellezza, per una nuova era.
Quello che l’America e il resto del mondo vedevano era un vassallo del
nuovo mondo, un giovane i cui modi apparivano addirittura principeschi. E
la cosa più straordinaria era che tutto ciò non dipendeva affatto dalle sue
origini. Il suo nonno paterno era un mezzadro in una piantagione di tabacco
nella Carolina del Nord e i suoi genitori erano persone semplici, che
lavoravano duro. Erano stati i primi membri delle rispettive famiglie a poter
godere dei pieni diritti di cittadinanza, e avevano cresciuto un ragazzo dal
portamento naturalmente aggraziato. Per via del modo amorevole in cui era
stato cresciuto e dell’infinita serie di trionfi degli ultimi anni, la sua comfort
zone era talmente ampia da intimorire: la sua sicurezza nei propri mezzi era
inscalfibile.
Il modo in cui si comportava con qualsiasi tipo di persona, anche nel più
breve degli incontri, era molto educato, specialmente per qualcuno soggetto
a tutte quelle pressioni, e tutti quelli a cui sorrideva sembravano diventare
migliori solo per aver ricevuto quella gentilezza. Sapeva bene di avere
fascino e lo usava in maniera naturale ma anche cauta, dosandolo bene e
trattenendosi quando gli faceva più comodo. Apprezzarlo era facile e le
persone sembravano fare a gara per piacergli. Un esperto giornalista
sportivo come Mark Heisler scrisse in un articolo che non aveva mai voluto
piacere a un atleta come voleva piacere a Michael Jordan. C’era una folla di
direttori di giornale che volevano stampare articoli di lui perché, come
succedeva con la principessa Diana, la sua foto in copertina aumentava di
gran lunga le vendite. Qualunque uomo potente e ricco voleva essere suo
amico, parlare di lui e ovviamente andarci a giocare a golf.
Per tutti questi motivi era diventato, oltre a un grande giocatore di
pallacanestro, anche un ottimo venditore: innanzitutto stava vendendo il
gioco a milioni di persone che vivevano in Paesi lontani e che non avevano
mai visto nessuno giocare a basket, ma anche a milioni di appassionati che
non avevano mai visto nessuno giocare a basket in quel modo. E poi
vendeva scarpe Nike a chi voleva saltare più in alto, Big Mac a chi aveva
fame, prima la Coca-Cola e poi il Gatorade a chi aveva sete, gli Wheaties a
chi desiderava una marca di cereali 100% made in Usa e boxer Hanes a chi
aveva bisogno di mutande. Vendeva occhiali da sole, profumi per uomo e
hot dog. Ma più di ogni altra cosa, vendeva se stesso, ed era un’attività che
anno dopo anno diventava più facile, perché all’ultimo titolo se ne
aggiungeva un altro, e un’altra straordinaria giocata all’ultimo secondo
rimpiazzava quella precedente. C’era già una statua che commemorava la
sua carriera fuori dal palazzetto dove giocava, lo Union Center di Chicago:
un edificio che lui odiava ma che era stato costruito principalmente per
accogliere le masse di tifosi che volevano vederlo giocare, e che per farlo
pagavano grandi quantità di denaro. La statua lo rappresentava in volo
(mentre saltava per schiacciare), ma paragonata all’uomo che
commemorava sembrava grezza e volgare. Arte che non imitava la vita, ma
la sminuiva.
Ogni anno sembrava aggiungere un nuovo capitolo alla leggenda. In
attesa della nuova stagione, il più importante capitolo fino a quel momento
era probabilmente già stato scritto nel giugno precedente, quando Michael
si era svegliato malato prima di Gara Cinque delle Finals contro gli Utah
Jazz. Se fosse un problema legato all’altitudine o un’intossicazione
alimentare, non si capì mai. Tempo dopo, si disse che si era svegliato con la
febbre a 39,5, ma non era vero: la temperatura era alta, ma non così tanto
(non più di 38), ma era stato così male durante la notte che sembrava
impossibile potesse giocare. Verso le 8 del mattino le sue guardie del corpo
chiamarono Chip Schaefer, il preparatore atletico della squadra, per dirgli
che Jordan era messo male. Schaefer corse in camera di Jordan e lo trovò
rannicchiato in posizione fetale, avvolto nelle coperte e vittima di una
debolezza quasi commovente. Non aveva dormito, aveva un fortissimo mal
di testa e aveva avuto per tutta la notte una nausea insopportabile. Il più
grande cestista del mondo sembrava un debole e fragile zombie, ed era
impensabile che quel giorno potesse scendere in campo.
Schaefer lo attaccò subito a una flebo e cercò di idratarlo il più possibile.
Gli diede anche delle pillole per farlo riposare: aveva capito meglio di
molte altre persone la ferocia che animava Michael Jordan, quello spirito
impossibile da abbattere che gli consentiva di giocare in situazioni in cui i
migliori professionisti al mondo, traditi dai loro corpi, avrebbero ceduto,
benché riluttanti. Durante le Finals del 1991 contro i Lakers, Jordan si era
infortunato a un piede segnando il canestro che aveva pareggiato la partita.
Schaefer era riuscito in qualche modo a realizzare una scarpa che lo
proteggesse nella partita successiva, ma Jordan l’aveva rifiutata, perché
limitava la sua rapidità nel fermarsi, ripartire e tagliare. «Preferisco il
dolore» aveva detto.
Ora, in quella camera d’albergo di Salt Lake City, anche vedendolo in
quelle condizioni, Schaefer sapeva che Jordan sarebbe in qualche modo
riuscito a giocare, sapeva che lui, in situazioni come quella, poteva usare la
sua malattia per motivarsi ancora di più, che poteva vederla come un’altra
sfida da superare. Riuscì ad arrivare allo spogliatoio prima della gara,
ancora fragile e debole. Tra i giornalisti si diffuse rapidamente la voce che
Michael avesse l’influenza e la febbre a 39. Molti diedero per scontato che
non avrebbe giocato. James Worthy, un opinionista della Fox, non ne era
così sicuro: aveva giocato con Michael a North Carolina, l’aveva visto
diventare il miglior giocatore dell’NBA e sapeva di cosa era capace. «La
febbre non ha nessuna importanza» disse Worthy agli altri inviati della Fox.
«Giocherà. Capirà cosa può fare, conserverà le energie e farà una grande
partita».
Nello spogliatoio, i compagni di Jordan erano sconvolti da quello che
avevano di fronte. Bill Wennington ricorda che la sua pelle, normalmente
piuttosto scura, era di un colore allarmante, a metà tra il bianco e il grigio, e
i suoi occhi, sempre così pieni di vita, sembravano morti. Poco prima
dell’inizio della partita, una troupe della NBC mostrò le immagini
dell’arrivo al Delta Center di un Jordan fragile e macilento, che a malapena
camminava ma che provò comunque a riscaldarsi. Fu uno di quei rari
momenti di inusuale intimità sportiva, con la televisione che mostrò sia la
malattia di Jordan sia la sua determinazione a giocare a ogni costo. Era
un’esperienza unica e coinvolgente: quando mai prima di allora la malattia
e la debolezza erano state così visibili sul volto di un atleta così grande
prima di una partita così importante? In avvio sembrò che Utah potesse
spazzare via i vulnerabili Bulls: all’inizio del secondo quarto, erano in
vantaggio 36-20. Ma i Bulls rimasero aggrappati alla partita perché Jordan
riuscì a giocare a un livello eccezionale, segnando ventuno punti nel solo
primo tempo. A metà partita, erano sotto solo di quattro: 53-49. Era difficile
comprendere come Jordan potesse giocare, figuriamoci capire come facesse
a essere il migliore in campo. Quello a cui si stava assistendo era un
dramma che trascendeva il basket.
A fine primo tempo, riuscì a stento a lasciare il campo con le proprie
gambe. Durante l’intervallo, disse a Phil Jackson di non utilizzarlo molto
nel secondo tempo, solo in alcuni momenti. Poi uscì dagli spogliatoi e giocò
quasi interamente i due quarti che rimanevano. Nel terzo non combinò
granché, segnando solo due punti, ma Utah non riuscì comunque a chiudere
la partita. Verso la fine del quarto quarto la telecamera lo inquadrò da
vicino, mentre tornava in difesa dopo un canestro: più che il miglior atleta
al mondo, Jordan sembrava il peggior partecipante a una maratona
amatoriale corsa in un caldo torrido in procinto di arrivare ultimo. Ma un
conto era il suo aspetto, un conto quel che faceva in campo nei momenti che
contavano.
Con quarantasei secondi sul cronometro e Utah sopra di un punto, Jordan
subì un fallo mentre andava a canestro. Il telecronista Marv Albert disse:
«Guardate il linguaggio del corpo di Michael Jordan. Sembra faccia fatica
anche a stare in piedi». Segnò il primo libero e pareggiò, sbagliò il secondo
ma riuscì a prendere il rimbalzo. I Jazz, inspiegabilmente, lo lasciarono
libero e lui segnò da tre: ora mancavano ventisei secondi e i Bulls erano in
vantaggio 88-85. Fu il momento decisivo per la vittoria finale: 90-88. Finì
con trentotto punti segnati, quindici nell’ultimo quarto. Era stata una
prestazione indimenticabile, una stupefacente dimostrazione di
determinazione spirituale; aveva dato una prova evidente del perché lui era
diverso da chiunque altro facesse il suo lavoro. Era l’atleta più dotato della
Lega, ma a differenza di altri giocatori dal grande talento, aveva
un’ulteriore qualità, tipica di quei superbi artisti a cui il lavoro risultava così
semplice: superava sempre i suoi limiti.

Aveva un talento cristallino e una volontà d’acciaio, ma non sempre


riusciva a essere paziente con i compagni. Tuttavia, negli anni dopo il suo
ritorno dal periodo (avaro di successi) nel baseball professionistico,
sembrava un Michael Jordan nuovo e a tratti più malleabile. Ai suoi
compagni piaceva di più, ed era una persona con cui era straordinariamente
facile giocare. Certo, con Luc Longley e Toni Kukocˇ ci andava ancora giù
pesante e in alcune occasioni poteva essere addirittura caustico, ma era
perché si aspettava molto da quei due giocatori e non sempre otteneva
altrettanto. Ma i commenti erano meno gratuiti e offensivi che in passato.
Certamente la ragione di quel cambiamento era, in parte, il fatto che
aveva già scalato tante montagne e che i tre campionati vinti
precedentemente non avevano solo affermato la sua grandezza, ma anche
messo a tacere l’odiosa teoria, che lo aveva perseguitato a lungo, che lo
dipingeva come un grande giocatore individuale, incapace però di alzare il
livello complessivo della squadra. Quindi, non un vincente. Un’altra parte
del cambiamento derivava dal fatto che era stato quasi due anni lontano da
qualcosa che amava. Più adulto e maturo, era arrivato a un punto della
carriera in cui sapeva che il tempo giocava contro di lui, che doveva
assaporare la dolcezza del gioco e che parte di quella dolcezza erano
l’amicizia con i compagni di squadra, la natura sfibrante delle lunghe,
estenuanti stagioni NBA e il modo in cui reagivano insieme a esse.
Ovviamente c’era anche il fatto che, fallendo nel baseball, aveva per la
prima volta realizzato cosa voleva dire per un atleta cercare di superare i
propri limiti, perché lui di limiti non ne aveva mai avuti prima, sicuramente
non nelle sue performance individuali.
La vittoria contro i Jazz, ispirata dall’influenza, aveva aiutato a
legittimare sia il quinto anello NBA dei Bulls sia la convinzione, ormai
largamente diffusa, che fosse una delle più grandi squadre di ogni epoca, se
non la più grande. Ma non era facile trovare loro un posto nel pantheon.
Certo, avevano vinto cinque campionati di fila. E ancora, durante la
stagione 1995-96 avevano vinto settantadue partite (un record). Ma agli
occhi di molti appassionati, la questione dell’esatto posto da assegnare loro
nella storia del basket rimaneva in un certo senso dubbia, in parte perché
alcuni dei loro giocatori sembravano abbastanza limitati, e in parte perché
non avevano mai giocato contro un’altra grande squadra, come i Celtics e i
Lakers negli anni ottanta. I Bulls avevano battuto ottime squadre, ma
avevano mai sconfitto una grande squadra? Secondo alcuni tifosi erano un
Ali senza il loro Frazier.
Ma chi sosteneva questa idea dimenticava quanto era stata difficile la
strada verso i titoli. Nella prima fase, i Bulls avevano spesso affrontato i
tostissimi Detroit Pistons, non straordinari sulla carta ma una vera spina nel
fianco quando ci giocavi contro. Dimenticava inoltre che, per molti anni,
nelle fasi iniziali dei playoff

si erano dovuti sbarazzare degli ottimi Cleveland Cavaliers, che avrebbero


potuto aspirare al titolo se non avessero incontrato Michael Jordan lungo la
loro strada. I Bulls avevano l’abitudine di battere squadre che, fino al
momento in cui non giocavano le finali di Conference o le stesse Finals
contro di loro, sembravano assolutamente dominanti e molto meglio dei
Bulls stessi, finché non si scontravano con loro e venivano fatte a pezzi.
Una chiave del loro duraturo successo erano le qualità difensive: in una
lunga serie di playoff, ottime squadre composte da ottimi giocatori finivano
per sembrare formazioni piuttosto mediocri.
Un buon esempio fu la vittoria contro gli Orlando Magic nella finale della
Eastern Conference del 1996. I Magic erano, almeno sulla carta, una
squadra giovane e molto promettente. L’anno prima erano arrivati alle
Finals e avevano membri dell’All Star Team in tre ruoli chiave: centro, ala
grande e playmaker (Shaquille O’Neal, Horace Grant e Penny Hardaway).
Sembravano destinati ad aprire un ciclo di vittorie. I Bulls se ne
sbarazzarono in quattro partite e Orlando non fu più la stessa; di lì a poco,
Shaq andò a ovest, sperando di aprire un ciclo in California, invece che in
Florida.
2
Wilmington; Laney High, 1979-1981

Se Michael Jordan era un genio, sicuramente non lo aveva dimostrato da


giovane. I Jordan vivevano a Wilmington, nella Carolina del Nord, ed erano
gente tutta d’un pezzo, una tipica famiglia di classe media. (‘In realtà di
classe medio-alta’ osservava Michael Wilbon, noto editorialista del
Washington Post, ‘ma i media tendono sempre a spostare le famiglie nere
un gradino più in basso nella scala sociale’). James Jordan e Deloris
Peoples si conobbero dopo una partita di basket a Wallace, Carolina del
Nord, nel 1956. Lei aveva quindici anni e lui stava per arruolarsi
nell’aeronautica, ma le disse che sarebbe tornato presto per sposarla. Alla
fine anche lei partì, diretta al Tuskegee Institute nell’Alabama, ma ritornò a
casa presto per la nostalgia. Poco dopo il suo ritorno, si sposarono.
James Jordan era un ottimo meccanico e si diceva che potesse riparare
qualunque cosa. Lasciò l’aeronautica abbastanza giovane, si trasferì con la
famiglia in Carolina del Nord e venne assunto in una fabbrica della General
Electric, dove iniziò come meccanico per poi diventare, nel tempo,
supervisore di tre dipartimenti. Sua moglie lavorava allo sportello della
banca locale. I Jordan potevano contare su tre fonti di reddito: il lavoro di
lui, il lavoro di lei e la pensione che lui continuava a ricevere dalla Air
Force. La Carolina del Nord era ormai un luogo di buona integrazione,
dopo i grandi scontri sui diritti civili degli anni sessanta, e i Jordan erano
desiderosi di diventare parte di un Sud nuovo, più moderno e al passo con i
tempi. Inoltre, furono catapultati a un gradino più alto della scala sociale da
quello che, per i neri che volevano far parte della classe media, era
l’ascensore più importante: l’esercito degli Stati Uniti. Entrambi i genitori
facevano lavori nei quali sostanzialmente non subivano discriminazioni e i
cinque figli frequentavano una scuola dove c’erano sia bianchi sia persone
di colore. Entrambi i genitori erano inoltre determinati a far sì che i loro
figli non fossero né accecati né ostacolati dalla loro appartenenza razziale e
li spingevano costantemente a trattare tutti allo stesso modo. Insegnarono
loro che meno avessero considerato l’etnia un fattore determinante nel
giudicare le persone, meno le persone l’avrebbero considerata un fattore
determinante nel giudicare loro: per essere trattati bene, dovevano trattare
bene gli altri. Avrebbero dovuto avere (ed ebbero) amici con la pelle di
entrambi i colori. Quando Michael era giovane e qualcuno gli dava del
negro era più una dolorosa eccezione che non, come invece era stato una
volta, la normalità della vita nella Carolina del Nord. I suoi genitori
gestivano momenti come quello in modo scaltro: era un segno, dicevano,
che gli altri bambini erano ignoranti e Michael non doveva abbassarsi al
livello delle persone ignoranti. Mamma e papà Jordan erano figli di genitori
che avevano avuto opportunità economiche e educative assolutamente
ridotte, ma avevano beneficiato di profondi cambiamenti legali e sociali, ed
erano determinati a spingere i loro figli ai massimi livelli. Perfino a far
finire loro il college, se fosse stato possibile. Quando, dopo il terzo anno di
Michael al college, il suo allenatore Dean Smith pensava che avesse ormai
imparato tutto ciò che poteva a Chapel Hill, e che fosse il momento per lui
di diventare un professionista, Deloris Jordan si oppose strenuamente:
voleva che finisse gli studi e si laureasse. «Signora Jordan» disse Smith,
«non sto suggerendo che Michael rinunci alla laurea. Sto suggerendo che
rinunci all’anno del diploma!»
Era una famiglia con una ferrea disciplina e con alcune regole d’oro, la
prima delle quali era che non si può sprecare il talento e che bisogna sempre
lavorare duro. James Jordan era un uomo con un’educazione militare e un
forte senso dell’ordine, che spinse i suoi figli negli sport con estrema
decisione. Ma la vera forza trainante, pensavano gli amici di famiglia, era
Deloris. Era lei il genitore che innalzava costantemente le aspettative sui
figli, lasciando loro capire in vari modi che tanto più si dava loro, tanto più
ci si sarebbe aspettati in cambio. Non dovevano lasciarsi abbattere dalla
sfortuna o da ansie passeggere. Nella sua testa, avrebbe dichiarato in
seguito, c’era ancora la sua esperienza: le avevano permesso di tornare a
casa da Tuskegee al suo primo anno, in lacrime per la nostalgia di casa:
«Mia madre avrebbe dovuto rimettermi immediatamente sul treno. Non
volevo fare lo stesso errore con i miei figli». Quando Michael ebbe
problemi a scuola per aver marinato delle lezioni, lo portò con sé al lavoro e
lo lasciò nell’auto, parcheggiata sotto una finestra da cui lei poteva tenere
gli occhi su di lui, e lo fece studiare tutto il giorno. Dei cinque figli,
Michael, per sua stessa ammissione, era il più pigro, o almeno quello meno
bravo a liberarsi con le chiacchiere della sua dose di lavori di casa. Ma era
abile nel dosare la sua paghetta per comprarsi la libertà. Scherzando, il
padre avrebbe successivamente detto che era una fortuna che Michael fosse
diventato un atleta professionista, perché sarebbe stato troppo pigro per
tenersi qualunque altro lavoro.
E Michael, a differenza di suo padre o del fratello maggiore Larry, non
era molto bravo a lavorare con le macchine. Questo era motivo di
frustrazione perché essere buoni meccanici era considerato importante, in
famiglia. A volte James Jordan diceva a Michael di tornare a casa con le
donne. James, che il figlio ammirava molto, lavorava sempre con la lingua
in mezzo ai denti (una abitudine che aveva ereditato da suo padre) e anni
dopo Michael Jordan avrebbe giocato a pallacanestro con la lingua in
mezzo ai denti. Nel tempo, migliaia di giovani avrebbero giocato a
pallacanestro con la lingua in mezzo ai denti, e questo perché James Jordan
riparava così la sua macchina.
La chiave per comprendere la feroce competitività di Michael Jordan,
secondo i suoi amici degli anni delle medie, delle superiori e dell’università,
era la sua rivalità con il fratello maggiore Larry, un atleta altrettanto
formidabile, anche se schiacciato in un corpo con le proporzioni sbagliate.
Era molto forte, abile atleticamente e ambizioso, ma era sempre troppo
basso per raggiungere, nello sport, quei risultati che il suo cuore, la sua
volontà e il suo talento gli avrebbero potuto regalare. «Era un vero atleta»
disse una volta Doug Collins. «Mi ricordo la prima volta che lo vidi: questo
ragazzo piuttosto basso, ma incredibilmente muscoloso, con uno splendido
corpo di 1,70m, più da giocatore di football che da cestista. Nel momento in
cui l’ho visto ho capito cosa spingeva Michael». O, come disse una volta
Clifton (Pop) Herring, che aveva allenato entrambi alla Laney High di
Wilmington: «Larry era un atleta così ossessionato e così competitivo che
se fosse stato 1,90m invece di 1,70m, sono sicuro che Michael sarebbe stato
conosciuto come il fratello di Larry, invece che il contrario». Michael stesso
una volta notò: «Quando vedete giocare me, in realtà state vedendo giocare
Larry».
Per molto tempo, anche dopo che Michael cominciò a essere più alto di
lui, Larry poteva saltare in alto quanto suo fratello; in un’altra epoca, in una
scuola con un programma sportivo più vario, Larry, almeno secondo Ron
Coley, uno dei viceallenatori di Laney, sarebbe stato un ottimo ginnasta:
sarebbe stato lo sport perfetto per lui. (Larry Jordan avrebbe giocato per una
squadra di Chicago in una lega dilettantistica, poi si convinse che la società
stava solo sfruttando il suo rapporto con Michael e lasciò perdere).
I fratelli più piccoli tendono a usare l’apparentemente incolmabile e
permanente divario che li separa dai loro fratelli maggiori, che sembrano
sempre più talentuosi e più di successo, per trovare il proprio posto
nell’universo. In questo caso, Michael stava usando come metro di
paragone un fratello che stava a sua volta combattendo una battaglia
personale contro la sua statura fisica. Di conseguenza, nel cortile dei Jordan
si assisteva sempre a qualche forma di competizione atletica tra i due:
giorno dopo giorno, si sfidavano sul piccolo campo che James Jordan aveva
costruito. Larry era incredibilmente forte e per anni dominò suo fratello, ma
verso la fine delle scuole superiori Michael iniziò finalmente a crescere e
divenne molto più alto di chiunque altro nella sua famiglia. Quando
successe, Michael pensò che suo padre cercasse di pareggiare i conti
facendo più complimenti a Larry che a lui.
Se non altro, ciò spinse Michael a lavorare ancora più sodo in campo.
Secondo i suoi amici di allora, la cosa interessante era la combinazione di
intensa rivalità e profondo affetto che Michael provava per Larry. Per essere
una prolungata rivalità familiare, era piuttosto amorevole. David Hart,
manager di una squadra della Carolina del Nord ed ex compagno di stanza
di Michael a Chapel Hill, ha dichiarato: «È chiaro che Michael e Larry
erano stati ferocemente in competizione da bambini e che quella di Larry è
stata un’ombra sempre presente nella sua vita. Michael amava molto il
fratello, ne parlava sempre. Lo venerava. E anche se, come atleta, lo ha
stracciato, non ha mai lasciato che questo cambiasse i suoi sentimenti: il
rispetto per suo fratello e la connessione emotiva con lui sono sempre stati
molto forti. Quando incontrava Larry, tutta la sua fama e i suoi successi non
contavano nulla, e Michael diventava nulla più che un affettuoso e adorante
fratello minore». In realtà, era anche capace di provocarlo: anni dopo,
quando Michael era già una stella NBA, i due giocarono una partitella.
Michael guardò i piedi di Larry e disse: «Ricordati di chi è il nome che hai
scritto sulle scarpe». Per un fratello minore, era la vittoria definitiva.
I primi segnali delle straordinarie capacità atletiche di Michael arrivarono
in realtà dal baseball: giocava come lanciatore per un’ottima squadra della
Wilmington Little League e riuscì a chiudere molte partite senza concedere
nemmeno una valida agli avversari. A dodici anni, portò la squadra alla
finale regionale: i vincitori sarebbero andati alle World Series della Little
League. Concesse solo due valide, ma la sua squadra perse 1-0. Il basket,
che pure lo attirava, sembrava solo un sogno lontano, anche perché era alto
solo 1,76m e molto magro. Per un breve periodo, prima di iniziare le
superiori, frustrato dalla sua bassa statura, iniziò ad appendersi a una barra
per le trazioni, cercando di allungarsi. Sarebbe cresciuto col tempo, ma non
certo grazie a quegli esercizi di stretching fatti in casa.
Dava però già segni del suo enorme talento. Era molto amico del suo
compagno di classe Harvest Leroy Smith: in quel periodo giocavano a
basket praticamente tutti i giorni e Smith pensava che fosse già il migliore
perché, anche se piccolo, era molto rapido. Ha raccontato: «Ti chiedevi
come fosse possibile che prendesse certi tiri, perché non era affatto alto. Ma
era tutta questione di rapidità. Le uniche domande erano quanto sarebbe
cresciuto e quanto sarebbero migliorati i suoi fondamentali». E anche se i
suoi fondamentali erano leggermente inferiori a quelli di altri giocatori, ciò
che lo spingeva era la sua competitività. «Ci allenavamo insieme
praticamente tutti i giorni e lui doveva sempre vincere. Se lo battevi a
Horse, ti chiedeva di giocare un’altra partita. E finché non vinceva, non si
andava a casa».
L’estate dopo l’ultimo anno delle medie, Jordan e Smith andarono al
campo estivo di Pop Herring, l’allenatore della prima squadra della high
school di Lacey, che avrebbero frequentato dall’anno successivo. Herring
suggerì a entrambi di provare a entrare in squadra durante il loro secondo
anno: Smith perché era già alto 2,10m e Jordan perché era molto veloce.
Nessuno dei due era ancora completamente formato e quasi tutti i
componenti della squadra, di due o tre anni più grandi, sembravano
infinitamente più forti, in un momento in cui un anno o due di sviluppo
fisico possono fare la differenza. Smith non aveva dubbi su chi sarebbe
diventato il migliore tra loro due: Michael, e per distacco. Ma nel giorno in
cui furono annunciate le scelte della prima squadra (il giorno più atteso
dell’anno, tutti conoscevano da settimane la data precisa dell’annuncio), lui
e Roy Smith andarono a sbirciare. Su quella lista c’era il nome di Roy
Smith, ma non quello di Michael.
Fu il giorno peggiore di tutta l’adolescenza di Michael. La lista era in
ordine alfabetico, per cui andò subito a guardare sotto la J, ma nulla. Lesse
e rilesse la lista, sperando di non aver visto il nome o che l’ordine fosse
sbagliato. Quel giorno tornò a casa da solo, andò in camera sua e pianse.
Smith capì cosa stava succedendo: Michael non voleva che nessuno lo
vedesse quando stava male o quando qualcuno lo feriva.
Anni dopo gli allenatori di Lacey si resero conto di non aver gestito bene
la situazione: avrebbero dovuto attutire il colpo e far capire a Michael che il
suo giorno sarebbe arrivato. Inoltre, avevano peggiorato la situazione
scegliendo il suo migliore amico. Roy Smith pensò che fossero impazziti:
lui era più alto, ma Michael era molto più forte. L’assistente allenatore Fred
Lynch avrebbe poi dichiarato: «Sapevamo che Michael era bravo, ma
volevamo giocasse di più e pensavamo che la squadra riserve fosse la scelta
migliore per lui». Diventò il miglior giocatore della seconda squadra senza
alcuna difficoltà. Era semplicemente dominante, non per statura ma per
velocità: in alcune partite arrivò a segnare quaranta punti. Era talmente forte
che la squadra riserve divenne piuttosto popolare e perfino la prima squadra
arrivava prima al palazzetto per vederlo giocare.
Leroy Smith notò che Jordan, già competitivo prima, lo divenne più che
mai dopo essere stato scartato, determinato com’era a far sì che non
accadesse mai più. Anche gli allenatori lo notarono. «La prima volta che
vidi Michael Jordan» ricorda Ron Coley, «non avevo idea di chi fosse. Ero
viceallenatore e andammo in trasferta dai nostri eterni rivali di Goldsboro.
Quando entrai in palestra la partita delle squadre riserve stava per finire: in
campo c’erano nove giocatori che trotterellavano e un ragazzino che stava
dando tutto. Da come giocava, pensai che la sua squadra stesse perdendo di
un punto e che mancassero un paio di minuti. Guardai il tabellone: mancava
solo un minuto e la sua squadra era sotto di venti. Quel ragazzino era
Michael, e presto avrei imparato che era sempre così».
Tra il momento in cui fu escluso e il suo effettivo ingresso in squadra
Michael crebbe di almeno dieci centimetri: era sempre stato veloce, ma ora
era anche alto e poteva schiacciare. Smith notò che le sue mani erano
diventate molto più grandi. All’improvviso, la Laney High School aveva
un’ottima squadra di basket e Michael Jordan era il suo astro nascente. Era
motivato come sempre, in allenamento era quello che lavorava di più. Se
pensava che i compagni non si stessero impegnando abbastanza, li
rimproverava personalmente. A volte, era lui a dire all’allenatore di
richiamarli. Lo staff tecnico pensava che non fosse abbastanza egoista e lo
spingeva a prendere più tiri, anche e soprattutto perché poteva risolvere i
problemi di tutta la squadra. Ma più lo spingevano, più lui faceva
resistenza. Alla fine, l’allenatore parlò con James Jordan per arruolarlo alla
propria causa. Ma il signor Jordan rispose: «Non saprei… La mia politica è
non entrare nelle questioni tecniche. Non voglio mettermi in mezzo, come
fanno quei padri nella Little League. Non mi sembra il compito di un padre.
Ma se me lo chiede, potrei fare un’eccezione». Nel primo anno di Michael,
Laney ebbe un record di 13-10 e nel suo ultimo di 19-4: solo una sfortunata
sconfitta in un torneo regionale impedì loro di andare alle finali statali.
3
Chicago, novembre 1997

Nell’autunno del 1997 i Bulls tornarono a Chicago da Parigi per iniziare la


rincorsa al sesto titolo, ma in paradiso (sempre ammesso che Chicago si
potesse considerare il paradiso) c’erano guai. Raramente una società così
piena di talenti era anche stata così piena di tensioni. Già durante i playoff
del 1997, ci si era chiesti se quella squadra sarebbe mai tornata compatta e
solida, perché negli ultimi anni la frattura tra la dirigenza e i giocatori e
l’allenatore si era allargata sempre più.
Dopo il quinto titolo sembrò improbabile, almeno per qualche tempo, che
Jerry Reinsdorf avrebbe rinnovato il contratto di Phil Jackson. Gli stipendi
degli allenatori si erano alzati molto: alcune franchigie di seconda fascia,
per fare il salto di qualità, avevano cominciato ad assumere coach
provenienti dal college che non avevano mai vinto nulla in NBA, pagandoli
4 milioni di dollari o più a stagione, e il prezzo richiesto da Jackson era di
conseguenza molto alto. Il contratto appena scaduto prevedeva uno
stipendio annuale di 2,7 milioni, il che lo rendeva, si pensava, il più pagato
tra gli allenatori che non erano anche general manager. Tutto sommato, era
un ottimo stipendio, specialmente per uno che era considerato una delle
principali figure di quella poca controcultura che c’era nell’NBA. C’erano
un sacco di ottimi allenatori che sarebbero stati ben felici di lavorare per 1 o
2 milioni, uomini che smaniavano all’idea di allenare Jordan, Pippen o
Rodman: perché dunque, pensava la dirigenza, infilarsi in una sanguinosa
trattativa con qualcuno che alla fine era solo l’allenatore, quindi la figura
apparentemente più facile da sostituire? Ma c’era un’ottima ragione per
giustificare le richieste di Jackson: Michael Jordan aveva giurato che
avrebbe giocato solo se l’allenatore fosse rimasto lui. Era un ricatto, e si
tradusse in una gigantesca pressione dell’opinione pubblica, che spingeva
per il rinnovo di Jackson: la squadra doveva essere ricomposta e avere la
possibilità di giocarsi il titolo sul campo.
Alla fine degli anni novanta, lo sport professionistico cominciò ad avere
costi così alti da far venire i brividi e questa vicenda ne sottolineò una delle
caratteristiche più evidenti, ma anche più meschine: la lotta per giusti (o
anche ingiusti) compensi e i nascosti (o anche non così nascosti) scontri tra
personalità che si manifestavano sempre nelle vittorie, nel momento della
loro massima esposizione mediatica. In un certo senso, quello che stava
accadendo a Chicago era sintomo di un problema economico generale: qual
era il valore monetario del talento, in una società dello spettacolo che
lucrava sul medesimo? Le tradizionali regole del mercato erano applicabili
anche a questo mondo favoloso? Lo scontro vedeva da una parte un uomo
che aveva la fama di scaltro negoziatore, uno dei dirigenti più furbi e
inflessibili nell’intero mondo dello sport, e dall’altra l’allenatore e i
giocatori della miglior squadra al mondo, il cui valore era aumentato in
seguito a una sequenza di successi senza precedenti, e un giocatore che era
probabilmente l’atleta più famoso degli Stati Uniti. Stava avvenendo un
affascinante, anche se aspro, scontro tra due mondi: quello sognatore dello
sport e quello gelido degli affari.
Per svariate ragioni, le tensioni tra i Bulls erano molto peggio delle altre,
anche in quel contesto di sport professionistico in cui i conflitti tra ego
smisurati e le rivendicazioni su stipendi e sul tempo di gioco erano costanti.
Parte dell’insoddisfazione derivava dalla particolare natura della proprietà
della squadra: il presidente Jerry Reinsdorf aveva guadagnato una fortuna
vendendo edifici commerciali, un campo conosciuto per la sfida tra ego
smisurati delle negoziazioni e in cui il rigore durante le trattative era parte
del divertimento, uno scopo a sé per gli operatori più abili. Mentre il basket
era lo sport che i giocatori praticavano meglio e gli allenatori capivano al
volo, le trattative dure, spietate, spesso brutali, che costringevano a vedere
la persona dall’altra parte del tavolo momentaneamente come un nemico
erano il passatempo preferito del proprietario. E le trattative non erano certo
rese più facili dal fatto che Reinsdorf si faceva rappresentare, nelle prime
fasi (che spesso erano delle vittorie di Pirro), da Jerry Krause, un uomo non
particolarmente abile nei rapporti umani e che tendeva a prendere tutti i
conflitti sul personale. Quando finalmente un agente e il proprietario
sedevano per l’ultima, decisiva volta al tavolo, spesso l’atmosfera non era
delle migliori.
Reinsdorf era considerato un vero maestro della trattativa. Se poi
effettivamente capisse quanto la popolarità dei Bulls – i molti anelli e il
successo di pubblico senza precedenti – avesse cambiato la natura delle
trattative, trasformandole da questioni interamente private a materie di
totale dominio pubblico, era un’altra questione. Era un uomo intelligente e
tenace, di incredibile successo, e si faceva poche illusioni sulla vera natura
dei suoi affari. Negli ultimi vent’anni il suo patrimonio netto era cresciuto
in modo sbalorditivo, in buona parte grazie al suo successo con i Bulls.
L’equazione era semplice: meglio giocava Michael Jordan, più ricco e
influente diventava lui. Aveva iniziato come giovane avvocato fiscalista a
Chicago, lavorando prima per l’Agenzia delle Entrate americana e poi,
come molti altri che avevano iniziato così, aveva imparato i codici delle
tasse ed era diventato un consulente per molti professionisti di Chicago,
insegnando loro a fare margini. In quegli anni aveva imparato che ‘se provi
a essere amato e rispettato non otterrai nessuna delle due cose’. Qualche
tempo dopo fondò la sua compagnia, la Balcor, che si occupava di vendita
di immobili nei tardi anni ottanta, un periodo in cui quel mercato esplose.
L’azienda acquistò molto valore e nel 1982 la vendette all’American
Express per 553 milioni di dollari, accettando di rimanere come CEO per
cinque anni. Lasciò nel 1987. Le leggi sul commercio di immobili
cambiavano moltissimo in pochissimo tempo e presto la Balcor cominciò a
emettere un nauseabondo odore di fallimento: l’American Express finì per
accumulare in un solo trimestre 200 milioni di dollari di debito legati
all’azienda. Non erano in molti, all’American Express, a conservare un
buon ricordo di Reinsdorf. Era un self-made man che aveva creato la
propria fortuna dal nulla. Nonostante finanze limitate, aveva acquisito il
controllo di due squadre di Chicago – i Bulls e i White Sox –, in un
ambiente ostile e in una città che gli era in parte estranea, mentre altri
miliardari più eleganti, con famiglie migliori e migliori credenziali, si erano
limitati a prenderlo in giro. La sua sola debolezza, secondo alcuni, era
l’essere troppo abituato a vincere, a fare le cose a modo suo e a trovare le
debolezze nei suoi avversari. Aveva fatto così bene partendo da così in
basso che sembrava pensare di essere più intelligente e più duro di chiunque
altro o, almeno, più intelligente di coloro che erano più duri e (ancor più
importante) più duro di chiunque fosse più intelligente.
Quando si trattava di gestire le squadre, aveva un significativo vantaggio
rispetto a molti altri proprietari: riusciva a mantenere una certa distanza
emotiva sia dalla squadra che dai giocatori. Negli anni aveva mantenuto un
rapporto ragionevole con Michael Jordan: le loro riunioni e occasionali
interazioni sociali erano state abbastanza piacevoli e improntate al rispetto
reciproco. Jordan, che aveva grande considerazione per il successo negli
affari come uno scopo a sé stante, sembrava ammirare un uomo che era
riuscito a fare così tanti soldi da solo. Ma Reinsdorf non sembrava aver
bisogno di essere un altro degli amichetti di Jordan, e non c’era da stupirsi
che non fosse andato a Parigi per crogiolarsi nella gloria dei Bulls. Non
voleva, né cercava, quel tipo di soddisfazione dell’ego.
Reinsdorf aveva capito fin dall’inizio che più un proprietario avesse
avuto bisogno di solleticare il proprio ego stabilendo un rapporto personale
con i giocatori, tanto più avrebbe dato a loro e ai loro agenti una leva da
sfruttare al tavolo delle trattative. Al contrario, molti proprietari di
franchigia di allora sembravano essere dei mancati atleti professionisti che
si erano trasformati in tifosi appassionati ed emotivamente coinvolti, che si
beavano del loro rapporto con quegli straordinari sportivi e della possibilità
di portare i loro amici nello spogliatoio per conoscere le superstar. Per molti
di quei proprietari, ricchi oltre ogni umana comprensione ma spesso
incredibilmente mediocri nei loro business principali, lo sport era più una
soddisfazione dell’ego, che non una questione di affari.
Ma questo non era assolutamente vero per Reinsdorf, che era prima di
tutto un uomo d’affari. Anche se parlava volentieri della sua infanzia a
Brooklyn e del suo amore per i vecchi Dodgers degli anni cinquanta, e gli
faceva piacere mostrare a chi visitava il suo ufficio un sedile originale di
Ebbets Field, come proprietario era capace di vedere la gestione di una
squadra come una questione estremamente darwiniana. La sua visione
dell’intero processo era sorprendentemente distaccata, quasi clinica.
Quando aveva comprato i White Socks diciotto anni prima, la sua età era
a metà tra quella dei giocatori e quella dei loro padri; ora, alla vigilia del
cambio di secolo, era più vecchio dei padri degli atleti e aveva molta meno
voglia di frequentarli. A volte, era invitato a far parte di commissioni che
tenevano colloqui agli aspiranti proprietari di squadre di basket o di
baseball ed era sorpreso di sentirli dire, anche se in modi sempre differenti,
che volevano entrare in quel campo perché non ricevevano abbastanza
rispetto o accettazione nelle loro comunità locali, specie data la loro
ricchezza. Quel tipo di attenzione, secondo lui, era l’aspetto peggiore del
possedere una squadra sportiva: una costante e sgradita invasione della
privacy.
Alle persone senza gli affari nel sangue, l’atteggiamento con cui
Reinsdorf si sedeva al tavolo delle trattative in alcuni momenti delicati
poteva sembrare quello di un bullo. Era ben conscio dello status speciale di
Jordan e anche del fatto che Jordan aveva un ruolo fondamentale nel
renderlo un uomo ricco e potente. Capiva anche bene tutti i possibili
pericoli insiti in un qualsiasi scontro pubblico con la più nota icona sportiva
d’America: nessuno che si beccasse con Jordan, dentro o fuori dal campo,
ne veniva fuori vincitore. Ma le sue trattative con Michael (che comunque
si prolungarono a lungo e furono estenuanti) erano in fondo un’eccezione.
Pochi degli altri atleti con cui aveva trattato avevano il potere contrattuale
che poteva avere Jordan. La sua durezza era nota in ben due sport: un buon
numero di giocatori di baseball lo odiava perché era stato uno dei maggiori
sostenitori della linea dura durante lo sciopero del 1995: credevano che
avesse convinto i proprietari delle piccole franchigie, altrimenti deboli, a
sostenere una lunga battaglia in favore delle restrizioni dei salari salvo poi,
nel momento in cui lo sciopero era finito, tradire le loro posizioni
ingaggiando lo scorbutico Albert Belle per una somma mostruosa.
Reinsdorf portò addirittura l’NBA in tribunale per una questione relativa
ai diritti televisivi di un certo numero di partite dei Bulls. Nessuno cercava
lo scontro con lui senza averci pensato due volte. Secondo Todd Musburger,
un agente che rappresentava Phil Jackson e che si azzuffò con lui per
diversi anni nelle loro negoziazioni contrattuali, Reinsdorf rappresentava il
lato più oscuro del capitalismo americano: si era abituato a trattare con
persone che si trovavano in una posizione più debole di lui, e a farlo alle
sue condizioni, mai alle loro.
In ogni caso era chiaro che una parte della forza che gli era stata così utile
nel mondo immobiliare, discreto e quasi segreto, non gli fu altrettanto utile
nelle contrattazioni, del tutto pubbliche, con giovani atleti brillanti, creativi
e talentuosi, ma anche molto vulnerabili, sempre preoccupati per gli
infortuni e le cui carriere erano, almeno dal loro punto di vista,
terribilmente brevi. Reinsdorf tendeva a concentrarsi sulle debolezze dei
suoi avversari, capiva quasi sempre quali erano e le sfruttava in maniera
abile; forse, nel lungo periodo, troppo abile sia per il suo bene che per il
bene della sua organizzazione. Se c’era una cosa di cui i giocatori avevano
paura erano gli infortuni e la fine delle loro carriere, quindi la cosa a cui
erano più suscettibili erano i contratti a lungo termine: avevano uno strano
potere seduttivo su di loro ed erano spesso meno costosi per la squadra di
quanto sarebbe stata una serie di contratti brevi. Perciò, le due parti non
erano mai in pari quando negoziavano: gli uomini d’affari avevano lunghe
carriere e le loro ricchezze erano un dato di fatto, mentre i giocatori
avevano carriere brevi e spesso si sedevano per la prima volta a quel tavolo
con ben pochi risparmi. Reinsdorf questo lo sapeva molto bene e sapeva
anche che gli agenti, una variabile importante della nuova equazione,
amavano i contratti a lungo termine perché significavano soldi sicuri.
Per esempio, Reinsdorf capì fin dall’inizio della carriera di Michael
Jordan che una delle sue debolezze nella contrattazione era il desiderio di
proteggere la sua immagine e il suo impareggiabile valore commerciale agli
occhi delle aziende di cui promuoveva i prodotti. E, di conseguenza, Jordan
aveva paura che rifiutare lo avrebbe fatto sembrare un altro dei tanti atleti di
quegli anni che si erano montati la testa. Sapeva anche che la vulnerabilità
di Scottie Pippen derivava non solo dalla sua infanzia povera, ma anche dal
fatto che il padre aveva avuto un ictus quando era abbastanza giovane, e
aveva passato buona parte della sua breve vita su una sedia a rotelle. Pippen
desiderava perciò disperatamente qualche forma di sicurezza a lungo
termine e sarebbe stato incline a optare per un contratto più lungo. In quasi
tutte le negoziazioni, comunque, quelle che sul momento sembravano
vittorie di Reinsdorf nel lungo periodo tendevano a creare problemi, perché
quelli con cui aveva a che fare erano dei talenti: uomini con doti inusuali e
un temperamento quasi artistico, che avevano carriere professionali
relativamente brevi e che finivano quasi sempre per essere infelici.
Negli anni, proprio a causa dei continui attriti, l’immagine pubblica della
dirigenza dei Chicago Bulls era stata disastrosa, anche se a Reinsdorf
questo non sembrava interessare più di tanto, perché si riteneva immune dal
giudizio dell’opinione pubblica. Sembrava essere orgoglioso della sua
reputazione di duro; ma quella dedizione durante le negoziazioni che gli era
stata così utile nella sua prima professione lo fece sembrare troppo severo e
insensibile nella seconda. Il fatto che il suo vice Jerry Krause, a dispetto
delle sue altre qualità professionali, sembrava avere un talento unico per
offendere molte delle persone con cui aveva a che fare peggiorava la
situazione.
Un buon numero di agenti era arrivato a credere che parlare con la
dirigenza dei Bulls fosse semplicemente più difficile che parlare con altre
dirigenze del mondo del basket. Le contrattazioni tendevano a seguire uno
schema lungo e difficile. L’agente avrebbe iniziato cercando di accordarsi
con Krause, il quale avrebbe stabilito una cifra relativamente bassa su cui,
diceva, non avrebbe trattato: sarebbe così iniziato un lungo e debilitante
processo. Spesso in queste riunioni Krause assumeva un atteggiamento
irrisorio verso il giocatore. E alla fine, quando sia lui che l’agente erano
esausti, sanguinavano per le ferite che si erano inflitti e sembrava che lo
stallo fosse inevitabile, interveniva Reinsdorf e veniva raggiunto abbastanza
in fretta un accordo. Ovviamente, Reinsdorf ne usciva incolume.
L’unico agente che riuscì a rompere questo schema fu David Falk,
l’agente di Michael Jordan, che aveva capito le dinamiche e trattava
direttamente con Reinsdorf. «Non mi farò mangiare vivo da quella roba»
disse una volta a un amico di Chicago, «non passerò tutto quel tempo a
parlare con uno che sta solo facendo da esca e che all’inizio si prende i
proiettili al posto suo». Ovviamente il fatto che Falk rappresentasse Jordan
gli dava una dispensa speciale per parlare da subito col proprietario.
Ma era difficile dare tutta la colpa delle tensioni tra i Bulls alla società.
L’altro fattore che creava un inusuale livello di insoddisfazione era la natura
estremamente effimera degli stipendi dei giocatori. Negli ultimi anni alcune
vecchie, draconiane leggi sul lavoro che davano ai proprietari pieni poteri
erano in pratica state cancellate da un giorno all’altro, dando inizio a
epocali e rapidissimi cambiamenti economici. Era come se, da un giorno
all’altro, il potere fosse stato trasferito dai proprietari ai giocatori e ai loro
agenti. All’improvviso, sembrò nell’NBA che la durata massima di
un’epoca fosse di quattro o cinque anni. Uno stipendio che era il sogno di
ogni giocatore dell’epoca precedente poteva sembrare imbarazzante rispetto
a quello che guadagnava un giocatore, anche giovane e inesperto,
dell’epoca successiva, anche se erano passati magari solo due o tre anni e il
contratto non era in scadenza. Questo fenomeno, pericoloso ed esplosivo,
era anche fonte di imbarazzo per gli agenti, perché nessuno di loro voleva
sentire un proprio assistito lamentarsi che un giocatore più scarso e meno
famoso aveva firmato un contratto migliore con un’altra squadra. Il mondo
dello sport era diventato così effimero che la carriera di un giocatore poteva
durare al massimo due o tre cicli finanziari, e un contratto al massimo due.
Tuttavia, Michael Jordan si presentò in NBA con un contratto da 6,3 milioni
a stagione per sette stagioni (all’epoca lo stipendio più alto mai offerto a un
rookie, ben più alto di quello di alcuni veterani), ma ora prendeva la stessa
cifra per giocare nemmeno un quinto della stagione.
La storia dei contratti di Jordan in effetti è un ottimo esempio della natura
esplosiva della finanza sportiva e del sistema dei rinnovi, anche firmati
nelle migliori condizioni. Il primo, piuttosto interessante per un rookie che
era stato solo la terza scelta al draft, era stato siglato prima che Reinsdorf
comprasse i Bulls ed era considerato, al tempo, molto buono per un giovane
che doveva ancora mostrare il suo valore, perché lo valutava molto di più di
tante altre stelle talentuose ed esperte. Dopo tre anni, date le straordinarie
capacità di Jordan e la sua unica abilità di attirare tifosi sia a Chicago che in
trasferta (e, via televisione, in tutto il Paese) e data la rapida scalata dei
salari NBA, era ovviamente anacronistico.
Il primo contratto era tecnicamente un quinquennale garantito, con
opzioni per due altri anni rispettivamente a 1,1 e a 1,3 milioni. Durante il
quarto anno Reinsdorf e Falk si accordarono per ridiscuterlo. Questo portò
allo stesso tavolo due dei più tenaci negoziatori nel mondo del basket. Se
molti agenti pensavano che trattare con Reinsdorf (per non parlare di
Krause) fosse più difficile che trattare con qualunque altro proprietario nel
mondo cestistico, c’erano anche proprietari che pensavano che avere a che
fare con Falk fosse un incubo e molti general manager evitavano di
scegliere determinati giocatori al draft solo perché erano rappresentati da
lui. Lo stesso Reinsdorf disse: «Trattare con David non è mai, mai una cosa
indolore». Ma stranamente i due si trovarono abbastanza bene: ognuno di
loro era ben consapevole del potere dell’altro e di quale fosse la posta in
palio, e si comportò in maniera abile. In effetti, alcune persone nell’NBA
erano convinte che, in alcuni scenari di trattativa, Falk e Reinsdorf
avrebbero potuto anche scambiarsi di ruolo, e nelle trascrizioni delle loro
conversazioni non ci sarebbe stata alcuna differenza.
Falk era convinto di essere stato lui a sollevare l’idea di un nuovo
contratto, Reinsdorf chiese se, nel caso non avesse deciso di rinnovare il
contratto, Jordan avrebbe continuato a giocare alla vecchia maniera anche
con quello vecchio. Assolutamente, rispose Michael. Aveva firmato e dato
la sua parola: l’avrebbe rispettata e avrebbe sempre dato tutto. Stabilito
questo, procedettero a definire i dettagli del nuovo contratto.
Sostanzialmente, lo scontro era tra Reinsdorf e Falk, anche se Jerry Krause
era presente a tutte le riunioni. Secondo Falk, non era una gran risorsa,
perché sembrava deciso a inquadrare Michael come un buon giocatore, al
limite molto buono, ma non uno dei due o tre migliori al mondo e pareva,
coscientemente o incoscientemente, intenzionato a sminuire il ruolo di
Michael nel rendere i Bulls un enorme successo finanziario. Dopo oltre un
anno e quasi quattordici lunghe e stancanti sessioni di trattativa, si
accordarono per un nuovo contratto della durata di otto anni, dal 1988 al
1996. L’ingaggio era, in media, di circa 3 milioni a stagione, per un totale di
circa 24. Al tempo, era considerato il più alto salario mai dato a un
giocatore di basket.
Quando Reinsdorf firmò il contratto di otto anni con Jordan disse agli
amici di essere preoccupato: aveva offerto troppo e per un periodo troppo
lungo? Cosa sarebbe successo se Michael, che aveva perso buona parte del
suo secondo anno a causa di una frattura al piede, avesse subito un
infortunio di quelli che mettono fine alle carriere? Cosa avrebbero pensato
gli altri proprietari? Si ricordava di aver detto a Jordan, in quei giorni, che
se lui fosse stato un giocatore avrebbe avuto seri dubbi sul firmare per così
tanti anni. Ma Jordan sembrava volere il contratto e diede a Reinsdorf la sua
parola: non sarebbe mai tornato per rinegoziare i termini. Avrebbe
mantenuto la promessa. Ma il contratto era effettivamente molto lungo,
soprattutto in un business che stava esplodendo così rapidamente, e quando
scadde (alla fine della stagione 1996) Michael Jordan era vergognosamente
sottopagato: il suo contratto era stato uno dei migliori affari dello sport
professionistico. In un certo senso, anche Reinsdorf lo riconobbe: poco
prima che la carriera di MJ nel baseball iniziasse, lui e Jordan andarono a
cena e Reinsdorf disse: «Perfino io devo ammettere che fu un affare troppo
buono per me». E si offrì di continuare a pagargli lo stipendio anche durante
l’anno in cui avrebbe giocato a baseball. (Quello stesso giorno, Jordan
chiamò David Falk e gli disse: «Ho appena fatto 4 milioni di dollari dal
nulla»). Reinsdorf, nella sua mentalità, doveva quei soldi a Jordan. Quando
a fine marzo 1995 l’avventura nel baseball terminò, Falk chiamò il
proprietario per dire che Jordan voleva tornare ai Bulls e chiese se lo
avrebbe pagato per l’intera stagione, anche se buona parte di essa era già
passata. Reinsdorf acconsentì: lo avrebbe fatto di sicuro.
Ma alla fine del 1996 Reinsdorf si trovò a rinegoziare con Jordan in un
periodo che non assomigliava per nulla a quello in cui avevano firmato i
due contratti precedenti. Un gran numero di elementi, accumulatisi per
molto tempo, influenzavano ora profondamente tutte le negoziazioni nel
mondo del lavoro: l’eliminazione delle restrizioni del periodo di free
agency dei veterani; l’introduzione del salary cap; la cosiddetta ‘Esenzione
Larry Bird’, che consentiva a una squadra di infrangere il salary cap per
trattenere il suo giocatore simbolo; e infine, all’inizio degli anni novanta, un
accordo con il sindacato dei giocatori, che aveva proibito agli atleti di
rinegoziare un contratto in vigore. Quando fu istituita l’‘Esenzione Bird’ gli
ingaggi di un piccolo gruppo di star schizzarono alle stelle: quello che fino
a poco prima sembrava un ottimo stipendio ora sembrava piuttosto misero.
Nell’estate del 1997 Kevin Garnett, un giovane di talento che non aveva
frequentato il college e che aveva esordito nella Lega a 19 anni, rifiutò un
contratto di sette anni per 103 milioni di dollari offertogli dei Minnesota
Timberwolves. Alla fine, firmò per 126 milioni per sette anni, tutti garantiti.
Ma lo stipendio di Garnett, circa 18 milioni a stagione, divenne da lì in
poi il benchmark per tutti. Quell’anno general manager che avevano in
programma dei rinnovi con le loro stelle coniarono una nuova espressione:
si chiedevano se i loro giocatori valevano ‘i soldi di Kevin Garnett’. Anche
se lo standard di riferimento era stato fissato da una delle squadre più deboli
dell’NBA, disposta a fare di tutto per mantenere legittimità e tifosi,
condizionò immediatamente l’intera struttura salariale di tutta la Lega. Altri
giocatori, di maggiore esperienza, che giocavano per squadre abituate a
vincere e rappresentati da agenti che non volevano perdere la faccia con
l’agente di Garnett, usarono quell’affare come leva.
La lunga ombra dell’affare Garnett, come quella di molti altri nuovi
mostruosi contratti dell’NBA arrivò a lambire anche i Bulls. Per buona
parte della serie di cinque campionati vinti, la dirigenza, a suon di trattative
spietate e di contratti a lungo termine, aveva concluso uno degli affari più
vantaggiosi dello sport contemporaneo. Nella stagione del 1996, quella del
quinto anello, Jordan prendeva 4 milioni scarsi all’anno, Pippen era gravato
da un contratto a lungo termine che gli fruttava circa 3 milioni, Rodman era
salito sul carro nella stagione 1995-96 per circa 2 milioni e mezzo. Toni
Kukoc ˇ guadagnava circa 4 milioni e Phil Jackson era alla fine di un
contratto triennale che gli fruttava $800.000 a stagione (il che lo rendeva un
affare particolarmente vantaggioso). In un certo senso, era l’ultimo libro
paga superstite del vecchio ordine del basket.
Ma molti di quei contratti sarebbero scaduti nell’estate del 1996, e ciò
significava che il prezzo della squadra per la stagione successiva sarebbe
stato decisamente più alto, in particolare per Jordan che era un free-agent le
cui immense risorse finanziarie provenivano, fino a quel momento, più da
aziende come Nike, McDonald’s e Gatorade che non dai Bulls. Le trattative
si annunciavano un po’ complesse. Nel tempo Reinsdorf incontrò Jordan,
Falk e Curtis Polk (un assistente di Falk) a cena, al Ritz Carlton di Chicago.
Era noto che Jordan si divertiva molto a insistere per far sì che il suo agente
ordinasse vino molto costoso, spesso intorno ai $500 a bottiglia (chi
conosceva entrambi definiva questa pratica come Jordan che provava a
essere più Falk di Falk stesso) e quella notte non fece eccezione. Durante la
cena non furono fatte offerte e si navigò a vista, tutti ben consci che la posta
in gioco era alta e preoccupati di tracciare linee che sarebbero state difficili
da superare più avanti o che avrebbero potuto infastidire Jordan e mandarlo
in un’altra città, a guadagnare molti più soldi. Fu una serata tutto sommato
piacevole, un momento in cui ognuno cercò di mostrare agli altri le proprie
buone intenzioni, in vista dei giorni probabilmente molto duri che sarebbero
venuti. I quattro ricordarono da quanti anni ormai Michael giocava a
Chicago, quanto era stato buono il rapporto tra loro in passato e dei pochi
problemi che avevano avuto. Fu il tipo di serata insieme al proprietario a
cui gli altri giocatori dei Bulls non erano decisamente abituati.
Mentre ci si preparava per le trattative, ognuna delle parti aveva i suoi
deterrenti, anche se quelli di Jordan erano decisamente migliori di quelli di
Reinsdorf. Jordan sapeva fin troppo bene di essere il più grande affare in
tutto il mondo dello sport e di aver reso Reinsdorf e i suoi partner
decisamente ricchi, e che grazie alle sue prestazioni il valore dei Bulls era
passato da circa 15 milioni di dollari a più di 250. Era un momento in cui
Jordan aveva la massima leva. Avrebbe potuto tranquillamente lasciare
Chicago e andare a New York: una città che era il centro del mondo dei
media, in cui avrebbe adorato giocare e che non sarebbe dispiaciuta ai suoi
sponsor. Se fosse andato via, avrebbe molto probabilmente portato il titolo
con sé: c’erano sicuramente altri svincolati di talento che avrebbero
desiderato più di ogni altra cosa giocare a New York con lui e i suoi amici
Patrick Ewing e Charles Oakley. Che Jordan andasse in quella città così
odiosa e snob portando l’anello con sé non era una minaccia da poco, e non
avrebbe certo migliorato la già scarsa popolarità di Reinsdorf e Krause a
Chicago. Per quel che contava, non avrebbe nemmeno aiutato le future
vendite dei biglietti dei Bulls o dei White Sox. Ma in realtà questa
possibilità preoccupava anche Jordan: i Bulls erano la sua squadra, e capiva
il valore storico di giocare per una sola società e di indossare una sola
maglia. I giocatori che ammirava di più, come Larry Bird e Magic Johnson,
avevano militato in una sola squadra e lui sapeva che più titoli avessero
vinto i Chicago Bulls guidati da Michael Jordan, più lui si sarebbe staccato
dalla massa, guadagnandosi il giusto spazio nel libro dei record. Johnson ne
aveva vinti cinque con i Lakers, Bird tre con i Celtics, e quei numeri
facevano un certo effetto su uno come Jordan che, in generale, prendeva
molto sul serio la lealtà alla maglia.
Qualche settimana dopo si incontrarono di nuovo. A un certo punto
Jordan suggerì che Reinsdorf mettesse un’offerta sul tavolo: se fosse stata
nel giusto range avrebbe detto di sì, altrimenti avrebbe detto di no. Falk
aggiunse che se la proposta fosse stata accettabile avrebbero potuto trattare,
ma se fosse stata inadeguata sarebbero immediatamente andati a parlare con
un’altra squadra. E se quella squadra avesse fatto una grossa offerta non
sarebbero tornati a Chicago per una controproposta. Questo tipo di
provocazione era diventata la procedura operativa standard per gli agenti
nella nuova era: la proprietà aveva una sola occasione e, se la perdeva,
poteva perdere anche il giocatore. Era un po’ come avere una pistola alla
testa e Reinsdorf lo sapeva bene. Ma era anche abbastanza fiducioso del
fatto che, a causa dell’‘Esenzione Larry Bird’, sarebbe stato difficile per
chiunque altro offrire di più a Jordan. Ma era comunque un importante
incentivo a non sprecare troppo tempo in chiacchiere e a non giocare al
ribasso.
Reinsdorf iniziò suggerendo un accordo di due anni per 45 milioni totali:
20 il primo anno e 25 il secondo. Falk e Jordan rilanciarono chiedendo 55
milioni per due anni. Reinsdorf disse che questa proposta lo spaventava: e
se Jordan si fosse fatto male? Le dimensioni di quel contratto lo mettevano
a disagio. Era l’equivalente del monte stipendi dell’intera squadra in quella
che era, almeno in teoria, la stessa era. Alla fine, si accordarono per un solo
anno a 30 milioni. La decisione di fare un contratto solo annuale rifletteva i
dubbi di Reinsdorf: per quanto tempo avrebbe voluto pagare così tanti soldi,
titolo o non titolo? (Col senno di poi, i 55 milioni suggeriti da Falk erano
perfino pochi: per i due anni che Jordan fece ancora ai Bulls, Reinsdorf finì
per pagarne 63).
Quando nel 1997 Chicago sconfisse Utah e vinse il quinto anello, fu
Jordan stesso, durante i festeggiamenti per la vittoria, a chiedere in diretta
nazionale alla dirigenza di riformare nuovamente la squadra e dar loro la
possibilità di difendere il titolo sul campo. La richiesta di Jordan rifletteva
la convinzione, sempre più diffusa tra i giocatori, che la proprietà volesse
smantellare tutto. Si diceva che Reinsdorf fosse piuttosto seccato, e che
credesse che Jordan stesse cercando di forzargli la mano rendendo la cosa
pubblica. Ovviamente, era proprio così. A Reinsdorf non era piaciuto il
fatto che il più popolare atleta del mondo avesse usato i festeggiamenti per
una vittoria, seguiti da milioni e milioni di persone in tutto il mondo, per
iniziare un nuovo round di trattative. Era un colpo basso. Jordan stava
sfruttando una forza molto potente (l’opinione pubblica) per prolungare
l’età d’oro del basket in una città affamata di vittorie.
C’era una ragione precisa per cui Jordan aveva scelto quel momento per
colpire: lo staff tecnico e i giocatori sapevano che la proprietà non era
necessariamente intenzionata ad andare avanti. Durante le Finals del 1997,
Reinsdorf aveva portato Phil Jackson a pranzo a Park City, Utah, dove la
squadra alloggiava, e gli aveva lasciato intendere che, se le trattative si
fossero complicate troppo, i Bulls sarebbero stati felici di pagargli
un’enorme somma di denaro (uno o due milioni di dollari) per non tornare,
anche perché avrebbe perso un’occasione per avere altri ingaggi da capo
allenatore, ma solo se se ne fosse andato in punta di piedi. Era il primo
segno che la proprietà stava mettendo fieno in cascina per un’estate lunga e
difficile. Nelle settimane e nei mesi dopo la vittoria contro Utah fu
seriamente in dubbio che la squadra sarebbe tornata insieme e che Phil
Jackson sarebbe tornato ad allenarla. Le trattative di Jackson con i Bulls
occupavano interamente i media locali ed erano diventate più importanti dei
problemi delle scuole della città o del budget municipale. Jackson non era
solo un allenatore, ma un pezzo fondamentale di un domino perché Jordan,
sapendo che Krause voleva ingaggiare un altro coach, lo aveva di fatto
sfidato: l’unico allenatore per cui avrebbe giocato era Phil Jackson.
Subito prima della fine della stagione 1997, Jordan aveva scherzato con
dei giornalisti dichiarando che, se fosse dipeso da lui, avrebbe pagato se
stesso 50 milioni all’anno (con un aumento di circa 20 milioni), Jackson
altri 50 milioni, Pippen 75 milioni (con un aumento di 72). Poi si era reso
conto di essersi dimenticato Rodman: «Dennis prenderebbe solo 25 milioni.
Probabilmente vale di più, ma il mio budget è piuttosto risicato».
Chiaramente, vincere il quinto anello non smorzò le tensioni a Chicago. I
rapporti tra Jackson e Krause erano decisamente peggiorati nel corso
dell’anno precedente (per non parlare di quelli tra Jackson e Reinsdorf, che
erano sempre stati problematici), quelli tra Jackson e la proprietà erano
altalenanti e quelli di Pippen con Krause, e quindi con la dirigenza, erano ai
minimi storici.
Se Jordan avesse rinnovato il contratto, come chiedeva a gran voce
l’opinione pubblica di Chicago e dell’intera Lega, avrebbe preteso che la
squadra rimanesse la stessa, e questo significava che prima avrebbero
dovuto essere sistemati gli altri pezzi del domino. Uno era Scottie Pippen, il
giocatore che aveva permesso a Michael Jordan di diventare Michael
Jordan a questo punto della sua carriera, un giocatore il cui stile si legava
perfettamente a quello di Michael.
A differenza di Jackson, Jordan e Rodman, però, Pippen era ancora sotto
contratto con i Bulls. Alla fine della stagione 1996-97 era forse il miglior
affare dell’NBA, ma anche il giocatore più scontento della sua situazione
contrattuale. Chicago avrebbe potuto scambiarlo e ottenere altri ottimi
elementi, ma se l’avesse fatto sia Jordan che Jackson se ne sarebbero andati,
la squadra sarebbe stata fatta a pezzi e la colpa sarebbe stata data in gran
parte a Reinsdorf e Krause. D’altro canto, se avessero aspettato un anno sia
Jackson che Jordan se ne sarebbero andati in ogni caso e Pippen, che non
faceva mistero del proprio poco amore per la dirigenza, avrebbe quasi
sicuramente deciso di diventare un free-agent e loro non avrebbero ottenuto
nulla. Quindi la decisione su Pippen era difficile: si trattava di scegliere tra
pensare nel breve termine, avere una possibilità di vincere un anello e di
conseguenza far felici i tifosi (decisamente l’opzione più popolare) oppure,
con scelta draconiana, venderlo, allontanando sia Jackson che Jordan e
spaccando la squadra prima ancora che il campionato finisse.
Il disprezzo di Pippen per Krause e la dirigenza era palpabile. Era
probabilmente il secondo miglior giocatore dell’NBA ma, con soli 3 milioni
a stagione, era solo il 122° per stipendio. Questa era in parte colpa sua e
Pippen se ne rendeva conto: aveva optato per la sicurezza e firmato un
contratto a lungo termine in un’era in cui i giocatori potevano ancora, se il
loro valore era in crescita, rinegoziare i contratti. Ma le regole erano
cambiate nel bel mezzo del suo contratto, negandogli il diritto a rinegoziare,
e Pippen si era trovato bloccato. Ma anche in situazioni del genere i
proprietari potevano, muovendosi con un certo tatto, trovare un modo di far
capire ai giocatori che ammiravano e che avevano fatto così tanto bene per
loro che col tempo avrebbero ricevuto una paga adeguata. I Bulls, però, non
avevano fatto niente del genere. Anzi, l’esatto contrario. Krause e Reinsdorf
sembravano particolarmente riluttanti ad ammettere in pubblico il ruolo di
Pippen nella striscia di vittorie. Era vero, i Bulls non avevano mai vinto un
campionato senza Michael Jordan, ma non ne avevano nemmeno mai vinto
uno senza Scottie Pippen.
Comunque, avevano messo in chiaro che il loro interesse per lui aveva
dei grossi limiti e che credevano che il suo fisico fosse logorato. L’unica
cosa che facevano capire, pensava l’agente di Pippen, era che nel tempo
avrebbe ricevuto una giusta paga in un’altra squadra. Un anno prima erano
andati vicinissimi a uno scambio con Shawn Kemp di Seattle e nel giugno
1997 era chiaro che Chicago era ancora interessata a liberarsene. Si diceva
che Krause volesse iniziare a costruire una nuova squadra post Jordan e che
Reinsdorf, che avrebbe dovuto assumersene la responsabilità, fosse invece
più prudente. Ma nel giorno del draft, nella primavera del 1997, Pippen
andò di nuovo molto vicino a essere scambiato. Questa volta il progetto era
di spedirlo a Boston. Ma non era facile: pareva che Luc Longley, enorme
pivot, fosse anch’egli parte dell’affare e a un certo punto si inserì pure
Denver, che avrebbe rinunciato alla sua prima scelta nel draft,
probabilmente un giocatore di nome Keith Van Horn, su cui un buon
numero di general manager, incluso Krause, aveva messo gli occhi. L’affare
sfumò quando New Jersey irruppe nella trattativa e acquistò Van Horn.
Tempo dopo Reinsdorf avrebbe dichiarato che la decisione di non
vendere Pippen e di cercare di vincere il sesto campionato era stata sua, ma
che non l’aveva presa a cuor leggero: aveva visto troppe squadre diventare
vecchie all’improvviso per essere influenzato da sentimenti ipocriti. Per
come la ricordava, Reinsdorf aveva chiesto a Krause quanto sarebbero stati
forti i giovani che avrebbero comprato e se sarebbero stati importanti pezzi
di possibili vittorie future, e Krause non si era mostrato abbastanza
fiducioso. A quel punto Reinsdorf aveva deciso di cercare di vincere il sesto
campionato. Non condivideva i sentimenti di Pippen: gli scambi erano parte
del business e i giocatori, per quanto grandi, venivano comprati e venduti
continuamente. Tranne Jordan, perché Jordan era il Babe Ruth del basket.
Scottie Pippen, no. Era un mondo duro, freddo. Un mondo di affari. Aveva
sempre detto a Kyle Jr., uno degli agenti di Pippen, cosa stava facendo e lo
aveva fatto in modo estremamente brusco. Quello che probabilmente
successe fu una combinazione di eventi: da un lato l’offerta ideale per
Pippen sfumò, dall’altro c’era la consapevolezza che sia Jordan che Jackson
volevano che Pippen rimanesse, e così, ovviamente, anche i tifosi. I
consulenti per le pubbliche relazioni avvertirono che se la squadra fosse
stata smantellata in quel momento, la reazione del pubblico avrebbe
azzoppato entrambe le franchigie della città per anni. Questo non voleva
dire, naturalmente, che i Bulls non avrebbero potuto vendere Pippen, ma
significava che non avrebbero dovuto scambiarlo con una scelta del draft.
Ebbe così inizio il lungo e arduo processo per ricostruire il resto della
squadra.
Le dichiarazioni di Jordan diedero a Jackson molta leva. Normalmente gli
allenatori, anche i più vincenti, erano sacrificabili: i primi ad andarsene
quando le cose andavano male e i più facili da ingaggiare sperando di
migliorare la situazione. Ma la lealtà di Jordan per il suo allenatore aveva
cambiato l’intera equazione. Un membro dello staff dei Bulls disse, con un
pizzico di invidia: «Phil è molto fortunato. È rappresentato da ben due
agenti: uno, Todd Musburger, è molto bravo, ma l’altro è il più grande
agente della storia dello sport: Michael Jordan. È difficile battere una
squadra del genere».
Negli ultimi anni le trattative per conto di Jackson tra Todd Musburger e
la dirigenza dei Bulls erano state sempre più tese. Una delle ragioni era lo
straordinario cambiamento dei prezzi degli allenatori: un valore di mercato
completamente stravolto, che era difficile da accettare anche per il
proprietario di una squadra vincente, perché veniva imposto innanzitutto
alle squadre, che erano notoriamente campi minati. Ma c’era un vento di
tempesta che soffiava nelle vele di tutte le squadre NBA. A causa degli
stipendi gonfiati e del fatto che molti giocatori che prendevano enormi
stipendi sembravano essere immuni a qualunque tipo di motivazione, era
salito anche il prezzo di coach dal buon curriculum che li potessero
motivare (Chuck Daly che aveva fatto magie a Detroit, o Pat Riley, che
aveva fatto così bene sia a Los Angeles che a New York, o ancora i giovani
e promettenti allenatori di college). Gli allenatori non prendevano ancora i
soldi di Kevin Garnett, ma ora prendevano quello che fino a poco prima era
stato lo stipendio di Michael Jordan.
Tutto ciò era una novità e l’idea di pagare lo stesso stipendio a una stella
e a un allenatore non sfiorava nemmeno la proprietà dei Bulls. Nel 1992,
quando Jackson, che stava per vincere il suo secondo titolo, firmò un
triennale da $800.000 all’anno, Musburger pensò che fosse molto inferiore
al reale valore di mercato di Jackson, forse la metà di quello che stavano
guadagnando altri allenatori con abilità simili: era sicuro che Jackson
meritasse di più. Ma Jackson non era il cliente ideale in battaglie del
genere: non era abbastanza materialista e non sembrava particolarmente
interessato al denaro. Voleva una giusta ricompensa per il suo lavoro, ma le
crescenti ostilità che le trattative stavano creando lo mettevano a disagio. A
quel punto Jackson pensava che la dirigenza fosse stata molto buona con lui
e $800.000 all’anno sembravano un bel po’ di soldi. A un certo punto della
trattativa, sempre più spiacevole, Krause disse a Musburger: «Nessun
allenatore dei Bulls guadagnerà mai un milione di dollari all’anno,
scrivitelo pure».
Ma si sbagliava. Incoraggiati dal quarto titolo e dalle crescenti pressioni
perché le vittorie continuassero, i Bulls pagarono 2,7 milioni per Jackson
nella stagione 1996-97. Musburger aveva suggerito un contratto a lungo
termine, ma alla controparte non interessava. Era un chiaro segno: la
proprietà credeva che il coach e la sua squadra avrebbero avuto vita breve e
stava già programmando un nuovo corso, con un allenatore più incline ad
ascoltare i desideri della dirigenza. Un anno dopo, quando la discussione
per lo stipendio di Jackson nella stagione 1997-98 divenne infinitamente
più aspra, Musburger osservò che trattare con Krause e Reinsdorf era
diventato come trattare con i nordcoreani. Si incontravano in luoghi
nascosti, edifici di proprietà di Reinsdorf, e volevano che gli incontri
rimanessero segreti, anche se ogni appassionato di sport di Chicago sapeva
che rinnovare il contratto dell’allenatore era una priorità e che la possibilità
di tenere Jordan e gli altri giocatori chiave dipendeva solo da quello.
Arrivati a questo punto il cattivo sangue che correva tra Krause e Jackson
stava influenzando i massimi livelli della franchigia. Da quando Jordan era
tornato dal baseball, Krause non aveva fatto mistero di voler smantellare la
squadra. Aveva fatto dichiarazioni che rendevano tutto estremamente ovvio
e tutte sembravano dire o lasciare intendere la stessa cosa: la sua squadra
dei sogni era una squadra che potesse vincere il campionato anche senza
Michael Jordan, una vittoria i cui meriti sarebbero andati alla dirigenza.
Cioè a Jerry Krause. Al tempo sembrava ci fossero delle forti affinità
professionali con il coach di Iowa State Tim Floyd e Jackson aveva sentito
dire da alcuni amici che Krause aveva mandato a Floyd alcune
videocassette delle partite dei Bulls. Diverse persone vicine alla squadra
pensavano che Krause avesse dei problemi personali con Jackson, l’uomo
che aveva portato via dal freddo per farlo sedere in panchina, che sulla carta
era a un livello gerarchico inferiore a lui, ma che era diventato infinitamente
più conosciuto e popolare a Chicago. Durante le celebrazioni per le vittorie,
i tifosi impazzivano quando Jackson veniva annunciato, e insultavano
Krause con la stessa intensità.
Quello che sorprese Musburger nelle lunghe difficili trattative con Krause
fu la visione negativa che il general manager aveva del ruolo di Jackson in
questo particolare ecosistema: era molto diverso da come le persone che si
interessavano al basket vedevano Jackson. Gli altri notavano quanto avesse
fatto bene in anni difficili, passando ore e ore a preparare le partite,
specialmente durante i playoff, allenando con grande abilità e tenendo
insieme individualità difficili da gestire, spesso in conflitto tra loro e che
potevano tanto rendere grande una squadra quanto distruggerla. Ma quando
Krause parlava di Jackson, secondo Musburger, parlava solo di quello che
Reinsdorf e Krause stesso avevano fatto per lui, portandolo via dalla strada
e dalla disoccupazione e dandogli questo meraviglioso lavoro, e del perché,
di conseguenza, dovesse essere loro grato e capire qual era il suo posto. La
cosa interessante era che quando Krause diceva cose del genere usciva la
sua totale inconsapevolezza, la sua incapacità di vedere un problema
complicato da qualunque altro punto di vista che non fosse il suo.
Chi aveva trattato sia con Reinsdorf che con Krause pensava che i due
avessero un’attitudine molto differente. Con Reinsdorf non era mai una
questione di ego, ma solo di soldi, mentre con Krause le cose erano
piuttosto diverse. Il risentimento di Krause per Jackson sembrava dipendere
dal fatto che il coach si era preso il merito delle vittorie. Era un’ingiustizia:
gli allenatori erano sempre in primo piano, davanti alle telecamere; i
general manager mai. Jackson, grazie alla sua personalità, era in ottimi
rapporti con una vasta gamma di persone sia nei media che fuori. Krause, a
causa della sua personalità, tendeva a offendere una gamma altrettanto vasta
di persone, specialmente nei media: persone che lui disprezzava e la cui
missione nella vita, cioè scoprire e raccontare tutto quello che potevano sul
lavoro dietro le quinte dei Chicago Bulls, gli sembrava paragonabile al
lavoro di spie nemiche. La parola che usava in privato per descrivere
rispettabili rappresentanti dei media era ‘puttane’.
Il mantra di Krause, che irritava molti giocatori e specialmente Michael
Jordan, era ripetere quanto fosse stata importante la dirigenza nel vincere
quei campionati. I materiali promozionali dei Bulls 1997-98, approvati da
Krause, lo definivano l’architetto dei cinque anelli, il responsabile
dell’acquisto di ogni giocatore dei Bulls, tranne Jordan. Un’estate il
giornalista Billy Packer chiamò Krause per avere il numero di telefono di
casa di Jackson, spiegando che stava scrivendo un libro sui migliori
allenatori che avevano portato le loro squadre ad alti livelli. Packer stava
cercando qualche punto in comune nel modo in cui gli allenatori gestivano
il loro lavoro e nella loro filosofia. «Perché vuoi parlare con lui?» chiese
Krause. «Sono io quello che ha messo insieme la squadra, lui l’ha
semplicemente disposta in campo». Dopo aver messo giù, Packer pensò che
fosse una conversazione molto rilevante, ma anche molto triste. «Sapevo
che ogni tanto diceva cose del genere, sul fatto che fosse la dirigenza a
vincere i campionati, e non i giocatori. Ma non avevo mai realizzato che ci
credesse veramente».
Le trattative con Jackson per la stagione 1997-98 diventarono sempre più
pesanti. Si era perso di vista da tempo l’obiettivo comune. Ed era chiaro che
Reinsdorf odiava trattare con un allenatore attraverso il suo agente. Dopo la
fine della stagione il proprietario giurò che non avrebbe mai più ingaggiato
un allenatore che avesse un agente, perché gli allenatori erano parte della
dirigenza e non avrebbero dovuto avere agenti. Dall’altra parte, Musburger
pensava che Reinsdorf non fosse abituato a essere sfidato negli affari.
Agenti più potenti non volevano litigare con lui per paura che ci sarebbe
andato giù pesante con i loro futuri giocatori, ma Musburger rappresentava
innanzitutto le televisioni e non aveva nessuna paura di fare di Reinsdorf, se
necessario, un suo eterno nemico.
Le radici del conflitto erano piuttosto profonde. Un anno prima, durante
una trattativa altrettanto difficile, Reinsdorf e Musburger avevano avuto un
terribile scontro. Erano giunti a un’impasse spinosa e Reinsdorf, che veniva
dal mondo del diritto fiscale, suggerì di lasciare dei soldi da parte in un
certo modo, che avrebbe consentito a Jackson di investirli senza pagare le
tasse. In quel modo i soldi avrebbero potuto accumulare interessi per diversi
anni, pur rimanendo non tassati. Era qualcosa, disse, che aveva già proposto
durante altre trattative, anche in alcune riguardanti giocatori di baseball. A
quel punto Musburger disse qualcosa sul fatto che Reinsdorf volesse essere
anche l’agente di borsa di Jackson e il proprietario esplose. «Bastardo,
pezzo di idiota! Manderai tutto a puttane come hai mandato a puttane il
contratto di tuo fratello alla CBS. Ho parlato di te con Neal Pilson [capo
della redazione sportiva della CBS] e lui ha detto che non ha problemi con
Brent, ma non può sopportare di trattare con te». Reinsdorf si stava
riferendo a un evento particolarmente doloroso per Musburger. Aveva
insistito molto per un significativo ritocco di contratto per suo fratello alla
CBS, ma un certo punto il network si era ritirato e aveva licenziato Brent,
che era finito a lavorare per la ABC. Anni dopo Reinsdorf avrebbe
ammesso: «Fu un errore. Avevo ragione, ma non c’era motivo di dirlo
davanti al suo cliente». Era stato un momento terribile: Musburger si
convinse di aver finalmente visto il vero Reinsdorf e credeva che non
sarebbe più stato in grado di trattare con lui dopo quel litigio.
A un certo punto dell’estate del 1997, l’intero affare sembrava in stallo.
Reinsdorf aveva offerto 4 milioni, Musburger ne aveva chiesti 7,5: più o
meno quello che Rick Pitino prendeva a Boston. Larry Bird, senza alcuna
esperienza da allenatore, aveva appena firmato per 5 milioni a Indiana e
Orlando dava la stessa cifra a Chuck Daly. A Miami, Pat Riley, la nemesi di
Jackson, aveva ricevuto la migliore offerta di tutte: 3 milioni più una quota
della società. Musburger pensava che Jackson non fosse pronto ad
affrontare trattative così conflittuali: più dure erano le battaglie verbali,
meno Jackson sembrava interessato a combatterle. Ma almeno, pensava
l’agente, chiedeva un giusto compenso. Per Phil, era una questione di
dignità.
Alla fine, Reinsdorf disse che non avrebbe più incontrato Musburger e
volò fino in Montana su un aereo privato per un appuntamento con Jackson.
Giusto per parlarne. Quando arrivò, diede in mano a Jackson un foglio con
scritta l’offerta: 5 milioni per un anno, un rialzo di un milione tondo rispetto
alla sua prima offerta. Sapendo che il proprietario dei Bulls era in viaggio
verso il Montana, Musburger prese subito un volo per essere vicino al suo
cliente, anche senza essere presente durante la trattativa. «È tutto quello che
ho» disse Reinsdorf. A quel punto Musburger, spinto da Jackson a chiudere
l’affare, scese a 6 milioni. Ma qui si bloccarono di nuovo e Reinsdorf se ne
andò in Arizona. (Forse la differenza tra i due personaggi poteva essere
misurata dal fatto che quando Jackson suggerì al proprietario di rimanere un
po’ di più per gustarsi la bellezza del paesaggio Reinsdorf disse che non ne
aveva bisogno. L’aveva già visto dall’aereo).
Quando ne riparlarono, Musburger disse che la cifra giusta erano 6
milioni, e Reinsdorf replicò: «Proprio non capisci. Quando dico che la cifra
è quella, la cifra è quella».
«Beh, forse quella che abbiamo qui è una forza irresistibile che si scontra
con un oggetto che non si può muovere, e non è possibile trovare un
accordo» disse Musburger. Ma circa nove ore dopo Reinsdorf lo chiamò per
dire che poteva accettare i 6 milioni. I pezzi del puzzle stavano andando a
posto: Pippen non era stato venduto e il contratto di Jackson era stato
rinnovato, ma con una clausola che lo avrebbe lasciato libero, se Jordan non
avesse rinnovato a sua volta.
La conferenza stampa con cui fu annunciato il rinnovo di Phil Jackson
non fu esattamente quell’allegro spettacolo che si vedeva quando una
squadra confermava un tecnico vincente e immensamente popolare. Jerry
Krause annunciò la firma del contratto in quello che fu considerato dei
giornalisti locali il modo più meschino possibile, sottolineando cioè che era
solo per un altro anno, che i Bulls vincessero di nuovo l’anello o meno.
Questo scatenò un’altra lite tra l’allenatore e il suo capo, e Jackson dichiarò
che Krause non giocava per la sua stessa squadra ma per gli avversari. A
quel punto Krause esplose: «Puoi anche vincere ottantadue partite, ma a
fine anno ti togli dai coglioni».
Ora che Jackson aveva rinnovato, Reinsdorf aveva la strada libera per
arrivare anche a Jordan. Iniziarono a parlare del contratto successivo.
Reinsdorf partì offrendo 25 milioni, dicendo che il contratto da 30 era stato
un risarcimento, un modo di mettersi a pari per tutti gli anni in cui Jordan
era stato sottopagato. Presto dovette salire a 30 milioni, ma Jordan pensava
di meritare un aumento: dopotutto avevano vinto il campionato e lui era
stato MVP delle Finals. Per l’ennesima volta. L’aumento, disse, lo avrebbe
ripagato per aver svolto il suo lavoro così bene. Jordan e Falk suggerirono
un incremento del 20%, per arrivare a 36 milioni, ma Reinsdorf resistette.
Alla fine, Jordan suggerì di dividere in due la differenza e di accontentarsi
di un 10% di aumento, che avrebbe portato il suo stipendio a 33 milioni. Un
ingaggio senza precedenti. Reinsdorf fu immediatamente d’accordo, ma si
stupì molto quando Falk rilanciò, proponendo un biennale da 36 milioni e
40 milioni. «David, il tuo cliente non ha appena accettato un anno a 33?»
disse Reinsdorf. «Non è così Michael?» Jordan disse di sì. Così l’affare fu
chiuso, ma era chiaro che la tensione che sembrava circondare l’intera
organizzazione stava arrivando anche al suo miglior giocatore.
Era il prezzo da pagare per essere la miglior squadra di basket al mondo.
La miglior squadra, a livello individuale, dell’intero mondo dello sport,
stava raggiugendo il suo effettivo valore di mercato. Jordan aveva accettato
i suoi 33 milioni, Jackson i suoi 6, Rodman, con svariati incentivi, quasi 10:
49 milioni di dollari in tutto. Ron Harper prendeva 5 milioni e Kukocˇ 4.
Pippen solo 3: il tanto atteso giorno in cui avrebbe preso quanto gli spettava
sarebbe forse giunto altrove. Anche senza la panchina, il monte stipendi
dell’allenatore e del probabile quintetto titolare era superiore a 60 milioni.
Ora che tutti gli altri avevano firmato contratti piuttosto redditizi, la
rabbia di Pippen aumentò: il fatto di essere ancora sul punto di essere
ceduto, anche quando i suoi compagni e il suo allenatore ottenevano
aumenti da capogiro, lo fece infuriare. Secondo il suo agente Jimmy
Sexton, non era una questione di soldi, ma di rispetto. La stagione stava per
iniziare e, dal lato di Pippen, cominciava a crescere l’amarezza. Si era
giunti a questa impasse dopo vicende travagliate e infelici per entrambe le
parti in causa; arrivati all’estate del 1997 la cosa si era ingigantita a tal
punto, a suon di rivendicazioni e smentite, che cercare di capire la verità
sarebbe stato come cercare di togliere gli strati di buccia a una cipolla
gigante, al buio. Fu anche peggio del previsto, perché Sexton rappresentava
anche Horace Grant, ex ala grande dei Bulls che aveva deciso di non
rinnovare e di firmare con Orlando dopo la stagione 1994. Il suo addio
aveva lasciato degli strascichi: Reinsdorf credeva di aver raggiunto un
accordo col giocatore, siglato con una stretta di mano, e che Sexton avesse
poi costretto Grant a rifiutare. La cosa peggiore, pensava Reinsdorf, era che
i Bulls non avevano ottenuto nulla in cambio. Con Pippen non poteva
succedere di nuovo.
Pippen, da parte sua, pensava che per fare affari a Chicago si usassero
due modi diversi: uno per Jordan e uno per tutti gli altri. Sapeva bene
quanto la dirigenza fosse stata accomodante con Michael, come Reinsdorf
l’avesse trattato come un suo pari. E per quanto fosse ben conscio delle doti
di Jordan, di tutto quello che Michael poteva fare e lui no, sentiva di
meritare anche lui uno status speciale e di non essere solo un pezzo di carne
particolarmente costoso. Non era solo un membro del Dream Team, era una
star del Dream Team, e uno dei cinquanta giocatori più forti della storia
dell’NBA. Ai Bulls, quello status gli era sempre stato negato.
Durante le Finals del 1997, Pippen aveva avuto forti dolori a un piede, ma
aveva giocato comunque. Quando la stagione era finita non si era
preoccupato di farsi operare, e nel frattempo era passata l’estate. È normale
che i giocatori rimandino l’appuntamento col chirurgo, per quanto semplice
possa essere l’operazione, ma in questo caso Pippen non si fidava: né dei
Bulls né dei loro medici. Man mano che la stagione si avvicinava Pippen,
sentendosi impotente e non rispettato, fece l’unica scelta che sembrava
pareggiare i conti: non si curò il piede. Era il suo modo di mettere un dito in
un occhio a Krause e Reinsdorf, oltre che un segno di quanto fosse
profonda la sua rabbia: era disposto a mettere a rischio sia la sua salute che
le possibilità di vittoria dei compagni.
Il rancore e una sfiducia estremamente radicata, ai limiti del patologico,
generarono solo altro rancore e altra sfiducia. Quell’estate Pippen giocò un
paio di partite di beneficenza organizzate da altri giocatori NBA, anche se il
suo piede non era stato né curato né tantomeno operato dai medici dei
Bulls. La conseguenza fu una serie di furiosi fax di diffida da parte di
Krause, che fecero arrabbiare Pippen ancor di più, perché gli pareva che i
Bulls gli stessero dicendo che lui era di loro proprietà, che erano a tutti gli
effetti i suoi padroni. Se ne lamentò aspramente con Sexton, sostenendo che
quei fax erano razzisti. Più probabilmente, erano solo le goffe
comunicazioni di un dirigente che non aveva alcun tipo di fiducia verso un
giocatore molto forte ma anche piuttosto sensibile.
Krause era straordinariamente impacciato in quasi tutte le relazioni
umane, e la sua vulnerabilità emotiva, molto evidente, gli rendeva difficile
mantenere un posto di potere con anche solo un briciolo della grazia
necessaria in un contesto così carico di tensioni. Krause era furbo, aveva
occhio, era un lavoratore incredibile e contro ogni concepibile pronostico
era riuscito a diventare un dirigente NBA di prima fascia. Ma non sembrava
mai essere a suo agio nei rapporti personali, una dote invece fondamentale
per ogni manager, specialmente per uno il cui lavoro consisteva nel trattare
con esseri umani molto più imprevedibili della media. Nelle trattative
sembrava sempre che a essere in questione non fosse tanto il valore della
persona con cui stava trattando, quanto piuttosto la sua stessa autostima. Gli
scontri verbali erano una parte tipica della ricerca del compromesso nelle
ricche trattative sportive e su uomini più tranquilli e sicuri di sé scivolavano
via, ma su Krause avevano un effetto più duraturo. Era, in fondo, un uomo
perbene, intelligente, ma con un’immensa vulnerabilità. Il suo lavoro
avrebbe richiesto abilità nel risolvere i conflitti ma lui, spesso, sembrava più
che altro crearne di nuovi. Tutte le faccende che avrebbero richiesto una
certa freddezza e un certo distacco con Krause diventavano intense e
personali. Il suo problema, gli aveva detto una volta Reinsdorf, era che si
affezionava alle persone e restava deluso quando scopriva che l’unico
legame che aveva con loro era un rapporto d’affari, non di affetto. Il fatto
che tutto ciò che Krause faceva fosse potenzialmente esplosivo non
sembrava essere un problema per Reinsdorf. Anzi, tutto il contrario: al
proprietario non dispiaceva che Krause si facesse, dal punto di vista umano,
terra bruciata intorno. Significava che, quando scendeva in campo lui,
agenti, giocatori e giornalisti erano già praticamente esausti.
A causa dell’infortunio al piede, Pippen, ancora molto arrabbiato, non era
pronto quando la stagione iniziò e, secondo i medici della squadra, avrebbe
potuto perderne almeno metà. Anche Dennis Rodman, di professione ala
grande e provocatore, stava ancora recuperando la forma migliore: era
diventato una sorta di icona culturale (o una specie di truffatore) nella
società americana contemporanea, perché si colorava i capelli in modo
diverso per diverse occasioni, perché il suo corpo era coperto di tatuaggi e
aveva svariati piercing in varie parti del corpo. Non era sempre facile
intuire contro cosa Rodman si stesse ribellando: forse contro i capelli non
colorati, i corpi senza piercing o la pelle senza tatuaggi. Si lamentava
spesso e in maniera molto evidente delle ingiustizie nella NBA, ma
quell’anno avrebbe potuto, se avesse rispettato tutte le provvigioni di un
contratto pieno di incentivi, guadagnare qualcosa come 10 milioni, al netto
degli sponsor. Rodman era stato ingaggiato dai Bulls due anni prima per la
seconda serie di titoli ed era stato un tassello fondamentale.
Phil Jackson pensava che sarebbe stata una stagione molto più difficile
delle altre. Aveva già visto Pippen di pessimo umore, ma la sua rabbia
questa volta era superiore a qualunque cosa lui avesse mai visto e
minacciava di trasformarsi in una sorta di furia cieca che avrebbe potuto
spingerlo a fare cose contro i suoi stessi interessi. Il grado di separazione tra
i giocatori e la proprietà non ha praticamente eguali nella storia del basket
moderno, specialmente in una squadra che era comunque campione in
carica.
Jackson capiva che la spaccatura tra la squadra e la dirigenza poteva
avere dei lati positivi per lui, uomo flessibile e sottile. Alla fine, fu in grado
di sfruttare il fatto che i giocatori si sentissero abbandonati (molti di loro
erano convinti che la dirigenza fosse essenzialmente ostile ai loro obiettivi e
non volesse che la squadra vincesse il sesto campionato) per cementare i
rapporti tra di loro. Alla fine della stagione Reinsdorf pensava che Jackson
avesse camminato sul filo della slealtà per il modo in cui aveva usato le
tensioni esistenti e aveva messo tutta la squadra contro la dirigenza. Ma era
impossibile stabilire se fosse slealtà o semplice abilità, volta solo a tirar
fuori il meglio da una brutta situazione.
Jackson era certo che la stagione 1997-98, che avessero vinto o che
avessero perso, sarebbe stata l’ultima con la sua squadra. La chiamò
‘l’Ultimo Ballo’. E a riunirsi per questa ultima danza fu, almeno a uno
sguardo superficiale, una squadra vecchia e piuttosto fragile: in uno sport
dove i giocatori in teoria raggiungono l’apice intorno ai ventisette o
ventotto anni, Jordan avrebbe cominciato la stagione a trentacinque,
Rodman a trentasette, Pippen a trentatré. (Quando i Bulls avevano vinto il
loro primo titolo Jordan aveva ventotto anni; Pippen e Horace Grant
ventisei). Ron Harper avrebbe compiuto trentaquattro anni a gennaio e si
stava chiaramente avviando alla fine della sua carriera: giocava con l’artrite
a entrambe le ginocchia e i suoi compagni lo chiamavano ‘Gambadilegno’.
Toni Kukocˇ, su cui Krause aveva investito tantissimo sia a livello emotivo
che finanziario, doveva ancora dimostrare di essere un giocatore decisivo
nell’NBA, che poteva essere costante e giocare con la durezza necessaria. I
componenti della panchina erano più furbi che talentuosi.
Inoltre, i giocatori stessi erano ben consci di quanto sarebbe stato difficile
vincere un terzo campionato di fila, anche nelle migliori circostanze. Il
secondo anno era già stato molto più difficile del primo, perché le
aspettative si erano alzate e di conseguenza anche le pressioni su di loro.
John Paxson, giocatore chiave della squadra che aveva vinto il primo ciclo
di tre anelli e ora commentatore televisivo, avvertì che il terzo titolo era
infinitamente più difficile del secondo, perché era molto più difficile
mantenere un adeguato livello di motivazione e concentrazione.
Tuttavia, Jackson era convinto che avessero un’ottima possibilità di
vincere un altro anello. I quattro giocatori più anziani (Jordan, Pippen,
Rodman e Harper) erano tutti atleti straordinari, tutti ancora in grande
forma, tutti in grado di giocare come se fossero giovani. Inoltre, erano tutti
e quattro giocatori di intelligenza superiore alla media. Jackson sapeva che
la sua squadra aveva alcuni specifici vantaggi: intelligenza, esperienza e
soprattutto forza mentale, importantissima quando si arrivava ai playoff. I
Bulls sapevano come e quando concentrarsi di più e come realizzare sul
campo le cose di cui l’allenatore aveva parlato loro prima della gara. Un
vantaggio che li distanziava da molte altre squadre, anche quelle che
sembravano più dotate a livello individuale. Non erano qualità da poco.
E poi ovviamente c’era un’altra grande risorsa, impossibile da
quantificare: il fattore Michael, la grandezza di un giocatore dalla volontà
indomabile che alzava costantemente il suo livello di gioco e di
conseguenza anche quello dei compagni, per raggiungere picchi impensabili
nelle partite più importanti, specialmente durante i playoff. Jackson pensava
che i suoi giocatori fossero ideali per quella che lui considerava la vera
stagione: i playoff. Infatti, sarebbero stati tutti molto felici di poter saltare le
ottanta partite di Regular Season e andare direttamente alla fase finale.
Subito prima dell’inizio, Jackson parlò sia a Jordan che a Pippen della
stagione che stava arrivando. Entrambi volevano sapere se lui pensava che
quelle sarebbero state le loro ultime grida di gioia e Jackson rispose di sì.
Erano stati fortunati a tenere tutto insieme così a lungo, ma dovevano
accettare il fatto che a giugno sarebbe tutto finito. Jordan condivideva la sua
visione generale della stagione: «Dovremo dosare le forze, vero?» Jackson
era d’accordo, ma si chiedeva se Jordan sarebbe stato in grado di farlo,
specialmente con Pippen fuori. Jordan riteneva di essere in una condizione
fisica ragionevole, più o meno quella a cui voleva essere in quel momento.
Nessuno nello sport professionistico si prendeva una cura del proprio corpo
meglio di Michael Jordan, e questo gli aveva garantito di mantenersi ai
massimi livelli anche molti anni dopo che il suo corpo e la sua tecnica
avevano cominciato il loro declino. Proprio perché i Bulls erano arrivati
sempre a contendersi il campionato, le stagioni si erano prolungate fino a
metà giugno. Anno dopo anno, Jordan aveva bisogno di dosare le forze con
sempre più cautela.
Con Pippen fuori e una panchina più debole degli altri anni, Jordan
avrebbe avuto ancora più responsabilità e lui e il suo personal trainer Tim
Grover decisero di provare a far sì che raggiungesse il picco un po’ più
lentamente degli altri anni. Quell’estate, iniziarono la preparazione molto
più tardi del solito e quando Jordan si presentò al primo allenamento era in
buona forma. Jackson, per la seconda stagione di fila, organizzò un solo
allenamento al giorno anziché due, per proteggere Michael e gli altri atleti
più vecchi.
L’importanza di Jackson per la squadra non deve essere sottovalutata. Per
molti anni non era riuscito ad avere l’adeguato riconoscimento dagli altri
allenatori e dai media perché si riteneva fosse troppo semplice allenare
grandi come Jordan e Pippen: durante il ciclo dei primi tre campionati non
era mai stato nominato Allenatore dell’anno. Che fosse troppo facile
vincere con quei giocatori era sia vero che falso. Era vero perché erano
giocatori non solo fortissimi, ma anche straordinariamente ricettivi. Ma era
anche molto difficile inserire una superstar come Jordan in un gioco di
squadra. Ottenere il massimo da lui senza inibire il suo istinto quasi divino
di dominare da solo le partite era un problema costante, come lo era evitare
che sminuisse l’istinto, l’abilità e l’ego dei suoi compagni. Jackson doveva
massimizzare le grandi qualità di Jordan senza lasciare che succhiasse via
l’ossigeno dai compagni, sia sul campo che fuori. A grandi giocatori
corrispondono grandi ego e vincere, nell’NBA o altrove, raramente rende i
giocatori in grado di controllare a pieno la loro personalità. Più una squadra
vince, più quell’ego, represso per il bene della squadra, tende ad affiorare in
superficie.
Jackson gestì quella delicatissima alchimia con grande abilità e lo fece
per un tempo straordinariamente lungo, quasi un decennio: un risultato
davvero sorprendente, date le pressioni e gli impulsi egoistici dell’NBA,
dove ottimi e vulcanici giocatori si stufano in fretta di ottimi e vulcanici
coach, e viceversa. Nell’NBA moderna, completamente in mano a poche
stelle, era estremamente difficile continuare a vincere per molto tempo ed
era ancora più difficile mantenere buone relazioni tra giocatori e allenatore
per un certo periodo. Pat Riley, l’uomo più motivato al mondo, una persona
che stava chiaramente cercando di rifarsi da allenatore dei limiti che aveva
incontrato da giocatore, era stato un coach brillante ai Lakers, ma era
rimasto per molto più di quanto non fosse il benvenuto; secondo i giocatori
stava cercando di innalzare il loro di livello di dedizione, di una tacca e poi
un’altra ancora, ma verso la fine del suo periodo a Los Angeles c’era stata
una sorta di ribellione da parte della squadra. Il fatto che Michael Jordan in
persona avesse combattuto per tenere Jackson in panchina per la corsa al
sesto anello era il riconoscimento più alto che un allenatore potesse ricevere
nella moderna NBA, molto più importante che vincere il premio di
allenatore dell’anno.
Durante gli anni a Chicago, Jackson si era guadagnato la fiducia di molti
dei suoi giocatori. Era furbo, e li trattava come singoli individui stando
sempre attentissimo a far sì che non si annoiassero. Soprattutto, li trattava
con rispetto. Ora, dopo parecchi anni con lui in panchina, molti di loro
capivano quanto fosse stato abile a integrare Jordan nel sistema di gioco,
cosa che non era stata così evidente 7-8 anni prima, quando il processo
(imbarazzante, difficile, doloroso) era iniziato. Aveva guadagnato e
mantenuto il rispetto di Jordan, senza sembrare un burattino, cosa che gli
avrebbe fatto perdere il rispetto degli altri undici giocatori. Non era una
cosa da poco. La sua abilità nel rendere Jordan un devoto del triangolo
offensivo, trasformandolo quindi in un giocatore che passava la palla più
volentieri, era probabilmente il suo più grande successo.
Durante il secondo ciclo di titoli, qualcuno chiese a Steve Kerr di
descrivere la cultura dei Bulls e lui rispose che era una squadra strana,
perché moltissimo della sua cultura e del suo carattere proveniva del suo
allenatore. Non era facile, per atleti più limitati, giocare con Michael
Jordan, notava Kerr. Per uomini orgogliosi come i professionisti non era
sempre facile avere a che fare tutti i giorni con orde di giornalisti sapendo
che, anche se stavi rispondendo alle loro domande, non erano realmente
interessati a te e che tutto quello che avevano veramente bisogno di sapere
riguardava Jordan o, al limite, Pippen, Rodman o Jackson. In una squadra
con stelle di quel livello era facile, per gli altri, essere schiacciati. Kerr
credeva che Jackson avesse un talento straordinario nel coinvolgere tutti e
nel far capire a ogni giocatore che aveva un ruolo. Il ruolo delle riserve era
particolarmente difficile qui, perché tutti sapevano che senza Jordan la
squadra non sarebbe andata bene, ma i giocatori erano consci del fatto che
la squadra non sarebbe andata bene anche se loro non avessero fatto la loro
parte, e se non si fossero fatti trovare pronti in qualunque momento.
4
Los Angeles, 1997;

Williston, Nord Dakota, 1962

All’inizio della stagione 1997-98 i Bulls faticarono molto e tutte le cose che
Jackson temeva potessero andare male andarono perfino peggio. Avevano
vinto sei partite e ne avevano perse cinque quando arrivarono a Los
Angeles per incontrare i Clippers, una squadra sempre in alto mare. Se le
cose non stavano andando molto bene per i Bulls, per i Clippers stavano
andando ancora peggio: guidati da Bill Fitch, ex allenatore al college di Phil
Jackson, avevano un record di 1-10 ed erano probabilmente la peggior
franchigia della Lega. Giocavano in un palazzetto piuttosto trasandato, la
vecchia Los Angeles Sport Arena, e attiravano al massimo due o tremila
tifosi nelle partite contro squadre minori. Facevano il tutto esaurito solo
quando si presentavano i Bulls o i Lakers, e di conseguenza i loro tifosi
tendevano ad acclamare più le squadre ospiti, incitando i Clippers solo
verso la fine della partita, se era ancora aperta. I Clippers sembravano una
squadra maledetta: per quanto finissero in fondo alla classifica e per alta
che fosse la loro scelta al draft, non miglioravano mai e anche quando
riuscivano a prendere giovani giocatori di talento, quegli stessi giocatori se
ne andavano appena potevano.
Quella notte, tuttavia, i Clippers sembravano destinati a vincere. I Bulls
giocarono in modo terribile e sembravano aver completamente perso la loro
aura di imbattibilità. Era la loro quinta partita in trasferta e dovevano ancora
vincerne una. All’inizio del secondo quarto Los Angeles guidava 36 a 18.
Anche Jordan era in difficoltà: aveva segnato solo 3 dei suoi primi 14 tiri. A
poco a poco, però, i Bulls cominciarono a rimontare e a mettere in difficoltà
gli avversari. Jordan chiuse con 18 su 36, il che significava che aveva
messo a segno 15 dei suoi ultimi 22 tiri. Jordan si era preso la responsabilità
di risollevare la squadra e alla fine del tempo regolamentare il punteggio era
92 pari, solo grazie al fatto che Jordan aveva segnato gli ultimi sette punti di
Chicago. A trentanove secondi dalla fine del primo overtime, i Clippers
erano in vantaggio 102 a 98, ma Jordan segnò e portò il punteggio a 102 a
100. Poi, con quindici secondi rimasti, subì fallo, ma sbagliò il primo libero.
Jackson gli urlò di sbagliare il secondo apposta: lo fece e riuscì a prendere il
rimbalzo. Con otto secondi ancora da giocare, andò a canestro e segnò il
pareggio.
Nel secondo overtime, Jordan segnò tutti i 9 punti di Chicago: aveva
segnato 22 degli ultimi 26 punti dell’intera squadra. Los Angeles non segnò
mai. Jordan sembrava esausto e sbagliò tre tiri liberi nel finale, ma segnò
comunque gli ultimi 13 punti della partita. Si era rifiutato di lasciare che i
Bulls, vulnerabili e in difficoltà, perdessero quella partita, in una notte in
cui sembravano incapaci di giocare al loro livello. Aveva giocato 52 minuti
e segnato 49 punti. Una gara di nessuna importanza era diventata
fondamentale. Una probabile sconfitta era diventata una vittoria. Quel tipo
di partite capitava circa dieci o dodici volte durante una stagione: il potere
della sua volontà trionfava contro la spossatezza del suo corpo. Pochissimi
dei tifosi occasionali lo capivano: bisognava rimanere con la squadra giorno
dopo giorno, vedere tutte le partite, specialmente quelle non importanti, per
capire che lui si comportava così tutte le sere. La sua straordinaria forza di
volontà faceva un’enorme differenza nel bilancio finale tra vittorie e
sconfitte e significava che alla fine della stagione i Bulls avrebbero sempre
avuto il vantaggio del campo in una serie cruciale: le Finals di Conference.
In quella partita tra i Bulls e i Clippers, inoltre, si incrociarono per
un’altra volta le strade di due allenatori che erano anche due vecchi amici:
Phil Jackson and Bill Fitch. In quel momento erano un perfetto esempio di
strade divergenti. Jackson stava cercando di vincere il suo sesto titolo in
nove anni da allenatore e aveva la miglior percentuale di vittorie nella storia
del gioco. Fitch, che trentacinque anni prima aveva reclutato Jackson dalla
high school di Winston e lo aveva fatto giocare per la University of North
Dakota (ed era, oggi come allora, dipendente dal suo lavoro), allenava
quella che era, probabilmente, la peggior squadra della Lega e lavorava per
quella che era, sicuramente, la dirigenza più traballante. Fitch aveva iniziato
la stagione con il poco invidiabile primato del maggior numero di sconfitte
per un allenatore nella storia NBA. Questa era la sua sconfitta numero
1.052. Fitch aveva avuto un profondo impatto sulla carriera di Jackson e
quando Joe Jackson, fratello maggiore di Phil, parlava della carriera
professionale del fratello, ci teneva a precisare quanto fosse stato fortunato
ad avere un allenatore così talentuoso e giovane quando era solo un giovane
e influenzabile studente universitario. Un allenatore che avrebbe potuto
dargli molto ed effettivamente lo fece.
Dopo quella partita, Jackson assaporò la sua prima vittoria in trasferta e il
fatto di aver evitato l’onta di una sconfitta contro i Clippers, anche se con
un margine risicatissimo. Rivolse però un pensiero affettuoso a Fitch: «Il
gioco lo divora. Stanotte non dormirà, rimarrà sveglio tutta la notte a
guardare le immagini della partita». Quando era a Boston ad allenare i
Celtics, lo soprannominarono ‘Capitan Video’ a causa della sua
propensione a stare seduto in una stanza da solo, a guardare dei filmati. I
due si conoscevano ormai dal primo anno di high school di Jackson, nel
1962. Ora Fitch guadagnava 2 milioni all’anno e Jackson, il suo protetto di
un tempo, ne faceva 6: niente male per entrambi, anche se date le difficoltà
di allenare nelle rispettive squadre, gli stipendi avrebbero dovuto
probabilmente essere invertiti.

Una partita di NBA a Los Angeles nel novembre 1997, perfino una partita
dei Clippers, sembrava molto lontana da quella primavera del 1962 alla
Williston High School, quando Fitch aveva incontrato Jackson per la prima
volta. Ai tempi Jackson era al suo primo anno di superiori ed era già uno
studente modello e un atleta promettente: giocava a football, giocava a
basket, giocava a baseball ed era membro della squadra di atletica. Alto
1,90 per 72 chili, Jackson stava crescendo a un ritmo molto rapido (un anno
prima era 1,70 per 65 chili) e si guadagnò in fretta il soprannome
‘Ossicino’. Fitch era stato appena nominato allenatore di basket della
squadra dell’università del Nord Dakota. Il posto era stato offerto a un altro
allenatore, che lo aveva accettato, ma la moglie gli aveva detto che se fosse
andato lassù, ci sarebbe andato da solo perché faceva semplicemente troppo
freddo. L’incarico andò a Fitch quasi in automatico. Lavorò duro sul
reclutamento, cercando di creare praticamente da un giorno all’altro un
programma per il basket in una scuola conosciuta soprattutto per il football
e l’hockey. Fitch aveva allenato sia la squadra di basket che quella di
baseball a Creighton ed era stato talent scout per gli Atlanta Braves. Proprio
durante quell’incarico aveva sentito parlare di un giovane di nome Phil
Jackson, di cui si diceva fosse un ragazzone alto e magro di 1,80 o 1,90.
«Imperdibile» dicevano le relazioni degli scout regionali.
Fitch, disposto a tutto per dare una forte spinta iniziale al suo programma,
guidò fino a Winston in un freddo giorno di aprile per vedere Jackson
partecipare a un meeting di atletica. «Lancio del disco, per la precisione»
ricorda Fitch. «Era un giorno molto ventoso e lui aveva il fisico di una
matita. Se non altro, gli appunti degli scout del baseball su quel punto
avevano ragione. Nessuno poteva essere così magro e abbastanza forte da
lanciare il disco. Penso che dovessero legarlo a terra per evitare che volasse
via. Mi innamorai subito di lui. Era tutto quello che cerchi quando stai
provando a reclutare un bravo ragazzo molto rispettoso. Rispondeva sempre
‘Sissignore, nossignore’ ed era un ottimo studente, sinceramente
intenzionato a eccellere. Si capiva subito. Entrambi i genitori erano pastori
in una Chiesa. Gli dissi che lo volevo per il mio programma fin dal primo
giorno». Sollecitato dal suo allenatore della high school, Jackson fece
vedere a Fitch quello che chiamava ‘il trucco della macchina’: si sedeva nel
sedile posteriore di qualsiasi automobile e allungando le braccia riusciva ad
aprire le portiere da entrambi i lati della macchina. Qualche mese dopo,
Fitch guidò fino all’altra parte dello Stato per tenere un discorso al
banchetto annuale delle squadre sportive di Winston. Lo fece
principalmente per far firmare a Jackson un contratto con Nord Dakota. «La
cosa più pericolosa che ho fatto nella mia intera vita» ricorda. «Ho subito
anche un’operazione a cuore aperto, ma la volta in cui sono stato più vicino
a morire è stato quel viaggio. Ci fu una tormenta di neve. Ne caddero più di
50 cm: era la peggior tempesta da anni e nessuno poteva attraversarla.
Lungo tutta l’autostrada le macchine erano sepolte. In quei giorni, nel Nord
Dakota, una delle cose che dovevi fare quando affrontavi un lungo viaggio
in inverno era portare delle candele e metterle nel cruscotto, così, se per
caso fossi rimasto bloccato, avresti potuto accenderle e forse (forse)
qualcuno ti avrebbe trovato. Quel giorno c’erano macchine con le candele
accese lungo tutta la strada e io credevo di essere l’unica persona che stesse
cercando di attraversare la tormenta. Tre giorni dopo, stavano ancora
recuperando corpi congelati nelle macchine». In qualche modo, Fitch arrivò
alla festa e fece una grossa impressione sui tifosi locali quando chiamò sul
podio il giovane Phil Jackson, tirò fuori un paio di manette e gliele mise ai
polsi dicendo «Io voglio te».
A Jackson, Fitch piaceva immensamente. Era giovane, aveva solo
trentadue anni al tempo, ed era molto allegro: il suo calore e il suo
entusiasmo erano in netto contrasto con la freddezza dell’altro allenatore
che stava cercando di ingaggiarlo, Johnny Kundla dell’Università del
Minnesota. Kundla sembrava distante e distaccato, forse perché gestiva un
programma molto più potente, abituato a reclutare tutti i ragazzi che voleva.
Convocò Jackson e altri quattro ragazzi che sarebbero entrati all’università
l’anno successivo a un incontro a Minneapolis, e disse loro che erano i
cinque freshman che voleva per la squadra riserve (ai tempi i ragazzi al
primo anno di università non potevano far parte della squadra principale).
Era come se non ci fosse alcuna scelta da fare. Lui li voleva, quindi loro
sarebbero venuti. «Sarete la classe dell’anno prossimo. Qui abbiamo un bel
programma, che vi piacerà. Vi piacerà anche l’università. Se avete qualche
domanda chiamatemi» e poi uscì dalla stanza. «Quello era lo stile di Johnny
Kundla» avrebbe detto Jackson più di trent’anni dopo, non senza un certo
acume. Scelse invece Nord Dakota.
Gli piaceva molto giocare lì. Da giovane aveva mostrato molto più
potenziale come lanciatore nel baseball e un buon numero di squadre
professioniste erano interessate a metterlo sotto contratto, ma qualcosa che
neppure lui comprendeva lo spingeva verso il basket. Paul Pederson, due
anni più vecchio di Jackson, era la stella della squadra e anche uno studente
eccezionale: Fitch scelse di metterli in camera insieme, così che Pederson
potesse guidare Jackson nei suoi primi anni al college. Pederson pensava
che Fitch si fosse sempre reso conto di avere un rapporto speciale con
Jackson e che fosse molto protettivo nei suoi confronti. Pungente e caustico
con molti dei suoi giocatori, era sorprendentemente gentile con Jackson,
conscio della fatica fisica che stava affrontando per irrobustire il suo corpo
mentre era anche esposto a una considerevole quantità di stress emotivo, a
causa del conflitto tra il modo severo in cui era stato cresciuto da una
famiglia di fondamentalisti religiosi e il rilassato (qualcuno avrebbe detto
peccaminoso) stile di vita del college.
Jackson era un ottimo atleta che lavorava sodo, con un talento fuori dal
comune e alcuni punti deboli. Alto, sempre un po’ goffo ma con una buona
rapidità nei piedi, aveva braccia molto lunghe e un ottimo gancio mancino,
che fece la sua fortuna durante gli anni del college. La cosa su cui Fitch
lavorò era la sua fase difensiva e in particolare la marcatura, sia perché
voleva renderlo più agile finché era ancora al college, sia perché lo stava
preparando per una possibile occasione tra i professionisti. Fitch lavorò
costantemente con Jackson su qualcosa che avevano chiamato ‘La partita di
hockey’: era un 3 contro 3 in cui Jackson guidava la difesa. Fitch lo metteva
sempre contro il giocatore più basso e più veloce, il loro playmaker. Era un
esercizio di destrezza unico, che a Jackson sarebbe servito molto in futuro.
Durante i suoi anni al college, Nord Dakota fece piuttosto bene. Nel suo
secondo e terzo anno finirono rispettivamente terzi e quarti nella Divisione
II della NCAA, perdendo entrambe le volte con Southern Illinois, squadra
guidata da un giovane giocatore di nome Walt Frazier, che Jackson dovette
marcare, con scarso risultato. («Era molto più veloce di me» ricorda
Jackson. «Mi fece mangiare la polvere molte volte»). Per numerose ragioni,
principalmente etniche, Nord Dakota non era considerato terreno fertile per
il basket e l’opinione professionale di molti scout era che l’unica cosa che
quella zona poteva produrre erano ragazzini bianchi lenti, pesanti e devoti.
Ma due uomini lo notarono. Uno era Jerry Krause, ai tempi scout per i
vecchi Baltimore Bullets (che sarebbero diventati i Washington Bullets, che
sarebbero a loro volta diventati i Washington Wizards). Krause andò a
vedere Jackson nell’inverno del 1966-67, il suo ultimo anno, lo apprezzò e
voleva che fosse la scelta del draft dei Bullets.
Krause, che avrebbe finito per avere un enorme ruolo nella vita di
Jackson, aveva sentito parlare di un giovane e sgraziato giocatore di Nord
Dakota, con braccia insolitamente lunghe, e aveva guidato attraverso una
tempesta di neve (a quanto pare un requisito fondamentale del rischioso
compito degli scout) per vedere Jackson giocare contro Loyola. Bill Fitch
gli chiese «Jerry, hai mai visto delle braccia più lunghe?» e poi fece fare a
Jackson il trucco della macchina, quella stessa acrobazia che lo aveva
colpito così tanto quattro anni prima. Quella notte, ricorda Krause, Jackson
segnò 18 tiri di fila. Sperava di prenderlo al terzo giro, ma anche i New
York Knicks lo stavano seguendo.
Red Holzman, lo scout dei Knicks, apprezzava molto Jackson: quello che
lo impressionava di più era il modo in cui Jackson guidava la transizione
difensiva della squadra. Lo faceva in un modo sorprendentemente
disinvolto, pur non essendo esattamente agile. «Come riesci a farglielo fare?
Come fai a farlo muovere così bene?» chiese Holzman a Fitch, dopo averlo
visto lavorare sulla difesa. Fitch gli disse della partitella 3 contro 3. I
Knicks lo presero al secondo giro, due scelte prima di Baltimore.

Era strano, pensava Jackson a volte, essere al centro dell’isteria che il


basket contemporaneo provocava: allenare i più grandi atleti del mondo,
volare ogni giorno su comodi jet charter, aver bisogno della security per
evitare la folla alla fine delle partite e guadagnare $60.000 a partita, playoff
inclusi. Quella cifra era quasi il doppio del suo intero primo contratto, un
biennale coi Knicks. Nel 1997 avrebbe festeggiato i trent’anni di carriera,
una carriera che aveva coperto buona parte dell’NBA moderna. Dov’era
cresciuto, nelle Grandi Pianure, la televisione era una novità così recente
che lui aveva visto ben poche partite NBA, e nessuna prima di andare al
college; durante la sua adolescenza gli unici eventi sportivi che venivano
trasmessi e che lui era riuscito a vedere (ovviamente non a casa sua) erano
partite delle World Series. Al college riuscì a vedere qualche partita NBA,
ma mai dei New York Knicks.
Ci fu un’altra squadra della American Basketball Association (ABA) che
lo scelse, i Minnesota Pipers: gli offrirono un contratto di due anni da
$25.000. I Knicks rialzarono, offrendo $26.000 per due anni
(rispettivamente $12.500 e $13.500) più un bonus di $5.000 alla firma. Al
tempo, a Jackson questa sembrò una grossa somma e firmò volentieri. Era
sicuro del proprio futuro: avrebbe giocato per qualche anno, seguito i corsi
estivi dell’università, si sarebbe laureato in psicologia e avrebbe trovato un
qualche lavoro in quel campo. Quella sarebbe stata la sua vita, ne era certo.
Arrivò a New York nel maggio 1967. Fu un’esperienza che gli aprì gli
occhi. Red Holzman, che non era ancora l’allenatore ma solo il team
manager, lo andò a prendere all’aeroporto. Si diressero verso Manhattan,
ma mentre attraversavano un sottopassaggio nel Queens un ragazzino, con
tempismo perfetto, lanciò una roccia sul parabrezza della macchina, che
andò in frantumi. Holzman, furioso, cominciò a imprecare a mezza bocca.
Alla fine, riuscì a calmarsi, si girò verso Jackson e disse: «Beh, questo è
parte di quello che devi sopportare se vuoi vivere a New York».
Jackson ebbe un breve incontro con il general manager Eddie Donovan,
che non lo aveva mai visto giocare. Donovan gli chiese cosa sapesse del
basket professionistico e Jackson gli rispose che aveva visto qualche partita
di playoff quando era al college. E questo, in pratica, esaurì i loro argomenti
di conversazione. Non aveva mai visto nulla che assomigliasse a New York.
Gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della guerra del Vietnam e quel giorno
c’era una manifestazione di protesta. Poiché New York era una città
liberale, si aspettava che fosse una manifestazione contro la guerra, ma
quella di quel giorno di primavera era una manifestazione a favore della
guerra, organizzata da alcuni esponenti del sindacato, colletti blu, e stava
diventando piuttosto violenta. La cosa sorprese Jackson e lo spaventò un
po’. Andò a fare due passi in città da solo e si fermò a una tavola calda dove
due cameriere si stavano urlando contro per una mancia. Proseguì il suo
tour, sempre all’insegna della serendipità, e in altre parti della città trovò
persone che, in piedi su cassette della frutta, lanciavano invettive contro la
guerra. Decise che sarebbe stata una città affascinante in cui giocare. La sua
ricerca, come si sarebbe capito più avanti, poteva iniziare.
«Phil riesce sempre a impressionarmi». Avrebbe detto Bill Fitch anni
dopo. «La prima volta che l’ho incontrato, non avrei mai pensato che
sarebbe potuto diventare un giocatore professionista, ma non lo vedevo
nemmeno come un pastore: pensavo che sarebbe cresciuto lontano da tutta
quella roba. Quando arrivò al college, immaginai che un giorno sarebbe
diventato professore. Poi migliorò e qualche anno dopo andò a giocare per i
Knicks: era davvero diventato un professionista, e anche uno molto bravo.
Andai a trovarlo a New York una volta. Passammo tutto il tempo al
Greenwich Village: lui aveva i capelli fino alle spalle, era diventato un
super hippie. Quando me ne andai, quella sera, non avrei mai pensato che
sarebbe diventato un allenatore.
5
Chapel Hill, 1980

Nell’estate del 1980 Michael Jordan ebbe l’occasione di andare al campo


estivo di pallacanestro di Dean Smith, che era piuttosto famoso in Carolina
del Nord perché si credeva che venissero invitati solo i giocatori migliori. Il
suo amico Leroy Smith andò con lui e vennero messi in camera con due
giocatori provenienti dall’ovest dello Stato: Buzz Peterson e il suo
compagno di squadra Randy Shepherd. Il primo era già una figura famosa
nel mondo sportivo delle high school, un candidato per Mister Basketball
nella Carolina del Nord (un premio che andava ai giocatori che si
distinguevano maggiormente nei campionati delle scuole superiori). Questo
lo rendeva uno dei giocatori più di valore in campo insieme a Lynwood
Robinson, il playmaker della squadra campione dello Stato, di cui si parlava
già come il prossimo Phil Ford (un giocatore che non era stato solo una star
in Carolina, ma anche uno dei playmaker più temuti dell’NBA, prima che
gli infortuni rovinassero la sua carriera).
Smith e gli altri allenatori fecero un ottimo lavoro nel nascondere quanto
furono impressionati quando lo videro giocare la prima volta e, anni dopo,
sarebbe diventato parte della leggenda di Michael Jordan il fatto che lui
fosse stato ingaggiato da Carolina per una sorta di ripensamento, come uno
che era passato per caso dal campo e a cui alla fine si era deciso di offrire
l’ultima borsa di studio. Questa versione racconta di un talento sbocciato
tardi, un’esplosione improvvisa che sorprese sia lo staff di Carolina sia le
squadre avversarie.
Ma questo non è esattamente vero. Michael Jordan era esploso tardi, ma
non così tardi. Lo staff di North Carolina si rese conto del suo immenso
talento fin dal primo giorno in cui si era presentato, nell’estate 1980. Alla
fine della settimana, anche se gli allenatori volevano sia Peterson che
Robinson, la scelta numero uno, per quanto li riguardava, era Michael
Jordan da Wilmington Laney. Si erano accorti di lui per la prima volta
all’inizio di quell’anno, quando Michael Brown (il direttore atletico del
sistema scolastico della contea di New Hanover, dove si trovava
Wilmington) aveva chiamato Roy Williams (un giovane assistente dello
staff di Smith) dicendo che avevano un giocatore che era probabilmente il
miglior giovane atleta che Brown avesse mai visto. La chiamata arrivò
all’inizio dell’ultimo anno di Jordan, subito dopo la sua prima improvvisa
crescita in altezza. All’inizio lo scout che doveva visionarlo era Williams,
ma all’ultimo minuto le assegnazioni furono invertite e il lavoro finì a Bill
Guthridge, il migliore assistente di Smith. La chiamata di Brown aveva
stuzzicato l’interesse di Williams e quando Williams stesso chiese a
Guthridge cosa ne pensava di quel ragazzino, lui rispose che era difficile da
dire. Tutto quello che aveva fatto quella sera era tirare. «Ma sicuramente ha
una marcia in più» aggiunse, intendendo che aveva quel pizzico di atletismo
in più che gli permetteva di correre e saltare meglio di tutti gli altri ragazzi.
Quello che Bill Guthridge disse a Dean Smith era che Mike Jordan era
probabilmente un buon giocatore da Atlantic Coast Conference (ACC),
piuttosto dotato atleticamente ma con fondamentali ancora non sviluppati.
Fu l’unica volta che andarono a vederlo nel suo ultimo anno di high school.
Uno dei compiti di Roy Williams era assicurarsi che i migliori giocatori
nello Stato andassero al campo di Smith: oltre a mettere in lista sia Buzz
Peterson che Lynwood Robinson, aveva chiamato l’allenatore di Jordan,
Pop Herring, per accordarsi e far venire anche Michael e Leroy Smith.
Quella settimana si presentarono circa quattrocento ragazzi delle più
svariate altezze, età e abilità. Una manciata di loro erano giocatori a cui
North Carolina era realmente interessata, ma la maggior parte di essi erano
meno dotati e speravano di poter entrare, grazie a una spinta dalla
partecipazione al campo, nella squadra della loro scuola. Il primo giorno
faceva un caldo terribile. Roy Williams, che era responsabile per tutti i
ragazzi, si assicurò che tutti avessero l’occasione di giocare nella palestra
Carmichael, dove i Tar Heels (la squadra dell’università della Carolina del
Nord) giocava le partite in casa. Così, tornando a casa, avrebbero potuto
raccontare a tutti i loro amici di aver giocato in quella storica palestra. Per
far questo, Williams li faceva andare e venire dalla palestra abbastanza in
fretta, e organizzava delle squadre come meglio poteva: ragazzi grossi
contro ragazzi grossi, ragazzi piccoli contro ragazzi piccoli. Faceva gruppi
di trenta, il che significava che potevano avere a disposizione tre campi
regolamentari alla volta.
Teneva anche gli occhi fissi su questo giovane di Wilmington di nome
Michael Jordan, e alla fine si presentò a quel ragazzino piuttosto magro.
Quando il gruppo di Jordan finì, Williams lo prese in disparte e gli suggerì
di rimanere per una seconda sessione. Finita anche quella, Jordan lasciò la
palestra con gli altri, ma riuscì in qualche modo a ritornare dentro per una
terza sessione. Williams era impressionato perché adorava avere a che fare
con un topo da palestra, ma era ancora più impressionato da quello che
vedeva in Jordan. Una potenza atletica purissima che lo differenziava da
qualunque altro ragazzo e lo rendeva il tipo di giocatore giovane che gli
allenatori sognavano di trovare. Quando gli allenamenti finirono, Williams
andò nell’ufficio di Eddie Fogler, un altro assistente di Smith e suo grande
amico, e gli disse: «Penso di aver visto il miglior giocatore di high school di
sempre».
«Chi è?»
«Michael Jordan, il ragazzino di Wilmington» rispose Williams.
Williams, che sarebbe diventato uno degli allenatori di maggior successo
dell’intero paese a Kansas City, era rimasto semplicemente senza parole
davanti alla completezza della sua abilità atletica, alla sua velocità, alla
capacità di saltare e all’intensità difensiva: i ragazzi che Jordan marcava
semplicemente non potevano respirare. In più, Jordan sembrava avere
quello che gli allenatori chiamavano, in mancanza di un’espressione
migliore, fiuto per la palla. In qualche modo, a prescindere da quello che
succedeva (un tiro respinto dal ferro, una palla vagante nella metà campo
difensiva), Jordan sembrava in grado di recuperare la palla un po’ più
velocemente di tutti gli altri. Questa fu la prima volta che qualcuno si
accorse davvero di Michael Jordan.

Grazie al basket, fu facile per Buzz Peterson, Randy Shepherd, Michael


Jordan e Roy Smith diventare buoni amici. I primi due erano ragazzi
bianchi di classe media da Asheville, nella zona dello Stato sui monti
Appalachi, mentre gli altri due erano due ragazzi neri da Wilmington, sulla
costa. Ma più di ogni altra cosa, erano tutti e quattro fissati con la palestra.
Venne fuori che Shepherd e Jordan erano nello stesso gruppo e avrebbero
giocato insieme tutti i giorni, mentre Peterson e Smith erano in un altro.
Ogni giorno Shepherd raccontava al suo amico cos’era successo, ogni
giorno raccontava di Jordan, e ogni giorno i racconti si ingigantivano. «Ehi,
quel ragazzino che sta nella stanza di fianco alla mia è un ottimo atleta.
Davvero, salta molto in alto». Raccontò Shepherd il primo giorno. Ma il
successivo: «È un grande atleta» e il terzo giorno: «Non puoi capire cosa
significa giocare con lui. Tu gli alzi un alley-oop [un passaggio molto sopra
il canestro che un compagno deve raccogliere mentre ancora in aria e
schiacciare] e lui fa il resto. Non gli piace molto giocare fuori area, ma
dentro è un assassino, proprio perché è così veloce e salta così in alto». Al
quarto giorno disse: «Buzz, né tu né io abbiamo mai visto una cosa del
genere. Penso che questo ragazzo possa giocare in NBA». Shepherd
pensava che Jordan fosse un po’ troppo magro e asciutto ma anche che si
potessero già vedere degli accenni di grandi giocate, quei momenti in cui
prendeva la palla, andava sotto canestro, si girava e segnava. Non erano
molti i ragazzini delle superiori in grado di farlo.
A metà della settimana Randy Shepherd, che si considerava non tanto
come un fenomeno quanto più come un operaio (un giocatore di doti
naturali abbastanza limitate che però svolgeva diligentemente i suoi compiti
e cercava di trarre il massimo da ogni aspetto del suo gioco, dando tutto
ogni volta che andava in campo), sognava un futuro nel basket a un livello
più alto. Era arrivato al campo pensando che una borsa di studio a Chapel
Hill, che il suo amico Buzz aveva già in tasca, fosse ben oltre le sue
possibilità e che avrebbe dovuto accontentarsi di una scuola più piccola e
meno prestigiosa. Ma ora, poiché questo Michael Jordan lo stava facendo
sembrare così forte, cominciava a pensare anche di poter finire a Carolina.
Alla fine della settimana, alcuni membri dello staff ventilarono la possibilità
di far giocare Shepherd a Carolina anche senza contratto. Alla fine, scelse
di giocare a North Carolina-Asheville, ma avrebbe sempre sospettato che
Michael Jordan avesse migliorato le sue possibilità e prospettive.
Era affascinante, pensava Shepherd: erano quattro ragazzi della Carolina,
due neri e due bianchi, che si trovavano così bene tra di loro e uscivano
praticamente sempre insieme. Anche se lui e Buzz erano stati migliori amici
durante il periodo delle superiori, avevano giocato nel cortile di Buzz ogni
notte e si erano intrufolati nella palestra mentre era chiusa, ora Randy
incominciava anche a capire che si stavano separando proprio a causa del
basket, e che questo valeva per lui e Buzz ma anche per Roy e Mike.
Possedeva un sesto senso per quello che gli succedeva attorno e una parte
molto importante di ciò era che Roy Williams e gli altri allenatori di
Carolina non staccavano mai gli occhi da Buzz Peterson e Mike Jordan.
Non fu mai detto esplicitamente, ma era chiaro che Randy e Roy avrebbero
giocato per qualche piccola scuola e non sarebbero mai arrivati al livello dei
loro amici. Buzz e Mike sarebbero stati molto richiesti, sarebbero finiti in
scuole di primo livello – Carolina, Duke o Kentucky –, probabilmente
sarebbero stati stelle anche lì e alla fine sarebbero potuti diventare entrambi
professionisti.
Pur non dicendolo mai in modo esplicito, tutti e quattro si rendevano
conto di ciò e anche che quello era l’inizio di una nuova amicizia tra Jordan
e Peterson, basata sulle loro straordinarie abilità. «Roy e io eravamo una o
due tacche sotto, e lo capivamo». Shepherd avrebbe detto anni dopo.
«Michael e Buzz stavano cominciando a emergere e il futuro era
chiaramente loro. Capivano che il destino era simile, e ciò li avvicinò
ancora di più». La separazione non fu esattamente come tra due amici di cui
uno va al college e l’altro rimane in una piccola città, per affrontare una vita
in fabbrica. Ma non fu neanche del tutto diversa.
Peterson fu trascinato dall’esuberanza del suo nuovo amico. Jordan
sembrava entusiasta per natura. La sua gioia sembrava derivare dalla
pallacanestro ed emanava una fiducia in se stesso del tutto naturale.
Cominciava a essere uno che parlava molto. Ma lo faceva con una tale e
puerile innocenza che l’effetto non era mai di arroganza, ma più di una certa
dolcezza. Anni dopo, quando Peterson invecchiò e divenne lui stesso un
allenatore di college, comprese meglio il processo che Jordan stava
attraversando, l’esplosione di talento e di confidenza emotiva. La cosa che
Michael amava di più era il basket e dopo tutti quegli anni passati a
combattere i limiti imposti dalla sua statura, stava cominciando a realizzare
quanto sarebbe stato forte, ora che all’improvviso era diventato alto due
metri. Si stava spingendo oltre i suoi limiti solo per scoprire che in quel
particolare momento, grazie alle sue qualità naturali, di limiti reali non ne
aveva affatto. «Sapeva che sarebbe diventato sempre più forte. E per la
prima volta intuì cosa il futuro aveva in serbo per lui. E lo amò alla follia».
disse Peterson.
Il campo di Smith aveva limiti precisi ed enfatizzava la cura dei
fondamentali. Non dava quindi a Michael molte opportunità di mostrare la
sua pura abilità atletica. Al limite, ogni tanto, schiacciava su un alley-oop,
ma i giocatori non erano incoraggiati a schiacciare. Arrivati al quarto
giorno, Buzz Peterson doveva ancora veder giocare Jordan, che era in un
gruppo diverso; un giorno, mentre tornava da un allenamento, vide alcuni
ragazzi che stavano facendo una partitella in uno dei campi all’aperto.
Alcuni giocatori che avevano fatto parte della squadra di Carolina di recente
(Mike O’Koren, Al Wood e Dudley Bradley) erano lì in giro e avevano
scelto Jordan e altri per giocare con loro. La partita fu molto intensa e molto
fisica. A un certo punto, O’Koren andando a canestro colpì Roy Smith nel
petto così forte che Smith si sentì come se i suoi organi fossero stati
scambiati di posto. Ma su quel campetto c’era una libertà totale, quella
libertà che non era permessa durante le altre partite, e Michael Jordan
sembrava godersela. Peterson capì che tutto quello che Shepherd aveva
detto era vero, e forse c’era anche di più. Quello che lo colpì guardando il
suo nuovo amico era quanto, per lui, tutto sembrasse facile. Non solo
poteva fare grandi movimenti ma anche farli sembrare del tutto privi di
sforzo. Guardarlo giocare, pensava Peterson, significava vedere non solo
qualcuno con potenziale ma anche, per la prima volta nella sua carriera
vedere i limiti del suo stesso gioco e comprendere quello che non sarebbe
mai stato in grado di fare, a prescindere da quanto duramente si fosse
allenato.
Dal momento in cui Roy Williams, ai tempi il meno esperto tra i membri
dello staff, cominciò a far girare le voci su Jordan, gli altri allenatori di
Carolina cominciarono a prestare attenzione e tutti videro quello che aveva
visto Williams. Era già chiaro che Carolina voleva tre giocatori (Buzz
Peterson, Lynwood Robinson e Michael Jordan), ma voleva Jordan un po’
più degli altri. Dean Smith, preoccupato di dare false speranze ai giocatori a
cui non era interessato, era molto cauto nell’esprimere ogni tipo di
emozione e in qualche modo distaccato da tutti i giocatori tranne quel
piccolo gruppetto che seguiva con attenzione, eppure pranzò con lui due
volte. «Alla fine della settimana avevamo deciso che se avessimo dovuto
scegliere un solo giocatore in tutto il Paese» ricorda Roy Williams, «quel
giocatore sarebbe stato Michael Jordan. Lavorammo duro per nasconderlo,
perché non era ancora conosciuto e volevamo che le cose rimanessero così.
Ma era anche chiaro che lui era il miglior giocatore e sapevamo che sarebbe
cresciuto ancora e che sarebbe migliorato ancora. Non avevamo però idea
di quanto sarebbe migliorato».
A quel punto Roy Williams fece in modo che Jordan frequentasse quella
stessa estate il Five-Star Camp di Howard Garfinkel, vicino Pittsburgh. Non
solo attirava i migliori giocatori, ma rispetto ad altre istituzioni simili
assomigliava meno a un mercato della carne. C’erano allenatori superbi,
alcuni dei migliori allenatori di college dell’intero Paese. Williams chiamò
Garfinkel per dirgli di Jordan e chiedergli se c’era un posto al campo per
lui. Suggerì anche che Jordan venisse messo nei cinque migliori giocatori
del campo.
Williams pensava che fosse la cosa giusta: era sicuro che Jordan sarebbe
finito in un campo da qualche parte – un giocatore così bravo non sarebbe
rimasto un segreto molto a lungo – e avrebbe aiutato un coach locale
assicurandosi che il suo miglior giocatore andasse a un ottimo campo con
degli ottimi allenatori. Sperava che un giorno quella buona azione sarebbe
stata ricompensata. In più, Williams parlò di Jordan anche con Tom
Konchalski, un assistente di Garfinkel. Più avanti, sia Konchalski che
Garfinkel ebbero l’impressione che gli allenatori di Carolina avessero
guardato bene Jordan e l’avessero apprezzato, ma non fossero sicuri di
quanto fosse veramente bravo perché la competizione al campo di Smith era
limitata e volevano che giocasse contro i migliori. Garfinkel si prestò
volentieri.
Dean Smith non era così convinto dell’operazione, quanto invece
parecchio irritato che Williams fosse andato avanti e lo avesse iscritto a un
campo. «Perché lo avresti fatto?» gli chiese e Williams si domandò se non
fosse andato troppo in là. Chiaramente Smith non vedeva particolari
vantaggi nel lasciare che altri allenatori vedessero questo ragazzo dare
spettacolo. Al Five-Star i nomi dei migliori giocatori erano messi in un’urna
e gli allenatori (alcuni dei college, alcuni dalle high school) formavano le
loro squadre, che poi avrebbero giocato le une contro le altre per tutta la
settimana. Brendan Malone, assistente coach a Syracuse, più avanti
viceallenatore sia dei Detroit Pistons che dei New York Knicks e
brevemente anche head coach dei Toronto Raptors, avrebbe dovuto
scegliere una squadra, ma sua moglie aveva avuto un piccolo incidente in
moto e quindi chiese a Konchalski di scegliere per lui. Gli diede istruzioni
molto precise: voleva Greg Dreiling come centro e Aubrey Sherrod, un
ragazzo di Wichita di cui si parlava molto, come guardia. In diverse
occasioni, nel passato, Malone aveva scelto giocatori che fino ad allora non
si erano mai visti, perché aveva un sesto senso per l’intera faccenda.
Quando arrivò, il giorno dopo il draft, chiese a Konchalski se avesse preso
Sherrod: «No» rispose Konchalski. «Ho scelto un ragazzo della Carolina
del Nord, Mike Jordan». Malone era furioso: «Chi diavolo è Mike Jordan?»
Konchalski rispose: «Brendan, non penso che rimarrai deluso. Anzi, credo
che sarai piuttosto contento».
Da par suo, Michael Jordan era ovviamente entusiasta di essere al Five-
Star. Era arrivato a Pittsburgh insieme a Leroy Smith ed entrambi erano
esaltati e terrorizzati allo stesso tempo. Un conto era andare al campo di
Dean Smith a Chapel Hill, dove loro erano tra le poche stelle già affermate
a livello di high school e dove il loro stesso allenatore aveva già delle
conoscenze, ma era tutt’altra cosa andare in un posto dove c’erano tutti i
migliori giocatori d’America, quel tipo di giocatori di cui già si scriveva
nelle riviste di basket. Avevano sentito che c’erano diciassette All
Americans nel campo. Pareva che alcuni di essi avessero ricevuto
cinquanta, sessanta, anche cento lettere da college interessati e che le
tenessero nelle scatole delle scarpe. Fino a quel punto, né Jordan né Smith
avevano ricevuto molte lettere, forse da North Carolina–Wilmington, East
Carolina o Appalachian State, ma non molto altro. Era un’occasione da non
perdere, un’occasione in cui avrebbero potuto salire di livello, essere scelti
da una delle migliori scuole e vivere i propri sogni, oppure fallire e forse
non prendere neppure una borsa di studio. Il padre di Leroy Smith era un
saldatore per la Marina e la madre era una sarta: se avesse giocato bene,
avrebbe tolto molta pressione finanziaria ai suoi genitori, in termini di rate
del college. Inoltre, credevano di star rappresentando Wilmington: era
importante fare una buona impressione e non sembrare dei campagnoli
capitati lì per caso.
Il campo fu un ritorno a un’era passata del basket, del tutto priva di
lustrini. Non era solo un posto dove i giovani giocatori arrivavano pieni di
speranze, pensando che, se avessero giocato bene, avrebbero avuto la strada
spianata verso il college e, forse, verso il professionismo. Ma era anche un
posto dove anche molti ottimi giovani allenatori si presentavano mostrando
aspettative simili: nel loro caso diventare assistente allenatore, poi capo
allenatore al college e poi, forse, un giorno, tra i professionisti. In un certo
senso, Garfinkel era come un allibratore nel mondo delle corse dei cavalli.
Ma anziché carne equina, vendeva adolescenti che giocavano a
pallacanestro. La sua grande abilità e il suo maggior contributo erano il
fatto di essere capace di scegliere i giocatori giovani che ancora nessuno
conosceva e presentarli al resto del mondo, in modo che le persone, più
avanti, potessero dire che il tal giocatore era stato scoperto al Five-Star.
Garfinkel stesso parlava come il personaggio di un hard boiled e il suo vero
ufficio a New York, coerentemente, era un tavolo nel retro di una
pasticceria.
Anni dopo, Garfinkel avrebbe battezzato quella settimana come la nascita
di una stella. Ricordava il momento in cui stava per iniziare il draft: tutti si
aspettavano che Konchalski scegliesse Aubrey Sherrod, invece scelse
Michael Jordan. Intenzionato a capire di cosa fosse capace questo ragazzo
della Carolina del Nord, Garfinkel cambiò la sua agenda per poter vedere la
prima partita di Jordan. Tutto quello di cui aveva bisogno era vedere tre
possessi. «In realtà me ne bastò uno». Jordan stava difendendo: strappò la
palla all’avversario e arrivo fino all’altra parte del campo. Non schiacciò,
perché le schiacciate non erano permesse. Invece scattò, con il cambio di
passo più esplosivo che Garfinkel avesse mai visto: si avvicinò al canestro,
rallentò leggermente e segnò appoggiando delicatamente al tabellone.
Era un campo di addestramento e c’era un doppio timore sulle
schiacciate: la paura che un ragazzo potesse farsi male e soprattutto la
sensazione che se ai ragazzi fosse stato permesso di schiacciare, non
avrebbero fatto altro, pensando che quei gesti atletici fossero un biglietto
per il livello successivo. Ma anche senza schiacciate, le partite al Five-Star
erano decisamente più libere di quelle del campo di Smith e diedero a
Jordan molte più opportunità per mostrare le sue doti atletiche.
Garfinkel guardò qualche altro possesso e rimase strabiliato: Michael
Jordan era il giovane più esplosivo che avesse mai visto. Era più rapido di
chiunque altro e saltava molto di più, eppure giocava con uno straordinario
livello di eleganza e di controllo del corpo. Molti giovani giocatori con quel
grado di atletismo, secondo Garfinkel, tendevano a perdere il controllo,
come se pensassero che il loro talento atletico fosse sufficiente. Ma il modo
di giocare di questo ragazzino era così raffinato da dimostrare molti più
anni di quelli che aveva e un più alto livello di esperienza.
Garfinkel aveva preso Jordan per due settimane. La prima fu qualcosa di
miracoloso: MVP del campo e MVP dell’All Star Game. Stava
cominciando a farsi un nome. Brendan Malone si innamorò di lui, non solo
per le sue qualità, ma anche perché era estremamente ricettivo a qualsiasi
insegnamento. La cosa migliore sarebbe stata riuscire a portarlo a Syracuse,
pensava Malone, ma mentre guardava Jordan fare vari esercizi tutte le
mattine, notò che dovunque andasse era seguito da una grossa ombra:
quella di Roy Williams o di qualche altro membro dello staff di Carolina.
Qualcuno di quell’università era sempre lì con lui.
Anche Buzz Peterson andò al Five-Star Camp, ma una settimana dopo
Jordan. Quando arrivò, l’unica persona di cui si stava parlando era Michael.
Anche stavolta, riuscirono a passare dei momenti molto piacevoli insieme.
Entrambi ora facevano parte dell’élite di stelle della high school che
stavano per entrare nel loro ultimo anno. Peterson aveva già giocato al B/C
Camp, dove aveva fatto molto bene e migliorato la propria reputazione,
oscurando Aubrey Sherrod. Era stato uno di quei momenti in cui era in
striscia, e metteva tutti i tiri che prendeva. Anni dopo si ricordava ancora la
sua media in quel giorno fatale: 12 su 15. Dopo la partita Eddie Fogler lo
avvicinò e gli disse che North Carolina lo voleva. «Un sacco di altra gente ti
cercherà» gli disse Fogler, «ma noi ci teniamo che tu sappia quanto ti
vogliamo. Vogliamo che tu sappia che secondo noi siamo il posto giusto per
te». Il futuro di Peterson ora sembrava assicurato.
Durante quella settimana al Five-Star il rapporto tra lui e Jordan divenne
più stretto. Giocavano uno contro l’altro nel torneo interno e in quello 1
contro 1: vinse Jordan, anche se di poco. Si piacevano, e quella settimana
Jordan suggerì che sarebbero potuti diventare compagni di stanza a North
Carolina. «Potremmo vincere un campionato nazionale insieme» disse
Jordan e, con l’innocenza e l’entusiasmo della gioventù, Peterson fu
immediatamente d’accordo. Sarebbero andati a North Carolina insieme,
sarebbero stati in camera insieme e avrebbero vinto il campionato nazionale
insieme. Si scambiarono i numeri di telefono e decisero di rimanere in
contatto.
La lotta per ingaggiare entrambi fu dura, ma Carolina partiva un po’ più
avanti degli altri. Quando era più giovane, Jordan si era interessato a North
Carolina State perché David Thompson, un giovane di impressionante
talento e che era sempre sembrato di un altro livello, aveva giocato lì. Ma
dopo che Jordan era andato al campo di Dean Smith e dopo che Smith
stesso aveva mostrato un così forte interesse personale, Carolina era
diventata la prima scelta. (Anni dopo, dopo aver incontrato molte persone
importanti e potenti incluso il Presidente Bush, a Jordan fu chiesto se era
stato nervoso quando aveva dovuto incontrare il Presidente. No, rispose,
l’unica persona che lo aveva reso nervoso era Dean Smith).
Andò a Carolina, mentre Leroy Smith finì a North Carolina-Charlotte,
dove fece molto bene, diventando il secondo miglior rimbalzista della
scuola dopo Cedric Maxwell.
Carolina era la miglior scuola dello Stato. Jordan aveva già visitato
Chapel Hill durante un programma di educazione civica per studenti delle
minoranze. Il suo carissimo amico Adolph Shiver studiava già lì e anche
sua sorella Roslyn intendeva frequentarla. Inoltre, alla famiglia Jordan
piaceva Smith ed entrambi i genitori si erano particolarmente affezionati a
Roy Williams, che era stato il primo contatto di Michael e si era tenuto in
contatto con loro. Allora, Williams era l’ultima ruota del carro dello staff di
Carolina. Faceva tutto il lavoro sporco e prendeva lo stipendio più basso:
quando arrivò Michael, $2.700 per il primo anno e $5.000 per gli altri. Uno
dei motivi per cui Michael Jordan rimase così leale alla sua università negli
anni successivi erano i sacrifici che uomini come Williams avevano fatto
quando lui era lì, spaccandosi le ossa per stipendi minimi. Avevano fatto
molti sacrifici, pensava, per rendere lui e i suoi amici giocatori migliori: era
grato per quel dono e sentiva di dover loro qualcosa in cambio.
Anche il padre di Michael si sentiva in debito. James Jordan apprezzava
immensamente la compagnia di Roy Williams e qualche tempo dopo sua
moglie avrebbe detto al coach: «A Ray [chiamava così il marito, in privato]
piaci molto perché ti ritiene un uomo che si guadagna da vivere lavorando
sodo, e questo ha sempre un certo fascino su di lui. Anche lui si vede così».
Durante l’ultimo anno di high school di Michael, Williams parlò con Jordan
senior di quanto amasse tagliare la legna, sia per avere del carburante che
per fare esercizio, e del fatto che avesse bisogno di una stufa a legna per il
suo appartamento, perché voleva ridurre le bollette del riscaldamento.
James Jordan gli chiese le misure del suo camino e disse di potersi occupare
lui del suo problema. Sarebbe stato un piacere: James Jordan amava il
lavoro manuale e gli piaceva realizzare stufe per gli amici. Questa, disse,
sarebbe stata la trentunesima. Williams cercò di dargli qualcosa per la stufa,
ma Jordan si irritò: «Coach, oggi ho dovuto finire la stufa e sistemarla qui, e
sono molto stanco. Se dovrò anche tirarla fuori e riportarla fino a
Wilmington, mi arrabbierò parecchio». Anche se la NCAA aveva regole
severissime riguardo ai regali dei giocatori agli allenatori, non ne aveva
riguardo ad assistenti allenatori che accettavano stufe fatte in casa dai
genitori dei giocatori. La stufa rimase lì, un collante ulteriore tra Michael
Jordan e Chapel Hill. Quando Williams salì di grado nello staff tecnico di
Carolina State e si trasferì in una casa più grande, James Jordan gli fece
un’altra stufa. Quando Williams accettò l’incarico a Kansas City e mise la
casa in vendita, l’acquirente domandò che stufa fosse. «È una Fisher?»
chiese, riferendosi a una nota marca di stufe. «No, è una Jordan». rispose
Williams.
Verso la metà dell’ultimo anno di high school di Jordan ci fu una breve
crisi. Kentucky, che da tempo era una potenza nel basket universitario, fece
un’offerta a Buzz Peterson. Per un momento, Peterson si innamorò di
Lexington: il basket, lì, era chiaramente lo sport più importante, perché il
programma di football era molto meno strutturato di quello di Carolina
State. Inoltre, quando vide la Wildcat Lounge, dove alloggiavano i membri
della squadra, rimase senza parole. Kentucky sembrava trattare i giocatori
come dèi e, ai suoi occhi di adolescente, la possibilità di diventare così
popolare nel campus in così poco tempo sembrò un sogno. Per un secondo,
tentennò. Poi, una domenica, disse agli agenti di Kentucky che sarebbe
andato lì. Il giorno dopo, il telefono suonò: era il suo allenatore alla high
school, Rodney Johnson, che aveva saputo da Randy Shepherd del suo
cambio di piani. È vera questa storia di Kentucky? Sì, era vera. Ma Carolina
State, a quel punto, cominciò a fare pressioni.
E i tentacoli di Carolina State erano piuttosto lunghi. Rodney Johnson era
un fedelissimo e lui e Roy Williams erano vecchi amici; avevano giocato
insieme e uno contro l’altro quando erano più giovani e Johnson lavorava
regolarmente al campo di Dean Smith. Non poteva permettere che il suo
nuovo pupillo andasse a una pericolosa rivale. Quello stesso lunedì,
Johnson parlò con Buzz per due ore e mezza della sua decisione,
mostrandogli in modo sottile (ma neppure così tanto sottile) i vantaggi di
Chapel Hill. Quella stessa sera Buzz ricevette una chiamata proprio da
Michael Jordan: Peterson sapeva che gli uomini di Carolina State avevano
chiesto al suo amico di fargli cambiare idea. «Ho saputo che stai pensando a
Kentucky» disse Jordan. Buzz rispose che era vero, che il programma gli
piaceva e che pensava di andare lì. «Pensavo che saremmo andati al college
insieme, che saremmo stati in camera insieme e che avremmo vinto il
campionato insieme» disse Jordan e Peterson sentì la delusione, se non
addirittura il dolore, nella sua voce.
Il giorno dopo Dean Smith in persona si presentò a casa dei Peterson. Fu
il colpo di grazia. Dato il suo prestigio nello Stato, era una cosa
straordinaria, molto più che ricevere il governatore o un senatore. Se Dean
Smith aveva attraversato lo Stato solo per ingaggiarlo e aveva dichiarato di
volerlo, perché lui rifiutava? Alla fine della settimana aveva cambiato idea
di nuovo e si era convinto ad andare a Carolina State. L’ultimo anno di
Peterson nella high school fu grandioso: venne nominato Mister Basket e
vinse un premio che la Hertz dava al miglior atleta dello Stato. L’annuncio
della scelta del college ebbe ampia risonanza mediatica nello Stato e la casa
di Peterson si riempì di giornalisti della tv e della carta stampata. Il padre di
Peterson, Robert, andò su tutte le furie per quella confusione. Credeva fosse
tutto troppo: troppa fama troppo presto per un ragazzo troppo giovane. Una
cosa che, ne era sicuro, avrebbe creato troppa pressione e troppe aspettative.
Pensava che stessero rubando una parte dell’infanzia di suo figlio: urlò ai
giornalisti di allontanarsi e di lasciare il ragazzo in pace. Di lasciare che
fosse solo un ragazzo.
Quell’inverno, Michael Jordan si presentò a Chapel Hill durante il
weekend del reclutamento. Tutti i presenti dovevano comportarsi bene, sia i
ragazzi all’ultimo anno di high school che erano stati scelti e che volevano
fare una buona impressione su Carolina, sia le matricole di Carolina stessa,
che dovevano fare buona pubblicità a Dean Smith e al suo programma. Le
porte di tutte le stanze erano aperte, così che le nuove reclute potessero
vedere come vivevano i giocatori. James Worthy, che ai tempi era al suo
secondo anno ed era già indicato come un possibile All American, era nella
sua stanza quando sentì una voce nel corridoio. La voce precedeva di poco
il suo proprietario, ed era parecchio spaccona mentre diceva cose come:
«Questa sarà la mia aula e io sarò una star qui». Worthy si chiese a quale
presuntuoso ragazzino appartenesse quella voce impertinente. Guardò nel
corridoio e vide un giovane magro, quasi scheletrico.
Pensò tra sé: ‘Se prendiamo questo ragazzino, dovremmo insegnargli un
po’ di buone maniere e un po’ di modestia. Anche se fosse davvero così
forte, noi qui non parliamo così, perché l’umiltà è una parte molto
importante del programma di Carolina State’. Era la prima volta che
incontrava Michael Jordan.
Jordan diede segno della propria presenza un altro paio di volte prima di
iniziare la sua carriera a Chapel Hill. Lui e Buzz Peterson continuarono a
essere amici e quell’estate giocarono insieme in un paio di All Star Game: il
Capital Classic di Washington (dove Michael giocò contro Patrick Ewing,
ai tempi ritenuto il miglior giocatore di high school del Paese) e il
McDonald’s All American Game a Wichita. Anche le loro famiglie si erano
avvicinate molto: al torneo organizzato da McDonald’s, i due ragazzi
partirono nello stesso quintetto e Peterson, che quel giorno segnò solo 10
punti, intuì che la carriera di Michael stava per decollare, perché ormai
aveva alzato il livello. Adrian Branch, un giocatore molto desiderato e che
stava per finire a Maryland, era nella loro stessa squadra e giocò molto
bene, ma Michael fu eccezionale. Segnò 30 punti con 13/19 al tiro (rimase
il record del torneo per diciassette anni) e prese 2 rimbalzi. Branch chiuse
con 24 punti e 8 rimbalzi. Dopo la partita, i giudici che dovevano votare
l’MVP – John Wooden, Sonny Hill e Morgan Wooten – scelsero Branch:
una decisione che appariva leggermente di parte, visto che Wooten era
l’allenatore di Branch. In ogni caso Wooten, scusandosi, si astenne dal voto.
Branch vinse, avrebbero detto gli altri due giudici più avanti, perché aveva
segnato i suoi punti nei momenti decisivi della partita.
La decisione sorprese alcune persone nel pubblico e alcuni degli altri
giocatori, perché Jordan era sembrato il giocatore più dominante. Subito
dopo che la decisione fu annunciata, Peterson guardò dietro la panchina e
vide sua madre e Deloris Jordan lasciare i loro posti e andare dritte verso i
giudici. Sembravano molto arrabbiate e lui pensò che ci fosse in vista una
terribile lite e che l’incolumità fisica di Morgan Wooten fosse a serio
rischio. Ma mentre le guardava avvicinarsi, vide anche Bill Guthridge,
assistente allenatore di Carolina, provare a tranquillizzarle e, alla fine,
riuscirci. Peterson pensò di aver capito da dove venivano la motivazione e
la competitività di Michael.
Dopo la partita, il commentatore della CBS Billy Packer stava lasciando
il campo insieme a Bob Geoghan, uno degli sponsor del torneo, quando
Deloris Jordan, ancora piuttosto irritata, lo incontrò e sì lamentò della
decisione sull’MVP. «Non mi preoccuperei più di tanto, signora Jordan»
rispose Packer. «È solo un All Star Game e ce ne saranno parecchi nel
futuro di Michael. Penso che suo figlio abbia una grande carriera davanti a
sé».
Se quella decisione di scegliere Branch come MVP fu un errore, alla fine
a pagarne le conseguenze fu Lefty Driesell, il coach di Maryland. Circa tre
anni dopo, mentre Jordan stava finendo il suo terzo anno, Carolina giocò a
casa di Maryland. Verso la fine, la partita era ancora piuttosto bloccata,
quando Jordan, imbeccato da uno splendido passaggio di Sam Perkins, andò
a canestro con una delle più roboanti schiacciate della sua carriera.
Sembrava, disse Roy Williams, che tutto il corpo fosse sopra il ferro. A
quella schiacciata si diede perfino un nome (la ‘rock-a-bye’) e avrebbe fatto
parte di moltissimi video con i migliori momenti della carriera di Michael.
«Fu una delle cose più feroci che io abbia mai visto fare a un giocatore di
college» ricorda Michael Wilbon, che ai tempi seguiva l’ACC per il
Washington Post e non sapeva nulla della storia passata tra Jordan e Branch.
«Fu un atto di pura rabbia, una sorta di ‘alla faccia tua’ all’ennesima
potenza». C’era un giocatore che stava guardando la partita quella sera e
che capì invece immediatamente le radici e le cause di quella schiacciata:
Buzz Peterson sapeva che Jordan amava sempre ripagare chi gli passava
davanti e questa, era sicuro, non era nient’altro che la ricompensa per
Branch che, seppur involontariamente, aveva commesso il clamoroso errore
di vincere l’MVP al torneo McDonald’s.
Ci fu un’altra importante occasione in cui fece parlare di sé, quell’estate.
Sia Peterson che Jordan furono scelti per la squadra che doveva giocare al
National Sports Festival, un torneo preolimpico organizzato a Syracuse,
nello stato di New York, cui partecipavano quarantotto giovani giocatori. Le
squadre erano divise per regioni: est contro ovest, nord contro sud. Tim
Knight, figlio del coach di Indiana, Bob, era uno degli allenatori: aveva solo
diciotto anni, ma aveva passato buona parte della sua infanzia nella palestra
di suo papà e sviluppato un buon occhio per il talento. Quando tornò a casa
disse a suo padre di aver visto un ragazzo che sarebbe diventato il miglior
giocatore di college del Paese. Il padre gli chiese chi fosse: «Uno che si
chiama Michael Jordan e che è già stato preso da Nord Carolina»
Qualche giorno dopo Bobby Knight, come fanno spesso gli allenatori,
che controllano sempre tutto, chiamò Dean Smith, ufficialmente per parlare
di altre cose, e poi fece finta di menzionare per puro caso che aveva sentito
dire che Smith aveva reclutato un ottimo giocatore. Anni dopo Knight
avrebbe detto che Smith aveva fatto una sorta di finta, probabilmente un
breve accenno a Peterson, che era sicuramente un giocatore più famoso. Ma
Knight aveva contrattaccato immediatamente: si riferiva a un ragazzo di
nome Michael Jordan. Aveva capito che all’altro capo del filo, Smith stava
diventando un po’ più cauto: Smith chiese perché si interessasse a Jordan.
«Perché mio figlio Tim l’ha visto a Syracuse e dice che sarà il miglior
giocatore dell’intero Paese».
«Beh, speriamo» rispose Smith, che stava già lavorando duro per limitare
le voci e l’attenzione mediatica su Jordan. «Sai che non è stato proprio una
delle prime scelte. È di Wilmington, qui vicino: è solo una scelta
regionale».
«Beh, Tim pensa che abbiate preso uno forte».
Qualche anno dopo Smith e Bob Knight si ritrovarono in un comitato che
doveva scegliere dei giocatori per la nazionale olimpica e stavano cercando
di decidere tra due ragazzi di cui nessuno sapeva molto. Tim Knight, che in
quel periodo andava a scuola a Stanford, aveva visto giocare entrambi e
Bobby Knight guardò gli appunti del figlio, che dicevano che tutti e due
erano piuttosto limitati.
«Beh» disse Smith, «non so se conosci Tim Knight, ma se dice che non
sanno giocare, allora non sanno giocare».
6
Chapel Hill, 1981

Nel 1981, quando Michael Jordan iniziò il suo primo anno di università,
Dean Smith era all’apice del suo potere e della sua reputazione. Il suo
programma era considerato il migliore del Paese, anche se doveva ancora
vincere il suo primo campionato nazionale. Bob Ryan, il decano dei
giornalisti dell’NBA, aveva notato che Smith non ingaggiava i suoi
giocatori: li sceglieva. Intendeva dire che il programma di Smith era così
ricco e potente che lui, a differenza degli altri allenatori, aveva il lusso di
poter fare delle scelte e prendere solo i giocatori che voleva e che si
sarebbero adattati rapidamente al programma, lasciando stare ragazzi
talentuosi ma che non si sarebbero piegati alle sue richieste, particolarmente
rigorose. Era una definizione piuttosto lusinghiera e conteneva un buon
grado di verità, ma fece comunque arrabbiare Smith.
Gli allenatori che venivano in visita e i giocatori a cui era accordato il
considerevole onore di essere ammessi agli allenamenti di Carolina
venivano sempre colpiti da una serie di cose. La prima era quanto fosse
tutto tranquillo, quasi silenzioso, a parte il rumore dei palloni che
rimbalzavano, l’occasionale grido ‘Matricola!’ quando la palla finiva fuori,
un breve colpo di fischietto che indicava la fine di un esercizio e l’inizio di
un altro, o il rumoroso grugnito di un giocatore che superava la linea finale
di uno degli infiniti esercizi fisici che Smith faceva fare agli atleti per
tenerli al massimo della condizione fisica. Un’altra cosa che si notava era
l’organizzazione brillante e attenta, con una diversa tabella affissa ogni
giorno in bacheca, che stabiliva nel dettaglio come sarebbe stato utilizzato
ogni minuto di allenamento. Rick Carlisle, che aveva giocato contro
Carolina nei suoi anni a Virginia State, e che fu ammesso ad assistere agli
allenamenti mentre lavorava come assistente allenatore tra i professionisti,
pensava che guardare i Tar Heels allenarsi fosse una rivelazione. Non solo
era tutto organizzato al secondo, ma c’era sempre uno degli allenatori in
piedi di fianco al campo che alzava le dita per far vedere quanti minuti
sarebbe durato ogni esercizio. Non c’era da stupirsi che, quando aveva
giocato contro di loro, la squadra gli fosse sembrata sempre così calma e in
controllo, a prescindere da quanto fosse frenetico l’ambiente in palestra. La
risposta era lì, in quegli esercizi in cui replicavano a ripetizione ogni
possibile situazione di gioco. Come avrebbero giocato, per esempio quando
erano sotto di 6 punti a quattro minuti dalla fine. Nulla avrebbe mai dovuto
sorprenderli e nulla, pensò mestamente Carlisle, lo faceva.
A nessuno era consentito arrivare in ritardo all’allenamento, perché non
dovevano mai essere indietro sulla tabella di marcia: il ritardo danneggiava
tutta la squadra, e nulla avrebbe dovuto mai danneggiare o rallentare la
squadra. Quando andavano in trasferta, tutto doveva essere fatto nel modo
giusto: i giocatori dovevano essere ben vestiti e non dovevano essere in
ritardo. Dovevano tutti regolare gli orologi su quello che chiamavano GST,
Guthridge Standard Time, in onore del secondo di Smith, Bill Guthridge,
che molto spesso viaggiava con loro. Nel primo anno di Jordan, mentre
l’autobus della squadra, spaccando il minuto, stava lasciando Carmichael
per andare a giocare gli ACC, una macchina si avvicinò: nella macchina
c’era James Worthy, la stella della squadra. A causa di un semaforo rosso
non fu in grado di attraversare la strada e raggiungere l’autobus, che partì
esattamente all’orario stabilito: Worthy dovette seguirlo in macchina,
sapendo che avrebbe ricevuto un bel richiamo disciplinare. In un’altra
occasione, tre titolari arrivarono tre minuti in ritardo al pranzo pre-gara,
perché erano andati a farsi tagliare i capelli e il barbiere era stato lento.
Partirono dalla panchina, e furono mandati in campo tre minuti dopo
l’inizio della partita.
A Dean Smith piaceva essere responsabile di ogni cosa e non amava le
sorprese, quindi a Carolina tutto era controllato con la massima attenzione:
era un sistema estremamente gerarchico dove tutti dovevano aspettare il
proprio turno. L’allenatore, per esempio, prendeva le decisioni cruciali su
quello che avrebbe fatto la squadra (su quanto sarebbero durati i viaggi o in
quale ristorante avrebbero mangiato i giocatori) consultandosi con i più
esperti. Le matricole erano in fondo alla gerarchia, più in basso dei
magazzinieri. Durante gli allenamenti, quando una palla vagante stava
rotolando oltre le linee, qualcuno avrebbe gridato ‘Matricola!’ e un
freshman, non un magazziniere, avrebbe dovuto correre a prenderla. Se
l’allenatore ordinava una pausa per dissetarsi, questa sarebbe stata divisa
per classi. In un break di tre minuti, i più esperti sarebbero stati chiamati per
primi, trenta secondi dopo sarebbe toccato a quelli del terzo anno, un
minuto dopo a quelli del secondo anno e poi, con un solo minuto rimanente,
uno degli allenatori avrebbe detto, come se lo fosse quasi dimenticato: «Oh
già, le matricole».
Tutto era costruito attorno al concetto di squadra e contro l’idea di
individualità e i pericoli dell’ego smisurato. Era un sistema con una rigida
disciplina. Chi osservava da vicino Dean Smith pensava che negli anni
avesse deliberatamente scelto di perdere alcune partite che avrebbe potuto
vincere semplicemente lasciando il gioco più aperto e dando ai suoi
giocatori maggiore libertà, perché credeva che nel lungo periodo si andasse
più lontano lavorando come squadra e sacrificando l’individualità allo
sforzo comune. Pensava anche che il tipo di disciplina e altruismo che
richiedeva ai giocatori sarebbe stato loro più utile nella vita. L’espressione
di certe emozioni era decisamente sconsigliata. Se durante una partita un
giocatore riceveva un fallo tecnico, all’allenamento successivo sarebbe stato
obbligato a sedersi comodo a bordocampo bevendo una Coca-Cola mentre i
suoi compagni facevano degli sprint in più per espiare il suo peccato. Negli
anni, non furono molti i giocatori di Carolina che ricevettero falli tecnici.
Tutto ciò aveva molteplici scopi: rispetto per la squadra, rispetto per il
gioco, rispetto per l’avversario. I giocatori di Smith non avrebbero mai
dovuto far nulla che potesse umiliare l’avversario. Durante una partita
contro la molto debole Georgia Tech, Carolina era avanti di 17 punti e
Jimmy Black e James Worthy cominciarono a fare un po’ di circo: Black
passò un pallone dietro la schiena a Worthy, che schiacciò. Smith, furioso, li
fece immediatamente sedere in panchina entrambi. Arrabbiatissimo, gli urlò
contro: «Non fate mai più una cosa del genere! Non vi permettete di fare i
fenomeni! Vi piacerebbe se voi foste sotto di 17 e qualcuno lo facesse a
voi?»
Tutto questo definiva un’etica, un sistema e, alla fine, una comunità, una
situaizone che se non era unica era sicuramente un’eccezione
nell’ipercompetitivo mondo dello sport americano. Alla fine degli anni
settanta, Carolina aveva sostituito UCLA come miglior programma di
basket del Paese. Alcindor/Jabbar, Walton e altri loro fantastici compagni di
squadra (alcuni dei quali furono reclutati più facilmente dopo che il centro
ebbe firmato) e col tempo lo stesso John Wooden se n’erano andati, le
matricole non erano granché e il collante che teneva insieme UCLA
mostrava delle crepe. Diversi allenatori erano arrivati sperando di riportarla
alle glorie passate, ma se n’erano andati prima di quanto sperassero. Negli
anni ottanta il passato era una maledizione per UCLA, ma rinforzò
moltissimo la reputazione di Carolina.

Dean Smith era perfetto per gestire un programma di alta qualità in una
scuola di altrettanta qualità nel particolare periodo in cui allenò. Era un
momento in cui l’autorità degli allenatori non era ancora stata erosa dalle
crescenti pressioni provenienti dal mondo esterno, pressioni che
consentivano a giovani giocatori di talento di arrivare al college con troppo
potere contrattuale, di rimanerci brevemente (spesso a loro piacimento) e di
andarsene nei professionisti molto presto, perché un primo contratto
triennale da professionista veniva considerato sempre più spesso come un
surrogato per gli anni del college. Quando Smith si ritirò, sicuramente
quelle pressioni stavano cominciando a pesare anche su Carolina: i migliori
giocatori dei suoi ultimi anni, come Rasheed Wallace o Jerry Stackhouse
rimasero per un tempo più breve e arrivarono tra i professionisti molto
meno pronti rispetto a loro predecessori quali Worthy, Jordan o Sam
Perkins. Dean Smith era tranquillo e in un certo senso introverso, tutto il
contrario del suo affabile predecessore Frank McGuire, un uomo che aveva
il fascino tutto particolare dei migliori politici di origine irlandese della sua
generazione. Smith era perfettamente consapevole dei limiti intrinseci del
suo carisma personale. Altri allenatori erano emotivi, lui no. Sembrava
provare sempre lo stesso livello di emozioni e se c’era qualcosa per cui i
colleghi a volte lo criticavano in privato era la mancanza del sacro fuoco
prima delle partite, il fatto che trattava una qualunque partita di inizio
stagione e una partita delle Final Four con la medesima freddezza.
Probabilmente era una delle cose che i suoi giocatori amavano di lui: la sua
coerenza e il fatto che non giocasse mai con le loro emozioni.
I primi anni di Smith a Carolina erano stati difficili. All’inizio era un
totale estraneo, un uomo trasferitosi dal Kansas e senza radici locali in uno
Stato in cui quelle radici invece contavano molto. Un uomo riservato che
non si sentiva a suo agio in quel mondo semplice ma frenetico e
cameratesco che era lo sport. A modo suo, era anche molto ambizioso e
motivato: lasciava pochissimo al caso e possedeva una concezione del bene
e del male piuttosto solida, che andava molto oltre il basket. Il basket era
quasi un’estensione della sua stessa religiosità.
Nei primi tempi ebbe difficoltà a ingaggiare giocatori, a causa delle
violazioni commesse da McGuire prima di lui. Le sue prime squadre non
ebbero molto successo e Billy Cunningham, uno dei suoi primi grandi
giocatori – ma anche un uomo che una volta era sceso di corsa dall’autobus
della squadra per abbattere un’effige di Smith che stava venendo appesa nel
campus – si chiedeva sempre se Smith avrebbe mai potuto avere successo
venticinque anni dopo, in un’altra epoca. Il problema, secondo
Cunningham, non era il suo talento come allenatore, quanto piuttosto se con
la crescente pressione a vincere, e a vincere immediatamente, Smith
avrebbe avuto la possibilità di fondare un sistema e creare quella dinamica
trionfante che alla fine sarebbe stata così di successo per lui e per
l’università. Se c’era un collante che teneva insieme il sistema di Carolina,
era il fatto che ogni giocatore poteva rendersi conto che, per lo staff tecnico,
nessuno era una star. Il dodicesimo uomo in panchina era trattato
esattamente come il miglior giocatore e Smith avrebbe lottato per aiutare un
panchinaro a trovare un lavoro dopo la laurea tanto quanto lo avrebbe fatto
per il giocatore più dotato della squadra e, fuori dal campo, li avrebbe
trattati entrambi allo stesso modo.
Cunningham, che mentre giocava a Carolina era stato uno dei migliori
giocatori del Paese ed era stato scelto piuttosto presto nel draft, credeva che
Smith fosse stato più duro con lui che con altri giocatori meno bravi,
fulminandolo col suo sarcasmo se tirava troppo presto durante un possesso
o non portava un blocco nella maniera corretta. La lezione era chiara: non
c’erano preferiti e delle eccezionali abilità non garantivano a nessun
giocatore dei favoritismi da parte dell’allenatore. Al contrario, Smith era
decisamente convinto di doversi aspettare molto di più da quelli a cui era
stato dato molto di più. Quando i giocatori vedevano l’intrinseca
imparzialità del programma, la mancanza di favoritismi per i migliori e
imparavano che la correttezza dell’allenatore non dipendeva dalla loro
media punti, accettavano quasi tutti le regole, i migliori come i peggiori,
sapendo nel profondo del cuore che era meglio essere spinti che non essere
coccolati.
Il programma continuò ad accrescere il suo successo e Dean Smith
diventò, che gli piacesse o meno, molto più famoso di chiunque altro
nell’università. I suoi amici pensavano che quella fama lo mettesse a
disagio, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nel fatto che un allenatore
potesse diventare più famoso e più potente dei migliori professori o del
rettore di una grande università. (Non fu felice quando la UNC costruì un
nuovo palazzetto e gli diede il suo nome. Ufficialmente Dean E. Smith
Center, per tutti Dean Dome. Lo accettò solo perché pensava che
l’università ne avesse bisogno e perché le persone che avevano preso quella
decisione gli avevano assicurato che, se non avessero usato il suo nome,
l’investimento sarebbe potuto andare molto male). Smith era anche molto
consapevole dei benefici della sua posizione. In un certo senso, diventò un
ottimo talent scout proprio perché rimase fedele ai suoi principi: non
avrebbe mai potuto essere come Lefty Driesell, brillante e sicuramente più
animoso talent scout che non nascondeva nulla di se stesso né delle sue
scelte: un imbonitore allegro e della vecchia scuola. Al contrario, Smith era
involontariamente freddo e distaccato, quasi come un rispettato parroco
locale che per puro caso era tanto devoto a un ideale di vita buona, virtuosa
e religiosa quanto al concetto di vittoria nel basket. (Le convinzioni
religiose di Smith erano una parte importante della sua vita. Per molto
tempo fu un fumatore ma sembrava vergognarsene, cercando di nascondere
le sue pause sigaretta quasi come un ragazzino che cercava di ingannare i
suoi genitori. Gli piaceva anche bere, ogni tanto, ma faceva quasi di
nascosto anche quello). A causa della natura molto formale della sua
personalità, spesso trattava meglio i genitori che non i ragazzi. Con i
familiari la sua mancanza di carisma era spesso un’ottima risorsa; era molto
bravo a rassicurarli, dicendo loro che sapeva cos’era giusto per i loro figli
nel lungo periodo e che i suoi valori non erano nient’altro che un’estensione
dei loro.
La sua grande forza non erano le sue parole ma la sua vita. Il suo
programma era la sua verità. E per più tempo l’avesse gestito più forte
sarebbe diventata, anno dopo anno, la sua forza magnetica. Alla fine, quello
che riuscì a ottenere, le vite che i suoi giocatori condussero e la loro
devozione per lui raccontano Dean Smith meglio di qualunque altra cosa.
Tutto ciò aveva dei benefici: gli permetteva per esempio di scegliere
giocatori in modo più sobrio e più delicato rispetto a molti avversari. Era
particolarmente bravo a trattare con persone vecchia scuola e timorate di
Dio come i Worthy o i Jordan, che avevano cresciuto i loro figli in un rigido
sistema di valori, apprezzavano il lavoro duro e non si fidavano di talent
scout che promettevano una strada in discesa verso il successo.
Dean Smith non prometteva mai nulla. Altri programmi regalavano soldi
e macchine, o garantivano un certo tempo in campo, assicurando alle
matricole che sarebbero state subito tra i titolari. I ragazzi all’ultimo anno di
high school potevano arrivare in un campus come matricole e trovare una
loro foto con l’uniforme della scuola nel quintetto iniziale della squadra. Lo
stile di Smith era tutto il contrario. Quello che diceva ai giocatori era: noi
non ti promettiamo quanto giocherai, ma pensiamo che tu possa giocare qui,
pensiamo di poterti rendere un giocatore migliore, sappiamo che riceverai
un’educazione straordinaria e crediamo che ti piaceranno le persone nel
nostro programma, specialmente gli altri giocatori. La premessa era che
tanto più bravi erano i ragazzi, tanto più probabilmente Carolina li avrebbe
presi, e allo stesso tempo i ragazzi scartati erano quelli che nel lungo
periodo avrebbero causato problemi. Questo stile di selezione piuttosto
morbido funzionava molto bene con alcuni genitori.
Negli anni sessanta, settanta e ottanta, la posta in palio nel mondo del
basket divenne sempre più importante e i riconoscimenti per i responsabili
dei migliori programmi sempre più grandi, ma Smith rimase
straordinariamente fedele a se stesso. Molti allenatori più giovani che erano
considerati ottimi talent scout stavano mettendo in mostra, innanzitutto, loro
stessi e solo in un secondo momento i loro programmi; Smith invece non
fece mai quell’errore. Vendeva sempre il programma e l’università, e il suo
era un ottimo programma in un’ottima università, dove un ragazzo, anche se
non fosse mai arrivato tra i professionisti, sarebbe stato preparato per
affrontare una carriera e avrebbe avuto diverse possibilità. Usava inoltre i
giovani di talento già ingaggiati da Carolina come arma segreta: erano
prove viventi dell’eccellenza del programma e di reclutatori di straordinaria
efficienza, perché i ragazzi delle high school conoscevano già i loro nomi e
speravano di seguire le loro impronte. Era come se dicessero: «Siamo un
club esclusivo, un gruppo di amici. Vieni anche tu, entra a far parte di
qualcosa di unico. Ti piacerà e tu piacerai a noi».
La tradizione era importante. A Chapel Hill il passato non solo era vivo,
non solo era considerato sacro, ma era anche abilmente usato per aprire le
porte del futuro. Il fascino della storia, tutte quelle grandi squadre e tutti
quei grandi giocatori che avevano attraversato i corridoi di Chapel Hill ed
erano diventati poi famosi anche tra i professionisti erano una componente
importante della sua aura mistica, sacrale e molto concreta. Tutto ciò non
era una parte astratta dell’ingaggio dei giocatori: era un punto centrale. I
migliori talent scout di Carolina erano i giocatori che erano già inseriti nel
programma o quelli che si erano da poco laureati e avevano fatto il salto tra
i professionisti. Erano sempre pronti ad alzare il telefono per dire a un
ragazzo che poteva diventare un giocatore di grande valore, quanto avessero
amato giocare a Carolina, sfruttando l’autorità che avevano ottenuto con i
loro successi. E così poteva succedere che una sera un ragazzino delle
superiori, tremando, mettesse giù il suo telefono di casa e il giorno dopo
potesse dire ai suoi amici che James Worthy o Michael Jordan lo avevano
chiamato per suggerirgli Carolina. Ma ancor più degli ex studenti, erano
l’affabilità, l’entusiasmo degli attuali giocatori e il cameratismo che si
creava nel programma a essere così efficaci. Ovviamente gli atleti
riempivano le conversazioni di riferimenti alle partitelle che giocavano in
estate, quando i grandi ex giocatori (Phil Ford, Walter Davis, Mitch
Kupchak, Mike O’Koren e, più avanti, James Worthy, Sam Perkins e
Michael Jordan) tornavano e giocavano con loro, tutti i giorni. Era roba che
dava alla testa.
Inoltre, tutto ciò era in netto contrasto con molti altri college, dove le
scelte erano fatte esclusivamente dagli allenatori e dagli assistenti allenatori
e dove i responsabili apparivano decisamente preoccupati dalla possibilità
che i giocatori attuali interagissero con le matricole quando non c’era
nessun altro in giro. In molte scuole si cercava in tutti i modi la strada più
veloce e ciò rendeva il terreno, dal punto di vista etico, piuttosto scivoloso.
In quelle università, i programmi molto più cinici e gli allenatori non
toglievano mai gli occhi dai giocatori, per paura che parlassero con le
matricole delle strabilianti promesse che erano state fatte loro ma che poi
non erano mai state mantenute una volta arrivati al campus. In alcune
scuole con programmi di basket o di football eccezionali e di straordinario
successo, si creava un forte senso di lealtà tra gli ex alunni e il corpo
studentesco; a Carolina, i sentimenti più forti arrivavano direttamente dai
giocatori.
Nessuna scuola sfruttava il proprio passato con più abilità di Carolina.
Alla fine del suo anno da rookie con i Washington Bullets, Mitch Kupchak
ritornò a Chapel Hill e gli fu presentato un ragazzino allampanato di soli
quindici anni. «Mitch, vorrei farti conoscere James Worthy» gli disse Roy
Williams. «Speriamo tutti che James possa diventare una grande stella qui».
E Kupchack, anni dopo, ancora ricordava quella volta in cui era andato da
Los Angeles a New Orleans per vedere Carolina giocare contro
Georgetown. Era il primo anno di Michael Jordan e Kupchak era nell’atrio
dell’università quando Bill Guthridge arrivò insieme a un ragazzo magro e
disse: «Michael, vorrei farti conoscere uno dei migliori giocatori del
passato: Mitch Kupchak».
Poiché a Chapel Hill c’erano molte regole e poiché si richiedevano
sacrificio e pazienza, era fondamentale che i ragazzi accettassero le regole
del gioco. Col tempo, lo facevano quasi tutti ed era estremamente raro che
uno studente, deluso, si trasferisse altrove. I giocatori si lasciavano
coinvolgere perché lo scopo finale diventava ovvio: le regole esistevano per
renderli giocatori migliori e persone migliori, non per rendere Smith più
famoso o più ricco, o per fargli avere un ruolo da capo allenatore in NBA.
La spinta veniva soprattutto dalla pressione dei compagni, dal fatto che i
ragazzi più grandi e le star del passato lo avessero accettato e avessero
aspettato il loro turno. Chi si credeva di essere una matricola per dire che le
regole non valevano per lui quando i migliori giocatori della squadra si
erano fatti portavoce di tutto il sistema?
Era come se fosse un’università dentro l’università, con le sue particolari
lezioni che riguardavano più la vita in generale che il basket. C’erano dietro
quei valori tradizionali, quasi calvinisti, che erano costantemente a rischio
nella cultura degli sport americani sempre più materialista e guidata dalla
forza sempre più predatoria di una nuova cultura dello spettacolo, in cui i
soldi potevano comprare ogni cosa, anche e soprattutto la lealtà. L’etica di
Carolina sembrava venire da un altro tempo: più ci si sacrificava per un
obiettivo – cioè più alto dal punto di vista personale era il prezzo da pagare
– più quel sacrificio, un giorno, avrebbe avuto valore. Ciò che si otteneva
troppo facilmente non aveva nessuna importanza. C’era anche un secondo
corollario, ed era semplicemente che la squadra era più importante del
singolo, a prescindere da quanto quest’ultimo fosse rispettato, talentuoso o
spinto da qualcuno. Tutto ciò che faceva sul campo lo faceva insieme ai
compagni e per i compagni. Più avrebbe pensato a loro e meno a se stesso,
meglio sarebbe stato.
Quando era ora di lasciare Carolina, i giocatori avevano ormai stabilito
un fortissimo legame con quell’uomo distaccato, spesso burbero e che a
volte sembrava irraggiungibile, ma che aveva giocato un ruolo
fondamentale nella loro vita e in quella dei loro amici più intimi. Quando
stavano per andarsene, quello stesso uomo calava la maschera e parlava
loro come un amico, non solo come un’autorità. Il punto essenziale dei loro
sentimenti era la semplice convinzione che lui si fosse occupato di loro più
come uomini che come giocatori di basket, e che avesse lavorato più
duramente per prepararli alla vita che non all’NBA. Come avrebbe detto
James Worthy anni dopo: «Era come se ci fosse una lunga lista di cose che
Dean Smith poteva insegnarti, e il basket fosse in fondo a quella lista:
prepararti alla vita era più importante di ogni altra cosa. Ci insegnò che
bisogna essere pazienti e aspettare il proprio turno, essere cortesi con le
persone e rispettare i compagni di squadra e il gioco».
Quello che rafforzava il legame, ovviamente, era il fatto che Smith
sembrava prestare loro più attenzione dopo che si erano laureati, aiutandoli,
se possibile, a trovare una strada e dedicando più energie ai giocatori con un
talento più limitato che a quelli le cui capacità erano tali che non avrebbero
avuto problemi dopo la laurea. Tra i professionisti, i general manager
avevano imparato a essere estremamente cauti con i giocatori che Dean
Smith spingeva in modo particolare: era considerato il suo modo, spesso
inconscio, di ripagare i meno talentuosi per gli anni di fedeltà. A volte
sembrava che si dedicasse realmente a loro solo una volta che fossero
diventati appetibili per qualcuno.
I ragazzi di Dean Smith avrebbero dovuto assistere alle lezioni e la loro
frequenza era controllata in modo rigido. Dovevano anche andare in chiesa,
a meno che non avessero una nota dei loro genitori che dichiarava che non
ci andavano neanche a casa. C’erano anche un sacco di lezioni che non
avevano nulla a che fare col basket: lezioni su come avere a che fare con i
media, sul fatto di guardare i giornalisti negli occhi quando si parlava con
loro e su come sapere cosa dire prima di iniziare a parlare. Insegnava loro
ad avere a che fare con le persone che volevano parlare con loro, come
vestirsi e cosa ordinare in un ristorante, e come alzarsi in piedi quando una
donna si avvicinava al tavolo. I rapporti che il programma creava – con la
scuola, con l’allenatore e soprattutto tra i giocatori – erano davvero notevoli
e probabilmente non avevano eguali nello sport universitario. Avrebbero
sempre chiamato Smith ‘Coach’. Uomini adulti, di trenta o quarant’anni,
che lo consultavano sempre prima di prendere decisioni importanti per le
loro carriere. Quando le squadre professionistiche di basket si sfidavano in
partite decisive per avere un buon posizionamento nella griglia dei playoff,
prima della palla a due gli ex giocatori di Carolina che ora militavano in
squadre avversarie si ritrovavano a bordocampo a parlare del Coach. Un
anno George Karl, classe del 1973 e allenatore dei Seattle SuperSonics,
parlò con Mitch Kupchak, classe del 1976 e assistente general manager dei
Los Angeles Lakers, loro acerrimi rivali nella Western Conference, della
possibilità, mentre andavano all’All Star Game di New York, di fermarsi a
Chapel Hill per incontrare il Coach e guardare una partita tra Carolina e
Duke. Lo fecero. Quando una terribile tragedia colpì la famiglia di Scott
Williams, ex giocatore di Carolina, fu una tragedia di tutta Carolina. Suo
padre uccise sua madre e poi si tolse la vita. Al funerale della madre di
Williams, a Los Angeles, un dirigente dell’NBA notò che oltre a Dean
Smith c’erano anche Mitch Kupchak e James Worthy, due che erano stati a
Chapel Hill molto prima di Williams. «Non sapevo lo conoscessi» disse.
«È uno di noi» rispose Kupchak.
Donnie Walsh, che era parte del cerchio magico di Carolina e, nel 1998,
allenatore degli Indiana Pacers, pensava che ci fosse una certa
contraddizione professionale nel fatto che alcuni uomini di Carolina
cercassero di gestire a loro volta un programma. Il problema era che Dean
Smith era una figura così potente nelle loro vite che erano abituati ad
ascoltarlo e a prenderle le sue parole come Vangelo. Ma non avrebbero
potuto più farlo se fossero diventati dirigenti di altre squadre, perché i suoi
interessi e i loro non sarebbero stati necessariamente compatibili.
L’interesse primario di Smith era ottenere buoni posti per i suoi ultimi
ragazzi, il loro interesse sarebbe stato invece quello di migliorare il loro
programma: le due cose non erano per forza in correlazione. Larry Brown,
un altro membro del gruppo di Carolina, continuò ad ascoltare un po’
troppo e prese alcuni dei ragazzi di Smith: all’inizio il Coach lo apprezzò,
ma poi, quando furono tagliati, si infuriò, perché far fuori uno dei suoi
ragazzi era come far fuori lui.
Chuck Daly, ex allenatore di Penn State, dei Detroit Pistons e del Dream
Team, disse che a Carolina c’era un vero e proprio culto. Daly era uno dei
pochi estranei a cui era permesso partecipare alle rimpatriate che si
tenevano ogni estate al campo da golf di Pinehurst, sotto la supervisione di
Smith. «Molti culti sono pericolosi. Questo è uno di quelli buoni, ma è
comunque un culto». Kevin Loughery, un ex allenatore NBA e un uomo
che aveva passato parecchio tempo ad allenare squadre piuttosto scarse e
che aveva ricevuto anch’egli una dispensa per giocare a golf a Pinehurst,
aggiungeva: «Non ho mai tifato per Carolina, ho sempre tifato per gli
outsider: sapevo fin troppo bene cosa significava avere la squadra meno
talentuosa. Ma dopo aver incontrato Dean Smith, ho scoperto che, se non
potevo tifare per lui, perché le sue squadre erano così piene di talento, non
potevo nemmeno tifare contro di loro, perché fui colpito dall’estrema lealtà,
dalla venerazione che così tanti uomini di successo avevano per lui e quel
sentimento che provano per lui era assolutamente sincero».
Non tutti quelli fuori dal programma, in particolare i suoi avversari,
ammiravano così tanto Dean Smith. Alcuni erano infastiditi da quella che
ritenevano solo una pietas di facciata, che nascondeva un istinto di
competizione feroce. Altri non sopportavano l’ombra di superiorità morale
che lui sembrava sempre proiettare, come se quello che faceva fosse sempre
un po’ più puro e meno materialista di quello che facevano loro; come se
allenare una squadra di basket forse più nobile che essere un avvocato o un
procuratore; come se allenare al college fosse più puro che allenare tra i
professionisti; e, infine, come se allenare a Carolina fosse più puro che
allenare da qualunque altra parte. Alcuni pensavano che il Coach fosse in
realtà molto meno immacolato dell’immagine che dava all’esterno, e altri
erano infastiditi dal modo in cui cercava di manipolare la stampa, cercando
sempre, nonostante la forza delle sue squadre, di avere il ruolo dell’outsider.
Secondo Lefty Driesell, Dean Smith era l’unico uomo della storia che ha
vinto settecento partite partendo sfavorito in tutte quante. Mike Krzyzewski,
l’allenatore di Duke, che gestiva un programma di forza e integrità del tutto
paragonabili e che aveva lottato con lui per molti anni per la vittoria finale e
per avere gli stessi ragazzini di straordinario talento in squadra, disse che se
fosse mai diventato Presidente degli Stati Uniti avrebbe nominato Dean
Smith capo della CIA «perché è la persona più subdola che io conosca».
C’era un’altra cosa molto importante di Smith che molti sportivi bianchi
non realizzavano: come Michael Wilbon aveva notato, era una divinità
molto più per l’America nera che per quella bianca. Gli afroamericani erano
perfettamente consapevoli della sua storia a Carolina e del fatto che Smith,
sulla questione razziale, fosse in netto anticipo sui tempi.
Wilbon segnalava che buone parti dell’America nera furono davanti a un
dilemma non indifferente nel marzo 1982, quando Georgetown, allenata dal
nero John Thompson, giocò contro Carolina nella finale di NCAA.
Thompson era considerato dai neri uno di loro, ma anche Smith era visto di
buon occhio, come una sorta di compagno di viaggio. Aveva garantito
l’integrazione nel suo programma molto prima di qualunque altra scuola del
Sud, mai con rigidità ma con grazia, abilità e anche tenerezza. A inizio
carriera, in un periodo in cui il suo stesso lavoro sembrava a rischio e
l’integrazione non era certo di moda, aveva anche aiutato a far assumere
degli afroamericani in un popolare ristorante del centro di Chapel Hill.
Già nel 1961, Smith aveva cercato di ingaggiare Lou Hudson, un ottimo
giocatore che non era stato in grado di soddisfare i requisiti accademici di
Carolina ed era andato a Minnesota, per poi avere un’eccezionale carriera
da professionista. Smith continuò a provare e alla fine riuscì ad abbattere il
muro, ingaggiando Charlie Scott nel 1966. Durante gli anni in cui Scott fu a
Carolina, Smith lo trattò con grande sensibilità, in uno Stato che non era
pronto a vedere una cosa così sconvolgente come un nero che giocava a
basket per la squadra dell’università. Smith rese Scott un membro della
famiglia fin dall’inizio, portandolo in chiesa fin dalla sua prima visita (una
chiesa bianca, non nera come Scott invece si aspettava). Quando un tifoso
delle università della Carolina del Sud urlò crudeli insulti razzisti a Scott,
due assistenti dovettero fermare Smith che stava cercando di andare sulle
tribune. A differenza di molti allenatori dell’epoca, che ingaggiavano dei
neri più per dovere che perché credessero davvero all’integrazione, Smith
andò fino in fondo: anni dopo, Scott diede al suo secondo figlio il nome del
suo vecchio allenatore. Gli effetti sui giocatori di colore erano tutt’altro che
indifferenti: «Mio padre» dichiarò James Worthy, «ammirava moltissimo
Smith, anche prima che mettesse piede in casa nostra. Non aveva finito le
elementari, ma leggeva i giornali e guardava Walter Cronkite alla
televisione, era un uomo che sapeva le cose, e sapeva quello che Dean
Smith aveva fatto a Chapel Hill e come si era comportato con Charlie Scott,
non solo facendolo giocare, ma rimanendo al suo fianco. Quello era il tipo
di uomo per cui voleva che io giocassi e questo era molto più importante
per lui dei soldi che offrivano altre scuole».

L’ideale percorso di carriera di un giocatore, a Carolina, prevedeva che si


sedesse in panchina per buona parte del primo anno: unica soddisfazione e
unica ricompensa sarebbero stati il fatto di allenarsi contro i titolari tutti i
giorni e il cameratismo con i compagni. Avrebbe fatto giusto qualche
cameo, più che altro per effetto psicologico. Nel secondo anno, se avesse
dimostrato che era stato giusto ingaggiarlo, avrebbe giocato circa sette-otto
minuti a partita. Al terzo sarebbe entrato nelle rotazioni, giocando circa
venticinque minuti a partita. Al quarto anno sarebbe stato il padrone,
prendendo le decisioni insieme all’allenatore.
A Chapel Hill il sistema e il concetto di squadra oscuravano
completamente le abilità individuali. Tra i professionisti, c’era la diffusa
convinzione che il sistema di Carolina soffocasse il talento individuale, ma
James Worthy, atleta brillante e perfetto esemplare di giocatore di Carolina,
la metteva in modo diverso: il sistema non era disegnato per ridurre
l’atletismo o l’individualismo, ma per ridurre il rischio. Il pallone doveva
sempre essere in movimento e l’obiettivo era creare buoni tiri per chiunque.
Questo significava che un atleta superlativo, che in qualsiasi altra scuola
avrebbe preso venticinque tiri a partita, a Carolina ne avrebbe presi al
massimo dodici o quindici. Nel suo ultimo anno James Worthy, a giudizio
unanime uno dei migliori giocatori di college del Paese e scelta numero uno
al draft, aveva una media di dieci tiri e 14,5 punti a partita; Michael Jordan,
che tra i professionisti avrebbe inanellato sette stagioni consecutive con più
di 30 punti a partita di media, nella sua ultima stagione al college ebbe una
media di 17,5.
Era difficile a volte per i talent scout dei professionisti dire quanto
effettivamente fossero forti i giocatori di Carolina, perché il programma
faceva sembrare alcuni di loro decisamente migliori di quanto non fossero
realmente – diventavano i beneficiari di quel sistema, vedendo esaltate le
loro qualità e nascosti, almeno in parte, i loro difetti – e allo stesso tempo, a
volte, nascondeva il talento di alcuni singoli che in altri sistemi avrebbero
avuto una media di 10 o 15 punti più alta. A fine anni ottanta, mentre i
salari dei giocatori professionisti continuavano a salire, sempre più giovani
di talento iniziarono a passare pochissimo tempo al college, rimanendo solo
uno o due anni prima di andarsene firmando contratti d’oro. Il risultato era
che quando dovevano scegliere l’università, spesso optavano per
programmi che avrebbero messo meglio in mostra loro abilità individuali,
ascoltando il canto delle sirene di allenatori che promettevano loro che fin
dal primo giorno sarebbero stati gli uomini di punta e che gli schemi
d’attacco sarebbero stati costruiti attorno a loro.
Questo significava che il sistema di valori che Dean Smith aveva
orchestrato con così tanta attenzione per oltre due decadi a Carolina
rischiava di diventare anacronistico, quando nell’autunno del 1981 Michael
Jordan si presentò per la prima volta a Chapel Hill. Era l’arrivo di un
giovane dal talento veramente notevole, le cui abilità atletiche avrebbero
potuto rappresentare una grossa sfida per l’ethos di Carolina. Perché per
quanto Smith e il suo staff cercassero di nascondere il talento di Jordan, il
talento era il talento. E anche se Jordan era felice di giocare nel sistema di
Smith, all’interno dell’ACC i segnali di quanto fosse forte questo ragazzo
stavano diventando costanti. Erano brevi momenti di partite qualunque: un
improvviso cambio di passo, un terzo tempo eccezionale, una giocata
difensiva che lasciava senza parole. A metà del suo primo anno, anche se le
partite che si potevano vedere in televisione erano un numero neanche
paragonabile a quelle che si sarebbero potute vedere solo qualche anno
dopo, tra gli aficionados della ACC correva la voce che a Carolina ci fosse
uno veramente forte, un ragazzino di cui si parlava come del prossimo
Julius Erving.
Quello che Dean Smith fece con Michael Jordan fu a dir poco brillante.
Lo portò con sé in maniera molto lenta – in realtà molto più velocemente di
quanto probabilmente avrebbe voluto e di quanto avrebbe fatto in un’altra
epoca, ma quella era una nuova era – ma non piegò mai il suo programma o
le sue regole a lui. Fece sì che Jordan si guadagnasse la sua strada per il
successo attraverso il programma. Michael Jordan avrebbe dovuto giocare
secondo le regole di Carolina, avrebbe dovuto guadagnarsi tutto. Avrebbe
dovuto avere il desiderio di spiccare in tutti i duri e ripetitivi esercizi fisici.
Il risultato fu che diventò un giocatore infinitamente più completo e, forse
anche più importante, un giocatore che nonostante il suo meraviglioso
talento naturale rispettava l’autorità: quando diventò professionista, più di
un allenatore trovò stranamente semplice avere a che fare con lui.
Ma ancor prima che la stagione cominciasse aveva già dato segno del suo
talento puro e della sua non meno pura presunzione. Appena immatricolato,
durante le partitelle diceva ai ragazzi più grandi (giocatori come James
Worthy, Sam Perkins, Jimmy Black e Matt Doherty, membri di una squadra
che l’anno prima era arrivata fino alle semifinali di NCAA) che avrebbe
schiacciato sopra di loro. All’inizio le sue spacconate crearono una certa
irritazione che però, gradualmente, cominciò a sparire, innanzitutto perché
il suo modo di vantarsi era molto dolce, più gioioso e vivace che non
arrogante e meschino. Erano le parole di un ragazzino effervescente, non di
uno scostante e pieno di sé. In secondo luogo, perché poteva sempre
supportare quello che diceva con quello che faceva in campo. La sua
arroganza, si convinse Buzz Peterson, era parte del suo gioco: la usava
come uno strumento per motivarsi. Perché se parlava di grandi cose,
avrebbe dovuto anche farle in campo. E, anche in quei primi allenamenti
prestagione, le stava facendo.
Avrebbe voluto essere nel quintetto titolare già quell’anno. Dati la sua
fame e il suo entusiasmo per la pallacanestro, nonché la sua crescente
consapevolezza di quanto fosse bravo, il futuro era adesso. Ma c’erano due
persone da fare fuori: Jimmy Braddock, un veterano che entrava nel suo
terzo anno e che aveva dalla sua l’esperienza, e Buzz Peterson, il suo
compagno di stanza e migliore amico, che sperava di partire in quintetto
anche lui. La competizione tra i due coinquilini era particolarmente
intrigante. Peterson non era come molti giocatori di high school bianchi,
meravigliosi tiratori puri ma che raggiungevano il loro apogeo a circa
diciotto anni. Era anzi un ottimo atleta a tutto tondo e i suoi allenatori di
high school ad Asheville avevano pensato, negli anni prima che si
concentrasse completamente sulla pallacanestro, che avrebbe potuto essere
anche un ottimo quarterback NFL. Aveva scatto, si muoveva bene ed era
rapido, oltre ad avere un eccezionale tiro dalla lunga distanza.
I giocatori di NBA a cui i suoi compagni lo paragonavano era Rex
Chapman, una rapida, talentuosa e quasi incosciente guardia di Kentucky.
Inoltre, quando i due arrivarono il posto da 2 (cioè da guardia) era libero e
questa era una delle ragioni per cui Peterson aveva deciso di giocare a
Chapel Hill e non a Kentucky. Far fuori Peterson era una sfida non
indifferente per Michael. Peterson era davvero veloce: nei 100 metri che
corsero il primo giorno, Buzz arrivò secondo, dietro James Worthy, ma
davanti a Jordan. La cosa mortificò non poco Michael.
All’inizio la loro sfida sembrava tutto sommato in pareggio. Se Jordan
aveva una pura abilità atletica superiore, Peterson era però probabilmente
un giocatore complessivamente più esperto. Era stato allenato meglio
durante la high school e aveva un miglior senso generale del gioco, era un
tiratore migliore e probabilmente aveva migliori fondamentali. Peterson,
tuttavia, sapeva che era solo questione di tempo: Jordan era un atleta troppo
superiore e sarebbe presto arrivato a un livello considerevolmente più alto.
Non solo Michael saltava più in alto ed era più veloce (nonostante il
risultato degli sprint), aveva anche braccia più lunghe e mani enormi, che lo
rendevano letale quando andava a canestro. Inoltre, con la rapidità che si
ritrovava, era anche un difensore molto difficile da battere. L’altra cosa che
Peterson aveva intuito era la fame del suo compagno di camera: cercava
disperatamente di essere sempre il migliore e sembrava capace di assorbire
ogni minimo insegnamento.
Quello che Peterson all’inizio non capiva di Jordan, una cosa che in pochi
conoscevano e che molti avrebbero imparato a loro spese, era la sua rabbia
competitiva, il suo desiderio totalizzante di essere il migliore, la sua
ineguagliabile abilità di motivarsi e di usare qualunque sgarbo ricevuto
(reale, immaginato o del tutto inventato) per spingersi ancora un po’ più in
là. Alla fine, quella specifica abilità sarebbe diventata molto conosciuta e
gli allenatori e i giocatori dell’NBA avrebbero imparato a moderare i toni
quando parlavano di Michael Jordan, perché anche le frasi più innocenti
avrebbero potuto essere la loro rovina. Ma qui eravamo ancora all’inizio
della sua carriera, e nessuno sapeva della straordinaria capacità di Jordan di
spingersi al massimo livello. In questo caso particolare, sfruttò il fatto che
Peterson fosse stato annunciato come un giocatore di high school migliore
di lui, che avesse vinto più premi (inclusi Mister Basketball e l’Hertz
Award) e avesse ricevuto più proposte di ingaggio. Peggio ancora, c’erano
alcune persone nei campetti di Wilmington che avevano preso in giro
Jordan quando aveva ottenuto la borsa di studio a North Carolina,
dicendogli che non avrebbe mai giocato lì e che sarebbe stato la riserva di
Peterson, perché Peterson era un giocatore decisamente migliore: «Michael,
tu sarai la riserva di Peterson lui il giocatore dell’anno: tu sembri forte solo
perché giochi a Laney. Amico, non lascerai mai quella panchina». A molti
atleti queste parole sarebbero rapidamente scivolate addosso, ma Jordan
aveva imparato presto la loro utilità, esattamente come aveva imparato
dall’essere tagliato fuori nel suo secondo anno di high school. Diventarono
un’arma che poteva usare per spingersi oltre i propri limiti.
Jordan, alla fine, divenne effettivamente titolare già nel suo primo anno.
Non solo stava facendo fuori Peterson, il suo compagno di camera, mentre
questo era infortunato, ma, ugualmente importante, stava vincendo una
difficile battaglia contro Jimmy Braddock, un veterano. Lo staff tecnico
pensava che Braddock fosse più completo in attacco, ma furono le capacità
difensive di Jordan a catapultarlo in avanti.
Dean Smith odiava schierare le matricole: significava permettere loro di
giocare molti minuti e dare loro molte occasioni di guadagnarsi notorietà
troppo in fretta (oltre alla possibilità di fare errori decisivi nelle partite
importanti) e tutto ciò andava contro il senso stesso della sua gerarchia,
costruita con tanta precisione. Smith aveva una regola che impediva alle
matricole di parlare coi media prima della loro prima parte di campionato,
perché era seriamente preoccupato da quello che i mezzi di comunicazione
potevano fare alla sua squadra: i giornalisti potevano aiutare a montarsi la
testa, e tendevano a enfatizzare i risultati dei singoli invece che quelli della
squadra. In particolare, non gli piaceva che si concentrassero sulle sue
matricole, che non avevano ancora assorbito la cultura complessiva del
programma con tutte le sue piccole regole. A Carolina, tutto doveva essere
guadagnato con fatica, e la verità era che, con la stagione che stava per
iniziare, Michael Jordan si era guadagnato con fatica un posto nel quintetto
titolare. Solo altre tre matricole c’erano riuscite nella storia di Carolina
prima di lui: Phil Ford, metro di paragone per tutti gli aspiranti playmaker;
James Worthy, che aveva iniziato a frequentare gli allenamenti di Smith al
suo primo anno di high school e del quale Smith aveva detto una volta,
usando l’espressione che i professionisti usano per le star del college, che
sperava che alle superiori lo considerassero un caso disperato di cui
liberarsi in fretta, perché lo volevano a tutti i costi; e Mike O’Koren.
Ma anche se si era guadagnato il diritto di partire titolare, non si era
guadagnato il diritto di montarsi la testa, anzi quasi l’opposto. Proprio
perché era così naturalmente arrogante e poiché diceva sempre ai compagni
che avrebbe schiacciato loro in faccia era stato scelto – sia come segno di
affetto sia per tenerlo al suo posto – per uno dei compiti più onerosi delle
matricole: trasportare il proiettore che la squadra si portava dietro in tutte le
trasferte. Quel proiettore, residuo di un’epoca precedente alle videocassette,
era pesante e ingombrante e non c’era modo in cui una persona che lo
teneva sulle spalle, anche se forte e leggiadra come Michael Jordan, potesse
attraversare un aeroporto facendo bella figura. La cosa lo rendeva anche
bersaglio di un considerevole numero di bonarie prese in giro.
Alcuni pensavano che Dean Smith, negli allenamenti quotidiani, fosse un
po’ più duro con Jordan di quanto fosse con tutti gli altri giocatori, come se
avesse riconosciuto le sue maggiori possibilità e la sua ambizione illimitata
e gliele stesse facendo pesare dandogli obiettivi più alti di quelli degli altri.
Anche Roy Williams stava spingendo Jordan a lavorare più duro in
allenamento. «Lavoro come tutti gli altri» rispose Jordan.
«Ma Michael, tu mi hai detto che vuoi essere il migliore» gli aveva
ricordato Williams una volta. «E se vuoi essere il migliore, devi lavorare
più duro di tutti gli altri». C’era stata una lunga pausa, in cui Jordan aveva
riflettuto su quelle parole.
Alla fine, aveva risposto. «Grazie coach, ho capito. Stia a vedere».
Aveva alcune abilità che non si potevano allenare e che erano semplici
doni fisiologici. La velocità, per esempio, che era fondamentale a Chapel
Hill. Tutti dovevano correre e tutti dovevano essere in grandi condizioni
fisiche. Ovviamente Jordan possedeva una velocità fuori dal normale, anche
se era arrivato terzo negli sprint fatti il primo giorno. Da quel giorno in poi,
i giocatori corsero in gruppi differenti, a seconda della stazza e del ruolo. Il
gruppo C era composto dai più grossi che, in teoria, erano più lenti; il
gruppo B era per le guardie e le ali piccole, giocatori di media taglia che
potevano essere rapidi, ma non così rapidi; il gruppo A, infine, era per i
playmaker, i giocatori più veloci della squadra, e a volte per quei giocatori
molto veloci, anche se leggermente più alti, come il grande Walter Davis.
Tecnicamente, Michael avrebbe dovuto essere nel gruppo B, ma fin
dall’inizio Smith lo mise nel gruppo A, per mettergli più pressione.
Gli altri giocatori impararono ad accettarlo. Michael aveva la lingua
lunga ma giocava anche alla grande. Worthy pensava che fosse un
amichevole piccolo moscerino, che ronzava sempre intorno agli altri
vantandosi di quello che avrebbe fatto. Se lo scacciavi, sarebbe tornato a
ronzare, vantandosi ancora un po’ di più. Era tenace come nessun altro.
Ogni giorno, in allenamento, mostrava lampi del suo incredibile talento.
Una volta, mentre stava giocando contro la prima squadra in un
allenamento mattutino, una delle sue giocate meravigliò tutti, soprattutto
perché la realizzò contro due giocatori entrambi più grossi, che sarebbero
entrati negli All-Americans: Worthy e Sam Perkins. Era una giocata che
Worthy avrebbe ricordato per lungo tempo, un segno di quello che sarebbe
venuto nei due decenni seguenti. Jordan entrò nell’area dei tre secondi e
Perkins gli si fece incontro per fermarlo. Lui si portò la palla nella mano
sinistra per evitarlo, ma questo diede a Worthy, che era giusto dietro
Perkins, un’ottima occasione per strappargli la palla. Ma quando Worthy si
mosse verso Jordan, mentre si liberava di Perkins, Michael si girò in un
modo che impedì a Worthy di raggiungere la palla e poi tirò da un angolo
impossibile, usando il suo corpo come una sorta di ombrello per proteggere
il pallone e ritrovandosi sostanzialmente girato spalle a canestro.
Ovviamente, la palla entrò.
Gli allenamenti non si fermarono, perché a Chapel Hill gli allenamenti
non si fermavano mai, ma fu comunque un momento che levò il fiato a tutti
e di cui più tardi tutti avrebbero parlato. Worthy non aveva mai visto niente
del genere. Nessuno aveva mai visto niente del genere: il controllo del
corpo, l’abilità di aggiustarsi. Ma quello che si ricordava più di tutto il resto
era che era stata una giocata di puro istinto, e che Jordan era stato in grado
di prendere una decisione e di far sì che il suo corpo obbedisse a quella
decisione nei millisecondi in cui era stato in aria. Era una combinazione di
abilità atletica, puro istinto cestistico e fulminea intelligenza tattica, una
cosa che Worthy non aveva mai visto prima. Anni dopo, la considerava il
primo vero barlume di quello che sarebbe arrivato poi. Michael, al tempo,
aveva diciotto anni.
Carolina era perfetta per lui: giocava contro compagni esperti, talentuosi
ed esigenti, in un programma ricco di disciplina dove tutto era stato
accuratamente studiato da molto tempo prima. Non doveva prendersi la
squadra sulle spalle e poteva imparare senza essere il centro del
programma. Non erano molti i giovani di supremo talento come lui che
stavano ancora crescendo (perché lui quell’anno stava ancora crescendo) e
che si allenavano con tecnici abili come Dean Smith, Bill Guthridge, Eddie
Fogler e Roy Williams. Poteva maturare al ritmo che preferiva.
Jordan si era guadagnato il diritto a essere titolare, ma lo avrebbe fatto
con determinate restrizioni. Quell’anno, Sports Illustrated, sapendo che
Carolina era una corazzata, a giudizio unanime la grande favorita per la
vittoria finale, chiese a Dean Smith il permesso di mettere il quintetto
titolare sulla copertina del numero che ogni anno dedicava al basket
universitario. Pur riluttante, Smith accettò ma con un caveat: ci sarebbero
stati solo quattro dei suoi titolari, ma non il quinto, la giovane matricola di
Wilmington. Da Sports Illustrated cercarono di convincerlo, perché
avevano già cominciato a sentire ottime cose di Jordan, ma Smith fu
adamantino. Avrebbe messo a disposizione se stesso e gli altri giocatori, ma
non la sua matricola.
«Michael» gli spiegò più avanti, «non hai fatto nulla per meritare la
copertina di una rivista. Non ancora. Ma gli altri sì. Ecco perché non penso
che dovresti essere nella foto». E così, la copertina di Sports Illustrated
mostrava Sam Perkins, James Worthy, Matt Doherty e Jimmy Black, pronti
a giocare un nuovo tipo di basket 4 contro 4. Più tardi, dopo che la squadra
ebbe vinto il campionato, sulla stessa copertina finì un bozzetto di un artista
che doveva fungere da poster; solo che questa volta c’era anche la faccia di
Michael Jordan. Dean Smith aveva gestito la situazione in modo brillante,
secondo Roy Williams: non aveva negato a un ragazzo di talento un onore
molto lusinghiero, ma piuttosto aveva dato una nuova sfida a un ragazzo
che amava le sfide più di ogni altra cosa.
Le prime avvisaglie del talento di Michael Jordan furono in qualche
modo invisibili, come d’altronde erano state quelle del giovane Julius
Erving, quando aveva iniziato a giocare in quella che ai tempi si chiamava
ABA. Poiché pochissime partite della ABA erano trasmesse in televisione,
la leggenda del giovane Dr. J nacque soprattutto grazie al passaparola, da
sbalordite descrizioni di giocate spettacolari, fatte da qualcuno che non le
aveva viste ma ne aveva sentito parlare da un amico di cui si fidava e
riportava la notizia a un altro fanatico del basket. Quando Michael arrivò a
Carolina la ESPN era solo al suo secondo anno e in televisione si vedevano
ancora poche partite. Tutto ciò, unito alla particolare e sobria natura
dell’attacco di Carolina, comportava che i momenti in cui l’élite del basket
avrebbe realmente visto Michael Jordan fare delle grandi giocate sarebbero
stati relativamente pochi. Più che altro si trattava di storie che passavano di
bocca in bocca tra i fanatici, gli scout, i viceallenatori, i giornalisti che si
occupavano di basket, insomma le persone che erano sempre alla ricerca
della prossima stella. Durante quella stagione, Michael Wilbon aveva già
sentito grandi cose su questo talentuoso ragazzino di Chapel Hill, ma erano
più che altro voci, provenienti da persone che dicevano di aver visto una
sua giocata. Il più delle volte si scopriva che, in realtà, queste persone
avevano sentito parlare di quella giocata da qualcuno che conoscevano e di
cui si fidavano. Alcune di queste giocate erano fatte durante le partite, ma la
maggior parte avveniva in allenamento. A volte l’avvistamento aveva luogo
in una partitella tra amici, in qualche campetto sperduto della zona: si
diceva che questo giovane fenomeno di nome Michael Jordan, che giocava
a Carolina, era apparso all’improvviso, come fuori dalla nebbia, scendendo
da una macchina in un campetto di Riley. Si era allacciato le scarpe e aveva
lasciato tutti senza parole per un’oretta, prima di correre di nuovo verso la
macchina e sparire nello stesso modo misterioso in cui era apparso. Le voci
su di lui erano come le leggende sui fantasmi: si diceva che fosse alto solo
1,85 ma che saltando potesse arrivare più in alto di uomini con quindici
centimetri in più di statura. Oppure si diceva che fosse alto più di due metri,
ma che gestisse la palla come Magic Johnson, molto meglio di giocatori più
piccoli. Alcune di queste storie erano particolarmente allettanti perché
sembrano allo stesso tempo vere ed eccessive. Si diceva che, facendo una
schiacciata, fosse rimasto in aria per un tempo lunghissimo, più lungo di
quanto fosse mai rimasto in aria Julius Erving, o che fosse andato a canestro
saltando e portandosi la palla nella mano sinistra all’ultimo momento. A
quanto pareva, alcuni degli scout professionisti che affermavano di essere
stati ammessi agli allenamenti di Smith avevano detto che Jordan negli
allenamenti, a volte, faceva giocate che nemmeno Perkins o Worthy
potevano emulare. Era ancora una matricola al tempo, nessuno nel mondo
del basket lo aveva visto giocare, eppure Wilbon ricorda che era già iniziato
un feroce dibattito sul fatto che Smith lo stesse limitando troppo.
La verità era che lo staff era generalmente piuttosto soddisfatto dei suoi
progressi: non solo lavorava sodo, ma imparava anche in fretta e aveva
straordinari capacità di concentrazione. Negli anni precedenti, gli era stato
insegnato a difendere contro il backdoor in un modo e Carolina difendeva
in tutt’altro, ma a Dean Smith bastò un allenamento per insegnargli lo stile
di Carolina. Come il coach avrebbe realizzato tempo dopo, era uno dei
primi segni della forza di volontà di Jordan e del suo desiderio di migliorare
e spingersi a un livello più alto. Il suo primo anno non fu sempre semplice.
Non era ancora un buon tiratore e gli avversari più esperti che volevano
fermare Worthy e Perkins spesso difendevano a zona e gli concedevano dei
tiri. In una partita contro Kentucky, ancora all’inizio della stagione,
continuò a tirare e sbagliare. L’ex stella dei Tar Heel Phil Ford e Otis
Birdsong, suo compagno di squadra tra i professionisti, stavano guardando
quella partita in televisione e Birdsong chiese a Ford: «Cos’ha di speciale
questo ragazzino secondo Smith?»
Nella stagione 1981-82, la strada per le Final Four fu piuttosto difficile.
Alcuni pensavano che Virginia, con l’enorme Ralph Sampson, potesse
essere la miglior squadra del paese. Le due scuole avevano vinto uno
scontro diretto a testa nella regular season. Poi, durante il torneo ACC, in
quei giorni in cui nel college basket non c’era ancora il cronometro dei 24
secondi, Carolina vinse una noiosissima partita in cui Sampson trotterellò
semplicemente intorno al canestro e Carolina, con sei minuti ancora da
giocare, cominciò ad attaccare ai quattro angoli, rifiutandosi di tirare. Il
punteggio era di 44-43 per Carolina e cinque minuti e mezzo dopo, quando
Virginia, finalmente, si decise a contrastarli, era ancora 44-43. Nella
semifinale di NCAA, Carolina sconfisse Houston 68 a 63, battendo una
squadra che aveva nel roster due future stelle dell’NBA: Akeem (poi
modificato in Hakeem, per adeguare la pronuncia) Olajuwon e Clyde
Drexler.
Quella vittoria era il preludio del perfetto scontro finale: Carolina contro
Georgetown, una di quelle partite da sogno in cui due delle migliori squadre
del Paese, molto diversi per stile e temperamento, si sarebbero scontrate per
la vittoria finale. Alcuni tifosi bianchi, a disagio per la loro convinzione che
John Thompson e la sua squadra fossero i principali esponenti di una nuova
forma di nazionalismo nero nello sport, consideravano questa partita uno
scontro razziale, e non c’era dubbio su chi avrebbe rappresentato i bianchi.
In realtà, Smith e Thompson erano buoni amici, entrambi gestivano
programmi piuttosto duri, entrambi insistevano perché i loro ragazzi
seguissero le lezioni e si laureassero, anche se Thompson gestiva
generalmente ragazzi delle città interne, che avevano già fatto un lungo
cammino solo per arrivare al college e avevano davanti a loro una strada
ancora più lunga di quella di molti ragazzi che studiavano a Chapel Hill.
Patrick Ewing aveva avuto una carriera professionistica ottima ma
leggermente ostacolata (in parte a causa dei suoi limiti – le sue mani
imperfette e una certa incapacità di spezzare i raddoppi di marcatura – in
parte perché aveva giocato per troppi allenatori diversi e, per troppo tempo,
con compagni troppo mediocri) e quindi è difficile ricordarsi il giocatore
dominante che era sembrato a Georgetown. Da matricola, era alto,
muscoloso e veloce, e si spostava decisamente meglio della maggior parte
dei centri giovani: sembrava essere il prototipo di un nuovo tipo di pivot
che avrebbe combinato una stazza fuori dal comune con un’eguale abilità
tecnica. Sembrava sovrastare chiunque in campo, e intimidire i suoi
avversari in qualunque possibile modo. Agli occhi di giocatori di college
più giovani e meno muscolosi, che stavano ancora crescendo, sembrava
semplicemente stratosferico. Ma Carolina non era facile da intimidire. Se
Georgetown era fisicamente più potente, avrebbe detto anni dopo James
Worthy, Carolina era fiduciosa di avere una squadra migliore e più
profonda, e di aver preparato la partita molto bene. Era vero: Georgetown
sembrava proiettare un potere fisico straordinario, specialmente grazie al
suo centro Patrick Ewing, ma North Carolina aveva almeno lo stesso grado
di abilità fisica, in una veste diversa: una combinazione di potenza, velocità
e grazia rappresentata dallo stile di gioco di James Worthy.
Fu una di quelle rare partite in cui tutto fu bello come si pensava che
sarebbe stato. La difesa di Georgetown era semplicemente soverchiante:
cinque giocatori fisicamente molto dotati che mettevano enorme pressione
sulla palla per quaranta minuti. Solo una squadra ben allenata e ben
organizzata come Carolina, una squadra che passava la palla in maniera
eccezionale e in cui tutti sembravano sapere esattamente quale fosse il loro
ruolo, poteva resistere all’assalto dell’incessante pressing di Georgetown.
Molte altre squadre si sarebbero squagliate abbastanza in fretta. Ewing era
stato intimidatorio fin dall’inizio, forse perfino troppo: sembrava voler
stoppare tutto ciò che i giocatori di Carolina cercavano di mandare a
canestro e infatti fece cinque interferenze a canestro valido sui primi nove
tiri. A un certo punto, il punteggio era 12-8 e tutti i quattro canestri dei Tar
Heels erano delle interferenze a canestro valido da parte di Ewing. (Qualche
mese dopo, quando Ewing e Jordan furono scelti per la selezione di Playboy
e si ritrovarono insieme a Chicago, Jordan chiese a Ewing perché avesse
fatto così tante interferenze a inizio partita. Ewing rispose: «Il coach mi
aveva detto di non lasciare entrare nulla»).
La partita fu college basket al suo livello più alto. Worthy era in striscia,
chiuse con 13/17 al tiro per un totale di 28 punti. Era forte, incredibilmente
rapido sia con la palla che senza, e poteva tirare rapidamente anche nel
traffico. Chiunque capisse qualcosa del gioco poteva guardarlo e vedere che
la sua carriera da professionista sarebbe stata ancora meglio di quella al
college. Jordan era tutta un’altra faccenda: era giovane e non aveva ancora
delle straordinarie capacità di trattamento della palla. Solo un talent scout
esperto, con l’abilità di vedere il futuro, avrebbe potuto indovinare quello
che sarebbe diventato. Ci furono però un paio di buoni indizi.
Innanzitutto, la sua capacità di andare a rimbalzo. Fu il miglior
rimbalzista della partita, chiudendo a 9, ma più che i rudi numeri, la cosa
notevole era la natura dei rimbalzi che prendeva (molti dei quali
sembravano fuori dalla sua portata) e il fatto che uno della sua stazza avesse
la rapidità e la capacità di salto necessarie per recuperare così tanti palloni.
La cosa che alcuni scout notarono fu un terzo tempo contro Ewing, il
giocatore più intimidatorio del basket universitario. Mancavano circa tre
minuti e Carolina, in vantaggio 59-58, stava attaccando lentamente,
cercando di far scadere il tempo. All’improvviso, Jordan vide un
microscopico spiraglio di spazio all’interno dell’area e andò a canestro,
orientando il suo corpo nel modo migliore per proteggersi da qualunque
possibile difesa. Mentre Michael si avvicinava al canestro, Ewing, con
straordinaria prontezza, saltò per stopparlo. Jordan era già in aria e
sembrava vulnerabile, una facile preda per l’allucinante forza di Ewing, ma
spostò la palla dalla mano destra alla sinistra, e la fece passare proprio sopra
il braccio teso di Ewing. Il pallone fluttuò delicatamente, eppure così in alto
che per un momento sembrò potesse andare oltre il tabellone. Billy Packer,
uno dei commentatori disse: «Ha spedito la palla a quasi quattro metri».
Dalla panchina, Roy Williams era sicuro che Jordan avesse esagerato e che
la palla sarebbe finita dietro il tabellone; invece colpì la parte alta del
tabellone, scese gentilmente e cadde con delicatezza nella retina. Era un
colpo da campione.
Fu il canestro del 61-58, ma Georgetown reagì e due canestri dopo le
Hoyas erano avanti 62-61. Carolina aveva la palla in mano e, con 32
secondi sul cronometro, chiamò un time out. Smith conosceva bene John
Thompson e sapeva che era un grande ammiratore di James Worthy:
Thompson non avrebbe mai voluto essere sconfitto da un canestro di
Worthy. Un’opzione poteva essere Perkins, ma avrebbero marcato stretto
anche lui. Nei secondi finali delle partite importanti, gli allenatori come
Thompson facevano sì che i loro avversari dovessero dare la palla ai
giocatori meno forti, non a quelli che reggevano meglio la pressione. Ciò
significa che il giocatore che più probabilmente avrebbe ricevuto il pallone
sarebbe stato quella matricola di talento, Michael Jordan, e Smith decise
che la palla sarebbe andata a lui. «Mettila, Michael» gli disse. Quando i
suoi compagni di squadra gli fecero arrivare il pallone era completamente
libero, come Smith aveva sospettato. C’erano diciassette secondi sul
cronometro e lui era a cinque metri dal canestro. Era un tiro che qualunque
allenatore che avesse mai disegnato uno schema per un giocatore di talento
per i secondi finali di una gara importante sarebbe morto pur di ottenere.
Come richiesto, segnò: il suo marcatore arrivò solo quando stava
rilasciando la palla, già in volo. Nel possesso successivo, Georgetown perse
palla e Dean Smith vinse il suo primo titolo nazionale. Era anche il primo
capitolo della leggenda di Michael Jordan. Molti addetti ai lavori, di solito
poco interessati alle partite di college, guardarono quella partita e videro
una giovane matricola prendere il tiro decisivo (e anche un allenatore
esperto e molto conservatore fidarsi di quella matricola a tal punto da
lasciarglielo). Lenny Wilkens, che da allenatore avrebbe affrontato Michael
Jordan molte volte negli anni successivi, ricorda di aver visto la partita in tv
e che quella era stata la prima volta che un ragazzo di nome Michael Jordan
era apparso nel suo radar: ‘Sarà un giocatore speciale’ aveva pensato. Quel
ragazzino si era messo in mostra in un modo consentito a poche matricole.
Dopo la partita, nel bel mezzo dei festeggiamenti, Billy Packer incontrò
di nuovo Deloris Jordan, per la prima volta dopo quel torneo organizzato da
McDonald’s, quando le aveva detto di non preoccuparsi se Adrian Branch
era stato nominato MVP. «Ha visto, signora Jordan? Quella decisione
sull’MVP non sembra poi così male, ora».
7
Chapel Hill, 1982-84

Da allora, secondo amici e allenatori, fu tutto diverso. Jordan aveva sempre


avuto una certa arroganza ma, prima del suo secondo anno, si era aggiunta
una nuova fiducia in se stesso, quasi una sorta di calma spavalderia. Era
come se avesse iniziato a realizzare che tutte le cose che diceva su quanto
fosse bravo potessero essere vere. I suoi sogni e la sua vita stavano
diventando una cosa sola. Secondo Buzz Peterson, che in quel periodo era
con lui ogni giorno, era come se Michael Jordan avesse capito che poteva
essere non solo bravo, ma eccezionale.
Che fosse salito di livello, fu evidente a tutti a settembre, in quelle quattro
settimane in cui tutti – i giocatori dell’ultimo anno, le prossime matricole e
gli ex studenti ora in NBA – giocavano gli uni contro gli altri a Carmichael,
aspettando l’inizio ufficiale degli allenamenti. C’era James Worthy, in attesa
di unirsi ai Lakers, e c’erano anche Sam Perkins, Mike O’Koren, Al Wood e
Walter Davis. Nei primi giorni, Jordan sembrava solo uno dei tanti buoni
giocatori lì in mezzo, ma dopo una settimana, all’improvviso, esplose.
Nonostante stesse giocando contro professionisti esperti, sembrava che la
sua sicurezza avesse fatto un enorme passo avanti: segnava quando voleva e
divenne il giocatore più forte in campo.
La sua sicurezza era ora al livello delle sue doti atletiche. Nessuno
riusciva a fermarlo. Per Matt Doherty, uno dei compagni di squadra, quelle
partitelle estive furono il primo vero indizio di quanto Jordan fosse bravo:
eccolo lì, un ragazzo che stava per iniziare il suo secondo anno al college,
che giocava contro professionisti affermati e mostrava di essere bravo
quanto loro. Voleva dire che il suo talento non aveva limiti o, almeno, limiti
che si sarebbero visti in breve tempo. Steve Hale, un altro compagno di
squadra, era d’accordo, ma notava anche un’altra cosa: era diventato
straordinariamente determinato, anche nelle partitelle. In momenti del
genere, senza allenatori intorno, i giocatori tendevano a crogiolarsi in quello
che facevano meglio, mettendo in evidenza i punti forti ed evitando quelle
parti del gioco in cui avevano delle difficoltà. Ma Jordan, secondo Hale,
lavorava costantemente sulle sue debolezze, cercando di superarle. Era un
altro segno del suo desiderio di essere il migliore.
Tornò al college più grosso, più forte e più veloce. Gli allenatori
scoprirono con piacere che aveva continuato a crescere. Il 15 ottobre 1982,
primo giorno di allenamento del suo secondo anno, quando, come prima di
ogni stagione, lo staff raccolse quelli che Dean Smith amava chiamare ‘dati
oggettivi’, ci si accorse del cambiamento. Roy Williams lo aveva misurato
l’anno prima: 1,95m. Ora, un anno dopo, era 2,01m. Inoltre, il suo corpo si
stava irrobustendo, diventando più forte e più veloce. L’anno prima aveva
corso le 40 yard in 4’’55, che era molto buono. I membri dello staff che lo
cronometrarono al suo secondo anno dovettero confrontare gli orologi:
quello di Roy Williams diceva 4’’39, alcuni qualche centesimo in più,
alcuni qualche centesimo in meno. Alla fine, segnarono 4’’39 consci che
avrebbe anche potuto essere di meno: era un tempo che solo i più veloci
atleti al mondo – sprinter olimpici o cornerback di football – potevano
battere. Erano davanti a un ragazzo che, oltre a tutte le cose che sapeva fare
su un campo di basket, oltre al puro istinto con cui anticipava qualsiasi
cambiamento nel ritmo della partita, era anche di una velocità rara.
L’assioma di tutti gli allenatori di basket era che la velocità e la statura non
si potevano allenare: erano doni di Dio; ora, avevano davanti un giocatore
che aveva velocità e altezza, oltre a talento e passione, con un’immensa
capacità di mettere in pratica gli insegnamenti e che sembrava, come disse
una volta James Worthy, una spugna che assorbiva tutto ciò che lo
circondava.
Dean Smith notò con piacere il notevole aumento di statura e l’ancor più
notevole aumento di fiducia. Alla fine del suo primo anno, Smith lo aveva
preso in disparte e gli aveva fatto vedere un filmato che mostrava
principalmente le sue difese troppo morbide. Gli aveva chiesto: «Michael, ti
rendi conto di quanto puoi essere forte in difesa?» Aggiunse che, se avesse
lavorato sodo sulla sua difesa, avrebbe potuto essere un giocatore completo,
sia a livello universitario che professionistico, e gli ricordò un altro degli
assiomi fondamentali degli allenatori: alla lunga, era la difesa a vincere le
partite. Ci sono delle sere in cui le tue abilità offensive ti abbandonano. La
difesa invece è frutto di duro lavoro e quindi sarà sempre lì. Durante il suo
secondo anno i compagni di Jordan si accorsero di quanto questa idea stesse
mettendo radici, perché era sempre più evidente che durante alcune partite
era più interessato alla difesa che non all’attacco e voleva completamente
cancellare l’uomo che marcava. Secondo alcuni, l’altra cosa che Smith
aveva fatto era costruire le squadre contro Jordan, così che avrebbe dovuto
guidare i compagni più scarsi contro quelli più talentuosi.
In un solo anno i suoi miglioramenti erano stati evidenti: era passato
dall’essere un’esile matricola a questo nuovo sophomore, più potente e con
più fiducia in se stesso. Billy Cunningham, uno dei primi grandi giocatori
allenati da Dean Smith nonché, nel 1982, allenatore dei Philadelphia 76ers,
passò dalla sua vecchia università per assistere a una partita; alla fine,
raggiunse Smith e gli disse: «Coach, quello sarà il più grande giocatore
nella storia di Carolina».
Smith era disposto a tutto pur di proteggere Jordan esattamente da quel
tipo di speculazioni e dalle aspettative che ne derivavano (che potevano
essere devastanti per un giocatore così giovane) ed era anche preoccupato di
proteggere le basi di uguaglianza su cui si fondava il suo programma (tutti
sono uguali e nessuno è più uguale degli altri, specialmente il miglior
giocatore del Paese), per cui rispose piuttosto male a Cunningham: «No!
Abbiamo avuto un sacco di ottimi giocatori qui! Michael è solo uno dei
tanti!» Ma Cunningham era convinto: Michael era meglio di tutti gli altri.
Aveva solo vent’anni e faceva cose che nessuno poteva avergli insegnato,
cose che solo una manciata di professionisti poteva fare.
La cosa interessante dell’intensità con cui si allenava, pensava Steve
Hale, era che era difficile da trovare in un giocatore con quelle doti naturali.
Hale era ben conscio dei propri limiti fisici e atletici e fin dall’inizio aveva
capito che avrebbe potuto giocare per Carolina solo se avesse raggiunto il
suo massimo livello, diventando una sorta di kamikaze che si buttava su
ogni pallone vagante, rompendosi le ossa a ogni partita. Eppure Jordan,
nonostante le sue capacità atletiche fuori dal comune, era sempre lì, e si
allenava come se gli mancasse qualcosa. Era una combinazione
potentissima.
Il suo sempre crescente livello di abilità e di fama non ridusse certo le sue
spacconate. Provocava ancora più del solito, ma sempre in maniera quasi
infantile. Uno degli esercizi preferiti di Smith era ‘l’esplosione’: un uno
contro uno in cui l’attaccante riceveva il pallone a cinque metri dal canestro
e il difensore doveva fermarlo. Molti dei giocatori di Carolina amavano
quell’esercizio: potevano assistere alla progressiva affermazione di uno dei
giocatori di uno contro uno più forti nella storia del basket, un ragazzo che
stava emergendo come discendente naturale del grande Julius Erving. Ed
era lì, nella loro stessa palestra, a perfezionare la sua arte. Quelli che
dovevano affrontarlo in quell’esercizio non erano altrettanto entusiasti.
Come lo fermavi? Se lo chiedeva costantemente il suo amico Buzz
Peterson. Aveva quelle braccia così lunghe, quelle mani così grandi
(maneggiava meglio lui il pallone con una mano sola che molti giocatori
con due) e un impareggiabile, esplosivo primo passo. A nessuno dei
difensori che dovevano affrontarlo – Steve Hale, Buzz Peterson, o Jimmy
Braddock – piaceva giocare contro di lui in allenamento, in particolare
perché, alla fine, avrebbe scritto i loro nomi sulla lavagna dello spogliatoio
e a fianco, in numeri romani, il numero di volte che aveva schiacciato loro
in faccia: I, II, III o IV.
I suoi compagni si accorsero anche di un’altra cosa: per Jordan vincere
era un desiderio ineguagliabile, un bisogno primario. Il ricordo delle
sconfitte subite dal fratello Larry nel cortile di casa lo tormentava ancora.
Tutti i grandi atleti hanno grandi motivazioni e nessuno entrava a far parte
della rosa di Carolina senza essere stato a suo tempo il ragazzino che si
impegnava di più nel campetto di quartiere e poi nella squadra della sua
high school. Ma Jordan, era evidente, aveva più motivazioni di tutti gli altri.
Semplicemente odiava perdere, tanto nelle partite importanti quanto in
quelle al campetto o in quelle a Monopoli con gli amici (se finiva molto
dietro agli altri, era capace di buttare per terra le case e gli alberghi degli
avversari con una manata). Fossero le carte o il biliardo, adorava vincere e a
volte cambiava le regole per essere sicuro di farlo. Un colpo di stecca che
non mandava la palla in buca non era valido, perché qualcuno aveva parlato
subito prima. Poco prima di una partita contro Virginia State a
Charlottesville, lui e i compagni erano in una sala giochi e Jordan chiese chi
volesse sfidarlo a biliardo. Si fece avanti Matt Doherty: giocarono e, con
gran sorpresa di Jordan, Doherty vinse. Jordan scagliò a terra la stecca,
studiò il tavolo attentamente, disse che non era regolamentare e se ne andò.
Odiava perdere e questo sarebbe rimasto un suo marchio di fabbrica per
tutta la vita. Ogni competizione sembrava una questione di vita o di morte.
Se avesse perso una partita a carte, avrebbe voluto continuare a giocare
finché non avesse vinto. Nel suo secondo anno i Tar Heels andarono in
trasferta ad Atlanta per giocare contro Georgia Tech. Roy Williams doveva
assicurarsi che andassero a dormire all’ora giusta e sapeva che avrebbe
trovato i giocatori nella sala giochi dell’albergo. Jordan stava facendo tutti a
pezzi a biliardo e si stava divertendo un mondo, facendo lo spaccone coi
compagni che aveva appena liquidato. A Williams piacque molto
l’atmosfera, vedere che i giocatori si trovavano così bene tra loro e si mise a
scherzare con loro; a quel punto, Michael sfidò anche lui: «Coach, vedo che
sta ridendo. Non c’è problema, posso sistemare anche lei: prenda una
stecca.».
Giocarono tre partite e Williams, ottimo giocatore di biliardo, le vinse
tutte. Quando finirono, Jordan non gli parlò, non lo ringraziò e non augurò
buonanotte a nessuno mentre il gruppo tornava nelle stanze. Non gli parlò
nemmeno quando venne a controllare che tutti fossero a letto o la mattina
dopo a colazione. Un’ora dopo, quando Jordan salì sul bus della squadra per
dirigersi all’allenamento, Williams era da un lato del corridoio e Eddie
Fogler, l’altro assistente allenatore, dall’altro: Williams non aveva
menzionato le partite di biliardo della sera prima a nessuno. Michael salì
sull’autobus e superò i due allenatori, visibilmente privo del suo normale
entusiasmo. Fogler, avendo intuito la freddezza e anche una sorta di rabbia
da parte sua, chiese: «Ehi, Michael, qual è il problema? Coach Williams ti
ha battuto a biliardo?» Jordan, piuttosto irritato, si girò verso William e
disse: «Perché lo ha detto a tutti?» «Michael» Fogler, «Roy non ha detto
nulla a nessuno. Ho capito cosa era successo solo guardandoti: si legge in
faccia che hai perso».
E poi c’era il golf: quello era l’anno in cui stava imparando a giocare, e la
sua competitività stava emergendo anche lì. Un giorno, quella primavera,
giocò una partita con tre amici: lui e David Hart, suo compagno di stanza di
quella stagione, erano in squadra assieme contro Peterson e Doherty. Fu una
partita in bilico, piuttosto aggressiva, e quando arrivarono all’ultima buca
sapevano che il vincitore si sarebbe preso tutto e che gli sconfitti avrebbero
dovuto offrire una Coca-Cola e soprattutto sopportare le prese in giro degli
altri. Tutti e quattro arrivarono insieme alla buca, che era piuttosto in alto.
Tre di loro arrivarono sul green, ma il tiro di Michael fu troppo lungo e finì
oltre la buca. Tutto ora dipendeva dal suo colpo successivo e lui, un
novellino, aveva bisogno di un tiro miracoloso. Con un colpo praticamente
perfetto, vinse la partita. Quando tornarono nelle loro stanze Hart si
congratulò con lui per il colpo e gli chiese come diavolo ci fosse riuscito.
Michael si guardò intorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno in giro
e disse: «Non l’ho colpita, l’ho semplicemente lanciata sul green».
Nel secondo anno di Jordan, Smith lo spostò come 3, ala piccola, mentre
Buzz Peterson avrebbe giocato come 2, guardia. Anche se James Worthy
era diventato professionista dopo il suo terzo anno, era ancora una buona
squadra, ma decisamente più giovane e sembrava, in un certo senso, un
cantiere aperto. Ma sul fatto che la bravura di Jordan stesse sbocciando non
c’erano dubbi.
Ci furono, in quel secondo anno, numerosi esempi della sua eccezionale
abilità difensiva, del suo istinto per il gioco della velocità con cui poteva
spazzare via avversari molto talentuosi. Uno di questi esempi fu in una
partita contro Virginia. Grazie alla presenza di Ralph Sampson, in quegli
anni i Cavaliers erano una potenza, indicati a volte come la squadra più
forte del Paese. Carolina aveva vinto le sue prime tre partite a
Charlottesville e ora, il 10 di febbraio, avrebbe giocato a Carmichael. Fu
una partita memorabile sotto molti aspetti: subito prima dell’intervallo,
Buzz Peterson subì una distorsione al ginocchio, un infortunio da cui
purtroppo non si sarebbe mai veramente ripreso. Con Peterson fuori,
Carolina diventava molto meno pericolosa da fuori area e Virginia, grazie
anche a un centro totalmente dominante, prese il controllo della partita,
allungando fino a 16 punti di vantaggio.
Ma poi, lentamente, Carolina cominciò a rosicchiare quel vantaggio. Con
quattro minuti e dodici secondi sul cronometro, Virginia era ancora avanti
di 10 (63-53), ma la difesa di Carolina divenne più intensa e i Cavaliers non
segnarono per il resto della partita. I Tar Heels continuavano ad avvicinarsi.
A un minuto e venti dalla fine, Virginia era avanti solo di 3 e Sampson ebbe
la possibilità di segnare con un fallo, ma sbagliò. Poi il Tar Heel Jimmy
Braddock sbagliò un tiro da 3, ma Jordan prese il rimbalzo e segnò,
portando il punteggio sul 63-62 con un minuto e sette da giocare. Rick
Carlisle, una talentuosa guardia dei Cavaliers, ricevette il pallone della
rimessa e vide il raddoppio di Carolina avanzare. Uno dei difensori era
Michael Jordan, ma Carlisle era sicuro di poter spezzare il raddoppio perché
lo aveva già fatto in precedenza. Mentre la trappola si stringeva, cominciò a
fare rimbalzare la palla, come aveva fatto tante volte in allenamento e in
partita, sicuro che avrebbe trovato uno spazio e che avrebbe poi avuto
campo libero. Ma successe qualcosa di terribile: la palla non gli tornò
indietro dal terreno e Carlisle si girò per vedere una delle immagini peggiori
della sua intera vita. Michael Jordan, con in mano quella che era stata la sua
palla, si stava dirigendo verso il canestro per una schiacciata a una mano:
era saltato così in alto, con il braccio caricato così violentemente, che per un
breve istante Carlisle pensò che potesse sbagliare la schiacciata. Era una
sensazione che aveva provato anche Smith, che dopo la partita chiese a
Michael perché non avesse semplicemente appoggiato. «Avresti potuto
sbagliare la schiacciata». Jordan lo guardò sorridendo e rispose: «Non
avevo nessuna intenzione di sbagliare».
Virginia ora aveva la palla con 51 secondi rimasti: i Cavaliers risalirono
tutto il campo, Carlisle prese un tiro all’ultimo secondo ma sbagliò. Ralph
Sampson, con tutti i suoi due metri, saltò per prendere il rimbalzo a due
mani, ma in qualche modo Michael Jordan riuscì ad allungarsi con una
mano e ad allontanare il pallone, dando a Carolina la vittoria. Portare via il
pallone in quel modo a Big Ralph era una giocata unica. Era la diciottesima
vittoria di fila dei Tar Heels, che però avrebbero dovuto dimostrare di essere
una buona squadra anche con Peterson fuori per il resto della stagione.
Gli infortuni di Peterson e di altri giocatori importanti (ad esempio il
centro Brad Daugherty, che aveva giocato quasi tutto il finale di stagione
con una frattura da stress a un piede) erano un grosso limite e i Tar Heels
furono sconfitti nella finale regionale dell’Est dalla meno blasonata Georgia
Tech per 82-77. L’ultima sconfitta fu particolarmente amara, per una
squadra che sapeva di essere meglio di come aveva giocato. Dopotutto
Carolina si aspettava di sconfiggere gli avversari nelle grandi partite e non
aveva nessuna intenzione di farsi battere da giocatori meno forti
appartenenti a programmi meno importanti. Fu il brusco e amaro finale di
una stagione molto frustrante.
La partita si giocò a Syracuse una domenica, e subito dopo molti dei
componenti dei due staff andarono a fare dei viaggi per ingaggiare
giocatori. Dean Smith aveva ordinato a Roy Williams di tornare a Chapel
Hill coi giocatori, quella sera. Il messaggio di Smith era molto semplice:
non avrebbero dovuto trascurare le lezioni, perché mancavano solo cinque
settimane alla fine dell’anno accademico e voleva che tutti ottenessero
buoni risultati. Sul volo che li riportava a Chapel Hill quella domenica,
Williams passò quel messaggio ai giocatori. Il pomeriggio del lunedì
seguente, Jordan andò a trovare Williams.
«Coach» disse Michael quasi scusandosi, «penso di aver bisogno di
riposare. Mi sento molto stanco. Ho giocato a basket senza smettere mai,
nemmeno durante l’estate, per due anni e la verità è che da un bel po’ non
mi prendo del tempo lontano dal campo. Credo di aver bisogno di una
pausa».
Williams disse che gli sembrava tutto giusto, e incoraggiò Jordan a
prendersi del tempo per sé, prima che il basket gli causasse un esaurimento
nervoso. Più tardi Williams andò a correre: era ancora arrabbiato per la
sconfitta con Georgia e aveva bisogno di scaricare le frustrazioni. Quando
tornò, trovò Michael vestito da allenamento con un pallone al suo fianco.
«Pensavo che ti saresti preso una pausa» gli disse.
«Non me lo posso permettere, coach» rispose. «Non abbiamo vinto. E io
devo lavorare sul mio gioco. Devo migliorare». Williams pensò che quello
fosse il segno più evidente che nulla gli avrebbe impedito di essere un
campione. Eccolo lì, un giocatore che aveva appena terminato una stagione
brillante in cui aveva mantenuto tutte le promesse che aveva fatto durante il
suo primo anno, guadagnandosi ogni tipo di onore. Sarebbe stato un
campione, pensò Williams, non solo per il suo talento o la sua intelligenza,
ma anche per il suo cuore.
Ci furono altri bagliori della sua forza interiore, del suo rifiuto di
arrendersi a prescindere dalla forza dell’avversario. In una partita contro
Maryland, Ben Coleman, un giocatore forte molto fisico, stava correndo
lungo il campo fianco a fianco con Matt Doherty e gli diede un colpo al
volto. Jordan aspettò l’occasione buona. Qualche minuto dopo, Jordan
aveva la palla in mano, Carolina era saldamente in vantaggio e stava
giocando il suo attacco ai quattro angoli. Coleman era vicino al canestro.
Jordan saltò e schiacciò sopra a Coleman, gli puntò un dito in faccia e gli
disse, con tono gelido: «Non ti permettere mai più di prendere a schiaffi uno
dei nostri giocatori!» Fu un momento così violento, in cui un vincitore
aveva a che fare con un vinto più grosso e più forte di lui, che a Williams
ricordò Ali in piedi davanti a Liston steso a terra.
Maryland sbagliò il tiro successivo e Carolina attraversò il campo con la
palla. Jordan era in piedi, fermo sul perimetro con la palla in mano, senza
pressione difensiva su di lui. Adrian Branch di Maryland gridò al suo
compagno Herman Veal di contrastarlo. «Vuoi fargli il culo?» rispose Veal
urlando. «Allora vacci tu!»
Sulla panchina di Carolina, Dean Smith, che si vantava di non aver mai
imprecato, si girò verso Williams e chiese, su di giri: «Cosa ha detto? Cosa
ha detto?»
Williams rispose: «Esattamente quello che ha sentito lei».

Il terzo anno di Jordan a Carolina fu proficuo sotto molti aspetti, ma si


chiuse con una delusione cocente. Buzz Peterson fu di nuovo suo compagno
di camera (si erano separati nel loro secondo anno perché lo staff tecnico
voleva che Jordan fosse in camera con Brad Daugherty). Peterson non si era
mai completamente ripreso dal suo infortunio al ginocchio e stava passando
un brutto momento. Giocava sempre meno e stava perdendo minutaggio a
favore di giocatori come Steve Hale, che giocava con un’intensità che
rasentava la violenza. (Anni dopo, quando qualcuno chiedeva a Michael
Jordan chi fosse il miglior difensore che avesse mai marcato, lui spesso
citava Steve Hale che era stato duro con lui in allenamento più di chiunque
altro nelle partite di NBA). Peterson credeva di stare dando tutto come al
solito, ma Jordan non era d’accordo, pensava che il suo migliore amico
avesse una sorta di blocco mentale dopo l’infortunio. Jordan, che si
aspettava sempre il massimo livello di intensità nella competizione, pensava
che il suo compagno di stanza fosse diventato insicuro. «Ti manca
qualcosa» gli disse. «Penso che potrei colpirti con un pugno dove c’è il
cuore e la mia mano uscirebbe dall’altra parte». Al tempo Peterson pensava
che Jordan si sbagliasse, ma più avanti, guardando indietro, si rese conto
che in effetti il suo modo di giocare era diventato più incerto, a causa di una
sorta di inconscia paura di infortunarsi di nuovo. Michael, che aveva una
personalità molto intensa e un sesto senso per le debolezze degli avversari,
se n’era accorto per primo.
Fu un anno doloroso per Peterson: il suo sogno e la sua idea di chi poteva
diventare e di non avere limiti si stavano sgretolando davanti a lui e, per un
breve momento, si allontanò dal gioco e fece ritorno a casa da solo. Quando
tornò, scoprì che la persona che lo aveva voluto più di tutti era Jordan.
L’offerta personale che Michael gli fece – una sorta di regalo di bentornato
– fu di rimettere tutti i suoi vestiti in perfetto ordine, appendendo tutti i suoi
pantaloni sulle grucce e piegando accuratamente i suoi maglioni e gli altri
abiti. Era il suo modo di stare vicino a qualcuno a cui teneva e che stava
attraversando un periodo difficile.
Nel terzo anno di Jordan, che sarebbe stato anche l’ultimo a Chapel Hill,
giocò con Sam Perkins, Brad Daugherty e Kenny Smith, che divenne il
quinto giocatore di Carolina a iniziare in quintetto titolare da matricola. In
quella squadra c’erano quattro giocatori che sarebbero stati scelti al primo
giro del draft NBA, tre dei quali (Jordan, Perkins e Daugherty) sarebbero
stati tra le prime cinque scelte. Prima dell’inizio della stagione, la
consapevolezza di quanto la squadra fosse forte era piuttosto diffusa tra i
giocatori. Ora che anche Brad Daugherty, probabilmente il più talentuoso
centro puro di tutta l’era di Dean Smith, stava sbocciando, non si parlava
nemmeno di vincere semplicemente la NCAA, ma direttamente di essere
riconosciuti come una delle cinque o sei migliori squadre di college di tutti i
tempi. «Avevamo il presentimento» avrebbe detto Steve Hale anni dopo,
«che se avessimo giocato dieci partite contro qualsiasi squadra del Paese ne
avremmo vinte nove». Quella squadra vinse effettivamente ventuno partite
di fila ma poi perse la semifinale dell’est contro Indiana, una squadra
apparentemente insignificante.
Nel mondo del basket tutti riconobbero che Bobby Knight quella notte
aveva imbrigliato tatticamente Dean Smith. Aveva messo in marcatura su
Jordan Dan Dakich, un giocatore modesto a cui aveva dato ordini molto
semplici: «Devi impedirgli di tagliare e fare canestri facili. E devi tenerlo
lontano da fondo campo. Non devi lasciargli fare nulla di facile. Lasciagli
prendere dei tiri in sospensione, se proprio devi». Sia Knight sia Dakich
ricordano che nel momento in cui l’allenatore spiegò al suo giocatore che
avrebbe dovuto marcare Jordan, Dakich andò in bagno e vomitò. (Qualche
mese dopo, quando Knight ebbe Jordan come giocatore nella squadra
olimpica dell’84, lo provocò, minacciando di aggiungere Dakich al roster,
come difensore specializzato nella marcatura di Michael). Ma la strategia
funzionò. Indiana giocò con eccezionali abilità e disciplina, oltre a una
straordinaria precisione in attacco. Jordan fece subito due falli, il che limitò
il suo gioco, e Indiana finì per vincere.
Fu una sconfitta bruciante per i giocatori. Anni dopo, Steve Hale,
diventato un medico, continuava a non parlare volentieri di quella partita:
faceva ancora male. Non era mai stato in grado di guardarne una replica, ma
si ricordava che il giorno dopo aveva visto Michael Jordan da solo in
palestra che si allenava, deciso a migliorare.
Smith fu il primo a pensare che fosse ora, per Jordan, di diventare
professionista. Secondo i suoi giocatori, una delle qualità migliori di Smith
era il fatto che faceva sempre quello che era meglio per i suoi giocatori, e la
cosa migliore per Michael Jordan, a quel punto, era andare avanti con la sua
carriera. Era stato nominato giocatore di college dell’anno, aveva vinto il
Naismith Award ed era ancora un All-American. Ma la verità era che ora le
difese si stavano focalizzando su di lui, giocando a zona e raddoppiandolo,
e Smith aveva intuito che l’ultimo anno di Jordan sarebbe stato ancora più
difficile. Per quanto riguardava l’educazione cestistica che poteva ricevere a
livello di college, il lavoro era stato fatto. Era ora per lui di adattarsi a un
gioco diverso, più veloce, e di affrontare nuove e più grandi sfide
individuali. Se fosse rimasto al college, avrebbe rischiato un infortunio che
poteva condizionare enormemente il suo prezzo, che probabilmente sarebbe
stato molto alto.
Smith, ovviamente, aveva cominciato a controllare per scoprire quale
posizione Jordan avrebbe potuto avere al draft, e si diceva che sarebbe stata
molto alta. Billy Cunningham, allenatore dei Philadelphia 76ers e Tar Heel
fino al midollo, lo voleva a tutti i costi. I 76ers avrebbero scelto per quinti e
man mano che il draft si avvicinava, Cunningham cercava disperatamente
di poter scegliere ancora prima e secondo gli altri general manager era
disposto a scambiare il talentuoso Andrew Toney per una scelta più alta.
«Ma l’offerta giusta non arrivò mai» avrebbe detto Cunningham anni dopo,
«perché Rod [Thorn, il general manager di Chicago] sapeva benissimo di
poter prendere Michael». Presto fu chiaro che Jordan non sarebbe mai stato
scelto dopo i primi tre, la scelta che spettava a Chicago. Lo stipendio
iniziale sarebbe stato probabilmente intorno ai $700.000 all’anno, forse di
più, per almeno quattro anni.
Dean Smith scelse di spiegare personalmente quella decisione, che
riteneva la migliore, alla famiglia Jordan. C’erano due persone che
mettevano in dubbio la sua saggezza. Una era Deloris Jordan, che
desiderava fermamente che Michael finisse il college e che aveva sempre
avuto un sogno molto preciso, che avrebbe dato valore a molto del
sacrificio che lei e suo marito avevano fatto nelle loro vite: sognava che due
dei suoi figli (Michael e la sorella Roslyn) si laureassero a Chapel Hill nello
stesso giorno. Si convinse solo poco a poco che il figlio maschio avrebbe
potuto prendere la sua laurea uno o due anni dopo. L’altra persona che era
preoccupata era Michael stesso. Adorava tutto di Carolina – il programma,
lo staff, le amicizie – e per quanto lo riguardava, data la sconfitta con
Indiana, c’era ancora qualcosa in sospeso, un altro campionato nazionale da
vincere.
La decisione fu sua, ma in realtà era stata già presa per lui dal suo
allenatore. La notte prima di accettare quella decisione e tenere la sua
conferenza stampa, Michael Jordan andò a cena con Peterson, ancora
incerto di quale fosse la scelta giusta. Jordan andò alla conferenza stampa la
mattina presto e Peterson rimase a letto. Quando Jordan tornò, Peterson gli
chiese cosa avrebbe fatto.
«Non vuoi saperlo» rispose.
«Pensavo che saresti rimasto» disse Peterson, ferito dal perdere un amico
e dal vedere una parte del suo stesso sogno che si infrangeva. «Pensavo che
saremmo arrivati insieme, saremmo stati in camera insieme e ci saremmo
laureati insieme». Ma Jordan scosse la testa e Peterson capì che la decisione
non era realmente sua, che Jordan era sempre stato deferente verso chi
aveva l’autorità, in questo caso Dean Smith. Qualcun altro aveva preso la
decisione per lui.
La testimonianza principale dell’abilità con cui Smith gestiva i giocatori
giovani e di talento non era semplicemente il fatto di aver reso Jordan un
atleta straordinariamente completo e disciplinato, con notevoli abilità
difensive, ma anche il fatto che Jordan fosse riluttante a lasciare Chapel Hill
per andare tra i professionisti, e che mantenne un fortissimo legame
emotivo con la sua vecchia scuola e il suo vecchio allenatore. Da
professionista, non solo indossava dei pantaloncini di Carolina sotto la sua
divisa di gioco, ma chiamava Smith regolarmente e, secondo i suoi amici, lo
riteneva una sorta di secondo padre. Raramente un programma universitario
aveva funzionato in maniera così efficace con un giocatore così dotato.
Il suo rispetto per Smith era immenso, così come la presa che le parole
del Coach facevano su di lui. Entrambe le cose continuarono a crescere
durante gli anni. A Carolina, non aveva solo imparato ad accompagnare le
sue abilità naturali con una grande disciplina, ma aveva appreso qualcosa di
più importante, un senso del giusto e dello sbagliato, e di come ci si debba
comportare dentro e fuori un campo da basket. Continuò a condividere
decisioni molto importanti col suo vecchio allenatore e Dean Smith rimase
sicuramente una presenza importante nella sua vita. Molti anni dopo che
Jordan ebbe lasciato Carolina, ci ritornò per giocare un’amichevole di
preseason. Lui e il suo amico Fred Whitfield guidarono fino a Carmichael
(che presto sarebbe stato sostituito dal Dean Smith Center), ma arrivarono
un po’ in ritardo, trovarono il parcheggio stracolmo e dovettero
parcheggiare lontano dall’entrata. Whitfield vide un posto libero vicino alla
porta per i disabili e disse a Jordan, visto che erano di fretta, di parcheggiare
lì. «Non potrei mai farlo» disse. «Se Coach Smith sapesse che ho
parcheggiato in un posto per i disabili, mi farebbe sentire una persona
orribile. Non sarei in grado di guardarlo in faccia».
8
Chicago, 1984

Nel 1984, i Chicago Bulls erano una franchigia piuttosto scadente, in una
città dove il basket sembrava uno sport di serie B, che d’inverno veniva
completamente oscurato dall’hockey, la cui squadra, i Black Hawks, era
estremamente popolare. Chicago era più interessata al football, perché il
destino dei Bears sembrava riflettere l’immagine complessiva della città:
una squadra rude e molto fisica, che giocava uno sport rude e molto fisico
in una città rude e molto fisica: ‘la città dalla spalle larghe’, come l’aveva
definita Carl Sandburg. In estate, invece, Chicago si dedicava al baseball: la
parte nord della città seguiva i Cubs, la parte sud i Withe Sox. Il basket, nel
1984, era del tutto marginale e, in una città malata di sport come Chicago,
questo la diceva lunga sulla dirigenza dei Bulls.
Prima dell’acquisto da parte di Jerry Reinsdorf e della sua cordata, il
membro più importante della dirigenza era Arthur Wirtz, un immobiliarista
importante e parecchio temuto. Era quanto di più lontano si potesse
immaginare dagli affabili proprietari di squadre sportive degli anni novanta.
Era stato una figura leggendaria nella rigida struttura di potere della
Chicago dei suoi tempi, un potentato vecchia scuola, di un’epoca in cui
Chicago era ancora in mano a pochi baroni che sapevano come esercitare il
loro potere. Era un uomo enorme (quasi due metri per più di 130 chili), che
assomigliava molto, secondo uno dei suoi partner, a Sydney Greenstreet e
che prediligeva la costruzione di giganteschi e tetri edifici di lamiera, che
sembravano metafore architettoniche della sua stessa fisicità.
Era un venditore vecchio stile e non era particolarmente interessato allo
sport, soprattutto al basket, ma era il proprietario del Chicago Stadium e
aveva bisogno di affittuari: una squadra NBA lo occupava per quarantuno
giorni, anche senza i playoff.
Non amava fronzoli come la pubblicità e il marketing, che erano invece
gli ingredienti chiave del nascente, favoloso mondo dello sport moderno. A
fine anni settanta Brian McIntyre, che sarebbe poi diventato capo ufficio
stampa dell’NBA, era stato assunto dai Bulls e aveva scoperto con orrore
che in biglietteria lavorava una sola persona. Incredibilmente, il front office
dei Bulls non aveva un addetto alla vendita degli abbonamenti annuali, la
linfa vitale delle società sportive professionistiche. Quando Michael Jordan
venne ingaggiato, nel 1984, erano stati venduti solo duemila abbonamenti.
McIntyre ricorda una battuta che circolava all’epoca: c’era stato un furto in
biglietteria, si diceva. I ladri avevano riportato indietro un gran numero di
abbonamenti annuali.
McIntyre suggerì che i Bulls assumessero degli studenti del college part-
time per vendere gli abbonamenti annuali, pagandoli con un 10%
dell’incasso. Ma Wirtz non ne aveva voluto sapere: non pensava che
avrebbero venduto abbastanza biglietti e, altrettanto importante, non
sopportava l’idea di perdere il 10% del guadagno. Quando McIntyre arrivò,
il contratto con la radio locale prevedeva la trasmissione di una ventina di
partite per $5.000 l’una. Alla fine, il prezzo crebbe, anche se la stazione
aveva un segnale così debole che buona parte della città non poteva sentire
le radiocronache. La cosa che McIntyre ricordava meglio era un episodio
capitato un anno in cui i Bulls avevano addirittura raggiunto i playoff: era in
ritardo al lavoro, stava andando troppo forte in macchina e un poliziotto lo
fermò per eccesso di velocità. McIntyre cercò di evitare la multa offrendo
dei biglietti per i playoff. «Odio il basket» rispose il poliziotto. «Non ha
mica dei biglietti per l’hockey?» Il poliziotto, pensò McIntyre, avrebbe
potuto parlare a nome dell’intera città di Chicago.
Durante l’anno precedente Reggie Theus, la stella della squadra, si era
scontrato con lo staff tecnico e, a inizio stagione, non era ancora arretrato di
un millimetro dalle sue posizioni. L’allenatore Kevin Loughery, irritato
dallo scontro e dal fatto che Theus fosse convinto che ogni possesso
offensivo dovesse terminare con un suo tiro, lo aveva messo in panchina.
Questa mossa infastidì sia Theus che i tifosi, convinti che lui fosse l’unica
luce della squadra. A volte, Theus sventolava un asciugamano sopra la
testa, per spingere i tifosi a prendere le sue difese e una volta, durante una
partita, aveva ordinato una pizza.
Neppure il sorteggio delle scelte del draft, che avrebbe dato loro la
possibilità di ingaggiare i migliori giocatori di college del Paese, era andato
bene ai Bulls negli anni prima dell’arrivo di Jordan. A causa del loro infimo
livello e dell’ultima posizione che ne era derivata, cinque anni prima i Bulls
si erano giocati, con il lancio di una monetina, la prima scelta del draft
contro i Lakers: il premio era un ragazzo di East Lansing, Michigan, di
nome Magic Johnson, un giocatore brillante, il cui talento era evidente e
che era molto conosciuto perché aveva giocato il Big Ten Tournament. La
possibilità che arrivasse a Chicago aveva suscitato un notevole interesse in
città e la dirigenza dei Bulls aveva cercato di sfruttare la cosa, facendo
decidere ai tifosi se scegliere testa o croce nel sorteggio.
Quando si dovette stabilire chi si sarebbe preso Magic Johnson, Rod
Thorn scelse testa come chiedevano i tifosi. Ovviamente uscì croce. Al
posto di Johnson, i Bulls presero David Greenwood, niente più che un
accettabile mestierante. Non scelsero nemmeno Sidney Moncrief, che finì a
Milwaukee e lì diventò uno dei migliori giocatori del decennio sia in
attacco che in difesa. Qualche tempo prima, Jonathan Kovler, uno dei
dirigenti dei Bulls, aveva buttato lì che quel lancio di moneta valeva 25
milioni, ma anni dopo avrebbe commentato: «In realtà mi sbagliavo. Ne
valeva 200».
In effetti, tutte le scelte di Chicago nei draft recenti erano state disastrose.
A volte, il problema era che sceglievano tra i primi in un anno in cui c’era
poco talento a disposizione e altre volte, quando sceglievano per primi,
semplicemente sceglievano male.
Nella stagione 1983-84 vinsero solo ventisette partite e ne persero
cinquantacinque, il che diede loro la terza scelta nel draft dell’84, dopo
Houston e Portland. Sembrava che nell’NBA, in quel periodo, tutti
volessero un centro: era un’epoca precedente a quando Michael Jordan e
altri giocatori della sua statura avrebbero cambiato la filosofia generale del
draft. Era evidente che il miglior centro disponibile era un ragazzo
dell’università di Houston di nome Hakeem Olajuwon. Lo volevano
praticamente tutti. Era grosso, era atletico, aveva un’ottima etica del lavoro
e giocava relativamente da poco tempo, quindi ci si poteva aspettare che
sarebbe migliorato anno dopo anno, e in effetti fu così. Molti esperti
pensavano che, dopo di lui, Michael Jordan fosse la scelta più ovvia. Ma lui
era una guardia, non un centro, né un’ala grande né un playmaker. Poteva
una semplice guardia cambiare faccia a un’intera franchigia? La mitologia
NBA, a quel tempo, era che le guardie non potessero, da sole, risollevare
una squadra mediocre: un’ottima guardia era solo il pezzo finale di una
grande squadra, non l’architrave.
Il secondo miglior centro era Sam Bowie, che aveva giocato a Kentucky.
Alto e di buona intelligenza cestistica, aveva però un grave problema: aveva
subito un brutto infortunio a una gamba durante il college (e in NBA ne
sarebbero seguiti altri). C’era anche una questione meno scoperta: ci si
chiedeva se Bowie amasse abbastanza il basket e se avesse la passione che
si richiedeva per portare se stesso e la sua squadra ai massimi livelli. I Bulls
avevano delle perplessità. Da poco avevano scelto al draft Ronnie Lester,
che era arrivato come merce avariata. Ma Portland, che sceglieva per
seconda, aveva detto chiaramente che voleva un centro. Molti pensavano
dipendesse dal fatto che i Trail Blazers avevano avuto il loro unico quarto
d’ora di gloria quando avevano costruito una squadra in grado di vincere
l’anello intorno a un centro di talento, Bill Walton (anche se era abbastanza
chiaro che Bowie non era Walton); altri pensavano che fosse perché
avevano già avuto un giocatore simile a Jordan, Clyde Drexler, che però
nella sua prima stagione aveva faticato ad adattarsi ai rigidi schemi
d’attacco di coach Jack Ramsay. Portland, per la gioia degli scout di
Chicago, avrebbe preso un centro. Non tutti pensavano che fosse una gran
mossa: Bobby Knight che era stato, da allenatore, avversario di Jordan al
college e lo aveva allenato nei primi giorni di ritiro prima delle Olimpiadi
del 1984, si era innamorato di lui e aveva cercato di spingere il suo caro
amico Stu Inman, general manager di Portland, a prenderlo.
«Ma abbiamo bisogno di un centro» aveva risposto Inman.
«Stu, prendilo e fallo giocare come centro» gli aveva risposto Knight.
Il dirigente dei Bulls che si occupava del draft era Kovler, un uomo ricco
e giovane, erede della fabbrica di liquori Jim Beam e dipendente dal basket.
Era l’uomo di facciata dietro cui si nascondeva una proprietà piuttosto
ingombrante, con un largo numero di soci. A volte, a Chicago veniva
proposto un ottimo affare, che però sfumava prima che Kovler riuscisse a
radunare tutti i soci e prendere una decisione. Lo scout principale, che
rispondeva direttamente a Thorn, era un giovane di nome Mike Thibault:
era uno dei classici uomini la cui vita girava interamente intorno all’NBA,
nato per (o condannato ad) avere a che fare con lo sport per tutta la vita
come assistente allenatore o scout, conoscendo tutto del gioco, amandolo
senza ricavarci mai troppi soldi e passando la vita sui voli di linea diretti in
microscopiche città per guardare partite apparentemente insignificanti tra
squadre semisconosciute. Ma era stato attirato dall’inconfondibile allure
dello scouting, dalla ricerca del grande giocatore ancora da scoprire, dalla
speranza di scovare dei giocatori nella media che però insieme, con la
speciale sinergia che lo sport poteva creare, avrebbero composto un
amalgama che era molto più della somma delle sue parti.
La terza scelta del draft era oro puro. La Lega si era espansa e c’erano
molte più squadre, il che significava che la possibilità di avere una scelta
alta nel draft era sempre più rara e gli errori, a causa dell’aumento degli
ingaggi, sarebbero costati molto di più. Thibault aveva visto giocare
Michael Jordan almeno dodici volte quell’anno e Rod Thorn altrettante.
Anche se era difficile stabilirlo con certezza a causa della particolare natura
del programma di Carolina, avevano deciso che Michael Jordan sarebbe
diventato un ottimo giocatore professionista, forse addirittura un grande
giocatore professionista. Obiettivamente, un giocatore di basket così
completo era una cosa piuttosto rara.
Prima di cominciare a guardare Jordan, Thibault aveva sempre pensato
che il giocatore di college più competitivo mai visto fosse Magic Johnson.
Ora, studiando questo giovane, arrivò a pensare che Jordan avesse dentro un
fuoco che bruciava addirittura più di quello di Johnson. Aveva più volte
visto Jordan prendere completamente il controllo del gioco e la voce che
continuava a sentire dagli assistenti allenatori di Carolina era che in
allenamento fosse ancora più spettacolare. Thibault decise abbastanza in
fretta che voleva Jordan e sperava soltanto che Portland non cambiasse idea
e prendesse Sam Bowie.
Thorn era d’accordo. Era preoccupato dalla condizione fisica generale di
Bowie, specialmente dopo il disastro con Lester, e dal suo amore per il
gioco, ed era ugualmente entusiasmato da Jordan. Aveva visto meno partite
di Thibault, ma in un certo senso era diventato amico di Dean Smith e gli
era stato permesso di sedersi nella sala di proiezione di Chapel Hill e
guardare i filmati delle partite di ACC. Era una cortesia abbastanza unica,
che lo aiutava a trovare buoni giocatori non solo tra quelli di Carolina, ma
anche tra gli avversari. Thorn apprezzava parecchie cose di Jordan: era
evidente che fosse migliorato anno dopo anno, aggiungendo nuove
specialità al suo gioco, in particolare in difesa. Ma soprattutto, c’era
l’atletismo: quei brevi momenti dove con uno scatto improvviso arrivava
dal nulla e faceva una giocata che nessun altro giocatore di college avrebbe
potuto fare. Seduto lì, da solo, Thorn guardava giocare Jordan e spesso
stoppava il video, sconcertato da quello che aveva appena visto, e tornava
indietro per guardarlo ancora e ancora, ipnotizzato. Alcune delle giocate
offensive di Jordan e il suo istinto in difesa erano semplicemente
impensabili. Capì che stava guardando un giocatore diverso da qualunque
cosa avesse mai visto prima. Man mano che la stagione procedeva, parlò
con le persone di Chicago e la sua voce divenne sempre più fiduciosa:
stavano per prendere un grande giocatore, diceva.
Anche Dean Smith era entusiasta di lui, ma Smith tendeva a essere
entusiasta di tutti i suoi giocatori. Il fatto che Billy Cunningham
apprezzasse così tanto Jordan, però, confermò a Thorn e Thibault che
avevano davvero qualcosa di grosso tra le mani. Erano ancora poco sicuri di
Kovler: Thibault temeva che avesse ancora in mente di scegliere un centro e
disse a Thorn che, se Kovler avesse esitato nel giorno del draft, sarebbe
stato loro preciso dovere scavalcarlo e scegliere Jordan. Ma Kovler era con
loro e il 19 giugno 1984 i Chicago Bulls ingaggiarono Michael Jordan, da
North Carolina, come terza scelta del draft.
C’era un altro giocatore, quell’anno, che Thibault ammirava molto: un
ragazzino di nome John Stockton che giocava per Gonzaga, una piccola
scuola di Spokane. Pensava che fosse tosto, con mani molto grandi e
un’ottima visione di gioco. Per un breve periodo, Chicago cercò di
scambiare giocatori e posizioni di scelta per avere un’occasione anche per
Stockton, ma Frank Layden, Utah, vedeva in lui lo stesso potenziale di
Thibault e i Jazz lo presero come loro prima scelta. L’idea di avere Jordan e
Stockton nella stessa metà campo difensiva continuò sempre a intrigare
Thibault.
Il giorno del draft, Ron Coley, che aveva fatto l’assistente allenatore
volontario alla Laney High School di Wilmington, chiamò James Jordan e,
nominando due delle guardie migliori dei suoi tempi, gli disse: «Oscar
Robertson e Jerry West, levatevi. Sta per debuttare la miglior guardia della
storia del basket».
9
New York;

Bristol, Connecticut, 1979-1984

Nell’anno in cui Michael Jordan fu scelto al draft, il basket professionistico


stava vivendo un bel periodo di rinascita, soprattutto grazie all’emergere
della rivalità fra Magic Johnson e Larry Bird nello scontro Lakers-Celtics.
Cinque anni prima, quando i due erano rookie, dal punto di vista
commerciale la Lega era nel suo momento peggiore. Le agenzie
pubblicitarie di Madison Avenue la disprezzavano e di conseguenza lo
facevano anche i network televisivi. Le Finals del 1980 – che sulla carta
sembravano un’accoppiata vincente dal punto di vista dello spettacolo, dato
che i Lakers in ascesa, guidati dal giovane Johnson, si scontravano con i
Philadelphia 76ers guidati dal carismatico Julius Erving – erano state
trasmesse dalla CBS in quasi tutta la nazione a tarda notte, in differita.
Il campionato universitario, invece, era in ottima salute. Il paese
sembrava innamorato delle Final Four, promosse con abilità, e in effetti uno
dei rimbalzi positivi che l’NBA aveva ricevuto negli anni ottanta derivava
dal fatto che le radici della rivalità Bird-Johnson erano state piantate nel
campionato NCAA del 1979. Era stato un momento d’oro per il campionato
universitario, un’accoppiata quasi perfetta di squadre avversarie: Michigan
State, una grande potenza, contro la sorpresa della piccola Indiana State con
la sua stella di colore, Johnson, contrapposta alla stella bianca Bird.
Quando i due atleti entrarono nell’NBA, il basket professionistico aveva
una pessima fama. Nella particolare schizofrenia della società americana,
era considerato corrotto. C’erano troppi neri e in qualche modo si era
diffusa la credenza che la maggior parte dei giocatori facesse uso di droghe
e fosse disposta a giocare sul serio soltanto negli ultimi due minuti. Inoltre
c’era la convinzione che i compensi dei giocatori fossero decisamente
troppo alti, anche se a quei tempi i budget salariali complessivi di molti
quintetti titolari probabilmente si aggiravano sul milione di dollari annui.
Nell’inverno del 1982, nonostante l’esordio da professionisti di Bird e
Johnson, la CBS mandava in onda poche partite ed era una fatica anche
soltanto ottenere che la serie finale dei playoff venisse trasmessa in prima
serata. L’NBA cercò in tutti i modi di far passare l’interpretazione migliore
possibile di questo disinteresse dei canali televisivi: ‘meno è meglio’
dicevano, come se trasmettendo troppe partite si potesse inflazionare un
prodotto di alta qualità. Ma era l’inverno del loro scontento. Quando i
proprietari delle squadre si incontrarono all’All Star Game di quella
stagione, si parlò di chiudere due o tre delle franchigie più deboli e magari
di unire le due squadre dell’area delle Montagne Rocciose, Utah e Denver.
Il proprietario della squadra di Cleveland era così terribile – un uomo di
nome Ted Stepien, che sembrava agire in base all’irresistibile impulso di
scambiare prime scelte di valore inestimabile con giocatori bravi ma non
eccelsi a fine carriera – che per favorire l’ingresso di un nuovo investitore
locale e affidabile, Gordon Gund, la Lega concesse alla squadra due prime
scelte in più, per limitare almeno in parte i danni. Si parlò anche di dividere
la stagione in due parti, per aumentare l’interesse dei tifosi, e di premiare
con un punto aggiuntivo la squadra che vinceva ogni quarto, per
controbilanciare la convinzione che i giocatori non si impegnassero
abbastanza per quarantotto minuti.
Quell’anno l’All Star Game si tenne in New Jersey, in casa di una
squadra perennemente nei guai, i Nets. I Nets erano destinati a una
probabile estinzione, dato che si trovavano in una strana condizione di
isolamento periferico, con proprietà che sembravano ancora più transitorie
della rosa dei giocatori. Al momento di passare dall’ABA all’NBA, i Nets
erano riusciti a rinunciare ai diritti su Julius Erving, un giocatore talmente
magnetico da essere uno dei motivi principali per cui era avvenuta la stessa
fusione tra le Leghe. La richiesta del pubblico per l’All Star Game fu così
patetica – a pochi giorni dall’evento erano rimasti circa cinquemila biglietti
invenduti – che a ogni dipendente dell’NBA fu affidato il compito di
distribuire più biglietti possibili ad amici e parenti, per evitare che le
telecamere mostrassero migliaia di posti vuoti sugli spalti alla partita che
avrebbe dovuto essere uno dei momenti clou della stagione.
Più o meno in quel periodo, erano però già in moto una serie di grandi
forze che avrebbero cambiato non soltanto le possibilità di sopravvivenza
della Lega come entità professionistica, ma anche la sua percezione
generale fra i capitani d’industria americani e le persone che muovevano
grandi budget pubblicitari. Una di queste forze era rappresentata dalla
leadership della Lega stessa: David Stern, un giovane perdutamente
innamorato del basket e dei suoi atleti e dotato di un talento sempre più
raffinato per le public relations contemporanee, non era ancora diventato
commissioner, ma stava rapidamente guadagnando una posizione
dominante.
Il commissioner in carica, Larry O’Brien, sembrava sorprendentemente
passivo riguardo al suo ruolo (a parte presenziare alle cerimonie televisive
in occasione delle finali di campionato). O’Brien era un abile politico uscito
dai livelli più alti dell’organizzazione Kennedy, uno stratega elettorale
vecchio stampo che lavorava bene con altri professionisti della politica, ai
tempi in cui figure come quelle esistevano ancora. Era stato molto vicino a
John Kennedy e, come era successo a tanti altri, una parte importante di lui
era morta il 22 novembre 1963. Probabilmente con l’ascesa della
televisione e della comunicazione politica moderna (in cui dominavano
l’uso degli spot pubblicitari e i sondaggisti) la sua rilevanza come stratega
elettorale e uomo di pubbliche relazioni stava già scemando. Cercò di fare
la mossa del cavallo unendosi all’amministrazione di Lyndon Johnson come
direttore generale delle Poste, ma Johnson non si fidò mai del tutto di lui a
causa del suo legame con Kennedy e molti dei suoi più cari amici,
kennediani duri e puri, gli rimproverarono di essere passato al nemico.
O’Brien aveva assunto il ruolo di commissioner dell’NBA nell’aprile del
1975 con un obiettivo primario, quello di ottenere la fusione con la Lega
rivale ABA, e lo aveva fatto con notevole efficienza. Da quel momento in
poi aveva dimostrato poco entusiasmo per il gioco e per i suoi grandi atleti,
che erano un elemento altrettanto importante. Unica eccezione erano le
visite al Boston Garden: in quegli anni i Celtics avevano buone squadre e
tornare al Garden gli faceva sempre piacere, perché tutti sembravano
conoscerlo personalmente e gli tributavano un’accoglienza da ritorno
dell’eroe. In quei momenti meravigliosi i suoi due mondi, il basket e la
politica, si mescolavano e Larry si sentiva di nuovo giovane e ottimista. A
parte questo però dava l’impressione di essere un commissioner
stranamente distaccato, un uomo piuttosto deluso dalla piega che aveva
preso la sua vita, come se in qualche modo la luminosa promessa che tanti
giovani avevano scorto all’inizio del 1961 non si fosse mai realizzata del
tutto. Alla fine degli anni settanta e all’inizio degli ottanta fece più che altro
quello che i collaboratori lo obbligavano a fare, senza passione o reale
interesse.
Per prima cosa, David Stern era deciso a ribaltare l’immagine della Lega.
Era convinto che la stabilità finanziaria e psicologica dell’organizzazione
dipendesse dai legami con le grandi aziende. Conosceva e invidiava il
rapporto quasi simbiotico fra la National Football League e le
multinazionali americane, architettato con grande abilità da Pete Rozelle.
Desiderava con tutto il cuore un sostegno simile, almeno in parte, per
conferire la legittimità necessaria alla sua lega traballante. Voleva come
sponsor le migliori aziende d’America e non si sarebbe accontentato di
niente di meno: voleva marchi come Coca-Cola e McDonald’s, simboli
della nazione postbellica. Se fossero arrivati quelli, tutti gli altri li avrebbero
seguiti. Quindi, fin da subito, si prefisse di provare a raggiungerli.
Entrando negli uffici dei grandi investitori pubblicitari della nazione, i
custodi dei grandi marchi dei quali tanto desiderava la sponsorizzazione, si
trovò però davanti una formidabile resistenza, un vero muro di pietra, anche
se molte di quelle aziende sostenevano con entusiasmo il basket
universitario. Un’importante agenzia di pubblicità che rappresentava un
produttore di automobili fu particolarmente esplicita su questo punto: il
manager disse che il capo dell’azienda lo aveva incaricato di sponsorizzare
il basket universitario perché il gioco professionistico era troppo nero. La
risposta fu proprio questa: «Grazie, conosciamo le statistiche, ma il capo
pensa che siate troppo neri». Quando Stern cercava di mostrare gli studi
demografici elaborati dalla Lega, secondo i quali il pubblico del basket
professionistico non era poi così diverso da quello del campionato
universitario, e inoltre per fortuna gli spettatori erano giovani, riceveva in
cambio soltanto sguardi vacui. Si rese conto che la percezione era tutto, e la
percezione delle grandi aziende americane era che il basket fosse corrotto e
che riflettesse troppo non lo sport, ma qualcosa di cui la maggior parte degli
americani voleva sapere il meno possibile: l’America nera.
Fra le prime assunzioni di Stern durante la sua ascesa al potere all’interno
della Lega ci fu Rick Welts, un giovane brillante che aveva lavorato per i
SuperSonics a Seattle e che aveva ottenuto buoni risultati in una situazione
simile. Le istruzioni di Welts erano molto chiare: doveva agire come
avanguardia di Stern, lavorarsi i pubblicitari di Madison Avenue,
promuovere la Lega con i potenziali grandi sponsor. Ma Welts non ebbe
miglior successo di Stern, e per lo stesso motivo: il basket era diventato
sempre più nero e chiaramente c’erano dei problemi a far accettare ai
trendsetter del Paese uno sport in cui una percentuale tanto sproporzionata
dei giocatori proveniva da una minoranza etnica. In seguito, Welts
commentò: «Ci consideravano qualcosa a metà fra la lotta nel fango e le
gare dei trattori».
Quello che infastidiva di più sia Welts che Stern era il fatto che il basket
universitario – e in particolare le tanto osannate Final Four – fosse invece
un grande successo pubblicitario. Anche il basket universitario era
prevalentemente nero, ma le percezioni erano importanti e il campionato dei
college era percepito, forse inconsciamente, come ancora gestito
saldamente da una gerarchia bianca, un mondo in cui a prescindere da chi
fossero i soldati della fanteria i generali erano ancora bianchi (questo,
almeno in parte, era il motivo per cui a molte persone nel mondo dello sport
non andavano a genio John Thompson e la sua squadra di Georgetown:
sentivano che la gerarchia bianca non includeva e non controllava quella
specifica squadra. Non solo Thompson era nero, ma nonostante l’insistenza
con cui lui stesso esigeva che tutti i suoi giocatori andassero all’università e
si diplomassero, la squadra testimoniava l’ascesa di una coscienza nera
ancora sul nascere).
Di conseguenza il basket universitario era ancora considerato come
un’estensione dell’America media, mentre il basket professionistico non
poteva esserlo, dato che nessuno poteva controllare quegli atleti una volta
che avessero firmato un contratto pluriennale. Era chiaro che i cambiamenti
delle leggi sul lavoro nello sport avevano reso i giocatori più potenti degli
allenatori. Gli atleti erano anche considerati pigri, un pregiudizio
incredibile, considerato quanto fosse dura la competizione e quanto fosse
sfiancante la stagione. Peggio ancora, a causa del pregiudizio razziale
qualsiasi storia relativa all’abuso di droghe da parte di un giocatore finiva
per definire l’intero settore, anche se chi conosceva bene sia l’NBA che
Wall Street, entrambi ambienti molto stressanti in cui quasi tutti
probabilmente erano strapagati, pensava che l’uso di cocaina fra i giovani
fosse più o meno lo stesso. Ma era una magra consolazione. Welts era
arrivato a New York impaziente di cominciare a lavorare, ma dopo diversi
mesi restava sveglio di notte, da solo nella sua stanza d’albergo, sicuro di
aver fallito. Un giorno finì per aver voglia di piangere, ma si disse che era
troppo vecchio.
Se era rimasto un aspetto positivo nel lavoro di Welts era David Stern. A
prescindere da quanto fosse stata lunga e faticosa la sua giornata riusciva a
chiamare Welts ogni sera, solo per fargli sapere che ci teneva. Al di là di
tutto Welts considerava Stern il capo ideale: era giovane, entusiasta,
incredibilmente brillante e non solo amava il basket, ma ci credeva
profondamente, proprio come lo stesso Welts.
Stern, come Welts, era assolutamente convinto che il fulcro della
resistenza degli sponsor riguardasse la razza. Era certo che se l’NBA fosse
riuscita a dimostrare un po’ di disciplina e a limitare gli aspetti peggiori, o
almeno quelli più evidenti, degli eccessi che si verificavano, il pubblico
sarebbe riuscito ad apprezzare gli elementi più affascinanti del gioco:
l’inarrivabile talento atletico dei giocatori e il fuoco che alimentava la
competizione.
Quello però era un periodo difficile: la birra che sponsorizzava l’NBA
chiaramente voleva tagliare il budget per ridurre il basket a un mercato di
nicchia, un termine educato per definire un preciso segmento della
popolazione, segregato dal resto; in questo caso, la popolazione di colore.
Invece di affidarsi agli spot televisivi, quell’operazione avrebbe portato a
promuovere l’NBA in modo quasi clandestino, soltanto nei locali e nei
negozi dei quartieri a prevalenza nera, come se i consumatori di origine
afroamericana costituissero un mercato separato e in pratica di serie B. Alla
fine Stern, in collaborazione con un manager di nome Tom Shropshire,
firmò un nuovo contratto di sponsorizzazione con un’altra birra, la Miller.
Se la percezione era più potente della realtà, Stern, insieme ad altri
rappresentanti della Lega, decise di cambiarla, anche con l’aiuto della
Players’ Association (il sindacato dei giocatori). All’inizio degli anni
ottanta, soprattutto per merito di Stern, vennero raggiunti due importanti
accordi: uno sui test antidroga e l’altro sul tetto salariale. Furono entrambi
estremamente importanti per modificare l’immagine del basket non soltanto
nell’immaginario dell’americano medio ma anche in quello delle aziende.
Si diffuse la voce che l’NBA stava facendo ordine e che i giocatori avevano
dimostrato un’insolita maturità, soprattutto per essere giovani e ricchi –
forse, dopotutto, non erano poi così viziati. Niente entusiasmava di più i
grandi capitani d’industria americani dell’idea che i propri dipendenti
condividessero una visione del futuro, e davanti a loro c’era la prova
vivente che un sindacato – anche se un sindacato molto ricco – aveva
sottoscritto una visione di correttezza. Si era dimostrato responsabile.
Con le nuove regole sui test antidroga, la Lega in pratica ammetteva di
avere un problema e di essersi attivata per risolverlo, insieme agli stessi
giocatori. Se un giocatore si fosse autodenunciato volontariamente, avrebbe
mantenuto lo stipendio e sarebbe stato aiutato a disintossicarsi. Se fosse
accaduto una seconda volta, sarebbe stato curato ma non pagato. La terza
volta sarebbe stato espulso per sempre. Questo accordo sembrava poter
gestire il problema e contemporaneamente proteggere i diritti civili dei
giocatori. Stern pensava che la Players’ Association avesse collaborato in
modo molto positivo. Era particolarmente grato a Bob Lanier, l’ex centro di
Detroit che odiava il pregiudizio dilagante secondo il quale se eri alto, nero,
ben vestito e giocavi o avevi giocato a basket, allora dovevi essere un
drogato.
Con l’accordo relativo al tetto salariale la proprietà e i giocatori
diventavano in pratica soci e gli atleti ricevevano il 53% di tutti i profitti. In
quel periodo, i compensi di tutti gli sportivi stavano diventando astronomici
e un vantaggio dei giocatori di basket era il palese impegno che
dimostravano agli occhi dei tifosi preparati. Era un gioco di abilità, ma
richiedeva anche di correre continuamente su e giù per il campo ed era
molto adrenalinico. Il baseball, invece, non lo era affatto e in generale i
giocatori di baseball stavano per diventare molto meno popolari rispetto ai
cestisti. Le telecamere si concentravano troppo spesso su un giocatore
appena diventato multimilionario che non sembrava correre al massimo
delle sue possibilità.
All’interno dell’NBA, a Stern venne generalmente riconosciuto gran
parte del merito per aver concluso entrambi gli accordi e la sua posizione
come candidato a sostituire Larry O’Brien, il cui contratto settennale
sarebbe scaduto nel 1984, divenne sempre più solida. Anni dopo, Kevin
Loughery, ex giocatore e allenatore, dichiarò che erano state cinque persone
a salvare l’NBA quando stava per affondare: «Julius Erving, Magic
Johnson, Larry Bird, Michael Jordan e naturalmente David Stern». Stern era
troppo astuto per accettare di prendersi ogni merito: la modestia era uno dei
suoi tanti punti di forza. Era bravissimo a non far mai pensare agli altri che
stesse usando la prepotenza (soprattutto quando, in effetti, lo faceva) o che
si stesse prendendo il merito per cose che in realtà non aveva fatto (o, se è
per questo, anche per cose che aveva fatto davvero).
Stern fu il primo a sottolineare che nella società erano in gioco una serie
di altre forze che avevano agito a suo favore: Larry Bird e Magic Johnson
erano arrivati appena prima che diventasse commissioner e Michael Jordan
aveva esordito nella stessa stagione in cui aveva assunto l’incarico. Inoltre
fu abbastanza furbo da riconoscere l’importanza di altre forze, in particolare
l’avvento delle tv via cavo: Johnson e Bird infatti erano arrivati
nell’autunno del 1979, esattamente quando iniziava le trasmissioni
ventiquattr’ore su ventiquattro un piccolo e apparentemente insignificante
canale di sport chiamato ESPN. L’innata saggezza di David Stern gli
suggeriva che nel lungo periodo, se avesse fatto la cosa giusta e non avesse
provato a prendersi troppi meriti, le persone gli avrebbero riconosciuto non
solo quelli dovuti ma forse anche qualcosa in più. Inoltre, se ritenevano di
aver raggiunto con lui un accordo almeno equo in tempi difficili, sarebbero
state più disponibili a fare altri accordi in futuro.
Lo aveva imparato da ragazzo. Era figlio di un rosticciere del quartiere di
Chelsea, a Manhattan, e anche se aveva avuto una vita ragionevolmente
privilegiata e aveva frequentato la Rutgers e la Columbia Law School, le
sue radici erano semplici e da studente aveva sempre lavorato nel negozio
di famiglia. Il locale si trovava sull’Ottava Strada, fra la Ventiduesima e la
Ventitreesima, non lontano dal Madison Squadre Garden. L’attività era
riuscita a sopravvivere nonostante la concorrenza spietata dei grandi
supermercati del circondario a forza di orari prolungati: dalle nove del
mattino all’una di notte sei giorni a settimana e dalle nove del mattino alle
due di notte la domenica. Chiudeva solo due giorni all’anno, in occasione
delle festività ebraiche. Era la classica storia americana: una generazione
lavorava duramente e faceva grandi sacrifici affinché la generazione
successiva avesse accesso a un’istruzione migliore e quindi a una maggiore
libertà di scelta.
David Stern pensava che non ci fosse modo migliore per prepararsi a un
lavoro che richiedesse abilità a trattare con la gente che lavorare dietro il
bancone di una rosticceria. Un amico di Stern, Dick Ebersol, il capo del
settore sportivo della NBC, disse di non aver mai incontrato nessun altro
che avesse una cerchia così vasta di amici e fosse a suo agio nel conversare
con persone tanto diverse, da Michael Eisner a Tiger Woods ai secondini
delle prigioni. Ebersol era certo che quella facilità nelle relazioni sociali
fosse nata nell’attività di famiglia.
La chiave del successo della rosticceria Stern era una rigida etica del
lavoro unita a una certa dose di autoironia e a un atteggiamento di rara
cortesia. William Stern, il padre di David, era cresciuto in un orfanotrofio
ed era animato dalla determinazione a proteggere la sua famiglia da una vita
difficile come la sua. Era un lavoratore indefesso e non si mostrava mai
autoritario. Non sarebbe stato facile per un cliente capire che era lui il
proprietario del negozio. Conosceva l’importanza della cortesia, di offrire
alle persone, oltre alle cose che acquistavano, un senso di dignità e di valore
personale. Chiunque entrasse veniva trattato bene e il figlio imparò a fare lo
stesso, anche se troppo spesso nei negozi simili al loro i proprietari e i
commessi tendevano a modulare le risposte date ai clienti in base a una
rapida occhiata al loro abbigliamento, e a quello che sembrava sulla loro
condizione sociale.
Alla rosticceria Stern non si giudicavano le persone dall’abito e questa si
rivelò una lezione molto utile per David, quando cominciò a spostarsi dalla
parte più semplice della società americana a un luogo dove quasi tutti gli
altri erano molto più ricchi e dove si ritrovò a interagire ogni giorno con i
titani dell’economia e dell’industria. Questa consapevolezza lo accompagnò
soprattutto durante gli studi alla Columbia Law School, quando provava ad
accedere a quello che sembrava il livello più alto della vita americana,
mentre ogni giorno dopo la scuola tornava a lavorare in quello che era
palesemente il più basso. Imparò che alcune delle persone che lavoravano
nei negozi erano gentili, altre non lo erano ma fingevano di esserlo in base
alla valutazione del grado di successo del cliente, altre semplicemente non
erano gentili con nessuno. Il fatto che suo padre fosse buono, cortese e
spiritualmente generoso con chiunque entrasse in negozio era la chiave del
suo notevole successo negli affari: David ne era convinto.
David Stern era molto sensibile agli sgarbi che i negozianti – e gli altri in
generale – erano capaci di infliggere ai clienti con tanta facilità e
disinvoltura. Poco dopo il diploma alla scuola di legge lui e la moglie
Dianne, entrambi vestiti in modo informale, andarono a comprare una
macchina nuova. Il venditore del concessionario li trattò da subito con
palese scortesia, evitando le loro legittime domande sul prezzo dell’auto,
lasciando intendere che persone vestite come loro non potessero certo
permettersi un modello così elegante. Sempre più incollerito con quel
venditore così smaliziato, Stern chiese di parlare con qualcun altro e gli fu
mandato un giovane appena promosso. «Stai per concludere la vendita più
facile della tua vita» gli disse Stern, e procedette ad acquistare l’auto in
pochi minuti.
Da ragazzo Stern andava matto per gli sport ed era un fanatico dei Giants,
anche se a volte un grossista di birra gli lasciava qualche biglietto gratuito
per gli Yankees e lui andava comunque a vederli. Il grande dilemma della
sua infanzia, pensava, era chi fosse il migliore fra i tre esterni centro di New
York: Willie Mays, Mickey Mantle o Duke Snider. In inverno tifava per i
Knicks e spesso riusciva a entrare alle partite con la tessera da studente per
cinquanta centesimi; poi, una volta dentro, dava una mancia all’addetto per
farsi trovare un posto migliore.
Amava il basket e amava i Knicks, anche se non era sempre un amore
facile. Purtroppo, in quegli anni non erano una grande squadra e il giovane
Stern era destinato, ogni anno, a una delusione. Una volta disse: «Ogni anno
mi si spezzava il cuore: il mio giocatore preferito era Harry Gallatin, detto
‘Harry the Horse’, il cavallo, perché si impegnava al massimo e ogni anno
si batteva contro [Bill] Russell e i Celtics, e Russell ogni volta lo
massacrava».
In realtà Gallatin si incrociò soltanto per due anni con Russell, che era sei
centimetri più alto e anni luce avanti atleticamente, ma anche se si fossero
scontrati più spesso, probabilmente Russell lo avrebbe massacrato ogni
anno. Dopo essere diventato commissioner, a Stern capitò di incontrare
Russell e diceva sempre all’ex giocatore dei Celtics che Gallatin era stato
un giocatore migliore. Per tutta risposta Russell sghignazzava, come per
dire che era un peccato che non avesse potuto misurarsi contro Harry the
Horse in tutte le partite del campionato. Nel 1990 Stern si trovava a
Springfield, in Massachusetts, quando Gallatin fu inserito nella Hall of
Fame, e si precipitò a presentarsi al suo mito. «Sono entusiasta di
conoscerti, sei il mio idolo» gli disse Stern.
Gallatin lo guardò con sincero sbalordimento. «Ma figurati, non posso
credere che ti ricordi di me».
«Ma certo che mi ricordo! Tu sei Harry the Horse e quando ero bambino
eri il mio idolo, quindi lo sarai per sempre» rispose Stern.
Dopo il diploma alla scuola di legge nel 1966, Stern lavorò da Proskauer,
Rose, Goetz e Mendelsohn, uno dei più importanti studi legali ebraici di
New York, in un periodo in cui gli studi legali erano ancora piuttosto
segmentati in base all’etnia. Scoprì molto presto che lo studio difendeva
l’NBA nel processo di Connie Hawkins, uno studente di talento la cui
carriera nell’NBA era stata distrutta in un periodo precedente e meno
tollerante perché un procuratore distrettuale locale aveva detto al
commissioner che Hawkins era legato a un gruppo di scommettitori che
truccava le partite. Era un caso in cui la Lega era palesemente in torto e
nessuno lo sapeva meglio di Stern. Sapeva anche che in certi casi un
avvocato societario doveva farsi carico di sostenere la parte sbagliata.
Aveva bisogno di un patteggiamento, perché anni prima, per colpa del
procuratore distrettuale, era stata commessa un’ingiustizia.
L’aspetto del caso che gli piacque di più fu la raccolta delle deposizioni,
che ora dopo ora lo portò a conoscere i fondatori della Lega: Eddie
Gottlieb, Red Auerbach, Maurice Podoloff e Fred Schaus. Era più che altro
come seguire una conferenza sulla storia del basket. Successivamente,
quando raccolse le deposizioni per il caso di Oscar Robertson, in cui il
sindacato giocatori si era opposto al diritto delle squadre di controllare la
libertà di scelta e di movimento degli atleti, si ritrovò a interrogare giocatori
come Lenny Wilkens, Bill Bradley, Dave DeBusschere e Robertson stesso.
Rimase profondamente colpito dalla loro intelligenza, dalla loro correttezza
e dalla loro fondamentale bontà. Erano stelle di prima grandezza e
avrebbero potuto facilmente comportarsi con arroganza, invece sembravano
possedere un solido buon senso e un notevole grado di modestia e forza
interiore. Se aveva imparato una lezione era quella che la Lega non era
niente di più e niente di meno dei giocatori stessi, e che i migliori fra loro,
bianchi o neri, erano uomini straordinari. Molto spesso si erano fatti da soli,
alcuni erano i primi ad aver avuto successo nella propria famiglia. Erano
uomini che avevano raggiunto la propria posizione privilegiata lavorando
sodo e contando solo sulle proprie forze. Alla fine, quando Stern divenne
commissioner, questa semplice consapevolezza gli fu molto utile. Molti
commissioner di sport professionistici vengono scelti dai proprietari delle
squadre e quindi a tutti gli effetti sono poco più che emanazioni delle
proprietà, ma Stern era diverso. Era talmente innamorato del basket che,
anche se si comportava molto bene con i proprietari e otteneva risultati
ammirevoli, gran parte della sua anima rimaneva dedicata al gioco in sé, e
quindi ai giocatori.
Stern si sentiva uno degli uomini più fortunati del mondo: veniva pagato
per fare qualcosa che avrebbe fatto anche gratis. Era sempre indaffarato; la
società diventava sempre più litigiosa e lo sport professionistico, a causa
della natura arcaica delle leggi sul lavoro, era il luogo perfetto dove questa
litigiosità poteva esprimersi. Dal momento dell’ingresso nello studio legale,
nel 1966, a quando divenne consulente dell’NBA nel 1978, trascorse quasi
tutto il suo tempo a occuparsi di basket.
Nell’NBA si fece subito un nome come consigliere di Larry O’Brien. La
Lega continuava ad avere gravi problemi di immagine, ma le cose stavano
cambiando. In un certo senso, pensava Stern, era lo stesso raggio dei
riflettori che si stava modificando. La televisione illuminava lo sport in
modo più vivido e prolungato e rivelava la sua bellezza a sempre più
persone.
Se ci fu un momento di passaggio fra la vecchia NBA legata alle
tradizioni e quella nuova, più moderna, che stava per emergere, fu l’All Star
Game di Denver, alla fine del gennaio 1984. Fino ad allora l’All Star
Weekend era stato un evento piuttosto marginale: c’era solo la partita,
preceduta come da tradizione da una cena piuttosto noiosa. Il baseball
invece sembrava capace di fare molto di meglio per celebrare le glorie del
passato. Stern aveva sempre desiderato che la Lega mostrasse un legame
più stretto con il proprio passato e insieme ad altri giovani insistette per una
celebrazione più entusiasmante. Alla fine, ne uscì un’idea in due fasi: oltre
alla classica partita domenicale, il sabato ci sarebbe stata una partita dei
veterani, e poi avrebbero riesumato il vecchio Slam Dunk Contest
dell’ABA, ancora famoso per il video del 1976 in cui il giovane Julius
Erving saltava dalla linea dei tiri liberi per un’incredibile schiacciata. I
giovani spingevano per il ritorno di quell’evento e Stern fu entusiasta della
proposta. O’Brien però non voleva saperne, ma Stern insistette e alla fine
ottenne il consenso. «E va bene» disse l’altro senza alcun entusiasmo,
«basta che non mi metta in imbarazzo e che non costi niente». Così fu
trovata una sponsorizzazione: l’American Airlines avrebbe provveduto agli
spostamenti dei giocatori, la Schick avrebbe coperto una parte dei costi e il
nuovo canale in ascesa, ESPN avrebbe registrato l’evento per trasmetterlo
una settimana più tardi.
Fino a quel momento l’NBA aveva occupato soltanto duecentocinquanta
stanze d’albergo per l’All Star Weekend, ma il numero improvvisamente
raddoppiò. I Denver Nuggets misero in vendita i biglietti per la partita del
sabato a due dollari e fecero un gran lavoro di promozione. Gli spalti erano
gremiti. Quel weekend, per la prima volta, il passato e il presente dell’NBA
si riunivano, con Larry Bird e Magic Johnson insieme a Oscar Robertson,
Elgin Baylor, Jerry West e tutti gli altri grandi del passato. Julius Erving,
che si avvicinava ai trentaquattro anni, accettò gentilmente di partecipare
alla gara di slam dunk contro il giovane Larry Nance. Per l’ultima
schiacciata, come in realtà tutti si aspettavano, prese la rincorsa dal limite
del campo e quando raggiunse la linea dei tiri liberi spiccò il salto (alcuni
perfezionisti pensarono che l’avesse leggermente superata) e la folla si alzò
all’unisono. Fu un grande successo. Nessuno fu messo in imbarazzo, David
Stern poco dopo prese il posto di Larry O’Brien e un anno più tardi un
giovane di nome Michael Jordan fece il suo ingresso nella Lega, pronto a
vincere anche lo Slam Dunk Contest, se lo avesse voluto.
È incredibile pensare che solo pochi anni dopo l’NBA fosse già così
popolare, soprattutto fra i giovani, un pubblico da sempre molto ricercato
dai pubblicitari. Ed è ancora più notevole che questo fenomeno non abbia
coinvolto soltanto gli Stati Uniti ma il mondo intero: le grandi
multinazionali cominciarono a quel punto a vedere il basket come un
accesso al mercato globale dei giovani, più del football americano o del
baseball. Stern fece molta attenzione a non arrogarsi troppi meriti per quel
cambiamento e si affrettò a dichiarare che le vere forze in gioco erano
completamente al di là del suo controllo, spinte soprattutto dal
cambiamento tecnologico e in particolare dall’ascesa delle tv via cavo.
All’improvviso era tutto un fiorire di lunghi programmi televisivi dedicati
esclusivamente alle notizie sugli eventi sportivi. Stern commentò: «Senza
saperlo, stavamo entrando in una nuova età dell’oro per gli sport, e in
particolare per il basket, alimentata dall’immensa crescita delle televisioni,
soprattutto dei canali via cavo». Sottolineò che questo fattore aveva
determinato una crescita esponenziale del numero di partite trasmesse non
solo a livello nazionale, ma anche regionale, e una parallela crescita del
mercato pubblicitario.
Gli inizi di quell’età dell’oro, però, non furono semplici. ESPN aveva
iniziato le trasmissioni il 7 settembre 1979, più o meno quando Larry Bird e
Magic Johnson erano entrati nell’NBA. In quel momento le tv via cavo,
spinte dalla rivoluzione tecnologica dei programmi spaziali, cominciavano
ad affacciarsi sul mercato. L’ESPN non sembrava certo un investimento
sicuro. Era partita con una promozione speciale, offrendo il proprio servizio
a 1,4 milioni di potenziali abbonati. Era la creatura di Bill Rasmussen, non
certo una potenza nel mondo dello sport americano. A quei tempi aveva
quarantasei anni e il suo ultimo incarico a tempo pieno era stato quello di
portavoce dei New England Whalers presso la vecchia World Hockey
Association, ed era stato licenziato senza troppe cerimonie perché la
squadra non si era qualificata ai playoff per la prima volta da diversi anni.
Più tardi commentò: «Fecero quello che le squadre facevano sempre in
questi casi: licenziarono uno che non sapeva pattinare, come l’addetto alle
pubbliche relazioni».
Anche se la sua idea finì per innescare un’immensa esplosione del mondo
sportivo americano e un effetto ancora più grande
nell’internazionalizzazione dello sport, la visione originaria di Rasmussen
non aveva un orizzonte nazionale né tantomeno globale. All’inizio pensava
a un network locale o regionale che trasmettesse le gare degli studenti del
Connecticut, in particolare le partite di basket dell’Università del
Connecticut e quelle di altre università come Yale, Wesleyan, Fairfield e
altre. Non aveva la minima idea di come realizzarlo dal punto di vista
tecnologico, ma era sicuro che ci fosse un pubblico interessato.
Rasmussen in passato aveva creato un network regionale piuttosto
informale di stazioni radio per trasmettere le cronache delle partite di
football dell’Università del Massachusetts, quindi aveva dei contatti nel
mondo dello sport universitario e un’idea di quello che poteva servire: una
specie di unità mobile che si spostasse nei diversi campus. Ne parlò con
John Toner, direttore atletico dell’Università del Connecticut, che lo
incoraggiò. Poi, nel giugno del 1978, Rasmussen riunì alcuni amici per
sentire che ne pensavano. Uno di loro disse che nel mondo delle tv via cavo
c’era una novità chiamata trasmissione via satellite che poteva consentire la
messa in onda a prezzi stracciati. Quel pomeriggio stesso Rasmussen
chiamò gli uffici della RCA e parlò con Al Parinello, addetto alle vendite
degli spazi di trasmissione sui canali dei satelliti di comunicazione. La
richiesta di spazi era così bassa che Parinello gli chiese dove fossero i suoi
uffici e disse che sarebbe andato da lui il giorno successivo.
Parinello, munito di tariffario, spiegò a Rasmussen come funzionava il
satellite. Per le normali trasmissioni via cavo da cinque ore al giorno, gli
disse, il costo sarebbe stato di $1.250 al giorno. Aggiunse che esisteva
anche un’altra tariffa, ma che nessuno l’aveva mai usata. E qual era? chiese
Rasmussen. Beh, per trasmettere ventiquattr’ore al giorno il costo era di
$34.167 al mese. Uno dei partecipanti alla riunione era il figlio ventiduenne
di Rasmussen, Scott, che fece un rapido conto e scoprì che il servizio
completo sarebbe costato soltanto 1.139$ al giorno. La decisione fu
semplice: volevano le ventiquattr’ore.
La domanda successiva fu cosa trasmettere per tutto il giorno. Scott
Rasmussen propose le partite di football universitario. Bill Rasmussen
sapeva già, per l’esperienza con l’Università del Massachusetts, che la
NCAA consentiva la trasmissione in differita. Anche se i grandi network
avevano i diritti sulle partite universitarie più importanti, quelle che
venivano trasmesse erano pochissime. E tutte le partite universitarie che
non venivano mandate in onda? Potevano trasmetterle in diretta o in
differita? E ritrasmettere le vecchie partite? E tutti gli altri sport
interuniversitari che non venivano mai trasmessi in tv? L’hockey
universitario veniva mai mandato in onda? E il wrestling? I campionati
femminili? I campionati di basket regionali che precedevano le finali
NCAA, tanto amate dai tifosi? Grazie all’amicizia con Toner, Rasmussen si
mise in contatto con il comitato televisivo dell’NCAA e trovò interesse e
collaborazione: mandare in onda un maggior numero di partite e in
particolare quelle degli sport minori sarebbe stato chiaramente positivo per
tutti gli attori coinvolti, soprattutto per i ragazzi che praticavano sport
largamente ignorati.
I Rasmussen affittarono un ufficio spartano a Plainville, in Connecticut.
Rasmussen ama ricordare che costruirono le scrivanie inchiodando delle
gambe di legno ad alcune vecchie porte. All’inizio del settembre 1978
Parinello chiamò Rasmussen per dirgli che se era ancora interessato doveva
sbrigarsi a fare domanda alla FCC, l’organizzazione che controllava le
richieste dei nuovi canali televisivi. Rasmussen lo fece. Pochi giorni dopo il
Wall Street Journal dedicò la prima pagina alle possibilità che la
rivoluzione del satellite avrebbe aperto ai canali via cavo. All’improvviso la
RCA fu sommersa dalle richieste di spazi da parte di tutti i giganti del
settore. Ma la FCC operava con il criterio del chi primo arriva meglio
alloggia e Rasmussen era in vantaggio sui concorrenti più grandi. Era
capitato per caso in un affare quasi letteralmente inestimabile. Quando, alla
fine di settembre, vennero assegnate le frequenze, l’Entertainment Sports
Programming Network (detta anche, a volte, E.S.P.Network) di Plainville
era l’unica azienda sconosciuta dotata di un proprio canale.
A due ore dall’annuncio, ricordò poi Rasmussen, il telefono del suo
ufficio cominciò a squillare. Era una società di investimenti di New York
City che rappresentava un’azienda di comunicazione. «Signor Rasmussen»
gli disse una voce, «rappresento un’importante società finanziaria di Wall
Street e abbiamo un cliente molto importante interessato ai suoi spazi: entro
la fine della giornata possiamo renderla un uomo molto ricco». Quella
telefonata gli servì soltanto a capire di avere in mano qualcosa di molto
prezioso. Più tardi calcolò che probabilmente avrebbe potuto ottenere
almeno 5 milioni di dollari. Intanto i membri della famiglia Rasmussen
cominciarono a darsi da fare per raccogliere un capitale di partenza. Le
carte di credito di Bill furono sfruttate fino al limite delle loro scarse
capacità. Una società di investimenti della Pennsylvania, che aveva fiutato
l’affare, offrì $250.000 e promise di cercare altri investitori. Poco dopo la
Getty Oil entrò con dieci milioni, il valore dell’85% delle azioni della
compagnia. Quello fu il vero capitale iniziale che segnò l’inizio dei lavori.
Anni dopo, quando fu espulso dall’azienda nata dalla sua idea iniziale –
guadagnandoci comunque una fortuna – Rasmussen pensò che l’accaduto
fosse un esempio tipico del sistema dell’imprenditoria americana. Lo
divertiva il fatto che proprio lui, un completo sconosciuto senza mezzi,
senza accesso ai capitali e senza alcuna esperienza in campo televisivo
avesse potuto avere un’idea di tale originalità e importanza mentre tutti i
top manager delle grandi aziende di comunicazione – molti dei quali si
occupavano esclusivamente di sport – non ci avevano minimamente
pensato.
Nel febbraio del 1979 Rasmussen fece un accordo con la NCAA per un
pacchetto differenziato di sport, compreso il football americano. La
Anheuser-Busch acquistò spazi pubblicitari per 1,4 milioni di dollari, il più
grande investimento mai fatto in una tv via cavo. Fu creato un logo.
Avrebbe dovuto essere ESPN-TV, ma dallo stampatore arrivò ESPN e lo
tennero così. L’azienda stabilì la sede centrale a Bristol, in Connecticut,
soprattutto per i costi contenuti. Non tutti però li accolsero a braccia aperte.
Un ex sindaco di Bristol che correva per la rielezione pronosticò che le due
grandi parabole satellitari dell’azienda avrebbero ucciso un sacco di uccelli
e inondato di radiazioni ogni essere vivente del circondario. ESPN iniziò le
trasmissioni nel settembre del 1979.
Fu così che una rivoluzione tecnologica orchestrò l’inizio di un profondo
cambiamento culturale. All’insaputa di tutti, il futuro dello sport era
cominciato. L’attenzione dell’America si concentrò sui propri atleti la cui
importanza, cresciuta negli anni precedenti con l’avvento delle radio (una
rivoluzione tecnologica che aveva esteso enormemente la popolarità del
baseball), per poi aumentare ancora alla fine degli anni cinquanta, con la
diffusione della tv (che aveva portato alla ribalta il football
professionistico), stava per fare un altro grande balzo, un balzo che stavolta
avrebbe avvantaggiato tutti gli sport ma in particolare il basket. Proprio in
quell’anno Michael Jordan ebbe un picco di crescita, entrò per la prima
volta nella prima squadra della Laney High School e ne divenne il giocatore
di punta, e Michael Brown chiamò Roy Williams per dirgli che aveva un
liceale di grande talento e che l’Università della Carolina doveva vederlo.
I dolori di crescita della ESPN non furono trascurabili. A un anno dalla
creazione dell’azienda, la Getty decise che Rasmussen non era abbastanza
preparato per gestire la sua creazione e lo mandò via. Per qualche anno, il
neonato canale sembrò simboleggiare un teorico potenziale più che una
vera fonte di profitto. Nei primi tempi, prima che fosse riconosciuto il suo
reale valore in termini commerciali, non fece che perdere soldi: si diceva
che avesse bruciato trenta milioni soltanto nel primo anno e quaranta
milioni entro il 1982. I manager della Getty non erano per nulla entusiasti
dell’operazione. A un certo punto avevano deciso di uscire, ma dovettero
ammettere che il canale non aveva ancora guadagnato abbastanza valore e
che dovevano proseguire ancora un po’. Poi però, gradualmente, il network
si affermò, soprattutto grazie alla passione dei suoi abbonati, gli irriducibili
tifosi americani votati alla causa ancora prima che arrivassero i profitti. Nel
disperato tentativo di svoltare, ESPN decise di chiedere alle tv via cavo
locali un contributo di cinque centesimi ad abbonato. Questa pretesa non fu
accolta con grande entusiasmo, ma alla fine fu accettata per le pressioni
degli spettatori. A partire dal 1983, gli abbonati dovettero pagare il servizio,
anche se indirettamente.
Le cose si facevano interessanti. La Texaco comprò la Getty e mise in
vendita ESPN. Nell’aprile 1984 fu comprata dall’ABC, non tanto perché i
manager la volessero quanto perché non volevano che l’avesse Ted Turner,
architetto della CNN e astro nascente delle tv via cavo. Il valore di ESPN
era già cresciuto in maniera esponenziale: l’ABC la pagò 237 milioni di
dollari. I Rasmussen possedevano ancora il 12,5% dell’azienda, e
ricevettero circa 30 milioni di dollari. L’arrivo della ABC cambiò tutto,
perché portò in ESPN grandi competenze televisive. Nel 1984 ESPN era
consolidata: raggiungeva già trentaquattro milioni di famiglie ed era entrata
a far parte della vita quotidiana dei tifosi di sport della nazione. Se mai, i
tifosi erano un passo avanti rispetto alle decisioni del mercato televisivo.
Sapevano cosa volevano, e cioè una dose di sport tutte le sere, e quello
strano piccolo canale con la sua programmazione a volte geniale e a volte
ondivaga poteva fornirgliela.
L’anno in cui ESPN diventò finalmente adulta, il 1984, fu lo stesso in cui
David Stern divenne commissioner dell’NBA, e quello in cui Michael
Jordan lasciò North Carolina per entrare nei Chicago Bulls.
Due anni prima ESPN aveva trasmesso la sua prima partita dell’NBA,
come parte di un contratto di due anni. Ancora più importante, il network
aveva trasmesso fin dalla propria nascita le partite universitarie,
aumentando la popolarità dei giocatori e rendendoli più familiari al
pubblico ancor prima che arrivassero in NBA. Il basket stava allargando il
suo raggio di influenza, inizialmente solo negli Stati Uniti, ma in breve il
fenomeno sarebbe diventato globale: era un gioco molto più facile da
esportare oltre confine rispetto ai due rivali nazionali, il football americano
e il baseball, in parte perché le regole erano semplici. Nel nuovo mondo
commerciale e tecnologico unito dal satellite, gli Stati Uniti erano la
squadra di casa. Erano la nazione più ricca del mondo e il loro potere di
trasmissione era immensamente più grande rispetto a qualsiasi altro paese
per via dell’enorme apparato già esistente. La loro lingua era
universalmente accettata ed erano all’avanguardia dal punto di vista della
cultura popolare, una forza che attirava i giovani di tutto il mondo, sempre
ansiosi di liberarsi dai dogmi e dalle restrizioni della generazione
precedente. Tutto questo lavorava in favore di David Stern e dell’NBA.
Nel bene e nel male, negli anni ottanta l’America non esportò tanto
prodotti meccanici o automobili quanto la propria cultura: i fast food, la
Coca-Cola e i Big Mac, l’abbigliamento informale e rilassato, la musica
pop, i film e i programmi tv. E gli sport. Il nuovo sport in ascesa a livello
globale, quello che guadagnava sempre più seguito fra i giovani, non era il
calcio, che pure regnava sovrano in molte parti del mondo, ma il basket.
Negli Stati Uniti il calcio era considerato troppo lento e organizzato in
modo che difensori con minore talento potessero neutralizzare con troppa
facilità attaccanti più bravi di loro, un errore che l’NBA evitava con
grandissima cura. I tradizionalisti stranieri potevano anche lamentare un
nuovo colonialismo culturale americano, potevano anche considerare
l’americanizzazione – o democratizzazione – della loro cultura come un
imbarbarimento, ma il potere di attrazione sui giovani (e col tempo anche
meno giovani) era innegabile. Inoltre, l’esplosione della tecnologia stava
accelerando i ritmi di vita in tutto il mondo sviluppato e il basket era uno
sport di velocità: le azioni erano rapide, si guadagnavano punti molto
spesso e le sorti della partita cambiavano continuamente.
Se l’America era la squadra di casa nella nuova cultura internazionale,
era inevitabile che prima o poi un atleta americano diventasse un simbolo
dal punto di vista commerciale, il perfetto veicolo per vendere una vasta
gamma di prodotti esportati dalle aziende di questa ricca superpotenza che
dominava il mondo della cultura e del consumo. Questo personaggio
avrebbe dovuto essere un atleta eccezionale in uno sport facilmente
comprensibile in tutto il mondo, ma anche popolare in America. Pelé, il
grande calciatore brasiliano, poteva esserne un esempio: il suo fascino e il
suo talento erano evidenti e aveva un sorriso incredibile, capace di superare
in un attimo i vecchi e rigidi confini storici delle nazioni. Ma i suoi anni
migliori si erano consumati prima dell’autentica internazionalizzazione
dell’economia e il calcio, naturalmente, non aveva molto seguito negli Stati
Uniti. Un’altra possibilità era quella di Muhammad Ali che era bello,
spiritoso e pieno di fascino, ma i suoi anni migliori risalivano ancora più
indietro, agli anni sessanta e settanta; rappresentava inoltre uno sport molto
violento e gli dèi della pubblicità di Madison Avenue non volevano saperne
di lui perché dal loro punto di vista aveva commesso due errori fatali:
prendere un nome musulmano e opporsi a una guerra in Asia impossibile da
vincere. Ali non fu mai inseguito dagli sponsor, anche se a fine carriera
ottenne uno spot per l’insetticida D-Con.
A posteriori, era quindi inevitabile che il giocatore catapultato alla testa
di questo nuovo impero atletico-cultural-commerciale fosse un americano e
un giocatore di basket. Gli altri sport americani dominanti erano fuori gioco
a causa della natura delle scarpe. Non era certo possibile suscitare battaglie
commerciali per le scarpe da football americano o da baseball, come invece
accadde negli anni ottanta per stabilire quale fosse la sneaker imperante.
Nike, Converse e Adidas entrarono in guerra e chi ne beneficiò fu l’NBA.
Le aziende di hamburger e bibite gassate vennero di conseguenza. I
giocatori dell’NBA, come gli spot della Nike avrebbero presto dimostrato,
avevano un fortissimo potenziale commerciale e attraevano soprattutto i
consumatori più giovani, che non erano intralciati dal concetto di razza
quanto le persone più anziane – le stesse che fino a quel momento avevano
preso le decisioni a Madison Avenue.
Il basket fu aiutato anche da una serie di altri miglioramenti tecnologici,
al di là del satellite. La qualità della visione sui due lati era aumentata
perché sia le telecamere che gli schermi televisivi erano più evoluti. Le
immagini più definite facevano in modo che i giocatori di basket
proiettassero un senso di intimità fisica ed emotiva. Giocavano in
abbigliamento succinto e lo sport che praticavano richiedeva movimenti
acrobatici e azioni sia offensive che difensive, che mettevano quindi in
evidenza sia il talento atletico che il lato emotivo. Era ben diverso per i
giocatori di football americano, bardati in modo molto più pesante, e per
quelli del baseball, che tradizionalmente rivelavano meno della propria
interiorità. E una superstar del basket, un giocatore veramente eccezionale
attorniato da soli quattro compagni in campo, poteva dominare il gioco e
infiammare l’immaginazione del pubblico come un giocatore di baseball fra
nove o più compagni o un giocatore di football fra ventidue non avrebbe
mai potuto fare. All’improvviso, con l’abilità dei migliori pubblicitari del
Paese a loro disposizione, il potenziale di attrazione di Michael Jordan,
Charles Barkley e Magic Johnson divenne evidente.
Mentre la Nike e altre aziende presentavano come ‘star’ singoli giocatori,
Michael Jordan fra tutti, sostenuti dall’NBA e dai network televisivi che
cospiravano per promuovere questi nuovi eroi, la Lega si preparava a un
deciso cambio di rotta, anche se al momento quasi nessuno se ne rendeva
conto. Questo nuovo corso faceva parte di un fenomeno più ampio, che
coinvolgeva tutti gli sport e la società in generale, ma che nel basket si
rivelò in modo più esplicito e scoperto. Era stata fatta una scelta fatale ad
alto livello: seguire la via della modernità o sparire come sport di prima
grandezza. Ormai al centro della comunicazione c’erano i singoli giocatori,
invece delle squadre. Una cosa che in passato sarebbe stata inaccettabile per
proprietari, allenatori e molti degli stessi atleti, e cioè il culto della
personalità, era diventata obbligatoria, anche se a livello inconscio, per
allargare la base dei tifosi. I sostenitori, i proprietari e gli sponsor del gioco
non si vedevano più in conflitto con le squadre rivali, e nemmeno con altri
sport. Ormai la competizione si era spostata in un’arena molto più grande e
spietata: dovevano vedersela con rock star, divi del cinema e con tutte le
altre forme di intrattenimento moderno per strappare una fetta di profitto nel
settore. Le strutture sportive avrebbero dovuto essere nuove e moderne,
prevedere spazi di lusso come gli sky box e continui momenti di
intrattenimento: acrobati e ballerine sul campo e musica rock a tutto
volume. Al di sopra del campo dovevano esserci dei maxischermi in modo
che i tifosi potessero godersi non soltanto l’azione, ma ogni tanto anche le
immagini di se stessi, forse un piacere anche maggiore. Il silenzio e i tempi
morti dovevano essere aborriti sopra ogni cosa.
I puristi, che amavano il gioco in sé e guardavano con sospetto il culto
delle celebrità, erano sconcertati. I dirigenti dei Bulls, come molti altri della
vecchia guardia nella Lega, all’inizio non erano tanto sicuri di apprezzare
quel cambio di rotta. Quando venne mandato in onda il primo grande spot
di Michael Jordan per le sneakers, il general manager Rod Thorn dimostrò
un certo disagio: «Che cosa stai cercando di fare al mio giocatore» chiese a
David Falk dopo averlo visto, «vuoi trasformarlo in un tennista?»
«In effetti il mio scopo è proprio quello» rispose Falk.
La natura del pubblico cominciò a cambiare: dai tifosi irriducibili, spesso
con meno disponibilità economiche, a persone benestanti che potevano
permettersi gli sky box e il cui interesse verso le squadre era più tiepido e
meno radicato. Il fatto che Michael Jordan fosse insolitamente ben
preparato a impersonare la nuova superstar per tutte le stagioni pur
rimanendo assolutamente puro come giocatore di basket lo rendeva una rara
eccezione. Altre squadre non furono così fortunate nella scelta di altri
giovani di talento.
Dunque, quando Michael Jordan arrivò all’NBA erano già in atto un certo
numero di cambiamenti, sia tecnologici che economici, che avrebbero
influenzato il suo futuro e dei quali avrebbe beneficiato più di tutti. David
Stern più tardi ammise di aver notato a malapena la sua comparsa, preso
com’era dalle questioni legali e commerciali che dominavano l’agenda
quotidiana del commissioner. Anzi, quello che gli era rimasto più impresso
del draft di quell’anno era stata la multa comminata a Portland per
tampering con Hakeem Olajuwon. Comunque, l’arrivo di Jordan all’inizio
della carriera di Stern sarebbe stato uno dei fattori determinanti del suo
successo personale. Se Stern cercava non solo il successo, ma una nuova
rispettabilità per la sua lega, l’arrivo di Michael Jordan era la risposta alle
sue preghiere.
Niente rivela i cambiamenti introdotti dalla copertura delle tv via cavo e
la crescente ricchezza della Lega più dell’accordo televisivo offerto dalla
NBC per i diritti dell’NBA nel 1989. La CBS li deteneva da diciassette anni
e nel 1989 stava facendo un lavoro egregio. Mancava un anno alla scadenza
del contratto e le trattative erano aperte. L’accordo precedente con la CBS
prevedeva una durata di quattro anni e un valore di 188 milioni di dollari, o
47 milioni all’anno, più il diritto di fare una controfferta equivalente a
quella di qualsiasi concorrente. Dick Ebersol, della NBC, voleva il basket a
tutti i costi: era sicuro che fosse in ascesa. Se Bird e Magic erano a fine
carriera, i Pistons erano una bella scommessa ed era chiaro che non solo
Michael Jordan stava per raggiungere l’apice delle sue potenzialità, ma che
anche la sua squadra stava migliorando. Fece un’offerta da 600 milioni di
dollari per quattro anni. David Stern, sempre attento ai nuovi mercati e ai
consumatori più giovani, inserì nell’accordo un programma del mattino per
bambini: la NBC era disposta a farlo, la CBS no (il programma alla fine fu
intitolato NBA Inside Stuff). La CBS la considerò un’offerta troppo alta,
soprattutto perché Larry Bird e Magic Johnson erano in uscita, e non
rilanciò. Neil Pilson, il capo dello sport della CBS, fu sentito dire ai
collaboratori che non era poi così grave, perché comunque la finale
probabilmente si sarebbe giocata fra Utah e Cleveland.
Pilson si sbagliava, e così la CBS. Il primo anno in cui le finali furono
trasmesse dalla NBC fu il 1991, la prima volta che ci arrivarono i Bulls, e la
crescita degli ascolti fu impressionante. E non sarebbe finita lì. Le prime
finali in cui si erano scontrati Bird e Johnson si erano svolte nel 1984 e
l’indice d’ascolto era stato soltanto 7,6. Tre anni più tardi, per il loro ultimo
scontro, era arrivato in media a 16. In confronto, l’ultima partita delle Finals
del 1998 ottenne un indice d’ascolto impensabile per il basket solo pochi
anni prima: 22,3.
Più di qualunque altra cosa, il nuovo contratto con la NBC dimostrava
che David Stern aveva ottenuto una parte fondamentale del suo originario
obiettivo di rispettabilità. Per lui fu una grande vittoria. Quel giorno Ebersol
chiese a Stern come pensava di festeggiare. «Andrò a casa e cenerò con
Dianne» rispose lui.
«Ma chi lo dirà ai proprietari?» chiese Ebersol, sapendo che in casi come
quello era un grande piacere per il commissioner fare le telefonate per
informare i vari proprietari delle squadre – i suoi capi – e prendersi i meriti
dell’affare. Stern disse che lo avrebbero fatto Russ Granik e Garry Bettman,
i suoi due vice. Più tardi Ebersol pensò che quella era stata la parte più
notevole di tutto il processo di negoziazione: un capo talmente sicuro di sé
da lasciare che i suoi vice facessero le telefonate celebrative ai proprietari.
10
Chapel Hill; Chicago; Portland, 1984

Quando uno dei suoi ragazzi stava per entrare nello sport professionistico,
Dean Smith tendeva a supervisionare e orchestrare l’intera operazione:
invitava soltanto agenti di cui si fidava e si assicurava che nessuno dei suoi
atleti si facesse spennare da inaffidabili avventurieri. A quei tempi due
uomini che lavoravano insieme, Donald Dell e Frank Craighill, avevano
una corsia preferenziale a Carolina. Dell era stato una stella del tennis ed
era diventato agente rappresentando altri tennisti di prima grandezza,
mentre Craighill veniva dal mondo della finanza, aveva studiato a Chapel
Hill ed era stato ricercatore all’Università di Morehead, cosa che Dean
Smith apprezzava. Sembrava che a Smith piacessero sia Dell che Craighill e
in breve i due erano entrati a far parte integrante del programma sportivo di
Carolina. A quei tempi l’interesse primario di Dell era il tennis, il basket era
marginale per lui. L’organizzazione di Dell e Craighill aveva lavorato bene
per i giocatori di Smith, per esempio aveva ottenuto un ottimo contratto per
Tom LaGarde, un centro grosso e un po’ goffo con un ginocchio già
malconcio che nel 1977 era stato la settima scelta al draft nazionale; un
contratto che si diceva fosse più vantaggioso di quello ottenuto da Walter
Davis, quinta scelta nella stessa stagione. Smith aveva apprezzato l’abilità
nel valorizzare un giocatore non eccezionale. Dopo quell’episodio i due
cominciarono a lavorare per altri giocatori dell’Università del North
Carolina, fra cui Phil Ford, Dudley Bradley e James Worthy.
Quando Dean Smith decise che Michael Jordan doveva lasciare il college
dopo il terzo anno, David Falk era un socio molto giovane di Dell. C’è un
elemento di casualità nel modo in cui i due divennero agenti di Jordan.
Quell’anno Dell e Craighill si erano separati: Dell e Falk erano rimasti
insieme mentre Craighill e un altro socio, Lee Fentress, avevano aperto
un’agenzia concorrente. Quella divisione aveva creato un dilemma per
Dean Smith. Era legato a entrambi i gruppi e quindi non sapeva bene a chi
affidare i suoi ragazzi.
Quando uno dei suoi giocatori usciva dall’università in anticipo, come
stava facendo Jordan, a Dean piaceva fare un’attenta ricognizione
economica, per assicurarsi che valesse davvero la pena di rinunciare
all’anno del diploma. In quell’occasione aveva lasciato che a fare la
valutazione fossero Dell e Falk, che quindi erano lievemente in vantaggio.
Alla fine, Smith concesse loro di avere Jordan, mentre Sam Perkins andò
con Craighill e Fentress.
A quei tempi i due lavoravano così: Dell si occupava del contratto
originale e poi Falk, che era molto più giovane ma anche molto più esperto
di basket, interveniva per gestire gli accordi collaterali con il giocatore, fra
cui il contratto per le sneakers che allora era considerato secondario.
Quando Jordan uscì dall’università, nel 1984, fra gli ex studenti di Carolina
che erano già passati al professionismo si cominciava a parlare molto più di
David Falk che non di Donald Dell, perché era Falk la persona con cui
avevano a che fare, quello che li seguiva passo per passo e gestiva tutti gli
accordi collaterali, che con l’aumento esponenziale della notorietà dei
giocatori dell’NBA non erano più così secondari. Come osservò poi Falk:
«Dean Smith vedeva ancora me come il ragazzino e Dell come l’uomo
adulto, ma i suoi giocatori cominciavano a vedere me come l’uomo con cui
avevano concretamente a che fare».
Dal primo momento in cui entrò nell’agenzia di Dell, visto il modo in cui
aumentavano i profitti collaterali, Michael Jordan si affidò essenzialmente a
David Falk: in seguito avrebbe ripetuto spesso di averlo scelto perché aveva
lo stesso taglio di capelli di suo padre, ovvero era praticamente calvo. Pochi
si avvantaggiarono più di Falk dei cambiamenti in atto nel basket e nello
sport americano. In un breve lasso di tempo – in pratica un decennio –
passò dall’essere un giovanotto brillante che sgomitava alle soglie del
mondo del basket, e che sembrava in soggezione davanti al prestigio e alla
raffinatezza di Dell al punto di cercare di imitarlo nell’abbigliamento e nel
modo di parlare, a un potente procuratore milionario la cui influenza in certi
momenti sembrava rivaleggiare con quella dello stesso commissioner e
superare quella di molti proprietari di squadre. Due fattori contribuirono
alla sua ascesa: innanzitutto il drastico cambiamento delle leggi sul lavoro,
grazie al quale il potere passò quasi completamente dalle mani dei
proprietari delle squadre a quelle dei giocatori e quindi dei loro agenti, e in
secondo luogo l’ottimo lavoro che fece per Michael Jordan. Stava nascendo
una nuova era e Falk era presente. In un’epoca di libera rappresentanza e di
stipendi apparentemente illimitati, la sua scuderia di atleti arrivò a
comprendere non soltanto Michael Jordan ma una ventina dei migliori
giocatori della Lega, fra cui Patrick Ewing, Allen Iverson, Juwan Howard,
Alonzo Mourning, Dikembe Mutombo, Keith Van Horn e Antoine Walker,
alcuni dei quali avevano firmato con Falk nella speranza che facesse per
loro quello che aveva fatto per Jordan: renderli icone culturali capaci di
trascendere i confini del basket, o in alternativa ottenere contratti da 20
milioni di dollari all’anno, che nel 1998 era una cifra ammissibile.
David Falk non era sempre morbido nell’esercizio del suo nuovo potere.
Non disdegnava di evidenziare i limiti di coloro che riteneva si trovassero
più in basso di lui nella gerarchia in cui si muoveva. Il compito di un bravo
agente non era quello di essere gentile ma quello di curare al meglio gli
interessi dei propri clienti, anche facendosi dei nemici se necessario. Era
diffusa la convinzione che nessuno curasse gli interessi dei clienti, nella
grande maggioranza dei casi, meglio di David Falk: non c’era quindi da
stupirsi che nessuno avesse più nemici di lui. Nel mondo del basket
professionistico ci si domandava se fosse o no una buona idea rientrare fra i
clienti secondari di David Falk: un proprietario si sarebbe sfogato su un suo
cliente meno importante perché non poteva farlo con quelli di prima
grandezza? Oppure invece sarebbe stato più generoso con lui, nella
speranza di ottenere il favore di Falk quando ci fosse stato da gestire una
superstar?
Michael Jordan non si preoccupava minimamente del fatto che il suo
agente fosse detestato, in privato, da molti plenipotenziari del basket. Era
ben felice di aver guadagnato livelli di popolarità apparentemente illimitati,
ma non aveva fretta di veder fraternizzare il suo agente con chiunque
facesse parte delle strutture di potere. Come disse una volta di lui,
accostandolo a uno dei giocatori più temuti della Lega: «Somiglia molto a
Rick Mahorn: non piace a nessuno, a meno che non stia in squadra con te».
John Thompson, cliente e amico di Falk, una volta disse che se vuoi un
cane da guardia per la tua casa, non prendi certo un barboncino.
L’ascesa al potere di David Falk nel mondo dello sport non era certo
predestinata. Era un ragazzo della classe media, originario di Long Island,
che nei primi anni di attività non aveva particolari qualità se non la passione
per lo sport e il desiderio di fare l’avvocato. Suo padre gestiva due
macellerie. Si era laureato a Syracuse, segno che non era riuscito a entrare
nell’élite della Ivy League, e alla facoltà di legge non era fra i
rappresentanti più in vista della sua generazione, non certo una prima scelta,
insomma. Ebbe a dire: «Ero un personaggio marginale sulla bilancia delle
giovani promesse della legge e dovetti rendermi conto che nessuno mi
avrebbe cercato con particolare entusiasmo».
Fu ammesso alla George Washington Law School di Washington D.C. ed
entrò come apprendista negli uffici di un agente sportivo per ottenere
qualche contatto nel settore. Cercò di approcciare Bob Woolf a Boston e
Larry Fleisher a New York, ma erano lupi solitari che non avevano
collaboratori. Poi qualcuno gli suggerì di provare con Donald Dell. Falk lo
chiamò più volte senza successo finché un giorno, furioso per
l’inaccessibilità di Dell, decise di continuare a provare finché non gli avesse
risposto, cosa che Dell fece, secondo i calcoli di Falk, al diciassettesimo
tentativo. Fissarono un appuntamento e, secondo Falk, Dell lo fece aspettare
per tre ore, ma alla fine fu preso come apprendista. A volte andava a scuola
di sera o d’estate e durante il giorno lavorava per Dell. Gli fu assegnato il
lavoro d’ufficio per Arthur Ashe e lui lo svolse con raro impegno,
controllando ogni aggiornamento delle cifre di bilancio, cosa che pochi
agenti facevano, e rendendosi indispensabile per Ashe, tennista che Falk
ammirava immensamente.
Anche in quei primi tempi metteva grande passione e impegno nel
rapporto con i clienti. Un anno gli capitò di rappresentare un giovane
cestista di nome Rod Griffith, che era stato scelto da Denver.
Quell’autunno, i limiti di Griffith diventarono evidenti al management dei
Nuggets, che stava per tagliarlo. Falk cominciò a chiamare ogni giorno
Donnie Walsh, il general manager, per perorare la causa del suo cliente e
nel giorno in cui i Nuggets volevano mandare via Griffith, Falk capitò al
ritiro della squadra. Walsh si chiese se non avesse poteri paranormali. «Mi
colpì il fatto che, dato che non c’erano voli commerciali da Washington alla
Air Force Academy, dove ci stavamo allenando, probabilmente era riuscito
a trovare il modo di viaggiare sull’Air Force One» disse in seguito Walsh,
«ma quel livello di impegno non poteva lasciare indifferenti e almeno per
un po’ funzionò, perché quel giorno non lo tagliammo».
Falk sembrava sempre iperattivo: pensava in fretta, coglieva i dettagli in
fretta e si sentiva in obbligo di parlare in fretta. Le parole e i pensieri
sembravano esplodere da lui, come se fosse impaziente di sentire per primo
quello che diceva, forse per paura che se non avesse parlato abbastanza
velocemente qualcun altro avrebbe potuto dare voce ai suoi stessi pensieri e
prendersi il merito. Più guadagnava potere meno dubbi aveva sull’estremo
valore del proprio tempo, certo molto più alto del tuo e probabilmente di
quello di chiunque altro, eccezion fatta, forse, per lo stesso Michael Jordan.
Negoziare con Falk, disse un general manager dell’NBA, era come lottare
con un geniale polpo, per la quantità di mosse e la resilienza che metteva in
campo. «Minaccia, promette, urla. Se non fai quello che vuole è tutto finito,
non vuole più saperne di te, la tua squadra non vincerà mai più una partita e
tu verrai licenziato per la tua scarsa lungimiranza. Se invece fai quello che
vuole, potresti essere in procinto di accogliere il nuovo Michael Jordan».
I suoi giocatori erano sempre dalla parte giusta in ogni conflitto, e intorno
a David Falk c’erano inevitabilmente moltissimi conflitti. Tutti gli altri
avevano torto. I suoi erano sempre i buoni. Un accenno a un libro su
Michael Jordan scritto da Sam Smith, gran parte del quale a quanto pareva
basato sulle interviste con Horace Grant, scatenò una lunga e appassionata
sequela di improperi su Grant, incentrata prevalentemente sulla sua scarsa
intelligenza. Chiunque si mettesse contro di lui in una causa legale, lasciò
intendere una volta Falk al giornalista Rick Telander, sarebbe stato
schiacciato.
Moltissimi proprietari e general manager avevano una profonda
avversione per Falk, ma la nascondevano meglio che potevano e si
facevano in quattro per accontentarlo, per paura che il loro nuovo centro e
superstar, scontento del contratto da soli 18 milioni di dollari all’anno e
intorno al quale era appena stata costruita una struttura sportiva da 3
miliardi complessivi (naturalmente col nome di una linea aerea), potesse
decidere che preferiva un clima diverso e più felice, e una struttura sportiva
più nuova intitolata a una linea aerea concorrente.
A volte i general manager si chiedevano quali fossero i limiti del potere
di Falk, e quale la natura dei suoi capricci. Quando una stella del basket
sembrava scontenta di qualcosa, lo era davvero o piuttosto lo era Falk?
Forse Falk voleva farsi una tintarella invernale e in gennaio e febbraio
preferiva andare a Miami invece che a Minneapolis o Vancouver? Avrebbe
potuto portare via la loro stella per spostarla nella squadra di un’altra città,
dove aveva un’altra star più anziana con un disperato bisogno di aiuto da
parte di un altro atleta di talento? C’era una cosa che non cambiava mai
riguardo a David Falk, ed era che nelle sue peregrinazioni fra i palazzetti
per andare a tenere la mano ai suoi vari giocatori, otteneva sempre dei posti
favolosi.
Michael Jordan e David Falk contribuirono l’uno al successo dell’altro e
ciascuno ricavò notevoli vantaggi da quella collaborazione. Certo, Jordan
era quello che alla fine portava a casa il risultato, quello che scendeva in
campo e segnava i punti decisivi ogni partita, ma è anche vero che David
Falk contribuì a rivoluzionare la rappresentanza di un giocatore di basket, il
processo di entrare in una squadra e creare l’idea del singolo giocatore
come superstar pubblicitaria, un atto iconografico che a quei tempi era
sconvolgente. Prima che Falk chiudesse il primo favoloso accordo per
Michael Jordan, i grandi budget delle sneakers si concentravano
preferibilmente sui tennisti: Arthur Ashe, Jimmy Connors o John McEnroe
guadagnavano milioni, mentre i cestisti dovevano accontentarsi delle
briciole. L’accordo con Michael Jordan cambiò le carte in tavola: anche un
giocatore di basket, pur facendo parte di una squadra, poteva essere una
star.
Fin dall’inizio, Falk intuì che Michael Jordan era speciale, che avrebbe
potuto superare gli angusti confini del suo sport, che aveva un carisma al
quale le persone comuni avrebbero reagito e che lo collocava in un’élite di
atleti speciali come Pelé, Muhammad Ali e Arthur Ashe, i quali si erano
guadagnati maggior fama e celebrità al di fuori degli Stati Uniti piuttosto
che in patria.
Ciò che David Falk contribuì a fare con Michael Jordan modificò la
natura del rapporto fra procuratore sportivo e atleta. È vero che il momento
era perfetto e che combinava una serie di fattori favorevoli, i più evidenti
dei quali riguardavano l’evoluzione tecnologica delle comunicazioni, ma è
anche vero che Falk aveva l’atleta perfetto per quell’epoca, un virtuoso in
uno sport in cui l’abilità tecnica richiesta era evidente anche ai neofiti e che
inoltre era un giovane di sfolgorante bellezza e rara eloquenza. Dean Smith,
che rappresentava l’altra metà del mondo di Jordan, non era del tutto
soddisfatto delle infinite possibilità commerciali prodotte dal successo
dell’atleta (o almeno dell’idea che un agente avesse più potere di un
allenatore) e lo si sentì dire che sua figlia avrebbe potuto rappresentare
Michael Jordan bene quanto Falk. È anche vero che se pure Falk, sotto ogni
punto di vista, aveva fatto per Jordan un lavoro che nessun agente nella
storia aveva mai fatto per un altro atleta, non ottenne più un altro giocatore
dell’Università della Carolina.
La verità che bisogna riconoscere a Falk è di aver visto il futuro prima di
chiunque altro. Perché, dopotutto, quello che era successo con Jordan non si
era verificato pochi anni prima, con l’avvento di Magic Johnson? Era
approdato al professionismo nel 1979, dopo aver vinto il campionato
NCAA e nell’anno dell’esordio aveva portato i Lakers alla vittoria
nell’NBA giocando meravigliosamente nella finale contro Philadelphia. Los
Angeles era sicuramente una città molto più adatta di Chicago per
promuovere un’icona dello sport con la potenzialità di trascendere i confini
tradizionali della cultura e della società. Come Jordan, Johnson aveva un
sorriso bellissimo e accattivante, era addirittura possibile che il giovane
Magic Johnson avesse una personalità ancora più spumeggiante del giovane
Michael Jordan. E a differenza di Jordan aveva anche un meraviglioso
soprannome, ‘Magic’. In parte era una questione di tempo: Johnson era
arrivato alla vigilia dell’esplosione della nuova e più ricca cultura sportiva,
mentre Jordan aveva trovato la strada già aperta dai pionieri. Chiaramente
Jordan aveva raccolto ciò che Johnson e Bird avevano seminato. Ma è
anche vero che, a differenza di Jordan, Johnson era stato rappresentato
malamente da persone che lo consideravano semplicemente un giocatore di
basket. Alla fine, Johnson cambiò agente, soprattutto dopo aver visto
quanto guadagnava Jordan.
Al momento dell’esordio di Jordan, nel 1984, i profitti provenienti dalle
sneakers stavano cominciando ad aumentare in modo esponenziale. A quei
tempi, i due colossi erano Converse e Adidas. Nike era relativamente
piccola e non particolarmente rilevante nel mercato delle scarpe da basket,
anche se nel complesso stava crescendo sempre di più. All’inizio degli anni
ottanta si pensava che soltanto Kareem Abdul-Jabbar avesse un contratto di
sponsorizzazione per le sneakers a cinque zeri: $100.000. Si diceva che
Bird e Johnson ne prendessero circa 70.000. Solo pochi anni prima, nel
1977, la Nike aveva firmato con Marques Johnson, la terza scelta nel draft,
per soli $6.000. Un anno più tardi esordì Phil Ford e ne ottenne 12.000. Nel
1981, quando Mark Aguirre fu la prima scelta in assoluto, ottenne un
contratto da $65.000. L’anno successivo James Worthy, rappresentato da
Dell (e Falk), era stato il numero uno della nazione e aveva firmato un
contratto a lungo termine con la New Balance, otto anni per 1,2 milioni di
dollari, circa $150.000 l’anno. Quella, secondo Falk, era stata la
rivoluzione.
Falk amava ripetere che al momento dell’esordio di Jordan il regno delle
sponsorizzazioni per i giocatori di basket era come il mondo prima di
Cristoforo Colombo, quando molta gente era ancora convinta che la Terra
fosse piatta. Il gioco più radicato in America era ancora il baseball e il più
entusiasmante era considerato il football americano. Le sponsorizzazioni
ricevute dai giocatori erano in generale piuttosto limitate, a parte rare
eccezioni come Joe Namath, e quelle degli atleti neri erano ancora più
marginali. Il giovane Willie Mays era stato una figura carismatica nello
sport più celebrato degli Stati Uniti (il baseball), la sua personalità
travolgente era impossibile da camuffare, imitare o nascondere, ma
naturalmente a Madison Avenue l’opinione comune era che il paese non
fosse pronto per un testimonial nero in una popolazione a prevalenza
bianca. La fama di Mays risaliva agli anni cinquanta, quando la percezione
era che il Paese non fosse pronto, e trent’anni dopo i pubblicitari
sembravano ancora aggrappati alla stessa convinzione.
Falk però pensava che fosse arrivato il momento di superare la barriera
del colore della pelle nella pubblicità sportiva: il Paese era cambiato, le
statistiche erano differenti. Inoltre, dopo aver frequentato il mondo del
tennis aveva capito che il puro talento atletico era solo una parte della
questione, che alcuni giocatori avevano qualità personali che li rendevano
insolitamente attraenti per i pubblicitari. Sentiva che Michael Jordan era
diverso da molti altri giocatori di sport di squadra, che in lui c’era un
fascino speciale, una grazia accattivante. Jordan parlava bene, faceva
un’ottima impressione su una gran varietà di persone e aveva un sorriso
decisamente ammaliatore.
Falk aveva deciso fin dall’inizio che quando avesse incontrato le aziende
di sneakers avrebbe messo in campo quella che chiamava la sfida di
Kennedy: che cosa potete fare per noi? Qual è il vostro piano di marketing?
Quanto sarà importante il budget per gli spot televisivi? Dedicherete a
Michael Jordan una linea di scarpe? E una linea di abbigliamento? Falk
sapeva che si stava avventurando in un territorio sconosciuto. Magic
Johnson, un campione già affermato, un personaggio estroverso e vincente
– che cosa poteva esserci di meglio? – non aveva ottenuto niente del genere,
e nemmeno Julius Erving. Falk capiva di partire in svantaggio. Non solo
restava l’ostinato pregiudizio sul fatto che i neri non fossero testimonial
efficaci, ma c’era il fatto che Jordan non era stato neanche la prima scelta
nel draft e che Chicago, a differenza di Los Angeles o New York, non era
considerato un grande polo mediatico. E poi Jordan non era un centro, e a
quei tempi erano i centri a portare i veri soldi.
I manager della Converse rimasero sbalorditi dall’audacia – anzi
dall’arroganza – di Falk nel pretendere così tanto per qualcuno che non era
nemmeno apparso sui loro radar. Joe Dean, uno dei manager, disse che
l’azienda aveva sessantatré dipendenti che superavano i due metri, per fargli
capire che era specializzata nell’assumere ex cestisti e che la cultura interna
si fondava sul basket. Facciamo le cose nel modo giusto. Vi tratteremo
come trattiamo Magic Johnson, Larry Bird e Dr. J. Falk pensò che non
sapevano quello che dicevano: in realtà stavano dicendo «siamo i più
grandi, abbiamo tutti i giocatori migliori, non abbiamo bisogno di essere
creativi e innovativi, in definitiva non abbiamo davvero bisogno di voi».
Falk non fu l’unico a infastidirsi per quell’atteggiamento. Il padre di
Michael, James, prendeva parte attivamente alle negoziazioni e
osservandolo Falk concluse che aveva un ottimo fiuto per gli affari. A un
certo punto durante l’incontro con la Converse James Jordan alzò gli occhi
e disse: «Non avete qualche idea nuova, creativa?»
Per puro caso le necessità della Nike corrispondevano a quelle di Falk. In
quel periodo l’azienda usciva da un momento morto. Negli anni settanta era
stata una compagnia in ascesa che aveva sfruttato la prima ondata della
mania del jogging con le scarpe da corsa e aveva ottenuto un successo quasi
istantaneo, ma poi sembrava aver incontrato un muro. Nel mondo del basket
Nike era una realtà molto piccola. Tutti i professionisti più blasonati
usavano le Converse: Bird, Johnson, Isiah Thomas. Uno dei manager, Peter
Moore, anni dopo osservò: «Se fossi andato in un parco giochi a chiedere ai
bambini che scarpe da ginnastica volevano, mi avrebbero risposto le
Converse».
La strategia di Nike fino a quel momento era stata quella di arruolare un
gran numero di giocatori bravi ma non eccelsi per cifre relativamente basse
– la media sembrava aggirarsi sugli ottomila dollari a testa – senza mettersi
minimamente in concorrenza diretta contro Converse e Adidas. Se fosse
stata organizzata una partita fra i giocatori sponsorizzati da Nike e le star
della Converse sarebbe stata una disfatta epocale, come quella dell’Angola
contro il Dream Team quasi dieci anni dopo. Quella politica però stava per
cambiare, anche a causa dei problemi economici. Phil Knight, il capo della
Nike, voleva ridurre il budget dedicato al basket: troppi soldi spesi per
troppi giocatori senza ritorni apprezzabili in termini commerciali.
Il manager della Nike incaricato del cambio di strategia era Rob Strasser,
il più alto in grado dedicato alla valutazione dei talenti. Strasser non era un
cauto aziendalista, ma un uomo che agiva d’impulso fidandosi del proprio
istinto, e quando aveva un’idea il suo istinto gli diceva di buttarsi. ‘Just do
it’, in pratica. La nuova strategia prevedeva di concentrare tutte le risorse su
un solo giocatore che sarebbe diventato il simbolo dell’azienda, rendendolo,
in caso di successo, più grande di un semplice cestista. Dato che tutti i
campioni affermati erano già sponsorizzati da altre aziende, avevano
bisogno di un rookie. La questione, all’avvicinarsi del draft, era chi
scegliere.
Le aziende di sneakers avevano i propri talent scout, proprio come le
squadre professionistiche. Lo scout della Nike era un personaggio
onnipresente di nome Sonny Vaccaro, che sembrava saperla lunga sul
mondo del basket della costa orientale e aveva ottimi agganci con certe
scuole. Era amico personale di John Thompson di Georgetown, di Bill
Foster, di Duke e di Jim Valvano della North Carolina State. Inoltre, gestiva
il Dapper Dan Game, uno dei primi campionati nazionali delle scuole
superiori, ed era quindi in una posizione invidiabile con gli allenatori dei
licei che volevano promuovere i propri ragazzi e con quelli delle università
che volevano reclutarli. Vaccaro si muoveva con grande abilità fra campi di
gioco, licei e università, creando contatti e scovando talenti in un mondo in
cui tutti erano abituati a cercare contatti migliori di quelli esistenti. Per
Sonny Vaccaro, avventurarsi in campetti malfamati nella speranza di
trovare un altro diamante grezzo era la cosa più naturale del mondo.
Sonny Vaccaro non conosceva Michael Jordan di persona, ma lo aveva
seguito da vicino fin dal terzo anno del liceo e aveva deciso da tempo che
era qualcosa di speciale. Nulla lo aveva colpito di più del canestro decisivo
che aveva segnato nella finale del campionato NCAA del 1982. Era stato
straordinario, un ragazzino disposto a tentare l’ultimo tiro sotto una
pressione inaudita e capace di segnare con tanta disinvoltura.
Vaccaro non aveva dubbi sul giocatore da mettere sotto contratto: era
Michael Jordan. Spinse sul suo nome con tutte le sue forze nel corso di una
riunione strategica all’inizio dell’inverno del 1984. Anche se Hakeem
Olajuwon fosse stato scelto un po’ prima di lui nel draft, giocava da poco
tempo ed era nigeriano, stava ancora studiando l’inglese. L’unico altro
giocatore con un po’ di carisma era un giovane grassottello di nome Charles
Barkley, che veniva da Auburn. Dato che la decisione era cruciale per
l’azienda, a un certo punto i manager chiesero a Vaccaro se fosse disposto a
scommettere la sua intera carriera alla Nike su Michael Jordan.
Assolutamente sì, fu la sua risposta. E se avesse avuto la possibilità di
firmare con dieci atleti a $50.000 a testa oppure con uno solo a $500.000,
avrebbe comunque scelto di concentrarsi sul singolo? Assolutamente sì,
ripeté lui, se quel singolo era Michael Jordan. Così la Nike si convinse a
puntare su Jordan.
La Nike però rappresentava un problema per Michael Jordan, perché in
realtà le scarpe che produceva non gli piacevano particolarmente. Alle
partite di Carolina aveva usato le Converse perché Dean Smith aveva un
accordo con l’azienda, ma le sue preferite erano le Adidas ed era quello il
marchio che avrebbe voluto. Purtroppo, il management di Adidas non
ricambiava i suoi sentimenti. Falk e Nike invece avevano interessi paralleli
e quell’estate, durante le Olimpiadi, Rob Stresser e Peter Moore andarono a
Washington per incontrare Falk. Moore ebbe l’impressione che Falk fosse
pieno di idee, non tutte particolarmente efficaci. Propose che la Nike
creasse uno spot in cui Jordan faceva una schiacciata la cui scia tracciasse il
baffo del logo. Oppure uno spot in cui Jordan giocava a biliardo e la
traiettoria del boccino disegnasse il baffo. Falk voleva che Jordan firmasse
una linea di sneakers e l’azienda era d’accordo, sarebbe stato un vantaggio
per tutti. L’unica idea proposta da Falk che piacque a tutti fu il nome della
linea, Air Jordan. Moore fece uno schizzo molto semplice, un logo a forma
di ali spiegate con un pallone da basket al centro. Moore era un disegnatore
di grande talento e regalò al mondo anche il nuovo logo del Jump Man, in
cui Michael spicca il volo in procinto di schiacciare. Al termine
dell’incontro tutti sembravano soddisfatti della direzione che avevano
preso.
Era sempre più chiaro che la Nike non solo era molto interessata a
Jordan, ma gli avrebbe anche concesso quasi tutto quello che chiedeva, ma
lo scarso interesse dell’atleta verso il marchio rappresentava un problema.
Falk e i suoi genitori sudarono sette camicie anche solo per convincerlo a
salire su un aereo per Portland. Come molti altri esordienti in quel periodo,
Michael pensava che un contratto per le sneakers non fosse né più né meno
che un accordo di fornitura, che bastasse scegliere la scarpa che ti piaceva
di più, farsi dare dei soldi per promuoverla e poi ricevere un sacco di scarpe
gratuite da distribuire agli amici. Che quell’accordo fosse solo una parte di
qualcosa di più grande, che prevedeva la vendita di se stesso come
giocatore, e che potesse guadagnare più soldi come testimonial che dal suo
normale stipendio non gli era ancora del tutto chiaro, perché non era ancora
del tutto chiaro a nessuno, nemmeno ai manager della Nike o a Falk. Alla
fine, Deloris Jordan disse al figlio che lei e il padre sarebbero stati su
quell’aereo per Portland e che avrebbe fatto meglio a salirci anche lui,
punto.
Nike preparò una presentazione speciale per Michael. Anche se per gli
standard a cui il mercato sarebbe arrivato sembra relativamente modesta,
per quei tempi era all’avanguardia. Avevano realizzato un video con le
azioni migliori del campionato universitario e delle Olimpiadi, pronto da
mostrargli. Nel momento chiave, però, quando Strasser premette il pulsante
play del videoregistratore, l’apparecchio non funzionò. Poi però si mise in
moto e la famiglia Jordan poté vedere il video, accompagnato dalla musica
del successo delle Pointer Sisters, Jump. Peter Moore aveva anche portato
dei bozzetti delle sneakers, che non erano solo bianche ma colorate.
Avevano anche schizzi di felpe e altri capi di abbigliamento sportivo. In uno
dei bozzetti le scarpe erano rosse e nere. «Non potrei indossarle» disse
Jordan. «Sono i colori del diavolo».
«Michael» rispose Strasser, «a meno che tu non riesca a convincere i
Chicago Bulls a cambiare i colori della squadra per prendere il blu di
Carolina, saranno questi i tuoi colori».
Peter Moore pensò che era come reclutare una stella del liceo per
un’università. Dopo quel primo incontro, andarono tutti al gigantesco Nike
store, che sembrava il negozio di giocattoli più grande del mondo per
l’abbigliamento sportivo: gli dissero di prendere tutto quello che voleva e di
metterlo nel carrello. Jordan ne uscì con sei grosse borse rigonfie. E poi ci
fu la macchina. Vaccaro aveva suggerito di regalare a Jordan qualcosa di
tangibile, e Rob Strasser aveva detto che sapeva che a Jordan piacevano le
auto e che gliene avrebbero data una. Tirò fuori il modellino di una Porsche.
Era una specie di scherzo, ma Phil Knight non ne sapeva niente e impallidì
quando sentì le parole di Strasser, sicuro che stesse sprecando i suoi soldi
per un giocatore senza garanzie che non aveva ancora firmato un contratto.
Strasser aggiunse in fretta: «Michael, con tutti i soldi che farai potrai
comprarti tutte le auto che vorrai».
Peter Moore si rese conto che James e Deloris Jordan cominciavano a
convincersi. Erano chiaramente colpiti dall’entusiasmo puro di Strasser, dal
fatto che l’azienda considerasse Michael così speciale e dall’impegno che
avevano messo nella presentazione. L’opinione di Michael invece era
impossibile da capire. Aveva presenziato all’incontro seduto accanto a Falk
e ai genitori senza mostrare alcuna emozione, completamente impassibile.
Falk, che a quei tempi non conosceva così a fondo il proprio cliente, ne era
rimasto stupito. C’era un’azienda che stava facendo tutto il possibile – sia
dal punto di vista umano che finanziario – e quel giovanotto sembrava del
tutto immune alle sue seduzioni. Non appena uscirono dall’ultima riunione,
Jordan si voltò verso Falk e disse: «Firmiamo».
«Ma non hai accennato nemmeno un sorriso, non hai mostrato un briciolo
di entusiasmo» gli rispose Falk.
«Era la mia faccia da affari» disse Jordan, e a quel punto Falk si rese
conto che aveva davanti qualcosa di più di un altro giovane atleta di talento,
che in quel ragazzo c’erano dimensioni che non aveva ancora imparato a
conoscere.
Quella sera andarono tutti a cena fuori. Quando la famiglia Jordan entrò
nella limousine, trovò un videoregistratore che trasmetteva di nuovo il
video di Michael con la musica. I manager della Nike avevano scelto un
ristorante famoso in centro e mentre scendevano le scale che portavano alla
sala al livello inferiore, incrociarono molte persone che sembravano
riconoscere Michael. Moore si rese immediatamente conto che stava
assistendo a qualcosa di diverso dal solito. Jordan scendeva le scale con
grazia naturale, alto e bello, una specie di giovane principe americano,
perfettamente a suo agio, e la gente cominciava a girarsi al suo passaggio.
Michael si accorse che lo riconoscevano e rispose con un sorriso
perfettamente naturale. Era chiaro che il potere di quel sorriso era
formidabile. Erano cittadini di Portland appartenenti alla classe medio-alta,
tutti bianchi. Quella scena fu una vera e propria epifania per Peter Moore: la
carica del sorriso di quel ragazzo era unica. Quando sorrideva, la razza
semplicemente scompariva. Michael non era più un nero, era soltanto una
persona a cui desideravi stare accanto, qualcuno che volevi come amico.
Negli anni successivi Moore rifletté sul fatto che quel sorriso esprimeva
autentico carisma: apparteneva a un uomo perfettamente a suo agio con se
stesso e di conseguenza anche con gli altri. Sembrava dire che sarebbero
accadute solo cose belle, e ancora di più, dava una spinta che trascinava le
persone comuni al di là dei propri pregiudizi abituali. Se Michael Jordan,
con quel sorriso così luminoso, non si preoccupava della razza, perché
dovevi preoccupartene tu?
Più tardi, quella sera, quando la famiglia Jordan fu di nuovo caricata sulla
limousine accompagnata dalla musica delle Pointer Sisters, Rob Strasser si
rivolse a Peter Moore e gli chiese se pensava che sarebbero riusciti a
firmare con Jordan. «Credo di sì» rispose Moore. «Sembrano tutti a loro
agio con noi». Poi aggiunse: «Se firmiamo, credo che otterremo qualcosa di
speciale: ha una personalità che non ho mai visto in nessun atleta prima
d’ora». Se gioca abbastanza bene, pensò Moore, abbiamo davvero qualcosa
di grosso.
Era vero che firmare era possibile, ma sarebbe costato parecchio. Falk
pretendeva una serie di garanzie a livello pubblicitario e quando l’accordo
fu concluso segnò una rivoluzione nel nuovo mondo dello sport come
intrattenimento, perché assicurava a Jordan circa un milione di dollari
all’anno per cinque anni. Il management della Nike non poteva sapere –
come non lo sapeva, se è per questo, nemmeno la dirigenza dei Bulls – di
aver fatto uno dei migliori affari di quel periodo.
Quando tornò a Chapel Hill, Jordan disse a Buzz Peterson che la Nike
avrebbe prodotto un modello di sneakers col suo nome. Peterson pensò che
si stesse montando la testa, con tutti quei premi e trofei, il Naismith e il
resto. No, insistette Jordan, lo faranno davvero. Peterson ribatté: «Michael,
non hanno dedicato un modello di scarpe né a Larry Bird né a Magic
Johnson, che sono stelle dell’NBA. Tu non sei stato neanche la prima scelta
nel draft». Più tardi, quando uscì la linea delle Air Jordan, Michael disse ad
alcuni amici che se avevano qualche soldo da parte poteva valere la pena di
investire nelle azioni della Nike, perché secondo lui stavano per decollare.
Beh, pensò Peterson, l’allenatore lo ha tenuto in riga per un bel po’ ma
adesso si è davvero montato la testa.
11
Los Angeles;

Chicago, 1984, 1985

Così, si sarebbe presentato a Chicago come testimonial della Nike. Ma


prima c’erano le Olimpiadi. Jordan era chiaramente pronto per il
professionismo: le gare olimpiche e gli allenamenti pre-olimpici contro i
giocatori dell’NBA dimostrarono in modo inequivocabile quanto sarebbe
stato bravo.
Quell’estate, a Los Angeles, Jordan era stato il miglior giocatore in una
squadra olimpica costellata di superstar. All’inizio, l’allenatore Bobby
Knight era un po’ dubbioso su di lui: aveva un talento immenso, aveva
confidato a Billy Packer all’inizio del ritiro olimpico, ma non era un bravo
tiratore, soprattutto per uno che doveva essere una guardia. In breve, però,
Knight si trasformò in uno dei più ardenti sostenitori di Jordan. Era uno
degli allenatori più esigenti sulla piazza e rimase colpito dall’intensità della
sua presenza in difesa, dalla facilità con cui si lasciava guidare e dalla sua
carica competitiva: in pratica, un leader naturale.
All’inizio del ritiro, Knight lo prese da parte e gli disse che sarebbe stato
duro con lui per motivare alcuni suoi compagni di squadra che
dimostravano meno passione e Michael rispose che andava bene. In breve,
divenne il portavoce della squadra. Il giorno della finale contro la Spagna
per la medaglia d’oro, Knight aveva preparato il suo miglior discorso
motivazionale in assoluto: voleva dire che i quaranta minuti successivi
sarebbero stati probabilmente i più importanti delle loro vite e che
avrebbero ricordato quel giorno molto tempo dopo aver dimenticato tutto il
resto delle loro carriere. Quando entrò in ufficio, quel giorno, trovò un
biglietto giallo sulla sedia. C’era scritto un semplice messaggio: ‘Coach,
non si preoccupi. Abbiamo ingoiato troppa merda per perdere adesso’.
Firmato: ‘La squadra’. Knight era sicuro che fosse opera di Michael Jordan,
perché nessun altro avrebbe avuto il coraggio di farlo. Quindi tenne la
bocca chiusa e disse soltanto: «Andiamo là fuori e prendiamoci la vittoria».
Durante l’intervallo, con gli Stati Uniti in vantaggio di soli 27 punti,
Knight decise di pungolare un po’ Jordan, per evitare un calo nella seconda
parte. «Maledizione, Michael» gridò. «Quando comincerai a fare un po’ di
blocchi? Non fai altro che prendere rimbalzi e segnare!»
Jordan gli fece un grande sorriso. «Coach, non ha detto che sono il
giocatore più veloce che abbia mai allenato? Mi sembrava di averlo letto da
qualche parte».
«Sì» rispose Knight, «ma adesso che cosa c’entra?»
«Ho fatto i blocchi così velocemente che non li ha nemmeno visti!»
rispose lui.
Più tardi i giornalisti, sperando di mettere zizzania fra il volubile Knight e
Dean Smith, apparentemente più controllato, chiesero a Jordan come fosse
stato giocare con entrambi. Lui rispose che avevano un approccio molto
simile, ma che Smith organizzava l’attacco ai quattro angoli, mentre Knight
usava parole di quattro lettere.
Michael era palesemente il miglior giocatore della squadra americana.
Dopo la disastrosa sconfitta della Spagna i cronisti chiesero un commento
su di lui a uno dei giocatori, Fernando MartÍn. «Michael Jordan?» rispose
Martin. «Salta salta salta. Molto veloce, molto rapido. Molto molto bravo.
Salta salta salta».
Le Olimpiadi aumentarono considerevolmente il suo potere contrattuale
nei confronti dei Bulls. Quando giocò la sua prima partita da professionista
Michael Jordan era già un ragazzo molto ricco. Il contratto principale fu
gestito da Donald Dell. Chicago era in trappola: avevano davanti un
giovane giocatore di talento che ovviamente era stato il migliore della
squadra olimpica, mentre i Bulls erano una franchigia piuttosto debole,
dalla credibilità traballante. Jordan firmò per sette anni per un totale di 6,3
milioni di dollari: si diceva che fosse il terzo contratto migliore di sempre
per un rookie nella storia della Lega, dopo quelli di Olajuwon e Ralph
Sampson, entrambi centri. «C’è stato un po’ di tira e molla» commentò
Jonathan Kovler. «Loro hanno tirato e noi abbiamo mollato». In più c’era il
contratto milionario con la Nike. Jordan sarebbe stato ben pagato e la
proprietà della squadra espresse la sua soddisfazione. «È in arrivo Mister
Jordan» diceva il primo spot promozionale per presentare l’uomo che, si
sperava, sarebbe diventato la nuova stella sportiva della città.
Alla prima conferenza stampa a Chicago si comportò egregiamente.
David Falk gli aveva scritto qualche appunto, ma venne fuori che Michael
non aveva particolare bisogno di aiuto: aveva un talento naturale per i
rapporti con la stampa. Qualcuno gli chiese un commento sui nuovi
compagni di squadra e lui rispose che, beh, non pensava proprio che i Bulls
sarebbero rimasti imbattuti. Falk non si preoccupò più di prepararlo in
anticipo per le interviste.
Aveva conquistato la squadra già dal primo giorno di ritiro. Rod Thorn e
Kevin Loughery erano convinti fin dall’inizio di aver fatto la scelta giusta e
tutto ciò che avevano visto alle Olimpiadi durante l’estate aveva confermato
quell’idea. Non c’era soltanto la bravura atletica, ma anche un’incredibile
determinazione: a differenza di molti altri giocatori dal talento eccezionale,
Jordan, così intelligente e formato con tanta professionalità, era in grado di
usare le proprie doti con rara concentrazione, e lo fece sempre. Giorno dopo
giorno sfruttava la sua straordinaria velocità, l’abilità nel salto e la potenza
fisica per crearsi buoni tiri. La capacità di creare occasioni di tiro era uno
dei talenti che facevano la differenza fra giocatori professionisti e
universitari. I difensori professionisti erano così forti che molti giocatori
con un buon istinto di tiro, che all’università sembravano invincibili,
finivano per soccombere. Gli mancavano la potenza fisica o la velocità per
crearsi dei tiri a quel livello e dipendevano dai compagni di squadra per
liberarsi. Fu chiaro dal principio che Jordan aveva un talento unico per
creare occasioni di tiro e che forse era il migliore in tutta la Lega.
Fin dal primo giorno di allenamenti Jordan dominò il ritiro. Nelle sfide
uno contro uno era assolutamente inarrestabile e in breve gli altri giocatori
cominciarono a mettersi da parte per guardarlo. A un certo punto, durante
un allenamento preliminare, Jordan recuperò un rimbalzo alto contro il
tabellone, ripercorse tutto il campo fino alla linea dei tiri liberi e spiccò un
salto per una schiacciata spettacolare. «Non credo che avremo più bisogno
di fare partitelle di allenamento» disse Loughery a uno degli assistenti. Più
tardi disse a Rod Thorn: «Credo che abbiamo fatto bingo».
In pochi realizzavano la sua forza, perché era molto snello. Bobby Knight
l’aveva capito e parlava a chiunque incontrasse della potenza nascosta di
Jordan, così fondamentale per la sua straordinaria abilità. «Non si nota
perché non ha un aspetto robusto, non ha uno di quei corpi massicci, eppure
c’è, e quando sei un difensore e lui ti viene contro, e sembra che ti appoggi
leggermente la mano sul ginocchio, in realtà è una morsa d’acciaio» diceva.
E il suo corpo non era ancora stato sottoposto ad alcuna preparazione
atletica mirata e di alto livello.
L’altra caratteristica che Loughery aveva notato e che aveva apprezzato
fin dall’inizio era l’estensione delle mani di Jordan. Erano semplicemente
enormi. Lo stesso Loughery era stato un eccellente tiratore ai suoi tempi,
ma non aveva mani particolarmente grandi. Anzi, aveva spesso usato lo
stickum1 in partita, per migliorare il controllo della palla. Tutti i grandi
giocatori con cui Loughery aveva avuto a che fare, a parte Moses Malone,
avevano mani enormi. Le avevano Julius Erving, Larry Bird, Magic
Johnson e Michael Jordan. Era quasi un’ingiustizia, pensava Loughery, era
come se giocassero con una palla da softball invece che con un pallone da
basket, riuscivano a controllarlo molto meglio. Per loro era molto più facile
giocare: potevano saltare e, mentre erano in aria, fare cose con il pallone
che per i giocatori con le mani normali erano semplicemente impossibili.
Jordan superò fin da subito le aspettative di chiunque. Tutti pensavano
che fosse bravo, ma nessuno credeva che fosse così bravo e così veloce, o
che sarebbe diventato istantaneamente una superstar. Era entrato nella Lega
con un tiro in sospensione che per gli standard NBA poteva valere una
sufficienza risicata, pensava Loughery, meglio delle previsioni e
probabilmente meglio delle valutazioni degli scout. La meccanica era
buona, ma la traiettoria era un po’ piatta. Forse non sembrava così buono
perché tutti gli altri aspetti della sua tecnica erano dei 10 e lode. Ma Jordan
non vedeva l’ora di imparare e lavorò con Loughery ogni giorno sui tiri in
sospensione, un’ora prima o dopo gli allenamenti, concentrandosi su tecnica
e traiettoria. Era competitivo anche in quel caso: scommettevano sulle
partite a Horse e nelle prime vinceva sempre Loughery, ma Jordan lo
obbligava a continuare a giocare finché a poco a poco l’allenatore si
stancava e Jordan aveva la possibilità di vincere. Non gli piaceva lasciare
un gioco finché non vinceva.
Era sempre il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andare via,
aveva una dedizione che nessuno aveva mai visto all’NBA. L’unico
problema era il livello del dominio che esercitava sugli altri. Un giorno,
durante i primi tempi del suo ingaggio, Rod Thorn andò alla Angel
Guardian, la palestra dove si allenavano i Bulls, per parlare con Loughery,
solo per scoprire che erano già andati via tutti. «Perché gli allenamenti sono
finiti così presto?» chiese il giorno successivo. «Ho dovuto mandarli via
prima» rispose Loughery, «Michael li stava sfiancando».
A quei tempi gli allenamenti si svolgevano così: giocavano cinque contro
cinque finché una squadra faceva dieci canestri, e i perdenti dovevano fare
dieci giri del campo di corsa. A Jordan non piacevano i giri di campo,
quindi si impegnava al massimo. Una volta, quando la sua squadra vinceva
8-0, Loughery lo spostò nella squadra più debole. Michael si infuriò e per la
prima volta si mise a discutere con Loughery. Era già un’ingiustizia doversi
allenare in quella brutta palestra dopo il lusso di Carolina, ma essere
spostato in un’altra squadra dopo aver portato la sua in zona salvezza
sembrava particolarmente crudele. Loughery tenne duro. «Il punteggio non
cambia, Michael, la tua squadra sta perdendo». Naturalmente Jordan si
buttò nella mischia come una furia, esattamente come voleva Loughery, e la
sua nuova squadra alla fine vinse 10 a 8. Più tardi lanciò a Loughery
un’occhiata di fuoco e gli disse: «Lo sai dove puoi metterla la tua
sconfitta?», poi se ne andò negli spogliatoi (qualche anno più tardi, quando
Loughery allenava i Washington Bullets, la sua squadra andò in trasferta a
Chicago e alla fine del quarto quarto ottenne un vantaggio di 8 punti. Allora
Jordan partì per una delle sue leggendarie rimonte. Quando segnò il punto
che portava i Bulls in vantaggio passò correndo davanti a Loughery e gli
disse: «Proprio come alla Angel Guardian, vero coach?»).
Loughery sapeva che sarebbe diventato un grande giocatore, non solo per
il talento e le insolite qualità fisiche, ma perché amava il gioco.
Quell’amore non si poteva insegnare né fingere, ed era qualcosa che Jordan
aveva sempre avuto. Si allenava con gioia e disputava le partite con gioia,
sempre come se non vedesse l’ora. Non erano molti i giocatori come lui.
Troppi di loro, secondo Loughery, amavano i soldi più che il gioco. Ma il
trasporto di Jordan per ciò che faceva era autentico e costituiva un enorme
vantaggio.
Grazie a questo e al suo metabolismo apparentemente unico – che gli
permetteva di giocare cinquantaquattro buche a golf il giorno prima di una
partita chiave per i playoff e di non stancarsi – sembrava inarrestabile.
Aveva un livello di energia mai visto. Era normale che i giocatori appena
usciti dall’università, abituati a giocare solo ventiquattro partite a stagione,
si sfinissero durante le stagioni da rookie nel pesantissimo campionato
NBA, che prevedeva ottantadue partite e spostamenti continui. Mark Pfeil,
il preparatore atletico della squadra, lo avvertì di fare attenzione
all’affaticamento, raccomandandogli di dosare le forze perché lo
aspettavano molte partite e molti viaggi faticosi. Jordan sembrò più che
altro divertito dalle sue preoccupazioni. Quando Pfeil gli chiedeva: «Ti
senti stanco? Vuoi giocare un po’ meno?», Jordan rispondeva con un
sorriso: «Stai a vedere».
Jordan lasciò il segno quasi fin dal primo giorno di campionato. Durante
la sua seconda partita, che si svolse a Milwaukee, Mike Dunleavy vide
Jordan saltare quasi dalla linea dei tiri liberi per tentare una schiacciata
lunga, una mossa che prima di lui era riuscita soltanto a Julius Erving.
Dunleavy diede di gomito a Kevin Grevey, che era seduto accanto a lui, e
disse: «Ecco che fa il primo grosso errore». Poi vide che Jordan volava
verso il canestro e si rese conto che l’errore era stato suo, non di Jordan.
Ci furono anche altri segnali precoci della sua indomabile
determinazione. Una delle prime partite dei Bulls si svolse a Washington,
nella cui squadra a quei tempi c’erano sia Jeff Ruland che Rick Mahorn,
due giocatori molto fisici soprannominati McFilthy e McNasty per la loro
rudezza. Dopo un terzo tempo Ruland buttò a terra Jordan con violenza e
lui cadde con un forte schianto. Si alzò, fece i tre tiri liberi, poi tornò e si
lanciò ancora contro Ruland con tutte le sue forze. In un’altra partita, contro
Milwaukee, che a quei tempi era un’ottima squadra allenata da Don Nelson,
Jordan era accoppiato con Sidney Moncrief, una delle due o tre guardie
migliori della Lega. Moncrief non riuscì assolutamente a bloccarlo e in
breve sembrò che Nelson avesse cambiato completamente strategia di
difesa, concentrando tutti su Jordan. Non servì a nulla. Chicago vinse. Il
giornalista Ron Rapoport pensò all’immagine di un uomo solo che supera
una barriera di cinque difensori, nessuno dei quali riusciva a bloccarlo. I
rookie non facevano cose del genere.
Già dai primi giorni cominciarono ad arrivare folle di tifosi, sia in casa
che in trasferta. La partecipazione al Chicago Stadium arrivò quasi a
raddoppiare, da 6.365 a 12.763 spettatori nei primi due mesi della prima
stagione di Jordan. Le vendite degli abbonamenti stagionali, che prima del
suo arrivo erano praticamente inesistenti (i Bulls ne avevano venduti solo
2.047 l’anno precedente) quintuplicarono nei suoi primi tre anni, fino a
raggiungere gli 11.000. Ogni volta che la partite dei Bulls venivano
trasmesse nella regione, gli indici d’ascolto mostravano un aumento di
30.000 contatti.
Eppure, la vera ‘Michaelmania’ non era ancora cominciata. Ovunque
andasse aumentavano gli spettatori, ma non si era ancora innescata la
frenesia del fanatismo. Tim Hallam, che allora era l’addetto stampa della
squadra, ricordò poi di aver presagito l’inizio di un culto della personalità in
una partita di preseason a Gary, in Indiana, in cui Jordan aveva segnato
quasi 40 punti. Dopo la partita c’era stata una piccola processione di
bambini che aveva seguito Jordan nei corridoi del palazzetto. Quell’autunno
la rivista Sporting News gli chiese di posare per la copertina vestito da
chirurgo sotto il titolo ‘IL NUOVO DR. J’. Lui si prestò, anche se Hallam capì
che l’idea non gli piaceva perché la copertina gli sembrava stupida. Il
pallone che gli diedero non era della marca di cui Jordan era testimonial e
Hallam notò che aveva coperto il logo con la mano: non aveva intenzione di
pubblicizzare il prodotto di un concorrente. Già da allora, era molto attento
alle sponsorizzazioni.
In quei primi anni Jordan fu particolarmente bravo con i giornalisti
sportivi, era sempre disponibile e gentile. In parte era per l’educazione che
aveva ricevuto, in parte perché capiva che quello era un aspetto importante
del suo lavoro, in parte per la sua naturale sicurezza in se stesso e per la sua
astuzia congenita. Aveva capito di poter imparare moltissimo sulla Lega e
sulle altre squadre – comprese le indiscrezioni su quali giocatori avevano
problemi con i compagni di squadra e gli allenatori – chiacchierando con i
giornalisti. Assorbiva le informazioni all’istante e ricambiava con qualche
notizia personale, perché come ogni buon politico aveva imparato che per
ottenere informazioni bisogna anche concederne. Sembrava avere un sesto
senso nell’individuare i giovani cronisti in ascesa, quelli che presto
sarebbero diventati delle star e avrebbero avuto rubriche personali – Mike
Lupica, Michael Wilbon, David Remnick, Jan Hubbard – a cui valeva la
pena di dedicare un po’ di tempo in più. Anche allora era un fine intenditore
di talenti.
Anche se l’infatuazione dei media nei suoi confronti, rispetto a quello che
sarebbe successo dopo, era relativamente contenuta, era comunque
immensa per un giocatore dei Bulls, almeno allora, e Hallam in breve fu
bombardato dalle richieste di interviste. Prendeva coscienziosamente nota
di ogni chiamata su foglietti rosa che passava a Jordan, il quale rispondeva
sempre a tutti. Solo a metà stagione si rese conto che era l’unico della
squadra a comportarsi in quel modo, perché tutti gli altri le ignoravano. La
grande regola non scritta dell’NBA era che se un giornalista voleva parlare
con un giocatore doveva beccarlo nello spogliatoio. Alla fine, Jordan e
Hallam conclusero un patto: quando Hallam riceveva una richiesta di
intervista che gli sembrava importante Jordan avrebbe risposto, però
avrebbe anche ordinato una bistecca a spese di Hallam (anche se
guadagnava già parecchio).
In quei primi tempi, la squadra riusciva ancora a muoversi in aeroporto
con relativa facilità. Ogni tanto, quando lo riconoscevano, si creava un po’
di confusione e in quei casi Michael era sempre gentile. Una volta, mentre i
Bulls stavano facendo colazione all’aeroporto di Dallas, alle sette del
mattino, era in coda con il suo vassoio come tutti gli altri e un tifoso andò a
chiedergli l’autografo. Lui rispose molto educatamente che lo avrebbe fatto
volentieri, ma che prima voleva finire la colazione. L’uomo esplose: «Voi
maledetti atleti siete tutti uguali, troppo viziati». Col tempo la
‘Michaelmania’ cominciò a peggiorare e la dirigenza dei Bulls decise di
prenotare sempre i voli al mattino presto per minimizzare l’effetto folla in
aeroporto. Impararono a contrabbandarlo dentro e fuori dagli aerei
occultandolo il meglio possibile, a volte lo nascondevano nelle lounge delle
linee aeree fino all’ultimo minuto. All’inizio degli anni novanta
cominciarono a utilizzare i charter.
L’anno dell’esordio richiese un duro adattamento sotto molti punti di
vista. Il problema non era che le partite fossero quadruplicate, Michael
adorava il basket e sembrava avere una fonte inesauribile di energia. La
difficoltà fu entrare in un programma così debole provenendo da uno così
forte. A Chapel Hill la qualità era molto elevata. Il programma era stato
pensato con grande cura e organizzato con intelligenza. Lo staff tecnico era
di altissimo livello – c’erano assistenti riconosciuti come preparatori ancora
migliori degli allenatori in carica – una combinazione quasi unica. C’erano
sempre moltissimi giocatori eccelsi (per paura che qualcuno si montasse la
testa e si convincesse di essere migliore del programma) e tutti mostravano
un impegno assoluto, in partita quanto in allenamento. Le strutture sportive
erano di prima categoria, senza dubbio migliori di quelle di quasi tutte le
squadre avversarie. E soprattutto c’era un senso di focalizzazione verso
l’obiettivo, chiaro e costante.
A Chicago era ben diverso. Kevin Loughery era un bravo allenatore, ma
il suo staff non reggeva il confronto con quello di Carolina. Le strutture
erano terribili. E peggio ancora, i compagni di squadra erano una delusione.
Non solo avevano poco talento, non solo diversi di loro avevano problemi
di droga che limitavano le prestazioni in campo, ma non c’era passione,
nessuna fame di vittoria. Un giorno, nei suoi primi mesi da rookie, durante
una trasferta dei Bulls Jordan venne a sapere che c’era una festa nella
camera di un giocatore. Ci passò e trovò alcuni compagni di squadra che si
drogavano – alcuni fumavano marijuana, altri sniffavano coca – e se ne
andò il prima possibile. Non ci poteva essere niente di più lontano da
Carolina.
Ogni aspetto dell’organizzazione sembrava un po’ logoro. Paul Westhead,
che era arrivato per un breve periodo come allenatore dall’ambiente
lussuoso dei Lakers, era rimasto sbalordito dalla limitatezza delle risorse dei
Bulls in termini di scouting, riprese video e strutture sportive. La palestra
Angel Guardian, un ex orfanotrofio, era un luogo umido con i pavimenti in
cemento, finestre verniciate (che acuivano il senso di cupezza costante) e un
persistente cattivo odore. La transizione al centro allenamenti successivo,
una bella struttura costata diversi milioni di dollari nel quartiere
residenziale di Deerfield, è un esempio dell’effetto Jordan: la Angel
Guardian era il passato dell’NBA, mentre il Berto Center, con le
apparecchiature di sicurezza per tenere a distanza i tifosi e i giornalisti
(c’era una sala stampa abbastanza accogliente con una parete in plexiglas
che dava sul campo, ma che poteva essere oscurata da una tenda premendo
un pulsante) era il futuro.
Durante quel primo anno furono pronunciati due giudizi profetici a
proposito di Jordan. Il primo da Larry Bird, quando i fortissimi Celtics
giocarono a Chicago. Dopo la partita Bird commentò la prestazione di
Jordan. L’aspetto affascinante di quell’intervento, pensò Dan Shaughnessy,
il giornalista che in quel periodo seguiva i Celtics, era che non erano stati i
reporter a costringere la grande star a parlare del nuovo arrivato. Era stato
Bird a tirare fuori l’argomento, spontaneamente, in modo naturale e senza
clamore, ma con grande ammirazione. Disse di non aver mai visto un
giocatore mettere sottosopra una squadra come aveva fatto Jordan. «Sta già
facendo più di quanto abbia mai fatto io, ed è appena arrivato. Quando ero
rookie non ci sarei riuscito. Maledizione, c’è stata un’azione stasera: lui
aveva il pallone nella destra, lo ha portato in alto, poi in basso di nuovo, io
l’ho toccato, gli ho fatto fallo e lui ha segnato lo stesso. E tutto mentre era
sospeso per aria». Bird predisse che in breve tempo il Chicago Stadium
sarebbe stato gremito tutte le sere, grazie a lui.
L’altro giudizio proveniva dall’impareggiabile Jerry West – un giocatore
talmente fantastico ai suoi tempi che il logo dell’NBA era stato creato a
partire dalla sua sagoma, ora general manager dei Lakers – considerato il
miglior intenditore di talenti di tutta la Lega. West aveva visto giocare
Jordan all’inizio dell’anno e aveva detto a Josh Rosenfeld: «È l’unico
giocatore che abbia mai visto che mi ricorda me stesso».
Non fu una stagione malvagia. Jordan fu nominato rookie dell’anno e
anche se i suoi compagni di squadra erano insolitamente deboli i Bulls
batterono il proprio record, vincendo dieci partite in più rispetto all’anno
precedente. Era giovane, bello e ricco e viveva a Chicago in un piccolo
appartamento dove, a quanto pareva, faceva da solo la maggior parte delle
pulizie. La Nike aveva incaricato un giovane di nome Howard White, un ex
giocatore di baseball del Maryland e intimo amico di Moses Malone, di
fungere da ambasciatore aziendale con Jordan, per aiutarlo a orientarsi nel
duro mondo dell’NBA, pieno di persone pronte ad approfittarsi della fama
di un giocatore. Era stata una mossa astuta da parte dello sponsor e portò
alla nascita di una genuina amicizia. White, che era più grande e più saggio,
aiutò Jordan a superare indenne le potenziali difficoltà della prima stagione
e a evitare molte delle trappole che attendevano la maggior parte dei rookie.
Jordan sembrava saper gestire piuttosto bene la propria fama. David Stern
più tardi ricordò che quando Jordan fu nominato rookie dell’anno, anzi lo
Shick Razor Rookie dell’anno per essere precisi, l’NBA dovette spendere
quasi tutto il limitato budget promozionale per un volo charter andata e
ritorno fra Chapel Hill, dove era tornato per studiare per il diploma
universitario, e San Francisco, dove si erano riuniti i proprietari delle
squadre.
Le Air Jordan ebbero un successo immediato e sbalorditivo, con un
introito di 130 milioni di dollari. Nella Lega si diffuse un certo risentimento
per questo risultato così repentino, come se Jordan non se lo fosse
veramente guadagnato, perché la sua squadra non aveva ancora vinto
niente. Una parte di quel risentimento venne fuori all’All Star Game, perché
Michael si presentò con la divisa della Nike. Durante la partita alcuni dei
veterani, capitanati da Isiah Thomas e Magic Johnson, cospirarono per
escluderlo. Quei giocatori sembravano essere collegati al dottor Charles
Tucker, un procuratore sportivo. Dopo la partita il dottor Tucker commise
l’errore di vantarsi davanti ai cronisti di ciò che avevano fatto. Thomas e
Johnson provarono debolmente a negare l’accaduto (Johnson, almeno,
faceva parte della squadra avversaria e quindi il suo ruolo era stato più
marginale). Due giorni dopo l’All Star Game, i Bulls giocarono contro i
Pistons di Thomas e Jordan segnò 49 punti. Per un periodo quell’incidente
influenzò la relazione di Jordan con Johnson, ma nel corso degli anni
Johnson si sforzò di sanare la ferita. Non si può dire lo stesso per il rapporto
fra Jordan e Thomas.
Con l’avanzare della stagione Jordan, per lo stupore di Mark Pfeil e degli
altri, diventava sempre più forte. Colse di sorpresa i suoi stessi compagni di
squadra. Al suo arrivo, quando aveva cominciato a dominare gli
allenamenti, ricordò una volta il collega Sidney Green, tutti dicevano che a
metà stagione avrebbe rallentato. «E poi a metà stagione lo faceva ancora,
quindi cominciammo a dire che a tre quarti gli avrebbero ceduto le gambe,
solo che a tre quarti della stagione era ancora fortissimo, forse più di
prima». Dopo una pausa, Green fece un commento che sarebbe stato
ripetuto spesso: «Michael Jordan è la verità, tutta la verità e nient’altro che
la verità, e che Dio ci aiuti».
12
Boston, aprile 1986

All’inizio sembrava solo una partita poco interessante come tante: i miseri
Chicago Bulls contro i grandi Boston Celtics. Invece, come disse Dick
Stockton che la commentò per la CBS, fu la vera festa di esordio di Michael
Jordan, il suo autentico debutto come giocatore professionista davanti a un
pubblico di tifosi che ancora non se lo aspettavano. Pensandoci a posteriori,
ciò che fece nel pomeriggio del 20 aprile 1986 era del tutto prevedibile,
dato il suo istinto per le imprese eclatanti. E infatti Jordan lo aveva previsto:
il giorno prima aveva giocato a golf con Danny Ainge, una delle guardie di
Boston, e due giornalisti sportivi. Alla fine della partita Jordan si era voltato
verso Ainge e gli aveva detto: «Vi aspetta una sorpresa, domani».
«Non credo proprio» aveva risposto Ainge. «Sarà D.J. a marcarti». D.J.
era Dennis Johnson, la grossa guardia di Boston.
«Beh, allora di’ a D.J. che potrei avere una sorpresa per lui domani» lo
avvertì Jordan. «Digli di riposarsi bene, stanotte».
Era lo scenario ideale: una partita di playoff al famoso Boston Garden
contro la squadra migliore della Lega, trasmessa su un canale nazionale. Era
la seconda stagione di Jordan nell’NBA e non vedeva l’ora di giocare a quel
livello. Aveva perso quasi tutto l’anno per una frattura al piede durante la
terza partita della stagione.
Quell’anno la squadra dei Celtics era considerata da molti addetti ai
lavori, fra cui diversi giocatori della squadra stessa, come la migliore
dell’era di Larry Bird. Aveva perso soltanto una delle quarantuno partite
disputate in casa. Dodici anni più tardi Kevin McHale, una delle stelle della
squadra, diventato poi dirigente dei Minnesota Timberwolves, rifletté su
quegli anni incredibili: «Se un Dio misericordioso venisse mai a dirmi: ‘Ok,
McHale, sei stato proprio un bravo cittadino quindi puoi tornare indietro e
giocare ancora una stagione di basket, solo perché ti piaceva tanto’,
sceglierei quella 1985-86».
Era proprio la sfida ideale, contro i Celtics sulla tv nazionale la domenica
pomeriggio, e ancora meglio se il suo avversario era Dennis Johnson. I
Celtics lo avevano preso perché era grosso e pieno di talento e avevano un
disperato bisogno di qualcuno che potesse bloccare Andrew Toney, la
fantastica guardia di Philadelphia i cui successi contro i Celtics precedenti
all’avvento di D.J. gli avevano fatto guadagnare il soprannome di
‘Strangolatore di Boston’.
Se il requisito per essere considerati una dinastia era il dominio assoluto
della Lega, i Celtics di Larry Bird non erano una dinastia autentica, perché
avevano dovuto condividere un ciclo con i Lakers di Magic Johnson.
Insieme, però, le due squadre erano senza dubbio una dinastia: in un
periodo di nove anni Los Angeles aveva vinto cinque titoli e Boston tre, con
l’unica eccezione dei Sixers di Julius Erving. In occasione della prima
vittoria dei Celtics nell’era Bird, Red Auerbach, che quando vinceva era
sempre corretto e affascinante, aveva sollevato il trofeo dicendo: «Che ne è
stato della dinastia dei Lakers di cui ho tanto sentito parlare?»
Nel 1985-86 i Celtics avevano una grande squadra: per alcuni puristi,
soprattutto quelli che apprezzavano i centri, erano semplicemente la
migliore squadra dell’era moderna, con una magnifica prima linea formata
da Bird, McHale e Robert Parish – che insieme arrivavano a ventisei
presenze agli All Star Games – e una difesa tenuta da Johnson e Ainge.
Bird, Parish e McHale erano chiamati ‘The Big Three’ (I tre grandi). E
quell’anno avevano inserito un perfetto complemento, il leggendario Bill
Walton, che nel periodo migliore era stato uno dei due o tre centri più forti
in circolazione. Anche se nel 1985 la sua abilità era ormai limitata da una
serie di brutti infortuni ai piedi, giocando per pochi minuti rimaneva un
giocatore quasi magico per la capacità di difendere e fare passaggi in
attacco.
Durante quella stagione Walton, ormai al tramonto dopo una serie di
pesanti interventi chirurgici al piede, aveva pagato di tasca propria per
rescindere un ricco contratto con i Los Angeles Clippers. Quella mossa gli
aveva permesso di uscire da una sorta di purgatorio per approdare in quello
che per lui era il paradiso del basket, anche se per un compenso
decisamente più basso (andarsene dai Clippers gli era costato circa
$800.000). Aveva provato prima con i Lakers telefonando a Jerry West, un
vecchio amico, ma West gli aveva risposto: «Bill, ti conosco bene e adoro il
tuo stile, ma ho visto le radiografie [dei tuoi piedi] e non posso fare niente».
Allora Walton aveva preso il telefono per chiamare Red Auerbach,
l’artefice di tutti quei trofei per i Celtics. «Qui è Bill Walton dei Los
Angeles Clippers» aveva annunciato. «Mi piacerebbe venire a giocare per la
sua squadra. Credo di potervi essere d’aiuto». Per caso c’era Larry Bird
nell’ufficio di Auerbach, quando Walton lo aveva chiamato: gli disse di
prenderlo subito, senza fargli domande a proposito dei piedi. Se Walton
riteneva di poter giocare, per Bird era sufficiente.
Walton era preceduto da una reputazione da superstar, si temeva che
avrebbe potuto pretendere privilegi speciali, così i Celtics decisero di
metterlo subito al suo posto. Il primo giorno Walton si rivolse all’addetto
alla club house e gli chiese un caffè. Il giorno dopo nello spogliatoio
comparve un cartello scritto a mano che diceva: «Fattelo da solo il tuo
maledetto caffè, Bill». In quella squadra non era consentito a nessuno di
credersi migliore degli altri, anche se naturalmente tutti sapevano che era la
squadra di Larry Bird. Quando Walton fece un commento critico su Rick
Carlisle durante un allenamento, Bird rispose: «Ehi, Rick, digli di chiudere
il becco. Sei qui da un anno soltanto ma probabilmente hai giocato più
partite di lui in tutta la carriera».
Felice di essere uscito dalla Siberia del basket, di giocare in una squadra
tanto appassionata in un momento di declino della sua carriera e felice
anche di essere un normale giocatore, che non aveva la responsabilità della
squadra sulle spalle, Walton definì quell’anno come uno dei migliori della
sua vita. Era felice anche di aver sostituito Danny Ainge come bersaglio
principale delle battute di spirito dei compagni. In quella squadra
significava qualcosa. Erano bravi e per questo erano anche presuntuosi e si
prendevano in giro con toni strafottenti. In occasione di una partita a Los
Angeles, durante il riscaldamento preliminare, McHale e Carlisle si stavano
allenando da soli. Carlisle, che aveva un aspetto da ragazzino, indossava
una semplice tuta grigia senza i loghi dei Celtics. Stavano tirando dai lati
opposti del campo. McHale andò a cercare un agente di sicurezza e gli
chiese, indicando Carlisle: «Chi è quel tizio? È un nuovo giocatore dei
Lakers?» L’uomo rispose che pensava che Carlisle giocasse per i Celtics.
«Non l’ho mai visto in vita mia» rispose McHale. «Senta, al coach [K.C.]
Jones non piacerà per niente, potrebbe essere una spia dei Lakers». Allora
l’agente di sicurezza andò ad allontanare Carlisle. Il giocatore più giovane
continuava a gridare: «Sono con lui», indicando McHale, che però non
smetteva di scuotere la testa.
Poi ci fu la partita a Portland, prima della quale Bird aveva deciso che il
basket era troppo facile e quindi quella sera avrebbe tirato soltanto con la
sinistra. Fece i primi quattro canestri e McHale gridò a Jerome Kersey, il
giocatore che marcava Bird: «Ehi, Jerome, aspetta che cominci a usare la
destra». Certe sere, poco prima del fischio d’inizio, McHale raggiungeva
l’altro lato del campo e diceva a un giocatore avversario che D.J. o Ainge
avevano detto che lo avrebbero fatto a pezzi. Si era guadagnato il diritto di
comportarsi così perché in occasione della sua prima partita da titolare in
NBA, contro i Washington Bullets, Bird – che era arrivato una stagione
prima di lui – era andato da Elvin Hayes, la grande star di Washington, per
dirgli: «Elvin, volevo solo farti sapere che il nostro rookie, McHale, ha
detto che stasera ti avrebbe asfaltato».
La loro sicurezza nasceva dalla presenza di un giocatore veramente
grande come Larry Bird, che trascinava la squadra con la sola forza di
volontà. La sua eccezionalità e la sua determinazione lo ponevano a un altro
livello, ed erano contagiose. I compagni non osavano deluderlo. Non
avrebbero mai voluto che Bird pensasse male di loro come giocatori, perché
ai loro occhi era il migliore in assoluto e quindi aveva il diritto di giudicare
tutto ciò che avveniva nel loro piccolo, intenso universo chiuso.
A nessuno era concesso di dargli una delusione, nemmeno agli arbitri.
Quell’anno, durante una partita contro gli Atlanta Hawks, avevano giocato
male nel primo tempo ed erano sotto di 22 punti. Peggio ancora, più
cresceva il loro vantaggio, più gli Hawks si permettevano commenti
sprezzanti, e la maggior parte proveniva da giocatori dei quali i Celtics non
avevano una grande opinione. K.C. Jones era talmente disgustato dalla
squadra che durante l’intervallo non disse una parola. Al momento di
rientrare in campo, Bird, con un’espressione insolitamente aggressiva, andò
da uno degli arbitri e disse: «Noi non molliamo, non fatelo neanche voi», un
chiaro avvertimento sulla sua intenzione di fare sul serio fino alla fine. Poi
si lanciò in una rimonta inarrestabile, segnando 17 punti nel terzo quarto e
riducendo lo svantaggio dei Celtics a soli 8 punti. La squadra vinse ai
supplementari. I compagni di Bird si esaltarono davanti a tanta
determinazione e cominciarono ad aspettarsela ogni volta.
E Bird la dimostrava ogni giorno, non soltanto in partita ma anche in
allenamento. Una volta il Green Team (la seconda squadra) colse il White
Team (i titolari) in una giornata storta e accumulò un notevole vantaggio.
Tutti cominciarono a fare battute e si unì perfino K.C. Jones, deluso dalle
prestazioni dei suoi titolari. Questo mandò in bestia Bird che all’improvviso
cominciò a fare tiri da tre punti, centrandoli tutti. Ogni volta, volutamente,
tirava da più lontano, prima da sei metri, poi da sette, otto e nove. Fece
sempre canestro. L’allenamento stava per finire, il punteggio era equilibrato
e c’era tempo soltanto per un’ultima azione. Bird portò la palla in fondo al
campo. Quando arrivò alla linea di metà campo l’intero Green Team gli si
lanciò contro, lasciando Parish, McHale, Ainge e D.J. completamente liberi.
Appena entrato nella metà campo avversaria Bird lanciò il pallone e fece
canestro, assicurando la vittoria al White Team. Bird cominciò a saltellare
per il campo, esultando con le braccia al cielo.
La sua leadership si basava più sull’esempio che sui discorsi, ma era
capace di ferire i compagni anche con le parole, se pensava non stessero
dando il massimo. Gli altri sapevano che nessuno aveva sofferto più di lui,
in partita e in allenamento. Al suo arrivo in NBA, era conosciuto come un
ottimo tiratore che era anche bravo nei passaggi – aveva mani enormi e
un’eccellente visione periferica – ma il fatto che un giocatore con limiti
corporei così evidenti, per gli standard della Lega, fosse anche un grande
rimbalzista aveva sorpreso tutti. Era così bravo perché si allenava molto ed
era eccezionalmente abile a individuare ogni minima breccia fra i giocatori
assiepati sotto canestro e a trovare il modo di infilarci a forza quel corpo
imperfetto per raggiungere la posizione voluta. Se il pallone cadeva nelle
sue vicinanze, era suo: aveva quelle mani gigantesche ma
meravigliosamente agili, sostenute da polsi forti e robusti. Se c’era una
chiave del gioco di Bird, ed erano in pochi a vederla, secondo Jimmy
Rodgers – che era stato assistente allenatore a Boston per parecchi anni –
stava proprio nei polsi. Sotto molti aspetti era un tiratore di polso: bastava
una lieve flessione e andava a canestro.
L’altro talento che aveva, e che condivideva con Magic Johnson e
Michael Jordan, era un acuto senso della posizione di tutti gli altri giocatori
in campo. Bill Fitch, il primo allenatore professionista di Bird, aveva
incoraggiato i suoi ragazzi a scattare istantanee, come diceva lui, usando gli
occhi come macchine fotografiche. Rodgers concluse che Bird era il miglior
fotografo in circolazione. Gli bastava un’occhiata per capire dove si
trovavano gli altri nove giocatori e gli arbitri, per ogni azione. Significava
che i suoi passaggi no look non erano realmente alla cieca, perché in realtà
sapeva dove si trovavano i compagni, dove si stavano spostando e quanto ci
avrebbero messo a raggiungere la nuova posizione. La sua capacità
percettiva arrivava ad anticipare i ragionamenti degli altri giocatori,
compresi i compagni di squadra.
Una volta, all’inizio del campionato, Parish era fuori e Walton doveva
giocare da titolare: era arrivato presto ed era praticamente solo in campo a
fare stretching quando comparve Bird, che arrivava sempre in anticipo. «So
che cosa stai pensando» gli disse. «Pensi che stasera tirerai al posto di
Robert e che farai 20 punti. Beh, scordatelo. Quei punti extra sono miei. Il
tuo compito è prendere i rimbalzi sul lato debole». La cosa incredibile,
raccontò in seguito Walton, era che Bird aveva ragione, era esattamente
quello che stava pensando.
Bird costringeva i compagni a stringere i denti. Lui soffriva, soffriva
molto, e non si aspettava niente di meno da loro. C’era stata una stagione in
cui Cedric Maxwell era tornato dopo aver firmato un ottimo contratto – si
parlava di $800.000 per quattro anni – e alcuni compagni pensavano che
non avesse più tanta voglia di faticare. Un giorno, dopo gli allenamenti,
Maxwell era seduto negli spogliatoi e diceva che grazie a quel contratto
avrebbe potuto fingere un infortunio al ginocchio e ottenere una specie di
pensionamento. Bird, irritato da quei discorsi, intervenne in tono secco:
«Vuoi un infortunio? Non vuoi più giocare? Tira fuori il ginocchio e me ne
occupo io, anche subito». Era un chiarissimo avvertimento: il contratto non
doveva avere niente a che fare con il livello di energia impegnato in
allenamento e in partita. Tutti dovevano dare il massimo, sempre. Erano
fortunati a essere lì, a fare qualcosa che amavano per compensi
principeschi. E gli infortuni che stroncavano una carriera non erano uno
scherzo e dovevano essere temuti come la peste.
Bird emanava determinazione, odio per la sconfitta e volontà di giocare
sempre al massimo livello possibile, e quindi i compagni di squadra
finirono per assumere lo stesso atteggiamento, quasi assorbendolo per
osmosi. Danny Ainge una volta commentò: «Ho assistito a quel processo da
vicino. Nessuno di noi voleva deluderlo, volevamo essere degni di lui.
L’effetto che aveva sui compagni era eccezionale. Ogni membro della
squadra si elevava con lui, non solo per essere all’altezza delle sue
aspettative su ciascuno di loro, che erano già abbastanza alte, ma anche di
ciò che si aspettava da se stesso, che era ancora di più». McHale
all’università era considerato un giocatore di talento ma non
particolarmente tosto, e Parish all’ingresso nella Lega aveva fama di essere
morbido, ma nessuno dei due fu delicato giocando al fianco di Bird. Lui
non lo avrebbe permesso. Negli spogliatoi, prima di una partita importante,
Bird (che di solito non faceva grandi discorsi), diceva qualcosa come
«Stasera scriverò un altro capitolo della mia storia, sarà un’altra grande
vittoria per i Celtics» e i compagni gli credevano, erano convinti che
sarebbe stato all’altezza della sfida e che li avrebbe trascinati con sé.
Anche se il suo nome e quello di McHale erano sempre associati nelle
descrizioni di quell’eccezionale prima linea, fra loro c’era una sottile
corrente di tensione inespressa, a causa delle diverse personalità. McHale
sotto molti aspetti era un gran lavoratore, ma forse non aveva tutta la
determinazione di Bird. Bird era convinto che se McHale, con quelle
braccia così lunghe e quell’agilità in post basso, si fosse impegnato appena
più seriamente, nessuno avrebbe più potuto fermarlo e avrebbe potuto
segnare – facilmente – 50 punti a partita.
Quindi, certe sere Bird decretava che McHale non si stava impegnando
abbastanza per liberarsi e non gli passava la palla, anche se normalmente
sarebbe stato considerato libero. Dal canto suo McHale, l’uomo più
socievole del mondo, tanto amante delle chiacchiere da poter diventare un
eccellente politico o barista e che ogni giorno andava al lavoro non soltanto
per giocare a basket ad alto livello ma anche per il piacere di stare con i
compagni, sembrava pensare che Bird fosse troppo monodimensionale, che
non avesse una vita al di fuori del basket. In parte era vero. Anni dopo, Bill
Walton avrebbe dichiarato che c’erano stati soltanto tre momenti di
autentica felicità nella vita di Bird ed erano state le tre vittorie nel
campionato dell’NBA. Era anche possibile che sia Bird che McHale
avessero ragione. Gli osservatori più attenti avevano notato che quando
Bird parlava del miglior compagno di squadra che avesse mai avuto
nominava sempre Dennis Johnson invece di McHale, come per dire che
secondo lui Kevin McHale non aveva mai raggiunto un’autentica
grandezza.
Bird aveva un certo grado di purezza. La sua vita era il basket, niente di
più e niente di meno. In un’epoca in cui le nuove strutture sportive
costavano quasi un miliardo di dollari ed erano contornate da sky box di
lusso, parlava del luogo dove la sua squadra disputava le partite come della
‘palestra’. Il suo sistema di valori era semplice, senza fronzoli. Non
conosceva altri universi, e non era interessato a esplorarli. Valutava gli altri
esclusivamente dal loro comportamento in campo: erano buoni giocatori,
pronti a sacrificarsi per la squadra oppure idioti fissati con le statistiche?
Era a disagio con la frenesia che il suo stesso arrivo nella Lega e la sua
rivalità con Magic Johnson avevano contribuito a creare. Altri, come
Magic, erano felici della celebrità che quella svolta culturale aveva portato,
ma Bird non la apprezzava e la considerava una possibile distrazione
dall’essenza della sua vita, che era quella di giocare a basket e di vincere
insieme alla sua squadra. Non aveva bisogno di godersi i lati positivi e stava
molto attento a evitare i lati negativi.
Il resto della cultura popolare, che tanto attirava i suoi compagni – dato
che anche loro erano stelle nel firmamento di quella cultura, si mescolavano
con le rock star e i divi del cinema e venivano accolti con calore in stupidi
talk show – non gli interessava minimamente. Una volta, durante una serata
libera in una trasferta a Dallas, era seduto con alcuni amici nella lobby di un
albergo, gremita di giovani. All’improvviso, verso le sette di sera, tutti i
giovani se ne erano andati come per un segnale convenuto, chiaramente
diretti in qualche posto. Era strano, dato che i Celtics non avrebbero giocato
fino alla sera successiva. Dove stavano andando tutti quanti? Aveva chiesto
al suo amico Shaughnessy, giornalista del Globe. Al concerto di Bruce
Springsteen che si svolgeva nelle vicinanze, aveva risposto lui. «Chi è
Bruce Springsteen?» aveva chiesto Bird e Shaughnessy, pensando alle cose
che le due star avevano in comune, alle loro radici popolari e alla loro
semplicità, nonché alla similitudine del tipo di pubblico appassionato che li
seguiva, aveva risposto: «Larry, è come te ma nel rock and roll». Quella
risposta aveva incuriosito Bird abbastanza da farlo andare al concerto e
anche se la musica non gli era piaciuta particolarmente, aveva apprezzato
l’impegno di Springsteen e il fatto che sudasse tanto. Era qualcosa che
capiva bene.
Sapendo di avere dei limiti fisici, e di non potersi concedere nemmeno il
più piccolo cedimento, ogni estate Bird tornava a casa, nell’Indiana, e si
allenava coscienziosamente, cercando non solo di restare al massimo della
forma con una dieta rigida, ma anche di migliorare le sue prestazioni
atletiche inventando nuovi tiri. Un anno era un alto-basso con finta iniziale.
Un altro era un tiro studiato per creare spazio a un giocatore come lui, che
di certo non stava diventando più giovane: un falso terzo tempo seguito da
un rapido passo indietro mentre rilasciava il pallone. Un anno migliorava i
tiri di sinistro: al momento dell’esordio nella Lega era già bravo, ma con il
procedere della carriera sentì la necessità di un’abilità aggiuntiva e lavorò
per affinarla. All’inizio dei ritiri precampionato, agli altri giocatori piaceva
scoprire quale nuova mossa Bird aveva aggiunto al suo gioco.
Bird si aspettava che i suoi compagni ci tenessero quanto lui e
dimostrassero la stessa lealtà alla squadra. Nella stagione 1986-87, dopo
una grande partita in cui era accoppiato a Julius Erving, che era al suo
ultimo anno di carriera e quindi in declino, aveva insultato piuttosto
pesantemente l’ex stella del basket, sottolineando la differenza di punti
segnati, 42 a 6. Erving reagì male e ne nacque una lite furibonda, che lasciò
tutti di stucco perché i due grandi giocatori avrebbero dovuto essere
superiori ed era noto che si rispettavano a vicenda. Il giorno successivo Bird
arrivò piuttosto abbattuto e guardò una registrazione del litigio. Si vedeva
che Julius lo inseguiva e lo colpiva più volte. Rimase sbalordito da quello
che vedeva: Moses Malone e Charles Barkley erano intervenuti per aiutare
Erving e trattenere Bird, mentre Robert Parish si era tenuto in disparte senza
fare niente, assolutamente niente per aiutare il suo compagno di squadra.
Bird riguardò il video per essere sicuro: sì, Parish era rimasto a guardare
mentre un compagno veniva preso a pugni. Era furioso e abbandonò gli
allenamenti all’istante. I suoi amici più intimi non seppero mai se i
compagni di squadra avessero capito che cosa lo aveva fatto infuriare, ma a
uno di loro aveva detto: «Hai visto Robert durante il litigio? L’hai visto?»
Nella stagione 1985-86 la squadra di Boston non aveva punti deboli. Isiah
Thomas, che aveva studiato i Celtics nella speranza di imparare il loro
segreto e di trasmetterlo ai suoi Pistons, ricordò una frase di K.C. Jones che
sembrava riassumere l’arroganza di quella stagione. I Celtics stavano per
imbarcarsi in una serie di quattro trasferte e qualcuno gli aveva chiesto
quante vittorie voleva. «Mi accontenterò di quattro» aveva risposto
l’allenatore.
Per il giovane Michael Jordan, appena arrivato nella Lega e
disperatamente desideroso di giocare ai massimi livelli, i Celtics erano
chiaramente l’eccellenza. Erano la Carolina del professionismo: avevano
tradizione, spirito di squadra, determinazione, profondità e orientamento
all’obiettivo.
Mentre i Celtics quell’anno avevano dominato la Lega, Jordan aveva
vissuto la stagione più deprimente della sua vita. Alla prima partita della
stagione i Bulls avevano battuto Cleveland ai tempi supplementari e Jordan
aveva ricevuto un brutto colpo da Bill Laimbeer nella seconda partita, ma
era riuscito a trascinare la squadra alla vittoria. Poi però, tre sere dopo, in
una partita contro Golden State si era rotto il piede sinistro. Fu l’unico
infortunio grave della sua carriera. Aveva saltato per raggiungere la palla
ma era caduto male, mettendo il piede in posizione innaturale. Le prime
radiografie non avevano mostrato nulla, ma aveva problemi nel ripartire
dopo una fermata brusca e non era riuscito a giocare le ultime due partite
della trasferta.
Alla fine, al rientro a Chicago, venne individuata una frattura all’osso
navicolare del tarso, talmente inclinata che era stato difficile trovarla anche
con la TAC. Nessuno sapeva quanto potesse essere grave o quanto ci
avrebbe messo il piede a guarire. Inizialmente si era parlato di sei/otto
settimane, ma in breve quell’ottimismo svanì. All’improvviso Michael
Jordan fu costretto a saltare quasi un’intera stagione e a seguire un
programma di riabilitazione. Fu una perdita molto grave per lui, perché il
gioco lo rendeva felice e gli dava un senso di identità: Michael Jordan era
uno dei rari cestisti ad avere nel contratto la clausola ‘love of the game’, che
gli permetteva di fermarsi in qualsiasi campo sul suolo americano, infilarsi
un paio di sneakers e mettersi a giocare con chiunque volesse, cosa che
faceva piuttosto spesso. Una clausola del genere poteva spaventare la
dirigenza di una squadra, per via dei possibili infortuni che il giocatore di
punta avrebbe potuto subire in una partitella improvvisata dove qualche
energumeno avesse deciso di abbattere la grande star, ma era un aspetto su
cui Jordan aveva insistito e che rifletteva la gioia pura e infantile che
ricavava dal gioco.
L’infortunio quindi fu devastante. Era alla seconda stagione NBA e
all’improvviso veniva escluso da ciò che amava di più e doveva vivere in
un piccolo appartamento in una città in cui era ancora in un certo senso un
estraneo. L’inverno a Chicago senza basket si dimostrò una prova molto
dura. Chiese il permesso di tornare a Chapel Hill per la convalescenza: lì
aveva un appartamento e molti amici, fra cui l’intero staff tecnico
dell’Università della North Carolina. Gli fu concesso, e cominciò a
impiegare il tempo nel suo tipico stile. Dato che per il momento non poteva
correre o saltare, si allenò ai tiri per ore e ore ogni giorno. Alla fine,
all’insaputa dei responsabili di Chicago, cominciò a giocare in partitelle
informali, anche in cinque contro cinque. Fu comunque un periodo molto
difficile per lui: fino a quel momento non si era reso conto fino in fondo di
quanto amasse lo sport.
Il controllo del processo di guarigione attraverso le TAC era ancora una
novità e il piede di Michael fu utilizzato come una specie di progetto di
ricerca. I macchinari erano talmente nuovi che i medici non sapevano
calibrare esattamente i progressi che registravano, in quanto non c’erano
precedenti con cui confrontarli. A volte, pensava il dottor John Hefferon, il
medico della squadra, sembrava di guardare crescere l’erba. La lentezza del
recupero a poco a poco fece infuriare Jordan, che mordeva il freno per
tornare a giocare. Quando il piede cominciò a guarire e il dolore si attenuò
si convinse di essere in grado di giocare di nuovo. Si presentava nello
studio di Hefferon sicuro che ogni visita fosse l’ultima e che finalmente gli
avrebbero tolto il gesso. A febbraio e marzo, sempre più impaziente,
arrivava con una scarpa per il piede ferito, sperando di poter tornare a casa
senza gesso. Continuava a ripetere di essere pronto a tornare a giocare, ma
Hefferon gli diceva che non ne era tanto sicuro, così Jordan finiva per
autografare la scarpa e lasciarla in regalo alla segretaria dello studio. Un
giorno Hefferon gli disse che dovevano rifare il gesso e Jordan si rifiutò. Ci
vollero tutte le doti persuasive del dottore per fargli cambiare idea. Jordan si
aggrappava all’argomento che avrebbe usato anche in altri momenti critici:
nessuno conosce il mio corpo meglio di me e io so di essere pronto per
giocare. Hefferon, più di tutte le persone coinvolte nella decisione,
prendeva sul serio i suoi discorsi. Nei soli due anni in cui aveva lavorato
con lui, aveva imparato che non solo era un atleta di talento e un uomo
intelligente, ma che era insolitamente preciso nel descrivere qualunque
dolore o sintomo di malessere. Riteneva che avesse una profonda
autoconsapevolezza e che fosse giusto ascoltarlo.
Non volendosi prendere da solo la responsabilità di quella decisione,
Hefferon cominciò a chiedere consulti ad altri ortopedici, ma nessuno di
loro era sicuro al cento per cento delle condizioni di Jordan. Chiaramente si
muovevano su un terreno privo di garanzie, e avevano a che fare con un
giovane atleta pieno di passione che rivoleva a tutti costi la sua vita. Il
rischio fisico di dimetterlo troppo presto era evidente. Ma la tensione
cresceva sempre di più ed Hefferon capì che c’era un altro rischio a
controbilanciare il primo, e cioè il distacco dalla squadra del giovane
giocatore più talentuoso, gioioso e carismatico che avesse mai avuto.
Quando Jerry Krause, il general manager della squadra, gli chiese quale
fosse il rischio di un nuovo infortunio, il medico rispose che non poteva
saperlo per certo, ma che probabilmente si aggirava intorno al 10%. Però,
aggiunse, si trattava di un giocatore molto appassionato che era stato
escluso dalla sua fonte principale di gioia e che non vedeva l’ora di tornare
a giocare, e se non lo ascoltavano sarebbe stato un problema. Se non lo
avessero lasciato giocare, Jordan probabilmente non li avrebbe mai
perdonati. Di fronte a quel rischio, concluse, un rischio fisico del 10% non
era poi granché.
I rimpalli fra giocatore, medici e dirigenza continuarono. A un certo
punto Krause fece uno dei due errori fatali nel rapporto con Jordan; errori
che crearono una crepa, all’inizio marginale ma che in seguito si sarebbe
rivelata molto più grave. Parlando con Jordan respinse la sua ennesima
richiesta di poter giocare dicendo che avrebbero deciso lui e Jerry
Reinsdorf, perché Jordan era una loro proprietà. Era una cosa veramente
stupida da dire a qualsiasi giocatore, e in particolare a un giocatore nero, e
Jordan non la dimenticò né la perdonò mai. Fu l’inizio di una rottura fra il
giocatore di punta e la dirigenza della squadra che negli anni peggiorò
sempre di più e non fu mai sanata.
Il secondo errore fu più sottile. Jordan si era convinto – e molti
osservatori della squadra pensavano che molto probabilmente avesse
ragione – che la dirigenza dei Bulls avesse un altro motivo per tenerlo fuori.
I Bulls avevano vinto le prime tre partite con lui. Senza di lui avevano perso
otto delle successive nove e quando finalmente lo lasciarono tornare in
campo, e solo per pochi minuti, avevano un record di 24 vittorie e 43
sconfitte. Secondo Jordan e altri, Krause e Reinsdorf preferivano tenerlo
fuori non solo per proteggere il piede ma per assicurarsi un posto nella
lotteria in cui le sette squadre peggiori del campionato avrebbero potuto
scegliere nel draft i migliori giocatori universitari disponibili quell’anno.
Con la lotteria, i Bulls avrebbero avuto una possibilità, anche se piccola, di
aggiudicarsi Brad Daugherty o Len Bias, i due giocatori migliori che
sarebbero usciti dalle università quell’anno. Per un atleta competitivo come
Jordan quell’idea era semplicemente aberrante: significava che i suoi datori
di lavoro non erano votati alla vittoria quanto lui, che accettavano l’idea
della sconfitta e che erano disposti a rinunciare alla stagione in corso e a
qualsiasi speranza di entrare nei playoff per migliorare la squadra futura.
Anche in una squadra secondaria con giocatori scarsi come quella dei Bulls
agli inizi, Michael Jordan non avrebbe mai accettato l’idea della sconfitta.
Era convinto che se avesse giocato i Bulls avrebbero avuto comunque la
possibilità di arrivare ai playoff e che in quel caso avrebbe potuto trascinarli
alla vittoria.
La decisione sul suo rientro si faceva sempre più controversa e alla fine
fu organizzata una conference call con tutti i principali rappresentanti dei
Bulls: Reinsdorf, Krause, Lester Crown (un ricco uomo d’affari di Chicago
che era probabilmente il principale finanziatore della squadra), Stan Albeck
(l’allenatore che aveva sostituito Kevin Loughery), Hefferon, altri due
medici e lo stesso Jordan. Jordan perorò di nuovo la propria causa, ma
nessuno lo ascoltò. Alla fine fu raggiunta una soluzione di compromesso:
Jordan avrebbe giocato, ma soltanto per sei minuti ogni due quarti. Tanto
per assicurarsi che Albeck fosse consapevole dei limiti imposti, Reinsdorf
gli inviò una lettera ufficiale. Significava che l’allenatore era fra due fuochi:
Jordan da un lato, che voleva sempre più minuti, e Reinsdorf e Krause
dall’altro, che pretendevano la stretta osservanza dell’accordo. In una
partita Albeck lo lasciò giocare per cinque secondi in più, che secondo i
regolamenti NBA contavano come un intero minuto. Il giorno dopo Krause
lo chiamò per dirgli che la proprietà era furente perché Jordan aveva giocato
sette minuti. In breve, Tim Hallam fu incaricato di sedere al tavolo degli
arbitri con un cronometro, per accertarsi che Jordan non superasse i limiti.
Naturalmente Jordan non li sopportava. Voleva arrivare ai playoff e
scontrarsi con i Celtics.
I Bulls erano ancora in svantaggio contro Cleveland nella corsa per
l’ultimo posto disponibile ai playoff, ma con il rientro di Jordan
cominciarono a rimontare. La settantasettesima partita si giocava in Indiana.
Indiana era andata rapidamente in vantaggio e i Bulls erano sotto di 15
punti a metà partita. Albeck fece entrare Jordan all’inizio del secondo
tempo. «Facci rientrare in partita» gli disse, e Jordan fece esattamente
questo: in meno di quattro minuti il punteggio si era riequilibrato e rimase
così fino alla fine, ma quando mancavano ventotto secondi Chicago era
sotto di un punto. Il tempo di Jordan però era scaduto. Albeck dovette farlo
uscire e lui andò fuori di testa. Cominciò a urlare: «Non puoi farlo!
Dobbiamo arrivare ai playoff!», ma Albeck lo sostituì con Kyle Macy.
Mentre il tempo scorreva la guardia di Chicago John Paxson fece un tiro
lungo, nient’altro che un tentativo disperato agli occhi di Albeck, ma andò a
segno e i Bulls vinsero.
Dopo la partita i giornalisti di Chicago si avventarono su Albeck. «Come
hai potuto fare questo a Michael?» gli chiesero, e lui si domandò la stessa
cosa. Il giorno dopo un reporter chiamò Reinsdorf per chiedergli che cosa
fosse successo e lui rispose che Albeck non era bravo in matematica.
L’allenatore capì che a fine stagione sarebbe stato licenziato, ma anche con i
pochi minuti concessi a Jordan riuscì a dominare quelle ultime partite: i
Bulls vinsero cinque delle ultime sei partite e Jordan segnò una media di
29,6 punti. Questo bastò a escluderli dalla lotteria e portarli ai playoff
contro i Celtics.
Nella prima partita al Boston Garden Jordan giocò bene. I Celtics non si
erano degnati di dedicargli due marcatori e segnò 49 punti. Fu un’ottima
prestazione da parte di un giocatore di talento, ma non fu davvero
straordinaria. I Bulls avevano organizzato l’attacco intorno a lui, tenendolo
libero e passandogli sempre la palla. I Celtics avevano vinto facilmente 123
a 104. Ma la partita della domenica fu speciale. Fu una grande partita,
quella in cui Michael Jordan attirò l’attenzione del mondo del basket. In un
certo senso si può dire che gran parte della fama straordinaria che si
guadagnò in seguito derivasse da quella partita. Nessuno si aspettava
davvero quello che accadde. La cosa meravigliosa dello sport, secondo
Dick Stockton, il commentatore della CBS, era che entrando in uno stadio o
in un palazzetto come il Boston Garden non si poteva sapere se sarebbe
accaduto qualcosa di veramente straordinario, forse addirittura un pezzo di
storia. Da ragazzo Stockton aveva assistito alla famosa ricezione del
tremendo lancio di Vic Wertz da parte di Willie Mays nelle World Series di
baseball del 1954. Da adulto aveva commentato la famosa partita nella
World Series del 1975 in cui Carlton Fisk aveva battuto un fantastico home
run nel dodicesimo inning portando i Red Sox alla vittoria per 7 a 6 contro i
Cincinnati Reds, considerata quasi universalmente la migliore squadra di
tutti i tempi. Assistendo a quella partita dei Bulls contro i Celtics sentiva di
partecipare a un altro momento storico per lo sport.
I Celtics erano talmente favoriti che trattarono i Bulls come una specie di
squadra esordiente e non prestarono particolare attenzione. La strafottenza
della squadra, sempre secondo Stockton, era condivisa anche dai tifosi di
Boston, che chiaramente non attribuivano a quell’incontro lo stesso
interesse di una partita contro i 76ers, che a quei tempi erano i loro
principali avversari nella Eastern Conference. Per un po’ restarono a
guardare le imprese di Jordan, più silenziosi del solito, in attesa che
esaurisse le energie e che i Celtics prendessero il dominio della partita come
era giusto che fosse. Gradualmente, però, con il procedere della partita, con
Jordan che sembrava tenere a bada da solo l’intera squadra avversaria,
Stockton colse un cambiamento nel pubblico, una specie di mormorio di
incredulità, preoccupazione e infine di malcelata ammirazione. Era come se
i tifosi non fossero più ben sicuri del proprio ruolo: dovevano esultare per
l’esibizione di virtuosismo o esprimere l’ansia crescente per il fallimento
degli amati Celtics nel liberarsi di quei Bulls così presuntuosi?
Il Michael Jordan che giocò quel giorno, rivisto in video, sembra il
fratello minore del Michael Jordan degli anni novanta. Era più snello,
decisamente meno muscoloso. Allora pesava più o meno ottantacinque
chili, dodici in meno di quelli che il suo corpo più robusto avrebbe
sostenuto sette anni più tardi. Aveva ancora un po’ di capelli: il cranio
rasato, che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, e in seguito quello
di un’intera generazione di giovani cestisti di colore nell’NBA, non aveva
ancora fatto la sua comparsa. Indossava ancora i pantaloncini corti, non
quelli lunghi che avrebbe adottato in seguito, lanciando la moda in tutta
l’NBA.
Quello che saltava all’occhio nel suo stile era il tempismo, la capacità di
vedere tutto il campo e di conoscere al millisecondo il tempo che aveva a
disposizione per ciascun possesso di palla, prima di decidere se passare o
tirare. Erano in pochi a riuscirci. Stan Albeck una volta gli chiese che cosa
pensava quando una squadra avversaria gli metteva contro due marcatori, e
rimase sbalordito dalla risposta precisa: «Penso che ho fra mezzo secondo e
un secondo per decidere se palleggiare e tentare di superarli o di spezzare il
raddoppio, oppure tirare prima che il secondo difensore mi raggiunga. Se
riesco a superarli posso puntare direttamente a canestro. Ma tu vuoi sapere
che cosa succede dopo?» Albeck disse di sì. «Mi trovo davanti un tizio di
due metri che tenta di bloccarmi, ma gli schiaccio comunque in faccia».
Bill Walton e Dennis Johnson, entrambi grandissimi difensori, quel
giorno vennero espulsi per eccesso di falli e sia Parish che Ainge
conclusero la partita con cinque falli a testa: Walton fece quattro falli a
Jordan, Johnson tre, Ainge, Parish e McHale uno. Subì un totale di dieci
falli da quelli che erano considerati fra i migliori difensori della Lega.
Jordan continuava a superare i difensori e ad avvicinarsi al canestro e la sua
agilità aveva costretto Walton a buttarsi su di lui all’ultimo secondo. Per
Walton era stato un momento eccitante, anche se doloroso. Di solito un
centro che giocava in difesa era in grado di valutare tutti i grandi attaccanti
che cercavano di superarlo, riconoscendo le loro mosse e finendo per
scoprire le angolazioni da cui si muovevano e i limiti della loro azione.
Invece quel giovane giocatore sembrava sfidare i limiti conosciuti, arrivava
in terzo tempo dopo aver superato l’ultima linea di difesa, composta da due
eccellenti difensori, e – quando sembrava che il tempo normale per un tiro o
un passaggio fosse quasi scaduto e ci si preparava a bloccarlo – riusciva ad
andare oltre, superandoti come se avesse una marcia in più. Pensavi di aver
capito la sua traiettoria, e lui la allungava. Oppure pensavi di aver intuito
l’azione di attacco che voleva fare e lui, mentre era sospeso in aria, spostava
la palla nell’altra mano. Era uno spettacolo sconvolgente.
I Celtics sapevano che Jordan era bravo, ma non avevano mai considerato
lui o la sua squadra come una reale minaccia. Quello che riempì di
meraviglia Bob Ryan del Boston Globe fu il fatto che Jordan operava
all’interno della normale strategia offensiva dei Bulls, non era come se la
squadra lavorasse soltanto per liberare lui. La realtà era semplicemente che
all’interno di quella strategia offensiva, lui non poteva essere fermato né
marcato, perché era troppo veloce. Nel prosieguo della partita, i giocatori
dei Celtics cominciarono a godersela. La maggior parte di loro era
consapevole di quello a cui stava assistendo. Quel pomeriggio, pensò Chris
Ford, uno degli assistenti allenatori dei Celtics, guardare Michael Jordan era
piacere puro. Stava guardando un giocatore esprimersi a un livello che
nessuno aveva mai raggiunto prima, e contro la squadra migliore della
Lega.
A metà del terzo quarto, quando Dennis Johnson ebbe raggiunto il
massimo numero di falli, Danny Ainge entrò a sostituirlo. Johnson era un
po’ più robusto, Ainge era un po’ più veloce, ma quel giorno nessuno
avrebbe potuto fermare Jordan. Ainge decise che almeno avrebbe costretto
Jordan a giocare in difesa (in quella partita segnò 24 punti). Pensò che
quello fosse un gran giorno per il basket: «Era talmente bravo che eri
tentato di fermarti e guardarlo, semplicemente. Non era solo quello che
faceva, ma il modo in cui lo faceva. Sapevamo che era molto bravo, ma
nessuno di noi era ancora consapevole che sarebbe stato il miglior giocatore
che si fosse mai allacciato un paio di sneakers, però stavamo per scoprirlo e
quel pomeriggio fu un buon inizio».
Alla fine del primo tempo supplementare Jordan sbagliò un semplice tiro
in sospensione che avrebbe segnato le sorti della partita. I Celtics vinsero al
secondo supplementare per 135 a 131. Alla fine, Jordan era sfinito. La
partita era durata 58 minuti e lui ne aveva giocati 53, gli ultimi 39 senza
interruzioni. Più tardi K.C. Jones commentò: «Pensavo che avesse giocato
78 minuti. Di sicuro sembrava così».
Michael Jordan segnò 63 punti, un record nei playoff. Non tutti si erano
resi conto di quanto fosse stato fantastico. Kevin McHale stava facendo la
doccia dopo la partita quando gli portarono le statistiche. Disse qualcosa a
proposito del fatto che Jordan aveva fatto una grande partita, poi abbassò gli
occhi, vide 63 punti e restò sbalordito. Jordan invece non era contento.
Dopo la partita disse ai giornalisti: «Scambierei tutti quei punti per la
vittoria. Ci tenevo tantissimo». Ancora anni dopo, quando gli parlavano di
quella partita pensando di suscitare un moto di nostalgia, lui cambiava
discorso in fretta. «Non è una delle mie preferite» diceva, per poi
aggiungere: «Perché abbiamo perso. Questo fatto non può cambiare».
Nessuno era rimasto più colpito di Larry Bird. «Era Dio travestito da
Michael Jordan» disse ai giornalisti, che apprezzarono molto la battuta –
una battuta immortale per una partita immortale – e apprezzarono anche di
più la partita stessa, in cui un solo Davide aveva sconfitto tanti Golia,
nonché il fatto che si fosse svolta nel primo pomeriggio, dando loro tutto il
tempo necessario per lavorare alle proprie storie e cercare di eternare quello
che era successo. ‘Ha dipinto il suo capolavoro sul soffitto della Cappella
Sistina del basket, e non gli è servita un’impalcatura per arrivare lassù’
scrisse Ray Sons sul Chicago Sun-Times. ‘Michael sa volare’.
Aveva messo a segno 22 tiri dal campo su 41 e 19 tiri liberi su 21. Tredici
canestri erano arrivati da tiri in sospensione, sette da terzi tempi, uno da una
schiacciata e uno da un’interferenza a canestro valido.
Bird, col suo istinto meraviglioso nel riconoscere e accogliere i grandi
talenti, lo aveva visto per primo e ora lo vedevano anche gli altri: era il
prototipo di un nuovo, super giocatore. C’erano già stati grandi saltatori
prima di lui, come Julius Erving e David Thompson, ma il loro gioco era
incompleto: Erving era molto dotato fisicamente e nessuno riusciva ad
arrivare a canestro con tanta enfasi e teatralità, e David Thompson faceva
salti eccezionali, ma nessuno dei due era considerato particolarmente bravo
a concludere. Invece era arrivato questo giovane che non sembrava avere
punti deboli: sapeva saltare e palleggiare, sapeva tirare e passare.
Chris Ford, che aveva allenato Bird e altri avversari di Jordan, alla fine
arrivò a pensare che nonostante le grandi differenze fisiche e negli stili di
gioco, gli aspetti simili fra i due fossero più rilevanti: c’erano la fame di
eccellenza, la necessità assoluta di conquistare un anello, l’effetto che
avevano nel trascinare i compagni, l’aura di invincibilità che li circondava.
Avevano un’altra cosa in comune, sempre secondo Ford, che li separava da
tanti giovani esordienti di grandissimo talento che finivano in squadre
deboli per colpa dei capricci del draft e non vedevano l’ora che scadessero i
tre anni del primo contratto per spostarsi in una franchigia più forte.
Entrambi avevano un senso di lealtà. «Se venivi scelto da una squadra in
fondo alla classifica, significava che parte del tuo compito era quello di
cambiare le sorti della squadra e renderla vincente, anzi, portarla all’anello.
Era un compito profondamente sentito: non significava soltanto essere un
giocatore, ma anche un cittadino, ed era fondamentale per entrambi. Larry
pensava di dovere a Boston la vittoria, e Michael provava la stessa cosa per
Chicago. Era il loro lavoro, faceva parte del contratto» disse Ford. «Temo
che non siano in molti oggi a pensarla così».
Dopo quella vittoria così sudata, per Gara Tre i Celtics cambiarono
strategia. Il giorno successivo, agli allenamenti, qualcuno osservò che
alcuni altri giocatori dei Bulls erano Dave Corzine, Jawann Oldham, Sidney
Green, Kyle Macy e Gene Banks, nessuno dei quali poteva essere una
minaccia per i Celtics. La strategia sarebbe cambiata: avrebbero
raddoppiato su Jordan fin da subito, in modo da tenerlo lontano dalla palla.
Funzionò. Due giorni più tardi andarono a Chicago per la terza – e se
necessario per la quarta – partita. Kevin McHale salì in aereo senza valigia,
soltanto con un paio di scarpe in più e un kit per la rasatura. Qualcuno gli
chiese dove fosse il suo bagaglio e lui rispose: «Non ne ho bisogno,
resteremo soltanto una notte». Fu davvero così. Con la nuova strategia
chiamata ‘Stop Michael’, Jordan fece molta più fatica a prendere la palla e i
Celtics vinsero facilmente 122 a 104.
I ricordi di quella serie durarono a lungo. Durante le Conference Finals
del 1998 contro Indiana, un giornalista chiese a Larry Bird, che a quei tempi
allenava i Pacers, di quella partita. Bird, desideroso di sfatare il mito
dell’invincibilità di Jordan, disse: «L’unica cosa che ricordo è che
vincemmo». Più o meno nello stesso periodo Bill Walton, diventato
commentatore sportivo alla NBC, entrò negli spogliatoi dei Bulls per
intervistare Michael Jordan, solo per sentirsi ricordare che dodici anni
prima era riuscito a farlo espellere per eccesso di falli.
13
New York City; Portland, 1986

Non molto tempo dopo quella partita, due fanatici del basket unirono le
forze per creare una serie di spot televisivi che accrebbero
considerevolmente la fama di Michael e contribuirono a portarla ben oltre i
confini dello sport. Erano Jim Riswold, un giovane e irriverente autore
impiegato in una piccola agenzia di pubblicità di Portland (in Oregon)
chiamata Wieden & Kennedy, e Shelton Jackson (Spike) Lee, un regista di
Brooklyn alle prime armi.
Riswold era originario di Seattle, dove aveva frequentato l’Università di
Washington: non sapendo bene chi o che cosa volesse diventare, rimase
all’università per sette anni nel corso dei quali prese tre diverse lauree in
filosofia, storia e comunicazione. Adorava il basket e lavorava part time per
i Seattle SuperSonics, occupandosi della promozione e della pubblicità
locale. Grazie a questo incarico si avvicinò al mondo della pubblicità e dato
che negli annunci di lavoro non figurava alcuna azienda che assumesse
filosofi, decise che il posto giusto per mettere a frutto i suoi talenti, quali
che fossero, era proprio quello. Nel 1984, l’anno dell’esordio di Michael
Jordan in NBA, Riswold lasciò Seattle e andò a lavorare per la Wieden &
Kennedy.
Portland era in pratica la casa della Nike. In quel periodo però la Nike
affidava la maggior parte delle attività pubblicitarie alla Chiat/Day, una
delle grandi agenzie di New York, famosa per il talento dei suoi creativi. La
Wieden & Kennedy aveva avuto una parte del budget, in precedenza, ma
era relativamente piccola e piuttosto ordinaria. In quel periodo era
considerata la seconda agenzia della Nike, un posizionamento non
particolarmente desiderabile. Più o meno quando Riswold fu assunto, però,
la Wieden & Kennedy ottenne un contratto per la pubblicità di uno scooter
Honda. Grazie alla creatività di Riswold proposero un’idea originale, uno
spot anticonformista e sgranato con Lou Reed sullo scooter Honda
accompagnato dalla sua canzone Walk on the Wild Side. Era difficile dire se
fosse stato girato da raffinati professionisti o da principianti assoluti, ma era
trendy e stranamente coinvolgente, in parte anche perché il messaggio
pubblicitario arrivava soltanto all’ultimo minuto.
Seguirono altri spot della Honda, tutti ugualmente interessanti, che si
rivelarono molto importanti per affermare l’identità della piccola agenzia,
così lontana dal centro della scena newyorkese, e contribuirono a far
assegnare alla Wieden & Kennedy il contratto della Nike per gli spot con
Michael Jordan. Jim Riswold era così sicuro di essere l’uomo giusto per
realizzarli che andò letteralmente a implorare i suoi capi di assegnarglieli.
Gli spot precedenti realizzati dalla Chiat/Day per Jordan erano piuttosto
convenzionali e si concentravano sulle sue eccezionali doti atletiche e sulla
bellezza del suo corpo. La sua identità – che tipo di uomo fosse, se fosse
uno che volevi guardare giocare per poi andare a cena con lui, oppure se
volevi soltanto guardarlo giocare, e infine se avesse qualche lato nascosto –
non era ancora stata esplorata. Riswold però aveva un’idea diversa. Aveva
letto da qualche parte che Bill Russell pensava che Michael Jordan fosse un
meraviglioso essere umano e che una volta si era congratulato con il signore
e la signora Jordan per aver cresciuto non soltanto un grande giocatore di
basket ma anche uno splendido figlio, e questo lo aveva colpito perché
sapeva – come chiunque avesse frequentato Russell – che non faceva
complimenti del genere alla leggera, neanche agli ex giocatori dei Celtics.
In realtà la sua carriera di general manager dei SuperSonics non era finita
benissimo, soprattutto perché molti dei giocatori più giovani, che
inizialmente erano entusiasti di poter giocare per il grande Bill Russell, in
breve si erano ritrovati a subire il suo disappunto e il suo aperto disprezzo.
Se però Jordan era un essere umano tanto esemplare da guadagnarsi le
lodi dell’esigentissimo Russell, poneva anche una sfida appassionante per
qualsiasi pubblicitario: rivelare le sue qualità uniche in un filmato di soli
trenta secondi. Fino a quel momento era stato detto soltanto che era un
atleta fantastico e milioni di ragazzi americani che volevano saltare più in
alto avevano comprato le sue scarpe, ma quel tipo di messaggio aveva dei
limiti. Se la Nike fosse riuscita a dimostrare che era anche uno splendido
essere umano, se avesse rivelato il fascino naturale che tante persone,
compreso lo stesso Riswold, avevano sentito dopo averlo incontrato,
avrebbero avuto un vero personaggio, da poter sviluppare attraverso una
storia. In quel periodo, nel 1986, Riswold e Bill Davenport, il suo
produttore esecutivo, erano a Los Angeles per girare un altro spot e
andarono al cinema. Il film che videro, About last night, non era niente di
eccezionale, ma il trailer di un altro film, Lola Darling, affascinò Riswold.
Mostrava il regista e sedicente protagonista del film, un giovane e magro
ragazzo di colore di nome Spike Lee, che cercava di convincere il pubblico
a vedere il suo film e nel frattempo vendeva calzini tubolari, due paia per
cinque dollari, dicendo che se nessuno fosse andato a vederlo avrebbe
passato la vita a vendere calzini per strada. Calzini, due paia cinque dollari,
ripeteva durante la dissolvenza.
Riswold era cresciuto con la rivista Mad e i Monty Python, così come con
Jack Sikma e Gus Williams, e il trailer lo convinse subito. Andò a vedere il
primo film di Spike Lee, girato in economia con circa $175.000 dollari. Lo
trovò divertente e quasi dolce nella sua innocenza. Anni dopo Spike Lee
disse che Riswold e Davenport avevano apprezzato il film per via di un
certo stile funky, non troppo raffinato perché a quei tempi non si poteva
permettere la raffinatezza: era quello che finì per definire involontariamente
pauvre. Per risparmiare non solo aveva interpretato il ruolo del
protagonista, ma aveva usato il proprio appartamento come set.
La grande sorpresa del film, per Riswold, fu che mostrava una specie di
culto per Jordan, o meglio, per le Air Jordan. Il protagonista del film, Mars
Blackmon, faceva il corriere a New York ed era profondamente innamorato
della bellissima Lola Darling. L’unica cosa che amava più di Lola Darling
erano le sue Air Jordan, e quando arrivava il momento di fare l’amore con
Lola si rifiutava di toglierle. Per Riswold era una vera manna dal cielo: un
film che conteneva già uno spot («L’unica cosa che la Nike mi abbia mai
dato per il film» commentò Lee con una certa irritazione, anni dopo, «è
stato il poster di Michael appeso in casa di Mars. Ho dovuto comprare due
paia di Air Jordan con il budget del film»).
Spike Lee, talentuoso e dotato di un innato senso per la moda, non era
certo un figlio del ghetto. Era un laureato del Morehouse College di terza
generazione, caratteristica che lo collocava saldamente in un’élite nera.
Sentiva profondamente la ricchezza della cultura e del talento della sua
gente e aveva molto chiaro il livello a cui la società bianca dominante li
aveva soffocati o ignorati. Il padre era un musicista jazz, un purista che
rifiutava di usare strumenti elettrici, e la madre insegnava letteratura e storia
nera alla Saint Ann’s, un’eccezionale scuola privata di Brooklyn. Lee era da
sempre tifoso dei Knicks e una delle grandi crisi della sua giovinezza si era
verificata quando la data di un concerto del padre si era sovrapposta a una
partita dei New York Knicks contro i Los Angeles Lakers nella finale NBA
al Madison Square Garden. Naturalmente alla fine era andato al Garden.
Il Mars Blackmon di Spike Lee era, come lo stesso Lee, un tifoso
sfegatato dei Knicks e un uomo per cui era difficile scegliere fra l’amore
per lo sport e l’amore di una donna. Nella vita reale di Spike, per esempio,
nella primavera del 1985 la storia con la fidanzata stava andando in
frantumi e lei avrebbe voluto fare un discorso serio sul loro futuro. Lui però
era troppo elettrizzato dal fatto che i Knicks avessero scelto Patrick Ewing
al draft per concentrarsi su di lei. La relazione con quella ragazza si
concluse molto presto, ma quella con i Knicks divenne molto più intensa: il
giorno dopo il draft Lee si precipitò al Garden a comprare un abbonamento
stagionale, anche se non poteva permetterselo. Inizialmente aveva dei posti
orrendi nell’ultimo anello, ma più avanti, quando interpretando il Sancho
Panza di Michael Jordan ebbe guadagnato fama e potere (dieci anni dopo i
Knicks usarono un videoclip fatto da lui per convincere Allan Houston a
lasciare Detroit), riuscì ad avanzare sempre di più, fino ad arrivare ad avere
i posti migliori in assoluto, ancora più di quelli di un altro regista fanatico di
basket, Woody Allen. Per Lee il gioco non era niente di meno di una forma
d’arte e vedeva Michael Jordan non tanto come un atleta quanto come un
artista, membro di un pantheon di geni di colore il cui talento trascendeva
non soltanto le circostanze delle loro origini ma anche la categoria che la
vita sembrava aver loro assegnato: uomini come Duke Ellington, Miles
Davis, John Coltrane e Louis Armstrong.
Quando Lee aveva scritto Lola Darling era stato difficile per lui non
usare un giocatore dei Knicks come idolo del protagonista e inizialmente
aveva pensato a Bernard King. Alla fine, però, aveva dovuto riconoscere
che Michael Jordan era unico, la nuova grande superstar, e la scelta fatale
era stata compiuta.
Fra i tre corteggiatori della disinvolta Lola Darling, nel film, inizialmente
Mars sembra il meno attraente: un po’ goffo, un po’ eccessivo, non certo la
prima scelta. Il preferito naturale, Jamie Overstreet, ha la pelle più chiara ed
è attraente, anche se forse un po’ troppo impostato, ma è anche – e con
Spike Lee ogni riferimento al basket è sempre una metafora più ampia – un
fanatico di Larry Bird. A un certo punto Lee fa dire a Mars: «Bird è il
peggior figlio di puttana della Lega». In un certo senso Mars è il
personaggio più amabile del film, o almeno quello che fa più tenerezza:
parla un linguaggio da strada colorito e appassionato, molto accattivante.
A Riswold il film piacque immensamente e capì che Lee con il suo
enorme talento poteva essere la persona giusta, l’adoratore di Jordan che
avrebbe potuto aiutarli a risolvere l’equazione di come girare uno spot che
mostrasse le grandi qualità dell’atleta senza trasformarlo in qualcosa che
non era, e cioè un attore.
Il giorno successivo Riswold chiamò Lee. Inizialmente il futuro regista
sembrava un po’ diffidente, temendo che si trattasse dello scherzo di un
compagno del corso di cinema («A quei tempi, Spike rispondeva ancora al
telefono di persona» commentò in seguito Riswold, divertito). A Riswold fu
subito simpatico. Gli disse che sperava di poterlo inserire nello spot nei
panni di Mars Blackmon, e anzi che sperava che Lee dirigesse le riprese.
Per Lee, che era uscito da poco dalla scuola di cinema, era la chiamata che
attendeva da tempo. Nella sua ingenuità, dato che aveva vinto il premio del
suo corso per il filmato più eccezionale, intitolato Joe’s Bed-Stuy
Barbershop: We Cut Heads, si era aspettato di essere contattato da gente del
calibro di Steven Spielberg e George Lucas. Chiamate che naturalmente
non arrivarono mai. Riswold ricorda che Lee chiese: «Potrò lavorare con
Michael Jordan?» Ma certo che poteva. Lee era entusiasta all’idea di
dirigere uno spot: era un settore dal quale nel passato i registi neri erano
stati quasi sempre esclusi. E in più avrebbe guadagnato $50.000 per il
disturbo. Dopo aver arruolato Lee, Riswold e Davenport andarono da
Michael Jordan, che diede la sua approvazione.
Qualche anno dopo, Riswold concluse che lavorare per una piccola
agenzia indipendente situata in Oregon, lontano dalla capitale mondiale
della pubblicità, era stato un grande vantaggio per tutti perché avevano
dovuto affrontare meno ostacoli: meno inibizioni, meno regole, molta meno
tradizione. Non c’era nessuno che potesse dire a Riswold che cosa poteva o
non poteva fare, anche perché non c’erano precedenti su cui basarsi.
Nessuno poteva impedirgli di scommettere i soldi della Nike e la
reputazione della Wieden & Kennedy su un giovane regista nero che
nessuno aveva mai sentito nominare. E a Portland l’etnia non era un
problema. Portland era una città del Nordovest senza un vero e proprio
ghetto, almeno non uno come quelli nel Nordest, e sembrava molto meno
preoccupata delle questioni razziali rispetto ad altri luoghi. Molti giocatori
neri che avevano militato nei Trail Blazers finivano per stabilirsi lì al
termine della carriera, perché era un posto molto piacevole dove vivere e
mettere su famiglia. In realtà, la prima volta che la famiglia Kennedy perse
le primarie fu proprio in Oregon nel 1968, quando Robert Kennedy fu
sconfitto da Gene McCarthy e i sostenitori dei Kennedy in seguito si
lamentarono per l’assenza del ghetto, che probabilmente avrebbe favorito la
creazione della tipica alleanza dei Kennedy.
Secondo Riswold gli spot funzionarono per vari motivi. Il primo era che
sia lui che Lee erano dei fanatici e avevano portato nel progetto lo stesso
senso di meraviglia che ci avrebbe messo qualunque tifoso. La razza non
era un fattore in gioco. Riswold non pensava a Jordan come a un uomo di
colore. Aveva sempre amato il basket, e il basket era nero, e come molti
giovani della sua generazione era convinto che se gli altri avessero visto
nello sport quello che ci vedeva lui – la bellezza e la sensibilità artistica – lo
avrebbero amato quanto e forse più degli altri sport apparentemente più
popolari. Naturalmente, più lo avessero amato e meno si sarebbero
preoccupati del fattore razza. E davanti a loro c’era quel giovane che non
solo giocava in modo magistrale, ma era semplicemente bellissimo.
Michael Jordan, come era sua abitudine, mise alla prova Spike Lee.
Durante il loro primo incontro Jordan, che era già famoso, aveva squadrato
Lee e aveva detto soltanto: «Spike Lee», ma in tono di sfida, come se, come
ricordò in seguito il regista, volesse dirgli: «Mostrami quello che sai fare».
Ma andarono subito d’accordo. Il coraggio degli spot Nike, secondo Lee,
risiedeva nel fatto che l’azienda gli aveva permesso di dirigerli e in più di
recitare con Jordan. Non c’era coraggio nel rappresentare Jordan nei panni
dell’eroe, era già una star ed era splendido. Con lui si potevano fare cose
che non sarebbero mai state possibili con Larry Bird. Eppure era lì, accanto
a un tizio smilzo e occhialuto che per di più era nero e un po’ sopra le righe.
Non era detto che la maggioranza degli americani fosse pronta ad accettare
Spike Lee come partner di un’icona.
Eppure funzionò fin dall’inizio. Le prime riprese mostrano un Jordan un
po’ rigido e incerto – nel corso degli anni acquistò disinvoltura – ma era
pronto a fare egregiamente la parte della spalla. Nei primi spot Mars si
rivolgeva direttamente al pubblico, impersonando il classico tifoso. Una
delle riprese mostrava Lee sulle spalle di Jordan, abbracciato al canestro
con al collo una grossa catena d’oro ‘MARS’. Nel bel mezzo del discorso
Jordan, con un sorriso meravigliosamente disinvolto, lasciava Lee appeso al
bordo e schiacciava in mezzo alle sue braccia.
Fin dal principio Jordan aveva colpito tutti con il suo fascino innato, il
suo spirito e la sua evidente sicurezza in se stesso. Sapeva chi era, e si
piaceva. Non c’era nulla di minaccioso in lui. Era molto severo – bisognava
guadagnarsi il suo rispetto e chiaramente stava attento al modo in cui la sua
immagine veniva sfruttata – ma come uomo dimostrava la massima
disinvoltura ed eleganza. Se non le esprimeva a parole, erano comunque
evidenti nel sorriso, nella mobilità delle espressioni, nella capacità di
inarcare le sopracciglia proprio al momento giusto. Era bello, era amabile,
aveva quel sorriso luminoso e probabilmente era il miglior giocatore di
basket del mondo.
Gli spot erano la perfetta contropartita per l’altra incarnazione di Jordan,
il predatore perfetto, il guerriero che tre o quattro sere a settimana scendeva
in campo e semplicemente distruggeva i nemici. Le squadre avversarie si
trovavano di fronte il killer, mentre i tifosi che guardavano gli spot della
Nike vedevano il seduttore, un uomo spiritoso e intelligente che sembrava
piacere a tutti.
«Facemmo centro, e non con la genialità ma seguendo ciò che sentivamo
giusto e mostrando la sua umanità» commentò Riswold anni dopo. «Il resto
venne di conseguenza.»
«Phil [Knight] e la Nike mi hanno trasformato in un sogno» disse Jordan
molti anni più tardi.
Gli spot della Nike erano così fantastici, naturalmente, che innescarono
un effetto valanga, ispirando altre aziende come
McDonald’s, Coca-Cola, Hanes e più tardi Gatorade a seguire lo stesso
stile. Questo modificò gli equilibri di potere e permise a David Falk di
presentarsi ad altre aziende dichiarando che una buona parte della
pubblicità a livello nazionale per i loro marchi era già stata realizzata. Per
usare le sue parole: «Le Air Jordan hanno aperto la strada a una serie di altri
accordi. La Nike ha speso più di 5 milioni di dollari in pubblicità e adesso
possiamo andare da uno stilista come Guy Laroche […] e dire ‘Non devi
spendere così tanto, perché Nike, McDonald’s e Coca-Cola lo stanno già
portando in televisione anche per te’». Era il cosiddetto effetto contagio.
Phil Knight lo detestava, ma non poteva farci niente.
E così era nata un’icona americana. Nel moderno contesto della cultura
dell’intrattenimento, in una società ossessionata dalla celebrità, ciò che
veniva fissato sulla celluloide spesso sembrava sostituire la realtà e un
pubblico sempre più distratto ricavava la propria verità dagli schermi
televisivi. Uomini dall’eroismo totalmente fasullo e limitato ai set di
Hollywood venivano sempre più percepiti come eroi autentici e le loro
azioni, anche se fittizie, avevano una risonanza durevole che formava un
suo livello di realtà. Era già successo in passato: un Congresso pieno di
gratitudine, anche se vittima di un’illusione, aveva conferito una medaglia a
John Wayne come eroe americano anche se da giovane aveva evitato di
partecipare alla Seconda guerra mondiale per dedicarsi alla sua nascente
carriera di attore. Anni dopo un giovane di nome Sylvester Stallone, che
non aveva voluto combattere in Vietnam e aveva trascorso parte di quegli
anni come insegnante in un collegio femminile in Svizzera, si era costruito
una carriera impersonando un supereroe amareggiato e indurito proprio
dalla guerra del Vietnam. Ormai, con l’aumentare dell’influenza della
cultura popolare, i confini fra autenticità e finzione erano sempre più
sfumati.
Questo rendeva Michael Jordan quasi unico come icona culturale. Perché
lui, sera dopo sera, scendeva in campo a dimostrare la sua eccellenza
atletica, continuando a vincere partite importanti all’ultimo minuto e
surclassando i giocatori migliori del mondo. Questo gli conferiva un grande
potere presso gli appassionati di sport americani, anche quelli che in
precedenza si erano interessati al basket solo marginalmente e che ora si
avvicinavano sempre di più, via via che si spargeva la voce che stava
nascendo una superstar. E poi c’era la sua seconda incarnazione, che grazie
alla forza della creatività – e alla frequenza con cui venivano trasmessi gli
spot della Nike – gli conferiva lo stesso ascendente di un divo del cinema.
Gli spot erano brevi, ma erano molto numerosi e realizzati con tale fascino
e talento da formare una narrazione unitaria. L’effetto cumulativo fu quello
di creare una figura con la forza e il carisma di una stella del cinema di
prima grandezza. E a differenza di tanti personaggi proiettati dalla
macchina dei sogni di Hollywood nei cinema e nelle case, le cui azioni
erano però artificiali, le sue imprese erano autentiche. Jordan conosceva la
posta in gioco e stava molto attento a come si comportava fuori dal campo,
fra l’altro per evitare di danneggiare l’immagine che si stava cristallizzando
e che gli stava portando tanti vantaggi economici.
Così, gradualmente, superò i confini dello sport, trascinato dalla sua
grande abilità, dal suo aspetto e dal suo fascino sempre più a fondo nella
psiche del pubblico americano, come nessun campione sportivo aveva mai
fatto prima. Il successo chiamava successo. Era un processo che si
alimentava da solo: chi non conosceva o non amava il basket spesso era
attirato dagli spot e dalla bellezza del protagonista e quindi cominciava a
guardare qualche partita, quando veniva a sapere che giocava lui. E in
quella partita, Michael Jordan faceva quasi sempre qualcosa di eccezionale
e in un modo o nell’altro conquistava tutti. In campo migliorava sempre di
più, e fuori dal campo la sua fama aumentava. In un mondo in cui tante star
e tanti eroi erano fasulli, lui rimaneva sempre autentico.
14
Chicago, 1986-1987

Stan Albeck durò un anno. Durante quell’anno Michael Jordan aveva


saltato sessantaquattro partite di campionato. Ma Jerry Krause non era
contento di lui e il fatto che non avesse avuto nessuna possibilità non era
rilevante: in realtà il suo incarico era finito la sera in cui Jordan si era
infortunato a Oakland. Il successore fu Doug Collins, che a quei tempi
aveva trentacinque anni, uno dei più giovani capi allenatori di sempre
nell’NBA. Era pieno di passione e determinazione, nonché molto
intelligente. Nessuno capiva il flusso di una partita meglio di lui. A volte i
suoi giocatori pensavano che fosse quasi troppo avanti. «Se fosse possibile
chiamare trenta time out a partita, vincerebbe ogni volta» disse una volta il
suo storico assistente Johnny Bach, che lo ammirava moltissimo.
Collins era stato a sua volta un ottimo giocatore all’Università
dell’Illinois. Era alto due metri, era magro e veloce, una delle rare guardie
dalla pelle bianca capace di eguagliare la velocità dei giocatori neri. Negli
anni migliori della sua carriera da professionista aveva segnato una media
di 20 punti a partita, ma aveva dovuto ritirarsi prima dei trent’anni a causa
dei troppi infortuni. Era entusiasta del nuovo incarico e della prospettiva di
allenare il miglior giovane della Lega, pensava di avere qualcosa in comune
con Jordan. Era sicuro di saper comprendere la pressione del basket
moderno in un modo che molti allenatori della vecchia guardia, alcuni dei
quali non avevano mai giocato da titolari, non potevano raggiungere. E poi
sapeva anche troppo bene come ci si sentiva dopo un grave infortunio al
piede. Al primo incontro con Michael Jordan, nel giugno del 1986, parlò
con il suo giocatore di punta dell’infortunio e del problema della
circolazione sanguigna in quella zona del corpo. Gli disse che era un trauma
difficile da gestire e da recuperare. Quindi suggerì a Jordan di non forzare
durante l’estate, di non esagerare con gli allenamenti per non caricare
troppo il piede. Aggiunse di aver subito lo stesso trauma, lasciandogli
intendere che costituiva un legame fra loro e che non voleva che a Jordan
accadesse quello che era accaduto a lui.
Jordan lo guardò gelido e rispose, in un tono molto distante che non
invitava al cameratismo: «Quello era il tuo piede, questo è il mio».
Non fu ideale come primo incontro e più tardi Collins si rese conto che
Jordan aveva frainteso il suo tentativo di mostrare empatia. Non gli era
sembrato il tentativo gentile di un giovane allenatore di agevolare il rientro
di un giovane giocatore dopo un trauma fisico devastante, ma piuttosto
come un ennesimo tentativo della dirigenza di manipolarlo.
Quell’estate era in programma una partita di beneficenza a Las Vegas, ex
allievi della UNLV contro ex allievi di Carolina. Collins non era entusiasta
della partecipazione di Jordan e gli aveva proposto di presentarsi ma di non
entrare in campo, dando la colpa a lui. «Farò io la parte del cattivo» gli
aveva detto. Jordan naturalmente ci andò, giocò e dominò la partita,
segnando più punti di tutti. Dopo la gara i due andarono a cena fuori.
«So che non sei contento che io abbia giocato» gli disse Jordan, «ma devi
sapere una cosa. Per colpa di un infortunio ho passato l’anno peggiore della
mia vita, circondato da troppe persone che non sapevano niente di me o del
mio corpo e che mi dicevano che cosa fare. Continuavano a ripetere che era
per il mio bene, ma la verità è che pensavano solo a se stessi. Non voglio
subire mai più una cosa del genere».
Collins rispose che lo capiva. «Io non rappresento la dirigenza, su questo
tema. Sono solo uno che adorava giocare e che ha perso gran parte della
propria carriera per lo stesso trauma e non voglio che ciò che è successo a
me succeda anche a te».
A quel punto cominciarono a legare. Più tardi, nel corso di quell’estate,
Jordan andò a trovare Collins in Arizona, a casa sua: una visita di lavoro ma
anche di svago, il cui obiettivo principale era quello di farli conoscere
meglio. Doveva essere una cosa breve: la mattina avrebbero giocato a golf e
più tardi Jordan avrebbe ripreso un aereo per Chicago. Collins giocava
abitualmente con due amici piuttosto bravi. Lui e Jordan si divisero e vinse
Collins, in coppia con uno di loro. Jordan, sempre competitivo, non
sopportava di aver perso e di doversene andare dopo un solo giorno, quindi
decise di restare per riscattarsi con un’altra partita il giorno seguente. Lui e
il compagno ebbero la rivincita e lui se ne andò felice.
Quell’anno i Bulls aprirono il campionato giocando contro i Knicks a
New York. Secondo Collins la squadra avversaria era forte, fra gli altri
c’erano Patrick Ewing, Bill Cartwright e Gerald Wilkins. Chicago poteva
contare su molti meno elementi: Michael Jordan e un’insolita quantità di
lunghi, gli sembrava a volte. Ma quella sera Michael Jordan era
lanciatissimo, era felice di tornare in campo e di farlo al Madison Square
Garden. L’energia che emanava era palpabile e Collins temette che potesse
esagerare. A metà partita aveva segnato 16 punti e Collins percepì la sua
fame, il suo bisogno di prendere il controllo della partita. «Michael» gli
disse all’intervallo, «rilassati, non devi fare tutto tu. Aspetta e lascia che la
partita ti arrivi».
Collins era molto teso e sudava copiosamente, a metà partita la sua
camicia era già fradicia. Masticava una gomma e per superstizione non la
cambiava. L’aveva polverizzata e un po’ di quella poltiglia gli era finita in
faccia. A due minuti dalla fine, durante un time out, Jordan portò
all’allenatore un bicchier d’acqua, dicendogli: «Ehi, coach, bevi un sorso e
pulisciti quello schifo dalla faccia». Poi sorrise. «Non ti lascerò perdere la
prima partita». E così fece. I Bulls vinsero 108-103. Michael Jordan segnò
50 punti, compresi gli ultimi 11 dei Bulls, e 21 degli ultimi 31. Quella sera
volava, letteralmente: più tardi disse ai giornalisti che solitamente durante le
schiacciate raggiungeva una tale elevazione da colpire il ferro coi polsi, ma
che in quella partita era così lanciato da riuscire quasi a toccarlo coi gomiti.
«Per poco non distruggevo il tabellone» aggiunse. Dopo la partita raccontò
al padre quanta eccitazione gli avesse trasmesso il pubblico immenso e
rumoroso del Madison Square Garden. «Quindi giocavi per loro?» gli
chiese James Jordan. «Io gioco sempre per il pubblico» rispose il figlio.
15
Albany; Chicago, 1984-1988

L’ascesa di Michael Jordan nel mondo del basket, all’inizio, non fu priva di
implicazioni generazionali – i primi a esserne attirati furono i tifosi più
giovani, ammaliati dalla bellezza e dall’originalità dei suoi gesti, mentre
molti dei più adulti si chiedevano se fosse in grado di trascinare un’intera
squadra alla grandezza – quindi non c’è da stupirsi che a casa di Phil e June
Jackson il primo a rendersi conto del suo talento fosse il figlio Ben, che
quando Michael giocò l’ultima partita da universitario, nel 1984, aveva
cinque anni. Ben aveva cominciato a seguire Jordan quando giocava ancora
nella ACC e insisteva perché il padre gli prestasse più attenzione,
soprattutto dopo che Jordan era diventato la star della squadra olimpica nel
1984. Continuava a ripetere: «Papi, devi guardarlo». In seguito anche in
casa Jackson, come accadeva in tante altre famiglie americane, apparve una
fotografia del piccolo Ben Jackson con la maglia dei Chicago Bulls numero
23 e la lingua fuori, nella tipica posa certificata da Michael Jordan.
Phil Jackson, che allora allenava in una lega minore, la Continental
Basketball Association (CBA), diede ascolto al figlio e l’anno dell’esordio
di Jordan andò da Albany, dove allenava i Patroons, a Glen Falls, New
York, per vedere un’amichevole dei Bulls. Era vicino a una transenna che
sporgeva sopra il campo e non era certo nella posizione migliore per
esaminare un cestista. Da quella prima partita non ricavò granché, a parte il
fatto che Jordan sembrava voler andare a canestro ogni volta che toccava
palla. Dopo la partita, Jackson andò negli spogliatoi e parlò con Kevin
Loughery, che in passato lo aveva allenato. Loughery gli disse che Jordan
era un autentico fenomeno e che sarebbe diventato una stella di prima
grandezza. Ma in quel momento i mondi di Michael Jordan, alle soglie di
una brillante carriera e in procinto di essere nominato rookie dell’anno e di
raggiungere le vette della gloria grazie a una serie di spot pubblicitari, e di
Phil Jackson, che allora si arrabattava a sbarcare il lunario nella CBA, non
potevano essere più lontani. Jackson inoltre d’estate allenava nella Lega di
Portorico, per arrotondare e perché gli allenatori più seri che conosceva,
come Red Holzman, gli avevano detto che quella era la prova suprema per
capire se si era davvero portati per stare in panchina, e probabilmente era
così.
A quei tempi guadagnava più o meno $35.000 all’anno nella CBA e altri
12.000 con il lavoro estivo. Faceva di tutto per rientrare nell’NBA, ma si
era accorto di essere diventato una specie di paria nel mondo molto
conservatore del basket professionistico. Quando partecipava a eventi come
le selezioni per giocatori universitari all’ultimo anno, di talento ma ancora
ignorati dagli scout, nessuno degli addetti ai lavori sembrava voler parlare
con lui.
Il fisico di Jackson aveva cominciato a dare segni di cedimento alla fine
degli anni settanta, dopo una buona ma non eccezionale carriera come ala o
centro di riserva in due campionati con i New York Knicks. A New York
era un giocatore molto famoso, dava ai tifosi locali l’impressione di essere
uno spirito affine al loro, modaiolo e irriverente. Viveva proprio a
Manhattan, andava al Garden a piedi dal suo appartamento nel West Side e
girava per la città in bicicletta. Era arrivato da poco dal Nord Dakota e non
soltanto era ansioso di migliorare come giocatore ma era anche un
esploratore entusiasta della città ed era eccezionalmente avvicinabile, in un
ambiente dove il basket era molto amato e la squadra dei Knicks era
venerata. Non aveva fatto come molti altri atleti professionisti, che si erano
isolati dalla città in cui abitavano, anzi sembrava prosperare nella vita
newyorkese ricca e frenetica. «Era diverso dalla maggior parte degli altri
professionisti» disse di lui il giornalista e amico di una vita Charley Rosen.
«Era convinto che quello che faceva e pensava il suo interlocutore fosse
altrettanto importante di quello che faceva e pensava lui. Era curioso di
conoscere gli altri quanto gli altri lo erano di conoscere lui. Non alzava
barriere per nascondersi».
La carriera da professionista se l’era guadagnata grazie all’intelligenza,
alla dedizione e alla capacità di adattarsi continuamente alle necessità
dell’allenatore e dei compagni. Le abilità di attacco che in Nord Dakota gli
erano state così utili avevano perso quasi completamente di rilevanza nel
basket professionistico. All’università era considerato alto e aveva un
ottimo gancio, ma nel professionismo non risultava più tanto alto e il gancio
non serviva a molto contro difensori alti e atletici che non avevano
problemi a bloccarlo. Lo avevano salvato la passione per il gioco, le braccia
lunghe e la disponibilità a spendersi in difesa. Giocava in modo molto fisico
e gli avversari avevano imparato presto a rispettare i gesti imprevedibili e
pericolosi dei suoi gomiti. «Dovevo giocare contro di lui ogni giorno in
allenamento ed era terribile» commentò una volta il compagno di squadra
Bill Bradley. «Non faceva altro che colpirti, continuamente – non in modo
cattivo, solo molto fisico – e aveva quelle braccia enormi. Era come essere
marcati da un ragno gigante. Dopo essermi allenato con lui, giocare in
partita contro i difensori avversari era un sollievo».
Era un elemento perfetto per quella squadra. In un certo senso era una
squadra per intenditori ed era un posto ideale per imparare a giocare. A
volte sembrava che la squadra di New York avesse un bravo allenatore in
panchina, Red Holzman, e altri cinque in campo. I giocatori, anche per gli
standard di quel periodo, erano sorprendentemente bassi – la squadra dei
titolari in pratica era formata da quattro guardie e un’ala – ma tutti erano
bravi a tirare, a passare e a difendere in modo intelligente con un ottimo
gioco di squadra. La palla si spostava da uno all’altro molto rapidamente,
tutti collaboravano per creare mismatch e occasioni di tiro.
Quando i lunghi più dotati di quella squadra – Willis Reed, Dave
DeBusschere e Jerry Lucas, tutti tiratori migliori di lui – cominciarono a
ritirarsi, Jackson fu obbligato a giocare da titolare e i suoi punti deboli –
l’assenza di un tiro in sospensione affidabile e una certa vulnerabilità nel
palleggio – divennero evidenti, accelerando la fine della sua carriera. Era un
giocatore che poteva dare a una buona squadra diciotto o venti minuti molto
intensi: giusto il tempo di far riposare i titolari. La sua presenza in campo
contribuiva a garantire che non ci fossero cedimenti in difesa o
rallentamenti nelle strategie di gioco. Ma se una squadra aveva bisogno di
trentacinque minuti e di una spinta in attacco, Jackson non era l’uomo
giusto. Durante l’ultima parte della sua carriera nessuna squadra avversaria
si preoccupò certo di elaborare strategie per fermare i tiri in sospensione di
Phil Jackson.
Nel 1984 viveva in una specie di esilio, allenando nella CBA e
sforzandosi di riscattare una reputazione secondo la quale aveva qualcosa di
diverso dagli altri, era troppo anticonformista. Chi lo conosceva bene
sapeva quanto fosse intelligente, ma i vertici del mondo del basket erano
troppo infastiditi dalla sua fama di hippie, lo consideravano come un ribelle
che in gioventù, a New York, si era opposto al fondamentalismo del
Midwest, facendosi crescere i capelli e la barba e assumendo il ruolo di
ambasciatore del mondo del basket professionistico nella nascente
controcultura. Insieme a un compagno di squadra di colore, Eddie Mast, si
era fatto crescere la barba per celebrare i cambiamenti in atto e Red
Holzman non aveva avuto niente da ridire. Li chiamava i fratelli Smith,
riferendosi ai due uomini barbuti raffigurati sulle confezioni delle pastiglie
per la tosse. Anni dopo Holzman disse che Jackson era un giovane molto
affascinante «che cercava un difficile equilibrio fra ribellione e religione».
Jackson aveva protestato contro la guerra in Vietnam e in generale
sembrava un po’ troppo politicizzato per essere un giocatore di basket. A
quei tempi gli atleti potevano parlare delle loro convinzioni politiche, ma
soltanto se si allineavano a quelle convenzionali. Alla fine degli anni
sessanta e all’inizio dei settanta, Jackson aveva intrapreso un cammino di
crescita e scoperta personale, politica, filosofica e sessuale. Alla fine le sue
proteste si dimostrarono più personali che politiche, ma la maggior parte dei
dirigenti sportivi non se ne rese conto.
Non aveva aiutato nemmeno il fatto che avesse scritto un libro con
Charley Rosen, intitolato Maverick, sulla cui copertina era raffigurato lui
stesso con la barba. E peggio ancora della copertina era il contenuto, che in
un paio di passaggi secondari descriveva nel dettaglio, fra le altre cose, i
suoi esperimenti con le droghe, fra cui gli allucinogeni come l’LSD. Al
momento delle selezioni era questo che rimaneva impresso ai dirigenti, non
l’intelligenza o il palese amore per lo sport.
Quindi, nell’autunno del 1984, Jackson era alla sua seconda stagione
come allenatore nella CBA e cominciava a chiedersi se sarebbe mai riuscito
ad aggiudicarsi un posto di assistente allenatore nell’NBA. Non che allenare
nella CBA e a Portorico non gli piacesse: amava il basket e quei posti gli
piacevano, perché erano essenziali. Nella CBA i giocatori cambiavano
continuamente, quasi tutti vivevano nella speranza che un giorno sarebbe
arrivato un colpo di fortuna e sarebbero stati chiamati in NBA. Jackson
sapeva che ogni bravo giocatore che trovava gli sarebbe stato portato via
all’inizio dei playoff, come era giusto che fosse.
Comunque allenare nella CBA aveva qualcosa di onesto e di originale. La
squadra vincitrice di ogni quarto si aggiudicava un punto e al vincitore della
partita andavano tre punti: l’allenatore dei Patroons riceveva $25 di bonus
per ogni punto. Significava che se la squadra vinceva in ogni quarto e
quindi la partita, Jackson poteva ricevere un bonus di $175. Non c’è da
stupirsi che a volte, durante le partite disputate in casa, fra gli applausi del
pubblico si sentisse la voce solitaria di June Jackson che esultava con molto
più entusiasmo degli altri alla fine di ogni quarto vittorioso: «Sì! I soldi per
la spesa!».
Nella CBA si faceva la vera gavetta. Il livello del gioco era incostante. I
rapporti fra giocatori e allenatori erano spesso difficili: una volta un atleta
della CBA, furente per aver giocato troppo poco, infilò la testa
dell’allenatore in un gabinetto. In certi periodi alcune squadre avevano
chiuso i battenti senza pagare gli stipendi. Un allenatore era stato pagato in
posate d’argento. Una volta i Patroons cercarono di assumere un centro
della squadra dei Wildcats di Casper, in Wyoming, di nome Brad Wright:
2,13m, in uscita da UCLA, ma la squadra si rifiutò di cederlo. In quel
periodo i proprietari dei Wildcats proponevano un evento promozionale in
cui portavano una decappottabile in campo, aprivano il tettuccio e
incoraggiavano i tifosi a creare degli aeroplanini con i programmi. Se un
aeroplanino riusciva a entrare nell’auto, il tifoso che lo aveva lanciato la
vinceva. Sfortunatamente però la squadra non possedeva la macchina. Dato
che era molto lontana dagli spalti e che di solito gli aeroplanini di carta
avevano una gittata limitata, sembrava una trovata piuttosto sicura. Ma un
tifoso molto abile riuscì a realizzare uno splendido aeroplanino e a spedirlo
dentro la macchina. Per recuperare i soldi per pagare la macchina che
avevano promesso, i Wildcats dovettero cedere Wright alla squadra di
Albany.
Non era un mondo di voli privati, e neppure, in realtà, di autobus di linea.
Nonostante le grandi distanze fra le destinazioni delle trasferte, i Patroons
spesso si spostavano con un enorme furgone guidato da Phil Jackson. Il
giorno della partita lui e l’assistente Charley Rosen stancavano i giocatori
con un allenamento impegnativo, poi li caricavano sul furgone e alzavano il
riscaldamento al massimo per farli addormentare. Poi mettevano la musica
a tutto volume. Jackson era un abile guidatore e andava forte, intanto faceva
le parole crociate del New York Times stendendo il giornale sul volante. Nel
furgone si stava molto stretti, fra i nove giocatori, tutti molto grossi, e i due
allenatori. Certi viaggi erano davvero pesanti, in condizioni climatiche
avverse e con pochissimo tempo per arrivare alla partita. Una volta, mentre
andavano a Toronto, vennero fermati alla frontiera canadese. La guardia
fece un gesto verso il retro del furgone. «Scopo del viaggio?» Jackson,
esausto, rispose: «Sto portando degli schiavi fuggitivi in salvo in Canada».
La situazione economica di certe squadre della CBA era un po’ incerta,
ma nulla in confronto alla Lega di Portorico. Là ogni nuovo allenatore
riceveva un’auto e la prima cosa che gli allenatori veterani gli dicevano era
che qualsiasi cosa succedesse – dato che era molto probabile che venisse
licenziato dopo qualche partita – non doveva mai restituire le chiavi prima
di aver ricevuto l’intero compenso pattuito, perché il proprietario della
squadra sarebbe stato costretto a pagarlo finché aveva le chiavi della
macchina. Quando Jackson ci andò per la prima volta gli amici gli dissero
di non preoccuparsi se veniva licenziato, perché lo avrebbe subito assunto
un’altra squadra. Una volta fu licenziato dalla squadra che lo aveva
convocato e subito riassunto dalla squadra rivale, con sede in un villaggio a
soli dieci chilometri di distanza.
La Lega di Portorico era ancora più dura della CBA, a causa del
maggiore divario culturale fra allenatore e giocatori e la barriera linguistica,
non irrilevante. I pochi giocatori provenienti da New York, che parlavano
inglese, si offrivano di tradurre le istruzioni di Jackson ai compagni e si
divertivano a dire esattamente il contrario di quello che lui voleva. Come
minimo quella situazione lo obbligava ad allenare a un livello molto
essenziale, attenendosi ai fondamentali, e a imparare a entrare in contatto
con i giocatori superando grandissime differenze. Era costretto a cercare di
capire chi fosse ciascuno di loro e che cosa volesse dallo sport, un’abilità
che nel prosieguo della sua carriera si sarebbe rivelata fondamentale. Il
compenso inoltre era abbastanza ragionevole – $1.500 a settimana per otto
settimane. Se l’assegno arrivava, naturalmente.
Sia nella CBA che a Portorico Jackson si immerse in un basket
professionistico senza fronzoli e senza alcuno spazio per
l’autocommiserazione, e se la cavò egregiamente. Era intelligente e aveva
memoria fotografica, quindi anche se non c’erano i fondi per registrare le
partite lui si ricordava ogni azione anche a distanza di tempo. Era molto
bravo con i giocatori. Li trattava con rispetto e li considerava come
individui, senza porre condizioni a cui non avrebbero ubbidito, come il
coprifuoco e i controlli notturni. Percepiva le idiosincrasie di ognuno di loro
e cercava, nei limiti concessi dal suo ruolo, di adattarsi. Secondo Charley
Rosen ci fu un altro aspetto che giocò a suo favore, sia lì che in seguito,
quando rientrò nell’NBA, ed era lo stesso aspetto che inizialmente aveva
giocato contro di lui: era davvero diverso dagli altri. Non pensava come gli
altri allenatori e non si esprimeva come loro, e i giocatori facevano più
fatica a inquadrarlo. Non si presentava con un elenco di regole e un bisogno
di autorità. Era aperto, ascoltava, trattava tutti con rispetto e non usava la
prepotenza come facevano troppi altri che sgomitavano per farsi un nome.
Jackson si sforzava di capire i loro obiettivi e di vedere se riusciva a farli
collimare con quelli della squadra. Era molto intelligente, sempre un passo
avanti a tutti, e sapevano di non poterlo ingannare. Secondo Rosen il fatto
che fosse così imprevedibile era un vantaggio, teneva alto l’interesse dei
giocatori.
L’altra caratteristica che giocava a suo favore, secondo Rosen, era che
con tutta la sua sensibilità e disponibilità verso i giocatori era anche molto
duro e ogni cosa che diceva era sostenuta da una forte integrità. Certo, era
un allenatore insolitamente abile e sensibile, un uomo reso tollerante verso
le fragilità e le vulnerabilità degli altri dalla propria esperienza personale,
disponibile a vedere le persone per come erano veramente e non come
stereotipi, ma era anche molto esigente e su certe cose non transigeva.
Certo, era un esploratore che voleva introdurre le filosofie orientali, con i
loro ideali di semplicità e purezza, in una cultura sempre più materialistica,
ma era anche estremamente competitivo.
Dato che spesso mancava un giocatore, di solito si allenava con la
squadra ed essendo stato un bravo difensore pretendeva un gioco molto
fisico e continuava a praticarlo in prima persona. Alcuni giocatori avevano
anche quindici o vent’anni meno di lui e certi erano più veloci di quanto lui
fosse mai stato, ma non cedette mai di un palmo. Un giocatore di nome
Dave Magley, originario del Kansas, durante un allenamento riuscì a
mettere a segno troppi tiri contro di lui e Charley Rosen ricorda che Jackson
gli piantò deliberatamente il ginocchio nella coscia, tanto per ricordargli
qual era il prezzo da pagare per giocare contro un professionista.
Anche se quello si poteva considerare uno dei gironi più bassi
dell’universo del basket, Jackson era profondamente convinto che gli
allenamenti fossero sacri e quindi non ammetteva spettatori esterni. Aveva
imparato da Red Holzman che quello era il luogo dove ai giocatori era
concesso sbagliare e dove l’allenatore poteva criticarli senza il timore che le
sue parole uscissero dalla cerchia familiare. Lo stesso valeva per gli huddles
durante le partite. Anche quelli erano sacri. Una volta la squadra avversaria
aveva assunto il famoso San Diego Chicken, il più bravo fra le mascotte in
circolazione, come iniziativa promozionale. Durante un time out il mimo
vestito da pollo si infilò nell’huddle dei Patroons insieme ai giocatori.
Jackson gli si avvicinò con un grande sorriso e gli disse, in modo molto zen:
«Pollo, se non te ne vai fuori dai coglioni ti do un calcio nel culo».
In quegli anni a volte si chiedeva se sarebbe mai stato chiamato
dall’NBA. Altri suoi coetanei, ex giocatori che non avevano fatto la gavetta
nella giungla della CBA, venivano convocati e lui stava ancora aspettando.
Si faceva vedere agli eventi in cui si radunavano i professionisti del basket,
come il Chicago Combine, una delle grandi selezioni per i giocatori
universitari, ufficialmente per vedere se riusciva a scovare qualche talento
per i Patroons ma soprattutto per farsi notare dai pezzi grossi dell’NBA.
Invece non succedeva mai nulla, e nessuno sembrava voler ingaggiare un
contatto visivo. Jackson alla fine decise che la sua possibilità migliore era
quella di tentare con un personaggio piuttosto strano e in un certo senso
iconoclasta di nome Jerry Krause, il nuovo general manager dei Chicago
Bulls. Anche Krause era un outsider nel mondo del basket di alto livello,
ancora più di Jackson. Almeno Jackson era alto due metri, aveva giocato in
campionato e aveva molti amici fra gli ex giocatori e i giornalisti sportivi,
mentre Krause non aveva mai giocato, nemmeno all’università, era basso e
tarchiato, meno di uno e settanta, ed era sempre parecchio sovrappeso.
Periodicamente cercava di dimagrire: una volta Jerry Reinsdorf gli offrì un
premio se avesse perso peso e Krause scommise almeno una volta con
Michael Jordan che avrebbe perso un numero preciso di chili entro qualche
settimana, ma rinunciò quasi subito. Si diceva che per quanto fosse capace
di fare molte cose pregevoli come talent scout itinerante, una cosa che
proprio non gli riusciva era passare davanti a un Dunkin’ Donuts senza
fermarsi. La sua passione per i dolci era evidente anche nelle macchioline
che spesso comparivano sui suoi abiti. I giocatori lo chiamavano ‘Crumbs’,
briciole. Di sicuro non faceva parte della cerchia dei veterani del
professionismo, quelli che avevano giocato a livello medio o alto, che
conoscevano il gergo dello sport ed erano a proprio agio in quell’ambiente,
muovendosi dentro e fuori dagli spogliatoi con assoluta disinvoltura.
Non era facile scovare talenti nel basket universitario negli anni sessanta
e settanta: prima dell’avvento di ESPN e delle tv via cavo, quando
divennero disponibili i video di moltissime partite, il lavoro prevedeva
infiniti viaggi su piccoli aerei e minuscole macchine a noleggio per
raggiungere palestre fuori mano in scuole che nessuno, a parte gli altri
scout, aveva mai sentito nominare, per valutare i talenti acerbi. Chi lo
faceva doveva affrontare molta solitudine e uno dei modi per evitarla era
quello di viaggiare insieme. I cinque o sei scout più importanti sembravano
migrare in blocco verso certe scuole o certe partite: Scotty Stirling, Jerry
Colangelo, Stu Inman, Jerry West, Bob Ferry. Il vantaggio era la reciproca
compagnia, lo svantaggio era che finivano per vedere le stesse cose e
confermare le reciproche opinioni. Se un buon giocatore aveva una serata
no, tendevano a svalutarlo tutti insieme, rovinandogli la reputazione in
modo decisamente eccessivo.
In generale gli altri scout non erano particolarmente gentili con Krause.
Non riuscì mai a entrare nel club. Sembrava sempre che si sforzasse troppo.
Vestiva in modo trasandato ed era opinione diffusa che la sua igiene
personale lasciasse molto a desiderare. Bob Ferry, che era alto più di due
metri, aveva giocato da professionista per dieci anni e si era scontrato
spesso con Krause quando entrambi lavoravano per i Baltimore Bullets, si
divertiva a punzecchiarlo durante le partite in modo piuttosto crudele,
prendendo di mira in particolare la sua scarsa cura personale e l’interno
delle sue auto, che secondo lui erano stracolme di confezioni di cibo dei
vari fast food che costellavano le strade americane. Uno degli altri scout
notò che quel tipo di atteggiamento ricordava un po’ il bullismo degli
studenti del liceo contro i compagni più emarginati.
Krause non rispondeva mai a quelle battute. La sua risposta era quella di
lavorare sodo, più di tutti. Era uno scout, non c’era altro nella sua vita.
Sapeva di avere buon occhio, il resto del suo corpo non era rilevante e
comunque non poteva farci niente. Nel corso degli anni trasformò le
difficoltà in punti di forza. Armato di un’incrollabile determinazione e di
un’infinita dedizione al lavoro, escluso dai suoi pari, si creò una propria rete
di contatti e cominciò a scandagliare instancabilmente ogni angolo del
mondo del basket alla ricerca di talenti. Inizialmente esplorò le piccole
università nere del Sud, prima che, negli anni sessanta e settanta, i giovani
talenti di colore cominciassero a frequentare le migliori scuole di basket
della nazione. Quando quella ricca vena cominciò a esaurirsi si spostò in
Europa, dove ogni tanto si trovava un tesoro e dove poteva ascoltare le voci
su potenziali nuove star dell’NBA, come un centro lituano (Arvydas
Sabonis) che sapeva passare come Walton, e una guardia jugoslava (Drazen
Petrovic) che ricordava Pete Maravich.
Nei primi tempi a volte parlava con qualcuno dei pochi altri scout che
conosceva, e di cui si fidava, di quello che avrebbe fatto quando avesse
avuto una propria squadra, come era sicuro che sarebbe successo. Gli altri
guardavano quell’ometto basso e grasso, trasandato e malvestito e pensando
all’importanza dell’aspetto per i ruoli di rappresentanza scuotevano la testa
di nascosto, pensando ‘Jerry, sei bravo nel tuo lavoro e nessuno si impegna
più di te, ma questo non succederà, né ora né mai’.
Quando trovava un contatto che considerava valido non si limitava a
chiamare e parlare per cinque o dieci minuti, ma chiamava e parlava per ore
e prendeva un sacco di appunti, ricontrollando nel corso degli anni quanto
fossero accurate le previsioni delle sue fonti. Lavorando da solo, senza
legami stretti, divenne sempre più riservato e si guadagnò la fama di
paranoico perché cercava di nascondersi dagli altri scout se per caso
venivano ad assistere alla sua stessa partita. Quando accadeva, Krause
cercava di rendersi invisibile o almeno di fingere di non guardare il
giocatore che palesemente entrambi erano venuti a valutare. Quando i Bulls
vinsero il campionato e si ritrovarono in ultima posizione al primo turno del
draft, se qualcuno gli chiedeva un’opinione sui due o tre migliori giocatori
esordienti diventava ermetico e diceva il meno possibile. Perfino Jerry
Reinsdorf a volte lo prendeva in giro per questo: «Dai, Jerry, non c’è
bisogno di essere così reticente: non lo prenderemo comunque, perché
siamo al ventisettesimo posto».
Alla parete del suo ufficio era appesa una citazione anonima: «Ascolta
tutto, osserva tutto, non dire niente». La prima volta che la vide Johnny
Bach, l’assistente allenatore, ne restò sbalordito. Bach era un esperto di
storia e in particolare della Seconda guerra mondiale e aveva riconosciuto
immediatamente lo slogan dell’ammiraglio Wilhelm Canaris, il capo
dell’Abwehr, i servizi segreti tedeschi. «Jerry» gli disse, «è una frase molto
strana da tenere appesa al muro per un ebreo di Skokie». Bach uscì
dall’ufficio sicuro che il suo capo non avesse la minima idea dell’origine di
quelle parole.
I giornalisti e gli altri scout lo chiamavano ‘il Segugio’ e anno dopo anno
diventò sempre più riservato: registrava i giocatori negli alberghi sotto falso
nome e li portava al centro allenamenti dei Bulls per delle sessioni notturne,
in modo che non ci fosse nessuno e che non rischiasse di incontrare qualche
giornalista. Una volta portò Will Perdue, che era all’ultimo anno alla
Vanderbilt: non era particolarmente sorprendente perché l’interesse dei
Bulls per un centro grosso e resistente era dato per scontato. Billy
McKinney, uno dei vice di Krause, andò a prenderlo di notte all’aeroporto e
riferì al telefono dell’auto: «Qui Agente Blu ad Agente Arancio. Il pacco è
stato ritirato ed è in consegna». La sessione di allenamento era prenotata a
tarda notte e Perdue venne registrato in albergo sotto falso nome, il che creò
un problema il giorno successivo, quando l’autista che andò a prenderlo si
presentò nella lobby chiamando lo pseudonimo che a quel punto il giocatore
aveva dimenticato.
Era stato Jerry Krause a volere che i Baltimore Bullets scegliessero Phil
Jackson nel 1967 e lo considerava ancora una delle sue scoperte. Krause
non era il tipo da abbandonare qualcuno su cui aveva investito e si era
tenuto in contatto con Jackson nel corso degli anni: rispettava la sua
intelligenza e pensava che col tempo sarebbe diventato un bravo allenatore.
Quando andò alla CBA nessuno gli restò più vicino di Jerry Krause. Una
volta lo chiamò per chiedergli un’analisi dei giocatori della CBA e Jackson
fece i salti di gioia: era una rara occasione di dimostrare quanto valeva. Si
sedette al computer e scrisse un resoconto dettagliato su ogni giocatore
rilevante della Lega. Krause ne fu molto colpito: Jackson era davvero bravo
come aveva sospettato. In breve cominciarono a fare lunghe conversazioni
in cui Krause, sempre alla ricerca di informazioni e di pettegolezzi sul
basket, interrogava a fondo Jackson sull’area quasi sotterranea dello sport in
cui si muoveva. Quelle chiamate divennero la principale speranza di
Jackson nella sua aspirazione ad approdare nell’NBA; Krause da parte sua
era impressionato dai resoconti di Jackson, dalla sua profonda conoscenza
del gioco e dalla sottigliezza con cui discuteva dei diversi metodi per
motivare i vari giocatori. Krause era convinto dell’intelligenza di Jackson,
anzi se poteva esserci un problema era che lo fosse addirittura troppo per
fare da assistente a certi allenatori, che sarebbero andati in ansia se avessero
pensato che era migliore di loro.
Krause aveva già lavorato in precedenza per i Bulls come responsabile
dei giocatori fra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta.
L’allenatore, a quei tempi, era Dick Motta e il loro rapporto era stato
terribile: erano due uomini molto emotivi che sembravano tirare fuori il
peggio l’uno dall’altro. Semplicemente, Motta odiava Krause e ne era
cordialmente ricambiato. Pat Williams, il general manager, preso in mezzo
nel tremendo conflitto quotidiano fra i due, era certo di aver sviluppato
capacità diplomatiche degne del segretario di Stato. Il momento peggiore fu
il draft del 1970. Quell’anno, Krause si era invaghito di un giocatore del
New Mexico di nome Jimmy Collins. Motta invece aveva guardato per caso
uno dei gironi dell’NCAA ed era rimasto fortemente colpito da una piccola
guardia di nome Nate Archibald dell’Università del Texas-El Paso, il cui
talento in passato non aveva potuto emergere a causa del ritmo rallentato
preferito dalla sua squadra. Quella sera, Motta chiamò Pat Williams e gli
disse che dovevano accaparrarsi Archibald. «Diventerà un grandissimo
giocatore in NBA» insistette. Krause era altrettanto convinto della scelta di
Collins. Dopo varie discussioni fu stabilito che avrebbero scelto prima
Collins e poi Archibald al secondo turno, in ventisettesima posizione.
«E se Archibald sarà già stato preso, quando arriveremo al secondo
turno?» chiese Williams a Motta.
«Allora ce lo ritroveremo contro ogni anno» rispose lui. Cincinnati se lo
aggiudicò con la seconda scelta del secondo turno e la cosa finì lì. Collins
fu un flop, giocò un totale di 612 minuti in due stagioni prima di andarsene,
mentre Archibald giocò per tredici anni e partecipò per sei volte all’All Star
Game. Da quel momento in avanti il rapporto fra Krause e Motta divenne
realmente tossico e in breve Motta mise la dirigenza davanti a un
ultimatum: o io o lui. Quindi Krause se ne andò a lavorare a Phoenix.
Tornò a Chicago come general manager dopo il primo anno di Michael
Jordan, chiamato da Reinsdorf che aveva messo insieme un gruppo di
finanziatori. Quando Krause nominò Stan Albeck come allenatore gli
suggerì di chiamare Jackson in qualità di assistente. Quando fu convocato
da Portorico per il colloquio Jackson si presentò a Chicago con la barba e
un panama con una lunga piuma, nonché una maglietta sgargiante. In realtà
non aveva mai avuto una reale possibilità di ottenere l’incarico. Krause non
voleva la prima scelta di Albeck, un tizio di nome John Killilea, e Albeck
non voleva Jackson: i due uomini furono oggetto di uno scambio, pedine
tolte dalla scacchiera in una partita più grande di loro.
Tre anni più tardi Phil Jackson allenava ancora nella CBA e aveva deciso
di uscirne, perché non voleva dedicare la sua vita a quella Lega. Lui e June
avevano quattro figli insieme, e Phil aveva un’altra figlia da un matrimonio
precedente. In pratica finanziava gli anni alla CBA con i guadagni delle
stagioni da giocatore. Se l’NBA non era accessibile, avrebbe dovuto
trovarsi un altro lavoro. C’era la possibilità di entrare nell’ambito
accademico, magari nel campo della filosofia o della religione, o forse di
andare alla scuola di legge. Aveva fatto un test attitudinale che aveva
mostrato buone possibilità in entrambi i settori, ma anche attitudini
nell’economia domestica o come guida per escursioni. Stava valutando le
sue opzioni quando arrivò una nuova chiamata di Krause. Anni dopo,
quando fra i due uomini si accese un conflitto, Krause ricordò a Jackson che
lo aveva salvato dal sussidio di disoccupazione, cosa che era vera solo in
parte perché Jackson aveva effettivamente compilato i moduli ma non
aveva mai inoltrato la richiesta. E comunque un uomo dotato come Phil
Jackson non sarebbe rimasto disoccupato a lungo.
Era l’estate della stagione 1987-1988 e nello staff di Doug Collins si era
aperta una posizione vacante quando uno degli assistenti, Gene Littles, era
passato ai Charlotte Hornets come responsabile dei giocatori. Krause disse a
Jackson di proporsi. Lui e Butch Beard, un altro ex giocatore dei Knicks,
erano gli unici candidati. «Questa volta voglio che ti tagli i capelli, ti radi e
ti metti un completo» gli disse. Aggiunse anche un altro consiglio:
indossare entrambi gli anelli vinti con i Knicks. Jackson non sembrava
convinto di quell’idea, perché contrastava con la sua istintiva modestia, ma
Krause insistette dicendo che sarebbe stata una buona cosa per i giocatori
più giovani vedere gli anelli. Doug Collins non sembrava avere preferenze
particolari e Krause non ebbe problemi a ottenere l’incarico per Jackson. Il
fatto che Jackson fosse un outsider e che in quel momento fosse piuttosto
disprezzato dall’establishment del basket probabilmente giocò a suo favore
perché Krause sembrava convinto, anche se inconsapevolmente, che
Jackson avrebbe avuto un forte obbligo di lealtà verso l’uomo che gli aveva
offerto la prima occasione concreta di entrare nell’NBA. Krause amava
guardare avanti e ci teneva ad avere un uomo di fiducia che muoveva i fili.
A quel punto le porte dell’NBA si erano aperte. L’incarico era arrivato
all’inizio della stagione, quindi June Jackson e i bambini restarono a casa, a
Woodstock, dove lei aveva appena aperto un ospizio, e lui prese una stanza
d’albergo a Chicago. Non poteva arrivare in una situazione migliore. Doug
Collins era un allenatore geniale e molto determinato e aveva altri due
assistenti più anziani, oltre la sessantina, che furono di grande aiuto a
Jackson nel processo di adattamento: Tex Winter, una specie di decano del
basket, che allenava da quarant’anni, e Johnny Bach, anch’egli fra i più
abili e rispettati esperti del settore.
Jackson arrivò proprio quando i Bulls stavano cominciando a crescere.
L’anno precedente, al draft, Krause aveva fatto la scelta migliore della sua
carriera, quella che aveva consolidato la sua reputazione. Aveva preso i due
giocatori che finalmente avrebbero fornito a Michael Jordan l’aiuto che gli
serviva: Scottie Pippen e Horace Grant, che formarono lo zoccolo duro del
primo ciclo vittorioso. Pippen giocava in modo molto grezzo –
guardandolo, qualsiasi professionista era in grado di riconoscere le infinite
possibilità fisiche create dalla sua struttura unica e dal grande talento
naturale, ma anche di capire che fino a quel momento non era stato formato
a dovere – quindi quell’anno il compito principale di Jackson fu di lavorare
con lui. Si impegnò per migliorare il suo stile di gioco, insegnandogli come
andare a canestro e come gestire al meglio la sua incredibile prestanza
fisica. Tutto questo contribuì a creare un legame di fiducia fra i due, che si
sarebbe rivelato molto utile negli anni a venire.
Con Michael Jordan invece Phil Jackson non cominciò in modo tanto
positivo. In precedenza, parlando con gli altri allenatori, era entrata nel
discorso la sua grandezza. Jackson aveva citato Red Holzman dicendo che i
grandi giocatori di basket erano quelli che rendevano migliori i compagni.
Doug Collins propose immediatamente che lo dicesse anche a Jordan e
Jackson, pur chiedendosi se non fosse una trappola, alla fine acconsentì.
Scese a vedere Jordan e ripeté quello che aveva detto, anche se in tono
leggermente apologetico e sottolineando chiaramente che Collins gli aveva
chiesto di riferirglielo. Jordan ascoltò quasi senza intervenire, senza
espressione, anche se non era contento. Più tardi parlò di quella
conversazione con i compagni e aggiunse che era molto più facile fare
passaggi efficaci quando a riceverli c’erano Earl Monroe, Walt Frazier e
Bill Bradley.
Era un ritornello che Michael Jordan aveva sentito anche troppo spesso e
che avrebbe sentito ancora, con sempre maggiore insistenza: poteva essere
il più grande talento in campo, il miglior giocatore di tutti i tempi, ma aveva
passato il test decisivo, quello di elevare i compagni? Più o meno in quel
periodo un vecchio amico di Jackson, Bill Bradley, che allora era senatore
degli Stati Uniti, ricevette una visita dall’ex collega Oscar Robertson,
considerato una delle due guardie migliori della sua epoca. «Quel Michael
Jordan è davvero speciale» disse Bradley, ma Robertson non fu d’accordo.
«No, non lo è, almeno non per me». Bradley fu stupito da quella risposta e
gliene chiese il motivo. «Un giocatore veramente speciale rende bravo
anche il peggior elemento della squadra» spiegò Robertson «e Michael non
ci è ancora arrivato».
All’interno dell’élite del basket Jordan non era ancora considerato alla
stregua di Larry Bird e Magic Johnson, che sembravano trascinare i
compagni alle finali anno dopo anno. Il fatto che fra i compagni di Bird ci
fossero McHale, Parish, Johnson e Ainge, fra quelli di Magic Johnson
Abdul-Jabbar, Worthy e Mychal Thompson (tutti e tre, come Magic stesso,
prime scelte nel draft) più Michael Cooper e Byron Scott, e che fra quelli di
Jordan ci fossero Granville Waiters, Quintin Dailey, Dave Corzine, Brad
Sellers e Orlando Woolridge non fu menzionato. Michael Jordan era ben
consapevole di quel ritornello e non vedeva l’ora di superarlo e di avere dei
compagni che potessero arrivare insieme a lui al livello successivo.
Riversava la sua furia contro gli dèi del basket, che lo lasciavano privo di
aiuto, ma fino a quel momento non aveva mai parlato col suo agente della
possibilità di lasciare Chicago per trovare una squadra migliore.
Riconosceva che il suo compito era quello di far crescere la squadra, ma
sembrava che nella mente di Krause il progetto di migliorarla procedesse
troppo lentamente e questo non aiutava la sua relazione con Jordan.
Jerry Krause pensava che la squadra che aveva preso in mano nel 1985
fosse un disastro. Alcuni giocatori erano bravi ragazzi ma senza talento,
altri non solo avevano poco talento ma anche problemi caratteriali. Almeno
cinque elementi della squadra originaria erano entrati in programmi di
disintossicazione. Il prototipo di quel genere di giocatori sembrava essere
Orlando Woolridge. Era dotato, robusto, con un corpo che sembrava
cesellato nella pietra, ma secondo i compagni non giocava in modo fisico.
A volte Jordan si sfogava contro di lui durante gli allenamenti: «Se avessi
un corpo come il tuo vedresti gli avversari volare via». Krause non vedeva
l’ora di cominciare a scaricare i pesi morti e lo fece in modo rapido e
spietato, sfruttando accuratamente i draft per creare un substrato di elementi
selezionati che gli avrebbe permesso poi di attirare in futuro giocatori di
qualità.
Lentamente avrebbe creato una nuova squadra. Sarebbe stata una novità
nel mondo del basket, una squadra creata intorno a una guardia, e questo
significava che i compagni avrebbero dovuto imparare a essere altruisti.
Innanzitutto, aveva bisogno di un po’ di forza in prima linea e di una
guardia del corpo che proteggesse Jordan nelle partite in cui gli avversari
cercavano di piazzare qualche colpo basso. Bisognava che ci fosse un
prezzo da pagare per chi provava ad abbatterlo.
Il primo acquisto significativo avvenne nella primavera del 1985, quando
Krause notò un giovane giocatore della Virginia Union dal corpo grande e
potente che sembrava disposto a buttarsi a terra per recuperare qualsiasi
palla. Il suo nome era Charles Oakley e secondo Krause aveva tutte le
qualità per essere un rimbalzista eccezionale: il corpo giusto e il giusto
atteggiamento, e in più, come benedizione aggiuntiva, le mani giuste.
Krause chiamò Clarence (Big House) Gaines, il leggendario allenatore del
North Carolina Central, una delle sue fonti preferite. La squadra di Gaines
giocava regolarmente contro Oakley e Gaines pensava che fosse davvero
speciale: un ragazzo grande, forte e affamato con una meravigliosa etica del
lavoro, molto malleabile, che poteva solo migliorare.
Il problema con Oakley, per quanto riguardava Krause, era che con il
procedere dei tornei universitari e con il Chicago Combine, il suo valore
continuava a salire. Quell’anno Chicago aveva l’undicesima scelta,
Cleveland la nona e Phoenix, una squadra che si riteneva facesse un ottimo
scouting, la decima. Jerry Colangelo spergiurava che Phoenix avrebbe preso
Ed Pinckney, ma Krause temeva la scelta di Cleveland. Alla fine, fece un
patto con i Cavaliers: concesse loro Ennis Whatley e il suo posto al secondo
turno del draft, e Cleveland scelse Charles Oakley per Chicago. Chicago
scelse Keith Lee per Cleveland e poi se li scambiarono. A Chicago i tifosi
che si erano radunati per il draft fischiarono la scelta di Lee e anche lo
scambio con Oakley, ma il primo pezzo del puzzle era stato piazzato.
Oakley si rivelò essere tutto quello che Krause aveva sperato, e anche di
più. Ancora meglio, Michael Jordan, che aveva cominciato a guardare la
dirigenza con occhio scettico, se non ostile, adorava Oakley che divenne
non soltanto la sua guardia del corpo personale, il suo protettore in campo,
ma il suo migliore amico nella squadra.
Ma le trattative di Krause non erano finite. Voleva qualche tiratore puro
da mettere al fianco di Jordan per limitare le doppie marcature che avrebbe
affrontato. Scelse Kyle Macy di Phoenix, un talento eccezionale che però
aveva un’abilità fisica piuttosto limitata per gli standard dell’NBA. Anche
se quel primo anno Macy giocò trenta minuti a partita, i suoi limiti erano
palesi, soprattutto in difesa. Krause però fece anche una mossa per
compensare, scegliendo un giovane giocatore chiamato John Paxson che
proveniva da San Antonio. Molto prima di assoldare Macy, Krause aveva
cominciato a corteggiare Paxson, il fratello minore, più basso, di un
giocatore da All Star di nome Jim Paxson. In quel momento c’erano altre
offerte sul tavolo per Paxson, una di Atlanta e una molto buona di Phoenix.
Quando Macy entrò nei Bulls, Paxson pensò che Chicago si sarebbe tirata
indietro, ma con sua sorpresa Krause alzò l’offerta: tre anni garantiti. Per un
giocatore che lottava con tutte le sue forze per restare nella Lega e che nelle
prime due stagioni aveva segnato una media di 4,5 punti a partita, era una
benedizione.
C’era poi l’ulteriore attrattiva di giocare accanto a Michael Jordan,
sapendo di poter avere molte più occasioni di tiro grazie a lui. Krause disse
a Paxson che sperava di creare qualcosa di nuovo a Chicago, una squadra
costruita intorno a un tiratore, ed era un’idea intrigante. Tutti i membri della
squadra dovevano saper tirare bene e la palla si sarebbe mossa in fretta. A
Paxson piacque l’idea, gli sembrava che le sue attitudini fossero quelle
giuste. Macy probabilmente era il tiratore migliore fra i due, anche se non
era ancora certo che avesse le forze fisiche sufficienti. Anche se Macy in
quella stagione giocò più minuti e segnò più punti, Paxson era chiaramente
un giocatore e un atleta più completo e soprattutto a Jordan era più
simpatico.
Era fondamentale guadagnarsi il rispetto di Jordan, se non la sua fiducia
assoluta, e Paxson l’aveva fatto già ai tempi dell’università. Avevano
entrambi partecipato a una tournée in Europa con una squadra di giovani
promesse. Durante una partita in una piccola palestra jugoslava, Paxson
aveva segnato un tiro decisivo, in sospensione da fuori all’ultimo secondo.
Jordan non aveva dimenticato quel tiro e non fu mai duro con Paxson come
lo era con la maggior parte degli altri. L’anno successivo Macy se ne andò e
Paxson entrò a far parte integrante degli schemi di gioco come perfetto
compagno di Jordan: sapeva esattamente che cosa doveva e non doveva fare
e non usciva mai dal suo ruolo. Una volta Chuck Daly disse: «Era sempre
legato a Michael, come se ci fosse una fune fra loro, ed era pronto a
ucciderti ogni volta che lui prendeva la palla».
Jordan non fu particolarmente soddisfatto delle scelte al draft dell’anno
successivo. Non fu un’annata ricca e i Bulls, che avevano il nono turno,
scelsero Brad Sellers da Ohio State. Era alto e magro, due metri e tredici
per soli cento chili, e giocava di finezza e non di forza. A quanto pareva
aveva un buon tiro da fuori ma non era il tipo da subire – o dare – colpi
bassi, che invece era ciò che serviva ai Bulls.
Sellers era stato una scelta personale di Krause e gli allenatori non
sapevano bene cosa fare di lui. Il giocatore che Doug Collins, altri assistenti
e Michael Jordan volevano a tutti i costi era una guardia di talento di Duke
di nome Johnny Dawkins. Dawkins aveva fatto bene nella ACC ed era stato
l’artefice di una vittoria particolarmente difficile contro Carolina, quando
Jordan era ancora a Chapel Hill. Per un po’ era sembrato che i Bulls
avrebbero preso lui. La sera prima del draft Collins aveva addirittura detto
all’allenatore di Duke, Mike Krzyzewski, che Chicago avrebbe scelto
Dawkins, rappresentato da David Falk. Ma Krause non era entusiasta di
Dawkins: pensava che fosse troppo magro e che non avrebbe avuto la forza
di resistere alla durezza dell’NBA. Dawkins invece si dimostrò molto
meglio di Brad Sellers e giocò nella Lega per otto anni buoni.
Quello era il genere di decisione che Jordan non perdonava facilmente.
Sia lui che Falk ritenevano che indicasse un grave difetto di Krause: il suo
ego interferiva con le sue scelte e non gli consentiva di agire nel modo più
razionale durante i draft. Secondo loro, se il giocatore più ovvio avesse
funzionato, Krause non ne avrebbe ricavato abbastanza merito, quindi era
portato a rischiare con decisioni astruse perché, se si fossero poi rivelate
vincenti, avrebbe ottenuto un credito speciale del quale, a quanto pareva,
aveva disperatamente bisogno. Gran parte del risentimento latente che
Jordan covava nei confronti di Krause, e che lo portò a una diffidenza
sempre maggiore, derivava dalla scelta Dawkins-Sellers.
Con Sellers, Krause fece un secondo errore. Non solo lo impose, ma lo
esaltò in tutti i modi con staff e giocatori, esagerando con l’entusiasmo sul
suo radioso futuro nel professionismo. Michael Jordan non permise mai a
Jerry Krause di dimenticare una sola parola di quei discorsi. Aveva deciso
quasi subito che Sellers era un giocatore troppo morbido, quando i Bulls
avevano un disperato bisogno di forza. Sellers non giocava come un centro
ma come un’ala piccola in un corpo di due metri e tredici e Jordan, in
allenamento, era particolarmente brutale con lui.
Era un presagio dei tempi a venire. Krause aveva sempre nuove prove di
quanto fosse difficile trovare i giocatori giusti per coesistere con Michael
Jordan. Quando Jordan si fissava su un giocatore non lo mollava più e
continuava a sfidarlo a fare meglio, in modi che pochi, soprattutto in quella
squadra, erano in grado di sostenere. A volte gli allenatori si chiedevano, ad
alta voce, se non fosse troppo duro con i compagni ma lui rispondeva,
correttamente, che se non sopportavano la pressione in allenamento come
avrebbero potuto sopportarla durante i playoff? Quando Johnny Bach lo
avvertì che stava distruggendo uno dei compagni durante gli allenamenti di
preseason, rispose con freddezza: «Devo prepararmi, Johnny».
La verità era che nell’organizzazione dei Bulls esisteva già una divisione
che avrebbe portato a conseguenze molto gravi. Michael Jordan aveva
cominciato a tormentare Jerry Krause e a trattarlo con disprezzo. Non era
un bello spettacolo, neanche per coloro che stavano dalla sua parte in quel
conflitto e che non avevano particolare simpatia per Krause. C’era una certa
crudeltà nel suo atteggiamento, una crudeltà non necessaria. Le origini dello
scontro erano complesse. In parte risalivano chiaramente alla gestione
dell’infortunio al piede da parte di Krause, anche se Jordan avrebbe potuto
– ma non lo fece – prendersela in uguale misura anche con Reinsdorf, a
quel riguardo.
Un altro elemento era l’innato disgusto per una persona che sembrava
avere un terribile bisogno di prendersi il merito di moltissime cose, alcune
delle quali aveva effettivamente fatto, altre no. Il comportamento di Krause
contrastava nettamente con la consapevole modestia che era il marchio di
fabbrica di Carolina, a partire da Dean Smith, che non si arrogava mai il
merito di nulla.
Dopo aver faticato tanto e tanto a lungo come outsider nel mondo dello
sport professionistico, prima di arrivare ai vertici, Jerry Krause aveva la
tendenza ad attribuirsi anche meriti non suoi. Le storie che raccontava
riguardo al suo ruolo erano considerate esagerate. Ripeteva sempre con
dovizia di particolari come aveva notato e prescelto il grande Earl Monroe
quando era a Winston-Salem. Anche se era vero che Winston-Salem era la
tipica piccola scuola nera che in passato era stata sistematicamente ignorata
dagli scout, il talento di Earl Monroe non era esattamente un segreto.
Quando i Bullets lo avevano preso era stato la seconda scelta del draft a
livello nazionale. Sia Gene Shue, il capo allenatore di Baltimore, che Bob
Ferry, il suo assistente, avevano avuto un ruolo importante nella sua
selezione. «Jerry non ebbe niente a che fare con la scelta di Earl Monroe»
dichiarò anni dopo Gene Shue. «Era il nostro scout: un giovane che batteva
il territorio per noi e che si impegnava moltissimo. Nessuno lavorava più
sodo di lui. Ma Earl Monroe non era un segreto, tutti sapevano di lui, e
aveva giocato in modo spettacolare in diverse partite a cui avevo assistito
anch’io, era uno dei giocatori più entusiasmanti che avessi mai visto. Gli
unici dubbi venivano da qualche addetto ai lavori che pensava si mettesse
troppo in mostra e si chiedeva se sarebbe riuscito a inserirsi nell’ambiente
dell’NBA. Ma io adoravo quella sua componente di esibizionismo. Bisogna
ricordare che Baltimora era una città difficile da coinvolgere. Quindi quello
che per qualcuno era uno svantaggio, per me era un valore aggiunto: io
cercavo di portare un po’ di eccitazione in una squadra che era quasi morta.
Jerry non aveva potere decisionale». Anni dopo Kevin Loughery, che era
allenatore dei Bulls quando la coppia Reinsdorf-Krause prese il potere, e
che aveva giocato insieme a Earl Monroe per quattro anni, disse che non
appena appresa la notizia del cambio di gestione aveva capito che avrebbe
dovuto andarsene. «Ero stato a Baltimora quando c’era anche Krause e
sapevo che in quel periodo non era altro che un fattorino sopravvalutato.
Sapevo anche che le storie che raccontava su come aveva scoperto Earl
Monroe erano molto esagerate e che l’ultima persona che avrebbe voluto
intorno era un testimone del suo passato».
Quando sentiva Krause raccontare la storia di Monroe, Michael Jordan
spesso gli gridava, dal fondo dell’autobus: «Certo, Jerry, e se non fosse
stato per la tua brillante scoperta Monroe sarebbe andato oltre la terza
scelta?» Jordan diceva anche che entro pochi anni, quando i ricordi delle
persone si fossero offuscati e ci fossero stati in circolazione meno testimoni
diretti, Krause si sarebbe preso il merito di aver scelto anche lui. Quello che
infastidiva alcuni degli allenatori era il fatto che inizialmente Krause
sembrava divertito da quelle battute o comunque sembrava fraintenderne
una parte, illudendosi di essere finalmente entrato nella cerchia degli eletti.
Una parte del problema fra Krause e Jordan, comunque, risaliva a qualcosa
di antico come i cortili delle scuole, dove certi ragazzi sono popolari e altri
sembrano nati per fare da bersaglio. Jordan, che aveva talento, era dotato,
era sempre il migliore in qualsiasi attività decidesse di intraprendere, era la
personalità alfa e vedeva in Krause – basso, poco attraente, disperatamente
desideroso di farsi accettare ma privo di qualunque requisito di base – la
personalità omega, quella condannata a restare ai margini estremi di
qualunque gruppo.
Era una dinamica strana e disgraziata e fece del male a entrambi. Krause
tendeva a stare troppo intorno ai giocatori e si attirava ancora più battute da
parte di Jordan. Tex Winter, uno dei pochi membri dell’organizzazione dei
Bulls che andava d’accordo con entrambi e che si mantenne sempre
neutrale in quella tensione in costante crescita, pensava che Jordan in quelle
occasioni mostrasse il suo lato più crudele e meno amabile. Ma pensava
anche che Krause si sforzasse troppo di avvicinarsi a Jordan e di diventare
suo amico. Doug Collins si rendeva conto della situazione e cercò di
avvertire entrambi sollecitandoli a lasciar perdere. Quando la sua posizione
era ancora relativamente sicura, Collins disse a Krause che il loro compito
non era quello di diventare amici di Jordan ma di guadagnarsi il suo
rispetto, e che probabilmente sarebbe stato meglio interagire con lui il meno
possibile.
16
Chicago; Seattle, 1997

Durante le prime settimane della stagione 1997-98 la tensione fra i


giocatori, in particolare Michael Jordan e Scottie Pippen, e Jerry Krause
divenne sempre più intollerabile. Non era più un punzecchiamento
sarcastico, era diventato un esplicito e continuo tormento, quasi sempre
meschino e inutilmente infantile. Era terribile sotto ogni punto di vista.
Secondo alcuni, Jordan si scagliava contro Krause per sostenere Pippen, che
era arrabbiato e amareggiato ma non così bravo negli scontri verbali né
abituato a gestire l’aggressività. Phil Jackson si sentiva preso fra due fuochi.
La situazione era potenzialmente dannosa per tutte le parti coinvolte, e
comunque era molto imbarazzante per le riserve, che avevano molto meno
potere contrattuale e non apprezzavano il conflitto evidente fra la superstar
della squadra e il loro capo. Dal loro punto di vista, non c’era un vincitore.
Parte del problema era costituito dal fatto che Krause stava intorno ai
giocatori molto più della media dei general manager, negli spogliatoi, sul
bus, sui voli privati. La maggior parte dei general manager cercavano di
non farsi vedere tutti i giorni. Jackson aveva cercato – senza successo – di
convincere Jordan a smetterla con quelle feroci prese in giro, e come Doug
Collins prima di lui, aveva spesso suggerito a Krause di provare a stare
lontano dai giocatori, dato che la sua presenza era vissuta come una
provocazione. Jackson riteneva che Krause avesse una consapevolezza
limitata degli spazi personali e Krause, da parte sua, pensava di avere il
diritto, come dirigente, di andare dove voleva senza alcuna limitazione.
Sosteneva che viaggiando insieme alla squadra per le prime cinque o sei
settimane della stagione avrebbe potuto comprenderne a fondo i rapporti e
le necessità. Per i giocatori invece era una violazione di quello che
consideravano il proprio territorio – il bus e l’aereo erano, come gli
spogliatoi, il loro ambiente, più per tradizione che per regolamento, luoghi
dove potevano rilassarsi e divertirsi un po’. In quelle zone vigevano le
regole non ufficiali dei giocatori, non quelle della dirigenza.
In quella stagione, i sentimenti verso Krause erano particolarmente
negativi a causa delle tensioni relative al contratto di Pippen. Pippen, che
seguiva la squadra nonostante un infortunio al piede, era furente non
soltanto per l’ammontare del proprio compenso ma in generale per un senso
di ingiustizia accumulato nel corso degli anni: in due occasioni aveva
rischiato che i Bulls lo cedessero e si era fatto l’idea che Krause non fosse
mai stato del tutto sincero con lui sull’argomento. Se non altro, quella
situazione dimostrava che i Bulls non avevano la stessa considerazione per
il suo contributo ai cinque anelli conquistati e per quello di Jordan.
All’inizio della stagione, quando la squadra era arrivata a Los Angeles da
Phoenix, girava voce che Phoenix avesse dichiarato all’agente di Pippen di
voler ingaggiare il suo cliente a tutti i costi. Il contrasto fra l’entusiasmo di
Phoenix e l’apparente disprezzo dei Bulls aveva gettato altra benzina sul
fuoco del suo sdegno.
Dopo la partita contro i Clippers a Los Angeles, Bill Walton, che seguiva
come commentatore le partite della squadra, uscì dallo spogliatoio dei Bulls
scuotendo la testa per la profondità dell’amarezza di Pippen. Era molto raro
che un grande giocatore titolare fosse così arrabbiato con la dirigenza e
dichiarasse con tanta enfasi di desiderare di essere ceduto. Quella sera
Pippen agganciò anche Kent McDill, un giornalista sportivo di Chicago, e
gli disse che non avrebbe mai più giocato per i Bulls. Mai. Era difficile
capire se parlasse sul serio e inizialmente McDill non riportò le sue parole.
Il giorno dopo, però, quando Pippen lo sollecitò a pubblicarle, lo fece. A
quel punto le tensioni esistenti si intensificarono e lo scambio di accuse si
ingigantì.
Dopo la vittoria contro i Clippers, i Bulls si diressero a nord, verso
Sacramento. Sull’aereo ci furono altri scontri fra Jordan, Pippen e Krause. Il
giorno successivo ne scoppiò un altro negli spogliatoi a Sacramento, di
nuovo a proposito del cosiddetto ruolo di Krause nella scelta di Earl
Monroe. Poi, dopo la vittoria contro i Sarcamento Kings, la squadra si
imbarcò sull’aereo per Seattle, dove Pippen bevve della birra.
All’atterraggio c’erano due bus, uno per i giocatori e uno per lo staff.
Krause andò con i giocatori e alcuni allenatori lo considerarono un grave
errore. Il bus era un luogo molto più esplosivo dell’aereo. In aereo i
giocatori e lo staff tendevano a separarsi, a parte la tradizionale partita a
carte fra Jordan, Pippen e Ron Harper. C’era chi mangiava, chi dormiva, chi
leggeva e chi si isolava con le cuffie e la musica. L’aereo offriva più
solitudine che condivisione. Nel bus invece i passeggeri erano ammassati,
c’erano meno distrazioni e si avviavano continue conversazioni alimentate
dall’energia repressa degli atleti, che parlavano di avversari e di donne. Sul
bus il livello delle prese in giro e delle urla si alzava in modo esponenziale.
In passato Jackson aveva discusso con Reinsdorf a proposito del fatto che
Krause accompagnava la squadra in viaggio, spiegando che ovviamente non
era il benvenuto e che la sua presenza costituiva una fonte costante di
tensione e frizione. Reinsdorf aveva risposto che se Jackson lo avesse
voluto davvero avrebbe potuto fermare tutta quella caciara. Jackson,
infastidito dalla crudeltà – quasi tutta da parte di Jordan – delle battute degli
ultimi due anni, aveva più volte provato a parlarne con Jordan. Michael
aveva ammesso di non esserne orgoglioso, ma anche che in certi momenti
non riusciva proprio a trattenersi. In altre parole, il problema non si sarebbe
risolto.
Jackson propose a Krause di non salire sul bus della squadra e di farsi
piuttosto venire a prendere in aeroporto da una limousine, ma Krause si
rifiutò. La sua presenza sul bus nel tratto dall’aeroporto all’albergo di
Seattle infiammò gli animi dei giocatori. Ricominciarono le provocazioni, a
partire da Jordan che iniziò a parlare delle scarse doti di Krause come
pescatore. Pippen lo seguì a ruota.
Jordan era molto bravo nelle schermaglie verbali, nessun altro nella Lega
era più efficace nel punzecchiare le persone. Sembrava sapere quanto
calibrare le sue battute e quando ritirarsi al primo segnale di pericolo.
Anche se era un uomo dalle forti passioni, sapeva bene come gestire
l’emotività. Era una persona matura e mentalmente controllata e aveva una
freddezza professionale che gli consentiva di attivare e disattivare le
emozioni quando voleva e di usare la rabbia a suo vantaggio. Anzi, era
imbattibile nel creare una furia artificiale, in caso di necessità.
Pippen era diverso. Le sue emozioni erano più dirette e superficiali, e non
riusciva a controllarle altrettanto bene. Quando si infilava in una situazione
come quella, soprattutto quando aveva bevuto, non aveva la stessa capacità
di Jordan di capire che era il momento di lasciar perdere. Quando Jordan
cominciò con le prese in giro sul bus, Pippen si lanciò a testa bassa,
rimproverando Krause – «Quando la smetterai di prenderti il merito per
avermi scelto e per aver creato la mia carriera?» – e poi pretendendo a gran
voce che i Bulls gli facessero firmare un contratto oppure lo cedessero. Non
lo disse con leggerezza, anzi durante il tragitto la sua furia e le sue urla
aumentarono, alimentate dalla rabbia e dall’alcol. Alla fine Jackson sollevò
una bottiglia di birra, come per dirgli che aveva bevuto troppo e che doveva
smetterla (Joe Kleine, il centro di riserva, pensò che Jackson volesse
brindare a Pippen, e questo la dice lunga sulle divisioni all’interno della
squadra). «Non preoccuparti» disse Krause a Jackson, «posso sopportarlo».
Ma il problema non era quello, pensò Jackson, il problema era molto più
serio.
Fu una scena molto sgradevole: Michael sapeva giocare a quel gioco
senza mai passare il limite, ma quando fu Scottie ad aggredire Krause quel
limite fu superato.
Il giorno successivo, i cronisti sportivi riportarono dettagliatamente le
richieste di Pippen di essere ceduto e il suo giuramento di non giocare mai
più per i Bulls. Era l’inizio della stagione, i Bulls faticavano in campo, uno
dei loro migliori giocatori era infortunato e c’era la possibilità che non
rientrasse più. Era una vera crisi. Gli altri giocatori erano sconvolti e prima
del riscaldamento Jackson convocò una breve riunione. Pippen si scusò con
i compagni per aver creato problemi con le sue richieste, ma ribadì con
fermezza la propria posizione. Dichiarò che non avrebbe più indossato la
divisa dei Bulls. «Voglio bene a tutti voi» disse, «ma ormai è finita».
Jackson temeva che Pippen si stesse avvicinando al punto di non ritorno e
che avrebbe danneggiato non soltanto la squadra ma anche se stesso,
facendo dichiarazioni che non avrebbe più potuto ritrattare. La dirigenza
non gli avrebbe certo accordato la stessa indulgenza riservata a Michael
Jordan.
Pippen non aveva l’equilibrio mentale di Jordan ed era infinitamente più
vulnerabile rispetto alle complesse forze sociali che avevano cominciato ad
assalirlo quando aveva raggiunto il livello più alto dei risultati sportivi e
della notorietà. Il percorso dalle origini alla condizione che aveva ottenuto
era stato molto più lungo rispetto a Jordan e i meccanismi di protezione per
la parte della sua vita che non aveva a che fare con il basket erano molto più
deboli. Il suo autocontrollo fuori dal campo era sempre stato un problema.
All’inizio della carriera la sua volatilità si era mostrata anche in campo ed
era stato relativamente facile per gli avversari più astuti sfruttarla contro di
lui. Nel corso di una carriera lunga e ricca di successi il comportamento in
campo era migliorato moltissimo, era diventato una delle star di maggiore
spicco della Lega, con cinque anelli al suo attivo, ed era difficile scuoterlo
durante una partita. Ma fuori dal campo era tutta un’altra cosa. Secondo
Jackson la sua mancanza di autocontrollo, in un ambiente di predatori come
l’NBA contemporanea, in cui la posta in gioco si alzava sempre di più,
avrebbe potuto facilmente essere usata per manipolarlo.
Nei giorni seguenti, Jackson parlò con Pippen per cercare di placarlo. Le
sue recenti dichiarazioni lasciavano intendere, fra le altre cose, che in realtà
sarebbe stato in condizioni di giocare se lo avesse davvero voluto, ma che
non lo faceva per la questione del contratto. Gli allenatori erano certi che
non fosse vero. Lo avevano osservato in allenamento e non riusciva a
fermarsi e ripartire di scatto. Ma anche il semplice sospetto che stesse
fingendo era molto pericoloso. In sostanza, Jackson disse a Pippen che il
suo momento sarebbe arrivato, che doveva avere pazienza, che aveva
comunque un contratto annuale e che se il conflitto con la dirigenza fosse
degenerato ne sarebbe uscito perdente perché nella Lega il suo nome
sarebbe stato macchiato per sempre, soprattutto presso le organizzazioni di
alto livello. L’unico modo di ottenere la libertà era quello di tornare a
giocare al massimo e rimettersi sul mercato nell’estate del 1998.
Jackson si stupì molto per la reazione ostile di Pippen, che di solito gli
dava ascolto e accettava le sue opinioni: sembrava che ormai fosse troppo
lontano per poterlo raggiungere. Era chiaro che, nella mente di Pippen, né
Jackson né Jordan avevano il diritto di dirgli che cosa fare, perché loro
avevano stipendi enormi, mentre a lui non era stato mai garantito il giusto
compenso. Pensava che lo avessero protetto dalla dirigenza per evitare che
fosse ceduto, ma che non fossero intervenuti per migliorare le sue
condizioni contrattuali. Quindi ignorò i loro consigli e, almeno per il
momento, sembrò provare per loro esattamente lo stesso risentimento che
provava per la società.
Irritati da quell’atteggiamento, sia Jordan che Jackson provarono un’altra
strada e criticarono davanti ai giornalisti le ultime uscite di Pippen.
Dichiararono entrambi di essere tornati per la nuova stagione soprattutto per
vincere un altro anello e che uno dei motivi per cui lo avevano fatto era
Pippen. Era l’unica stella di prima grandezza della squadra del 1997 che era
ancora sotto contratto e aveva chiesto sia a Jackson che a Jordan di tornare.
Jackson ripeté le parole che gli aveva detto: «Non lasciarmi qui da solo».
Loro erano tornati, e a quel punto era Pippen che sembrava volerli mollare.
Jackson era stupito dalla piega che aveva preso la situazione e si convinse
che negli anni precedenti Pippen avesse subito più danni di quanto avesse
creduto.
Quella sera i Bulls giocarono bene contro i SuperSonics – una delle due o
tre squadre che probabilmente avrebbero ritrovato alle Finals – ma persero
ai supplementari, con Toni Kukocˇ che sbagliò un tiro all’ultimo secondo.
Quando decollarono da Seattle era probabilmente il momento peggiore
della stagione, per loro. Avevano un record di otto vittorie e sei sconfitte,
arrancavano e non avevano ancora battuto nessuna delle squadre migliori.
Jordan giocava molto bene, ma restava in campo per troppi minuti e la sua
percentuale era peggiorata, chiaro segno di esaurimento: cercava di
trascinare la squadra troppo spesso e troppo presto nella stagione. Rodman
finalmente stava raggiungendo la forma ideale e cominciava a giocare bene,
ma Kukocˇ, dal quale ci si aspettava molto perché di molto c’era bisogno,
giocava in modo non soltanto incostante ma anche troppo leggero. La
chiave era Pippen. Perché la stagione fosse un successo i Bulls dovevano
cercare di restare a galla fino al suo rientro. Forse, se fossero stati fortunati,
avrebbero avuto una media vittorie superiore al 50%, poi, quando fosse
tornato fresco e riposato, avrebbero lanciato una rimonta che li avrebbe
portati alla vittoria nei playoff. Invece Pippen non solo minacciava di
restare fuori per tutta la stagione, ma stava creando una situazione per cui
sembrava voler sollecitare uno scambio svantaggioso con una squadra di
infimo livello da parte di una dirigenza inferocita. Al ritorno da Seattle
Jackson non sapeva se Pippen sarebbe rientrato, né eventualmente in quale
stato psicologico. Ormai temeva di rivivere quella famigerata partita di
playoff del 1994.
Se esiste un momento topico durante il periodo in cui Phil Jackson fu
allenatore dei Bulls, è quello che si verificò in una stagione in cui la squadra
non vinse l’anello, e non riguardò una sua iniziativa ma piuttosto qualcosa
che non fece. Accadde durante le Eastern Conference Finals contro i
Knicks, durante la prima stagione di assenza di Michael Jordan, che era
passato al baseball. Con 1,8 secondi da giocare in Gara Tre e il punteggio
sul 102 pari, Jackson chiamò un time out e disegnò uno schema che avrebbe
portato Toni Kukocˇ al tiro finale. Scottie Pippen, che in assenza di Jordan
aveva trascinato la squadra e al momento era un legittimo candidato al
titolo di MVP della Lega, si infuriò per quella decisione e si rifiutò di
rientrare in campo (uno dei motivi della sua rabbia era che durante l’azione
precedente gli allenatori avevano segnalato di isolare Pippen sul lato destro
ma Kukoc ˇ , come faceva anche troppo spesso in quel periodo, non si era
spostato nonostante i gesti frenetici di Pippen. Nella confusione i Bulls
avevano commesso infrazione di ventiquattro secondi).
Fu un momento increscioso: un grande giocatore che si rifiutava di
rientrare in campo nel momento cruciale. A memoria d’uomo non era mai
accaduta una cosa del genere. C’erano state occasioni in cui giocatori
secondari, sostituiti dopo pochi minuti, si erano rifiutati di tornare in campo
alla richiesta dell’allenatore, ma mai nulla del genere: una superstar che si
rifiutava di rientrare nel momento decisivo in una finale di campionato.
All’inizio Jackson, sbalordito, si rivolse agli assistenti chiedendo: «Non
vuole rientrare. Adesso che cosa faccio?»
«Fanculo» disse uno di loro, Jimmy Cleamons: «Giochiamo senza di lui».
La maggior parte degli allenatori in un momento del genere avrebbe
perso le staffe e avrebbe affrontato Pippen con qualche specie di ultimatum,
ma Jackson si limitò a scambiare qualche battuta furiosa al momento del
rifiuto e poi, in pratica, cedette le armi. Il fatto che Kukocˇ alla fine avesse
segnato e che Chicago avesse vinto la partita passò in secondo piano di
fronte alla gravità del gesto di Pippen.
Essenzialmente, Jackson aveva lasciato che la situazione venisse gestita
dai giocatori, un atteggiamento che aveva imparato da Red Holzman, il suo
allenatore a New York. I giocatori erano i referenti ultimi, erano giudice e
giuria. Bastava lasciarli parlare e decidere quale fosse la cosa giusta da fare
o da non fare. Quanto a Jackson, aveva capito immediatamente che quello
era un gesto con il quale Scottie Pippen avrebbe dovuto convivere per
moltissimo tempo e sarebbe stato già abbastanza difficile. Il problema al
momento non era tanto la punizione quanto la gestione e la
contestualizzazione dell’accaduto, la valutazione non solo di quel gesto ma
di tutte le altre cose buone che Pippen aveva fatto per la squadra nel corso
degli anni. La situazione era una polveriera, e Jackson non si preoccupò
soltanto di se stesso ma anche del futuro della squadra e, questione
altrettanto importante, del giocatore coinvolto, che in passato gli aveva dato
tanto. Era consapevole del bilancio complessivo e non aveva intenzione di
permettere che un solo atto, per quanto infantile, potesse cancellare tutti i
contributi positivi.
Ma era comunque sbalordito. Dopo la partita andò negli spogliatoi e
trovò Bill Cartwright, il centro, un veterano e forse il giocatore più
rispettato della squadra, che singhiozzava e ripeteva, quasi fra sé e sé: «Non
posso credere che lo abbia fatto… Non ci posso credere… non ho mai visto
una cosa del genere…» Jackson dovette aiutarlo a togliere le lenti a
contatto, ci vollero cinque minuti buoni. Poi andò da Pippen e dagli altri.
Pesò accuratamente le parole: disse che quello che Pippen aveva appena
fatto era terribile, che andava al di là di qualsiasi cosa chiunque di loro
avesse mai visto. Disse che Pippen non avrebbe mai potuto cancellarlo, che
avrebbe dovuto affrontarne le conseguenze non soltanto pubblicamente ma
per prima cosa con i compagni, che aveva deluso in modo inaccettabile. Poi
gli disse che sarebbe uscito a parlare con i giornalisti e che non avrebbe
assolutamente mentito sull’accaduto. Infine, fece recitare a tutti una
preghiera, la Lord’s Prayer, per ricordare che esisteva una divinità
superiore, e andò a parlare con la stampa, mentre i giocatori risolvevano la
questione senza di lui. Parlò soprattutto Bill Cartwright, ancora molto
scosso.
Al ritorno di Jackson i giocatori avevano già cominciato a discutere la
questione. Cartwright parlò in modo molto coinvolgente ed efficace. Disse a
Pippen: «Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, dopo tutti i
sacrifici che abbiamo fatto per vincere senza Michael, come hai potuto farci
questo?» Le parole giuste, per quello che potevano servire, erano state
pronunciate, senza clamore, non da una figura autoritaria ma dagli stessi
compagni di squadra di Pippen. Restava da vedere se sarebbe riuscito a
imparare qualcosa e a recuperare il ruolo di preminenza di cui aveva goduto
presso di loro prima di quell’episodio increscioso. In quel momento però la
scelta di Jackson di non scontrarsi apertamente con Pippen probabilmente
fu l’atto supremo della sua carriera e dato che nella società c’erano diverse
persone che non avrebbero desiderato altro che liberarsi di lui,
probabilmente contribuì a salvare il cuore della squadra per il ciclo di
vittorie successivo. Era tipico dello stile di Jackson preoccuparsi soprattutto
delle conseguenze sul lungo periodo.
Quella sera stessa Tim Hallam, l’addetto stampa dei Bulls, parlò con
Jackson. Era ben consapevole che si trattava di un momento cruciale per il
futuro della squadra, ma scoprì che Jackson era sorprendentemente
tranquillo rispetto all’intero episodio. «Non sarà un problema» gli disse.
Hallam concluse che quel momento spiegava che allenatore fosse Phil
Jackson meglio di tutti gli anelli vinti.
Il giorno successivo uno sbalordito Jordan, che allora militava nella
Minor League di baseball, giocando con i Birmingham Barons, chiamò
Jackson ansioso di sentire i retroscena. «Non posso credere che lo abbia
fatto. Come è potuto succedere?» gli disse. Jackson rispose che non c’erano
spiegazioni, era successo e basta. «Come sta Scottie?» chiese poi Jordan.
«Beh, si è scusato ma non è davvero pentito» rispose Jackson.
Era chiaro che Jordan, cresciuto in un ambiente in cui a prescindere dallo
stato emotivo si ubbidiva all’allenatore senza discutere, non poteva credere
a quell’eresia. «La gente non dimenticherà mai quello che ha fatto»
commentò.
«Non saprei, Michael» rispose Jackson. «La gente perdona molte cose in
base alle reali intenzioni di una persona e Scottie è già riuscito a superarne
tante».
In quell’autunno del 1997, mentre Pippen minacciava di nuovo di
autodistruggersi, Jackson decise che era il momento di fare un passo
indietro e spiegargli le conseguenze delle sue azioni, ma soprattutto di
calmare le acque e lasciare che fossero i compagni a raggiungerlo. La
scenata del 1994 era stata perdonata dai compagni e dai tifosi, ma se a quel
punto si fosse rifiutato di onorare il contratto e di tornare a giocare con una
squadra di prima grandezza, rischiando di sabotarla, non ci sarebbe stata
clemenza. Jackson voleva tenere Pippen lontano da Krause e quindi gli
propose di non viaggiare con i compagni, per il momento. In più Ron
Harper, che aveva un rapporto più stretto degli altri con Pippen, si presentò
in un nuovo ruolo, quello dell’amico che gli diceva quanto la squadra aveva
bisogno di lui, quanto tutti contavano su di lui e quanto credevano nelle sue
capacità. Secondo Jackson servivano meno articoli sui giornali e più tempo
perché Pippen affrontasse la realtà della situazione. Era ora di fargli
ricordare quanto amava giocare a basket con i Chicago Bulls.
L’umore della squadra cominciò a cambiare. Fino a quel momento era
stato relativamente rilassato, quasi gioioso, nonostante le tensioni con la
dirigenza. C’era la sensazione che quello fosse l’ultimo giro di giostra e che
se lo sarebbero goduto. Era una squadra molto diversa da quella che aveva
vinto i primi tre titoli, sotto un aspetto fondamentale: quella formazione era
molto più giovane e per molte riserve come B.J. Armstrong, Stacey King e
Will Perdue era la prima squadra NBA. Pochi di loro sapevano che cosa
significava soffrire per un’intera, deprimente stagione in una squadra
perdente, sapendo che al massimo si potevano ottenere trentacinque o
quaranta vittorie. Ormai la squadra era molto diversa. Bill Wennington, Joe
Kleine, Jud Buechler, Randy Brown, Ron Harper e Steve Kerr provenivano
tutti da altre squadre, comprendevano e accettavano i limiti del loro posto
nella Lega e capivano la fortuna di far parte di una squadra che aveva la
possibilità di aspirare all’anello. Per alcuni di loro era la terza o la quarta
squadra: erano in grado di riconoscere una condizione favorevole. In
generale avevano un ottimo equilibrio emotivo e accettavano di buon grado
le mutevoli richieste di Jackson, si trattasse di giocare o di non giocare. Era
quindi una squadra facile da allenare, pervasa da un’atmosfera benevola, in
cui i giocatori cercavano di tenersi alla larga il più possibile dagli scontri
Krause-Pippen-Jordan.
A quel punto però la squadra era in difficoltà, manteneva a malapena la
percentuale del 50% di vittorie e la certezza che con il rientro di Pippen
sarebbe cambiato tutto era svanita. Forse sarebbe tornato o forse no.
Quando arrivarono a un computo di otto vittorie e sette sconfitte, Jackson
convocò un’altra riunione. Avevano già perso più partite di quante ne
avessero perse nella prima metà della stagione precedente, quando il
bilancio finale era stato di 69 a 13, dichiarò. Peggio ancora, avevano perso
con squadre che avrebbero dovuto battere e non riuscivano a fare una cosa
fondamentale per le squadre vincenti: chiudere le partite in bilico. Il
marchio dei campioni – il marchio dei Bulls per gran parte del decennio –
era la capacità di dominare gli avversari negli ultimi minuti di gioco quando
il punteggio era equilibrato. In qualche modo stavano perdendo
quell’abilità. Le squadre avversarie fiutavano il sangue nell’acqua e si
avventavano su di loro.
Dopo quella riunione le cose cominciarono a cambiare, soprattutto grazie
a Michael Jordan, che entrò in modalità supereroe. Ogni partita era diversa:
ogni volta la affrontava come se fosse una sfida con una squadra di prima
grandezza ai playoff. Migliorò radicalmente il proprio gioco in difesa.
Spinse i compagni a crescere. Nessuno seguì il suo esempio meglio di
Dennis Rodman, che migliorò in modo esponenziale. Jordan se ne accorse e
cominciò a metterlo in luce davanti ai giornalisti dopo ogni partita. «Dennis
è il nostro miglior giocatore in questa stagione» diceva. «Non saremmo in
grado di giocare così senza Dennis». «Non ho mai visto un compagno
impegnarsi così a fondo». Fra l’assenza di Pippen e gli elogi di Jordan,
Rodman sembrò sbocciare, come se fosse diventato l’altra metà di una
coppia invece del terzo in un trio e se fossero lui e Michael contro il mondo.
Nelle successive diciotto partite, la sua media sui rimbalzi salì da tredici a
diciassette a partita, un piccolo indicatore del suo impegno indefesso. I
Bulls erano di nuovo forti. Non c’era nulla di artistico nel loro stile:
lottavano come gladiatori nell’arena, surclassando giocatori più grossi di
loro, mettendo in campo una difesa perfetta e facendo uscire dalla panchina
giocatori che rispettavano scrupolosamente il proprio ruolo. Anche se non
sembravano più i Bulls sicuri e dominanti degli ultimi due anni, avevano
comunque ricominciato a vincere. Le statistiche non erano ancora
particolarmente buone ma si stavano impegnando al massimo ed erano i
migliori della Lega in un aspetto importante: concedevano agli avversari il
minor numero di punti in assoluto.
17
Hamburg e Conway, Arkansas;

Chicago, 1982-1987

Il draft del 1987 aveva posto le basi per il primo anello dei Bulls. I Bulls
scelsero sia Scottie Pippen che Horace Grant: il primo sarebbe diventato
non solo una presenza fissa agli All Star Game ma uno dei cinquanta
migliori giocatori NBA di sempre, il secondo sarebbe in seguito stato
riconosciuto come una delle due o tre ali grandi migliori della Lega.
Entrambi avevano raggiunto la piena maturità atletica piuttosto tardi. Fra i
due, Grant non si era fatto notare particolarmente durante i tornei
preliminari, perché Pippen attirava tutta l’attenzione su di sé con il suo
fisico meraviglioso e le braccia lunghissime e le sue quotazioni erano salite
rapidamente. La sua università di provenienza, la Central Arkansas, a
prevalenza bianca, non era particolarmente rilevante nel mondo del basket e
non era meta annuale di pellegrinaggi da parte degli scout. In un’epoca di
scouting sempre più sofisticato, in cui sembrava possibile identificare già
dalla preadolescenza i giovani americani che nel giro di dieci anni
sarebbero diventati grandi atleti professionisti, Scottie Pippen dimostrò che
perfino in un mondo sportivo industrializzato c’era ancora spazio per le
sorprese. Al liceo, nella piccola città di Hamburg in Arkansas, era stato un
buon giocatore, anche se non il migliore della squadra. Non era alto, circa
uno e ottantacinque, inoltre era molto magro. Secondo il suo allenatore di
high school, Donald Wayne, aveva un’ottima visione del campo ma era
lento (un giudizio che avrebbe stupito i suoi avversari in NBA), soprattutto
perché i suoi piedi erano cresciuti molto in fretta e il resto del corpo non si
era ancora adeguato. Al liceo non aveva dato particolari segni di eccellenza
atletica, tanto che nessuna delle università della zona, tutte appartenenti alla
seconda o terza Divisione, avevano mostrato interesse verso di lui
nonostante gli sforzi dell’allenatore. Qualche assistente allenatore era
andato a vederlo, ma nessuno ne era rimasto colpito.
Alla fine, più per aiutare un bravo ragazzo che per una premonizione dei
suoi futuri successi sportivi, Donald Wayne chiamò il suo vecchio
allenatore all’università, Don Dyer, che in quel momento lavorava a Central
Arkansas, a Conway. Wayne chiese a Dyer, come favore personale, di dare
una possibilità a Pippen: pensava che fosse una bella persona, anche se non
un grande giocatore di basket, ed era fermamente convinto che i bravi
ragazzi con una forte etica del lavoro dovessero avere la possibilità di
accedere all’università e di uscire dalla condizione di povertà rurale della
regione. Chiese a Dyer di offrirgli una borsa di studio: non poteva garantire
che Pippen sarebbe stato un buon giocatore a livello universitario, ma ci
teneva moltissimo a dargli un’opportunità. Era convinto che per un ragazzo
giovane fosse molto importante avere un’occasione di andare all’università,
almeno sarebbe stato libero di sfruttarla come meglio poteva. Dyer aveva
stima di Wayne e decise di correre il rischio: lo fece non tanto perché
pensava di acquistare un grande giocatore, ma perché sentiva di fare la cosa
giusta per il suo ex allievo. Al momento non aveva borse di studio
disponibili, così Pippen arrivò grazie a un programma federale per ragazzi
bisognosi chiamato Pell Grant e inizialmente lavorò come team manager.
Poco dopo però due dei beneficiari delle borse di studio di Dyer
abbandonarono la squadra e Pippen ne ottenne una.
Secondo Dyer, a quei tempi Scottie pesava circa sessantaquattro chili ma
Arch Jones, il suo assistente e futuro successore, pensava che fossero
addirittura cinquantanove. Dyer però riconobbe che il ragazzo aveva del
talento. Al primo anno si comportò egregiamente, giocò sempre di più e alla
fine fu promosso titolare. Aveva un ottimo senso del gioco, in parte perché
al liceo aveva giocato come playmaker e aveva imparato a tenere sempre
sott’occhio tutto il campo. Inoltre, stava cominciando a crescere, da uno e
novanta al secondo anno a uno e novantasei al terzo fino a superare i due
metri all’ultimo anno. Al secondo anno saltò metà della stagione perché i
suoi voti erano peggiorati e aveva perso il diritto di giocare. Dyer
comunque era convinto che la squadra stesse migliorando, soprattutto
grazie all’apporto di Pippen. All’improvviso divenne chiaro che era il
miglior giocatore che avessero avuto da anni. Guadagnò peso, fino ad
arrivare a ottantotto chili, ma era sempre veloce e leggeva il campo con
abilità. Dyer gli affidò tre diversi ruoli: centro, ala grande e ala piccola.
Questo tornò molto utile a Pippen quando entrò nel basket professionistico
perché, anche se in base alla corporatura era destinato al ruolo di ala
piccola, all’università aveva trascorso così tanto tempo a gestire la palla che
i suoi talenti erano sorprendentemente variegati. All’ultimo anno era ancora
in crescita e Dyer decise che avrebbe potuto ambire a diventare
professionista. Non era facile prevedere quanto sarebbe diventato bravo,
finché i suoi avversari erano Arkansas Tech, Ouachita State e Henderson
State, ma in certi momenti sembrava essere il più bravo di tutti ed era
capace di numeri che Dyer e Jones avevano visto fare soltanto ai
professionisti.
Appena arrivato all’università, a diciassette anni, Scottie Pippen aveva
scritto in un tema per il corso di educazione fisica che da grande voleva
giocare nell’NBA. In quel momento, magro com’era, sembrava un sogno
impossibile. Ma quando arrivò al terzo anno divenne chiaro che era il
miglior giocatore della squadra e forse della Conference, e per quanto
potevano vedere i suoi allenatori, non c’erano limiti a quanto poteva
migliorare: erano convinti che le sue doti atletiche gli avrebbero permesso
di giocare a livello NBA, ma non avevano modo di fare stime precise.
Entrambi gli parlarono del suo sogno e gli dissero che lo consideravano
realizzabile, se continuava a impegnarsi al massimo. Se durante un
esercizio che gli riusciva più facilmente rispetto agli altri Jones vedeva che
si risparmiava, lo pungolava dicendo: «Questo ti costerà caro». Intendeva
che gli sarebbe costato il posto all’NBA. Era diventato un tormentone:
«Questo ti costerà caro».
Dyer e Jones si impegnarono, ciascuno a suo modo, per offrirgli una
possibilità di diventare professionista. Dyer conosceva Bob Bass, che a quei
tempi lavorava per San Antonio, e lo chiamò per parlargli di Pippen, inoltre
scrisse ai Dallas Mavericks. Nessuna delle due iniziative suscitò alcuna
reazione. Intanto Jones, stupito dalla sua stessa audacia, pur essendo un
semplice allenatore di provincia prese il telefono e chiamò Marty Blake, il
responsabile dello scouting dell’NBA. «Marty» gli disse, «tu non mi
conosci e non conosci la mia Conference, ma ho un ragazzo quaggiù che
gioca molto bene e penso che potrebbe interessare all’NBA». L’Arkansas
Intercollegiate Conference (AIC) era piccola, ma Blake, un veterano che
aveva battuto ogni angolo del paese negli anni cinquanta, la conosceva
bene. Jones gli descrisse l’atletismo di Pippen, parlò delle sue braccia
eccezionalmente lunghe e della sua capacità di ricoprire diversi ruoli. Blake
lo prese sul serio e disse che avrebbe mandato uno scout. Così iniziò la
scoperta e da allora nella regione comparvero una serie di altri scout.
Jerry Krause sentì parlare di Pippen proprio da Marty Blake, che lo
chiamò per avvertirlo di una partita in Arkansas in cui avrebbe giocato
Pippen: disse che ci sarebbero stati altri scout e che gli conveniva prestare
attenzione perché il ragazzo sembrava avere doti atletiche eccezionali.
Menzionò la sua velocità e le braccia insolitamente lunghe. Krause mandò
Billy McKinney, ma McKinney era nuovo del mestiere e non aveva
assistito a molte partite della seconda Divisione, quindi non riuscì a valutare
ciò che vide. Il giorno successivo, quando Krause lo chiamò per chiedergli
la sua opinione, McKinney rispose che in realtà non sapeva bene cosa dire.
«In che senso?» volle sapere Krause. «Beh, è un buon atleta e ha due
braccia davvero lunghe, ma il livello del gioco è terribile».
Il ruolo di McKinney nella scelta di Pippen finì per diventare un punto
dolente fra lui e Krause. A un certo punto, dopo che McKinney aveva
lasciato i Bulls, Krause decise che si stava prendendo troppi meriti e i due,
che prima erano in buoni rapporti, smisero di rivolgersi la parola. Più tardi
l’amicizia riprese, ma solo per rompersi di nuovo quando McKinney, che
ormai lavorava per i Seattle SuperSonics, scrisse nel proprio curriculum di
aver scoperto Pippen per primo e Krause pretese che cancellasse
quell’affermazione.
Chiamarono l’allenatore di Pippen per chiedere dei video, ma anche
quelli non fornirono elementi conclusivi. Quando Krause e McKinney
andarono al torneo di Portsmouth, il primo evento di selezione per i
giocatori che aspiravano a essere scelti nel draft, e Krause vide scendere in
campo un ragazzino molto magro, diede di gomito a McKinney e gli disse:
«Quello deve essere Pippen». «Come lo sai?» chiese McKinney. «Quelle
sono le braccia più lunghe che abbia mai visto» fu la risposta. Krause visse
quel momento come una delle rare illuminazioni in cui si sentiva
assolutamente sicuro di aver visto un lampo della futura grandezza. Pensò
fra sé: ‘Mio Dio, quel ragazzo ha veramente qualcosa di speciale, di
diverso’. Gli era successo in pochissime occasioni: quando faceva lo scout
per il baseball e aveva visto per la prima volta il giovane Kirk Gibson e, nel
basket, quando aveva visto Earl Monroe. Gli scout veramente bravi sono in
grado di riconoscere nei giocatori acerbi e ancora in crescita gli atleti che
diventeranno e di prevedere gli effetti futuri del processo di maturazione,
naturalmente se sostenuto da allenatori professionisti.
C’era già tutto, pensò Krause: un corpo snello ma potente e un’incredibile
grazia e fluidità naturale. Pippen non era ancora un bravo tiratore, ma aveva
ottime mani con dita eccezionalmente lunghe e questo lo avrebbe aiutato
molto nel processo di miglioramento, perché gli avrebbe permesso di
controllare facilmente la palla. Guardandolo pensò che, come Michael
Jordan, quel giocatore avrebbe potuto ricoprire tre diversi ruoli nell’NBA:
ala piccola, guardia o se necessario playmaker. Aveva abbastanza doti
atletiche – velocità, potenza e istinto – per diventare un bravo difensore. I
Bulls erano già all’avanguardia nella Lega con un programma di
allenamenti mirati gestito da Al Vermeil, fratello dell’allenatore di football
americano Dick Vermeil.
A Portsmouth Pippen diede ottima prova di sé e il segreto fu svelato.
«Coach» disse ad Arch Jones al rientro a Conway, «mi sembra che sia
andata molto bene, mi hanno chiesto di andare al prossimo evento alle
Hawaii». Il problema di Pippen a quel punto, secondo Krause, era che il
segreto era arrivato anche agli altri. Le sue quotazioni salirono rapidamente:
nella storia recente dell’NBA erano stati pochissimi a scalare i ranghi così
velocemente dopo la fine della stagione regolare, tanto da arrivare in cima
al primo turno, come fece lui. Un vero incubo per il Segugio: la sua
scoperta si stava guadagnando la ribalta e peggio ancora, sembrava avviata
verso la lotteria delle squadre peggiori della stagione precedente.
Nell’epoca moderna del basket nessun grande talento, reale o potenziale,
poteva restare nascosto a lungo. Alle Hawaii Pippen giocò in modo ancora
più spettacolare e le sue quotazioni salirono ancora. E c’era ancora la
Chicago Combine, un evento importante per i giocatori che cercavano di
raggiungere i primi turni del draft.
Né Jimmy Sexton né Kyle Rote Jr., i nuovi agenti di Pippen, ci tenevano
particolarmente che giocasse alla Chicago Combine. Avevano capito che
Krause lo voleva a tutti i costi, insieme a diversi altri general manager –
Krause parlava già di Pippen come di una potenziale futura superstar – e, se
fosse andato a quell’evento e avesse giocato male, avrebbe soltanto potuto
peggiorare la propria situazione. Alle loro si aggiunse un’altra voce
contraria, quella di Krause, che non apprezzava il crescente interesse
intorno a Pippen: era addirittura disposto a pagargli una settimana di
vacanza alle Hawaii durante la Chicago Combine, solo per tenerlo nascosto.
L’unica persona che non era d’accordo era lo stesso Pippen, che al torneo si
stava divertendo e soprattutto aveva scoperto che dopo aver giocato in un
ambiente tanto limitato – a differenza dei giocatori delle scuole più
importanti, non aveva mai preso un aereo per una trasferta – non solo era
bravo quanto gli atleti più famosi ma spesso era anche meglio di loro e
poteva metterli sotto. Non vedeva l’ora di andare a Chicago e dimostrare
che il suo talento era autentico. Ci andò e giocò ancora meglio che alle
Hawaii: probabilmente fu il migliore di tutti (Don Dyer andò a vederlo a
Chicago e incontrò Bob Bass di San Antonio, che gli disse: «Beh, tu avevi
cercato di avvertirmi, vero?»).
Jerry Krause era sempre più nervoso: aveva trovato un diamante, che
però era sempre meno grezzo. Cercò di fare in modo che Sexton e Rote
limitassero i contatti con le altre squadre. L’anno precedente Len Bias era
stato la seconda scelta a livello nazionale da parte dei Celtics e subito dopo
era morto di overdose, quindi le squadre insistevano per conoscere meglio i
giocatori. Krause implorò Sexton e Rote di non portare Pippen in posti
come il New Jersey e Cleveland, che avrebbero avuto le prime scelte nel
draft.
Pippen era sempre più a disagio all’interno di quel processo: volare in
tante città diverse, incontrare strani e potenti proprietari di squadre e
general manager, cercare di rispondere alle loro domande e di essere quello
che cercavano, senza neanche sapere che cosa fosse. Chiese a Sexton di
accompagnarlo in quei viaggi, una cosa piuttosto insolita. Quando
arrivarono a Chicago per conoscere Krause e Doug Collins avevano già
incontrato Indiana e Phoenix e li aspettavano il New Jersey e Cleveland.
Collins era giovane, appassionato e carismatico e fece un’ottima
impressione su Pippen: lo vedeva già giocare nella stessa squadra e nello
stesso quintetto con Michael Jordan per dieci anni! Vedeva un brillante
futuro per una squadra giovane, che aveva non uno ma molti anelli davanti
a sé. Non usò la parola dinastia, ma il concetto era quello. Pippen si
entusiasmò: gli piaceva Chicago, gli piaceva Collins e l’idea di giocare con
Michael Jordan era molto attraente. In seguito disse a Sexton che non
voleva più viaggiare o visitare altre città: se possibile, voleva giocare a
Chicago.
A Chicago aveva lavorato con gli allenatori e aveva incontrato anche Al
Vermeil, che si era immediatamente reso conto di quello che aveva visto
Krause. Aveva riconosciuto da subito l’eccezionale fluidità di Pippen. Disse
a Krause che il ragazzo aveva un corpo insolitamente efficiente: era così
elastico che consumava meno energie nella corsa, perché non doveva
spingere forte con i piedi. Più procedevano gli allenamenti più i tecnici
rimanevano sbalorditi. Uno degli esercizi usati dai Bulls per le valutazioni
si chiamava side-to-side: gli allenatori disponevano diversi palloni lungo la
linea dei tiri liberi e il giocatore doveva fare più schiacciate possibile in
trenta secondi. Fra le altre cose, serviva a evidenziare la velocità in avanti e
laterale. I giocatori dei Bulls lo consideravano un esercizio killer. Pippen
batté il loro record: quindici schiacciate. Poi gli chiesero di saltare quattro
volte di seguito e misurarono al computer l’elevazione e l’intervallo fra i
salti: di nuovo una performance eccezionale. In quel periodo pesava
novanta chili e superava i due metri, ma Vermeil era certo che potesse
aggiungere una decina di chili senza perdere in velocità.
Il problema a quel punto era se i Bulls, che avevano l’ottava scelta,
sarebbero riusciti ad aggiudicarselo. A quanto pareva Sacramento era
interessata, e aveva la sesta scelta. Seattle invece non era in lizza perché
cercava un centro, e aveva la quinta e la nona scelta. All’ultimo minuto
Krause riuscì a fare uno scambio, offrendo a Seattle una scelta al secondo
turno del draft e un’amichevole in autunno, che avrebbe attirato una gran
folla grazie alla presenza di Michael Jordan, in cambio della quinta scelta.
In poche settimane Scottie Pippen era passato da una posizione media nel
draft alla quinta scelta a livello nazionale.
Horace Grant fu una sorpresa ancora più grande di Scottie Pippen. Il
primo a notarlo, più per caso che per altro, fu Johnny Bach, il talentuoso
assistente allenatore dei Bulls. Ogni tecnico aveva una serie di video da
esaminare e determinati giocatori universitari da controllare. Bach stava
studiando un certo Joe Wolf, un giocatore di oltre due metri di Carolina che
avrebbe potuto essere il centro di cui avevano tanto bisogno, ma che non gli
piacque: giocava bene ma gli sembrava limitato, spinto più che altro da un
sistema molto forte. Probabilmente nell’NBA avrebbe agito da
manovalanza: a volte quello che un giocatore dava nel campionato
universitario era tutto quello che aveva, anzi poteva anche essere
sopravvalutato. Wolf non sembrava abbastanza veloce e Bach, che aveva
quarant’anni di esperienza nel campo, non era convinto del suo stile. «Vidi
che correva in modo pesante, sforzando molto il corpo, e mi sembrò di
vedere dei danni alla schiena nel suo futuro» commentò in seguito.
Durante la valutazione però vide una partita che Wolf aveva giocato
contro Clemson e fu colpito dal lungo che marcava Wolf, Horace Grant.
Non era grosso e pesante come Wolf ma era snello e forte, e molto veloce.
Si muoveva con un’agilità eccezionale per uno della sua stazza. Aveva un
ottimo istinto da rimbalzista, su entrambi i lati del campo. Evidentemente
non era stato allenato bene come Wolf, pensò Bach, ma aveva un grande
vantaggio: era ancora magro ma aveva le spalle molto larghe, il che
significava che si sarebbe irrobustito: non sarebbe stato un altro Brad
Sellers. Bach chiese altri video a Clemson e alla fine si convinse che Grant
era il giocatore che voleva. Gli altri allenatori guardarono i video e gli
diedero ragione: la decisione fu unanime. Con la presenza di Jordan e
l’arrivo di Pippen, pensavano che un’ala grande veloce come Grant sarebbe
stato un acquisto molto più adatto di Wolf per la squadra che stavano
costruendo. Quando Horace Grant si presentò per il provino, Al Vermeil fu
molto colpito. A quei tempi probabilmente pesava circa novantotto chili,
ma con quelle spalle pensò di poterlo portare anche a centocinque o
centosei senza rallentarlo.
Anche se la prestazione di Grant in alcuni esercizi non fu sbalorditiva
come quella di Pippen, era comunque atleticamente eccezionale per un
giocatore della sua corporatura. Corse i venti metri in 2’’98, un ottimo
risultato per un lungo (qualche anno più tardi, dopo un allenamento
costante, non solo diventò più grosso e forte, ma anche più veloce, e arrivò
a 2’’85). Tutto considerato fu un provino grandioso: Grant si era dimostrato
più veloce di quanto credessero e anche un tiratore migliore delle
aspettative.
Quando arrivò il giorno del draft fu proprio Jerry Krause ad avere le
maggiori difficoltà nel prendere una decisione: era lui quello che rischiava
di più. A un certo punto sembrò che avesse concluso con Grant, poi invece
diede altri segni di tentennamento. Dean Smith spingeva molto per Joe Wolf
e Krause sapeva che anche Michael Jordan lo voleva a tutti i costi. Secondo
Collins era l’ombra di Brad Sellers a pesare sulle spalle di Krause, perché
era stato un’enorme delusione e Krause si era preso un bel po’ di insulti a
causa sua, soprattutto da parte di Jordan. E ora aveva davanti Grant, il cui
corpo non aveva ancora finito di svilupparsi. E se fosse stato un altro
Sellers? Non potevano permettersi di sprecare un’altra scelta. Quando si
aveva una superstar come Michael Jordan c’era una finestra limitata entro
cui agire per circondarlo dei compagni giusti, e la stessa grandezza di
Jordan faceva scivolare la squadra sempre più giù nell’ordine di scelta del
draft.
Il personaggio chiave per l’acquisto di Grant da parte di Krause fu
probabilmente Tex Winter, il membro dello staff tecnico più vicino a
Krause. Winter non si era mai lasciato coinvolgere nelle infinite
schermaglie fra le fazioni della dirigenza e le sue opinioni rappresentavano
la purezza dello spirito del basket, in un certo senso. Il giorno del draft, al
momento della seconda scelta dei Bulls, Krause sembrava propendere per
Wolf. Winter gli disse: «Jerry, tutto lo staff vuole Grant: siamo tutti
d’accordo. Come puoi farci questo?» Era probabilmente l’unico a poter fare
un discorso del genere senza sembrare un traditore. Krause si fece
convincere e prese Grant.
Michael Jordan osservò il processo del draft con una certa diffidenza.
C’erano due giocatori dell’Università della Carolina che avrebbe preferito,
Wolfe come centro e Kenny Smith come guardia (Smith fu scelto subito
dopo Pippen ed ebbe una splendida carriera da professionista). Tutti gli altri
membri dello staff erano in estasi. Il giorno successivo Doug Collins disse a
Jordan: «Michael, non sono certo il tipo che si entusiasma troppo per
l’arrivo dei giocatori universitari, ma credo che questi due faranno davvero
la differenza».
Jordan lo guardò freddamente, come per dire che aveva già sentito quelle
parole. «Staremo a vedere» rispose. Con Krause fu molto più duro. Quando
Krause gli disse che sarebbe stato felice di giocare con Scottie Pippen,
Jordan, chiaramente scettico, ribatté: «Tu sei quello che ha portato anche
Brad Sellers».
I pezzi erano al loro posto, ma serviva altro tempo. I due nuovi acquisti
erano giovani e inesperti, prodotti incompleti. Nessuno dei due era
preparato per la durezza della disciplina in NBA: erano ragazzi di
campagna in una grande città, giovani e improvvisamente pieni di soldi.
Potevano godersi tutti i vantaggi di quel nuovo mondo, la ricchezza, la fama
e la liberazione dall’ambiente asfittico delle piccole città del Sud dove
erano cresciuti. In quel periodo stavano spesso insieme a un giocatore di
nome Sedale

Threatt, il quale aveva un metabolismo incredibile, che gli permetteva di


fare bisboccia tutta la notte e di presentarsi poi agli allenamenti del mattino
fresco ed energico. Pippen e Grant, giovani e impressionabili, non avevano
la stessa fortuna. Krause quindi cedette Threatt a Seattle, in pratica
allontanandolo per proteggere i suoi giovani acquisti.
Lo staff capì di avere a disposizione quasi tutti i pezzi per costruire una
squadra destinata alla gloria, ma anche che non sarebbe stato facile. I Bulls
condividevano la Conference non soltanto con Boston, che cominciava a
mostrare qualche segno di declino, ma anche con Detroit, che dopo diversi
ottimi draft consecutivi era in ascesa e sembrava avere un particolare
dominio psicologico sui Bulls.
Il primo anno di Pippen e Grant – la stagione 1987-88 – fu anche il
principio del nuovo ordine. Per la prima volta tutti i componenti
sembravano a posto e i rami secchi erano stati tagliati. Doug Collins, alla
seconda stagione con la squadra, era un allenatore trascinante. Inoltre era
giovane – quell’estate aveva compiuto trentasei anni – ma poteva contare
sull’esperienza degli assistenti veterani Tex Winter e Johnny Bach. Winter
era un allenatore vecchio stampo, un purista assoluto: a volte si diceva che
preferisse gli allenamenti alle partite perché lì si realizzava una purezza che
mancava nelle competizioni, e perché adorava formare i giovani. Altri
addetti ai lavori, come Bucky Buckwalter di Portland, erano rimasti molto
colpiti dalla mossa di Krause di assumere un allenatore giovane ed
entusiasta come Collins, che era nel mondo del basket da poco, e
consapevole della pressione a cui erano sottoposti i giocatori moderni,
sostenendolo con l’esperienza di Winter e Bach. Nella stessa stagione era
arrivato anche Phil Jackson, come assistente allenatore.
Fu un periodo entusiasmante. Charles Oakley stava sbocciando nel ruolo
di ala grande. John Paxson stava emergendo come partner di alto livello per
Jordan: era l’uomo che poteva mettere a segno un canestro chiave se Jordan
era raddoppiato. Ma c’era ancora molto da fare. Anche se Scottie Pippen
aveva dimostrato la massima abnegazione a Conway, in Arkansas, per gli
standard molto più rigorosi imposti quotidianamente da Michael Jordan
sembrava carente. Grant in allenamento si comportava meglio, ma aveva
enormi difficoltà perché fin dal primo giorno si era messo in competizione
con Charles Oakley per il posto di ala grande titolare.
Jordan era sempre il giocatore più potente della squadra e nessuno si
metteva in mezzo. Una volta, durante il ritiro di preseason del 1989, un
futuro rookie di nome Matt Brust provò a sfidarlo. Era un ragazzo grosso e
robusto della Saint John’s, un metro e novantotto per cento chili, molto
fisico. Erano vari giorni che spadroneggiava per il campo sperando di farsi
notare, se non per il talento almeno per la forza fisica. Durante un’azione
Jordan si lanciò a canestro e Brust lo spinse a terra con violenza. Jordan si
rialzò senza una parola, senza neanche guardarlo. Poco dopo, però, durante
un’altra azione si lanciò contro di lui con la palla nella mano destra, il lato
da cui si avvicinava Brust. All’ultimo secondo Michael passò la palla nella
sinistra e colpì ferocemente la testa di Brust con una gomitata, facendogli
perdere i sensi. Brust restò a terra per diversi minuti e il ritiro per lui finì lì.
Anche se i Bulls avevano ancora molta strada da fare, ogni tanto si
riusciva a intravedere la gloria futura. Uno di questi casi fu un’amichevole
contro i Lakers in preseason. L’anno precedente i Lakers avevano stravinto
contro i Bulls in un’amichevole a Chapel Hill, ma questa volta il punteggio
era stato molto equilibrato. Un altro aspetto interessante fu l’ottima difesa
di Pippen su James Worthy.
Doug Collins lavorò alacremente sia con Pippen che con Grant. Li sfiniva
ogni giorno per migliorare il loro gioco e per fagli accettare la vita
nell’NBA: dovevano capire che per vincere a quel livello era necessaria una
dose di impegno e professionalità che non avevano neanche lontanamente
raggiunto. A volte avevano l’impressione che fosse sempre accanto a loro,
che la sua voce li incitasse costantemente, spingendoli a dare sempre di più
e a crescere, sia in campo che fuori. Dovevano capire che se si trovavano su
un volo di linea e la hostess chiedeva loro di allacciare le cinture, dovevano
semplicemente allacciare le cinture ed evitare di fare battute. Dovevano
imparare a soffrire ogni giorno, e non era una lezione facile. Una volta, alla
vigilia di una partita importante, Grant sembrava volersi chiamare fuori per
un mal di testa e Michael Jordan gli disse – in modo da farsi sentire in tutto
lo spogliatoio – che forse doveva prendere una pastiglia per l’emicrania. In
un’altra occasione, durante una partita contro Denver, che a quei tempi era
una squadra forte, Pippen si lamentò di un dolore alla mano e Collins cercò
di spingerlo a giocare comunque. Pippen non se la sentiva. «E se finissi per
non vedere più la palla e marcare tutto il tempo Alex English?» gli chiese
Collins. Alla fine, Pippen decise di non giocare, ma Collins gli fece capire
chiaramente che considerava la sua scusa inadeguata e che aveva dato una
delusione sia a lui che alla squadra.
Anche Collins proveniva da un ambiente povero e si era impegnato al
massimo per diventare una star dell’NBA. La spinta, oltre al suo grande
talento, gli veniva dalla passione per il gioco. All’Università dell’Illinois
era stato allenato da un uomo di nome Will Robinson, che riconoscendo la
vulnerabilità del suo protetto, così magro e poco muscoloso, lo aveva spinto
a costruirsi la potenza fisica adatta a sostenere il suo talento e a garantirgli
l’ingresso nella Lega. Gli aveva fatto prendere lezioni di boxe ogni giorno
prima degli allenamenti, e gliene aveva spiegato il motivo: «Io credo che
riuscirai a entrare in NBA e quando sarai là, troverai persone che vorranno
il tuo posto. Molti di loro saranno più grossi e più forti di te. Quindi ti
staranno addosso e ti aggrediranno, e se tu non ti difenderai ti infileranno
una mano nel petto e ti prenderanno il cuore, e dopo averti preso il cuore ti
toglieranno anche la capacità di saltare».
Quella era la determinazione che Collins cercava di passare ai suoi
ragazzi, e sembrava che ci riuscisse. I progressi della squadra erano
evidenti: quell’anno vinsero cinquanta partite, ma era durante gli
allenamenti che si percepiva più chiaramente il miglioramento in atto. Più
tardi Collins commentò: «I primi segnali della squadra che sarebbero
diventati si videro negli allenamenti del primo e del secondo anno». I duelli
interni erano fenomenali: Oakley contro Grant, Jordan contro Pippen. Il
primo scontro era più come una guerra, perché ci sarebbe stato un solo
vincitore, e il secondo come una lezione, perché Jordan aveva interesse a
fare in modo che Pippen avesse successo, mentre Oakley non poteva dire lo
stesso per Grant. Se Pippen migliorava le sue prestazioni, Jordan avrebbe
ottenuto un compagno di squadra di alto livello, se invece Grant avesse
espresso al meglio il suo potenziale, Oakley avrebbe potuto perdere il posto
in squadra. Oakley era più grosso e più forte, e aveva una dedizione
ammirevole, mentre Grant era palesemente più veloce e più atletico, e i suoi
tiri erano migliori. Il vero punto di forza di Oakley, però, era la sua
determinazione a distruggere qualsiasi ostacolo, sia in partita che in
allenamento. Dopo il quarto giorno di allenamenti in preseason nell’anno
del suo esordio, Grant andò in sala pesi a parlare con Vermeil, per
chiedergli di creare un allenamento personalizzato per guadagnare peso e
forza. Aveva capito dalle batoste prese in allenamento che non sarebbe
riuscito a esprimere il suo talento se non si fosse irrobustito. «Devo
assolutamente diventare più forte» disse a Vermeil.
Il rapporto fra Jordan e Pippen era molto diverso, somigliava più a quello
fra insegnante e allievo. Jordan riconosceva il talento grezzo di Pippen e
sapeva che il compagno non aveva avuto i vantaggi di cui aveva goduto lui
grazie alla ricchezza di Carolina. Si impegnò non solo per lavorare sugli
esercizi di base ma anche per insegnare a Pippen la determinazione richiesta
dall’NBA (esisteva comunque una giocata che Pippen riusciva a fare e
Jordan no: se entrambi partivano da dietro la linea di fondo, sotto canestro
con la palla in mano e saltavano in campo, Pippen riusciva a schiacciare
con la sinistra prima ancora di toccare terra, e Jordan no. Secondo Johnny
Bach forse il motivo stava nelle mani leggermente più grandi di Pippen).
Più Jordan vedeva che Pippen faceva sul serio, più era portato a investire
su di lui. Ci volle del tempo, perché Jordan inizialmente non era sicuro della
determinazione del compagno, del fatto che lui e Grant avrebbero dato tutto
in campo. Erano compagni di squadra, legati dal talento, ma non erano veri
amici: la distanza sociale era ancora troppo grande. Jordan aveva una
sicurezza innata in ogni aspetto della vita, dentro e fuori dal campo, mentre
Pippen era spesso preda di indecisioni, portava ancora chiaramente i segni
della povertà.
A poco a poco però i due si avvicinarono: Jordan sempre meno diffidente
riguardo al compagno e Pippen sempre più disponibile ad accettarlo, se non
come maestro, almeno come modello. Collins li vedeva sempre più spesso
insieme dopo gli allenamenti mentre lavoravano sui tiri in sospensione o
mentre Jordan insegnava a Pippen i fondamentali, come le mosse per
spezzare un raddoppio o per spostarsi lungo la linea di fondo quando era
marcato. Anni dopo, avendo assistito al continuo miglioramento di Pippen
anche dopo aver vinto gli anelli, Collins si rese conto che in un certo senso
Michael Jordan, lavorando con un giocatore che possedeva un livello di
fame e di talento che nessuno di loro aveva compreso appieno, aveva
virtualmente clonato se stesso. Il giocatore che scendeva in campo insieme
a Jordan, al culmine della carriera, avrebbe potuto benissimo provenire dal
vivaio di Dean Smith a Carolina.
In quei primi due anni, secondo Collins, l’aiuto più efficace gli era venuto
dalla presenza stessa di Jordan agli allenamenti, dall’esempio che dava
quotidianamente lavorando più di tutti e non accettando che gli altri si
risparmiassero in nessun modo. Era il sogno di ogni allenatore, perché oltre
a fornire un modello univa la propria voce a quella di Collins. Collins
sapeva che a volte rischiava di lasciarsi trasportare ed era consapevole del
rischio di esagerare con le continue correzioni, che alla lunga avrebbero
minato la sua autorità sui giocatori più giovani, che avrebbero smesso di
ascoltarlo. Il fatto che la maggior parte delle indicazioni venissero quasi
inconsapevolmente da parte del miglior giocatore della squadra permetteva
a lui di concentrarsi soltanto su uno o due elementi principali per ogni
sessione.
Ogni giorno, dopo gli allenamenti, Collins lavorava per venticinque
minuti sui tiri in sospensione di Jordan e poi su quelli di Pippen. Poi le
guardie si portavano a un’estremità del campo e si sfidavano uno contro
uno. Erano sfide molto accese: Jordan, Pippen e Paxson si scontravano, si
tiravano in faccia a vicenda e scommettevano anche soldi. Jordan si
divertiva un mondo. Per Pippen fu una rivelazione: non si era mai trovato in
un ambiente tanto competitivo e quell’atmosfera stava cominciando a
coinvolgerlo.
Jordan amava scommettere su qualsiasi cosa e lo faceva su ogni partita di
Horse uno contro uno. Chiamava quelle sessioni ‘The Pigeon Club’, il club
del piccione. Dopo l’allenamento si portava le mani alla bocca e faceva il
verso del piccione, il richiamo per i suoi piccioncini che dovevano
presentarsi, sfidarlo e quasi certamente perdere dei soldi. Di solito si
trattava di piccole somme, al massimo $100 in un giorno, ma dava un po’ di
pepe al gioco.
Una volta Jordan era leggermente infortunato e non partecipò agli
allenamenti, ma li osservò dall’ufficio di un allenatore e anche in quel caso
decise di scommettere sulle sfide one to one. Quel giorno Horace Grant, che
era un tiratore incredibile, non conosceva rivali. Era davvero ispirato: prima
annientò le guardie e poi asfaltò Pippen. Jordan restò seduto nell’ufficio con
un sorrisetto divertito guardando Grant che si esaltava sempre di più. Alla
fine, quando Grant sconfisse Pippen e raggiunse la vetta, Jordan entrò in
campo con disinvoltura e in tono innocente chiese a Grant se voleva giocare
a Horse. Aveva aspettato come un cobra acciambellato, pronto a ghermire il
coniglietto. Propose una sfida secca, in cui il vincitore avrebbe preso tutto, e
naturalmente Grant, sicuro che fosse la sua giornata, accettò la scommessa.
Seppur infortunato, Jordan lo sconfisse facilmente.
Michael Jordan aveva sempre bisogno di vincere tutto. A quei tempi,
quando ancora viaggiavano sui voli di linea, a volte ammazzavano i tempi
morti in aeroporto giocando a Pac-Man. Per un po’ Dave Corzine, che
portava sempre con sé una bella scorta di monetine, era stato considerato il
campione indiscusso. Poi però Jordan cominciò ad allenarsi a casa e
migliorò fino a poterlo battere.
Nei primi tempi a Chicago, Jordan aveva comprato un tavolo da ping
pong per la sala giochi del suo appartamento. All’inizio non era molto
bravo e si infuriava quando perdeva contro Howard White, l’ambasciatore
della Nike che era diventato un suo caro amico. Anche Charles Oakley era
bravo a quel gioco e Jordan non sopportava che entrambi potessero batterlo
a casa sua. White si divertiva a guardare Oakley e Jordan, due uomini
giganteschi, che giocavano a ping pong in quella stanzetta dal soffitto
basso, satura di competitività fino a scoppiare. White aveva imparato che se
battevi Jordan a ping pong, poi dovevi continuare a giocare finché non
vinceva lui.
Richard Dent, il famoso difensore dei Chicago Bears, fece amicizia con
Jordan che ovviamente volle sfidarlo. A Dent piaceva andare in bicicletta e
un giorno Jordan lo sentì dire, per caso, che aveva appena fatto cinquanta
chilometri. Qualche settimana dopo, quando atterrò alle Hawaii dal
Giappone, Jordan si alzò dopo due ore di sonno, chiamò Howard White e
gli disse che voleva fare un giro in bicicletta. «Quanti chilometri vuoi
fare?» gli chiese White. «Cinquanta» rispose Jordan. Mio Dio, pensò
White, vuole sfidare sia me che Richard Dent.
Lo sport che lo irritava di più era il tennis. In teoria, data la sua velocità, i
suoi riflessi e la sua potenza, avrebbe dovuto essere un buon tennista,
invece quel gioco continuava a sfuggirgli, forse perché aveva cominciato
tardi. Howard White, nonostante i problemi alle ginocchia, lo batteva
regolarmente facendolo correre per tutto il campo. Il gioco preferito di
Jordan sarebbe diventato il golf.
Una volta, quando ancora i Bulls si spostavano sui voli di linea,
arrivarono a Portland per una partita contro i Trail Blazers. Come a volte
accadeva, gli addetti ai bagagli salirono sull’aereo dopo l’atterraggio perché
avevano saputo che Jordan era a bordo e volevano incontrarlo, stringergli la
mano e magari ottenere un autografo. Quella volta Mark Pfeil, il
preparatore atletico, vide che Michael prendeva dalla tasca una banconota
da $50 e la consegnava a uno di loro. «Michael» gli disse, «non ce n’è
bisogno. Sono io che mi occupo delle mance».
«Mark, stai a vedere» rispose Jordan. Pfeil lo seguì al ritiro bagagli e vide
i giocatori radunati davanti al nastro rotante. Vide che Michael Jordan
prendeva una banconota da $100 e la posava sul bordo. Aveva scommesso
con i compagni su quale borsa sarebbe uscita per prima e naturalmente fu la
sua. Guadagnò circa $900 e alla fine guardò Pfeil con un enorme sorriso:
«Non male per un investimento di cinquanta dollari».
Non solo aveva bisogno di vincere, doveva vincere, a tutti i costi. Quando
si allenavano contro la seconda squadra, guidata da Johnny Bach, Jordan gli
chiedeva chi lo avrebbe marcato. Bach nominava una delle riserve e diceva
che quel giorno lo avrebbe distrutto. Alla fine della partita, dopo aver
ovviamente stravinto, Jordan tornava da lui con un sorriso: «Non è andata
proprio come pensavi, vero Johnny?»
L’unico vero litigio fra Jordan e Doug Collins in quei primi due anni ebbe
luogo durante un allenamento nella seconda stagione di Collins e riguardò,
assurdamente, il punteggio di una partitella fra compagni di squadra. Si
arrivava ai sette e a un certo punto Jordan disse che il punteggio era di
cinque a quattro, mentre a Collins risultava cinque a tre. «Ti stai
sbagliando!» gridò rabbiosamente Jordan. La lite si fece incredibilmente
accesa e nella palestra scese un silenzio improvviso intorno alla grida dei
due uomini, un giovane allenatore che sbraitava contro la superstar della
sua squadra, che a sua volta non si opponeva mai agli allenatori.
«Avresti avuto il coraggio di dire queste cose a Dean Smith?» chiese
Collins a un certo punto, e Jordan disse di no. Fu un colpo al cuore e se
possibile lo fece infuriare ancora di più. All’improvviso si avviò verso
l’uscita del campo. «Me ne vado» disse.
«Michael, per oggi non abbiamo ancora finito» disse Collins.
«Devo uscire di qui» rispose Jordan. Tim Hallam, l’addetto stampa, che
era presente, vide Michael Jordan, il giocatore più ligio agli allenamenti che
chiunque avesse mai visto, prendere la borsa e allontanarsi a grandi passi.
«Michael, non puoi andartene così» gli disse.
«Stai a vedere» rispose lui, e se ne andò.
Non se ne parlò più e il giorno successivo Michael si presentò agli
allenamenti. Collins decise di lasciar perdere e probabilmente fu la scelta
migliore. Due giorni dopo, però, stava chiacchierando con i giornalisti dopo
l’allenamento e uno di loro gli chiese se avesse parlato con Jordan. «No, ma
so che Michael mi vuole bene» rispose lui. Proprio mentre lo diceva vide
Jordan che usciva dagli spogliatoi. «Michael» gli disse, «vuoi venire a
darmi un bacio, per mostrare a tutti quanto mi vuoi bene?» Jordan lo fece e
l’incidente fu chiuso.
I Bulls erano in ascesa, stavano completando la transizione da squadra
ambiziosa che gli avversari potevano sottomettere facilmente – cioè una
squadra con un grande giocatore a cui si potevano concedere anche 40 o 50
punti a partita ma che alla fine veniva sconfitta – a squadra in grado di
vincere metà delle partite a, finalmente, una squadra che nel primo anno di
Pippen e Grant vinse cinquanta partite e fu al livello delle migliori. Era una
formazione giovane e piena di talento. Mancava ancora un centro, ma in
Jordan, Pippen e Grant gli addetti ai lavori vedevano tre dei migliori
giocatori in circolazione. Inoltre, con la politica degli scambi Krause aveva
messo da parte un bel po’ di scelte nel draft e c’era ragione di credere che in
futuro avrebbe scovato giocatori ancora più bravi.
Più la squadra migliorava, però, più Krause mostrava il bisogno di
maggiori riconoscimenti. Cominciava a parlare sempre più spesso
dell’importanza della dirigenza, a dire che erano i dirigenti a vincere gli
anelli, non soltanto giocatori e allenatori. Diventò un tema ricorrente per
lui. Per uno che era il general manager della squadra in cui giocava Michael
Jordan era piuttosto strano: l’organizzazione era molto più importante nel
baseball e nel football americano che non nel basket, dove i giocatori erano
pochi e dove il campionato universitario faceva le veci delle leghe minori.
Naturalmente Jordan ne fu infastidito e in seguito anche David Falk
cominciò a dare segni di insofferenza. Fra l’altro significava che Jerry
Krause si considerava un elemento importante quanto Michael Jordan per il
successo dei Bulls, e non era una convinzione fra le più sagge. Questo tipo
di atteggiamento, che sminuiva l’importanza dei giocatori, minacciava di
ripercuotersi sulle negoziazioni future.
Ne 1988 David Falk, Jerry Reinsdorf e Jerry Krause cominciarono a
lavorare sul secondo contratto di Michael Jordan. Jordan era senza dubbio il
miglior giocatore in campo e aveva reso la squadra immensamente ricca,
ma le trattative si trascinarono con esasperante lentezza, anche se Falk e
Reinsdorf andavano molto d’accordo. Per via dell’omonimia con Reinsdorf,
durante le trattative Krause fu chiamato Jake. Falk insistette a lungo su
quello che Jordan aveva fatto per i Bulls, sull’aumento esponenziale degli
abbonamenti, sulla crescita dei prezzi di ogni cosa – biglietti, licenze,
parcheggi – sui ricchi contratti radiofonici e televisivi ottenuti dai Bulls.
Grazie a Jordan, secondo Falk, i Bulls guadagnavano circa 40 milioni di
dollari in più all’anno. Quindi perché la dirigenza esitava a concedergli i 4
milioni richiesti? (A quei tempi il compenso ottimale, sia in termini di entità
che di durata, era considerato quello decennale di Magic Johnson per 25
milioni di dollari, che Jerry Buss aveva ottenuto in sostituzione del
precedente accordo a lungo termine di un milione all’anno per venticinque
anni). «Guardate quello che ha fatto per voi!» continuava a ripetere Falk.
Poi Krause saltò su e disse: «Senti, David, ammettiamo che Michael sia
un ottimo giocatore di basket. Ma quali sono i meriti della dirigenza?
Quanto conta per te il fatto che quest’anno abbiamo avuto sei impiegate in
più per gestire le prenotazioni degli abbonamenti? E il fatto che in ufficio
abbiamo molto più personale amministrativo? E il fatto che Doug Collins
sta sveglio fino a mezzanotte a studiare strategie e valutare video? E il fatto
che in questo momento Billy McKinney probabilmente è in aereo diretto in
Alaska oppure alle Hawaii alla ricerca di nuovi talenti?»
«Jake, lo sai quanti meriti ti attribuisco? Zero. E adesso, di che cosa vuoi
parlare?» disse Falk.
Krause fece per ribattere, ma Reinsdorf lo fermò. «Taci, per favore» gli
disse. Poi si rivolse a Falk: «Senti, riconosco che Michael è il miglior
venditore di biglietti della storia dello sport, ma non ho intenzione di
pagarlo 4 milioni all’anno. Non esiste proprio».
Però gliene offrì 3 e alla fine si accordarono per un contratto a lungo
termine che in quel momento era il migliore di tutta la Lega: otto anni per
26 milioni, una media di 3,25 milioni all’anno. A Falk piaceva rimarcare
che il suo cliente guadagnava il 30% in più di Magic Johnson. Quando fu il
momento di dare l’annuncio, però, Krause volle avere l’ultima parola:
avrebbero reso pubblica la durata (che dimostrava l’abilità dei Bulls nel
tenere legato Jordan a loro per lungo tempo) ma non l’entità del compenso,
che forse avrebbe dato l’impressione che i Bulls avessero ceduto troppo.
Falk insistette ancora: non era giusto dichiarare che Jordan era bloccato per
quello che avrebbe anche potuto essere tutto il resto della sua carriera, senza
dire che era il giocatore meglio pagato della Lega. Alla fine intervenne di
nuovo Reinsdorf: «Jake, David ha ragione: scegli una delle due opzioni».
Falk pensava che la conferenza stampa sarebbe stata un evento storico,
che Reinsdorf avrebbe dichiarato che la squadra si era assicurata il miglior
giocatore della Lega probabilmente per l’intera carriera. Invece Krause si
alzò e disse di avere un annuncio da fare, e che avevano confermato uno dei
loro migliori giocatori, Michael Jordan, per un periodo molto lungo. Mio
Dio, pensò Falk, stanno mandando tutto all’aria, sembra che parlino di una
riserva qualsiasi. Quando Krause chiese se ci fossero domande, un
giornalista gli domandò: «Jerry, perché avete deciso di firmare con Michael
per otto anni?» «Forse non stavi ascoltando» rispose Krause, «non ho mai
detto che si tratta di otto anni». «È, vero, ma c’è scritto sul vostro
comunicato stampa» rispose l’altro. Quella conferenza stampa faceva
presagire il futuro: più la squadra migliorava, più difficili sarebbero state le
trattative sui contratti.
18
Detroit, anni ottanta

Purtroppo per i Bulls, c’era un’altra squadra che aveva raggiunto l’apice un
po’ prima di loro e che aveva cominciato a sfidare l’egemonia dei tanto
decantati Celtics di Bird, McHale e Parish. Erano i Detroit Pistons guidati
da Isiah Thomas, Bill Laimbeer e Adrian Dantley. Erano una squadra molto
fisica (più tardi furono soprannominati ‘The Bad Boys’, i cattivi, cosa che
mise piuttosto a disagio diversi dirigenti dell’NBA) e giocavano in modo
aggressivo, sfidando la natura stessa dell’arbitraggio del basket. «Detroit
era il nostro albatros» disse una volta Johnny Bach, l’assistente allenatore
dei Bulls. Se non battevano Detroit, i Bulls potevano scordarsi le Finals.
I Pistons erano esplosi qualche anno prima dei Bulls, grazie all’abilità del
general manager Jack McCloskey e del suo intimo amico, l’allenatore
Chuck Daly. Quando i Bulls cominciarono a elevare il proprio livello di
gioco scoprirono che i Pistons erano un passo avanti a loro e che erano un
po’ più uniti, un po’ più profondi, un po’ più fisici e un po’ più determinati
e focalizzati nel gioco. Nella stagione 1987-88 i Bulls avevano innestato
due giocatori eccezionali in un nucleo debole, ma l’anno precedente i
Pistons avevano aggiunto John Salley e Dennis Rodman a un nucleo forte.
L’ombra che si allungava sul Chicago Stadium mentre i Bulls cominciavano
a risalire la china non era quella di Larry Bird e dei Celtics, o di Magic
Johnson e dei Lakers, ma quella di Isiah Thomas e dei Pistons.
L’ascesa dei Pistons era iniziata nel 1981, quando avevano acquistato
Isiah Thomas dall’Università dell’Indiana con la seconda scelta a livello
nazionale. Era piccolo – registrato come uno e ottantacinque, ma forse in
realtà qualche centimetro in meno – immensamente dotato, geniale, e non
conosceva la paura. Se fosse stato alto due metri, dichiarò il portavoce della
squadra Matt Dobek, sarebbe stato Michael Jordan. In quel draft Dallas
aveva la prima scelta, ma Thomas aveva cercato di alienarsi la dirigenza
durante una visita preliminare dichiarando che non era particolarmente
entusiasta di giocare per loro: per usare le sue immortali parole, non gli
interessavano «quelle stronzate da cowboy». Lo stratagemma aveva avuto
l’effetto voluto e i Mavericks, davanti a quel rifiuto, scelsero Mark Aguirre.
Se Thomas non avesse spaventato Dallas e se i Pistons avessero scelto
Aguirre – un giocatore di talento, ma non eccezionale – i Pistons non
avrebbero mai raggiunto la vetta.
Thomas aveva cercato di convincere anche la dirigenza di Detroit a non
sceglierlo, ma Jack McCloskey lo aveva studiato molto accuratamente e
aveva capito che era il tipo di guardia intorno a cui si poteva costruire
un’intera squadra. «Ma io non voglio giocare qui» aveva detto Thomas a
McCloskey in occasione del loro primo incontro. «Io voglio andare a
Chicago».
«Beh, Isiah» gli aveva risposto McCloskey, «questo non ha importanza,
perché noi ti sceglieremo e tu verrai a giocare qui».
«Avete in squadra anche qualcuno a cui io possa passare la palla?» gli
aveva chiesto Thomas.
«Ti troverò i compagni giusti» gli aveva promesso il general manager.
Avevano intuito chiaramente le sue fantastiche potenzialità, era il raro
giocatore piccolo che grazie alla propria intelligenza, alla leadership in
campo e all’abilità da tiratore sarebbe riuscito a dettare il ritmo di qualsiasi
partita. Era veloce, leggero e affascinante, una gemma estratta dal cuore del
ghetto di Chicago, il prodotto di un quartiere e di una famiglia in cui anche
troppi coetanei erano caduti nella spirale della droga e le possibilità di
raggiungere un qualsiasi tipo di successo sembravano infinitesimali. Forse
proprio a causa dell’ambiente estremamente difficile in cui era cresciuto,
aveva una fisicità inarrivabile per un giocatore della sua corporatura. E poi
c’era l’intelligenza, abbacinante. «È più intelligente di tutti quanti noi messi
insieme» amava ripetere Daly.
Quello che non avevano colto era la sua fame di successo, il suo raro
carisma e infine l’incredibile impatto della sua forza di volontà, quando la
dirigeva sulle persone che aveva intorno.
Alla prima conferenza stampa, Thomas dichiarò che voleva portare i
Pistons a competere al livello dei Celtics e dei Lakers, e diversi dei presenti
gli risero apertamente in faccia. Il primo giorno di allenamenti con la
maglia dei Pistons si scontrò con Ronnie Lee, un giocatore molto fisico,
noto per la violenza che usava contro gli attaccanti più famosi. Lee gli fu
addosso fin dall’inizio, con blocchi continui, e continuò così finché Thomas
non si girò verso di lui e gli disse: «Fallo un’altra volta e ti prendo a pugni».
La cosa finì lì. Sarebbe stata una bella scazzottata, pensò McCloskey
osservando da bordocampo.
Thomas contribuì a creare la cultura dei Pistons, anche se quando lo
avevano scelto nel draft era rimasto sbalordito. Proveniva da Indiana State,
una delle università con il più solido programma di basket dell’intero Paese,
e aveva giocato con Bobby Knight, uno degli allenatori più esigenti in
circolazione. Era abituato all’eccellenza e alla tradizione, e a ricevere
pesantissimi rimproveri se non si adeguava a standard inarrivabili. I Pistons
non avevano nulla di tutto questo: né identità né tradizione né cultura, e a
quanto pareva neanche uno scopo preciso. Thomas non aveva nessuna
intenzione di andare avanti così e già dall’anno dell’esordio cominciò ad
assistere a tutte le finali di NBA, per studiare le squadre che ci arrivavano e
capire che cosa avevano di diverso, il segreto che le rendeva vincenti. Non
era facile scoprire quei segreti. Magic Johnson era forse il suo più caro
amico all’interno del basket professionistico e giocava nei playoff ogni
anno, ma quando Isiah andò a trovarlo durante le Finals gli disse
bruscamente: «Non sarò io a dirti che cosa ci vuole per vincere a questo
livello, dovrai impararlo da solo».
Che cosa ci voleva per arrivare ai playoff? E per vincerli? Oltre che con i
professionisti del basket parlò anche con quelli del football americano,
come Al Davis e Chuck Noll. Cominciò a capire che occorreva uno scopo
ultimo, un obiettivo comune a cui ognuno contribuisse con tutte le proprie
forze, l’unanimità sull’assoluta necessità della vittoria. I giocatori dei
Celtics che provenivano da altre squadre e che in precedenza si
preoccupavano soltanto delle statistiche personali avevano cambiato
atteggiamento una volta arrivati a Boston. Anche loro avevano cominciato a
sacrificare i propri risultati per il bene della squadra e avevano accettato il
proprio ruolo, per quanto limitato. Thomas concluse che le squadre vincenti
si consideravano sempre come un’entità separata, che si opponeva al resto
del mondo. Se non avevano nemici che cercavano di defraudarli di ciò che
era loro di diritto, se li inventavano per riuscire a lanciarsi verso l’obiettivo.
Per la prima stagione di Thomas i Pistons, grazie a uno di quegli scambi
interni all’NBA che nessuno prendeva troppo seriamente, presero un centro
proveniente da Cleveland, un giocatore di nome Bill Laimbeer che
sembrava destinato a diventare al massimo una riserva di modesto livello.
Nessuno lo considerò un acquisto epocale, né si rese conto che Laimbeer
sarebbe stato un elemento cruciale per la costruzione di una squadra da
anello. All’università aveva giocato a Notre Dame e quando McCloskey lo
aveva visionato ai provini per le Olimpiadi del 1980 lo aveva trovato
addirittura ridicolo, lento e impacciato, quasi completamente privo di
sensibilità per il gioco. Poi Laimbeer era andato in Europa a perfezionarsi.
Al ritorno negli Stati Uniti era approdato a Cleveland, dove giocava come
riserva di James Edwards (che in seguito sarebbe diventato la sua riserva).
McCloskey, incontrandolo nelle sue ricognizioni fra i giocatori della Lega,
si stupì di trovarlo così cambiato. Era un ottimo tiratore e anche se, come
diceva Chuck Daly, non si staccava mai più di cinque centimetri da terra,
era diventato sorprendentemente abile come rimbalzista perché sapeva
sempre come posizionarsi al meglio. Come centro aveva dei limiti, ma era il
meglio che i Pistons avevano a disposizione. McCloskey e Daly convennero
che un centro in grado di segnare punti e prendere rimbalzi, anche se lento,
era comunque una bella scoperta. Si potevano usare dei giocatori più veloci
per proteggerlo in difesa. Così Detroit concluse lo scambio.
Una delle prime cose che McCloskey e Daly notarono in lui fu che
sembrava avere pochissima passione per il basket in sé: Daly dubitava
addirittura che gli piacesse giocare. In allenamento era terribile e prima
delle partite, quando veniva filmato, lo si sentiva spesso lamentarsi con
Mike Abdenour, il preparatore atletico, del livello di fatica mentale che
doveva sopportare, come se giocare un’altra partita fosse troppo per lui. Era
il primo a lasciare la palestra dopo gli allenamenti quotidiani e non si
fermava mai, come facevano quasi tutti gli altri, per esercitarsi ancora un
po’ ai tiri.
Però aveva uno spirito molto competitivo e se non gli piaceva il gioco in
sé, gli piaceva la sfida che comportava. L’assistente allenatore dei Pistons,
Dick Harter, a volte pensava che perseguisse una missione personale, quella
di dimostrare a tutti che non era soltanto l’ennesimo centro dalla pelle
bianca, grosso, lento e tutto sommato sostituibile, ma che sapeva giocare al
massimo livello della Lega. Voleva cancellare lo stigma di aver militato in
un girone più basso del basket professionistico. La scelta di Laimbeer fu la
seconda di una serie di mosse che in sette anni avrebbe guadagnato a
McCloskey la fama di stratega di prim’ordine, poiché aveva trovato tanti
pezzi diversi che presi singolarmente sembravano non soltanto di poco
valore ma anche stranamente eterogenei, eppure sommati insieme avevano
dato un risultato superlativo.
Laimbeer non era una persona facile da gestire. Era una specie di bullo, a
parole fuori dal campo e nei fatti durante il gioco e gli allenamenti. Era
volutamente maleducato con i giornalisti che accedevano agli spogliatoi dei
Pistons e quando, prima di una partita, si avvicinava il momento in cui
dovevano uscire, cominciava con il conto alla rovescia: «Cinquanta secondi
all’uscita dei media… trenta secondi all’uscita… e adesso fuori, tutti i
giornalisti fuori». Giocava sporco e lo sapeva: dati i suoi limiti fisici era
l’unico modo a sua disposizione per restare nella Lega. A volte dopo una
partita si vantava delle sue bravate, i colpi bassi che aveva messo a segno
impunemente e il modo in cui aveva fatto perdere le staffe a un giocatore
più dotato, come per esempio Parish o Abdul-Jabbar. «È un gioco mentale,
non fisico» ripeteva. Nella maggior parte dei palazzetti era detestato dai
tifosi avversari e molti giocatori delle altre squadre lo odiavano
cordialmente: erano convinti che fosse capace di infliggere danni che
potevano mettere fine a una carriera se solo gli fosse tornato utile, e che lo
avrebbe fatto con totale disinvoltura, soltanto per quella che appariva come
cattiveria innata.
Avere a che fare con lui non era facile nemmeno per gli allenatori e i
compagni di squadra. Spesso sembrava insolitamente viziato. Rispondeva
male agli allenatori, perfino a Daly che gli aveva offerto la sua grande
occasione, e nel continuo scontro fra tecnico e giocatori non solo non lo
sosteneva mai, ma spesso gli si contrapponeva apertamente. Daly non ne
faceva un dramma: Laimbeer era semplicemente fatto così. Quanto ai
compagni, negli spogliatoi era spesso brusco e sbandierava le sue posizioni
conservatrici. Se qualcuno gli faceva notare il modo antipatico con cui li
trattava, rispondeva: «Non ho intenzione di restare amico di quella gente
quando avrò finito qui dentro». La sua mancanza di educazione e cortesia
infastidiva allenatori e compagni, ma lo sopportavano perché giocava
sempre al massimo e in campo era molto intelligente.
Durante il primo ritiro Laimbeer e Thomas divisero la camera e Thomas
si rese conto che il compagno non poteva essere più diverso da lui: alto,
bianco, proveniente dall’alta borghesia. Il padre era a capo di un’azienda e
quindi per un certo periodo si disse che Laimbeer era uno dei rari giocatori
dell’NBA che guadagnava meno del proprio padre. Era repubblicano e ateo
mentre Thomas era cresciuto nel ghetto, era nero, democratico e
profondamente religioso (il suo nome completo era Isiah Lord Thomas III).
In qualche modo però trovarono un terreno comune. Quello che Thomas
apprezzava di Laimbeer era la passione: era convinto delle proprie idee
politiche e votato alla vittoria. Decise che potevano diventare amici,
dividere la stanza in trasferta e formare la struttura portante della nuova
cultura vincente dei Pistons. Dick Harter più tardi notò che la loro sinergia
aveva portato una cosa ai Pistons: «La potenza dei due giocatori più
intelligenti di tutti i tempi. Quello che avevamo non era semplicemente la
determinazione, da sola non sarebbe bastata. Quello che avevamo era
un’incrollabile determinazione e un nucleo di intelligenza eccezionale».
A poco a poco si aggiunsero gli altri pezzi, anche se a Thomas sembrò un
processo insopportabilmente lento. Dato che nei primi anni non aveva
compagni validi, aveva sviluppato una tendenza a tirare più spesso di
quanto volesse l’allenatore (nel secondo anno tirò oltre millecinquecento
volte, quasi trecento in più di quanto avrebbe fatto nelle stagioni vincenti
dei Pistons). Daly lo spingeva a passare di più il pallone ma il suo
problema, lo stesso che avrebbe avuto Michael Jordan più tardi a Chicago,
era che non si fidava dei compagni, e non aveva torto. In due occasioni la
delusione della sconfitta fu tale che pensò di mollare. Una volta il
preparatore atletico, Mike Abdenour, chiamò Daly per dirgli di andare a
parlare con Isiah, che Zeke era in camera sua, talmente depresso che voleva
abbandonare il basket. «E cosa farai se te ne vai?» gli chiese Daly. «Tornerò
all’università e prenderò la laurea in criminologia» rispose Thomas.
«Dovrai seguire anche un Master?» chiese Daly. Thomas non lo sapeva per
certo. «E quanto guadagnerai?» chiese ancora Daly. Thomas non sapeva
neanche questo. Però era sicuro di un’altra cosa: «Non sopporto più di
perdere. Non posso giocare altre partite come questa». Quella sera Daly non
insistette e si limitò a consigliare a Isiah di pensarci bene e di prendersi un
paio di giorni per decidere, sapendo che la stessa forza che lo aveva spinto
alla disperazione, la passione per la sfida e la vittoria, lo avrebbe trattenuto,
e che la delusione e lo sconforto erano l’altro lato dell’amore per il basket e
del bisogno di eccellere.
Un altro acquisto importante per i Pistons fu Vinnie Johnson, una grossa
guardia tiratrice dal fisico compatto che arrivò in seguito a uno scambio con
Seattle. Proveniva dalla Baylor ed era stato scelto relativamente presto nel
primo turno del draft, ma dato che i SuperSonics a quei tempi avevano già
molte guardie, come Gus Williams, Dennis Johnson e Fred Brown, non era
riuscito a giocare tanto quanto probabilmente avrebbe meritato. E poi
Seattle voleva un’ala di nome Greg Kelser. Così Vinnie Johnson si unì ai
Pistons e dimostrò la stessa passione di Thomas e Laimbeer per la vittoria. I
Pistons fecero un balzo di rispettabilità e passarono da ventuno a trentanove
vittorie. Poi ci fu un periodo apparentemente piatto. A metà degli anni
ottanta cominciarono a fare le mosse che avrebbero cementato la squadra.
La prima, forse la più cruciale, fu la scelta nel draft di Joe Dumars, da
McNeese

State. Era grosso, sapeva tirare ed era un buon difensore. Era proprio quello
che serviva come guardia al fianco di Thomas: un buon giocatore sia in
attacco che in difesa.
Quell’anno i Pistons aggiunsero un altro pezzo cruciale, Rick Mahorn,
che improvvisamente li trasformò in una squadra più fisica e focalizzata.
Mahorn era grosso e forte, e pur non essendo particolarmente dotato era un
giocatore che gli allenatori adoravano perché era un ottimo compagno di
squadra, intelligente, allegro e saggio fuori dal campo, con uno splendido
senso dell’umorismo e bravissimo con tutti gli altri giocatori, soprattutto
con i più giovani, ai quali cercava di spiegare le complessità della vita
nell’NBA. Avere Rick Mahorn significava poter contare su una squadra più
sana e felice fuori dal campo. In campo era un difensore di razza, molto
temuto. Sostenuto da Mahorn, Laimbeer – che era già un ottimo
rimbalzista, ma con una corporatura che non intimidiva nessuno – sembrò
sbocciare. Un anno più tardi Detroit scambiò Kelly Tripucka, un tiratore
con dei problemi in difesa, cedendolo a Utah per Adrian Dantley, che
avrebbe partecipato a sei All Star Game prima del ritiro. Dantley, che era
relativamente piccolo per giocare nel ruolo di ala, era forte e robusto
nonché molto determinato, uno dei migliori in post basso. Forse non era il
complemento perfetto per un giocatore veloce come Thomas, però dava
potenza di fuoco in attacco. Prendeva la palla e si portava a canestro con la
forza, costringendo gli altri giocatori a fare fallo. Bob Ryan, il
corrispondente sportivo del Boston Globe, usava il suo nome per definire
una specifica statistica di gioco, per esempio quando un giocatore segnava
30 punti con 7 tiri e 16 tiri liberi. Una volta commentò: «La migliore
Dantley di tutti i tempi dovrebbe stare incisa sulla sua lapide: 9-28-46,
ovvero 9 tiri e 28 tiri liberi, per un totale di 46 punti». McCloskey era
entusiasta del gioco di Dantley, perché in poco tempo metteva in difficoltà
la squadra avversaria per eccesso di falli e consentiva ai compagni di
preparare la difesa mentre faceva i tiri liberi.
L’anno successivo, i Pistons aggiunsero gli ultimi due pezzi fondamentali
per la corsa all’anello. Anche se il loro turno nel draft era più o meno a
metà, nel 1986 fecero scelte fantastiche. Presero John Salley, uno stoppatore
alto e agile, e Dennis Rodman, che non vedevano l’ora di aggiudicarsi.
Avevano scelto Salley al primo turno come undicesimo e Rodman all’inizio
del secondo turno, ma era quest’ultimo che volevano disperatamente.
Avevano cominciato a sentir parlare di lui a metà stagione: un giovane
atletico che aveva giocato a malapena allo junior college e che poi si era
trasferito all’Università di Southeastern Oklahoma. McCloskey lo aveva
visto in una partita di postseason e si era invaghito di lui. Era praticamente
privo di formazione ma aveva un incredibile e grezzo talento atletico. Era
un gran saltatore, con gambe velocissime, sembrava uno scattista olimpico
finito per caso in un campo di basket. Correva per il campo senza alcuno
sforzo. Inoltre, McCloskey aveva riconosciuto in lui una speciale
aspirazione all’eccellenza. «Fu quello ad attirarmi, bastava guardarlo per
accorgersene: aveva quasi un fuoco negli occhi. Era stato ignorato e
disprezzato così a lungo, non soltanto dal mondo del basket ma anche dal
resto del mondo in generale, che quando ebbe finalmente una possibilità
contro atleti di provenienza più blasonata fu inarrestabile. Stava scoprendo
di essere più bravo di loro e potevi vedere la passione nei suoi occhi».
All’improvviso, i Pistons erano diventati una squadra solidissima.
Avevano un’ottima rotazione di otto giocatori. Il talento dei due rookie era
evidente, così come gli abbinamenti che l’astuzia di Daly poteva finalmente
sfruttare al meglio. Nessun’altra squadra era così forte nell’area intorno al
canestro, quella che Johnny Bach chiamava «lo stagno dove lottano gli
alligatori», quanto Detroit con Laimbeer, Mahorn, Salley e Rodman. I
Pistons potevano adeguarsi alle diverse squadre, mandare avanti gli
attaccanti più dotati in certe occasioni e i difensori in altre. In breve,
cominciarono a inanellare più cappotti da 5 punti di qualsiasi altra squadra,
secondo il portavoce Matt Dobek. Dobek aggiungeva che un cappotto da 5
punti sembrava una contraddizione ma i Pistons, se verso la fine della
partita si trovavano con un vantaggio di 5 punti, potevano mettere in campo
Salley, Rodman, Dumars, Thomas e Laimbeer: Laimbeer era lento ma si
trovava sempre nella posizione giusta e gli altri erano difensori eccezionali,
quindi a fine partita erano in grado di cancellare gli avversari dal campo.
Diventarono la squadra che nessuno voleva affrontare. Erano
immensamente fisici e Laimbeer era considerato dagli altri giocatori come
il re dei colpi bassi, uno che amava inchiodare gli avversari nei momenti di
maggiore vulnerabilità, più per sconvolgere il loro equilibrio mentale e
fargli perdere le staffe che per altro. Il suo punto di forza era l’assoluta
indifferenza per l’opinione pubblica: sembrava godersi i fischi che si
riversavano su di lui nei palazzetti delle trasferte. La squadra acquistò il
nomignolo di ‘The Bad Boys’, preso da una battuta di Al Pacino nel film
Scarface: «Coraggio, augurate la buona notte al cattivo, coraggio. È
l’ultima volta che lo vedete un cattivo come me, ve lo dico io». Nella
stagione 1988-89 Detroit pagò multe per $29.100 – al secondo posto c’era
Portland con soli $10.500. Laimbeer, Rodman e Mahorn insieme ne
avevano prese per $11.000, più di qualsiasi altra squadra al completo.
Gli allenamenti divennero migliori, secondo alcuni giocatori erano più
combattuti e più contestati di molte partite NBA di stagione regolare. Ogni
anno, nel giorno della ripresa degli allenamenti, Daly diceva ai giocatori
che la quantità di minuti giocati in partita sarebbe dipesa dall’impegno in
allenamento e tutti davano il massimo. Nessuno era esentato dal duro
codice della squadra. Soffrivano sia in allenamento che in partita. Più tardi,
Isiah Thomas avrebbe commentato: «Eravamo l’ultima squadra di
gladiatori».
Daly era l’uomo ideale per allenare quella squadra: era dotato di
intelligenza e senso dell’umorismo e aveva lavorato a lungo nelle piccole e
modeste vigne del basket, cominciando come allenatore al liceo di
Punxsutawney, in Pennsylvania, per otto stagioni, e risalendo la china molto
lentamente, livello per livello, quasi sempre come assistente. Non si poteva
dire che Daly non avesse fatto la gavetta. Non permise mai che il successo o
la ricchezza gli dessero alla testa. Capo allenatore o no, stipendio milionario
o no, aveva sempre lo stesso spirito di abnegazione, faceva quello che
faceva perché era l’unica cosa che voleva fare. Si diceva che avesse
ottenuto l’incarico a Detroit soltanto perché la squadra era così scarsa che
non la voleva nessun altro. Qualche anno prima Bob Ryan aveva incrociato
Daly durante il weekend dell’All Star Game, in un momento in cui Daly
cercava lavoro. Era appena stato licenziato dopo una breve parentesi a
Cleveland – che allora era una delle peggiori organizzazioni della Lega –
era disoccupato e molto pessimista sul proprio futuro. Disse a Ryan che
aveva cinquant’anni e che gli incarichi andavano tutti ai giovani: «Chi
assumerebbe un vecchietto come me?» Apprezzava i vantaggi economici
derivati dal successo della sua squadra e i guadagni aggiuntivi offerti dalle
stazioni televisive e dai negozi di abbigliamento; aveva un debole per gli
abiti eleganti, in particolare. I giocatori lo chiamavano ‘Daddy Rich’.
Oltre alla passione per la vittoria, però, Daly in gioventù aveva imparato
altre lezioni più complesse e non dimenticava mai che il basket non era una
guerra ma un gioco e che costituiva solo una minima parte della vita. Aveva
una visione meravigliosamente scettica della natura umana, che gli veniva
dalle radici irlandesi, esemplificata da una frase di Yeats secondo la quale,
in tempi di grande gioia, gli irlandesi si consolano con la certezza che la
tragedia sia dietro l’angolo.
Fu quello che rischiò di succedere ai Pistons nella stagione 1986-87, il
primo anno in cui c’erano Salley, Rodman e Dantley. I Celtics avevano
cominciato a rallentare. Quell’anno avevano vinto cinquantanove partite,
ma a fine stagione Detroit ne aveva vinte cinquantadue e stava
guadagnando terreno. Aveva giocatori più giovani e una rosa più completa.
Quell’anno persero all’ultimo minuto contro i Celtics ai playoff, ma erano
chiaramente in ascesa. Stavano per soffiare ai Celtics il ruolo di squadra da
battere sulla costa Est, frapponendosi fra i Bulls e il loro destino di gloria.
Un anno più tardi i Pistons sconfissero i Celtics e andarono alle Finals, dove
avrebbero potuto vincere se Isiah Thomas non si fosse infortunato
malamente a una caviglia in Gara Sei.
I Pistons rappresentavano un ostacolo particolarmente difficile per una
squadra come i Bulls, che stava ancora maturando e in cui il talento puro
dei giocatori più giovani non era ancora sostenuto dalla solidità fisica e
mentale necessaria per vincere l’anello. La forza particolare dei Pistons, la
loro determinazione e la focalizzazione sull’obiettivo facevano di loro gli
avversari più temibili per una squadra in crescita. I Pistons avevano
l’infallibile capacità di individuare i punti deboli, fisici o psicologici di ogni
avversario. La stessa spaventosa competitività di Michael Jordan giocava a
loro favore: Chuck Daly aveva creato una strategia difensiva su misura per
Jordan, chiamata ‘Jordan Rule’, studiata appositamente per affaticarlo il più
possibile, facendogli sudare ogni tiro e costringendolo a dare fondo a ogni
energia fisica. Jordan, con il suo atteggiamento da guerriero, per molto
tempo continuò ad abboccare, accettando la sfida e portando i Bulls sempre
più vicini al livello dei Pistons, ma senza mai raggiungerli.
Anche nel periodo in cui i Pistons erano sul punto di superare i Celtics,
Chuck Daly si rese conto che la sua squadra non avrebbe regnato a lungo.
La loro corsa era alimentata da forza di volontà e talento puro, ma ormai i
tempi in cui potevano scegliere per primi nei draft e aggiudicarsi buoni
giocatori erano ben lontani e non solo i Bulls avevano il miglior giocatore
in circolazione, ma anche Scottie Pippen sarebbe diventato una superstar, e
Daly lo sapeva. I tempi in cui Jordan doveva trascinarli da solo, quelli in cui
segnava 40 o 50 punti – Daly li chiamava ‘punti astronomici’ per la quantità
esorbitante – erano quasi conclusi. Intorno a lui si stava lentamente
formando un gruppo di talenti. Daly era sicuro che Pippen fosse l’araldo
della squadra che avrebbe vinto l’anello. Non aveva ancora espresso
appieno il suo potenziale, ma ci sarebbe arrivato presto. Gli serviva soltanto
una determinazione più forte e quella, dato che si allenava ogni giorno
contro Michael Jordan, non avrebbe tardato ad arrivare.
19
Chicago, 1988-1990;

New York City, 1967-1971

Nel 1988 divenne chiaro che se Chicago voleva risolvere il problema dei
Pistons aveva bisogno di un lungo. I Pistons avevano Laimbeer e James
Edwards come riserva, più Mahorn, Salley e Rodman. I Bulls avevano due
ottime ali grandi ma giocavano senza un centro. Dave Corzine si impegnava
molto ed era benvoluto sia dalla dirigenza che dai compagni, ma i suoi
limiti erano evidenti ed era diventato un bersaglio per i tifosi, che sfogavano
la delusione per il mancato miglioramento della squadra concentrando i
fischi su di lui. Jerry Krause fece un’analisi dei centri disponibili al draft,
ma quando la sua squadra raggiunse le cinquanta vittorie capì che aveva
pochissime possibilità di aggiudicarsi il giocatore che voleva. Nella classe
dell’anno successivo c’era Rik Smits, alto più di due metri e venti e
abbastanza dotato ma decisamente incompleto, un giocatore che avrebbe
richiesto di investire grandi risorse, e poi Ron Seikaly da Syracuse e Will
Perdue da Vanderbilt. Avevano buone possibilità con Perdue, che però era
ben lontano dal diventare un centro in grado di condurre una squadra a
conquistare l’anello.
Krause cominciò a cercare fra i centri che già giocavano in NBA e il
posto più logico sembrava essere New York, dove i Knicks potevano
schierare un quintetto con due torri gemelle: Patrick Ewing, appena
arrivato, e il centro veterano Bill Cartwright. Non era stata una mossa
vincente: né Ewing né Cartwright si sentivano a proprio agio e quindi
Cartwright forse sarebbe stato disponibile a uno scambio. L’ascesa di
Horace Grant aveva dato a Krause una carta da giocare: anche se Charles
Oakley era emerso come secondo miglior rimbalzista della Lega per due
anni consecutivi, alla fine del primo anno di Grant era evidente che era lui il
giocatore più dotato e che dovevano fargli giocare più minuti. Questo
significava che era possibile scambiare Oakley. Krause avrebbe voluto
cederlo per ottenere il diritto di scegliere Smits nel draft, ma la manovra
non gli riuscì. Così si concentrò su Cartwright, il cui ingresso nella Lega era
stato strombazzato come quello di una star: era uno di quei giovani che
attiravano l’attenzione troppo presto – da universitario era comparso sulla
copertina di Sports Illustrated – però non aveva la corporatura giusta per
l’NBA: era alto e snello, con le spalle strette, ma gli mancava la perfetta
muscolatura di giocatori come Ewing e Olajuwon. Quello che il suo corpo
non rivelava, però, erano la sua determinazione e la sua intelligenza, e il
fatto che si fosse adattato insolitamente bene ai limiti imposti dall’NBA,
trasformandosi (cosa piuttosto strana) in un giocatore più difensivo che
offensivo. Era dotato di un’astuzia particolare, studiava con attenzione le
mosse dei centri più dotati che marcava e sapeva tenere la posizione con
estrema tenacia. Si scoprì che nessuno marcava Patrick Ewing meglio di
Bill Cartwright e questo fu un enorme vantaggio per i Bulls.
Cartwright aveva continuamente problemi ai piedi e i Bulls fecero
accurati controlli. Anni dopo Krause definì quella trattativa la più difficile
della sua carriera. Oakley era stato il suo primo grande successo con i Bulls
ed era stato tutto ciò che un dirigente potesse desiderare, come uomo e
come giocatore: aveva sempre cuore e dedizione, e mai paura. Data la storia
di infortuni di Cartwright, Krause fu molto cauto con la scelta dei Bulls di
quell’anno. Invece di Dan Majerle, che i media ogni tanto
soprannominavano ‘Thunder’, tuono, un giocatore che avrebbe voluto con
tutte le sue forze e che aveva già ampiamente sponsorizzato all’interno della
squadra, scelse Perdue come centro di riserva. Fra i centri disponibili
avrebbe preferito Seikaly, da Syracuse, che era più forte in attacco, ma
quando arrivò il turno di Chicago Seikaly era già stato scelto; Smits, poi,
era stato la seconda scelta in assoluto, cosa che non aveva stupito nessuno.
A causa dei tempi dello scambio, i Bulls non ebbero la possibilità di
avvertire Oakley in anticipo. Lui e Jordan, il suo più caro amico nella
squadra, erano in viaggio per Las Vegas per assistere a un match di Mike
Tyson quando appresero la notizia dai media. Si infuriarono entrambi.
Jordan sembrava addirittura il più inferocito dei due: Oakley era la guardia
del corpo, quello preposto a punire chiunque tentasse un colpo basso contro
Jordan, e all’improvviso gli veniva portato via per sostituirlo con
Cartwright, un giocatore che decisamente non suscitava la sua
ammirazione. Poco dopo lo scambio, Jordan chiese a Bach: «Johnny, chi
sarà la nuova guardia del corpo?» Era una domanda legittima.
«Horace Grant» propose Bach.
«Maledizione, potrei picchiarlo io stesso» rispose Jordan, «come farà a
proteggere me?»
Cartwright non suscitava il rispetto di Jordan, né come uomo né come
giocatore. Lo chiamava ‘Medical Bill’ per via dei suoi infortuni passati.
Riteneva che non avesse le mani buone e quindi a volte in allenamento gli
passava la palla in modo inutilmente violento, così che gli sfuggisse,
dimostrando che aveva ragione. Jordan non si sbagliò mai così
completamente su un altro giocatore quanto su Bill Cartwright, sia dal
punto di vista umano che atletico, ma ci mise quasi due anni a capirlo e ad
ammetterlo. Cartwright portò ai Bulls qualcosa di cui avevano un tremendo
bisogno, e cioè un centro di qualità. Aveva certamente dei limiti – in effetti
non aveva un buon controllo di palla – e negli anni era peggiorato in attacco
via via che il suo corpo si logorava, in particolare a livello delle ginocchia.
Ma era un giocatore intelligente e tenace e si sarebbe rivelato un ottimo
elemento in difesa. Nonostante il suo arrivo, però, quella non fu una grande
annata per i Bulls.
A un certo punto della stagione 1988-1989, nel suo terzo anno da
allenatore, Doug Collins cominciò a perdere il suo ascendente sulla
squadra. Era stato un anno impegnativo, perché l’anno precedente avevano
vinto cinquanta partite e con l’ingresso di Cartwright sembravano destinati
a raggiungere la grandezza. Probabilmente Collins era stato l’allenatore
perfetto per una squadra giovane: aveva pungolato senza sosta Grant e
Pippen e non c’era dubbio che sotto la sua guida entrambi fossero sbocciati.
Nessuno dubitava dell’intelligenza di Collins. Ma se c’era una cosa che non
sapeva fare – ed era una grave mancanza in una stagione lunga e spossante
come quella dell’NBA – era fare un passo indietro. Alcuni dei suoi
assistenti lo avevano avvertito di cercare di rilassarsi ogni tanto, di accettare
la sconfitta con più leggerezza, soprattutto in quelle serate amare in cui un
allenatore lascia il palazzetto convinto che la sua squadra meritasse la
vittoria. Per un allenatore dell’NBA era una qualità importante saper
accettare qualche sconfitta anche quando sentiva di non meritarla.
Collins però non era il tipo da lasciar perdere. Era molto diretto su questo
punto: «Io sono come sono, e alleno come sono» diceva. La sua dedizione e
la sua emotività lo rendevano però monotono e alla terza stagione i
giocatori smisero di dargli retta. Cominciarono a lamentarsi del suo stile
troppo passionale, che li portava a una sorta di montagne russe emotive. Un
giorno urlava contro di loro e il giorno successivo li abbracciava e giurava
di amarli. In un certo senso, gli mancava l’equilibrio necessario per guidare
una squadra nell’NBA – di solito erano i giocatori a dimostrarsi volubili
mentre l’allenatore, appollaiato sul suo pilastro di imperturbabilità, doveva
placarli. Michael Jordan stava sempre abbastanza attento nelle dichiarazioni
pubbliche, perché era stato educato a non mettere in discussione l’autorità
per nessun motivo e un allenatore, a differenza di Krause, per lui
rappresentava l’autorità, ma chi gli stava intorno coglieva comunque i suoi
dubbi. «È un allenatore giovane, molto emotivo» confidava agli amici.
Nello stesso periodo la crepa fra Collins e Krause divenne una spaccatura
sempre più profonda. All’arrivo di Collins era stato stabilito che non solo
Tex Winter sarebbe stato assistente, ma che la squadra avrebbe adottato il
suo schema offensivo brevettato, chiamato ‘attacco a triangolo’. Anzi, era
stato proprio Winter, il più vecchio e intimo amico di Krause nel mondo
degli allenatori, a dare l’approvazione finale alla scelta di Collins.
Virtualmente era Winter il primo referente di Krause. Ancora nel 1985, il
giorno in cui fu annunciato l’incarico di Krause presso i Bulls, Winter,
allora sessantatreenne, stava guardando ESPN. Indicò la tv e disse alla
moglie: «Quell’uomo là, Jerry Krause, mi chiamerà entro ventiquattr’ore
per offrirmi un lavoro», cosa che infatti avvenne.
L’attacco a triangolo ideato da Winter prevedeva che i giocatori partissero
da diverse posizioni in post, per poi effettuare tagli continui per raggiungere
punti diversi del campo da cui, presumibilmente, sarebbe stato più facile
attaccare il canestro. Lo scopo era tenere la difesa avversaria sotto una
pressione costante: gli attaccanti cercavano senza tregua un punto debole,
un’angolazione migliore, un’occasione di tiro o un mismatch. La speranza
era che non solo questo avrebbe messo in mostra lo speciale talento
offensivo di Jordan, ma che avrebbe permesso a Chicago di coinvolgere di
più gli altri giocatori negli schemi offensivi. Era però una speranza vana.
Michael Jordan non sembrava apprezzare particolarmente l’attacco a
triangolo e nemmeno Collins ci faceva troppo affidamento. In breve, fu
accantonato e i Bulls rincominciarono a dipendere dal talento puro di
Jordan. Collins continuava ad aggiungere nuovi schemi. Quando un’altra
squadra metteva in atto uno schema che funzionava contro Chicago, i Bulls
lo aggiungevano subito al proprio repertorio. I giocatori chiamavano la
strategia offensiva della squadra ‘uno schema al giorno’.
Nel terzo anno, spesso durante l’allenamento si verificava una scena
bizzarra. Gli allenatori stavano tutti insieme, eccetto Tex Winter che sedeva
per conto suo e prendeva appunti, come se fosse un inviato di qualche altra
squadra con il compito di studiare gli allenamenti dei Bulls. Quella distanza
dal resto dello staff tecnico non era un buon segno. Una volta Winter disse a
Collins: «Doug, nonostante la tua intelligenza spesso mi chiedo se sai
quello che stai facendo».
Peggio ancora, il rapporto fra Collins e Krause era diventato tossico.
Cominciarono a litigare sulle scelte del draft e le decisioni relative ai
giocatori. Lo scontro fra Collins e Krause su Brad Sellers e Johnny
Dawkins era stato particolarmente brutale, ma ce ne furono altri in seguito.
Nel 1988 la tensione aveva raggiunto un punto critico. Collins, polemico e
incapace di controllare le emozioni, cominciò a sfidare apertamente Krause.
Perché stava sempre intorno agli allenatori? Perché partecipava sempre alle
trasferte? Krause rispondeva che lo faceva perché era il general manager e
Collins ribatteva che non c’era alcun bisogno che il general manager
viaggiasse con la squadra. Se Collins arrivava agli allenamenti e vedeva
Krause gli urlava: «Che cosa ci fai qui? Perché sei venuto?» Era una guerra
per il territorio, sulla pelle dei giocatori, e stava diventando uno scontro
sempre più acceso fra due ego ipertrofici.
Phil Jackson sapeva che la situazione era drammatica. Fino a quel
momento era riuscito ad andare abbastanza d’accordo con tutti i membri
dello staff. Con Johnny Bach c’era un ottimo rapporto e da lui aveva
imparato molto su come redigere i report sui giocatori che valutava.
Jackson era molto affezionato a Tex Winter e sembrava addirittura riuscire a
gestire Krause. Riconosceva le sue idiosincrasie e la scarsa capacità di
rispettare gli spazi personali, ma lo considerava un uomo intelligente
(dopotutto aveva avuto il buon senso di assumerlo) e si sentiva a suo agio in
sua compagnia. Senza rendersene conto era probabilmente il successore
designato. Quasi dieci anni dopo, nel 1997, quando divenne chiaro che
Krause si era invaghito di un allenatore dell’Iowa State chiamato Tim
Floyd, e che voleva sostituire Jackson con lui, qualcuno gli parlò di
quell’infatuazione e Jackson rispose tristemente: «Mi ricordo quando si era
invaghito di me».
Durante la stagione 1988-89, la disintegrazione cominciò. Il primo
segnale fu durante una partita a Milwaukee, subito prima di Natale. Collins
fu espulso molto presto e passò le redini a Jackson, lasciandogli appunti
dettagliati su ciò che voleva fare e soprattutto sugli schemi che voleva
attuare. In quel momento i Bulls erano in svantaggio e Jackson in pratica
ignorò i desideri di Collins e, dato che era un allenatore orientato alla
difesa, si affidò al pressing, scelta che funzionò. Riguardo all’attacco
intervenne molto poco, lasciando che la squadra trovasse il proprio ritmo, e
alla fine i Bulls recuperarono e vinsero con un buon margine. Quella
vittoria fu particolarmente amara per Collins perché Krause e sua moglie
Thelma quella sera avevano invitato June Jackson a sedere accanto a loro, e
le telecamere trasmisero a Chicago l’immagine del trio.
La presenza di June Jackson accanto ai Krause fece inferocire Collins,
che la interpretò come una cospirazione. Il giorno successivo, furente,
accusò Jackson di sabotaggio nei confronti della sua filosofia di
allenamento. E aggiunse che Jackson tramava alle sue spalle insieme a
Krause, un’accusa del tutto falsa. Ne seguì un lungo e spiacevole incontro
fra Collins, Krause e Jackson in cui tutti i rancori vennero alla luce. Nel
corso di quell’incontro, il non trascurabile sentimento di amicizia fra
Collins e Jackson fu gravemente danneggiato.
Qualche settimana più tardi Jackson doveva visionare i Miami Heat a
Miami e non riuscì ad assistere alla partita dei Bulls a causa degli orari dei
voli. Il giorno successivo ricevette una telefonata da Krause che gli
intimava di non perdere altre partite per il resto della stagione. Chiaramente
c’era qualcosa nell’aria. La stagione non finì bene: la squadra perse otto
delle ultime dieci partite. Invece di vincerne cinquantacinque, come il
management aveva sperato, ne vinse soltanto quarantasette. Doug Collins fu
licenziato e Phil Jackson prese il suo posto come capo allenatore.
Phil Jackson non si considerava il successore designato, se mai credeva
che fosse Billy McKinney, un protetto di Krause ma anche di Winter, ma
McKinney aveva accettato un’offerta dai Minnesota Timberwolves come
responsabile dei giocatori, anche se Krause non gli aveva dato la sua
benedizione. Quando ricevette l’incarico Jackson aveva quarantaquattro
anni. A Chicago si era comportato sempre in maniera impeccabile e
nessuno lo considerava più un hippie. Nella foto ufficiale dei Bulls del suo
primo anno come assistente è perfettamente rasato: aveva offerto la folta
barba in sacrificio ai poteri forti del basket e ai loro pregiudizi. Nel secondo
anno erano comparsi un paio di grandi baffi, chiaramente una specie di
compromesso culturale. Le foto successive, scattate nel corso di un
decennio, mostrano i suoi capelli ingrigire a una velocità allarmante, forse a
causa dei suoi geni o forse per la pressione delle cento partite e dei playoff a
cui i Bulls partecipavano ogni anno.
Il suo comportamento fuori dal campo, il suo passato da apprendista della
controcultura e il successivo interesse per la gentilezza auspicata dal
buddhismo facevano spesso dimenticare la sua incrollabile determinazione
e il fatto che avesse due incarnazioni distinte: grande intensità in campo e
grande delicatezza all’esterno. Anche ai tempi della controcultura era stato,
naturalmente, un giocatore pieno di passione: quel sentimento nasceva dal
tipo di infanzia che aveva vissuto e i valori assimilati erano ormai parte
integrante della sua identità. La madre era una lavoratrice indefessa e fin
dall’età di due anni gli faceva notare che alla sua età il fratello maggiore
aveva già un vocabolario di mille parole. Era cresciuto in quel tipo di
fondamentalismo, sapendo di non dover sprecare nulla, di doversi spingere
sempre al massimo livello delle proprie capacità.
Nel corso degli anni Jackson si era allontanato parecchio dalle
convinzioni religiose dei genitori, anche se non tanto quanto i fratelli.
Chuck Jackson era diventato un oppositore del cristianesimo e Joe Jackson,
psicologo, si era interessato alle religioni orientali ancora più
profondamente di Phil. Phil finì per costruirsi uno strano amalgama di
credenze religiose, fatto di cristianesimo, buddhismo zen e filosofie dei
nativi americani, risultato di trent’anni di ricerche e confronti in campo
etico e religioso e sintetizzabile in un codice di comportamento incentrato
sulla tolleranza verso gli altri.
Dal punto di vista filosofico Jackson era alla ricerca di un’etica che gli
consentisse di appassionarsi a ciò che faceva: era più un umanista che un
materialista. Però voleva anche godersi i vantaggi che una società sempre
più consumistica distribuiva a quelli che considerava vincenti e dei quali,
come allenatore di successo, aveva finalmente ricevuto una parte. Questo lo
allontanò molto dalle certezze religiose della madre, la cui frase preferita
era «Cristo è l’unica risposta». Naturalmente la madre non perse mai la
speranza che tornasse alla religione con cui lo aveva cresciuto. Anni prima,
quando il giornalista Garry Wills l’aveva chiamata per prepararsi a
presentare Jackson al pubblico di Chicago, Elisabeth Jackson aveva
concluso la chiacchierata dicendo: «Può riferire a mio figlio che spero
sappia di poter sempre tornare qui e diventare un ministro del Signore».
Non era molto probabile. Le sue origini religiose non smisero mai di
metterlo a disagio e per gran parte della vita si sforzò di mantenere un
legame con il cristianesimo pur rifiutandone gli aspetti troppo rigidi che gli
erano stati inculcati.
I genitori di Jackson erano entrambi pentecostali, membri di un
movimento carismatico che si era diffuso in tutto il paese negli anni
successivi alla Prima guerra mondiale. Il padre proveniva dal Canada
orientale e la madre dall’Ovest degli Stati Uniti, si erano conosciuti al
Central Bible College di Winnipeg. Nella loro chiesa il padre era il ministro
del culto del mattino e la madre del culto serale. Jackson ricordava le
fiamme e lo zolfo dell’inferno che grondavano dai loro sermoni. A casa loro
non erano permessi cinema, alcol, fumo, televisione (quando finalmente
nella loro zona arrivò un ripetitore), nessun piacere terreno. Le altre
religioni erano disprezzate. Quando Phil conosceva qualche nuovo
compagno a scuola e ne parlava in casa, la madre chiedeva subito: «È
cristiano?» In quella famiglia fondamentalista la risposta poteva benissimo
essere: «No, è cattolico». L’unico libro disponibile era la Bibbia, l’unica
rivista il Reader’s Digest. I figli dovevano comportarsi da bravi cittadini e
non perdere mai la calma. La moglie June aveva capito che la rabbia era
qualcosa di alieno per Phil, e che quella degli altri lo rendeva nervoso. Una
volta commentò: «È una conseguenza della sua educazione religiosa. In
quella casa la rabbia era un grave peccato».
Charles Jackson, il padre di Phil, per quanto rigido era un uomo di grande
bontà e tutti lo amavano. Aveva la responsabilità religiosa dell’intero Stato,
a lui facevano capo una settantina di chiese. A un certo punto aveva
sollevato il suo stesso nipote da un incarico a causa di un errore commesso,
ma il nipote continuò comunque a idolatrarlo fino alla morte per la
gentilezza che gli aveva dimostrato anche in quel frangente.
Elisabeth Jackson, invece, era quella che spingeva accanitamente i figli
verso l’eccellenza. Era cresciuta nel Montana, in una famiglia poverissima
con cinque fratelli. Joe Jackson ricordava che fino all’età di sedici anni a
casa dei nonni materni il bagno era costituito da una latrina esterna,
nonostante il freddo quasi insopportabile. Tutti i fratelli di Elisabeth erano
stati i migliori del loro corso ed erano stati scelti per pronunciare il discorso
del diploma: lei si era sempre rammaricata di non esserci riuscita per soli
due decimi di punto, soprattutto perché perdeva sempre le prime sei
settimane di scuola a causa della mietitura autunnale. Aveva una forte
inclinazione allo stoicismo: a diciotto anni aveva insegnato in una scuola
del Montana orientale così povera che durante l’inverno bruciavano lo
sterco di mucca per riscaldarla. Continuava a ripetere ai figli che potevano
diventare tutto ciò che volevano, li obbligava a imparare a memoria brani di
libri e definizioni del vocabolario. Ogni settimana dovevano memorizzare
un passo delle Scritture. Se i figli le sembravano svogliati, lei citava
qualche lunga definizione che aveva imparato trent’anni prima. Non
avrebbe mai battuto la fiacca e non accettava che lo facessero i suoi
familiari. Le cose andavano fatte per bene. In quella casa c’erano quattro
uomini e ciascuno di loro indossava una camicia pulita ogni giorno, il che
significava lavare e stirare ventotto camicie alla settimana. Sapeva
esattamente quanto tempo ci avrebbe messo, quasi al minuto.
Se c’era una lezione che Elizabeth Jackson avrebbe voluto che rimanesse
impressa ai figli, anche se il resto della loro educazione fosse andato
perduto quando si fossero avventurati nel mondo, secondo Chuck Jackson
era l’idea che in qualsiasi caso non dovevano sprecare i doni di Dio:
dovevano sfruttare al massimo i propri talenti.
In casa loro si ripeteva spesso che i doni ricevuti erano molti. Elisabeth
aveva creato un grande cartello che aveva appeso nella cameretta di Phil
quando era bambino: «Giovanni 3:16. Dio infatti ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma
abbia la vita eterna»2.
Già da ragazzo Phil Jackson era a disagio con la natura fortemente
emotiva ed evangelica della loro chiesa. La gente che parlava in lingue
sconosciute e si buttava per terra dimenandosi erano persone che
conosceva, che in genere erano tranquille, sobrie ed estremamente riservate,
finché all’improvviso non sembravano preda di emozioni incontrollabili.
Per un ragazzino era una vista sconvolgente e gli suscitava un senso di
repulsione.
Tutti e tre i ragazzi Jackson (Phil era il più giovane) si buttarono con
passione nell’atletica, secondo Chuck Jackson perché era una delle poche
attività consentite e perché permetteva loro di vivere una certa normalità:
era l’unica occasione in cui potevano fare le stesse cose dei loro coetanei. I
genitori approvavano gli sport, che consideravano buoni e puliti, al
contrario, per esempio, delle opere sataniche di Hollywood. I fratelli
maggiori avevano già combattuto alcune battaglie – come per esempio
quella per il diritto di partecipare alla partita di football del venerdì sera – e
quando venne il suo turno Phil si trovò la strada parzialmente spianata. Per
esempio, a lui fu consentito di giocare a football a differenza dei fratelli.
Almeno i lunghi viaggi per le trasferte spesso gli facevano perdere il
servizio divino.
I ragazzi furono involontariamente isolati dagli amici quando erano
piccoli, perché non potevano fare quello che facevano gli altri, e quindi non
ebbero la possibilità di confrontarsi con i coetanei. Non potevano parlare
dei film, dei programmi tv o delle canzoni. Chuck Jackson commentò: «La
separazione era avvenuta molto presto, senza che potessimo avere alcun
controllo sulla situazione, così ci ritrovammo a essere stranamente
distaccati e obiettivi rispetto a cose che la maggior parte dei ragazzi
accettava automaticamente».
Crescendo, il rifiuto di quegli aspetti della religione dell’infanzia e la
ricerca indefessa di qualcosa di diverso resero Phil Jackson insolitamente
tollerante verso gli altri. Secondo il fratello Joe erano cresciuti in
un’atmosfera terribilmente giudicante e Phil non era a suo agio con
l’inappellabilità di quei giudizi. Il comportamento umano lo affascinava,
senza suscitare in lui particolari critiche. La madre, una donna che non era
portata a percepire le sfumature di grigio, una volta disse: «Phil è come un
lubrificante con le altre persone». June Jackson era d’accordo: il marito era
capace di andare d’accordo con ogni tipo di persona, era un buon
ascoltatore e vedeva gli altri come erano davvero, li accettava e quasi
sempre li apprezzava per questo. Aveva un senso del sé particolarmente
saldo ed era sinceramente interessato a chi aveva intorno: con l’evolvere
della sua carriera di allenatore divenne sempre più bravo anche come
psicologo.
In parte era un talento innato, e in parte lo aveva appreso dal suo
allenatore ai New York Knicks, Red Holzman. Si era reso conto di quanto
fosse saggio soltanto a posteriori. Quando Jackson era arrivato a New York,
per esempio, aveva trovato una situazione potenzialmente esplosiva a causa
della disputa sui minuti giocati fra Bill Bradley e Cazzie Russell. Bradley
era bianco, Russell nero. Entrambi avevano giocato ai massimi livelli del
basket universitario e la loro reputazione era salita alle stelle in seguito a
una famosa partita dei playoff NCAA fra le rispettive squadre. Nessuno dei
due si era adattato facilmente all’NBA: Bradley era troppo lento come
guardia e Russell si era dimostrato un giocatore incompleto, era un tiratore
potente ma spesso impreciso e non era particolarmente bravo nei passaggi,
inoltre era inconsistente in difesa.
Ciascuno di loro naturalmente aveva i propri sostenitori, che vedevano
soltanto i punti di forza e non i difetti: i fan di Bradley erano maschi della
Ivy League, che esercitavano un’influenza sproporzionata nella vita
pubblica della città, e che finalmente vedevano uno dei loro sul campo del
Garden, quelli di Russell erano meno numerosi ma molto agguerriti e fra
loro c’erano alcuni esponenti dei media locali, potenti e senza peli sulla
lingua, che lo esaltavano in tutti i modi, uscivano con lui e gli ripetevano
continuamente che era il più grande. I fan di Russell anticipavano il
fenomeno di quelle che più avanti sarebbero state chiamate ‘posse’, gruppi
di persone il cui principale legame con il basket era rappresentato da uno
specifico giocatore del quale gonfiavano l’ego, denigrando al contempo i
compagni di squadra. Col tempo i membri delle posse cominciarono a
identificarsi con il giocatore prescelto. Era una contrapposizione
potenzialmente esplosiva, perché a New York quella squadra stava
suscitando sempre maggiore ottimismo ed entusiasmo, perché entrambi i
giocatori erano stati pompati prima ancora di arrivare e perché uno era
bianco e l’altro nero. Holzman non si schierò mai e non fece alcuna
dichiarazione pubblica, un comportamento già notevole in sé. Agiva come
se il problema non esistesse, lasciando che i giocatori lo gestissero
autonomamente, in campo e negli spogliatoi. Era come se quello che per
molti era un forte scontro di personalità non avesse in realtà alcuna
importanza.
«Penso che Red sapesse fin dall’inizio che Bill, con la sua eccezionale
intelligenza, era un leader naturale, anzi credo che Red sapesse addirittura
che Bill stava già guidando la squadra, da una posizione di svantaggio: cioè
la guidava pur non avendo ancora trovato una propria posizione, portando
in campo una tale abilità e una tale chiarezza di visione che la squadra
migliorava in sua presenza» disse Jackson anni dopo. «Red voleva lasciare
che gli altri, prima i compagni di squadra e poi i tifosi, arrivassero a vedere
quello che vedeva lui in Bill e Cazzie».
Al secondo anno, Bradley era stato spostato nel ruolo di ala piccola e la
sua abilità nel creare migliori occasioni di tiro per i compagni, muovendosi
senza la palla, aveva già contribuito a cambiare la squadra. Chiaramente
tutti giocavano meglio e in modo più fluido quando in campo c’era lui.
Russell invece non si era evoluto e sembrava sempre in qualche modo
monodimensionale. Continuava a essere un valido elemento e a volte
quando c’era bisogno di segnare punti Holzman si rivolgeva a lui.
Gradualmente però i minuti di Russell diminuirono, quelli di Bradley
aumentarono e la diatriba semplicemente evaporò, dato che era ormai
chiaro a tutti che gran parte della coesione unica che si era creata nella
squadra si doveva all’instancabile movimento di Bradley. Negli spogliatoi i
giocatori, i neri per primi, risolsero la questione interna. Russell era loquace
e tendeva a chiacchierare molto mentre Bradley era silenzioso ed
estremamente riservato: non voleva farsi risucchiare nel ruolo di grande
speranza dalla pelle bianca. Ma erano i giocatori neri, e in particolare Walt
Bellamy, che punzecchiavano Russell quando usava parole insolite; mezzo
nudo, imitava l’accento di Oxford e chiedeva: «Di grazia, Mister Russell, in
qualità di rinomato esperto della lingua inglese, pensa di poter spiegare alle
sfortunate anime ignoranti di questa compagine il termine chilometrico testé
utilizzato…?»
Holzman gestì abilmente l’ego di Russell, evitando sempre lo scontro
diretto. Scelse di vedere soltanto quello che gli tornava utile e di ignorare il
resto, fidandosi della maturità dei giocatori di entrambe le appartenenze
etniche e lasciando che fossero loro a risolvere la questione al suo posto.
L’unica volta che redarguì Russell fu quando infranse le regole della
squadra. Secondo una di queste regole, la squadra doveva muoversi sempre
come un gruppo unico. In quel periodo disputavano molte partite con
Philadelphia: Cazzie Russell aveva una Cadillac nuova e una volta
raggiunse la città con quella. Poco prima della partita Red gli chiese quanto
costava il pedaggio da New York a Philadelphia e Cazzie rispose 8 dollari.
Red disse: «Bene, allora togliamo questi 8 dai 100 di penalità per essere
arrivato da solo. La tua multa sarà di 92 dollari, quindi». Era un modo
gentile di ricordargli che le regole valevano per tutti, indiscriminatamente.
Jackson si trovò ad affrontare un problema simile quando assunse
l’incarico a Chicago. Per lui ovviamente era la grande occasione, per quanto
la situazione sotto certi aspetti fosse difficile. Si accingeva ad allenare il
miglior giocatore della Lega insieme a un gruppo di altri atleti di evidente
talento, che proprio in quel periodo stavano raggiungendo la maturità
professionale, ma che per la natura stessa della grandezza della superstar sul
campo si muovevano con una certa titubanza. Trovare un modo di
amalgamarli, una soluzione chimicamente equilibrata sarebbe stata una
grande sfida. Era il sesto anno di Jordan e il suo atteggiamento si era fatto
più duro. Si era abituato alla mancanza di un attacco e diffidava di tutti gli
altri, eccezion fatta per Paxson. Il problema di Jackson era quello di capire
la suddivisione del possesso di palla, la quota di tiri da attribuire a Jordan
(o, detto in modo brutale, quanto abbassarla). Se Michael Jordan era a suo
modo un genio, la sfida definitiva per il suo allenatore era quella di
mescolare quel genio con i talenti dei comuni mortali.
La squadra ereditata da Jackson era a un bivio. Collins si era esaurito
emotivamente, ma aveva portato Pippen e Grant a un livello molto più alto.
Anni dopo fu chiaro a tutti che, grazie alla passione e alla determinazione di
Collins, Jackson si era trovato fra le mani una squadra alle soglie della
grandezza. Pippen e Grant erano ormai vicini a un livello da All Star Game.
Jackson sentiva che la prima necessità della squadra era quella di un
attacco degno di questo nome. Non si considerava un esperto in questo
senso, ma voleva un sistema offensivo di qualche tipo. L’attacco di
Chicago, al momento del suo arrivo, dipendeva troppo dal talento speciale
di Jordan, in pratica si riduceva a «passate la palla a Michael e toglietevi di
mezzo». Un sistema offensivo sarebbe stato importante per chiarire agli
altri giocatori il proprio ruolo in campo e per coinvolgerli al punto da
invogliarli a impegnarsi al meglio e a dare filo da torcere alle difese
avversarie. Jackson era consapevole della difficoltà, anche per i giocatori
migliori, di coesistere con un compagno dal talento eccezionale e dalle alte
richieste psicologiche come Jordan. Come disse una volta Dave Corzine,
Jordan era così bravo che se i Bulls vincevano era per merito suo, ma se
perdevano era sempre colpa degli altri.
La considerazione che Jordan aveva dei compagni restava una questione
importante, soprattutto quando gli si chiedeva di condividere la palla.
Riconosceva i meriti di Grant, ma non lo riteneva un grande giocatore né un
elemento affidabile quando si trattava di segnare punti cruciali a fine partita.
Pippen costituiva un problema più complesso. Migliorava continuamente, la
sua abilità atletica poteva rivaleggiare con quella dello stesso Jordan,
soprattutto in difesa, e sorprendentemente aveva un ottimo senso del gioco.
Non era ancora un tiratore perfetto, però stava migliorando anche in quello.
Ma il suo livello di determinazione e di efficacia nei momenti critici delle
partite importanti era ancora in discussione per Jordan, che nutriva forti
dubbi dei quali Pippen era ben consapevole. L’unico giocatore con cui
Jordan si trovava a suo agio e del quale si fidava completamente era
Paxson, il che era già incredibile dato che era particolarmente difficile
ricoprire il secondo ruolo di guardia al suo fianco. Paxson non solo era un
tiratore molto affidabile, ma conosceva anche i propri limiti: sapeva quello
che doveva e soprattutto quello che non doveva fare quando Jordan era in
campo.
A Jackson piaceva l’attacco a triangolo di Tex Winter. Per una stagione
aveva allenato insieme a lui nella Lega estiva ed era diventato un suo
grande ammiratore. Riteneva che i continui spostamenti e i ruoli ben
definiti assegnati ai giocatori, che richiedevano tagli da una posizione
all’altra, fossero adatti ai talenti di cui era arrivato a disporre. Inoltre
pensava che quel tipo di attacco avrebbe reso Michael Jordan ancora più
pericoloso per gli avversari, valorizzandolo in post alto – con la sua forza e
l’abilità ineguagliabile nel salto, nessuna guardia nella Lega sarebbe stata
altrettanto efficace – e permettendogli di risparmiare energie e di allungare
la propria carriera. Ma il triangolo non era facile da imparare: ad alcuni
giocatori veniva naturale, ma nel corso degli anni ce ne furono altri che lo
trovarono bizzarro, perché non riuscivano a capire l’esatta natura dei
movimenti, che erano preordinati ma anche autonomi. Il problema primario
sarebbe stato quello di convincere Jordan, un processo che richiese quasi
due intere stagioni. Jackson, cresciuto in una squadra come i Knicks che ai
suoi tempi, grazie agli spostamenti e all’intelligenza, riusciva a battere
sistematicamente avversari più fisici pur non avendo grande forza, lo
considerava un attacco molto adatto ai giocatori che aveva a disposizione.
In quel periodo Jackson era al centro di un equilibrio fra le forti
personalità di Tex Winter e Michael Jordan e le loro diverse filosofie di
gioco. Tex Winter aveva sessantotto anni e allenava da quasi cinquant’anni:
aveva cominciato nel 1947 a Kansas State come assistente a tempo pieno
per $3.000 all’anno. Era un uomo affascinante, assolutamente autentico,
sempre disposto a esprimere la propria opinione, sempre corretto. Era il
prodotto di un’America infinitamente più povera: era diventato adulto nel
periodo peggiore della Grande Depressione e aveva conosciuto l’epoca in
cui gli stipendi erano irrisori e la classe media era quasi inarrivabile per i
vasti strati della popolazione che non ci erano nati. Avrebbe potuto essere il
nonno di alcuni giocatori e il suo conservatorismo, sia in campo finanziario
che sociale, contrastava vistosamente con i valori di coloro che lo
circondavano. Non sprecava il denaro. Per Tex un pranzo per due persone
raramente superava il costo di 8 o 9 dollari. Mentre altri allenatori
consideravano virtualmente immangiabili i pasti gratuiti offerti dai Bulls
alla stampa prima delle partite, Tex Winter, figlio della Depressione,
sembrava apprezzarli molto e partecipava sempre.
Era stato scelto da Krause fin dall’inizio come presenza autorevole, quasi
un guru, ma non era un uomo di Krause: rappresentava soltanto se stesso ed
era sempre completamente onesto. Era questo che gli attirava tante
simpatie: era semplice e diretto, non faceva giochetti politici. La cultura del
basket moderno non gli interessava, considerava l’ostentazione e il culto
della celebrità come distrazioni. A modo suo era un assolutista. Per la
natura della sua personalità e l’atteggiamento aperto era il beniamino dei
cronisti sportivi ma era anche una presenza molto importante
nell’organizzazione, un uomo con una visione chiara di ciò che voleva
ottenere da ogni azione. La sua filosofia del basket e quella di Michael
erano diametralmente opposte. In un certo senso avevano entrambi torto e
ragione allo stesso tempo. Inevitabilmente le differenze saltavano
all’occhio: Jordan, con la sua inarrivabile prestanza atletica e la capacità di
cambiare da solo il corso di una partita e dominarla, vedeva in Winter il
simbolo di uno sport antidiluviano, legato a un’epoca in cui i giocatori non
possedevano le speciali qualità che aveva lui e che quindi aveva dovuto
sviluppare un sistema di compensazione. Il parere di Jordan aveva un suo
valore, nessuno sapeva leggere una difesa meglio di lui e segnare più
rapidamente, ed era tutto frutto dell’istinto: giocare all’interno di uno
schema troppo articolato poteva fargli perdere quell’istinto. Winter
naturalmente non sopportava l’idea di un attacco così dipendente dal talento
di una superstar. Gli piaceva ripetere: «Penso che Michael sia un giocatore
fantastico, ma non per questo ne faccio un idolo».
I due uomini avevano un dibattito aperto sull’essenza del buon basket.
Winter gli diceva: «Nella parola ‘TEAM’ non c’è la lettera ‘I’3».
Jordan rispondeva: «Ma c’è nel verbo ‘vincere’».
Jordan era profondamente convinto che lo sport fosse cambiato, che la
nuova generazione di giocatori con il loro talento puro, l’altezza e la
velocità rendesse antiquato il vecchio sistema a schemi fissi e che il basket
ormai favorisse chi sapeva creare da sé le occasioni di tiro. Per questo si
oppose al tentativo di Jackson di reintrodurre l’attacco a triangolo. Non ne
era stato entusiasta quando ci aveva provato Collins e questa volta era
ancora meno convinto. Temeva che potesse limitare il suo gioco senza
apportare reali vantaggi. «È un attacco delle pari opportunità» diceva, e non
in senso positivo. Jackson cercò di spiegarglielo in modo diverso. La palla
era come la luce di un riflettore, ed era importante condividerla con i
compagni. Contava molto sull’enorme ambizione di Jordan, che non si
focalizzava sui riconoscimenti personali ma sull’anello. Continuava a
ripetergli che facendo a modo suo erano già arrivati al massimo che
potevano ottenere ai playoff, e che avvicinandosi sempre di più alle finali
avrebbero trovato difese sempre più agguerrite che alla fine sarebbero
riuscite a limitare l’azione di un singolo giocatore, per quanto straordinario.
Arrivò a suggerire che potesse essere una buona idea se Jordan non avesse
vinto il titolo per il maggior numero di punti segnati, come aveva fatto negli
ultimi due anni.
Così, quell’anno si aprì la disputa fra Phil Jackson e la sua superstar,
entrambi individui estremamente testardi. Jordan era ancora diffidente nei
confronti dei compagni e quando esprimeva i suoi dubbi Jackson
ammetteva che alcuni di loro non erano al suo livello e probabilmente non
lo avrebbero mai raggiunto. Era possibile che non avrebbe mai avuto
compagni migliori, ma di certo non avrebbero potuto evolversi o dare un
maggiore contributo alla squadra se tutto continuava a reggersi soltanto su
di lui. Doveva correre il rischio di condividere la palla. Altrimenti la
stagione sarebbe finita come tutte le altre, avanzando nei playoff senza mai
arrivare alla vetta. Le difese delle squadre migliori avrebbero trovato il
modo di bloccarlo. Il talento individuale, per quanto unico, non avrebbe
potuto portarli fino alla vittoria finale.
La prima stagione di Jackson, quella del 1989-90, fu un’esperienza
formativa per tutti, un periodo di ricerca, coronato da un successo soltanto
parziale, per trovare la determinazione che distingueva le squadre vincenti.
Per molti giocatori assimilare l’attacco a triangolo non fu semplice. «È
come imparare un ballo da sala» commentò Will Perdue, il centro di riserva,
che aveva un gioco di piedi decisamente imperfetto.
In quella stagione Jordan giocò spesso in attacco, ma a volte se ne tirava
fuori, frustrato perché non ritrovava il gioco di pura reazione che aveva
perfezionato nel tempo oppure perché quando decideva di fidarsi dei
compagni e passare la palla loro lo deludevano. A volte, incoraggiato da
Johnny Bach, l’assistente allenatore, semplicemente riprendeva in mano il
gioco. Bach, che aveva prestato servizio in marina, diceva: «Michael, io
sono solo un assistente ma in momenti come questi l’ammiraglio Halsey
avrebbe ordinato alla sua flotta: ‘Attaccate, attaccate, attaccate!’».
Ovviamente Jordan non aspettava altro. Giocando a modo suo era in grado
di fare due o tre tiri in sospensione a fine partita e assicurarsi la vittoria. Poi
prendeva in giro Winter: «Tex, devo chiederti scusa per essere uscito dallo
schema alla fine».
A poco a poco però cominciarono a emergere dei miglioramenti, si fece
strada la sensazione che stavano diventando una squadra, una squadra che
applicava l’attacco a triangolo. Nella seconda metà della stagione i Bulls
avevano un record di ventiquattro vittorie e tre sconfitte. Jackson stava
costruendo abilmente un compromesso fra i desideri di Tex Winter e quelli
di Michael Jordan, un equilibrio sano, perché l’efficacia del triangolo si
basava anche sulla minaccia costituita per gli avversari dalle iniziative
inarrestabili di Jordan. Johnny Bach era a metà strada fra Winter e Jordan.
Apprezzava molto la genialità individuale di Jordan e pensava, come lui,
che in certi momenti occorresse semplicemente affidarsi all’istinto. Durante
quella stagione, Winter rimase molto colpito dagli sforzi di Jordan. Non era
facile per un giocatore così dotato darsi una disciplina, contrastare il proprio
istinto e sforzarsi di applicare una strategia offensiva estranea e
apparentemente limitante. Gli diede una piena sufficienza per quella
stagione e riconobbe il suo tentativo di valorizzare i compagni. Più Jordan
si avvicinava agli altri giocatori e più loro rispondevano, modificando la
natura della squadra. Non ci erano ancora arrivati, ma il cambiamento si era
innescato. Ai playoff sconfissero Milwaukee 3-1 al primo turno, e al
secondo turno vinsero 4-1 contro Philadelphia.
Arrivarono quindi alla finale di Conference contro i Pistons, per la loro
terza sfida ai playoff consecutiva. La prima volta, nel 1988, avevano vinto
soltanto una partita. L’anno seguente ne avevano vinte due. Speravano di
essere finalmente pronti. I Pistons però vinsero la prima partita e
all’intervallo della seconda, con i Bulls in svantaggio di 15 punti, Jordan
fece una sfuriata ai compagni per la loro mancanza di determinazione.
Anche se persero, nel secondo tempo ridussero leggermente il distacco e
vinsero le successive due partite a Chicago. Jackson era convinto che la sua
squadra avesse più talento, che per vincere a quel livello le mancassero
soltanto la sicurezza e l’esperienza. Secondo lui i Bulls erano così tanto
vulnerabili nei confronti dei Pistons proprio a causa dello spirito guerriero
di Jordan, perché Chuck Daly aveva creato la trappola perfetta con le sue
‘Jordan Rules’ difensive, contando sulla sua competitività. In pratica gli
poneva la sfida finale: devi batterci di persona, e devi batterci con la forza.
Jordan tendeva a reagire nel modo più prevedibile, scontrandosi
frontalmente con la difesa e facendo magari partite mostruose, il cui
copione però era stato scritto da Chuck Daly. Jackson voleva che la sua
squadra e la sua stella giocassero con maggiore astuzia, sfruttando al
massimo la propria velocità, rispondendo alla difesa di Detroit con delle
finte – fra i loro lunghi, soltanto Rodman era veloce quanto i migliori
elementi di Chicago – e poi passando la palla per creare occasioni di tiro.
In parte riuscirono a farlo e i Bulls vinsero la terza e la quarta partita. In
Gara Cinque, ad Auburn Hills, i Pistons sbaragliarono nuovamente i Bulls,
ma i Bulls si assicurarono facilmente Gara Sei, disputata a Chicago. Questo
portò a una Gara Sette nei sobborghi di Detroit, un luogo dove i Bulls non
avevano mai vinto una partita di playoff. Fu un disastro. Paxson aveva una
caviglia infortunata e le condizioni di Scottie Pippen erano ancora peggiori.
Un anno prima era stato portato fuori da Gara Sei dopo aver ricevuto da Bill
Laimbeer una gomitata alla testa così violenta che rimase confuso per il
trauma fin dal primo minuto di gioco. Questa volta, subito prima della
partita più importante della loro vita, Pippen accusava un’emicrania e ci
vedeva a malapena. Prese dell’aspirina che sembrò peggiorare la situazione.
Disse a Mark Pfeil, il preparatore atletico, che aveva problemi alla vista.
«Puoi giocare?» gli chiese Pfeil.
Pippen stava per rispondere di no, ma Jordan si intromise: «Ma certo che
può giocare». Pfeil diede a Pippen un impacco ghiacciato e lui cercò di
giocare, ma non riuscì a entrare davvero in partita. Centrò un solo tiro su
dieci. Più tardi disse che riusciva a malapena a distinguere le divise dei
compagni da quelle dei Pistons. La sconfitta fu schiacciante, con una
differenza di 19 punti, e costituì un brutto colpo per i Bulls e in particolare
per Michael Jordan.
Al termine della partita Jordan era quasi inconsolabile. Jack McCloskey
lo vide mentre attraversava il parcheggio diretto al bus. McCloskey era in
piedi davanti all’ingresso e scusandosi con la moglie le disse che doveva
andare ad aiutare quel giovane giocatore di talento. «Signor McCloskey,
riusciremo mai a battere i Pistons? Conquisteremo mai l’anello?» gli chiese
Jordan.
«Michael, verrà il tuo momento, e verrà molto presto» rispose lui.
Jordan salì sul bus e si sedette in fondo, da solo col padre, perso nel suo
oscuro mondo. Probabilmente fu il punto più basso della sua carriera. Quel
giorno, in fondo al bus, si mise a piangere. I Bulls avevano di nuovo perso
contro i rivali di sempre e di nuovo mise in discussione il valore dei
compagni, in particolare quello di Pippen. A Jordan non importava capire i
motivi scatenanti della sua emicrania, se fosse stata reale, se fosse stata
innescata dalla tensione o da qualcos’altro. Per lui contava solo il fatto che
Pippen lo aveva di nuovo deluso in un momento critico e l’incertezza su di
lui – sulla sua determinazione, non sul suo talento – non si risolse.
La delusione del momento oscurava il fatto che i Bulls erano in ascesa,
che avevano vinto cinquantacinque partite in stagione e che erano arrivati
ancora più avanti nelle finali di Conference, vincendo tre partite quando
negli anni precedenti ne avevano vinta una e poi due. La differenza fra i
Bulls e i Pistons era molto sottile ormai, e anzi i giocatori più giovani dei
Bulls erano più completi e avevano più talento dei giovani dei Pistons.
Michael Jordan, alle soglie dei ventotto anni, stava per raggiungere l’apice
della sua condizione, in cui le incredibili abilità fisiche si mescolavano a
una conoscenza sempre più approfondita del gioco a livello professionistico
e a un’astuzia sempre più consumata. Anche Pippen e Grant erano in
ascesa. I Pistons invece avevano raggiunto il massimo delle loro possibilità
e non potevano andare oltre, anche se erano ancora in pochi a rendersene
conto, forse lo staff e un paio di giocatori.
20
Chicago, 1990-1991

Spesso, in NBA, la vittoria è più legata alle qualità psicologiche che a


quelle fisiche. Gli allenatori e i giocatori di lungo corso sanno che il
margine dipende soprattutto dal grado superiore di determinazione. I
giocatori di alto livello appartenenti a grandi squadre sanno come ottenere
la vittoria, come concludere una partita, come bloccare una folla ostile
lungo la strada: le grandi squadre sono in grado di piegare al proprio volere
le squadre più deboli. Queste frasi possono anche suonare come luoghi
comuni nel mondo esterno, ma dentro la Lega sono Vangelo. In una
stagione lunga come quella dell’NBA, in cui ogni partita si fonde con la
successiva e spesso la fatica mentale supera quella fisica, quello che
distingue un grande giocatore è la capacità, anche in una gelida trasferta di
febbraio in cui si sente pien0 di acciacchi, di non sottovalutare una partita
con una squadra minore e di affrontarla con un alto grado di preparazione.
La grandezza nell’NBA non richiede soltanto un’abilità straordinaria, ma
anche la capacità di giocare al massimo sera dopo sera e di ispirare i
compagni a fare lo stesso. È questo che distingue i giocatori come Bird,
Johnson e Thomas, non solo l’incrollabile volontà ma anche l’effetto sui
compagni. Nel 1990 i Bulls e i Pistons sembravano praticamente alla pari,
anzi in termini di puro talento i Bulls erano anche superiori. Ma fino a quel
momento i Pistons avevano avuto la meglio perché erano riusciti a entrare
nella testa degli avversari.
La cosa peggiore per una squadra ai vertici del campionato era mostrare
un qualsiasi grado di vulnerabilità, in particolare se si considerava in ascesa.
Per questo la determinazione era fondamentale: sarebbe stata sufficiente a
mettere a nudo le debolezze di una squadra rivale e di enfatizzarle ai suoi
stessi giocatori, prima che loro facessero lo stesso? Chi ballava per chi? Se
la magia funzionava, come nel caso dei testa a testa fra Detroit e Chicago,
fra i giocatori si diffondeva un senso di invincibilità e gli avversari
cominciavano a sentirsi perdenti. Dimostrare anche una vulnerabilità
momentanea, per contro, era come far cadere del sangue in una vasca di
squali.
I Pistons avevano subito lo stesso trattamento da parte dei Celtics negli
anni d’oro del trio Bird-McHale-Parish. La sconfitta di misura nelle finali di
Conference del 1987 aveva in realtà avviato la dissoluzione del dominio
psicologico dei Celtics sulla squadra. Allo stesso modo, le ceneri della
sconfitta di Chicago contenevano i semi della futura vittoria. Alcuni dei
giocatori dei Bulls erano usciti dalle Finals di Conference del 1990
profondamente delusi, convinti che l’incantesimo dei Pistons avesse
funzionato ancora una volta, ma lo staff non era così pessimista. Non solo i
Bulls avevano ridotto ulteriormente il divario con Detroit, ma si erano
comportati meglio di qualsiasi altra squadra della Western Conference
contro quegli avversari. Nel 1989 i Lakers erano stati sbaragliati in quattro
partite, e i Trail Blazers dopo una vittoria avevano subito tre sconfitte in
casa. Si dimostrava quindi che le vere finali NBA erano le finali della
Eastern Conference e che i Bulls erano più forti di qualunque squadra
l’Ovest potesse offrire.
Era molto allettante. Se i Bulls fossero riusciti a battere i Pistons,
avrebbero finalmente conquistato l’anello e grazie alla loro giovane età
avrebbero anche potuto conservarlo per diverso tempo. Phil Jackson e i suoi
assistenti pensavano che i Bulls stessero raggiungendo l’apice, e anche
molto in fretta. Non era solo questione di scoprire come superare l’ultimo
ostacolo: i Bulls dovevano capire come smettere di autosabotarsi e per farlo
dovevano cominciare a credere in se stessi. Avrebbero dovuto diventare più
duri, fisicamente e mentalmente, e smettere di lasciare che fossero i Pistons
a dettare il ritmo delle partite. E avrebbero dovuto imparare a vincere al
Palace, la splendida struttura sportiva di Auburn Hills inaugurata
nell’autunno del 1988 per ospitare le partite in casa dei Pistons. Dal giorno
dell’apertura, i Bulls in quel posto avevano vinto soltanto una partita.
Il primo passo doveva essere quello di irrobustirsi fisicamente. Nessuno
pensava che i Pistons avessero più talento dei Bulls, e nemmeno più
intelligenza. Però erano palesemente più duri e determinati. Il primo
segnale che questa consapevolezza degli allenatori era condivisa anche dai
giocatori arrivò il giorno successivo a quell’ultima sconfitta ad Auburn
Hills. La partita si era svolta di domenica e il lunedì gli allenatori si erano
riuniti negli uffici al Multiplex, la struttura dove si svolgevano gli
allenamenti, per discutere della stagione appena passata. Alla fine
dell’incontro guardarono il campo e videro che Grant e Pippen si stavano
allenando con i pesi. Evidentemente la stagione 1990-91 era già cominciata.
Non ci voleva un genio per capire che se ciascun giocatore di Chicago si
fosse irrobustito sarebbe poi sceso in campo con molta più sicurezza contro
una squadra i cui giocatori si vantavano di essere dei bulli. All’improvviso
quell’estate tutti i giocatori dei Bulls cominciarono ad allenarsi. Non c’era
stata nessuna richiesta ufficiale degli allenatori, lo avevano fatto e basta.
Durante il weekend del Quattro Luglio uno degli allenatori passò dal centro
allenamenti e scoprì che praticamente l’intera squadra stava facendo
sollevamento pesi. Era chiaro che la delusione per l’ultima sconfitta contro
Detroit era stata smaltita, sostituita dalla sensazione di essere arrivati a un
soffio dalla vittoria e dall’idea che la conquista dell’anello fosse possibile. I
giocatori non vedevano l’ora di cominciare la nuova stagione.
Michael Jordan aveva cominciato ad allenarsi sul serio già dall’anno
precedente. Dopo la sconfitta del 1990 per mano dei Pistons aveva detto ai
giornalisti che era stufo di prendere i colpi degli avversari e che era deciso a
mettere su un po’ di muscoli. Quell’articolo era stato letto da un giovane
preparatore atletico di Chicago di nome Tim Grover. Grover aveva giocato
per l’Università di Illinois-Chicago e pur essendo alto soltanto uno e
settantacinque era un vero patito del basket e della forma fisica. Entrambi i
genitori lavoravano al Northwestern Memorial Hospital – la madre era
infermiera e il padre dirigeva uno dei laboratori – e avevano sperato che
dopo il diploma si iscrivesse a medicina, ma lui si era innamorato del
mondo dello sport e aveva deciso di entrare nel settore del fitness, sempre
più in crescita data l’ossessione degli americani per la forma fisica. Grover
seguì dei corsi universitari di fisiologia, con l’obiettivo di ottenere un
master e diventare fisiologo dello sport. Al momento di scrivere la tesi per
il master creò un programma di rafforzamento per giocatori di basket,
mirato ad aumentare la potenza e la resistenza agli infortuni senza
aggiungere massa e rallentarli.
A completamento dei suoi studi decise di lavorare con due licei della
zona. In una delle scuole ottenne il permesso di creare un modesto
programma di allenamento in cui testare concetti di fitness relativamente
elementari. Nell’altra scuola non avviò alcun programma, ma si limitò a
monitorare i progressi della squadra. La differenza che riscontrò fra le due
scuole fu incredibile. Nel liceo dove aveva messo in pratica le sue idee il
numero di infortuni era sceso drasticamente e i giocatori continuavano a
giocare molto bene anche nelle fasi finali delle partite, mentre nell’altro si
verificavano più infortuni e il livello del gioco scadeva a fine partita.
Grover era certo che fosse una prima conferma, anche se embrionale, della
validità delle sue idee. Conseguì il master nel 1986 e tre anni dopo, quando
lesse la dichiarazione di Michael che chiedeva aiuto in un’area che stava
studiando da sei o sette anni, lavorava in una palestra locale. Era una
prospettiva allettante: la possibilità di mettere in pratica le sue abilità e la
sua passione per il miglioramento della forma fisica sul miglior giocatore in
circolazione, un atleta che era in grado di fare tutto quello che a Grover
stesso sarebbe piaciuto fare, se solo avesse avuto la sua corporatura e il suo
talento. Grover chiamò il dottor John Hefferon, il medico della squadra, che
era associato all’ospedale dove lavoravano i genitori ed era una specie di
amico di famiglia. Hefferon si mise subito a ridere. «Perché ridi?» chiese
Grover. «Perché io e Michael stiamo discutendo di questo tema da qualche
mese e il tuo nome è uscito diverse volte. Gli stavo appunto dicendo che voi
due dovreste conoscervi».
Grover incontrò prima Mark Pfeil, il preparatore atletico dei Bulls. Gli
spiegò la sua filosofia, che prevedeva di lavorare sulla parte superiore del
corpo per irrobustirlo senza sacrificare la velocità e l’elasticità della parte
inferiore, rendendo quindi Jordan più forte ma non più lento. Inoltre voleva
concentrarsi sugli aspetti in cui i giocatori di basket erano più vulnerabili
agli infortuni. Pfeil, che conosceva bene i tipi di infortuni causati da una
stagione professionistica tanto intensa, ne fu molto colpito. Alla fine
dell’incontro gli disse: «Mi piaci, e so che anche John Hefferon ti apprezza.
Credo che dovresti conoscere Michael».
Grover incontrò Jordan quel giorno stesso, dopo gli allenamenti, e l’unica
cosa che il giocatore gli disse fu: «Sei più giovane di me. Non avevo mai
lavorato con qualcuno più giovane, prima».
Grover disse a Jordan che non poteva migliorare il suo gioco ma che
poteva renderlo più forte e, cosa altrettanto importante, quasi sicuramente
poteva prolungargli la carriera. Era un grosso incentivo: Jordan sapeva bene
che giocatori come Julius Erving si erano dedicati al sollevamento pesi
soltanto in un momento avanzato della carriera. Grover invece gli
proponeva di cominciare subito. La cosa pareva sensata. Grover gli disse
anche che secondo lui c’erano un modo giusto e uno sbagliato di allenarsi e
che invece di cercare di fare troppo e troppo in fretta avrebbero dovuto
distribuire il lavoro in diversi anni, aggiungendo peso e potenza poco per
volta invece di sovraccaricare il corpo in un colpo solo. All’esordio nella
Lega, Jordan pesava ottantaquattro chili e quando incontrò Grover ne
pesava ottantotto. Discussero di quale fosse il peso ideale per lui: Jordan
pensava fosse novantasette chili, stima che si dimostrò sorprendentemente
accurata. Grover valutò che ci sarebbero voluti tre o quattro anni per
raggiungerlo. Due o tre chili all’anno erano probabilmente l’obiettivo
ideale, perché in quel modo il corpo avrebbe potuto adattarsi gradualmente,
costruire i muscoli e mantenere l’agilità. «Se cerchiamo di ingrossarti
troppo in fretta il tuo gioco ne soffrirà e perderai qualcosa» gli disse.
Grover poi avvertì Jordan che, se accettava di seguire il suo programma,
per i primi mesi doveva aspettarsi, se non una vera sofferenza, come
minimo un certo disorientamento, perché il nuovo allenamento avrebbe
modificato la sua meccanica di tiro. Gli spiegò che il basket era basato sulla
memoria muscolare e che il programma avrebbe interferito con la sua. «Il
tuo tempismo si modificherà, sbaglierai i tiri in sospensione e ti infurierai.
Dovrai fidarti di me se ti dico che alla fine tornerà tutto a posto». Michael
Jordan si mise a ridere, certo che il suo istinto per i tiri, sempre così
infallibile, non lo avrebbe abbandonato soltanto per una modifica negli
allenamenti. Disse che avrebbe provato il regime di Grover per trenta giorni
e gliene diede dieci per trovare le attrezzature necessarie. Grover chiese
quale fosse il budget a disposizione e Jordan gli diede carta bianca. Più tardi
Grover pensò che c’erano diverse ragioni per cui Jordan aveva deciso di
lavorare con lui invece che con Al Vermeil: voleva assoluta privacy e una
persona dedicata esclusivamente a lui e che gli garantisse la sua lealtà,
mentre Vermeil rispondeva alla dirigenza dei Bulls e, per quanto fosse
bravo, lavorava per Krause e quindi lo rendeva diffidente.
Cominciarono il programma. L’avvertimento di Grover si rivelò
profetico: il gioco di Jordan sembrava in pezzi, sparirono i tiri in
sospensione, sbagliava perfino i lay-up. Questo però non fece che
consolidare la credibilità di Grover. Jordan e Grover lavorarono non
soltanto per rinforzare la parte superiore del corpo, ma anche per irrobustire
le parti più vulnerabili agli infortuni tipici del basket: le caviglie, i polsi, le
spalle, le ginocchia e le anche. Era il vero lavoro sporco, secondo Grover, e
la maggior parte dei grandi giocatori lo trascuravano perché non ne
ricavavano vantaggi immediati: non rendeva il corpo più agile o più
robusto, al massimo poteva garantire una parziale immunità a certi tipi di
traumi. Grover fu molto colpito dall’impegno di Jordan, che si sottomise di
buon grado a quegli esercizi lunghi e noiosi. Per esempio, c’era il problema
degli strappi inguinali: per il modo in cui i cestisti dovevano spostare i piedi
in difesa – con continui movimenti laterali – erano facilmente soggetti agli
strappi inguinali e in passato erano stati un grave fastidio anche per Jordan.
Grover fece alcuni test e scoprì che i muscoli all’interno delle gambe di
Michael erano molto più forti di quelli all’esterno. Questo squilibrio poteva
essere una delle cause dei traumi ripetuti. Studiarono una serie di esercizi
mirati a riequilibrare la muscolatura e quindi a ridurre il numero di strappi.
Non tutti pensavano che quel programma di rafforzamento fosse una
buona idea. Un caro amico di Michael, Howard White, pensava che fosse
un errore. «Tu sei un purosangue» gli diceva. «Perché incasinare tutto?
Potresti perdere un po’ di velocità».
Ma Jordan era irremovibile. «Howard, non sei tu che prendi tutti quei
colpi. Quella gente mi picchia a morte, devo diventare più forte».
Era un bravo allievo con un bravo maestro. Si vedeva subito che Jordan
era disposto a pagare il prezzo delle sue ambizioni. Non solo era molto ligio
agli allenamenti, ma seguiva il programma di Grover con insolita dedizione.
Non cercava di imbrogliare. All’inizio avevano programmato le sessioni
dopo gli allenamenti, ma Jordan si impegnava a tal punto che finiva per
arrivare troppo stanco, così le spostarono al mattino: per questo le sedute
con Grover presero il nome di ‘The Breakfast Club’. Alla fine degli anni
novanta, quando la squadra si trovava a Chicago, Ron Harper e Scottie
Pippen si allenavano con Jordan nella palestra di casa sua tutte le mattine e
poi consumavano una colazione preparata da uno chef in base alle
indicazioni di Grover. Le sessioni erano alternate, una dedicata alla parte
superiore del corpo e la successiva a quella inferiore. Avevano concordato
di non parlarne con i media perché Michael Jordan voleva mantenere il
segreto su quell’attività. Era un trendsetter e sapeva che altri giocatori lo
imitavano in tutto, dal taglio di capelli alla lunghezza dei pantaloncini, e
non vedeva l’utilità di pubblicizzare quello che considerava un vantaggio
decisivo davanti ad avversari che voleva distruggere.
Gli effetti a lungo termine del programma di Grover vennero alla luce
soltanto molto più tardi, dopo l’abbandono del basket, l’ingresso nel
baseball e il ritorno al basket, quando Jordan prolungò la carriera
mantenendo un raro livello di eccellenza ben oltre i trent’anni, un’età in cui
la maggior parte dei giocatori, a parte i centri che erano un po’ più longevi,
affrontano un declino evidente. Nelle sette stagioni in cui Jordan fu seguito
da Grover saltò soltanto sei partite. Nelle tre stagioni complete che giocò
dopo il rientro nel basket non ne saltò nessuna.
I segnali del successo del programma di Grover furono subito evidenti.
Jordan era più robusto e più potente, le spalle e le braccia riflettevano
questa nuova condizione. «Mi stai costando un sacco di soldi» gli ripeteva
ogni anno, e Grover stava al gioco e gli chiedeva perché. «Perché devo
continuamente rinnovare il guardaroba, i vestiti non mi stanno più». Alla
fine del primo anno era già chiaro che il suo corpo era più forte, in
particolare perché Jordan divenne molto più bravo a concludere i terzi
tempi. In passato, quando si lanciava verso il canestro, se veniva colpito
spesso non riusciva a concludere l’azione perché l’avversario era troppo
grosso. Ora invece poteva assorbire il colpo e trovare la forza di arrivare al
tiro.
Quando giocava contro squadre che in passato lo avevano
deliberatamente colpito, ora era spesso lui ad aggredire le guardie
avversarie: un notevole scambio di ruoli. E non era soltanto Jordan ad aver
subito quell’evoluzione. Anche Grant e Pippen si erano allenati duramente
ed erano più robusti e determinati. Durante le finali della Eastern
Conference del 1990, quando i Bulls erano in svantaggio di due partite,
Jordan li aveva visti comportarsi in modo troppo superficiale in
allenamento e si era infuriato perché gli sembrava che non prendessero il
gioco abbastanza sul serio. Questo non succedeva più. Nella stagione 1990-
91 Pippen maturò molto. Durante la stagione precedente aveva partecipato
per la prima volta all’All Star Game e si era innescato un circolo virtuoso
grazie al quale la forza portava vittorie, le vittorie portavano sicurezza e la
sicurezza portava altre vittorie. Nell’NBA questi elementi si alimentavano a
vicenda. Pippen visse un anno rivoluzionario, mettendo a segno una media
di 18 punti, 7 rimbalzi e 6 assist a partita e diventando inoltre un grande
difensore.
Quell’anno, osservando Chicago, Chuck Daly capì che il tempo giocava
contro la sua squadra e che i Bulls probabilmente li avevano raggiunti,
soprattutto grazie al miglioramento di Pippen. La sua maturazione fu un
doppio vantaggio, perché emergendo come un grande giocatore cambiò
anche Jordan, convincendolo a giocare più di squadra. I due si stavano
abituando allo schema di Tex Winter, che permetteva a entrambi di muovere
la palla e di mettere in atto azioni offensive inarrestabili. Sarebbe stato
molto più difficile per i Pistons imprigionare Jordan come avevano fatto in
passato. La squadra di Daly non era più in ascesa: avevano perso un
elemento fondamentale quando Rick Mahorn era stato preso da Minnesota
l’anno precedente. Senza di lui non erano più così duri e minacciosi.
Durante la stagione Laimbeer era stato sentito più volte lamentarsi che non
ci fosse più fame di vittoria, che la spinta del passato era svanita.
L’aspetto sorprendente di quella stagione fu la rapidità del cambiamento.
Prima della pausa per l’All Star Game i Bulls avevano giocato bene,
vincendo più di due partite su tre nella sequenza di trasferte. Avevano vinto
a Sacramento, poi erano volati a Detroit per affrontare i Pistons ad Auburn
Hills per l’ultima partita prima della pausa. Avevano perso dodici delle
ultime tredici partite disputate in quella struttura e Jackson pensava che se
c’era un momento ideale per vincere, doveva essere quello. La squadra
aveva un record di trentuno vittorie e quattordici sconfitte, i pezzi erano
tutti a posto e miracolosamente Isiah Thomas non giocava a causa di un
infortunio al polso. I Pistons erano ben consapevoli dell’importanza di
quella partita, prima di entrare in campo Chuck Daly aveva ricordato a tutti
che poteva determinare il vantaggio del campo nei playoff. John Salley dei
Pistons, uno dei giocatori più citati della Lega, disse chiaramente ai
giornalisti di Chicago: «Hanno la stessa sindrome che avevamo noi contro
Boston: l’intima sensazione che avremmo sempre perso in casa loro. Ma un
giorno ci siamo resi conto che erano persone normali, proprio come noi. È
così che Chicago deve affrontare le partite contro di noi».
Fu comunque una sfida molto combattuta. Bill Cartwright fu espulso al
terzo quarto: c’era stata una breve collisione con Laimbeer, che si era subito
buttato a terra. L’arbitro gli aveva assegnato un fallo, Cartwright aveva
protestato ed era stato immediatamente espulso. Nel quarto quarto lo
scontro si era fatto sempre più fisico. Durante un time out gli allenatori di
Chicago cominciarono a temere che Horace Grant stesse cedendo agli
attacchi di Detroit: ogni volta che i Pistons lo colpivano si girava verso gli
arbitri, come in cerca di aiuto. Jimmy Cleamons lo interpretò come un
segnale di sconfitta. Come gli altri allenatori, sapeva che gli arbitri lo
avrebbero interpretato come un piagnucolio. A quel livello, quando si
affrontava il campione in carica in casa, occorreva dimostrare agli arbitri di
essere abbastanza duri per diventare campioni. Per conquistare la corona
occorreva impegnarsi con tutte le forze e non si poteva chiedere aiuto agli
arbitri, perché non lo avrebbero concesso. Più si chiedeva un intervento e
meno se ne ottenevano. Era un mondo ingiusto: i campioni non chiedevano
interventi, se mai venivano richiamati per le proprie infrazioni. Nel corso
del time out successivo Cleamons disse a Grant: «Gioca e basta! Non
lamentarti!»
A quattro minuti dalla fine i Pistons avevano un vantaggio di 5 punti che,
data la natura della loro difesa, era considerevole, soprattutto in casa. Nel
passato i Pistons avevano quasi sempre concluso le partite meglio dei Bulls
e troppo spesso i Bulls avevano finito per cedere le armi. Ma Pippen segnò
in sospensione e poi toccò a Jordan, dopo un rimbalzo offensivo di Grant.
Per qualche motivo, negli ultimi due minuti finalmente gli arbitri
cominciarono a fischiare falli a favore dei Bulls. A bordo campo Daly si
mise a urlare contro di loro, insistendo che i Pistons giocavano in casa e
quindi avevano diritto a un trattamento di favore. I Bulls vinsero 95-93.
Johnny Bach, che aveva sempre definito Detroit come l’albatros di
Chicago, dopo la partita dichiarò estasiato che l’albatros se ne era
finalmente andato. In un’intervista post partita Jackson disse che la scimmia
era scesa dalla spalla dei Bulls. Fossero un uccello o un primate, i Pistons
erano spariti.
Con quella vittoria i Bulls diventarono inarrestabili. Dopo l’All Star
Game inanellarono nove vittorie consecutive, persero una partita con
Indiana ma poi ne vinsero altre nove. Al termine dei due periodi avevano un
record di cinquanta vittorie e quindici sconfitte. Durante la stagione
precedente i Pistons avevano vinto cinquantanove partite, ma quell’anno ne
vinsero soltanto cinquanta. I Bulls invece salirono dalle cinquantacinque
vittorie dell’anno precedente a sessantuno, il record migliore di sempre per
la squadra. Un balzo di quindici vittorie. La congiunzione astrale si era
finalmente verificata.
Nei playoff i Bulls continuarono la corsa: sbaragliarono i Knicks 3-0 al
primo turno e inflissero quattro sconfitte su cinque ai 76ers nel secondo. Si
erano guadagnati quello che desideravano di più, una rivincita contro i
Pistons, e stavolta con il vantaggio del campo.
I Pistons che arrivarono a Chicago per le finali della Eastern Conference
del 1991 abbaiavano ancora, ma non mordevano più, e avevano anche meno
ascendente sugli arbitri. Phil Jackson aveva inviato alla Lega un video
attentamente montato per evidenziare i peggiori colpi bassi che i Pistons
avevano inflitto ai Bulls in passato e non c’era dubbio che avesse suscitato
una reazione: la Lega non era soddisfatta dell’immagine dei Bad Boys e
tantomeno dell’implicazione che la forza bruta stesse diventando più
importante dell’abilità in un gioco che si presentava come basato sul talento
atletico dei giocatori. I Pistons quindi minacciavano ancora molto a parole,
ma non facevano più paura, soprattutto senza Mahorn. Anzi, furono se mai i
Bulls a mettere a segno il primo colpo, con una gomitata al petto inflitta da
Jordan a Joe Dumars come benvenuto in Gara Uno. In quella partita fu
Jordan a provocare Rodman, sperando, secondo gli allenatori, di infondere
sicurezza ai compagni. A un certo punto Jordan, marcato da John Salley,
aveva la palla in mano e minacciava un terzo tempo. Salley, il cui
soprannome era Spider, ragno, gridò: «Non ti avvicinare alla tela del
ragno!» Jordan si lanciò in avanti, cambiò direzione all’ultimo secondo e
infilò la palla dritta nella retina. «Stoppami questo, stronzo!» gridò a Salley,
e l’altro capì che la magia dei Pistons era svanita. Nel quarto quarto i
Pistons si stancarono e i Bulls conquistarono la vittoria.
In Gara Due, i Bulls dominarono ancora di più. Jackson fece portare la
palla a Pippen dall’altra parte del campo: era molto abile e veloce, come
una guardia meno alta, e se i Pistons lo avessero contrastato avrebbero
rischiato problemi di accoppiamento nella metà campo offensiva. I Pistons
sembravano incapaci di fare pressione sui Bulls, che ormai dettavano il
ritmo e andavano in lunetta molto più di Detroit. Chicago vinse Gara Due
senza difficoltà, ma i Bulls dovevano ancora vincere ad Auburn Hills nei
playoff. In Gara Tre i Bulls guadagnarono in molte occasioni un grande
vantaggio – nel terzo quarto anche 16 punti – ma nel quarto quarto i Pistons
lo ridussero a 8. Detroit fece un’ultima rimonta, arrivando a 5 punti di
distanza a due minuti e mezzo dalla fine. Durante il successivo possesso dei
Bulls, i Pistons rubarono la palla e Vinnie Johnson si lanciò a canestro.
Jordan lo inseguì e stava per raggiungerlo quando Johnson si guardò alle
spalle, sentendolo arrivare, e rallentò all’ultimo secondo per lasciarsi
superare di slancio. Non si sa come, Jordan intuì la sua intenzione e si
adattò in modo meraviglioso, obbligando Johnson a lanciare un tiro debole
e sbilanciato di cui Jordan prese il rimbalzo. La spinta dei Pistons si esaurì e
i Bulls vinsero la partita. 3-0.
Per Gara Quattro i Pistons non avevano quasi più energie. Laimbeer tirò
un colpo basso a Paxson mentre faceva un terzo tempo e Paxson reagì
immediatamente, fece i tiri liberi e poi centrò tre tiri in sospensione di fila.
Nel secondo quarto Rodman colpì Pippen così forte da mandarlo fuori dal
campo e rischiare di procurargli danni potenzialmente irrimediabili. Si
procurò un taglio sul mento che richiese sei punti di sutura. Come scrisse
poi Sam Smith, Rodman (che nella successiva incarnazione di stravagante
provocatore dei media si sarebbe vestito da donna e avrebbe frequentato
locali gay) continuava a ripetere agli arbitri: «Pensate che conti qualcosa?
Lo faccio di nuovo. Non vogliamo froci qui, e lui è frocio… qui non si
accettano le solite stronzate da froci». Pippen non si lasciò fermare, anzi se
c’era un segnale della nuova determinazione acquisita dai Bulls era che
rispondevano a tono a tutto quel trash talking.
I Bulls vinsero facilmente. Avevano sbaragliato i Pistons, i demoni erano
stati esorcizzati. Negli ultimi secondi i giocatori dei Pistons, guidati da Isiah
Thomas, uscirono dal campo senza stringere la mano ai Bulls. A quanto
pare c’era stata una discussione in proposito. Era stata un’idea di Isiah e
quasi tutti gli altri avevano aderito. In origine Isiah doveva prendere un
microfono e ringraziare i tifosi di Detroit per la loro fedeltà, ma Daly,
sbalordito, lo aveva implorato di non farlo ed era riuscito a convincerlo,
dicendogli che se lo avesse fatto il loro comportamento non sarebbe mai
stato dimenticato. Quindi quello che accadde fu una specie di
compromesso: se ne andarono senza fare dichiarazioni pubbliche ma anche
senza mostrare il tradizionale rispetto per l’avversario. Fu quella scena, più
di ogni altra, che molti tifosi al di fuori di Detroit ricordarono in
associazione ai Bad Boys.
21
Chicago; Los Angeles, 1991

Dopo aver battuto Detroit nella finale della Eastern Conference, i Bulls
affrontarono i Los Angeles Lakers per la loro prima occasione di
conquistare l’anello. Per i Lakers era la nona presenza alle finali nell’era di
Magic Johnson, iniziata nel 1980, undici anni prima. Non c’erano più né
Kareem Abdul-Jabbar né Michael Cooper e in teoria Johnson avrebbe
dovuto essere ormai al crepuscolo, ma era ancora un giocatore straordinario
con una squadra molto forte alle spalle. Se in campo aveva cominciato a
declinare, gli avversari non lo avevano ancora capito. Johnson aveva ancora
un gruppo stellare a supporto, con James Worthy, Sam Perkins, A.C. Green,
Mychal Thompson, Byron Scott e Vlade Divac. I Lakers, allenati da Mike
Dunleavy, quell’anno avevano vinto cinquantotto partite. Avevano smesso
di fare i vecchi numeri degli inizi e utilizzavano una strategia offensiva più
mirata, studiata anche per conservare energie, ma erano comunque una
franchigia formidabile e i giocatori erano abituati alla pressione
dell’attenzione mediatica e della confusione che si creava intorno alle finali
NBA. Non si poteva dire lo stesso dei Bulls, eccezion fatta naturalmente per
Michael Jordan, che era costantemente sotto i riflettori. Quello scontro era
esattamente ciò che la dirigenza dell’NBA e della NBC avevano a lungo
desiderato: i giovani e rudi pistoleri di Chicago contro i veterani di Los
Angeles, una superstar ingombrante ma più anziana contro una in ascesa,
quella che l’intero Paese aspettava di vedere nelle Finals.
In un certo senso fu lo scontro di due fantastici sorrisi. Magic Johnson
aveva un sorriso luminoso, che sembrava più abituale per lui di quanto non
fosse per Michael Jordan. Il sorriso di Jordan era più controllato, così come
il suo carattere, forse era ancora più brillante ma si vedeva più raramente,
solo in occasioni speciali come le cerimonie dell’anello e le sedute
fotografiche per i vari sponsor. Questa selettività lo rendeva più efficace
presso il pubblico, alla fine della partita il cipiglio del guerriero spariva
all’improvviso per lasciare il posto al fiammeggiante sorriso del vincitore. Il
sorriso di Johnson era il suo segno distintivo in campo, sembrava esprimere
il puro piacere del gioco e guardandolo era facile dimenticare quanto fosse
esigente con i compagni, che redarguiva all’istante a ogni sospetto di
distrazione o superficialità. Il compagno di lungo corso Mychal Thompson
ebbe a dire: «Dimenticate il sorriso di Magic, non lo rappresenta davvero.
Lui era come Ali, e anche Ali sorrideva molto, ma quello che volevano era
ucciderti e non si sarebbero accontentati di niente di meno».
Lo scontro in finale fra Lakers e Bulls diede l’occasione agli addetti ai
lavori di confrontare due superstar molto diverse. Johnson in campo era un
leader naturale e giocava nel ruolo giusto, quello di playmaker. Secondo la
perspicace analisi di Mark Heisler del Los Angeles Times, che aveva seguito
a lungo entrambi gli atleti, l’istinto di Jordan era quello di fare, più che di
guidare gli altri. Non gli veniva naturale condividere la palla e far
migliorare i compagni. James Worthy, uno dei pochi a conoscerli bene
entrambi, una volta disse che Johnson in realtà era più intenso di Jordan:
«Michael è più intenso in se stesso, Magic è più intenso per tutti quanti».
Era ben noto il fatto che Jordan pretendesse moltissimo dai compagni,
soprattutto perché aveva avuto tante difficoltà lavorando con giocatori di
basso livello. Johnson invece non aveva fama di essere uno che pungolava e
redarguiva, perché fin dall’inizio aveva avuto la fortuna di essere circondato
da grandi giocatori. La squadra dei Lakers al suo arrivo era già come
un’ottima automobile che aveva soltanto bisogno di un sistema di
avviamento, e quello era lui. Per lui vincere era una cosa seria: al liceo
aveva portato Michigan State alla vittoria nell’NCAA a soli diciannove anni
e poi aveva preso i Lakers, che non erano più andati in finale dal 1973,
portandoli all’anello già nel primo anno, vincendo da rookie quando non
aveva neanche raggiunto l’età legale per gli alcolici in molti stati americani.
Non era bravo negli uno-contro-uno, non era un tiratore perfetto e la sua
abilità nel salto era piuttosto limitata, ma aveva un’immensa fame di
vittoria, viveva il gioco con grande gioia e il suo istinto in campo, che gli
diceva quando e dove passare la palla, era quasi inarrivabile. Aveva
un’ottima visione periferica e un perfetto controllo di palla grazie alle mani
enormi, inoltre la sua altezza – due metri e sei, inaudita per un playmaker –
significava che non solo i difensori non riuscivano a bloccargli la visuale
ma che poteva creare continuamente problemi di accoppiamento. L’estrema
sensibilità in campo, la capacità di fare il passaggio giusto al momento
giusto in accordo con il flusso del gioco era davvero speciale. Gli allenatori
e gli scout che seguivano le partite concentrandosi esclusivamente su di lui,
nel tentativo di scoprire quali fossero i suoi punti deboli, spesso se ne
andavano scuotendo la testa, convinti che non ne esistesse nessuno.
Magic Johnson era il prototipo del maschio alfa nel basket, il suo
comportamento in campo era un’estensione naturale della sua personalità.
Conoscendolo era difficile immaginare un’area in cui non avrebbe preso il
comando. I Lakers erano diventati la sua squadra praticamente da subito.
«Quando lo abbiamo scelto al draft lo consideravamo un ottimo elemento»
ebbe a dire Jerry West anni dopo «e pensavamo che avrebbe gestito molto
bene la palla, condividendola con i compagni. Ma non avevamo idea che
avrebbe conquistato la squadra ed esercitato la sua leadership così in fretta,
già a metà della prima stagione».
I soprannomi riflettevano diversi aspetti del suo carattere. Per i tifosi e
per la maggior parte dei cronisti sportivi era Magic, per le magie che faceva
in campo. Era il nomignolo usato da chi non lo conosceva bene, chi viveva
fuori dal mondo del basket ma voleva sentirsi un addetto ai lavori. Quelli
che lo conoscevano di persona, invece, lo chiamavano Earvin (il suo nome
di battesimo), che a lui piaceva molto. I compagni di squadra e gli amici più
stretti – i pochi eletti – lo chiamavano ‘Buck’, che in inglese significa cervo
maschio, un soprannome ideato dal compagno di squadra Norm Nixon al
suo arrivo a Los Angeles perché la sua energia, la spinta vitale e la fame di
vittorie gli ricordavano un giovane cervo.
Col tempo, dopo un periodo di consolidamento e l’arrivo in panchina di
Pat Riley, i Lakers diventarono una squadra molto determinata. Riley non
perdeva mai di vista l’obiettivo, era un giovane dalle radici popolari che
come giocatore era sempre stato consapevole dei propri limiti fisici. Sapeva
che quella era la sua grande occasione di conquistare l’anello. Un giorno,
dopo la fine della sua carriera da professionista, era virtualmente
disoccupato e aveva avuto la fortuna di incappare in un lavoretto come
assistente del commentatore sportivo Chick Hearn, che seguiva i Lakers, un
uomo che non aveva alcun bisogno né desiderio di un assistente. Il suo
compito principale consisteva nel dire: «Giusto, Chick» diverse volte nel
corso della telecronaca, come disse Mark Heisler. Poi gli era capitata
l’occasione di fare l’assistente allenatore per i Lakers e quando Paul
Westhead era stato licenziato aveva preso in mano la squadra, perché Jerry
West non voleva saperne di occuparsi della parte tecnica. Riley stesso era
sbalordito da quella concatenazione di eventi, ma dopo aver vinto il primo
anello decise di non lasciarsi sfuggire l’opportunità e di dare tutto quello
che aveva per mantenere il titolo.
Riley sapeva bene a chi andavano i maggiori meriti. Un giorno si trovava
insieme a un gruppo di amici estranei al mondo del basket e chiese loro di
trovare due parole che lo distinguessero da chiunque altro. Gli amici fecero
diversi tentativi: onestà? Lealtà? Determinazione? Semplicità?
Preparazione? Tutte sbagliate. Alla fine le disse lui: «Magic Johnson».
Riley e Johnson spinsero la squadra al massimo: se Riley era il generale,
come disse una volta James Worthy, Magic Johnson era il sergente
istruttore, quello che doveva alleviare il più possibile la pressione sul
generale. Gli allenamenti dei Lakers erano faccende molto serie. Era tutto
preordinato, non bisognava sprecare neanche un minuto. Magic Johnson era
il gendarme: era il primo ad arrivare ogni giorno, per schiarirsi la mente con
calma negli spogliatoi e pensare a tutto ciò che doveva fare per se stesso e
poi per i compagni. Non voleva confusione in spogliatoio, soprattutto prima
delle partite, per conservare la concentrazione. Niente altoparlanti: se
qualcuno voleva sentire la musica, doveva usare le cuffie. Il messaggio era
chiaro: quello era un ambiente di lavoro, non un’occasione sociale o un
club. Era Johnson a redarguire chi arrivava in ritardo agli allenamenti:
«Vediamo un po’. Tutto bene? Nessun malanno? Nessun lutto in famiglia?
Hai avuto un incidente d’auto venendo qui? Grazie a Dio!» Era un
messaggio molto chiaro. Era molto duro con A.C. Green, perché non aveva
le mani buone e non riusciva a gestire certi tipi di passaggi, e anche con
Vlade Divac che all’arrivo dalla Jugoslavia era un po’ troppo morbido per il
basket americano. Un compagno di squadra disse che a volte Johnson si
rivolgeva a Divac come avrebbe fatto con un cane; un cane a cui non era
particolarmente affezionato. Se i Lakers perdevano due partite di seguito,
Johnson si infuriava terribilmente, anche più di Riley.
La squadra che si era formata in quel decennio era davvero grande.
Soltanto i Celtics nel loro momento migliore erano paragonabili. Era
considerata una squadra morbida per la velocità e la capacità di giocare in
modo raffinato, nonché perché giocava a Los Angeles, che non era
considerata una città rude come per esempio Chicago o Detroit, ma nulla
poteva essere più lontano dalla verità. Pat Riley non allenava squadre
morbide e di certo Magic Johnson non ci giocava. I Lakers erano molto
determinati. Anche se ormai al posto di Riley era subentrato Dunleavy, i
Lakers erano ancora una squadra di tutto rispetto quando i Bulls li
affrontarono nella loro prima finale di campionato. Sarebbe stato un
confronto affascinante.
L’attacco di Jordan era molto spettacolare, perciò in pochi capivano che il
vero segno distintivo della squadra era la difesa. Un anno dopo Don Nelson,
che allora allenava Golden State, disse a Phil Jackson: «Non sai quanto sei
fortunato».
«Credo di saperlo bene, ma per che cosa in particolare?» chiese Jackson.
«I tuoi due migliori attaccanti sono anche i tuoi due migliori difensori» fu
la risposta. Era vero, si trattava di una condizione molto rara. Phil Jackson
non si illudeva di essere particolarmente bravo ad allenare l’attacco, ma
sapeva di essere molto efficace come allenatore della difesa. Quando aveva
preso in mano la squadra, nell’autunno del 1989, aveva insistito molto
perché i giocatori facessero un pressing costante. Il primo ritiro fu molto
duro. Dovevano essere tutti in forma perfetta e spingere al massimo sulla
difesa, l’energia impiegata avrebbe poi creato opportunità di attacco. Il
talento ce l’avevano, ma dovevano impegnarsi al massimo.
Michael Jordan era un ottimo difensore. Alcuni, come Mike Dunleavy, lo
consideravano il migliore in assoluto nel suo ruolo. Per questo era un
giocatore così completo. Il merito di tutto ciò andava a Dean Smith, che
vedendo le sue incredibili doti naturali e l’efficacia in attacco lo aveva
spinto a eccellere anche in difesa. Da quella fatica iniziale era uscito un
rarissimo esemplare di giocatore, una magnifica forza offensiva che era
anche disposta a impegnarsi nel lavoro sporco, sfiancante e spesso
trascurato, all’altra estremità del campo. All’inizio della carriera da
professionista Jordan aveva detto ai giornalisti che un giorno sperava di
vincere il titolo di miglior difensore dell’anno, oltre che di miglior
giocatore. Jan Hubbard, che allora scriveva per il Dallas Morning News,
aveva scritto che non era possibile, che giocare in attacco al suo livello
richiedeva troppe energie e che raggiungere lo stesso livello in difesa ne
richiedeva altrettante, nessuno poteva averne abbastanza per entrambi. Poi
però, nella stagione 1987-88, Jordan vinse entrambi i premi. Hubbard
scrisse di essersi sbagliato ma Michael, che voleva sempre avere l’ultima
parola, non gli permise mai di dimenticare che anche se solo per un
momento aveva sottovalutato Michael Jordan, un reato che andava oltre la
semplice infrazione giornalistica e sconfinava pericolosamente nel penale.
Durante quella stagione, Scottie Pippen si dimostrò un difensore forse
ancora migliore di Jordan, o comunque più versatile. Con quelle braccia
insolitamente lunghe, più di quelle di Jordan, riusciva a coniugare il gioco
di piede di una guardia con la capacità di occupare lo spazio di un centro. In
quel primo periodo fu aiutato soprattutto dalla possibilità di allenarsi ogni
giorno contro Jordan. L’equazione era semplice: se Pippen riusciva a
marcare Jordan, poteva marcare chiunque altro. I due, insieme a Horace
Grant, probabilmente l’ala grande più veloce in circolazione, rendevano
formidabile la difesa dei Bulls. Johnny Bach aveva soprannominato il trio ‘i
dobermann’ perché erano giovani, veloci e implacabili in difesa. In più
Cartwright in difesa aveva uno spiccato senso della posizione, anche se
aveva perso molta della sua efficacia in attacco: era molto complicato per i
centri avversari riuscire ad aver ragione di lui in partita. A prescindere dal
ritmo di gioco, i Bulls erano molto difficili da battere: la loro difesa era
estremamente agguerrita e quindi potevano vincere le partite a basso
punteggio, ma avevano anche esplosività negli attacchi in campo aperto e
quindi sapevano spuntarla anche quando si sforavano i 100 punti.
Prima di quel confronto diretto erano in pochi a sapere quanto valessero
davvero i Bulls. Sapevano quanto era forte Jordan, ma quella era un’altra
storia. Certo, quell’anno avevano sbaragliato i Pistons, ma soltanto chi
aveva giocato contro Detroit sapeva quanto fossero duri e quanto fosse
difficile batterli. Per contro, tutti sapevano quanto erano bravi i Lakers, o
pensavano di saperlo, perché erano sulla cresta dell’onda da un sacco di
tempo.
I primi due incontri si disputarono a Chicago. Nel primo i Bulls
dimostrarono un po’ di incertezza e una sorprendente lentezza nelle
rotazioni difensive. Alla fine Sam Perkins fece un tiro da tre e assicurò la
vittoria ai Lakers per 2 punti. Phil Jackson sentiva che la squadra aveva
giocato al di sotto delle proprie possibilità, che aveva pagato il nervosismo
della prima partita ed era sicuro di poter fare qualche aggiustamento alla
difesa per impedire il dilagare dell’attacco dei Lakers. Non era
particolarmente scontento. Avevano perso una partita ma gli era piaciuto
molto di quello che aveva visto ed era certo di poter recuperare. In Gara
Due un secondo fallo fischiato a Jordan piuttosto presto gli forzò la mano.
Accoppiò Pippen con Magic, una mossa difensiva su cui stava ragionando
da tempo. Fu un colpo di genio: Pippen era alto quasi come Johnson, ma
molto più veloce in quel momento delle rispettive carriere e Johnson non
era abituato a una combinazione del genere. La difesa di Pippen contro
Johnson sembrò mandare in confusione l’attacco dei Lakers, che soffrivano
anche l’assenza di James Worthy, fuori per una brutta distorsione alla
caviglia: Pippen era più bravo a controllare la palla e di conseguenza a
superare il pressing rispetto a Byron Scott, l’altra guardia. Senza Worthy la
pressione su Johnson era più difficile da gestire. I Bulls se ne accorsero e
aumentarono il pressing difensivo.
Nel frattempo i Bulls stavano trovando il proprio ritmo: nel terzo quarto
mandarono a segno 17 tiri su 20 dal campo e presero in mano la partita.
Jordan finì con 15/18 e Paxson con 8/8. Uno dei quindici canestri di Jordan
fu spettacolare: mentre si avvicinava a canestro con la palla nella mano
destra vide Sam Perkins, il suo ex compagno di squadra di Carolina, che gli
veniva incontro. Sembrò fermarsi a mezz’aria per un momento, poi passò la
palla nella sinistra e segnò. Nessun altro cestista avrebbe potuto realizzare
quel tiro, uno dei contributi al blowout: 107-86, un risultato che sfatò del
tutto l’idea che i Bulls fossero troppo giovani e inesperti per affrontare i
Lakers. A Chicago avevano vinto una partita a testa. Mentre si recavano a
Los Angeles, Phil Jackson disse che lì voleva vincerne due su tre. «E perché
non tre su tre?» chiese Jordan.
In Gara Tre, a Los Angeles, Jordan segnò un tiro in sospensione da
quattro metri e venti superando Byron Scott a 3,4 secondi dalla fine,
rendendo necessari i tempi supplementari. I Bulls, che erano più giovani e
freschi, vinsero, ma Jordan si infortunò all’alluce nell’atterraggio del salto
che aveva chiuso la partita. Il dolore fu immediato – all’inizio pensò che
fosse rotto – e limitò la sua capacità di fermarsi e ripartire di scatto. Chip
Schaefer, preparatore atletico dei Bulls dal 1990, cercò di costruire una
scarpa speciale per proteggere la parte ferita, ma quando la provò Michael
si rese conto che non riusciva più a fare i suoi tagli abituali. Subito prima
dell’inizio di Gara Quattro si rivolse a Schaefer e disse: «Preferisco il
dolore». Preferiva usare le solite sneakers e continuare a soffrire. Lo fece e
segnò 36 punti, portando Chicago alla terza vittoria consecutiva. Nel
secondo tempo Magic Johnson inveì contro i compagni, insistendo perché si
impegnassero di più. Sam Perkins centrò un solo tiro su 15. Non fu soltanto
un cappotto spaventoso, 97-82, ma un cappotto creato da una difesa
eccellente. I Bulls tagliarono fuori l’attacco dei Lakers, facendo segnare a
Los Angeles il proprio record negativo di punti in casa dall’introduzione dei
ventiquattro secondi. I Lakers cominciarono a rendersi conto che il vecchio
ordine stava per cambiare. Dopo Gara Tre, Johnson aveva dichiarato che
sarebbe stata una serie lunga: «Non c’è niente di stabilito». Dopo Gara
Quattro, però, era palesemente scosso. «Un massacro vecchio stile, non me
lo sarei mai immaginato» commentò. Quello che sembrava inconcepibile,
una serie di tre partite consecutive perse a Los Angeles, ormai appariva
realistico.
I Bulls chiusero la serie in Gara Cinque al Los Angeles Forum. Questa
volta però Los Angeles vendette cara la pelle. A sei minuti dalla fine i
Lakers erano in vantaggio di un punto. Gli allenatori di Chicago temevano
che Jordan abbandonasse gli schemi di attacco per provare a fare tutto da
solo ed era l’ultima cosa che volevano, soprattutto perché Magic Johnson
aveva la tendenza ad attuare una specie di difesa a zona, abbandonando
Paxson e lasciandolo libero per tenersi qualche passo indietro e togliere a
Jordan e Pippen la possibilità di andare a canestro. Era dall’inizio della serie
che Jackson spingeva Jordan a cercare Paxson. «Michael, chi è libero?» gli
chiese verso la fine di Gara Cinque. Nessuna risposta. Glielo chiese altre
due volte e infine Jordan disse: «Pax».
«E allora passagli la stramaledetta palla» concluse Jackson. Per i
giocatori fu un momento evolutivo fondamentale, se non per quella partita e
per quella serie, almeno per il futuro (anni dopo, quando la distanza fra
Jackson e Krause divenne incolmabile, Jerry Reinsdorf ricordò quel
momento come uno dei più felici di Krause: «Jerry continuava a dire che
era stato uno dei grandi momenti di Phil, che nessun altro allenatore sarebbe
stato in grado di convincere Michael a farlo»). I Bulls vinsero 108-101.
Avevano vinto quattro partite consecutive, sbaragliando Los Angeles in
casa come avevano fatto con Detroit: nelle due serie avevano raggiunto un
record di otto vittorie e una sconfitta e avevano vinto tutte e cinque le
partite giocate in trasferta. Il pubblico si rese conto che gran parte del
merito andava alla difesa, che era riuscita a mantenere i Lakers entro i 90
punti a partita, quando negli anni precedenti avevano segnato una media di
110 punti a partita nella serie finale. Il testimone era davvero passato di
mano.
Dopo la partita in cui aveva conquistato l’anello per la prima volta dopo
sette anni in NBA, Michael Jordan scoppiò in lacrime. I giornalisti chiesero
a Magic Johnson se anche lui si era lasciato trasportare dall’emozione alla
sua prima vittoria. Lui rispose: «No, allora ero troppo giovane e inesperto e
non capivo fino in fondo che cosa significava. Adesso so esattamente che
cosa prova Michael, perché l’ho provato più avanti nella carriera, quando
per conquistare il titolo ci volevano molto più impegno e sudore».
22
Chicago, 1997-98

A partire dal dicembre 1997, Scottie Pippen cominciò lentamente a


riprendersi sia fisicamente che psicologicamente. Ron Harper si era
dimostrato un vero amico e un buon compagno di squadra. Phil Jackson si
era tenuto in contatto, con la massima cautela, senza dare l’impressione di
volerlo minacciare o di voler prendere le parti della dirigenza ma
sottolineando i pericoli della sua strategia e ricordandogli che a rimetterci
davvero non sarebbe stato Jerry Krause e nemmeno Jerry Reinsdorf, ma
Pippen stesso, e naturalmente i compagni di squadra. Alla fine di dicembre
Pippen aveva cambiato idea e deciso di tornare, ma la guarigione del piede
era stata lenta. L’operazione era andata bene ma quando Scottie ricominciò
ad allenarsi da solo lo staff tecnico dei Bulls scoprì con grande stupore che
durante l’assenza di quattro mesi le gambe si erano atrofizzate a tal punto
che aveva perso due terzi della sua elevazione in salto. Il recupero sarebbe
stato molto più duro di quanto chiunque si sarebbe aspettato, e anche dopo
la guarigione del piede ci vollero settimane perché fosse davvero pronto a
giocare.
Pippen saltò trentacinque partite, quasi la metà delle ottantadue della
stagione regolare. La squadra aveva retto sorprendentemente bene in sua
assenza: il record era di ventiquattro vittorie e undici sconfitte e dopo il
momento di crisi seguito alla scenata di Pippen a Seattle avevano totalizzato
sedici vittorie e quattro sconfitte. Quelle partite però erano state estenuanti,
soprattutto per Michael Jordan che veniva marcato da due o tre giocatori
ogni sera e che aveva dovuto addossarsi quasi tutti i compiti di Pippen sia in
attacco che in difesa. La speranza di poter rallentare il ritmo in quella
stagione era svanita: tutti i titolari avrebbero dovuto giocare ogni minuto
possibile e alla soglia dei trentacinque anni Michael Jordan giocava
trentanove minuti a partita, ed erano minuti veramente duri.
Pippen rientrò il 10 gennaio per una partita contro Golden State. Con lui
in campo i Bulls divennero una squadra diversa. Nel passato Chicago non
aveva mai avuto un playmaker puro: era una scelta precisa, fatta per evitare
che Jordan dovesse gestire troppo spesso la palla nelle azioni di
avvicinamento e, allo stesso tempo, per garantire che la toccasse a
sufficienza negli schemi offensivi. In passato, il compito di gestire la palla
era ricaduto principalmente su Pippen, supportato dagli altri giocatori.
Senza di lui però i Bulls diventavano rigidi e impacciati. Al suo rientro tutto
cambiò. Se nell’NBA c’erano pochi atleti più artistici di Jordan, ce n’erano
anche pochi più belli da vedere, sera dopo sera, di Scottie Pippen. In ogni
più piccolo movimento esprimeva eleganza e fluidità: la sua grazia, la sua
agilità e il tempismo praticamente perfetto in ogni azione avevano un
effetto evidente sui compagni. Con Pippen di nuovo in cabina di regia,
l’attacco dei Bulls era completamente cambiato e si muoveva in modo
molto più naturale. I giocatori sembravano sapere sempre dove posizionarsi,
come se i loro movimenti fossero stati architettati da un orologiaio esperto.
Tra il resto di gennaio e l’inizio di febbraio i Bulls collezionarono dieci
vittorie e due sconfitte: avevano recuperato l’antica sicurezza, così come
l’arroganza. All’inizio di febbraio approdarono a Los Angeles per un
incontro con i giovani e talentuosi Lakers. A quei tempi, con Shaquille
O’Neal, Kobe Bryant, Nick Van Exel, Robert Horry e Eddie Jones, erano
probabilmente la squadra più dotata atleticamente e trasmettevano un senso
di pura potenza. C’era però da capire se la potenza atletica potesse essere
distillata al momento giusto in una formula vincente basata sulla
determinazione. I giornalisti sportivi ricordavano altre squadre del passato
che si erano affidate alla forza fisica nella monotonia della stagione regolare
ma che poi, davanti alle difese molto più agguerrite dei playoff, si erano
arrese a squadre meno dotate ma più disciplinate. Quando arrivarono a Los
Angeles, nei giorni più faticosi della stagione, i Bulls avevano preso un
ritmo vincente che qualsiasi allenatore avrebbe invidiato. Nonostante la
lunga assenza di Pippen il record era 33-13 e stavano lottando per il
dominio della divisione con una squadra che aveva ancora un fortissimo
ascendente su di loro: gli Indiana Pacers allenati da Larry Bird.
La partita contro i Lakers era considerata come una possibile
anticipazione delle Finals. La prima metà della partita fu molto equilibrata e
all’intervallo i Lakers erano in vantaggio di 4 punti, 57-53. Nel terzo quarto,
però, Los Angeles prese l’abbrivio e segnò i primi 15 punti, ribaltando la
partita e stritolando Chicago con un 34-10 nel quarto periodo. «È stato
come un plotone di esecuzione» commentò Jackson più tardi. Dopo la
partita i Lakers cominciarono a parlare del potere della gioventù e i Bulls si
leccarono le ferite. Toni Kukocˇ aveva giocato per nove minuti e segnato 2
punti, per poi lamentarsi di quello che Jackson aveva definito un malanno
misterioso; si rivelò poi essere un piccolo trauma alla schiena. Jackson era
furibondo per la cattiva prova della difesa ma più tardi concluse che la
squadra si era rilassata troppo fin dall’arrivo a Los Angeles, e che la sera
prima i giocatori avevano fatto troppa baldoria. Decise di non dare troppo
peso a quella sconfitta.
Se mai, la delusione di Jackson si concentrava sul talentuoso ma
enigmatico croato Toni Kukoc ˇ . Era ormai al quinto anno di presenza e
nonostante l’indubbio talento – era stato il miglior giocatore europeo prima
di arrivare a Chicago – non aveva ancora raggiunto il livello che ci si
aspettava da lui. Era un giocatore affascinante, molto dotato, un ottimo
difensore, alto due metri e undici ma capace di segnare tiri in sospensione
da grande distanza e che aveva un’ottima visione di gioco. Sapeva tirare e
passare in modo meraviglioso. In Europa lo chiamavano ‘il cameriere’,
perché serviva i palloni ai compagni con eccezionale bravura. In certi
momenti, quando era in campo con Jordan, Pippen, Rodman e Harper i
Bulls erano semplicemente straordinari, il pallone girava così bene che
sembrava non toccare mai terra. Altre volte Kukocˇ partiva dal perimetro,
fingeva un tiro in sospensione e poi faceva un terzo tempo con le lunghe
braccia tese, e prendeva un tiro da sotto con la mano sinistra contro cui era
impossibile difendere. In quelle occasioni sembrava che potesse segnare 20
punti a partita soltanto con i terzi tempi, ma purtroppo tendevano a essere
delle eccezioni. Al suo gioco mancavano due cose: una solida
determinazione, che in NBA era fondamentale, e una continuità
nell’impegno. Si deconcentrava facilmente: nelle serate buone sembrava
degno dell’All Star Game, in altre spariva completamente.
Kukocˇ aveva una personalità piacevole, quasi dolce, ma caratterizzata da
una certa vulnerabilità e da una tendenza a incupirsi se le cose non
andavano bene. Spesso sembrava che l’America fosse un ambiente difficile
per lui e gli allenatori avevano notato che giocava meglio a Chicago che in
trasferta e si chiedevano se in Jugoslavia lo avessero cresciuto come
giocatore di basket o come principe ereditario. Una volta Chip Schaefer gli
stava spiegando perché gli allenatori erano così duri con lui e aveva fatto
l’esempio dei genitori che sculacciano i figli da piccoli, ma Kukocˇ lo aveva
guardato come se non capisse. Era stato chiamato un interprete e si era
scoperto che il problema non era linguistico ma concettuale: da piccolo
Kukoc ˇ non era mai stato sculacciato, né era stato mai redarguito da un
allenatore. Fin da ragazzino era stato così dotato e così alto che ogni
allenatore era ben felice di averlo in squadra e nessuno si era sforzato di
renderlo più completo o più duro. Il lavoro che faceva in attacco era più che
sufficiente e in difesa, in una Lega in cui i giocatori erano decisamente
meno atletici di quelli che militavano nell’NBA, non era più lento degli altri
come invece avveniva in America, e la sua altezza bastava a permettergli di
gestire adeguatamente i rimbalzi.
Era arrivato in America portando un talento immenso, ma agli occhi degli
allenatori era virtualmente un diamante grezzo. I fondamentali, soprattutto
per un giocatore così dotato, erano sorprendentemente scarsi, in particolare
in difesa. Era specializzato in quella che lo staff chiamava la difesa del
torero: usava le mani invece dei piedi e del corpo. In NBA era un modo
sicuro per rischiare un fallo. Non sapeva neanche eseguire il tagliafuori.
Non sapeva come allenarsi e nemmeno che cosa mangiare prima di una
partita. Una volta Chip Schaefer pranzò con lui prima di un incontro e lo
guardò sbalordito consumare un pasto di sette portate fra cui insalata, pasta
e bistecca. «Roba da quattromila calorie» aveva commentato in seguito,
quasi con ammirazione. Come molti giocatori europei era abituato a bere
vino prima delle partite, anche se lo annacquava leggermente. Quando era
arrivato in NBA la sua percentuale di grasso corporeo era del 20%, molto
elevata per la Lega. I Bulls la riportarono intorno al 15% e questo gli fece
bene. Inizialmente, per aumentare la sua forza fisica, i Bulls cercarono di
irrobustirlo con il sollevamento pesi, ma il risultato fu che diventò
notevolmente più lento, pur senza aumentare in modo significativo la
potenza muscolare. Alla fine lo accettarono per come era, anche se
continuarono a controllare la sua forma fisica e il suo regime alimentare.
Grazie all’altezza Kukoc ˇ riusciva a creare scompiglio in difesa contro
giocatori molto più bassi di lui, ma c’era anche un lato negativo: spesso
causava problemi di accoppiamento. In diverse situazioni costituiva un
punto debole e Jackson non amava farlo giocare da titolare. Era un
giocatore morbido in una Lega molto fisica e odiava subire falli di
sfondamento. Quando i Bulls rivedevano i filmati delle partite al Berto
Center, gli altri giocatori spesso lo prendevano in giro perché si vedeva che
si faceva da parte quando si profilava uno scontro fisico, oppure perché
quando un avversario stava per prendere un rimbalzo sotto canestro lui
cercava di proteggersi, con una smorfia. Nella sala video Pippen e Jordan
erano molto duri con lui, e così Jackson. Non era facile trovare la situazione
ideale per sfruttare le sue qualità, in cui rappresentasse un valore aggiunto e
non un pericolo. L’anno precedente la sua capacità di dare contributi
decisivi partendo dalla panchina gli aveva fatto vincere l’ambito titolo di
‘Sixth Man of the Year’ (sesto uomo dell’anno), un riconoscimento che
moltissimi giocatori avrebbero accolto con entusiasmo, sapendo che in
quella Lega essere titolare contava meno del reale contributo dato alla
squadra. Ma Kukocˇ era testardo e odiava stare in panchina. Dal suo punto
di vista, significava che non era abbastanza bravo per essere titolare in una
grande squadra americana. Quindi si oppose all’utilizzo che Jackson voleva
fare di lui, lamentandosi apertamente e con amarezza ogni volta che veniva
usato come riserva.
Di tutti i giocatori di talento con cui Jackson aveva avuto a che fare a
Chicago, Kukoc ˇ era il più inafferrabile. In certi momenti dimostrava un
talento accecante e in altri sembrava completamente fuori fase, tirava
quando doveva passare, passava quando avrebbe dovuto tirare, teneva il
pallone fermo attirando sotto canestro i rimbalzisti che commettevano
infrazioni di tre secondi. In una memorabile sequenza durante una partita di
playoff contro Miami era marcato da Chris Gatling, che si era appena
distorto una caviglia. Gli Heat non avevano potuto chiamare time out e
quindi Kukoc ˇ si ritrovò marcato da un difensore molto vulnerabile, che
saltellava su una gamba sola. Tenne la palla sul perimetro. Gli altri Bulls lo
liberarono in modo che nessuno lo doppiasse mentre si avvicinava al
canestro. Poi, invece di fare un terzo tempo, tentò il tiro da tre punti e
sbagliò. Più tardi Jackson gli disse: «Toni, questo è il motivo per cui la
Croazia non ha mai vinto una guerra».
Nel corso degli anni Kukocˇ era diventato uno dei due principali bersagli
di Jackson, il giocatore che criticava continuamente fermando i filmati nelle
sessioni di revisione. L’altro era Luc Longley, il grosso centro che sembrava
avere continui problemi ai piedi. Kukoc ˇ però era ancora più irritante di
Longley, perché quando il filmato catturava qualche misfatto, almeno
Longley riconosceva il suo errore e giurava di migliorare. Kukoc ˇ invece
aveva sempre qualche scusa, oppure negava l’evidenza. La squadra lo
considerava piagnucoloso. Jackson non lo mollò per tutta la stagione: «Se
non lo faccio io, Toni, lo faranno i tuoi compagni, quindi meglio che sia io».
Quando Jackson lo sostituiva durante una partita usciva sempre borbottando
in croato, segnale sicuro che si stava lamentando e forse che stava anche
insultando gli allenatori, anche se naturalmente non c’era modo di provarlo.
Il rapporto fra lui e Jackson era complicato dal fatto che Kukoc ˇ era
l’ultima grande scoperta di Krause nel draft, quindi il general manager
aveva un particolare attaccamento nei suoi confronti e, secondo lo staff
tecnico, la tendenza a ignorare i suoi punti deboli. Gli scout apprezzavano
particolarmente i grandi giocatori scovati al secondo o al terzo turno, perché
quella scelta avrebbe portato loro lustro nel futuro, quando il talento si fosse
rivelato riverberandosi anche su colui che l’aveva scoperto.
Vent’anni prima, nell’era glaciale dell’NBA, prima dell’avvento di ESPN
e della meccanizzazione dei processi di reclutamento, colpi grossi di quel
tipo erano relativamente frequenti e molti scout di talento si erano
guadagnati una reputazione individuando grandi giocatori in piccole
università di provincia, scegliendoli al draft nel secondo o nel terzo turno.
Nella nuova era però quegli eventi erano sempre più rari. Di conseguenza
ottenere un giocatore di qualità con una semplice scelta al secondo turno era
stato un vero trionfo per Krause.
Era stato Leon Douglas, un ex giocatore dell’NBA, a dare la prima dritta
a Krause a proposito di Kukoc ˇ . «È un ragazzo eccezionale» gli aveva
detto. «Gioca come se fosse cresciuto nel ghetto, conosce tutte le mosse
giuste». «E perché dovrei volere un ragazzo bianco del ghetto che viene
dalla Jugoslavia?» aveva chiesto Krause. «Perché in lui c’è qualcosa di
speciale» era stata la risposta. «In che ruolo gioca?» «Guardia» aveva
replicato Douglas. «E allora perché dovrebbe servirmi una guardia venuta
dal ghetto jugoslavo e per di più bianca?» aveva chiesto ancora Krause.
«Jerry» aveva ribattuto Douglas, «è alto due metri e undici». Questo aveva
attirato l’attenzione di Krause, che aveva cominciato a seguirlo e alla fine lo
aveva preso.
Krause non era mai stato tanto appassionato nel seguire un giocatore. Si
era di nuovo calato nei panni dell’investigatore privato che agisce
nell’ombra. Anche Bucky Buckwalter di Portland, che bazzicava i vicoli
secondari del basket come lui, si stava informando su Kukocˇ. Durante una
partita a Roma in cui giocava Kukocˇ, Buckwalter vide Krause in tribuna e
non se ne stupì, dato che avevano gusti simili in fatto di giocatori. Quando
guardò di nuovo, però, Krause era sparito: Buckwalter si rese conto che era
letteralmente scappato per non farsi vedere. Questo lo divertì, dato che era
lui stesso un tipo eccentrico, e dopo la partita riuscì a scovarlo e decise di
fargli uno scherzo. Gli disse: «Jerry, non starai mica seguendo Kukoc ˇ ,
vero? Perché se c’è una cosa che so di lui è che non è il tuo tipo: le sue doti
atletiche non sono neanche lontanamente sufficienti».
Krause si affrettò a dargli ragione, dicendo che Kukoc ˇ era troppo
morbido, e aggiunse: «Per noi sarebbe più un problema che altro, e
comunque non abbiamo posto per lui». Buckwalter concordò, ma sapeva
bene che entrambi lo stavano seguendo per la stessa ragione: era un grande
talento e probabilmente i costi sarebbero stati bassi, inoltre c’era sempre
posto per una guardia di due metri e undici che sapeva gestire la palla, tirare
e passare.
I Bulls presero Kukoc ˇ nel draft del 1990, come seconda scelta del
secondo turno. Aveva soltanto ventun anni e virtualmente avrebbe dovuto
costare pochissimo, ma in Europa era una star e riceveva un ottimo
compenso. La sua famiglia si trovava in Jugoslavia, che al momento era
dilaniata dalla guerra civile, e la fidanzata (che in seguito sarebbe diventata
sua moglie) non aveva nessuna voglia di venire negli Stati Uniti. Krause gli
fece una corte spietata, costellata di numerose visite, regali e discorsi
appassionati per descrivere come sarebbe stato giocare circondato dai
migliori del mondo. Fu un processo lungo e difficile. L’offerta arrivò a
superare le cifre pagate ad altri giocatori dei Bulls come Pippen e questo
naturalmente acuì la tensione a Chicago. Ad alcuni giocatori gli sforzi
esagerati riservati per Kukocˇ da Krause sembravano in netto contrasto con
il modo in cui venivano trattati loro stessi. Il loro capo ricopriva di
attenzioni un giocatore straniero che non aveva mai dimostrato di saper
giocare in NBA mentre loro, da campioni, ricevevano solo freddezza. Più
Krause inseguiva Kukoc ˇ e più si incancrenivano i problemi contrattuali
con gli altri giocatori, più il risentimento contro Kukocˇ cresceva. Quando
Krause chiese a Michael Jordan di chiamare Kukoc ˇ per provare a
convincerlo a venire in America, lui rispose seccamente che non parlava
jugoslavo. La sensazione che Kukoc ˇ non fosse all’altezza dei Bulls si
concretizzò durante le Olimpiadi del 1992, quando il Dream Team affrontò
la Croazia. Pippen e Jordan si accanirono su di lui con quello che sembrava
livore personale e la partita si avvicinò pericolosamente a una pubblica
umiliazione. Era come se avessero giocato contro Krause, piuttosto che
contro Kukocˇ.
Alla fine, rimettendoci di persona, Kukoc ˇ si svincolò da un contratto
molto remunerativo in Europa e andò in America, appena in tempo per
venire a sapere che Michael Jordan stava per ritirarsi. La notizia lo fece
piangere. Però non c’era dubbio che Krause sembrava avere un impegno
personale nei confronti di Kukocˇ e questo gli conferì uno status particolare
all’interno della squadra. Fra tutti i giocatori dei Bulls, a parte Michael
Jordan, Kukocˇ era quello che Krause era in assoluto più restio a scambiare.
Dopo la partenza di Horace Grant, il ritorno di Michael e la sconfitta di
Chicago per mano di Orlando nelle finali della Eastern Conference, era
chiaro che la squadra aveva un disperato bisogno di un centro capace di
prendere i rimbalzi e di segnare. Quell’anno New Jersey era disposta a
prendere Kukocˇ in cambio di Derrick Coleman. Coleman era un giocatore
immensamente dotato, con un contratto principesco, che era diventato una
specie di simbolo dei cestisti della Generazione X del basket: ricco
contratto con clausola contro la risoluzione anticipata, corpo robusto,
grande talento ma scarso e spesso incostante impegno verso gli obiettivi
della squadra. Si stava facendo un nome per il modo in cui sfidava gli
allenatori, piuttosto che per il valore in campo. Quando gli avevano detto
che doveva attenersi a una serie di regole di abbigliamento in trasferta, si
era seduto immediatamente a riempire un assegno per coprire tutte le multe
della stagione a venire. Era alto due metri e otto e pesava centonove chili e
quando era in vena sapeva giocare in difesa, prendere i rimbalzi e segnare.
In quelle occasioni, per quanto rare, era un giocatore straordinario, molto
più pericoloso di Grant in attacco. Jackson era sicuro di poterlo gestire,
perché pensava che parte del problema fosse il suo ruolo di miglior
giocatore in una squadra debole, e che giocare in una squadra che poteva
ambire all’anello sotto lo sguardo esigente di Michael Jordan avrebbe
potuto cambiarlo. Era certo che nessuno potesse comportarsi come faceva
lui, se l’alternativa era l’anello. Nessuno, per quanto alto fosse il suo
compenso, avrebbe voluto una reputazione segnata dall’etichetta di
perdente. Jackson desiderava ardentemente quello scambio. I 7 milioni di
dollari percepiti da Coleman rappresentavano un problema, dato che
Chicago aveva un tetto per i compensi dei giocatori, ma Jackson era
convinto che si sarebbe potuto risolvere se Krause lo avesse davvero voluto.
Quando Krause si rifiutò di procedere, Jackson si convinse che Kukocˇ non
sarebbe mai stato scambiato.
L’insoddisfazione di Kukoc ˇ peggiorò nel corso della stagione 1997-
1998. Nei primi tempi del suo arrivo a Chicago usciva spesso a cena con
alcuni compagni, ad esempio Longley, Wennington, Kerr e Buechler, ma
ormai li vedeva sempre meno e quando lo faceva, solo perché loro si
sforzavano di tirarlo su di morale, sembrava sempre che avesse la testa da
un’altra parte. Divenne un commensale poco desiderabile e dopo un po’ gli
altri smisero di invitarlo. Neanche questo funzionò, però: era sempre più
depresso e quindi i compagni rinnovarono gli sforzi per avvicinarsi a lui,
temendo che stesse entrando in una sorta di crisi.
Kukocˇ disse chiaramente ai compagni che riteneva di meritare maggiore
rispetto da parte dell’allenatore ma Jackson, da parte sua, fu se mai ancora
più duro. Chi li conosceva entrambi cominciò a chiedersi se il problema non
andasse oltre, se Kukoc ˇ non fosse diventato agli occhi di Jackson
un’estensione di Krause e l’avversione che provava per il general manager
non influenzasse il suo modo di gestire un giocatore di talento. Come
allenatore Jackson era noto per la sua sensibilità nei confronti dei giocatori
e la sua straordinaria capacità di empatia verso le loro fragilità interiori. Se
c’era un caso in cui si dimostrava molto duro, però, era con i giocatori che
non sfruttavano appieno il proprio potenziale e ai suoi occhi Kukoc ˇ
rimaneva ben al di sotto delle sue possibilità. Krause invece non lo vedeva
come una delusione, ma come un giocatore che faticava a trovare il suo
posto perché invece che essere la prima scelta in attacco era scivolato fino
alla terza. Era chiaro che Krause considerava Kukoc ˇ un elemento
essenziale della squadra che si sarebbe formata dopo l’uscita di Jordan,
mentre Jackson non era certo interessato a un lontano futuro che non lo
avrebbe minimamente riguardato.
Qualunque fosse il motivo, Jackson aveva bisogno che Kukoc ˇ si
riprendesse già in quella stagione e fino a quel momento non ci era riuscito.
All’inizio di febbraio i suoi rimproveri diventarono ancora più aspri. Alla
fine, la sera prima della partita contro i Lakers, Frank Hamblen, uno degli
assistenti, gli disse che doveva fare un passo indietro, che era stato così
duro con Kukocˇ nelle settimane precedenti che il giocatore non ne poteva
più e rischiavano di perderlo del tutto. Jackson gli diede retta, ma il giorno
successivo disse a un amico, in tono irritato: «Perdere Toni? È da quando è
arrivato, cinque anni fa, che rischio di perderlo».
23
Chicago; Portland, 1992

Gradualmente, dopo il primo anello, il pubblico cominciò a rendersi conto


della grandezza dei Bulls, e gli stessi Bulls presero maggiore
consapevolezza. Avevano conquistato il titolo a prezzo di enormi fatiche e
non l’avrebbero ceduto facilmente. Nella stagione 1991-92 vinsero
sessantasette partite. Grant visse la stagione migliore della sua carriera fino
a quel momento, con una media di 14 punti e quasi 10 rimbalzi a partita, e
Pippen divenne titolare all’All Star Game per la prima volta. Le sue
statistiche dimostravano la completezza raggiunta: 21 punti, 7 assist e quasi
8 rimbalzi a partita. Secondo Phil Jackson quella era una delle squadre di
basket migliori di tutti i tempi: profonda, completa, versatile e sicura di sé. I
giocatori più giovani, come B.J. Armstrong, stavano maturando e Grant,
Pippen e Jordan erano al massimo della condizione.
Inoltre, per la leadership dell’NBA, era un periodo di transizione. I
Celtics, i Lakers e i Pistons avevano iniziato il loro declino e nella nuova
generazione di aspiranti al titolo i Bulls sembravano essere arrivati per
primi. Questo non significava però che la strada verso l’anello fosse
agevole. Nel 1992 e 1993, probabilmente gli scontri più duri per i Bulls ai
playoff furono quelli contro i New York Knicks, che avevano spodestato
Detroit come nuovi ‘Bad Boys’ della Lega. Erano alti e grossi e anche se
non avevano lo stesso talento – in difesa non avevano nulla di simile a Isiah
Thomas e Joe Dumars – erano comunque molto rudi e fisici. L’unico
possibile vantaggio contro una squadra di talento come i Bulls erano i
muscoli. Come era accaduto con i Pistons, nessuno voleva giocare contro di
loro perché erano capaci di individuare ogni minima debolezza
dell’avversario e usarla per distruggerlo. Non solo avevano Ewing e
Oakley, giocatori formidabili dal punto di vista fisico, ma nel 1992
alternavano nel ruolo di ala piccola Xavier McDaniel e Anthony Mason,
entrambi ali grandi. Li allenava Pat Riley: fra lui e Jackson c’era una certa
tensione perché Jackson era stato piuttosto esplicito nelle sue critiche al
gioco violento di New York.
I Knicks in quel periodo picchiavano gli avversari senza pietà e spesso li
piegavano con la violenza. In Gara Sette, alle semifinali di Conference del
1992, McDaniel, che era molto più robusto di Pippen, si era concentrato su
di lui fin dall’inizio della partita, colpendolo ripetutamente e insultandolo.
Alla fine, in un momento critico, Jordan intervenne affrontando McDaniel
faccia a faccia e mise fine a quella prepotenza («È stato come quando a
scuola un bullo prende di mira il tuo fratellino e tu devi intervenire» disse
più tardi). La scena fu immortalata da un fotografo: Jordan, molto più
piccolo ma impavido, affrontava McDaniel a muso duro e, quando il
gigantesco Ewing si univa al gruppo, affrontava anche lui senza cedere di
un millimetro. Quel momento contribuì a ribaltare il tono piscologico della
partita, secondo gli altri Bulls. Da allora in poi un ingrandimento di quella
fotografia campeggiò nell’ufficio di Jackson. In Gara Sette, i Knicks furono
massacrati.
Alle Finals del 1992 i Bulls affrontarono i Portland Trail Blazers, una
squadra con notevoli doti atletiche che in certi momenti tendeva a perdere
la concentrazione e che in transizione non giocava bene quanto in campo
aperto. Una serie fra Portland e Chicago era particolarmente attraente per il
pubblico, perché avrebbe visto contrapporsi Jordan e Clyde Drexler. Alcuni
erano addirittura convinti che Drexler, che usciva dalla stagione migliore di
sempre e che era in lizza con Jordan per l’MVP, appartenesse alla sua stessa
categoria. Secondo questa linea di pensiero, Drexler poteva essere
addirittura migliore di Jordan, ma non aveva ricevuto la stessa attenzione
mediatica perché giocava a Portland. I sostenitori di queste idee dicevano
che Drexler era sicuramente più bravo a rimbalzo e forse anche nei
passaggi, nonché nel tiro da tre. Quell’anno, per esempio, aveva segnato tre
volte le triple di Jordan e la sua percentuale di realizzazione era
decisamente più alta.
Il fatto che gli onnipotenti riflettori dei media non avessero raggiunto
Portland non sembrava infastidire Drexler e nemmeno la crescente
eccitazione per lo scontro fra il Glide e l’Airman, i loro soprannomi ormai
diventati famosi, sembrava scuoterlo dal suo strano distacco. A differenza
di Jordan, che sembrava nutrirsi di attenzione, Drexler non cercò mai la
fama, anzi la celebrità sembrava metterlo a disagio, come se sapesse che era
un’arma a doppio taglio, qualcosa che portava sicuramente vantaggi
economici e notorietà ma che una volta innescata era molto difficile da
neutralizzare. Gli capitò anche di pronunciare una frase quasi incredibile
per un americano: «Personalmente, preferirei restare nell’ombra».
Jordan, che pure era l’avversario più passionale che si potesse
immaginare, prima della serie disse tutte le cose giuste: lo scontro non era
fra lui e Drexler ma fra le rispettive squadre. Nessuno gestiva i rapporti con
i media meglio di lui. Fu molto attento a evitare qualsiasi dichiarazione che
potesse motivare Drexler a sfidarlo, anche se naturalmente per lui era
davvero una questione personale, la sfida perfetta per un uomo che di sfide
viveva. Sfruttò le convinzioni dei sostenitori di Drexler per motivarsi.
Decise che doveva distruggere tutto: non solo Portland ma anche Drexler
stesso. Dopotutto, alcuni dicevano che fosse al suo stesso livello, se non più
bravo. E peggio ancora, era stata la sua presenza a Portland a determinare il
fatto che la dirigenza della squadra non lo avesse scelto nel draft del 1984,
facendolo passare dalla seconda alla terza scelta a livello nazionale.
Qualcuno doveva pagare. Per un ragazzo come Michael Jordan era la
situazione perfetta, soprattutto perché non aveva pensato neanche per un
minuto che Drexler fosse davvero un giocatore completo quanto lui.
I tifosi più esperti di basket ritenevano che Jordan avesse due vantaggi su
Drexler, vantaggi che avrebbero fatto la differenza nelle Finals: per prima
cosa era molto più bravo in difesa e in secondo luogo era quasi il migliore
della Lega nei tiri in sospensione. All’università era già un talento in questo
senso, ma nessuno si era mai allenato quanto lui per migliorare
quell’aspetto dopo l’ingresso in NBA, anche dopo essere diventato una
superstar. Nel 1992, all’ottavo anno di presenza, era uno dei due o tre
migliori giocatori dell’NBA nei tiri in sospensione e in più, a differenza di
molti altri, si era impegnato molto per migliorare la sua tecnica nei momenti
difficili, come le partite di playoff quando le squadre si chiudevano in
difesa. Sapeva tirare in modo eccezionale quando era marcato stretto.
Drexler non era così bravo a saltare, anche se gli piaceva pensare il
contrario, e quando gli amici e gli allenatori gli chiedevano di impegnarsi
per migliorare quell’aspetto citava la sua percentuale (intorno al 50%) per
dimostrare che era un buon tiratore. Quella però era una cifra ingannevole,
gonfiata dal fatto che molti dei suoi canestri dal campo erano terzi tempi.
Non arrivò mai a diventare temibile come tiratore in sospensione e nella
Lega si era diffusa la convinzione che fosse piuttosto incostante come
tiratore da fuori. E poi era ben diverso saper tirare durante la stagione
regolare rispetto alle combattute partite di playoff, con la difesa chiusa e
marcato da uno dei migliori difensori della Lega, cioè Michael Jordan.
Jordan poi non si preoccupava minimamente dei giornalisti secondo i
quali Drexler era migliore nei tiri da tre punti, anzi un’ulteriore sfida era
proprio la cosa che desiderava di più. La mattina della prima partita andò ad
allenarsi senza clamore ai tiri lunghi. Più tardi disse che se qualcuno gli
avesse chiesto che cosa stava facendo, avrebbe risposto che si stava soltanto
rilassando con qualche partita a Horse insieme ai compagni.
Più tardi Danny Ainge, che quell’anno era in squadra con Drexler a
Portland, disse che in quella serie era successo qualcosa di disumano, in un
certo senso. All’inizio Drexler decise di concedere a Jordan il tiro da fuori e
lui segnò sei tiri da tre punti in successione. Nella prima metà della partita
contribuì al blowout di Chicago segnando 35 punti. Più tardi commentò:
«Quei tiri da tre mi venivano come tiri liberi». I Bulls vinsero di 33. A un
certo punto, in un video che imperversò ovunque, Jordan mise un tiro da tre
e mentre tornava indietro correndo vide che a bordocampo c’era Magic
Johnson che commentava la partita. Allora sollevò le mani con
un’espressione che sembrava dire: «Non lo capisco neanch’io, ma non è
fantastico?»
E non fu soltanto l’attacco a esser implacabile. Quando la palla era in
possesso dei Trail Blazers, sempre secondo Ainge, Jordan sembrava preda
di una tremenda sete di vendetta nei confronti di Drexler. Se non c’era nulla
di personale, comunque dimostrava il contrario. Non permise quasi mai
all’avversario di toccare la palla in attacco. Ainge pensò che Jordan avesse
preso tutti quegli articoli e quegli interventi televisivi su Drexler come un
affronto personale. Era come guardare un killer in azione: «Un assassino
venuto a ucciderti e a strapparti il cuore».
Phil Jackson aveva sempre saputo dell’ossessione di Jordan contro
Drexler e più tardi pensò che se c’era stato un raro momento in cui i Bulls
avevano rischiato di perdere concentrazione era stato per focalizzarsi sul
singolo giocatore invece che sulla vittoria. Infatti in una delle partite
successive, quando Drexler fu espulso per eccesso di falli a quattro minuti
dalla fine, con i Bulls in vantaggio di 9 punti, sembrò che Chicago si fosse
rilassata. A quel punto entrò in campo Ainge, che potenzialmente era più
bravo in transizione, recuperò l’abbrivio della partita e segnò 9 punti ai
supplementari assicurando la vittoria a Portland. Comunque i Bulls vinsero
facilmente la serie in sei partite. Da allora i tifosi di basket smisero quasi
completamente di discutere del fatto che Clyde Drexler potesse essere
bravo quanto Michael Jordan.
24
La Jolla; Montecarlo;

Barcellona, 1992

In un certo senso, la fama di Michael Jordan raggiunse il livello successivo


grazie alle Olimpiadi del 1992 e all’attenzione globale intorno alla squadra
americana, il famoso Dream Team: infatti per la prima volta ai Giochi erano
stati ammessi i professionisti. Jordan non teneva particolarmente ad andare
a Barcellona. Era sfinito dalle due lunghe stagioni di campionato che
sembravano essersi susseguite senza soluzione di continuità. Nemmeno le
estati, comunque brevi, erano state del tutto a sua disposizione, perché gli
impegni con gli sponsor avevano preso molto tempo. Giocare alle
Olimpiadi gli avrebbe sottratto quasi tutto il tempo prezioso che poteva
sfruttare per riposarsi dalle fatiche fisiche e dalla pressione mediatica. Di
certo Jerry Krause non voleva che lui e Scottie Pippen partecipassero: ai
Bulls non conveniva che i due giocatori migliori si stancassero giocando
altre partite, accrescendo inoltre il rischio di infortuni. Phil Jackson era
incerto. Non vedeva vantaggi per Jordan, che aveva già giocato con la
squadra olimpica otto anni prima, ma pensava che potesse essere positivo
per Pippen, perché rappresentava un’occasione per uscire dall’ombra di
Michael. Ma naturalmente parteciparono entrambi, perché non era una
questione legata semplicemente al basket ma al prestigio dell’NBA e al
compiacimento degli sponsor, che volevano sfruttare l’esposizione per
quelli che erano ormai diventati gli atleti più famosi del mondo.
L’importante non era battere l’Angola o la Croazia, e nemmeno la Spagna:
quella era l’occasione di mostrare il basket come una forma d’arte, e non si
poteva fare senza l’astro più luminoso della Lega.
Quindi Jordan entrò nella squadra, ma non volle esserne il leader. Quando
arrivò a Portland per il Tournament of the Americas, il torneo di
qualificazione dell’emisfero occidentale, il capo ufficio stampa dell’NBA,
Brian McIntyre, gli disse di averlo scelto per la sua squadra di fantabasket.
«Hai fatto male» gli aveva risposto Jordan. «Non voglio impegnarmi, è
stata una lunga stagione. Voglio prendermela comoda». Nella prima partita
sembrò comportarsi di conseguenza. Il giorno successivo McIntyre lo
incontrò di nuovo e gli disse che dopo il loro discorso lo aveva scambiato
con un altro giocatore. «E chi sarebbe?» gli chiese Jordan. «Karl Malone»
rispose McIntyre. «Hai fatto una cazzata» ribatté Jordan. McIntyre più tardi
commentò: «Tipico di Michael: in qualche modo lo avevo sfidato – gli
avevo mancato di rispetto – così la sera successiva andò in campo e segnò
40 punti contro una sfortunata squadra sudamericana».
I giocatori consideravano un onore speciale quello di far parte di una
squadra chiamata Dream Team, che riuniva i migliori cestisti del mondo,
ma la competitività cominciò subito a serpeggiare. Durante uno dei primi
allenamenti a La Jolla, in California, Michael Jordan cominciò ad attaccare
ripetutamente il suo ultimo arcinemico, Clyde Drexler. Poche settimane
prima si erano sfidati per il titolo NBA del 1992. Come avrebbero fatto
molti altri giocatori in una situazione del genere, Jordan non si lasciò
sfuggire l’occasione di fare qualche battutaccia mentre si allontanava con la
palla: «Non ti ho appena fatto il culo?… Questo ti ricorda qualcosa, per
caso?… Credi di potermi fermare questa volta, Clyde?…Attento ai tiri da
tre, amico». Alla fine altri compagni, e in particolare Charles Barkley,
dissero a Jordan di smetterla di insultare Drexler perché ormai erano
compagni di squadra e non c’era bisogno di riaprire ferite ancora fresche.
Lui si adeguò, ma gli allenatori si accorsero che nelle partitelle di
allenamento ogni volta che Jordan doveva marcare Drexler cominciava a
impegnarsi più di chiunque altro. Se la squadra di Portland, che aveva
comunque molto talento, avesse di nuovo affrontato i Bulls in finale negli
anni futuri, Jordan non voleva che Drexler potesse pensare, neanche per un
attimo, che quello che era accaduto a giugno fosse stato un colpo di fortuna.
Secondo Mike Krzyzewski, uno degli allenatori del Dream Team, Jordan
stava già pensando alle finali dell’anno successivo.
Quell’intuizione fu confermata dallo stesso Jordan al ritorno da
Barcellona, quando raccontò con gran divertimento agli allenatori dei Bulls
che una volta Clyde Drexler si era presentato agli allenamenti con due
scarpe sinistre. Per non dover ammettere l’errore e chiederne una in
prestito, oppure tornare indietro a cambiarla, aveva giocato con la scarpa
sbagliata. Agli occhi di Michael Jordan, sempre in cerca di debolezze
psicologiche negli avversari, era un indubitabile segno di insicurezza, di cui
aveva preso nota per sfruttarlo eventualmente in futuro.
Nel corso delle settimane di formazione del Dream Team, lo staff rimase
sbalordito dalla coesione fra i giocatori: per quanto abbaiassero e si
scambiassero dispetti e battutacce, si percepiva chiaramente l’orgoglio di
far parte del miglior gruppo di cestisti mai creato. Quell’orgoglio andava
oltre il traguardo personale, riguardava quello che i giocatori avevano
ottenuto come gruppo, e non soltanto per la propria squadra ma per la Lega
e per il basket in generale. Era la generazione Larry-Magic-Michael, quella
che aveva contribuito a liberare l’NBA da una specie di esilio sportivo, in
cui era quasi invendibile per gli sponsor e i canali tv, portandola all’apice
della ricchezza e della popolarità.
Rimaneva però un po’ di tensione nell’aria. Quelli erano i più grandi
giocatori del mondo ed erano ansiosi di dimostrare qualcosa, se non a
corazzate come l’Angola o la Germania, sicuramente l’uno all’altro e ai
compagni dell’NBA lasciati fuori dalle selezioni. Dovevano dimostrare di
essere davvero i migliori, anche se non c’erano avversari degni di questo
nome. Agli inizi del programma preolimpico, prima della partenza per
l’Europa, gli allenatori organizzarono un’amichevole contro una squadra di
All Star universitarie, la maggior parte delle quali sarebbero probabilmente
sbarcate in NBA l’anno successivo. Era un gruppo di grandi talenti, anche
se molto giovani e immaturi, che includeva Chris Webber di Michigan,
Jamal Mashburn di Kentucky, Penny Hardaway di Memphis State, Rodney
Rogers di Wake Forest e Allan Houston, un ottimo tiratore, di Tennessee.
Gli allenatori erano Roy Williams, che in quel periodo guidava la squadra di
Kansas, e George Raveling. Quel giorno in particolare i professionisti erano
giù di tono, gli universitari erano lanciati e giocarono bene: vinsero
l’amichevole 58-52 e Houston segnò sette triple. Era già un brutto segno,
ma i ragazzi, poco saggi e ancora ignari dell’orgoglio che permeava gli
strati più elevati del mondo in cui si preparavano a entrare, cominciarono a
festeggiare, ballare e lanciare una serie infinita di provocazioni, un peccato
mortale data la loro posizione nella gerarchia di gioco. Roy Williams,
vedendo il modo in cui si agitavano e si rivolgevano ai giocatori più in alto
di loro, capì che stavano commettendo un grave errore.
Più tardi, quello stesso giorno, Williams partecipò a una partita a golf con
Jordan, Chuck Daly, Charles Barkley e John Stockton e si scusò per il
comportamento avventato dei suoi ragazzi. «Non posso credere che abbiano
detto quelle cose» disse a Jordan, con il quale aveva un buon rapporto e che
aveva allenato ai tempi dell’università. «Non preoccuparti, coach» rispose
lui. «Ce ne occuperemo domani». All’amichevole del giorno successivo,
subito prima che l’arbitro lanciasse la palla per il salto a due, Michael
Jordan puntò il dito contro Houston e disse: «Oggi quello non segna altre
sette triple». Lo marcò come se volesse soffocarlo e verso la fine della
prima metà dell’incontro, quando fece una pausa e fu sostituito da Drexler,
glielo indicò dicendo: «Continua così». Il risultato fu un vero e proprio
massacro: alla fine dei venti minuti programmati il Dream Team aveva un
vantaggio di 38 punti. Daly voleva giocare ancora un po’, quindi furono
aggiunti dieci minuti in cui i professionisti allargarono il vantaggio di altri
18 punti, portando il distacco complessivo a 56.
Il messaggio era forte e chiaro: nessuna squadra, neanche una composta
dalle migliori giovani promesse del basket americano, avrebbe potuto
sconfiggerli quando si mettevano d’impegno. Lo sapevano tutti. La potente
Angola cadde per 116-48 ai primi turni. Nelle partite per le medaglie, gli
americani sconfissero la Lituania con 51 punti di distacco e nella partita per
la medaglia d’oro la Croazia perse con uno svantaggio di 32, tanto che la
vera competizione olimpica non fu considerata quella fra gli americani e le
squadre in gara ma piuttosto la rivalità fra Nike e Reebok. Nike aveva i
giocatori, come Jordan, Barkley, Pippen e altri, ma Reebok era lo sponsor
olimpico ufficiale e gli atleti olimpici, anche i testimonial della Nike,
dovevano indossare il logo della Reebok. In quel periodo di lotta senza
quartiere fra i marchi di abbigliamento sportivo, era come chiedere ai
giocatori americani dell’era precedente di indossare le divise dell’Unione
Sovietica. I testimonial della Nike erano irremovibili: non avrebbero mai
giocato sotto l’egida di una potenza straniera e ostile come Reebok.
Barkley, sempre capace di sfornare perle, disse di avere «Due milioni di
ragioni per non indossare Reebok». Se lui ne aveva due milioni, Jordan a
quel punto ne aveva almeno venti milioni e fu lui, la stella più luminosa del
firmamento, ad assumere la linea più dura contro Reebok, ancora più di Phil
Knight che era a disagio con le continue domande dei giornalisti sul
contrasto fra avidità e patriottismo. «Credo che Phil non si renda conto del
mio livello di lealtà» dichiarò Jordan a un certo punto, e poi chiese a
Howard White: «Phil ha intenzione di sostenermi?» Alla fine, naturalmente,
fu raggiunto un compromesso: gli atleti avrebbero indossato le divise
Reebok ma avrebbero potuto coprire il logo, cosa che fecero: Jordan, per
esempio, si mise una bandiera americana intorno alle spalle.
All’interno della squadra vigeva una gerarchia abbastanza chiara. Larry
Bird e Magic Johnson erano i capitani, i sovrani regnanti che venivano da
un’epoca precedente. Le rispettive squadre e abilità atletiche stavano
declinando, ma ricevevano ancora il rispetto dovuto ai grandi campioni: i
compagni riconoscevano non soltanto la loro grandezza ma anche il ruolo
pionieristico nel portare la Lega a un nuovo livello di ricchezza e
popolarità. In quella gerarchia Jordan era il giocatore dominante, con due
anelli già al suo attivo e chiaramente il più forte in campo. Chuck Daly gli
aveva chiesto se volesse essere anche lui capitano, perché all’atto pratico
quella era la sua squadra, ma lui aveva ceduto l’onore a Bird e Johnson:
«No, lascia che siano i vecchietti a farlo».
In parte la posizione nella gerarchia e il diritto di fare battutacce
derivavano dal possesso e dal numero degli anelli. Chi li aveva poteva dire
ciò che voleva, chi non li aveva doveva ascoltare. A quei livelli era l’anello
a fare la differenza. Bird, Johnson e Jordan non perdevano occasione di
tormentare i compagni come Patrick Ewing e Charles Barkley perché, pur
essendo avversari temibili, non li avevano ancora conquistati. Ma i
possessori dell’anello si schernivano anche fra loro. Una sera Jordan, Bird e
Johnson si scatenarono nella sala ricreativa a Barcellona. «Sai una cosa?»
disse Jordan a Bird. «Quando entro al Garden mi piace alzare lo sguardo
verso quegli splendidi stendardi appesi al soffitto per ricordare i trionfi del
passato». Fece una pausa, voleva forse rendere omaggio a Bird e alla
grandezza dei Celtics? Poi aggiunse: «E mi sento così triste pensando che
non ce ne saranno più di nuovi».
Bird, che aveva tre anelli contro i due di Jordan, ribatté a tono: «Michael,
riparliamone quando avrai conquistato il terzo anello».
«Non lo so, Larry» rispose Jordan. «Eri un giocatore magnifico, e adesso
te ne stai in fondo alla panchina ad agitare l’asciugamano come un M.L.
Carr4 qualsiasi».
Poi Jordan si rivolse a Magic Johnson, che si era ritirato nell’estate del
1991 dopo aver scoperto di essere affetto da HIV, ma era tornato per giocare
alle Olimpiadi: «Sai, non è più tanto divertente giocare a Los Angeles.
Anzi, da ora in poi ci porterò anche i miei due bambini, perché le partite
sono davvero soporifere. Non è come ai vecchi tempi quando giocavi tu,
adesso non è più una vera sfida». Gli sorrise: «Ma per rispetto a te, se torni
a giocare ne porterò soltanto uno».
Johnson allora propose una sfida uno contro uno a Jordan, un’idea non
particolarmente felice perché per quanto Magic Johnson sapesse fare
numeri incredibili col pallone, nessuno lo considerava così bravo negli
scontri individuali.
Larry Bird intervenne subito: «Ma sei pazzo? Probabilmente è il migliore
del paese nell’uno contro uno e tu vuoi sfidarlo? Sii serio». Bird – che da
una settimana soffriva di dolori alla schiena e che non segnò neanche un
punto in quella che si sarebbe rivelata essere la sua ultima partita – dovette
assumersi l’ingrato compito di spiegare a Johnson che la loro epoca era
finita, che erano passati tredici anni da quando erano entrati nella Lega e
che era ora di lasciar perdere.
Quella competitività carica di testosterone si scatenò durante una partita
di allenamento a Montecarlo che diventò leggendaria. La manciata di
persone che ebbero la fortuna di assistere la considerano la migliore partita
di basket di tutti i tempi, fra i giocatori più grandi del mondo, giocata a un
ritmo forsennato. Fu un vero peccato che si svolgesse a porte chiuse e uno
strano scherzo della sorte che il luogo fosse Montecarlo, non certo una
roccaforte del basket. Non venne tenuto un punteggio ufficiale, infatti alla
fine ci furono delle contestazioni, ma non ci furono dubbi sulla squadra
vincente e ancora meno su chi fosse stato il migliore in campo.
I migliori giocatori del mondo si erano sfidati all’ultimo sangue e non,
come accadeva negli All Star Game, trattenendosi in difesa per dare modo a
tutti di sfoggiare la propria abilità in attacco ed evitare infortuni. L’intensità
di quella partita ricordava piuttosto la Gara Sette di una finale NBA. Più
tardi venne ricordata come la sfida fra la squadra di Michael e la squadra di
Magic.
L’ultima cosa che Chuck Daly voleva era che il miglior giocatore a
disposizione di qualche altro allenatore si infortunasse sotto la sua
responsabilità, ma altri tecnici olimpici, e in particolare Lenny Wilkens, da
tempo rivale di Daly, ora finito a fare il suo assistente, pensavano che i
giocatori avessero bisogno di un allenamento più serio. Anche i giocatori
erano d’accordo, in particolare Magic Johnson. Lì, come con i Lakers,
Johnson non era un semplice giocatore ma una specie di allenatore di fatto,
un atleta con cui lo staff tecnico si consultava e che veniva tenuto in
considerazione. Anche se non era del tutto convinto dell’idea di scatenare
tanta potenza, ego e talento in una partitella fra compagni di squadra, alla
fine Daly diede il consenso. Mike Krzyzewski, temendo l’emotività che
avrebbe potuto suscitare, si offrì di dirigere il riscaldamento del mattino,
sperando così di non dover fare da arbitro: la considerò la sua mossa
migliore dell’intera settimana, che gli avrebbe evitato un bel po’ di insulti.
I giocatori sembravano felici di potersi finalmente sfogare, dopo tanti
allenamenti morbidi e controllati. La squadra di Johnson inizialmente balzò
in vantaggio per 14-2, anche se alcuni sostengono che in realtà il punteggio
fosse 14-0. Era come un parco giochi all’ennesima potenza. La squadra di
Johnson comprendeva Chris Mullin, Charles Barkley, David Robinson e
Clyde Drexler. Con Jordan c’erano Partick Ewing, Karl Malone e Scottie
Pippen.
Più tardi qualcuno sospettò che fosse stato Magic Johnson a cominciare
con il trash talking per alzare il livello dello scontro, ma non c’è modo di
saperlo per certo perché non esistono verbali ufficiali e i testimoni oculari
sono pochissimi. Josh Rosenfeld, per esempio, il portavoce dei Lakers, era
convinto che Johnson fosse troppo furbo per fare un errore del genere,
sapendo come avrebbe reagito Jordan, e sosteneva che fosse stato Charles
Barkley, che aveva sempre avuto la lingua troppo lunga, a cominciare
mentre la squadra di Johnson tornava a fondocampo dopo aver segnato un
canestro. Johnson aveva dato a Barkley un colpetto col braccio per farlo
smettere, dicendo: «Piantala, non sei tu che devi marcarlo». Era stato un
terribile errore, ammise poi Johnson con i giornalisti che avevano potuto
assistere alla fine dell’allenamento, perché aveva fatto inalberare Jordan.
La partita era incominciata in modo molto fisico e molto territoriale. Era
stato Michael Jordan, soprattutto, a dare quel tono allo scontro. Aveva
semplicemente preso in mano la partita, lanciandosi a canestro a ogni
possesso di palla, prendendo rimbalzi, intercettando linee di passaggio e
rubando palla, tallonando Johnson in difesa, urlando contro tutti, avversari e
compagni, e spingendosi al limite. A un certo punto segnò 12 punti di fila, e
qualche testimone sostiene che fossero addirittura 16. Quando la sua
squadra ricevette un fischio arbitrale contrario Johnson sbottò: «Ma dove
siamo, al Chicago Stadium? Volete mettervi a fischiare anche qui?»
«Te lo dico io dove siamo» gridò Jordan di rimando. «Siamo negli anni
novanta, non negli anni ottanta».
La partita fu combattutissima su entrambi i lati del campo. Dopo averli
osservati per tutta la settimana, Krzyzewski aveva capito che avrebbero
giocato con un livello di ferocia quasi ineguagliato nella storia del basket,
ma perfino lui rimase sbalordito dall’intensità che raggiunse. Pensò che
fosse come sentire un uragano fuori dalla porta di casa, poi aprirla e
scoprire che era ancora più potente di quanto ci si fosse aspettati. Daly, che
osservava da bordocampo, da un lato era ammirato per la qualità e
l’intensità del gioco, dall’altro decisamente scontento: era una situazione
fuori controllo ed era certo che sarebbe successo qualcosa di terribile: una
di quelle grandi star si sarebbe infortunata.
La squadra di Jordan superò in volata quella di Johnson e alla fine
guadagnò un vantaggio di 10 punti. A pochi minuti dalla fine, Jordan era
sulla linea dei tiri liberi e si preparava a tirarne due quando Krzyzewski
ingenuamente gridò dalla panchina, come facevano abitualmente gli
allenatori per incoraggiare i giocatori: «C’è tutto il tempo». Jordan buttò a
terra la palla con violenza e gridò: «Fanculo, non c’è più tempo! È tutto
finito!» Poi segnò entrambi i liberi. La sua squadra vinse per 36-30. Daly
non vedeva l’ora di fischiare la fine. I giocatori avrebbero voluto
continuare, ma lui ne aveva abbastanza. La sua squadra era pronta, forse
perfino troppo.
Dopo quella partita, alcuni giornalisti accuratamente selezionati ebbero la
possibilità di scendere in campo per parlare con i giocatori. Jordan
sembrava in preda a un delirio di competitività. Aveva appena cambiato
sponsor di bibite, dalla Coca-Cola a Gatorade, e aveva già partecipato a uno
spot in cui varie persone sognavano di essere come lui. Stava a bordocampo
e diceva la battuta della pubblicità: «A volte sogno…» con una bottiglietta
di Gatorade in mano, godendosi il momento e la consapevolezza di aver
dominato una partita contro i giocatori migliori del mondo. Intanto, a trenta
metri di distanza, Magic Johnson diceva ai giornalisti: «Abbiamo incasinato
tutto. Lo abbiamo fatto infuriare. Abbiamo parlato troppo, tutti. Avremmo
dovuto saperlo».
Jan Hubbard andò a parlare con Jordan. «Devi proprio vincere sempre,
eh?»
Michael sfoderò il suo meraviglioso e raggiante sorriso: «Cerco di farla
diventare un’abitudine».
25
Chicago; Phoenix, 1992-1993

Nell’autunno del 1992-93, l’esperienza del Dream Team si era conclusa, ma


in un certo senso era ancora viva. Nell’NBA, alcuni avevano cominciato a
dividere la storia in due fasi: pre e post Dream Team. David Stern aveva
lavorato per rendere interessanti i suoi grandi atleti e lo sport che amava dal
punto di vista commerciale, e aveva ottenuto la parità con gli altri sport
professionistici americani: forse aveva addirittura esagerato, perché erano
emersi anche alcuni lati negativi. I suoi atleti ormai erano i più famosi del
mondo, e in un ambiente come Barcellona erano molto più popolari di
quanto lo sarebbero stati una dozzina di grandi giocatori di baseball o di
football americano. Erano le star di uno sport sempre più internazionale e i
protagonisti di infiniti spot di grande successo. Erano anche
immediatamente riconoscibili, per via all’altezza e spesso del colore della
pelle. La squadra olimpica di basket era una tale attrazione a Barcellona che
i giocatori non avevano potuto alloggiare al villaggio olimpico: non erano
soltanto i turisti e i tifosi che li braccavano ovunque andassero, ma anche
gli altri atleti. Forse non era una grande rappresentazione dello spirito
olimpico, ma rifletteva la realtà nel nuovo epicentro del villaggio globale.
In definitiva non potevano quasi spostarsi all’interno di Barcellona (perfino
uno come John Stockton, che non aveva il tipico aspetto della star NBA non
essendo né alto né nero, era limitato nei movimenti).
Il successo invadeva ogni aspetto della vita. A volte sembrava che l’NBA
fosse cresciuta troppo e troppo in fretta. Il suo sistema economico era
cambiato in modo così radicale che era diventata troppo pesante perché le
sue fondamenta la sorreggessero: era uno sport meraviglioso finché doveva
produrre cinque o sei squadre valide, e a volte straordinarie, che si
affrontassero ai playoff, ma aveva i piedi d’argilla, le mancavano le solide
basi che sostenevano gli altri due sport più seguiti. A causa della costante
espansione degli ultimi trent’anni, non c’erano poi tante buone squadre e
nemmeno buone squadre con almeno tre grandi giocatori. C’erano ancora
delle franchigie perennemente deboli e altre società che sembravano votate
alla mediocrità, e questo metteva un limite notevole per molte partite della
stagione regolare. Sembrava più che altro una Lega a tre velocità, con una
manciata di squadre veramente grandi al vertice, un gruppo più ampio di
squadre mediocri in mezzo e un gruppo più piccolo di franchigie veramente
disastrate in fondo. In troppi palazzetti, insomma, si vendeva più fumo che
arrosto.
Mentre la pubblicità cominciava a sovrastare la realtà, in molte città ci si
rese conto della crescente importanza degli uomini di marketing all’interno
delle organizzazioni: nei palazzetti il rumore era diventato assordante, e non
era il reale frastuono prodotto da tifosi entusiasti ed esperti dello sport, ma
un suono amplificato elettronicamente per sembrare reale e fare in modo
che gli spettatori si sentissero parte di qualcosa di più grande, in modo che
anche se la partita non fosse stata eccezionale avrebbero comunque potuto
avere l’impressione di aver partecipato a qualcosa di simile a un concerto
rock. Al di là di qualsiasi altra cosa, dovevano pensare di essere a un evento
importante.
Chi invece andava allo United Center nella speranza di assistere a un
grande partita di basket fra Chicago e Houston otteneva molto di più,
oppure molto di meno. Era come se i vertici del basket moderno non
fossero del tutto convinti che i nuovi tifosi, a differenza dei vecchi
frequentatori del Chicago Stadium, considerassero la semplice partita un
intrattenimento sufficiente. Anche se la musica si faceva sempre più forte e
venivano lanciati un sacco di giochi idioti sul maxischermo, oppure in
campo, mentre i giocatori aspettavano negli spogliatoi. In campo si
potevano vedere gare di minibike fra bambini di due o tre anni, acrobati che
sparavano magliette fra il pubblico o tifosi che venivano chiamati, bendati e
fatti girare in tondo fino a perdere l’orientamento per poi cercare di tirare a
canestro per vincere dei premi. Durante i time out, scendevano in campo
giovani ballerine discinte che eseguivano numeri che, in teoria, avrebbero
dovuto essere piccanti. Il maxischermo mostrava gare canore fra tifosi
stonati e altre competizioni ugualmente affascinanti, come una corsa
elettronica che si svolgeva ogni sera fra una ciambella, un bagel e un pezzo
di

cheesecake. Il maxischermo era il simbolo del crescente narcisismo della


società: Bob Ryan del Globe, sbalordito dal fatto che molti tifosi avessero
lasciato una partita fra Boston e Atlanta prima dell’inizio dei tempi
supplementari, scrisse che in troppi erano più interessati a vedere se stessi
sul maxischermo che non l’incontro. La cosa incredibile, osservò, era che
quelle infinite attività promozionali di infimo livello non si svolgevano
soltanto durante la stagione regolare, per le partite fra squadre
dimenticabili, ma anche durante le Finals.
Chi osservava i Bulls più da vicino, capiva che la squadra aveva perso
qualcosa di importante nello spostamento dal Chicago Stadium allo United
Center. Non solo Michael Jordan e diversi altri giocatori odiavano il sistema
di illuminazione della struttura, ma era andato perso anche un buon margine
del vantaggio di giocare in casa. Il Chicago Stadium era un luogo
spaventoso per giocare una partita importante, che intimidiva gli arbitri e i
giocatori ospiti: per usare le parole di Dick Motta, il rumore era così denso
che lo si poteva toccare. Il pubblico dello United Center era molto più
facoltoso – i prezzi dei biglietti erano più alti – e infinitamente più raffinato,
ma aveva molto meno istinto per il tono della partita. I Bulls continuavano a
vincere, ma il rumore era in gran parte artificiale. Nel vecchio Chicago
Stadium non c’era mai stato bisogno di aggiungere applausi fasulli.
La combinazione della nuova celebrità da rock star e dei compensi
esorbitanti contribuì enormemente a separare i giocatori dalle persone che li
seguivano e dalle tradizionali forme di responsabilità. Solo dieci anni
prima, la maggior parte delle squadre viaggiava sui voli di linea e i pochi
giornalisti sportivi che le seguivano si univano a loro, anche se in classe
economica. Giocatori e cronisti soggiornavano negli stessi alberghi e spesso
pranzavano insieme nei bar. Le navette di collegamento fra gli aeroporti e
gli alberghi e fra gli alberghi e i palazzetti trasportavano sia gli atleti che i
giornalisti. Nelle circostanze migliori vigeva un rispetto reciproco e i
giocatori sapevano quali erano i giornalisti seri, ma ormai tutto era
cambiato. I giocatori viaggiavano su aerei privati, una scelta logica per
molti versi perché consentiva loro di riposare, risparmiare tempo e
migliorare l’alimentazione. I giornalisti non erano più i benvenuti nemmeno
sulle navette per i palazzetti. Era stata tagliata una connessione importante.
Le conferenze stampa ormai erano dominate da battaglioni di frettolosi
cronisti radiofonici. L’accesso autentico alle squadre era sempre più
limitato.
Mantenere una posizione di successo nell’NBA moderna era sempre stato
più difficile che conquistarla: la vittoria implicava una serie di insidie tutte
particolari e aspettative sempre maggiori. Più si vinceva, più cresceva la
pressione che puntava alla sconfitta, non soltanto da parte delle altre
squadre che volevano conquistare la vetta e si accanivano al massimo
contro il campione in carica, ma anche da parte delle forze interne alla
squadra stessa, forze prodotte proprio dalla vittoria. Negli sport
contemporanei il successo non crea, come si potrebbe pensare, una
maggiore armonia: crea quasi sempre un maggiore bisogno di
riconoscimento personale. Tutti vogliono una fetta più grande di gloria: ego
che durante la salita alla vetta erano stati tenuti a bada, almeno
parzialmente, vengono a galla. Pat Riley, argutamente, la definiva ‘La
malattia del di più’.
I fattori scatenanti della malattia c’erano sempre stati, ma negli anni
settanta era stato relativamente facile tenerli sotto controllo: non esistevano
gli agenti indipendenti e quindi i giocatori erano alla mercé dei proprietari
delle squadre e la dirigenza aveva il pieno potere contrattuale. La
rivoluzione delle leggi sul lavoro nello sport aveva reso le squadre più
instabili: i giocatori ormai potevano scegliere dove giocare e potevano
avanzare pretese molto più solide sui compensi. Gli agenti erano entrati in
gioco ed erano diventati più potenti degli allenatori, si trovavano ormai allo
stesso livello delle proprietà. L’opinione del giocatore sul management della
squadra era diventata importante, e le relazioni fra compagni di squadra
erano sempre più rilevanti. La divisione della gloria divenne una questione
sempre più spinosa. Mantenere il potere di una dinastia diventò sempre più
difficile; il fenomeno per cui cinque o sei grandi giocatori che arrivavano
più o meno nello stesso periodo restavano insieme per la maggior parte
delle rispettive carriere era sempre più raro. A posteriori, è notevole che
tanti dei giocatori chiave dei Celtics e dei Lakers negli anni vincenti fossero
rimasti nella stessa squadra per la loro intera carriera. Le difficoltà di
ripetere il successo in campionato erano ancora più marcate per i Bulls, a
causa delle qualità uniche di Michael Jordan. Chiunque altro era
condannato a vivere sotto la sua ombra ed erano pochi i grandi giocatori
disposti ad accettare una cosa del genere, o anche molto meno.
Michael Jordan, lanciato dal talento, dalla bellezza, dalle vittorie che
aveva conquistato e dal numero sempre più grande di spot televisivi, aveva
da tempo superato il livello della semplice celebrità sportiva e stava per
diventare l’americano più famoso del mondo, un’icona di fama nazionale e
internazionale quasi impareggiabile. L’unica icona paragonabile a livello
globale era la principessa Diana. La fama di Jordan, come quella di Diana,
era diventata un mostro, un essere vivente che sembrava autoalimentarsi e
che cresceva a dismisura. Più aveva successo e più crescevano le
aspettative, più sfide affrontava e più si sforzava di eccellere, più
raggiungeva l’eccellenza e più diventava grande il mostro. Non doveva più
competere con il fratello Larry o con Leroy Smith nel cortile di casa, o con
Patrick Ewing all’università, o con Magic Johnson e Isiah Thomas nel
girone professionistico. Ormai doveva competere contro l’avversario più
temibile di tutti: se stesso. Più successi otteneva nel corso di un anno, più ci
si aspettava che ne ottenesse l’anno successivo.
Il mostro – infinite richieste di fare da testimonial, di posare per copertine
di riviste, di essere straordinario, di essere un eroe – continuò a crescere a
livelli esponenziali fra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta. Solo
qualcuno dotato della straordinaria capacità di Jordan di concentrarsi su ciò
che era importante poteva sostenere così bene quel genere di pressione.
Ormai sembrava che chiunque incontrasse volesse una parte di lui, chi per
motivi disinteressati e chi per sfruttarlo. Ogni telefonata conteneva una
richiesta di fare qualcosa, quasi sempre qualcosa che non aveva molta
voglia di fare, anche se gli avrebbe fatto guadagnare un milione di dollari. Il
mostro avrebbe potuto schiacciare e divorare facilmente un giovane meno
intelligente e meno solido di lui.
È incredibile pensare che non cedette mai a quel mostro. In parte ne fu
cambiato, certo, diventando inizialmente più cauto, e poi col tempo più
cinico e qualche volta più brusco nei comportamenti. Studiava attentamente
le persone che lo circondavano e le giudicava sotto diversi aspetti, anche
per capire che cosa volessero da lui. Uno dei più grandi punti a favore di
Phil Jackson, e un segno della sua grande abilità nel gestire il rapporto con
Jordan, fu che non gli chiese mai nulla, né autografi, né scarpe firmate né
apparizioni agli eventi di beneficienza della scuola dei figli. Gli chiedeva
soltanto di dare il meglio in campo e di passare un po’ di più la palla. Uno
dei doni speciali di Jordan era quello di capire che il basket era l’unica cosa
autentica al centro di quella follia, che era reale mentre quasi tutto il resto
era fasullo. Questa sola consapevolezza indicava una saggezza e una forza
d’animo straordinari: molti altri atleti, che avevano ottenuto molto meno di
lui e ricevuto molta meno adulazione, erano stati anche troppo pronti a
credere nel mito di se stessi e a scambiare l’inautentico per autentico,
credendo all’importanza che gli attribuiva l’immagine più transitoria di
tutte, lo specchio dei media contemporanei. Jordan era troppo furbo e
troppo equilibrato per cascarci e cercò sollievo dal fardello delle
responsabilità nel piacere del gioco. Il basket diventò la sua libertà: gli
allenamenti e le partite erano il vero divertimento della sua vita. Lì, almeno
per un po’, poteva chiudere fuori tutto il resto e seguire il suo cuore.
Se tutto questo era duro per lui, lo era anche per i compagni di squadra. Si
trovavano nella strana condizione di essere sotto il suo stesso riflettore e
contemporaneamente di dover subire la sua ombra, sempre un po’ sfocati.
Certo, il raggio laser dei media li toccava, ma non era mai puntato su di loro
e ogni interazione era contaminata dalla falsità. Dovevano accettare l’amara
verità che per quanto potessero essere bravi, la maggior parte delle persone
che prestava attenzione a ciò che facevano non era realmente interessata a
loro, se non forse come mezzi per arrivare a lui.
Alcuni giocatori si adattarono abbastanza bene, comprendendo quanto la
nuova fama fosse ipocrita, seppur a tratti allettante. John Paxson, un atleta
estremamente piacevole e maturo, ne ebbe un piccolo assaggio e decise
subito che non gli piaceva per niente. Non solo la celebrità lo faceva sentire
a disagio e interferiva con la vita semplice che preferiva condurre, ma si era
accorto con orrore che inconsciamente si stava lasciando cambiare, e non in
meglio. Si era ritrovato a cercare di diventare la persona che i riflettori
volevano che fosse, sempre affascinante e simpatico in pubblico, sempre
straordinariamente gentile e disponibile verso gli sconosciuti che lo
importunavano al ristorante. Il problema era che a volte gli capitava di
essere più gentile con gli sconosciuti che con la propria famiglia, perché
con loro stava diventando scorbutico a causa della pressione che subiva e
dell’illusione di essere più importante di quanto non fosse in realtà.
Il giocatore dei Bulls che riuscì meglio a gestire la contraddizione insita
nella natura particolare del proprio successo fu Scottie Pippen. Una volta
Gary Payton dei SuperSonics lo definì «il vice presidente, non il
presidente». Secondo un compagno di squadra, era come se Pippen si
sentisse più a suo agio nel ruolo di spalla di talento che non in quello di
superstar vera e propria. Sicuramente a volte soffrì per la difficoltà di
giocare accanto a Michael Jordan, di subire la sua personalità esigente e di
dover cedere una parte della propria privacy: nei primi anni, anche dopo
aver conquistato l’anello, sapeva anche troppo bene che una parte di Jordan
non era ancora del tutto convinta di lui e del suo modo di giocare e che
continuava a tenerlo sott’occhio, chiedendosi se il suo talento fosse
autentico. Ma Pippen aveva un sesto senso per i propri limiti, che gli diceva
con esattezza che cosa faceva bene e che cosa no. Jordan aveva una serie di
abilità, pari a quelle dimostrate nel basket, nel trattare con le orde di
giornalisti e nel gestire le immense responsabilità accessorie ed esterne al
gioco, mentre Pippen sotto quegli aspetti era molto meno capace. Il divario
fra loro, che sul campo non era poi così grande, fuori si allargava a
dismisura. Jordan era un animale mediatico, sembrava essere nato per stare
davanti alle telecamere e anche se alla fine la sua esposizione era diventata
eccessiva, quando finì ne sentì la mancanza.
Pippen invece non aveva un istinto naturale per gestire il numero sempre
maggiore di esperti di immagine che seguivano i Bulls. Le fiumane di
giornalisti che entravano nello spogliatoio dei Bulls volevano scoprire la
parte di Pippen che lui voleva proteggere di più, e questo creava una
situazione molto faticosa per tutti. Pippen si era adattato bene all’attacco a
triangolo, nessuno era più bravo di lui a condividere la palla. Se qualcuno
perdeva il possesso, Jordan tendeva a tagliarlo fuori, ma Pippen si
impegnava ancora di più per coinvolgerlo nel gioco. Jackson era convinto
che quel modo di fare derivasse dalla sua infanzia, quando era stato il più
piccolo in una famiglia numerosa e povera: per lui era naturale condividere
tutto quanto.
Nei primi tempi Pippen era stato un peso per i giornalisti: la sua
maturazione a Chicago era stata difficile e gran parte del processo di
crescita era avvenuto sotto gli occhi del pubblico. A differenza di Jordan,
approdato a Chicago da un programma estremamente sofisticato, in cui
veniva profuso ogni sforzo per aiutare gli studenti ad affrontare il mondo
che li attendeva, Pippen era arrivato in città da un piccolo contesto rurale,
povero e poco attrezzato. Nei primi anni da giocatore dei Bulls, per dare
un’impressione di serietà indossava occhiali con lenti neutre.
Era arrivato ingenuo e immaturo, ma già ricco e famoso, la combinazione
più pericolosa possibile, e Chicago era piena di tentazioni. Come molti altri
giocatori dell’NBA prima di lui, aveva ceduto a molte di quelle lusinghe.
Insieme all’amico Horace Grant, arrivato nella stessa stagione e con un
passato molto simile al suo, si era comportato come un bambino in un
immenso negozio di caramelle, come aveva osservato un membro della
dirigenza. Il suo comportamento in campo sentimentale non era certo stato
impeccabile: a un certo punto si trovò ad affrontare contemporaneamente
due cause per il riconoscimento di paternità. Una volta fu fermato dalla
polizia locale per possesso di un’arma non registrata, una pistola che teneva
in macchina. Anno dopo anno però cominciò a maturare, a sentirsi più a suo
agio con se stesso e a provare sempre maggior piacere nel gioco. Quando le
telecamere lo inquadravano mentre tornava in panchina dal campo, quasi
sempre lo si vedeva ridere e scherzare con i compagni, felice per quella
parte della sua vita. Una volta qualcuno chiese a Phil Jackson di definire
Pippen con una sola frase e lui rispose subito: «La gioia del basket».
Quando invece era il momento di uscire dal campo e affrontare i giornalisti,
sembrava che sul suo viso calasse una maschera. Rispondeva alle domande,
ma era come se stesse dicendo «Vi prego, basta». Le sue risposte cercavano
volutamente di chiudere il discorso, piuttosto che di aprire il dialogo. Alla
fine quella maschera ottenne l’effetto voluto e i giornalisti si dedicarono ad
altri giocatori.
Non sembrava che Pippen invidiasse a Jordan la posizione preminente.
Agli inizi della carriera sapeva che il compagno non gli aveva ancora
concesso la piena approvazione, ma anche in quel caso non ne sembrava
infastidito. A differenza dell’amico Horace Grant, che non sopportava la
posizione speciale di Jordan e lo scarso entusiasmo che dimostrava verso il
suo gioco, Pippen accettava che Jordan fosse a un livello superiore e che
fosse necessario sforzarsi di collaborare, di imparare e di migliorare.
Secondo Chip Schaefer, che li aveva davanti agli occhi ogni giorno, se a
volte durante gli allenamenti Jordan si accaniva su Scottie, lui era
abbastanza furbo da capire che era comunque un vantaggio poter imparare
dal campione, sia in campo che fuori.
Entrando nel Dream Team, Pippen raggiunse finalmente lo status di
superstar. Accanto agli atleti più strombazzati della Lega aveva giocato ai
massimi livelli, più in alto della maggior parte dei compagni che erano
arrivati in vetta con una celebrità molto maggiore. Secondo Chuck Daly,
Pippen era appena al di sotto di Jordan e alla pari con Charles Barkley, un
altro che alle Olimpiadi aveva brillato. Il gioco di Pippen aveva stupito tutti,
compresi Jordan e Daly, che ebbe a dire: «Non si comprende a fondo la
bravura di un giocatore finché non lo si allena, ma Pippen è stata la grande
sorpresa di Barcellona, per la sicurezza e l’assoluta completezza, sia in
attacco che in difesa. Nessuno se lo aspettava davvero».
Pippen riuscì a sorprendere perfino Jordan: al suo arrivo aveva discusso
con lo staff delle qualità dei compagni ed era chiaro che non sapeva bene a
che livello collocare il suo compagno di Chicago. Dopo il rientro dalle
Olimpiadi invece, quando parlò con Jackson gli riferì che la cosa migliore
era stata la possibilità di mostrare a tutti la grandezza di Pippen: «Scottie è
arrivato come un outsider e nessuno sapeva quanto potesse essere bravo, ma
poi ha continuato a giocare e alla fine della settimana era evidente che era la
migliore guardia in assoluto, al di sopra di Clyde, di Magic e di Stockton. È
stato fantastico che abbiano potuto vederlo in quella situazione e apprezzare
quanto è forte in realtà».
Se Pippen era il compagno che gestiva al meglio l’ingombrante ombra di
Jordan, quello che aveva più problemi sembrava essere Horace Grant. A
volte dimostrava un fortissimo risentimento per quella che percepiva come
una posizione privilegiata all’interno dell’organizzazione. Nessuno capì mai
perché proprio lui se la prendesse tanto. Sicuramente in parte era dovuto al
suo ruolo all’interno della squadra, cioè quello di centro agile e veloce che
doveva occuparsi dei lavori pesanti, affrontando avversari molto più grossi
in difesa, e sgomitare sotto i tabelloni. In cambio del lavoro sporco,
pensava, riceveva ben pochi schemi disegnati per lui.
Certi allenatori pensavano che Grant non fosse rapido quanto Pippen a
interpretare il mondo dell’intrattenimento che girava intorno al basket e che
quindi continuasse a desiderare qualcosa che non avrebbe mai ottenuto, e
che nessuna persona sana di mente avrebbe comunque voluto: la celebrità di
Jordan. Inoltre, non capiva che la posizione privilegiata di cui Jordan
godeva all’interno dell’organizzazione non era stata voluta da Phil Jackson
o dal management, ma direttamente dagli dèi e non poteva essere
controllata, meno che mai da Jordan stesso. Alcuni dipendenti della squadra
pensavano che Grant fosse vittima di una specie di virus, la bizzarra
convinzione che Jordan lo limitasse in qualche modo e che i suoi obiettivi
personali venissero oscurati dalla celebrità del campione.
Fra Grant e Jordan c’era anche della vecchia ruggine, che risaliva al
periodo in cui Jordan aveva contestato la sua scelta nel draft da parte della
squadra. Più tardi Jordan aveva detto chiaramente che non lo considerava
un giocatore poi così brillante. Quali che fossero le ragioni, Grant provava
un rancore evidente contro Jordan. Dopo il campionato del 1991, quando la
squadra fu invitata alla Casa Bianca per incontrare il Presidente Bush,
Michael Jordan andò a cena con Grant e disse che pensava di non
presentarsi e di andare invece a giocare a golf. Al momento Grant non disse
nulla ma più tardi, quando l’assenza di Jordan divenne una questione
mediatica, non perse l’occasione per criticarlo. Jordan si infuriò: era
convinto che se aveva qualcosa da dire, Grant avrebbe dovuto farlo durante
quella cena, oppure tacere per sempre.
Il primo giorno di allenamento dell’autunno 1992 emerse un segnale che
indicava un possibile allontanamento volontario di Horace Grant dalla
squadra. Uno degli esercizi base nei ritiri condotti da Jackson era incentrato
sulla resistenza e si chiamava ‘fila indiana’. I giocatori dovevano correre in
fila e ogni volta che Jackson fischiava, l’ultimo doveva fare uno scatto e
raggiungere la testa del gruppo. Era un esercizio molto faticoso, che
richiedeva scatti continui. Dato che Jordan e Pippen dovevano ancora
riprendersi dalle fatiche delle Olimpiadi, Jackson li esonerò, ma più o meno
a metà dell’esercizio Grant perse le staffe e se ne andò: non sopportava il
semplice fatto che gli altri due moschettieri avevano fatto parte del Dream
Team, mentre lui doveva faticare insieme agli altri. Jackson andò negli
spogliatoi per placarlo, ma non era un bel segnale.
Lo scontento di Grant era solo una parte del malessere che minacciava i
Bulls nel momento del maggiore successo. Alcune delle tensioni esistenti si
trascinavano fin dalla fine degli anni ottanta ed erano abbastanza normali in
qualsiasi corsa all’anello. Ma con l’aumento sempre più rapido della
celebrità dei Bulls il riflettore puntato su Jordan cominciò a evidenziare
attriti e divisioni che pur essendo normali in qualsiasi squadra, in questo
caso vennero enfatizzati e amplificati oltre i confini dello spogliatoio.
Più tardi, quando alcune di quelle divisioni all’interno dei Bulls
diventarono voragini (peraltro sotto gli occhi di tutti), un giornalista chiese
a Phil Jackson da dove fossero iniziate. La risposta fu piuttosto anomala:
secondo lui era nato tutto da un libro. Dopo il campionato del 1991 Sam
Smith, il cronista sportivo del Chicago Tribune, aveva scritto un resoconto
della stagione intitolato The Jordan Rules, pubblicato nell’autunno
dell’anno successivo. Smith era un giornalista intelligente e preparato, che
aveva studiato il tema per tre anni: la sua conoscenza delle fazioni e delle
dispute interne alla squadra era ovviamente enciclopedica. La sua opera era
una gioia per qualsiasi patito di basket, era piena di dettagli succosi, e pur
trasmettendo una grande ammirazione per la grandezza di Jordan
rappresentava anche un primo tentativo di demitizzazione. Dimostrava che
Jordan, dopotutto, non era sempre perfetto, che aveva dei limiti. Era molto
duro con i compagni e si preoccupava anche troppo della sua immagine agli
occhi degli sponsor. Era un ritratto realistico e non agiografico di qualcuno
che nel passato quasi tutti avevano voluto idolatrare. Mostrava anche i suoi
lati peggiori, come la scontrosità e la durezza con cui trattava i compagni.
Sotto certi aspetti il resoconto di Smith non era una vera novità per i
Bulls. I giornalisti sportivi sono spesso consapevoli delle piccole gelosie e
degli inevitabili scontri di personalità che emergono durante stagioni lunghe
e impegnative. Non sono molti i grandi giocatori che fanno amicizia con gli
altri grandi giocatori della stessa squadra. La gelosia non manca. Alcuni
invidiano il rapporto privilegiato che qualche compagno può avere con il
proprietario della squadra, come Kareem Abdul-Jabbar era infastidito dalle
manifestazioni di amicizia fra Magic Johnson e Jerry Buss. In molte
squadre le rivalità nascevano da un commento fatto dalla moglie di un
giocatore alla moglie di un altro. Probabilmente si sarebbe potuto scrivere
un libro del genere su qualsiasi squadra, ma raramente quelle schermaglie
erano degne di nota. Ciò che rendeva speciali quelle dei Bulls era il fatto
che riguardassero la squadra in cui militava Michael Jordan. Soprattutto
grazie alla celebrità di Jordan e alla fame di notizie su di lui, il libro divenne
un bestseller. Era una specie di ironia della sorte: Smith in pratica stava
amplificando le opinioni di chi criticava i privilegi di Jordan, ma il suo libro
aveva raggiunto una tale diffusione proprio grazie all’attenzione privilegiata
di cui godeva. Horace Grant era chiaramente stato una delle fonti principali
di Smith, e si pensava che altre due fossero Phil Jackson e Jerry Reinsdorf.
Quel libro rese anche troppo concrete e visibili rivalità e distanze che
c’erano sempre state, ma che fino a quel momento si era riusciti a evitare di
tematizzare. Ormai però erano state rese pubbliche.
Michael Jordan non era contento, ma era anche consapevole di essere
quasi invulnerabile alle critiche: la natura della sua popolarità lo rendeva
virtualmente immune agli attacchi di qualsiasi giornalista della carta
stampata, soprattutto perché la sua squadra continuava a vincere. Da tempo
era entrato in una dimensione in cui contavano soltanto i canali televisivi e
dove molti giornalisti, desiderosi di avvicinarsi a lui, si presentavano quasi
come ambasciatori del proprio canale. A lui importava soltanto della sua
immagine e la sua immagine brillava; i fatti erano meno importanti perché
gli unici fatti che importavano alla gente erano che la squadra continuasse a
vincere e che lui restasse affascinante.
Per Jerry Krause, invece, quel libro fu devastante perché descriveva nel
dettaglio le tensioni fra lui e i giocatori, in particolare Jordan e Pippen, e il
modo in cui lo prendevano in giro. Anche prima dell’uscita del libro,
Krause soffriva la mancanza di notorietà: anche se il suo contributo alla
creazione dei Bulls era stato notevole, per le telecamere che si spostavano a
bordocampo durante le partite rimaneva invisibile. Le inquadrature
tendevano a essere tutte per i giocatori e gli allenatori, i general manager
venivano ignorati. Questo significava che Phil Jackson, che lavorava per
Krause, era stato assunto da lui e gli doveva tutto, stava diventando molto
più famoso di lui. In più gli venivano attribuiti molti più meriti per il
successo della squadra.
Era già abbastanza difficile senza un libro che sembrava denigrarlo
davanti all’opinione pubblica, dipingendolo come un uomo disprezzato e
umiliato dai suoi giocatori. Per il pubblico, qualsiasi contrapposizione fra
Michael Jordan e Jerry Krause era facile da interpretare: Krause sarebbe
sempre stato dalla parte del torto. Krause detestò quel libro e ne divenne
ossessionato. Altri, di fronte a qualcosa di così indigesto scritto su di loro,
avrebbero preso le distanze o avrebbero finto di ignorarlo, oppure avrebbero
addirittura lasciato intendere di averlo apprezzato, ma non Krause. Quel
libro lo tormentava, si lamentò con tutti i membri dell’organizzazione di
quello che Smith aveva scritto. Sottolineò quasi duecento passaggi che
secondo lui erano menzogne (più che altro erano opinioni altrui che lui non
condivideva). Citava le frasi più denigratorie nei suoi confronti al suo staff
per sentirsi dire che non erano vere. Era come se inconsciamente volesse
rendere quel libro più importante di quanto non fosse in realtà.
Il libro di Sam Smith non approfondì solo la divisione fra Krause e i
media, ma cominciò ad allontanarlo anche da Jackson e da alcuni altri
membri dello staff. Krause si era convinto che una delle fonti principali del
giornalista fosse stato l’assistente allenatore Johnny Bach e cercò di
convincere Jackson a mandarlo via. Bach non gli era mai piaciuto, perché
godeva di una popolarità che lui non avrebbe mai potuto sperare di
raggiungere. Bach era un allenatore di talento e una figura importante per il
successo dei Bulls, ma soprattutto era affascinante, disinvolto ed
estremamente attraente, oltre che un veterano della Seconda guerra
mondiale. Era un esperto di storia militare e aveva una profonda cultura.
Inoltre, aveva un rapporto molto stretto con i giocatori. Andava molto
d’accordo con Horace Grant, che gli fece da testimone al secondo
matrimonio.
Bach aveva un ottimo rapporto anche con i giornalisti sportivi, che lo
rispettavano e lo apprezzavano perché era intelligente, onesto e bravissimo
a coniare frasi brevi e memorabili. Krause, con la sua mania per la
riservatezza, non sopportava che Bach avesse legami così stretti con la
stampa ed era certo che la sua popolarità derivasse dal fatto che divulgava
segreti di Stato. «Johnny» gli ripeteva, «gli assistenti allenatori devono farsi
ascoltare, non farsi vedere». Anche prima della pubblicazione del libro di
Smith, Krause teneva d’occhio Bach per le sue relazioni con i media. Dopo
l’uscita aveva bisogno di un nemico e si convinse che le informazioni
negative fossero arrivate da lui. Non era così. L’opinione che i giocatori e
altre persone dell’organizzazione avevano su Krause non era certo un
segreto e un giornalista sportivo astuto e serio come Smith aveva ascoltato
innumerevoli storie sul suo conto. Quel libro non era opera di Bach ma
piuttosto di Krause stesso, e anche di Reinsdorf per aver messo a capo della
società una persona che era destinata a creare continui conflitti. Eppure,
innescò il processo che portò all’allontanamento di Bach.
Krause era sempre più amareggiato, sempre più affamato di pubblicità e
soprattutto, secondo diversi colleghi, sempre più geloso di Jackson.
Sembrava convinto che la colpa di tutta quell’agitazione fosse del coach il
quale, permettendo ai giocatori di pensare così male di lui, aveva fallito una
qualche prova di lealtà. Jackson non era ancora in aperto conflitto con
Krause, ma sentiva che Krause rendeva tutto più difficile superando i
confini di territori dove non era necessario né ben accetto. Krause, da parte
sua, sembrava pensare che quando si creavano delle tensioni fra lui e i
giocatori il compito di Jackson fosse quello di spalleggiarlo. Nella società si
stavano formando linee di divisione sempre più marcate e, anche se
inconsciamente, si cominciava a verificare la lealtà delle persone.
Per Krause la lealtà era una qualità molto importante, soprattutto a causa
delle difficoltà che aveva affrontato per arrivare in vetta. Da giovane non
aveva quasi mai reagito al disprezzo che aveva subito da parte di molti
addetti ai lavori, ma di certo aveva sentito tutte le battute sul proprio conto
ed era stato ben consapevole di tutte le cene in trasferta a cui non era stato
invitato dagli altri scout. Le sue emozioni, alimentate dalle ferite che aveva
subito in silenzio, si esprimevano nella lealtà assoluta che provava per le
poche persone che gli avevano mostrato gentilezza in quel periodo, quelle
che lo avevano accettato per la passione verso il gioco e la sua etica del
lavoro e non lo avevano respinto per il suo aspetto fisico. Quegli uomini,
come Tex Winter, Big House Gaines, John McLeod e (quando Krause
faceva lo scout di baseball) la vecchia interbase di Detroit Johnny Lipon,
avrebbero sempre potuto contare su di lui: Winter aveva un posto a vita e il
figlio di Gaines lavorava per Krause come scout. Lui stesso era ciecamente
fedele a Reinsdorf e ripeteva continuamente che era il miglior proprietario
nell’ambiente sportivo, una valutazione che non molti condividevano, pur
riconoscendo a Reinsdorf intelligenza e determinazione.
Krause non comprendeva a fondo la complessa stratificazione della lealtà
da parte degli uomini di talento. Se assumeva qualcuno era chiaro che gli
sarebbe stato fedele, ma non per questo gli doveva la vita o l’onore, o
doveva sacrificare a lui le proprie convinzioni più profonde. Krause non
capiva nemmeno che nel labirinto sempre più intricato delle fazioni
politiche all’interno dell’organizzazione, la fedeltà verso di lui poteva
mettere una persona in conflitto con altre parti della squadra, e
specificatamente con i giocatori stessi. Non riusciva neanche ad accettare
l’idea che la sua onnipresenza causasse molti incidenti superflui. Quindi
tendeva, quasi volutamente, a creare prove di fedeltà che nessuna persona di
talento dotata di rispetto per se stessa avrebbe mai superato. Altri lo
avevano già deluso in passato ed era ormai arrivato anche il turno di Phil
Jackson.
Le tensioni interne all’organizzazione di solito non si mostravano in
campo, ma la stagione 1992-93 fu comunque molto difficile per la squadra.
Lo staff tecnico percepiva uno stato di affaticamento, sia fisico che mentale.
All’inizio della stagione, sia Cartwright che Paxson erano in convalescenza
dopo un’operazione chirurgica mentre Pippen e Jordan avevano diversi
acciacchi e risentivano ancora della stanchezza dopo le Olimpiadi.
Quell’anno il numero di vittorie scese da sessantasette a cinquantasette. A
volte lo sfinimento delle trasferte e della difesa del titolo sembrava essere
troppo da sopportare. Durante certi allenamenti il livello degli scontri si
alzava in modo inaudito. Una volta, durante una lunga trasferta in cui alcuni
giocatori sembravano più svogliati del solito, Jordan li apostrofò dicendo
semplicemente: «Forza, milionari», tanto per ricordare che la loro
situazione non era certo drammatica e che i ricchi compensi andavano
onorati con il massimo impegno. I Bulls rimanevano comunque una grande
squadra, sicura e decisa, che giocava bene nelle partite importanti e dava
molto in trasferta, inoltre sapeva come concludere un incontro a proprio
favore. Michael Jordan in pratica era diventato il migliore della Lega sotto
questo aspetto. Negli ultimi minuti di gara si impossessava del pallone e,
qualsiasi cosa facesse la difesa avversaria, riusciva sempre a crearsi
occasioni di tiro.
Nelle Finals del 1993 i Bulls affrontarono Phoenix, senza il vantaggio del
campo a causa del minor numero di vittorie in stagione. Fu l’occasione per
assistere allo scontro tra Jordan e l’amico Charles Barkley, che quell’anno
aveva vinto l’MVP. In Regular Season, Phoenix aveva totalizzato
sessantadue vittorie, cinque in più dei Bulls. Prima dell’inizio della serie,
sapendo quanto fossero forti gli avversari nel loro palazzetto nuovo di
zecca, Jackson ricordò ai giocatori quanto fosse importante portare a casa
una delle due partite in programma, e Jordan gli rispose che le avrebbero
vinte entrambe.
Poi andarono a Phoenix e lo fecero davvero. Se Jordan avesse avuto
bisogno di un supplemento di motivazione, secondo i compagni e
l’allenatore era stato l’MVP vinto da Barkley. A partire da Gara Due segnò
in sequenza 42, 44 e 55 punti. Phoenix però, a Chicago, con due sconfitte
alle spalle, sbalordì i Bulls vincendo due partite su tre. Per difendere il titolo
i Bulls avrebbero dovuto tornare a Phoenix e vincere ancora.
A bordo dell’aereo privato la squadra sembrava un po’ giù di tono. Il
telecronista dei Bulls, Johnny Kerr, disse in seguito: «Sembrava un obitorio.
Avevano avuto la possibilità di chiudere il campionato in casa e se l’erano
lasciata sfuggire. Non si consideravano una squadra che potesse perdere due
incontri in casa. Non era proprio da loro». Poi Jordan salì a bordo con gli
occhiali da sole, un cappello vistoso e una maglietta ancora più sgargiante,
fumando un enorme sigaro. «Buongiorno, campioni del mondo» esclamò.
«Andiamo a Phoenix e facciamogli il culo!» L’umore della squadra cambiò
all’istante e in Gara Sei John Paxson segnò il canestro vincente all’ultimo
secondo, consegnando il titolo ai Bulls. Avevano vinto il terzo anello
consecutivo.
Uno dei motivi per cui Jordan si godette lo scontro di Phoenix fu la
possibilità di affrontare Dan (Thunder Dan) Majerle. Non perché
l’avversario gli avesse fatto qualche torto personale, ma sempre a causa di
Krause. Jerry Krause era un grande fan di Majerle e avrebbe voluto
sceglierlo al draft al suo esordio nella Lega, anche se alla fine aveva optato
per Will Perdue, ma solo perché era preoccupato per la condizione dei piedi
di Cartwright. Dal punto di vista di Jordan, però, Krause aveva parlato
troppo spesso e con troppo entusiasmo di Majerle, di quanto fosse bravo e
completo, sia in attacco che in difesa. Lo aveva addirittura paragonato a
Jerry Sloan, uno dei suoi preferiti di sempre. Secondo i compagni Michael
Jordan alzava sempre di una tacca il livello dello scontro quando Thunder
Dan entrava in campo. Lionel Hollins, che all’epoca era assistente
allenatore a Phoenix e non sapeva nulla delle tensioni fra Krause e Jordan,
durante quella serie ebbe l’impressione che Michael Jordan covasse un
rancore personale verso Majerle. Ogni volta che prendeva la palla sembrava
volergli passare accanto, come per dimostrare che non riusciva a marcarlo.
Secondo Hollins era una specie di vendetta personale, che andava oltre lo
scopo della partita.
Dopo Gara Sei, quando il tiro di Paxson toccò la retina, Michael Jordan si
lanciò verso il canestro per recuperare la palla, la sollevò sopra la testa e i
compagni pensarono che volesse dire qualcosa in merito a un viaggio a
Disneyland, invece gridò: «Thunder Dan Majerle, baciami il culo!»
26
Chicago, 1993

Il terzo anello arrivò giusto un anno dopo l’esposizione mediatica garantita


a Jordan dal Dream Team, che aumentò la sua fama e arricchì la sua
leggenda. Secondo alcune stime, il suo guadagno annuale passò dai circa 20
milioni di dollari della stagione pre-Dream Team a circa 30 milioni.
Nessuno che lavorasse nel mondo dello sport aveva mai visto un venditore
così fenomenale. Ma fu allora che, gradualmente, le cose cominciarono ad
andare peggio. Venne fuori che stava avendo troppo successo: stava
diventando sempre più prigioniero della sua fama. La pressione era troppa,
gli sguardi indiscreti pure e le occasioni di relax, di libertà, troppo poche.
Cominciò a giocare. A Jordan era sempre piaciuto scommettere, in
qualsiasi contesto: già al college scommetteva in allenamento, sugli esercizi
e le partite a Horse. Erano cose piccole – 25 centesimi per un tiro libero – e
non ufficiali. Un giorno, in allenamento, Jordan disse per puro caso a Dean
Smith qualcosa sul fatto che Roy Williams gli doveva un’altra Coca-Cola.
Smith chiese a Williams di cosa Jordan stesse parlando e quello rispose che
scommettevano delle bibite sugli esercizi. Scommise sul risultato di un
gioco sul palmare di David Falk, e quando fu il turno di Falk, cominciò a
parlargli di importanti questioni di lavoro, per rompere deliberatamente la
sua concentrazione.
Aveva il bisogno costante di vincere. Scommetteva con gli altri Bulls a
Horse, e sulle infinite partite a carte che giocavano sugli aerei. Jordan aveva
abilità matematiche fuori dal comune che lo trasformarono presto in un
ottimo giocatore di carte. Lo staff dei Bulls cercava di avvertire i giocatori
più giovani di non sfidarlo perché era troppo bravo, ma con scarsi risultati.
C’era un marchio di fabbrica su tutte le sue attività extra-basket: la furia
con cui le svolgeva, il suo bisogno di giocare un’altra partita a carte o
un’altra buca a golf, finché non vinceva. Parte di ciò nasceva dal suo innato
senso per la competizione, ma parte dipendeva invece dal bisogno di
distrazione, perché le pressioni stavano aumentando e la sua vita era sempre
più sotto i riflettori: prima del mondo dello sport, poi di tutti gli Stati Uniti,
poi del mondo intero. Ciò lo rese sempre più prigioniero della sua stanza
d’albergo: non poteva uscire senza causare delle sommosse, ed erano quindi
i suoi amici ad andare da lui. La sua camera divenne il centro di tutto. Suo
padre ci andava spesso, così come i suoi vecchi amici di North Carolina e
ovviamente c’erano le sue guardie del corpo: tutti insieme, giocavano
infinite partite a carte. «La cosa strana di Michael» disse il suo amico
Charles Barkley, sempre allegro ed esuberante, «è che ci vediamo sempre in
una camera d’albergo, perché non esce mai».
Il golf diventò sempre più importante. Era la sua grande via di fuga dagli
alienanti compiti che lo aspettavano fuori dal campo di basket, l’unico altro
momento, oltre agli allenamenti e alle partite, dove poteva avere una certa
libertà e lasciarsi andare. In un mondo in cui sempre più persone volevano
qualcosa da lui, a essere a rischio erano ormai la sua libertà e la sua salute
mentale. La cosa interessante di Jordan, mentre la fama e la pubblicità
cominciavano a erodere la sua privacy, era che tutto ciò stava avvenendo a
un ragazzo particolarmente bisognoso di libertà fisica. Fin dalla high school
e dal college, i suoi amici si erano resi conto del suo notevole livello di
energia, di quel metabolismo assolutamente unico che gli consentiva di
lavorare col doppio della forza e giocare col doppio dell’intensità degli altri
anche dormendo la metà. Aveva dato segnali di quel metabolismo
straordinario, di quella sorta di eccesso di energia, già al college. Carolina
aveva organizzato alcune amichevoli precampionato in Europa, ma a causa
di un errore logistico i Tar Heels furono costretti a giocare due partite di fila
nella stessa sera, contro due squadre diverse. La prima partita finì
all’overtime, e durante un time out Michael disse a Roy Williams: «Coach,
questa storia è durata anche troppo. Ora la finisco». Prese il controllo della
partita e la squadra vinse. Dopo una breve pausa di trenta minuti in cui
trangugiò due barrette, dominò anche la seconda partita. Per alcuni dei suoi
compagni era la prima dimostrazione del suo speciale livello di energia, che
aveva messo in campo però anche durante il suo primo anno in NBA,
quando aveva sfidato tutte le convinzioni sul comportamento dei rookie e,
anziché cominciare a perdere colpi nella seconda parte di stagione, aveva
beneficiato degli allenamenti sempre più intensi ed era diventato ancora più
forte. Ora era prigioniero, costantemente stressato da responsabilità che non
c’entravano nulla col basket e che per lui erano decisamente più difficili
delle partite e, appena ne aveva la possibilità, dava sfogo a straordinarie
scariche di energia fisica. Magic Johnson fece una domanda retorica:
«Perché gioca a golf? Per allontanarsi dal mondo… Perché gioca partite di
36 o 42 buche?… Michael potrebbe andare avanti a giocare dalle 7 fino al
tramonto, anche d’estate. Non lascia mai il campo da golf, resta lì tutto il
giorno… e tutta la notte… E sapete perché? Perché lì nessuno può
disturbarlo: si sta divertendo e il resto del mondo è lontano».
Diventò più ricco e le sue scommesse sul golf diventarono più ingenti e,
alla fine, anche irrispettose. All’inizio erano $100 a buca, a volte per un
putt. Ma presto raggiunsero i $1000 a buca e le partite diventarono man
mano sempre più brutali. Così Gene Ellison, che giocava con lui
regolarmente: «Giocare con Michael è come combattere la Terza guerra
mondiale. È logorante, ti manda al manicomio. Ma non lo fa con cattiveria:
si sta solo divertendo».
Negli anni, Jordan divenne un’ottima preda per gli allibratori del golf,
sempre alla ricerca di carne fresca. L’opinione pubblica scoprì la maniacale
intensità con cui giocava solo perché, dopo la fine della stagione 1990-91,
sul green di Hilton Head (città della Carolina del Sud dove aveva una casa)
comparvero delle figure piuttosto sospette: uno dei suoi compagni di gioco
fu arrestato di lì a poco per traffico di droga ed evasione fiscale e un altro fu
assassinato. Poiché alcuni dei loro rapporti finirono in tribunale, ci sono
delle testimonianze piuttosto accurate dell’ossessione di Jordan per il golf.
Una delle persone con cui giocava era già una figura ambigua quando si
conobbero: James (Slim) Bouler era stato in carcere per spaccio di cocaina
e aveva violato due volte la libertà vigilata con indosso delle armi
semiautomatiche. Si scoprì che, oltre a tutto il resto, era anche un grosso
allibratore nel mondo del golf: il suo compito era giocare contro un
bersaglio per conto di grossi scommettitori, e riceveva una grossa quota
delle loro vincite solo per aver giocato con lui. Bouler possedeva un
negozio di articoli per il golf e un campo di allenamento: un giorno, nel
1986, qualcuno arrivò al campo di allenamento per avvisarlo che Michael
Jordan stava giocando lì vicino. Bouler non fu impressionato: era abituato a
essere circondato dalle celebrità nei vari tornei. Ma quella persona aggiunse
che Jordan scommetteva banconote da $100 sulle singole buche: Bouler
fiutò il tipo di affare su cui prosperava e andò a prendere le mazze.
Quando nel 1993 il reporter del Washington Post Bill Brubaker intervistò
Bouler in una prigione federale del Texas, gli chiese se si sarebbe descritto
come un allibratore e lui sembrò piuttosto orgoglioso di quella definizione:
«Se vuoi chiamarmi così, io non me la prendo. Il punto è questo: quando
vieni a giocare con me non portare il cestino, perché non andiamo a fare un
picnic». Stando a Bouler, durante i cinque anni in cui lui e Jordan giocarono
e scommisero insieme, Jordan spesso si portava dietro $30.000 in contanti.
Dopo aver vinto il titolo nel 1991, per cinque giorni Jordan e un gruppo di
suoi amici giocarono una sorta di maratona non-stop di carte e golf (golf
tutto il giorno e carte tutta la notte, fino alla mattina) a casa di Jordan, a
Hilton Head. Alcuni di loro si incontravano alle 7 del mattino per colazione
e alle 8 erano già sul green. Giocavano qualcosa come ventisette buche al
giorno. Le scommesse erano generalmente di $100 a buca, ma potevano
arrivare fino a 500 o addirittura a 1.000. I giocatori che puntavano alto, cioè
quelli più ricchi, stavano in un gruppo chiamato ‘Il Gruppo Grosso’, mentre
quelli con risorse limitate giocavano in un altro gruppo dove le puntate
erano molto più piccole. Quando quei cinque giorni di baldoria finirono,
Jordan doveva $57.000 a Bouler e 108.000 a Eddie Dow, un faccendiere
della zona il cui lavoro era controllare i soldi di Bouler. Quando Jordan
mandò a Bouler il suo assegno, i federali lo bloccarono, sostenendo che
Bouler non volesse pagarci le tasse. Qualche mese dopo, il primo febbraio
1992, Dow fu ucciso a casa sua, durante una rapina apparentemente non
correlata al gioco d’azzardo. Nella sua ventiquattr’ore furono trovati due
assegni, per un totale di $108.000, firmati da Michael Jordan.
L’NBA era piuttosto scontenta che il suo giocatore più rappresentativo
fosse coinvolto in una storia di gioco d’azzardo e associato a personaggi
piuttosto dubbi e, seppur in maniera lenta e superficiale, si mosse per capire
cosa fosse realmente successo. Jordan ricevette una bacchettata sulle mani,
ma sembrava che fosse solo una figura marginale nelle indagini e in qualche
modo riuscì a non far parlare dei suoi altri problemi legati al gioco. Ma un
anno dopo, un uomo di nome Richard Esquinas, sedicente ludopatico,
pubblicò un libro in cui sosteneva di aver vinto $1.250.000 scommettendo
con Jordan durante una partita di golf durata dieci giorni, e di essersi alla
fine accordato con lui per $300.000. Jordan ammise di dovere a Esquinas
quei $300.000.
Nessuna scommessa era legata alle partite di basket: Jordan scommetteva
innanzitutto sulle proprie abilità nel golf. A chi conosceva bene l’intensità
di Jordan sembrò tutto abbastanza normale: quel feroce bisogno di vincere,
quel bisogno, quando perdeva, di continuare a giocare e alzare la posta
sembravano semplicemente una parte di quello stesso istinto da predatore
che gli aveva consentito di ottenere così tanti successi nel basket. «Michael
non ha un problema col gioco» disse il padre James Jordan ai giornalisti.
«Ha un problema di competitività». Jordan, secondo David Falk, era la
persona ideale da attirare in una truffa, proprio a causa del suo istinto
competitivo. Aveva sempre motivazioni feroci, pensava sempre di poter
vincere e quasi sicuramente pensava di essere un golfista migliore di quanto
non fosse in realtà. Tempo dopo, Jordan avrebbe dichiarato a Bob Green del
Chicago Tribune: «Se ho scommesso con degli sgherri con una cattiva
reputazione? Sì, l’ho fatto. Se dovrei smetterla di scommettere con questi
sgherri? Sì, dovrei smetterla di scommettere con gli sgherri».
Le cose raggiunsero un punto di non ritorno durante i playoff del 1993,
quando i Bulls erano a New York per giocare contro i Knicks. Jordan fece
una gita notturna a un casinò di Atlantic City e, di conseguenza, i media lo
massacrarono. L’episodio mise in evidenza la doppia natura di un canale
televisivo che voleva sia il divertimento che le notizie. Durante l’intervallo
di una delle partite dei playoff, Bob Costas, stimato giornalista della NBC,
aveva cominciato a fare domande su quella storia a David Stern. Era un
affare molto delicato, perché riguardava il conflitto di interesse di una rete
televisiva potente e molto ricca e che si trovava nel ruolo sia di informatrice
giornalistica che di procacciatrice di divertimento. Era sicuramente un
punto importante, perché sia la Lega che la rete stessa dipendevano molto
dall’immagine pubblica di Jordan, specialmente in un periodo in cui molti
giovani giocatori si comportavano come teppistelli di strada. Prima di
quell’intervista, Dick Ebersol aveva chiesto a Costas di menzionare tutte le
cose positive che erano successe alla Lega durante l’anno (il successo del
Dream Team e l’ottimo share televisivo delle Finals della stagione
precedente). Man mano che l’intervista progrediva, Costas si convinse di
aver menzionato tutte le buone notizie ma evidentemente non con
l’entusiasmo che richiedeva Ebersol, secondo il quale Costas stava
incalzando Stern. Nel camion della NBC si sentì immediatamente la voce di
Ebersol che, usando la linea privata, stava cercando di correggere Costas, il
quale però non prestò attenzione. Ci furono altri avvertimenti, ma Costas
proseguì. Alla fine dell’intervista Ebersol era ancora nel camion: urlava e
insultava Costas, il quale, senza una preoccupazione al mondo, continuava a
fare le domande che ogni buon giornalista avrebbe fatto. Stern non sembrò
offendersi e la cosa finì lì.
Ma fu comunque un brutto periodo per Jordan, e stava per diventare
ancora peggiore. La copertura mediatica dello scandalo del gioco lo ferì
molto. In passato, l’atteggiamento dei media nei suoi confronti era stato
principalmente di adorazione, e solo a volte leggermente intrusivo. Ora li
vedeva come nemici. Non era certo la prima persona ad attraversare questa
particolare metamorfosi, tipica delle celebrità nella cultura contemporanea:
a cominciare cioè a ritenersi non più il giovane e fortunato beneficiario di
un numero di fattori che si erano sommati per renderlo ricco e famoso oltre
ogni più rosea aspettativa, ma piuttosto una vittima di quello stesso
macchinario. Il fatto che entrambi questi risultati (la sua immensa ricchezza
e la perdita di privacy) fossero prodotti dalle stesse forze (o da due facce
della stessa medaglia) sembrava solo un dettaglio di quell’incredibile
pressione che si stava accumulando su di lui. (Dopo i fatti, disse a Bob
Greene, un giornalista con cui a volte si confidava, che aveva odiato le
Olimpiadi di Barcellona, per via di quanto erano commerciali. «È stata solo
una lunga televendita e noi eravamo i venditori» disse: un commento fatto
senza ironia, anche se proveniva dal più famoso venditore al mondo).
Il suo talento e la sua capacità di attirare l’attenzione, che erano stati così
utili in passato, stavano diventando un fardello. Doveva sopportare sempre
più spesso il tremendo livello di attenzione che i massimi livelli della fama
comportano, e la conseguente perdita di privacy, l’impossibilità di
commettere errori. Ogni suo minimo difetto finiva ora in mondovisione.
Nell’America contemporanea c’era stato un enorme aumento non solo della
copertura degli sport, ma anche della quantità di notizie di gossip: era parte
della stessa esplosione delle comunicazioni (grazie all’arrivo della tv via
cavo) che era stata così utile per l’NBA. Le trasmissioni televisive che
parlavano di pettegolezzi sulle celebrità erano diventate pane quotidiano per
gli americani, ed erano intenzionate a raccontare i trionfi ma soprattutto i
fallimenti delle star. Questa macchina del gossip era una cosa nuova, ma era
potente e predatoria, e aveva bisogno di carne fresca tutti i giorni. Se la
copertura dello sport fece un grande balzo in avanti con l’arrivo della tv via
cavo, lo fecero anche la tv spazzatura e l’attenzione che essa dedicava alle
celebrità. La dinamica, però, era vecchia e familiare: i tabloid avrebbero
messo su un piedistallo quelle stesse persone che avrebbero poi cercato di
distruggere, o almeno di sminuire. Questo avrebbe colpito Michael Jordan
come tutti gli altri.
I nuovi media smaniavano per qualunque microscopica notizia lo
riguardasse, avesse o meno a che fare col basket. Quelle storie, in un’altra
epoca, sarebbero state considerate off-limits dai giornalisti che seguivano le
squadre, uomini che avevano una concezione vecchio stile di cosa era
appropriato e cosa no, ma ora erano valutate come notizie a tutti gli effetti.
Jordan stava cominciando a capire il prezzo da pagare per essere un
personaggio mediatico in America: non c’era posto per nascondersi.
All’inizio, durante la sua ascesa, Jordan aveva apprezzato i media:
sembravano essere parte della chiave per sbloccare tutte le cose buone che
stavano entrando nella sua vita. Ma poi era arrivato in cima alla montagna,
era diventato molto famoso e pieno di sponsor e tutto aveva modificato
profondamente quel rapporto. Era ai vertici del mondo della pubblicità e di
quello professionale e voleva conservare la sua posizione: aveva quindi
meno bisogno di loro e li vedeva ora come uno strumento che non solo non
poteva aiutarlo, ma che stava addirittura cercando di buttarlo giù da quel
piedistallo su cui era salito con così tanta fatica. Nel medesimo periodo,
anche i media stessi stavano cambiando, diventando più grandi. Un tempo il
basket era seguito da una manciata di reporter, che erano quasi di famiglia,
che lui conosceva personalmente, di cui il più delle volte si fidava e che
scrivevano solo di quello che lui faceva in campo. Ora era seguito ovunque
da una gigantesca folla di estranei a cui del basket non fregava nulla, ma
che volevano mettere la sua vita privata sotto un riflettore sempre più
potente. Jordan divenne molto sospettoso. Le dinamiche erano cambiate:
voleva tenersi stretto quello che aveva, mentre i media, pensava, stavano
cercando di togliergli quello che si era meritato. Molti politici e molte stelle
del cinema erano stati sottoposti allo stesso trattamento prima di lui, ma il
suo starsene ritirato, il suo tono a volte ostile e la sua mancanza di tempo
per loro sorpresero alcuni suoi vecchi amici che lavoravano per la stampa.
A causa del suo immenso successo, credevano, stava cominciando a
ritenersi una vittima di quello stesso sistema che aveva contribuito a
crearlo.
Tutto questo raggiunse un punto di non ritorno nel 1993, quando il padre
James Jordan fu ucciso. Era andato al funerale di un amico a Wilmington e
stava tornando a casa quando, stanco, aveva accostato e si era fermato nella
corsia di emergenza dell’autostrada per riposare. Era una cosa che faceva, a
volte, probabilmente un ricordo di quando gli afroamericani potevano avere
problemi a trovare posto in buoni motel. Due delinquenti della zona si erano
avvicinati, lo avevano ucciso e avevano rubato la macchina.
Per Michael fu un colpo devastante. Era sempre stato molto vicino a suo
padre: dopo che Michael era diventato una stella a Chicago, James aveva
lasciato il suo lavoro alla fabbrica della General Electric e aveva aperto un
negozio proprio lì, diventando un pezzo importante dell’entourage di
Michael. Negli anni successivi, James Jordan era diventato il migliore
amico di suo figlio, un padre che poteva all’occorrenza trasformarsi in un
adorato fratello, in grado di apprezzare molti dei piaceri della sua nuova
vita.
Era un uomo caloroso, affabile, senza pretese, che faceva amicizia con
facilità. Era il figlio di un mezzadro ed era cresciuto in tempi molto difficili.
Da giovane le cose non andavano esattamente nel verso giusto per un nero
figlio del Sud, e lui aveva dovuto lavorare sodo per tutto ciò che aveva
ottenuto. E proprio a causa della durezza delle sue radici, aveva un senso
dell’ironia estremamente acuto che lo proteggeva da cose che avrebbero
potuto infastidire uomini più privilegiati. Come molti neri del Sud della sua
generazione, aveva imparato ormai da tempo a ridere anche nelle difficoltà
e a godersi i pochi momenti in cui le cose andavano bene; giunto a quel
punto della sua vita, con sua grande sorpresa, le cose andavano bene per la
maggior parte del tempo.
Nell’atmosfera dell’NBA, così piena di pressioni, James Jordan era una
presenza affettuosa e amichevole, che piaceva a tutti: custodi del Chicago
Stadium, giornalisti, giocatori, allenatori. Tutti lo chiamavano
semplicemente ‘Pops’. Era immensamente affabile e, nell’ultima parte della
sua vita, si godeva quell’insperata fama e quell’imprevisto benessere. La
sua sola presenza allentava lo stress sul figlio. Michael fu distrutto dalla sua
morte, dal fatto che la sua notorietà avesse reso la scomparsa e il funerale di
suo padre, che avrebbero dovuto essere momenti estremamente privati,
degli eventi pubblici, e anche dal fatto che alcuni giornalisti legassero la
morte del padre ai suoi problemi col gioco, il che era semplicemente una
follia.
Per un momento, sembrò l’ultima goccia. Negli ultimi tre anni, le
pressioni su di lui non avevano fatto che aumentare, e lui aveva cominciato
a vivere in un mondo senz’aria, un luogo così fragile da non consentire
errori. L’invasione della sua vita privata era diventata brutale e implacabile.
Ogni giorno doveva avere a che fare con le aspettative della gente. Chi
guardava la squadra da fuori notò delle differenze: la stagione era stata
molto dura, sia a causa dei suoi infortuni, sia perché quando sei il campione
in carica sei al centro dell’attenzione di tutti, sia a causa delle sottili (e a
volte non tanto) tensioni tra Jordan e Grant, che creavano imbarazzati
silenzi nello spogliatoio. Jordan, pensava lo staff tecnico, non giocava con
la mente libera.
In campo, Jordan era il solito: il basket era comunque un luogo dove
riuscire a trovare tranquillità e libertà. Ma negli allenamenti era meno
ricettivo e meno vivace e quell’esuberanza che aveva sempre mostrato e che
era una parte importante del successo dei Bulls non c’era più. Era diventato
solo un lavoro ed era evidente che una fetta del gusto per il gioco era
scomparsa. La colpa era in parte della fama sempre crescente, di quella
necessità di eccellere in ogni momento che tutti i giocatori dei Bulls
sentivano ora ogni volta che lui entrava in uno stadio. In parte, erano i
postumi della questione del gioco d’azzardo. Parlò di lasciare il basket più
volte con alcuni amici. Alla fine della stagione 1992-93 ci fu un segnale
importante in questa direzione: Dean Smith lasciò Chapel Hill e andò a
vedere una partita dei Bulls. Aveva sempre detto a Jordan che sarebbe
andato a vederlo giocare tra i professionisti, ma fino a quel momento non lo
aveva mai fatto. Era come se entrambi sapessero che per Smith poteva
essere l’ultima occasione.
Magic Johnson aveva intuito cosa stava succedendo al suo collega. Da
commentatore, Magic guardava le cose da una prospettiva diversa, ma
capiva che c’era qualcosa che mancava. Johnson, dopo essersi ritirato, era
entrato nel cerchio magico di Jordan (composto principalmente da uomini
cresciuti a Carolina che frequentavano la sua casa e giocavano a golf e a
carte con lui) e già da tempo aveva avvertito i suoi colleghi della NBC che
Jordan si sarebbe ritirato presto. Amava giocare a basket, diceva Magic, ma
non ne poteva più di tutte le conseguenze della sua fama, quelle
conseguenze che però erano fondamentali per fare soldi con le
sponsorizzazioni. Johnson pensava che non si trattasse semplicemente delle
questioni di gioco d’azzardo, ma anche dell’assenza di altre celebrità al suo
livello: sia Johnson che Bird avevano lasciato la scena e i giovani potenziali
sostituti come Grant Hill e Shaquille O’Neal non erano ancora diventati
delle superstar. Il fardello di essere l’uomo copertina dell’intero movimento
cestistico era interamente sulle spalle di Jordan.
Aveva vinto tre anelli ed era difficile trovare quelle nuove sfide che per
lui erano così importanti. Avevano battuto Detroit. Erano riusciti a
realizzare il leggendario three-peat. Nessuno parlava più di lui come di un
grande giocatore individuale che però non poteva alzare il livello dei suoi
compagni e che non poteva quindi vincere un titolo. Parlava sempre di
nuove sfide (in una memorabile conferenza stampa post-partita, il
giornalista Mitchell Kruegel notò che aveva usato la parola ‘sfida’ una
dozzina di volte in circa 45 minuti), ma per il momento le sfide sembravano
portarlo altrove. Nella stagione del terzo anello, cominciò a parlare sempre
più del suo desiderio di provare a giocare a baseball. Era stato il suo sport
preferito da ragazzo e suo padre credeva che fosse una disciplina in cui
poteva eccellere: nell’estate del 1993, dopo che James Jordan fu
assassinato, questo fattore non fu secondario. A Chapel Hill, per un periodo
avrebbe voluto praticare entrambi gli sport ma Dean Smith non glielo
avrebbe mai permesso. Era rimasto un sogno nel cassetto.
C’erano molti indizi a suggerire che qualcosa si stesse muovendo. Parlava
sempre più di provare il baseball, anche con persone che conosceva a
malapena. Quando nel gennaio 1992 un giornalista lo intervistò per un
pezzo che sarebbe andato sulla prima pagina di Sports Illustrated, Jordan
colse l’opportunità per parlare diffusamente del suo desiderio di provare a
giocare in Major League, e del suo recente sogno di battere contro alcuni
dei più temuti lanciatori dell’MLB.
Perfino durante i festeggiamenti per la vittoria del 1993 contro Phoenix,
nello spogliatoio Michael si girò verso il suo preparatore atletico Tim
Grover e gli disse di cominciare a preparare un programma per il baseball.
Phil Jackson non fu granché sorpreso: aveva capito che il basket stava
diventando per lui solo un lavoro, se non anche una tortura, e che
quell’entusiasmo infantile necessario per attraversare stagioni così
impegnative non c’era più.
Jerry Reinsdorf, informato per primo da Jordan della sua intenzione di
andarsene, gli chiese di parlare con Jackson prima di prendere la decisione
finale. All’inizio Michael era riluttante all’idea di discuterne col suo coach,
temendo che Jackson, sempre molto sottile, avrebbe potuto convincerlo a
rinunciare. Ma alla fine, seppur piuttosto preoccupato, andò dal suo
allenatore. Phil Jackson però non voleva prendersi la responsabilità di
portare un giocatore lontano da dove indicava il suo cuore. Si limitò a
ricordargli la grande gioia che milioni di persone ricevevano dalle sue
giocate, e chiuse così. Dentro di sé, Jackson pensava che ci fossero ottime
probabilità che a Michael Jordan sarebbe mancato ciò che faceva in maniera
così brillante, e che un giorno sarebbe tornato. Il modo in cui gestì Jordan
quel giorno portò il loro rapporto a nuovo livello: era come se Jackson
avesse passato la prova del nove, parteggiando per quello che era meglio
per Jordan e non per se stesso.
E così, Jordan si ritirò. Nella conferenza stampa in cui fece l’annuncio fu
sorprendentemente greve; apostrofò i giornalisti con un generico ‘voi’ per
ventuno volte. Non erano i media che lo avevano allontanato dal gioco,
disse, ma fece anche notare che era la prima volta che c’erano così tanti
giornalisti attorno a lui senza che fosse scoppiato uno scandalo. Voleva
impiegare il suo tempo in modo diverso, rivelò, passandone di più con la
famiglia e con gli amici, che aveva trascurato per raggiungere i massimi
livelli. «Quindi voi dovrete cercare le vostre storie altrove e spero di non
vedere più molti di voi, in futuro». Per quei giornalisti che lo avevano
seguito regolarmente per almeno un decennio i toni ostili della sua
conferenza di addio furono uno shock. In effetti, quei giornalisti gli avevano
perdonato molto, in parte perché lo ammiravano, in parte per il suo carisma,
ma soprattutto perché era un vincente.
27
Birmingham; Chicago, 1994-1995

Nel baseball ebbe vita dura. Date le sue doti naturali eccezionali e la sua
singolare determinazione nessuno può sapere quanto sarebbe diventato forte
se avesse giocato a baseball a Carolina e poi avesse scelto di diventare
professionista lì, lasciando perdere il basket o cercando di tenere le due
discipline in equilibrio, come fecero Deion Sanders e Bo Jackson. Ma
quando cambiò sport, nel 1994, era stato lontano dal baseball ormai per
tredici, cruciali anni, cioè dal suo ultimo anno delle superiori. Inoltre, la sua
statura nel baseball era uno svantaggio, perché offriva ai lanciatori una
vasta area di strike, senza nessuna compensazione. I suoi riflessi,
meravigliosamente sincronizzati con il minimo movimento di un avversario
nel basket, erano costruiti completamente per un altro sport, uno sport in cui
poteva prendere decisioni anche senza pensare: ora, dovevano essere
totalmente rimodulati, in una fase peraltro piuttosto avanzata della sua
carriera. Il compito si sarebbe dimostrato molto difficile. Quello che aveva
deciso di fare era piuttosto ammirevole: un giocatore al massimo delle sue
capacità – probabilmente il migliore di sempre –, un uomo dall’orgoglio
unico che all’improvviso abbandonava uno sport in cui eccelleva,
desideroso di iniziare dai ranghi inferiori di un altro sport altrettanto
impegnativo, disposto ad accettare l’idea di fallire. Sarebbe stata già
abbastanza dura così, ma data la sua fama avrebbe dovuto anche fare tutto
ciò davanti agli occhi di tutti, rischiare il fallimento sotto i riflettori dei
media. Non sono molte le persone che, dopo aver ottenuto il successo con
così tanto duro lavoro, avrebbero rischiato di rendersi ridicole in
un’avventura di tale visibilità, neppure per fare qualcosa che amano. Il
fallimento privato è una cosa, quello pubblico un’altra. Una copertina di
Sports Illustrated con il titolo ‘LASCIA PERDERE, MICHAEL’ e che lo definiva
una disgrazia per il baseball lo mandò su tutte le furie. Non perdonò Sports
Illustrated e chi ci scriveva, e per un bel po’ non volle collaborare coi suoi
giornalisti.
Per Tom Boswell del Washington Post, uno dei migliori giornalisti
sportivi del Paese, quello che stava facendo era una sorta di omaggio a un
padre amorevole. Il baseball era lo sport che aveva legato James a Michael,
quando Michael era ancora un giovane e semplice giocatore di Little
League. Era lo sport in cui suo padre pensava fosse più bravo, quindi ora
stava provando a giocare a baseball per tornare indietro nel tempo e trovare
un po’ di sollievo. La cosa interessante era che Phil Jackson era d’accordo.
Giocò per i Birmingham Barons, una squadra di serie minore di proprietà
di Jerry Reinsdorf. Era un buon compagno di squadra. Gli altri giocatori
erano dieci o più anni più giovani di lui, e decisamente più poveri. (Oltre
agli $850 al mese che prendeva per giocare a baseball, con anche $16 al
giorno in buoni pasto, guadagnava circa 30 milioni di dollari di
sponsorizzazioni, oltre ai 4 milioni che Reinsdorf continuò a pagargli). Tra
le altre cose, affittò un bus di lusso e lo prestò ai Barons perché la squadra
ci viaggiasse. Un mezzo decisamente migliore di quelli a disposizione della
maggior parte delle squadre di serie minore per le loro trasferte: viaggi
lunghi dodici ore in calde giornate estive. Si divertiva con il catcher Rogelio
Nunez, e cercò di migliorare il suo inglese: diceva una parola e, se Nunez
era in grado di fare lo spelling, Jordan gli dava $100. Nessuno lavorava più
duro di lui per cercare di migliorare: era il primo ad arrivare
all’allenamento, ogni giorno, lavorava con i suoi istruttori alla battuta e se
ne andava per ultimo. Nessun allievo aveva mai ascoltato un maestro più
avidamente di quanto lui ascoltava Walter Hriniak, suo allenatore alla
battuta.
Ma la scintilla, semplicemente, non scattò. Era un atleta così superiore a
tutti gli altri nel basket, così veloce, così potente, così ossessionato, che in
qualche modo riusciva sempre a superare qualunque ostacolo si mettesse
sulla sua strada. Sembrava improbabile che Jordan potesse fallire in
qualsiasi cosa in cui si impegnasse. In qualche modo, il mondo dello sport
(ma non il mondo del baseball) si aspettava che avesse grande successo
anche con mazza e guantone. E partì anche abbastanza bene, con una media
battuta di circa .300 nelle prime settimane, ma poi i lanciatori cominciarono
a rifilargli palle curve e slide, e la sua media crollò. Aveva difficoltà a
adattarsi alle palle curve, e la sua velocità di giro mazza, per qualcuno così
potente e agile, era decisamente deludente. Nonostante la stazza e la
muscolatura, non riuscì a trasferire la sua forza nel baseball. Forse era vero
quello che Ted Williams aveva suggerito anni prima? Colpire una palla da
baseball era davvero la cosa più difficile di tutti gli sport? La risposta
sembrava essere di sì. In 436 turni di battuta, colpì solo tre fuori campo e
cinquanta valide. Per un certo periodo si aggirò intorno alla ‘linea
Mendoza’, la leggendaria media battuta inferiore a .200 che certificava il
fallimento nel baseball. Questo era in sé piuttosto negativo, ma scendere
ulteriormente, per un uomo orgoglioso come lui, sarebbe stato un dolore
terribile. La sua media vicino alla fine della stagione era .201 e il suo
allenatore Terry Francona si offrì di tenerlo fuori per una partita. Lui invece
giocò, colpì una valida e rimase sopra quella sottile linea rossa.
Secondo gli esperti di baseball, uno dei suoi problemi era che il suo corpo
era completamente sbagliato. Il miglior corpo per il basket non era per nulla
efficace nel baseball: il programma di allenamento di Jordan aveva sempre
fatto sì che le sue gambe fossero più magre possibile, ma per i giocatori di
baseball la potenza nelle gambe e nelle cosce era fondamentale. I giocatori
di baseball erano piuttosto tozzi, più robusti dei cestisti sia nella parte alta
che nella parte bassa del corpo: la loro potenza veniva da lì. Jordan,
secondo gli esperti, era costruito più come un cavallo da corsa. Una delle
cose che Jordan imparò dal suo fallimento fu il rispetto per le abilità
atletiche dei giocatori di baseball, anche se erano più bassi, più tozzi e,
almeno per le caratteristiche prototipiche del giocatore NBA, non
sembravano nemmeno atleti. C’erano giocatori alti a malapena 1,75m, con
una percentuale di grasso corporeo del 20%, che potevano vedere cose che
lui non vedeva e fare cose che lui non poteva fare, e che avevano il potere
di mandare la palla dove volevano, che a lui semplicemente mancava.
Phil Jackson aveva sempre pensato che l’amore di Michael Jordan per il
basket fosse qualcosa di speciale, che avesse una purezza rara da trovare a
qualsiasi livello. Jackson non aveva mai pensato che Jordan stesse lasciando
il basket per sempre, ma solo che fosse molto stanco. Quando Jordan lo
chiamò, dopo che Scottie Pippen si era rifiutato di tornare in campo nel
finale della partita con i Knicks, fu solo per ricordargli che era ancora uno
dei Bulls. Era sostanzialmente la chiamata di un compagno di squadra.
La persona dei Bulls con cui Jordan rimase più a stretto contatto durante i
suoi due anni sabbatici nel baseball fu B.J. Armstrong. Nei giorni in cui
avevano giocato insieme erano stati amici, ma non particolarmente intimi.
Dopo i primi anni nel professionismo, Jordan aveva iniziato a limitare
sempre più i contatti con i suoi compagni di squadra. I vecchi tempi,
quando poteva stringere buoni legami con gente come Charles Oakley,
erano finiti da tempo. A causa della sua sempre più sfavillante notorietà, le
differenze tra la sua vita e quella degli altri giocatori aumentavano ogni
anno e ogni forma di rilassato cameratismo diventava più difficile. C’erano
altri fattori che aumentavano il gap: lui amava il basket, ma era anche un
lavoro, e diventando più maturo desiderava separare lavoro e vita privata.
Inoltre, c’era un’altra ragione: l’assedio portato dai media alla sua vita
privata si era fatto sempre più stretto, quindi era un bene che i suoi
compagni sapessero poco di lui, perché avrebbero trovato sulla loro strada
un flusso costante di giornalisti che avrebbero finito per voler scrivere di
loro, ma che in realtà erano sempre pronti a scrivere di Jordan. Preferiva
vedersi con i suoi vecchi amici di North Carolina, che non avrebbero mai
incontrato dei giornalisti, che lo avrebbero avvisato immediatamente se un
reporter li avesse contattati e che non erano gelosi di lui.
Ma nelle due stagioni in cui stette lontano dal basket fu in costante
contatto con Armstrong, quel giovane e ingenuo ragazzo dell’Iowa che una
volta, trovando così difficile giocare con Jordan, era andato in biblioteca a
leggere libri sul genio. Il fatto che abbia scelto Armstrong non deve
sorprendere: Armstrong era sveglio, aveva una mente analitica, era
indipendente dagli altri giocatori e dallo staff tecnico. B.J. pensava che
Jordan avesse lasciato il basket perché aveva perso la sua innocenza, quella
speciale, quasi infantile qualità che solo i grandi atleti hanno e che permette
loro di giocare per molto tempo, anche dopo che i soldi hanno smesso di
essere così importanti, anche dopo che sono coperti di titoli e di gloria. Pur
non essendo ai livelli di Jordan, Armstrong sapeva quanto l’innocenza fosse
importante per avere successo in un campo difficile come l’NBA, e lui
stesso, durante la sua carriera, era andato molto vicino a perderla. Ma
quando il suo pessimismo raggiungeva i massimi livelli, passava vicino a
un campetto e guardava dei ragazzini giocare finché non scendeva la sera, e
rivedeva il giovane B.J. Armstrong palleggiare fino a tarda notte sognando
l’NBA. A quel punto si ricordava di essere stato abbastanza fortunato da
vivere il suo sogno, e questo lo aiutava a dare il giusto peso alle sue priorità.
Era sicuro che i fardelli e le aspettative che si erano create nella stagione
1993 avevano fatto dimenticare a Michael il semplice piacere di giocare a
basket.
Nell’autunno del 1993, quando Michael Jordan, durante una riunione
privata al Berto Center, aveva annunciato il suo ritiro per la prima volta ai
suoi compagni di squadra, Armstrong gli aveva detto: «Tu ora possiedi due
delle cose più spaventose che si possano immaginare: tutti i soldi del
mondo, e tutto il tempo del mondo». Ma Armstrong aveva sempre
sospettato che il baseball fosse solo un tentativo temporaneo di trovare una
direzione, per qualcuno che aveva perso la propria bussola interiore.
Quindi, quando iniziarono le chiamate da parte di Jordan, non fu sorpreso.
Certo, Jordan chiamava a orari strambi, spesso la mattina presto, sveglio
prima di chiunque altro per allenarsi sulla battuta, o la sera tardi, dopo una
partita e un viaggio in autobus. Anche quando Armstrong diceva alla
reception dell’hotel che non voleva essere disturbato, Jordan riusciva in
qualche modo a raggiungerlo. Quando gli domandava come ci era riuscito,
Jordan rideva e diceva: «Andiamo, amico…» Il che significava: io sono
Michael Jordan. Davvero credi che la reception di un albergo mi possa
fermare?
Armstrong non chiedeva mai a Jordan come se la stava cavando nel
baseball ma quello che sentiva nella sua voce fu, all’inizio, un senso di
euforia per essersi liberato del fardello di essere Michael Jordan. Parlava
sempre di quanto si divertiva a stare con ragazzi giovani e motivati, che ce
la mettevano tutta per arrivare alle serie maggiori e che lottavano ancora per
inseguire i loro sogni. Non c’erano ego ingombranti, diceva Jordan, solo
sogni e speranze. Quando si giocava a carte, si vincevano al massimo un
paio di dollari. Era rigenerante per lui stare con ragazzi abbastanza giovani
da sognare di avere carriere sportive simili alla sua. Armstrong era certo che
l’esperienza nel baseball avesse consentito a Jordan di recuperare la sua
innocenza e di capire quali erano le sue reali priorità, esattamente come
passare da un campetto di notte aiutava Armstrong a capire quali erano le
sue, e a riscoprire la persona che era stato quando era giovane.
Questa fu la prima nota che sentì. La seconda nota, inizialmente più
bassa, ma che poi si alzò sempre più, era che Michael voleva parlare di
basket: voleva essere aggiornato, specialmente sui giovani giocatori che
arrivavano nella Lega. Latrell Sprewell stava cominciando a emergere come
un giocatore con cui tutti dovevano fare i conti e Jordan voleva sapere tutto
di lui. Armstrong gli disse che era uno splendido atleta, veramente,
veramente forte. Alcuni avevano scritto che sarebbe stato il prossimo
Michael Jordan. Armstrong non fu sorpreso che, qualche settimana dopo,
per puro caso Michael passò da San Francisco, che per puro caso era la città
dove giocava Sprewell, perché per puro caso Michael voleva visitare Rod
Higgins, un amico che per puro caso era anche viceallenatore di Golden
State, e che per puro caso questo incontro avvenne durante un allenamento.
Guardando la scena, Armstrong ritrovò il Michael Jordan che lui conosceva
e ammirava, e che tutti gli altri temevano. Presto le chiamate diventarono
più frequenti e più precise. Voleva sapere di Penny Hardaway, che stava
cominciando a farsi un nome, e di Jason Kidd. Voleva sapere tutto sui
giovani giocatori dei Bulls e come Jackson li stesse gestendo.
Armstrong stava molto attento a non chiedere mai a Michael dei suoi
piani – in un certo senso, senza che ne avessero mai parlato, li considerava
un argomento tabù – ma era sicuro che Michael sarebbe tornato e che il suo
cuore si sarebbe rivolto di nuovo verso il basket, che quel tempo passato
lontano lo avesse curato.
Nemmeno Phil Jackson si stupì più di tanto del fatto che Jordan fosse
pronto per tornare. Nell’inverno tra il 1994 e il 1995, era in vista uno
sciopero dei giocatori di baseball e i proprietari proposero di far giocare i
giocatori fuori dai roster nelle squadre di Major League, per stroncare lo
sciopero. Jackson ebbe il presentimento che avrebbe avuto notizie di
Jordan. A inizio febbraio, Jordan passò a trovarlo e parlarono della
possibilità di uno sciopero. Jackson gli disse: «Sai, se davvero ci sarà uno
sciopero, devi pensare a cosa vuoi fare. Non hai ancora molto tempo a
disposizione nel basket. Puoi giocare qui il finale di stagione, sono circa
venticinque partite».
«Sono parecchie» rispose Jordan. «Che ne dici di venti?» Quando
Jackson sentì quelle parole, capì che Jordan stava pensando le stesse cose
che stava pensando lui, e che se i proprietari delle squadre di baseball
avessero giocato male le loro carte (come sembrava molto probabile)
avrebbe presto riavuto il suo giocatore migliore. Alla fine, la dirigenza dei
White Sox cercò di obbligare Jordan e altri giocatori delle leghe minori a
essere riserve in MLB e Jordan lasciò il baseball per sempre, infuriato per
quello che riteneva il tradimento di un accordo privato.
Una mattina del marzo 1995, Armstrong ricevette una telefonata verso le
6 del mattino: era Jordan, che gli chiese di incontrarlo al Berto Center.
Armstrong non voleva che il suo amico tornasse e fallisse e gli chiese per
prima cosa se era sicuro di volerlo fare e, come seconda cosa, se era sicuro
di esserne ancora capace. Jordan rispose di essersi allenato nelle ultime
settimane, e quando Armstrong arrivò al Berto Center quella mattina,
Michael si stava ancora allenando, da solo, tirando e prendendo il rimbalzo.
All’improvviso, su proposta di Jordan, cominciarono a giocare uno contro
uno. B.J., che era più piccolo di Jordan, con felpa e scarpe da ginnastica,
Jordan vestito casual, in mocassini. All’inizio Armstrong si perse nel
piacere del gioco: i ritmi erano bassi e rilassati. Segnava lui, poi segnava
Michael. Ma prima che se ne rendesse conto, era come ai vecchi tempi,
quando giocare contro Michael Jordan significava uccidere o essere uccisi,
con entrambi che chiamavano i falli all’altro. «Sei sicuro di volerlo fare?»
chiese Armstrong guardando Jordan in mocassini.
«È stupendo, continuiamo» rispose. Alla fine i suoi vestiti erano zuppi di
sudore ma aveva vinto 10-7. «Non riesci ancora a marcarmi» disse ad
Armstrong. «E stavo giocando in mocassini». Il giorno dopo, Jordan
chiamò la Nike e ordinò delle sneakers e il giorno ancora successivo
rilasciò una dichiarazione assolutamente inequivocabile: «Sono tornato».
Armstrong non fu sorpreso. Più avanti disse a Bob Greene di aver sempre
pensato che Jordan sarebbe tornato al basket. «Perché?» chiese Greene.
«Perché le persone non cambiano».
Tornò in campo a metà marzo, suscitando un clamore mediatico senza
precedenti. Il suo ritorno fu un evento di rilevanza nazionale: la prima
partita fu il 19 marzo, una sconfitta dopo due overtime contro Indiana in cui
ebbe la media di 7/28. Era domenica e la NBC aveva previsto di trasmettere
in diretta Bulls-Pacers solo in metà del Paese, ma quando il ritorno di
Jordan fu ufficiale, ampliò la copertura, escludendo solo alcuni mercati
locali. Fu la partita con l’audience più alto degli ultimi cinque anni. Dopo la
partita, quando alcuni giornalisti avvicinarono il coach di Indiana Larry
Brown negli spogliatoi, lui disse: «Voi ragazzi siete incredibili. I Beatles ed
Elvis sono tornati e venite a parlare con me».
Jordan sembrava anche disposto a scherzare sul suo tentativo fallito nel
baseball. Jim Riswold scrisse il copione di una pubblicità in cui Jordan,
tornato a giocare a basket, si stava allenando ai tiri liberi. Un po’ intontito,
come se si fosse svegliato da un incubo, scuoteva la testa e diceva di aver
fatto un sogno in cui si ritirava, finiva a giocare nelle serie minori del
baseball e diventava un esterno piuttosto scarso con risultati sotto la media,
che viaggiava tra piccole città in autobus e riceveva $16 di buoni pasto.
«Perché ti riferisci a me come ‘un esterno piuttosto scarso’?»
«Michael» gli rispose Riswold, «come dovremmo chiamare uno con una
media battuta di .200?» Ci fu una pausa.
«Oh, al diavolo. Va bene così».
Riswold girò anche una pubblicità ancora migliore, che ritraeva Jordan
fare l’anonima vita da giocatore di baseball delle serie minori. Eccolo lì, al
bancone di una sudicia tavola calda di una piccola città durante una
trasferta. La pubblicità doveva dare un senso di solitudine e frustrazione.
Una simpatica cameriera nera di mezza età lo aveva servito e lo stava
osservando. Quando Michael si alzava per andarsene, si metteva la mano in
tasca e lasciava una piccola mancia, al massimo un dollaro, sul bancone.
«Sai, tesoro» diceva lei gentilmente, «non ci sono palle curve in NBA». Lui
si fermava, le dava una lunga e profonda occhiata e poi si riprendeva metà
della mancia. Riswold ne era orgoglioso e Jordan approvava, ma la Nike
decise di non mandarla in onda.
Era stato lontano per ventuno mesi e non era decisamente in condizione
per giocare a basket (una condizione molto diversa da quella necessaria per
giocare a baseball). Inoltre, la squadra era cambiata molto. Bill Cartwright,
fiaccato dagli infortuni alle ginocchia, se n’era andato. Horace Grant, dopo
uno scontro molto aspro con la dirigenza sul suo contratto, se n’era andato,
ed era diventato la stella di Orlando. Era arrivato Toni Kukocˇ, che però si
stava adattando all’NBA in maniera lenta e difficile. Un buon numero di
nuovi giocatori non aveva mai giocato con Jordan, lo veneravano e non fu
semplice per loro abituarsi alla sua presenza. Tuttavia, i Bulls, che avevano
un record di 34–31 prima del suo ritorno, con lui in campo fecero tredici
vittorie e quattro sconfitte. In una memorabile partita contro i Knicks, si
rivide il vecchio Michael Jordan: segnò 55 punti. Al primo turno dei playoff
vinsero 3-1 contro Charlotte, ma furono eliminati subito dopo da Orlando,
in una serie in cui la mancanza di condizione atletica di Jordan fu un fattore
cruciale. Nella prima partita perse otto palloni e i suoi errori consentirono a
Orlando di vincere. Era stato imbarazzante. Ma, cosa più importante per il
futuro, i Bulls non erano stati in grado di contrastare Horace Grant.
Dopo la sconfitta con i Magic, Jordan rimase per più di un’ora a parlare
coi giornalisti. Fu aperto e trasparente e si prese la responsabilità per la
sconfitta. Non era in condizione di giocare, disse, ed era stato difficile per
alcuni suoi compagni adattarsi a lui. Accettò le critiche e quelli che lo
conoscevano capirono che non vedeva l’ora di iniziare una nuova stagione,
per riguadagnare il suo spaventoso atletismo.
Nella prima estate dopo il ritorno, andò a Hollywood per girare uno
strano film i cui protagonisti erano lui, Bugs Bunny e altri personaggi dei
cartoni animati. Ma dopo l’umiliazione dei playoff, era determinato a essere
nella migliore condizione di tutta la sua carriera. Come parte dell’ingaggio,
la Warner Bros dovette costruire un campo di basket in modo che non
staccasse troppo a lungo dal gioco: qualunque giocatore professionista o del
college che passava di lì giocava una partitella. Gli altri erano lì per
divertirsi e non perdere la mano, ma prima di quelle partitelle Jordan,
aiutato da Tim Grover, faceva sempre un allenamento di bentornato
straordinariamente impegnativo, per compensare gli anni in più e il periodo
in cui era stato lontano dal canestro. Solo dopo quell’allenamento e dopo
aver girato qualche scena del film, giocava una partita a tutto campo con gli
altri.
I vecchi amici notarono che stava anche lavorando particolarmente sodo
su un colpo che era stato una parte poco utilizzata del suo repertorio, ma
che ora stava diventando un suo marchio di fabbrica. Era un tiro in
sospensione in cui teneva il pallone in mano, fingeva di andare a canestro e
all’ultimo secondo saltava cadendo leggermente all’indietro, in modo da
separarsi dal difensore. Data la sua abilità nel salto e la costante minaccia
che andasse a schiacciare, era un tiro virtualmente indifendibile. Era anche
la concessione molto furba di un giocatore ai cambiamenti che il tempo
aveva lasciato sul suo corpo e al fatto che stava entrando in una nuova fase
della sua carriera. Era più vecchio e più saggio e quello che il suo corpo non
poteva più fare in termini di pura abilità atletica poteva essere compensato
da quello che poteva fare la sua conoscenza del gioco e degli avversari. Non
doveva sprecare nulla. Lasciava che le giovani stelle come Gary Payton dei
Seattle SuperSonics si riempissero la bocca con quello che avrebbero fatto
contro di lui. Lui invece stava zitto e usava le loro parole per motivarsi. Poi,
immancabilmente, scendeva in campo e li distruggeva. Il suo modo di
giocare aveva una nuova qualità, una sorta di freddezza, era come se il suo
stile fosse stato sottoposto a un processo di distillazione, in cui segnava
meno di quanto avesse fatto prima, ma sprecava anche molto meno.
Subito dopo la sconfitta contro i Magic ai playoff qualcuno gli chiese –
proprio perché i Magic sembravano così dominanti con O’Neal, Grant e
Hardaway – se nell’NBA fosse nata una nuova generazione. Lui non era
d’accordo: «Mancano ancora un rimbalzista e un’ala grande».
28
Chicago; Seattle;

Salt Lake City, 1995-1997

In vista della nuova stagione, la mancanza di un’ala grande era una


debolezza che saltava subito all’occhio: era particolarmente grave per una
squadra come la loro, a cui mancava un centro che dominasse l’area (un
ruolo conteso tra Will Perdue, Luc Longley e Bill Wennington). Quando
Horace Grant si svincolò alla fine della stagione 1993-94, Chicago divenne
una squadra più piccola e più vulnerabile.
L’addio di Grant fu doloroso ma non una sorpresa. Non aveva mai
comprato una casa a Chicago e sembrava disprezzare profondamente
Krause. Più in generale, negli anni si era gradualmente allontanato dalla
squadra: era arrabbiato con Jackson perché non organizzava gli schemi
attorno a lui e sembrava essere invidioso di Jordan e anche di Pippen, che
per un lungo tempo era stato il suo migliore amico non solo nella squadra,
ma anche nella vita. Grant fece più fatica di ogni altro nella rosa ad
accettare il fatto che chiunque giocasse con Michael Jordan fosse destinato
a rimanere nell’ombra. Sembrava avere in realtà difficoltà ad accettare una
fondamentale regola dell’esistenza: la vita è ingiusta. Alla fine della
stagione 1993-94, mentre il suo contratto di quattro anni stava per scadere,
sembrava molto attento a non subire un infortunio che potesse impedirgli di
firmare per un’altra squadra. Saltò un buon numero di partite, in quello che
secondo lo staff tecnico e i compagni era l’equivalente di uno sciopero. Gli
altri componenti della squadra erano piuttosto irritati con lui. Il preparatore
Chip Schaefer chiese a Pippen: «Che succede al tuo amico?» «Non è mio
amico» rispose Pippen secco. «È solo un compagno di squadra».
Le circostanze dell’addio di Grant sono al centro di un acceso dibattito,
ma quello che non è in discussione sono i fatti: a differenza di Pippen,
Grant si era accordato quattro anni prima per un contratto relativamente
breve, che sarebbe finito nel 1994. Aveva chiesto un contratto più lungo ma
i Bulls erano stati cauti. Man mano che il tempo passava, le sue eccezionali
abilità diventavano sempre più evidenti e lui stesso si rivelò un ingranaggio
fondamentale, in un ruolo in cui era difficile trovare giocatori completi. Il
suo ingaggio relativamente basso era chiaramente un grande vantaggio per i
Bulls, mentre la brevità del contratto era un vantaggio per lui. Il giorno in
cui sarebbe stato pagato per quello che valeva sarebbe arrivato presto. Non
aveva ancora trentun anni, era ancora a inizio carriera, era uno dei migliori
nel suo ruolo nell’intera NBA, un ottimo difensore, un ottimo rimbalzista e
un giocatore piuttosto completo. Senza Jordan, la sua media punti si era
leggermente alzata, fino a raggiungere i 15 punti a partita nel 1994.
Quell’anno, giocò anche il suo primo All Star Game. Poiché il contratto in
scadenza era il secondo, avrebbe potuto diventare un free-agent senza
restrizioni, il che significava che se fosse andato da qualche altra parte
Chicago non avrebbe ottenuto nulla in cambio.
Questo non era certo lo scenario che la dirigenza dei Bulls, sempre così
venale, preferiva. Reinsdorf e Krause sapevano come dominare le trattative
e tutti i loro migliori giocatori avevano accettato ingaggi relativamente
bassi. Ma coloro che pensavano che il modo in cui i Bulls gestivano le
trattative fosse poco lungimirante potevano tranquillamente portare Grant
come esempio. Il marchio di fabbrica dei Bulls era una certa rigidità, un
bisogno di vincere che poteva essere utile in altri business, ma lo era molto
meno in un mondo costruito sul talento, dove la vittoria in una trattativa
avveniva a spese della propria principale risorsa. Tutto ciò aveva un lato
negativo, pensavano alcuni: il fatto che, nel lungo periodo, era praticamente
certo che i migliori giocatori sarebbero stati scontenti. I detrattori, molti dei
quali lavoravano proprio per la franchigia stessa, pensavano che i dirigenti
dei Bulls fossero di gran lunga troppo scaltri e troppo severi.
Man mano che la fine del contratto di Grant si avvicinava, divenne
sempre più chiaro che era il giocatore ad avere il coltello dalla parte del
manico, perché poteva essere svincolato senza restrizioni. Aveva aspettato
quattro anni giocando ad alto livello e ora era arrivato il suo momento. La
dirigenza si rese conto che Grant stava scivolando via dalle loro mani. Dopo
l’All Star Game, Jimmy Sexton (agente sia di Grant che di Pippen) si
incontrò brevemente con Krause e gli chiese di lasciare in pace Grant e di
non cercare di negoziare con lui perché era deciso a diventare free-agent.
Poi, verso la fine dell’aprile 1994, mentre stavano per iniziare i playoff,
successe una cosa sorprendente. Jerry Reinsdorf, un uomo che sembrava
volere il minor numero possibile di contatti con i giocatori e la cui forza
sembrava derivare dalla sua totale mancanza di coinvolgimento emotivo,
fece una visita a sorpresa al Berto Center. Nulla sarebbe stato più inusuale:
il palazzetto era molto lontano dall’ufficio del proprietario (quasi cinquanta
minuti di macchina). Proprio perché Reinsdorf era una figura così distante,
il risentimento di molti giocatori nei suoi confronti era decisamente
inferiore rispetto a quello verso Krause.
Ci sono due diverse versioni di quello che successe a quel punto. Secondo
Jimmy Sexton, Reinsdorf andò immediatamente da Grant, che si stava
allenando in sala pesi, e gli suggerì di discutere i termini del contratto in
privato: «Perché non lasciamo Jerry e Jimmy fuori da questa storia e
vediamo se riusciamo a risolverla tra di noi?» Fu organizzato un incontro
preliminare. Infastidito da quell’approccio, Sexton chiamò immediatamente
Reinsdorf, il quale rispose che non avrebbe fatto a Grant un’offerta ma gli
avrebbe solo parlato, cercando di capire se volesse rimanere ai Bulls. Una
trattativa fra quei due avrebbe potuto diventare un gran divertimento per il
proprietario e un incubo per l’agente: l’abilità negli affari era la qualità
migliore di Reinsdorf (nonché il suo mestiere) e Grant era un uomo di cui
perfino i compagni conoscevano la naturale semplicità, l’onestà e la
mancanza di sofisticatezza. Grant amava cercare di compiacere tutti quelli
che lo circondavano e odiava dire di no. Era il perfetto bersaglio in una
situazione del genere. A Sexton non andava certo a genio che i due si
incontrassero in privato, ma pensava anche di non poter impedire che un
giocatore parlasse col suo proprietario.
Nella versione di Reinsdorf, invece, fu Grant a proporre l’incontro a due,
dicendo che avrebbero potuto risolvere quella cosa solo se Sexton e Krause
ne fossero stati tenuti fuori. In ogni caso, due giorni dopo si incontrarono.
Secondo Sexton, Reinsdorf suggerì che scrivessero entrambi un ingaggio
che sembrasse giusto. Grant scrisse 22 milioni e mezzo per cinque anni e
Reinsdorf scrisse 20 milioni per lo stesso periodo. Reinsdorf si mise quindi
a fare il giocoliere con le cifre, dividendo alcuni incentivi e a quanto pare
Grant accettò. Stando alla versione del proprietario: «Gli occhi di Horace si
illuminarono come non avevo mai visto prima. Si avvicinò, mi strinse la
mano e disse ‘Grandioso, non avrei certo voluto passare l’estate senza
sapere cosa stava succedendo. Non potrei ottenere un’offerta simile da
nessun’altra parte: abbiamo un accordo’». A quel punto, Reinsdorf gli
chiese di mettere la firma, o almeno le iniziali, su un foglio ma Grant disse
che avrebbe voluto prima parlarne con Sexton. Fu allora che la cosa andò in
fumo, perché Reinsdorf non voleva che Sexton venisse coinvolto e mise
fine all’incontro, senza che Grant avesse firmato nulla.
La riunione durò circa venti minuti e quando finì, Grant, che era molto
emotivo, chiamò il suo agente e gli raccontò cos’era successo. Nella sua
versione, la prima cosa che Sexton chiese al suo giocatore fu: «Horace, hai
firmato qualcosa?» Grant rispose di no e aggiunse di non aver neppure
stipulato un accordo verbale. Grant mandò via fax a Sexton la bozza che
Reinsdorf aveva usato, con in fondo la firma del proprietario e, a fianco, lo
spazio vuoto dove avrebbe dovuto firmare lui. Sexton chiamò
immediatamente Reinsdorf e la conversazione si scaldò parecchio.
Nella versione di Reinsdorf, invece, era stato Grant a cercarlo e a
chiedere l’accordo. Il proprietario si riteneva parte lesa, preso in giro da
Grant e Sexton nonostante un’offerta molto generosa e una stretta di mano
col giocatore; tenne anche una conferenza stampa, accusando Grant di non
aver mantenuto la parola. A chi sapeva come si muovevano i Bulls, l’idea
che Grant avesse imbrogliato e manipolato Reinsdorf sembrava piuttosto
improbabile, ma era anche fuor di dubbio che raramente il proprietario si
scaldava così tanto per i contratti, e che era piuttosto piccato da quello che
era successo. Reinsdorf amava ritenersi un uomo che basava i suoi affari
anche sulle strette di mano e dal suo punto di vista era stato violato proprio
un accordo di quel tipo.
Grant disse che avrebbe incontrato personalmente il proprietario in ogni
futura negoziazione con altre squadre: anche se Orlando non poteva offrirgli
molto a causa del salary cap, a Grant Rich DeVos piaceva e si fidava di lui.
Finì per firmare per la sua squadra un contratto di cinque anni per 50
milioni.
Nell’estate del 1995, mentre i Bulls si preparavano per un’intera stagione
con Michael Jordan, il vero buco nel loro roster era dunque un’ala grande.
C’erano stati altri cambiamenti – B.J. Armstrong se n’era andato – ma il
loro punto debole rimanevano i lunghi. Quello di ala grande era un ruolo
particolarmente difficile da coprire, perché richiedeva forza, stazza e agilità.
Negli ultimi draft, i Bulls avevano cercato dei lunghi, ma con scarsi
risultati. Stacey King e Scott Williams avevano mostrato lampi di talento
ma nel complesso avevano deluso: King (scelta piuttosto alta al primo giro)
era stato scambiato con Luc Longley e Williams, svincolato, era finito a
Philadelphia. Corie Blount, scelto come ala grande, non era certo la
soluzione, così come non lo sarebbe stato Dickey Simpkins, scelto
all’ultimo draft.
Certo, c’era un’ala forte disponibile. Molto disponibile. Era un giocatore
immensamente talentuoso e altrettanto problematico, e il suo nome era
Dennis Rodman, uno dei Bad Boys di Detroit. Era stato la nemesi dei Bulls,
ma ormai era considerato semplicemente un distruttore di allenatori e, con
tutta probabilità, un distruttore di squadre. Era però un giocatore di basket
dal talento genuino, un brillante rimbalzista (probabilmente il migliore in
tutta l’NBA) e un ottimo difensore. Il prezzo per lui non sarebbe stato
neanche così alto: dopo la débâcle dei playoff del 1995, durante i quali
Rodman era apparso più interessato alla sua relazione con Madonna che
non alla squadra, era chiaro che qualunque cosa San Antonio avrebbe fatto,
l’avrebbe sicuramente fatta senza di lui. Durante un allenamento
prestagione dei Bulls, il cronista del Chicago Sun Times e di Sports
Illustrated Rick Telander incontrò Krause e gli chiese se stesse trattando
qualche ala forte. Krause gli chiese se aveva suggerimenti e Telander, giusto
per scherzare, suggerì Rodman. «Mi guardò come se gli avessi suggerito di
assumere il mostro di Milwaukee come capocuoco».
«No no, mai» rispose Krause. «Non è il nostro tipo di persona».
Non era il tipo di persona di molte squadre, in quel momento. Mike
Dunleavy, ai tempi general manager e allenatore dei Milwaukee Bucks, lo
stava cercando e aveva buone carte da giocare: poteva spendere quanto
voleva e aveva un disperato bisogno di rimbalzisti. Il suo ragionamento era
semplice: per quanto Rodman fosse completamente fuori di testa, era un
giocatore talentuoso, che in campo dava tutto. «Aveva rivoluzionato il
concetto di testa calda, trasformandolo in una forma d’arte» disse Scott
Hastings, che ci aveva giocato contro spesso. Inoltre, si diceva che la
principale ragione per cui Rodman avesse causato così tanti problemi a San
Antonio fosse che i proprietari gli avevano promesso un contratto enorme,
poi la franchigia aveva cambiato proprietà e i nuovi dirigenti non avevano
onorato l’accordo verbale. Con un giocatore potenzialmente esplosivo come
Rodman, che si sentiva costantemente sfruttato da ogni forma di autorità,
era stato un errore fatale. San Antonio sembrava interessata ad accordarsi
coi Bucks. Dunleavy incontrò Rodman e, conscio delle sue capacità
autodistruttive, gli offrì un contratto con un interessante incentivo:
avrebbero pagato a Rodman $1.000 ogni punto, $1.000 per ogni rimbalzo e
$1.000 per ogni minuto che avrebbe giocato. Nel miglior anno possibile, il
totale sarebbe stato di cinque milioni. Era un’ottima proposta per uno che
prendeva circa due milioni, e Rodman sembrò apprezzarla. «Si può fare»
disse. Ma proprio mentre Dunleavy era lì, suonò il telefono: era Jerry
Krause. Anche i Chicago Bulls erano interessati.
Se fosse andato a Chicago, ci sarebbe arrivato con un grosso carico. A
San Antonio aveva la tendenza a saltare gli allenamenti, arrivare molto in
ritardo o con addosso un sacco di gioielli. Si pensava che il suo primo
allenatore John Lucas fosse stato troppo permissivo: la cosa gli era costata
il posto. Il suo successore Bob Hill aveva cercato di stringere le viti ma
sembrava che Rodman, nel suo secondo anno, volesse stabilire il record per
il maggior numero di multe ricevute dalla società. Durante i playoff del
1995, quando gli Spurs sembravano avere una buona possibilità di arrivare
alle Finals, non solo abbandonò i suoi compagni, attraversando la città in
una limousine insieme a Madonna, ma prese anche dei sanguinosi falli
tecnici in momenti critici e si fece addirittura squalificare per la quinta,
decisiva partita. Litigò per tutto l’anno, non solo con la dirigenza ma anche
coi compagni, specialmente con David Robinson, il cui stile di vita cristiano
e immacolato sembrava essere un grosso problema per Rodman.
Eppure, se c’era una squadra in buona posizione per trattare con Dennis
Rodman, quella squadra erano i Bulls. C’erano tre ingredienti chiave che
potevano aiutare. Innanzitutto, i Bulls avrebbero sicuramente lottato per il
titolo e, a prescindere da tutto il resto, Rodman voleva vincere. Il secondo
punto era che Michael Jordan aveva un’influenza sugli altri giocatori più
grande di quella di qualunque altro giocatore della Lega e nessuno,
nemmeno Dennis Rodman, per quanto altezzoso si mostrasse in pubblico,
voleva deluderlo o essere oggetto del suo disprezzo. Il terzo fattore era che
Phil Jackson, astuto e capace di adattarsi, era sempre stato attratto dalle
persone che erano differenti dalla norma ed era molto bravo a non alzare
muri che un giocatore dallo spirito ribelle avrebbe visto come provocazioni.
Era quindi la persona più adatta nell’intero mondo del basket ad avere a che
fare con Rodman. Krause gli chiese cosa ne pensasse della possibilità di
acquistare Rodman e Jackson, astuto, disse che non era una decisione
dell’allenatore ma della squadra, perché anche se lui avesse gestito bene la
cosa, ci sarebbero inevitabilmente stati dei problemi: i senatori, quindi,
avrebbero dovuto essere d’accordo.
I giocatori furono dunque coinvolti nella decisione: Jackson parlò sia con
Jordan che con Pippen e i due furono piuttosto positivi. (Forse più Jordan di
Pippen: anni dopo, Jordan avrebbe detto che la seconda striscia di anelli non
sarebbe arrivata se avessero tenuto Grant, perché Grant nelle partite
importanti era un problema).
Per quanto riguardava Jordan, il passato era alle spalle e sia lui che
Pippen sapevano che Rodman lavorava duro, sia in partita che in
allenamento, e che avrebbe dato alla squadra esattamente le qualità di cui
avevano disperato bisogno: rimbalzi e difesa contro ali grandi di alto livello
come Karl Malone.
Jackson chiamò Chuck Daly, l’ex allenatore di Rodman a Detroit, che
Dennis venerava. Daly gli disse che sì, Dennis era egoista, ma non nel
senso in cui si pensava. Era egoista quando si trattava di andare a rimbalzo:
lasciava sempre il suo uomo per avere una posizione migliore. «Ma è uno
che lavora duro e che impara in fretta». Con grande sorpresa di Daly,
Rodman, bisognoso di affetto e grato per ogni segno di giustizia che venisse
da una personalità autorevole, aveva cominciato a considerarlo come una
sorta di figura paterna, ed era stato devastato dalla notizia che avrebbe
lasciato Detroit. (Anni dopo, Rodman avrebbe regalato al suo vecchio
allenatore, che ora allenava a New Jersey, un ritratto a grandezza naturale.
Un ritratto di Dennis Rodman, naturalmente). Daly aveva intuito le abilità
di Rodman e la sua passione fin dall’inizio, e gli aveva detto che se avesse
lavorato sodo sulla difesa e sul rimbalzo – le cose che nessun altro voleva
fare – sarebbe rimasto nella Lega a lungo, avrebbe avuto una bella vita e ci
avrebbe fatto anche un bel po’ di soldi.
Ma quando, nel bel mezzo dei problemi a San Antonio, i due si
incontrarono per caso da Gibson, una steakhouse di Chicago, Rodman
sembrava sconsolato. Agli Spurs era chiaramente scontento: gli dispiaceva
essere marchiato come un bad boy ed era molto amareggiato dai problemi
sul contratto. «Coach» disse Rodman, «non so più cosa fare. Ho un nuovo
agente. Mi sono fatto il mazzo in difesa per anni. Ho giocato l’All Star
Game. Sono sempre tra i migliori rimbalzisti del campionato. Ho sempre
fatto quello che mi chiedevano e nessuno sa chi sono veramente. E
continuano a pagarmi solo due milioni all’anno. Ti dicono come vogliono
che giochi, ti dicono che devi sbatterti per il bene della squadra e fare il
lavoro sporco, ma ti pagano come se non gliene fregasse nulla». Fece una
pausa. «Devo reinventarmi» aggiunse.
Daly era sicuro che fu quella frustrazione a far nascere un nuovo
Rodman, conscio di quanto fossero sconvolgenti i suoi comportamenti, i
tatuaggi, i tagli di capelli, gli ammiccanti accenni alla possibilità di provare
lo stile di vita dei gay. Aveva chiaramente imparato da Madonna, una delle
figure della cultura contemporanea più brave a fondare il mito di se stessa,
una persona che aveva trasformato la sua abilità nella provocazione in una
sorta di forma d’arte. «Ha imparato da lei» disse Dunleavy, «è quasi un
corso universitario: Madonna 1». Così nacque il Rodman che arrivò alla
presentazione del suo libro con un vestito da sposa. Secondo Daly, la sua
eccentricità era autentica, quindi perché non aggiungere un tocco di
artificio, a beneficio di una cultura essa stessa sempre più artificiale, che
dipendeva dalle celebrità e che sembrava prosperare proprio nella
celebrazione della falsa eccentricità? Tutto sommato, nella musica
funzionava: più una band era provocatoria, più aveva successo. Lo sport e
l’intrattenimento stavano diventando una cosa sola, dunque perché non
portare quello stesso comportamento provocatorio anche nel basket?
Ma dietro la patina audace e provocatoria c’era un uomo quasi infantile,
dolorosamente timido non solo con gli estranei e con le persone che
venivano da mondi prevalentemente bianchi come gli affari, il management
o i media, ma anche con i suoi compagni di squadra. John Salley, che gli fu
vicino come nessun altro nel mondo del basket, lo incontrò per la prima
volta quando furono entrambi invitati alle Hawaii per giocare in un torneo
amichevole riservato ai giocatori all’ultimo anno di college, e furono messi
in stanza insieme. In un meraviglioso giorno di sole, Salley entrò nella sua
stanza per la prima volta, e scoprì il suo nuovo compagno di camera
completamente avvolto nelle coperte con l’aria condizionata al massimo,
che guardava i cartoni a tutto volume in tv. Diceva di avere preso il
raffreddore. Salley, uno dei gli uomini più allegri e loquaci di tutta l’NBA,
provò a parlargli, ma ricevette solo una risposta monosillabica. Provò con
un altro argomento ma ottenne solo un altro monosillabo. Provò una terza
volta, ebbe un’altra risposta brevissima e alla fine lasciò perdere. Salley
capì di aver visto il vero Dennis Rodman: un uomo timido, a disagio con le
persone, molto ansioso ed estremamente taciturno.
A volte, alcuni dei suoi vecchi amici di Detroit, persone che conoscevano
il vero Rodman (ammesso che un ‘vero Rodman’ esistesse davvero) lo
provocavano, perché ora era pieno di tatuaggi e aveva i capelli colorati.
«Andiamo, Dennis» gli diceva uno dei suoi vecchi compagni di squadra,
«cos’è questa storia dei capelli?»
«Lo so, lo so» rispondeva lui. «Sto solo cercando di farmi pagare di più».
Quando incontrò Maureen Malone, la moglie di Brendan Malone, uno
degli allenatori di Detroit, lei gli disse: «Ehi, Dennis, vedo che stai
prendendo in giro un sacco di persone in questi giorni».
Lui sorrise, come un bambino beccato con le mani nella marmellata, e
disse agli amici: «Vedete, lei non si fa prendere in giro».
A volte sembrava che stesse vivendo la sua infanzia e la sua maturità allo
stesso tempo, per rifarsi di anni infelici e solitari. Era bravo a comunicare
coi bambini, molto meno con gli adulti e sembrava essere più a suo agio
con i figli dei suoi allenatori che con molti suoi compagni di squadra.
Quando giocava a Detroit, divenne molto affezionato alla figlia di Brendan
Malone: lei spesso gli regalava una bandana prima delle partite e lui,
quando la partita finiva, la indossava. Era come se ci fosse un legame tra
loro e non avessero bisogno di parlarsi. Quando divenne una stella a
Detroit, comprò un’enorme casa in periferia, che arredò a malapena ma che
riempì di videogiochi. Parecchi ragazzini bianchi del quartiere
frequentavano quella casa: erano i compagni perfetti per giocare a flipper e
a Pac-Man.
Rodman andò a Chicago, per incontrare Krause e Jackson a casa del
general manager. Quando Jackson arrivò, trovò Rodman affossato su un
divano, con cappello e occhiali scuri. Jackson gli si avvicinò, gli porse la
mano e disse in modo gentile: «Alzati, Dennis, devi alzarti per stringermi la
mano». Rodman si alzò e strinse la mano di Jackson. «Ora, Dennis, puoi per
favore toglierti gli occhiali da sole? Così posso vederti in faccia». Lui se li
tolse. Se non altro, Jackson non gli avrebbe consentito di nascondersi.
L’incontro fu positivo, così come anche quello privato di Rodman con
Krause. Era fatta: i Bulls, che si vantavano tanto del fatto che i loro
giocatori erano dei bravi ragazzi, avrebbero ingoiato un po’ del loro
orgoglio e lo avrebbero comprato. Will Perdue, uno che lavorava sodo ma
con doti tecniche limitate e un atteggiamento molto meno provocatorio,
andò a San Antonio in cambio di Dennis Rodman, giocatore con un talento
selvaggio, molto eccentrico, uno che poteva essere un campione o una
bomba a orologeria. O anche entrambe le cose. Qualcuno chiese a Scottie
Pippen se, data la storia recente della franchigia, c’era un giocatore il cui
ingaggio avrebbe fatto più scalpore: «Certo» rispose, «Bill Laimbeer».
Nessun giocatore rappresentava l’abisso tra il glitterato mondo dell’NBA,
con le sue celebrazioni degli atleti di colore e i loro contratti multimilionari,
e il duro e spietato mondo da cui molti di quei giocatori provenivano meglio
di Dennis Rodman. Era nato a Dallas. Suo padre era nell’aviazione e aveva
abbandonato sua madre, Dennis e le sue sorelle piuttosto presto, ed era
andato avanti con la sua vita dissoluta: anni dopo si sarebbe vantato con dei
giornalisti di avere diciassette figli, nessuno dei quali, a quanto pareva, si
era preoccupato di crescere. Rodman era un bambino tremendamente
timido, gracile, fragile e spesso preso di mira dagli altri ragazzi. Le sue
sorelle erano alte ed erano considerate ottime giocatrici di basket: vinsero
anche delle borse di studio per il college. Lui invece crebbe molto tardi.
Non riuscì a entrare nella squadra di basket della high school e non
sembrava avere grandi possibilità di fare una vita che non fosse ai margini
della società.
Era un giovane americano nero che sembrava non avere alcuna abilità
particolare né nessun futuro, una di quelle persone che nell’America
contemporanea sono praticamente invisibili. Le sue prospettive lavorative
sembravano molto risicate: al massimo un impiego in un fast food o in un
parcheggio. A diciotto anni, lavorava come guardiano notturno
all’aeroporto di Dallas, ma fu licenziato per essersi introdotto in uno dei
negozi e aver rubato sedici orologi per un valore totale di $470. Il suo
futuro non sembrava particolarmente roseo.
Poi, all’improvviso, crebbe di 15 centimetri in un solo anno e il suo
mondo cambiò. Le persone cominciarono a interessarsi a lui. Giocò per una
piccola università locale, uno scout di Oklahoma State lo vide e capì che
poteva essere un gioiello: un giocatore che era in qualche modo sfuggito
alla rete degli scout. Giocando nei Southeastern Oklahoma Savages, a un
livello simile a quello in cui aveva iniziato Scottie Pippen, sembrava un
ottimo giocatore, ed entrò nell’All Star Team della divisione per tre anni.
Era già un brillante rimbalzista ma gli scout delle squadre professioniste
rimanevano freddi: stava facendo vedere ottime cose ma contro avversari
piuttosto limitati. Un buon numero di squadre, tra cui i Pistons, si
interessarono comunque a lui e avrebbero potuto prenderlo al primo giro del
draft del 1986, ma i provini che fece a Chicago e alle Hawaii non furono
molto soddisfacenti, a causa degli attacchi d’asma. I Pistons erano gli unici
a sapere di quella sua condizione, e lo presero nel secondo giro, piuttosto
presto.
Diventò davvero un ottimo giocatore. Non sembrava stancarsi mai,
poteva correre e prendere rimbalzi tutto il giorno e, quando la partita era
finita, spesso tornava in palestra e faceva un’ora di cyclette. Isiah Thomas
era il guardiano della tradizione dei Pistons e se la prendeva con gli altri
giocatori se non lavoravano abbastanza duro, ma Rodman spesso
rimproverava Thomas, se pensava che si stesse distraendo un po’. Studiava
molto attentamente Bill Laimbeer, un centro abile con i rimbalzi anche se
non era in grado di saltare: poiché Rodman era un atleta decisamente
migliore, divenne presto un ottimo rimbalzista. Era un giocatore intelligente
e aveva riflessi incredibilmente veloci: quando andava a rimbalzo,
sembrava arrivare sempre alcuni cruciali secondi prima degli avversari
intorno a lui. Studiava continuamente dei filmati, guardando le traiettorie
che il pallone prendeva dopo i tiri di vari giocatori, così da potersi
posizionare meglio e imparò a bilanciare la mancanza di statura (nelle
statistiche ufficiali c’era scritto 2,02m, ma sembrava più basso di Pippen,
che era registrato come 1,99m) giocando a pallavolo con se stesso, facendo
rimbalzare la palla ancora e ancora, finché non riusciva a controllarla. Nei
quattro anni precedenti aveva avuto una media di 17 rimbalzi a partita.
Era veramente un atleta eccezionale, e un grande giocatore di basket. Il
suo corpo, magro, potente e che sembrava non stancarsi mai, poteva essere
tranquillamente quello di un mezzofondista olimpico.
Per un periodo, i membri dello staff dei Pistons lo chiamarono
‘Campione’, perché pensavano che se avesse corso i 400 metri sarebbe
potuto diventare campione del mondo. Certo, aveva alcuni limiti. A inizio
carriera non era stato un cattivo tiratore, ma negli anni aveva smesso di
tirare, soprattutto perché non si sentiva abbastanza bravo nei tiri liberi e non
voleva subire fallo mentre andava a tirare, rendendosi ridicolo in lunetta nei
momenti cruciali, davanti a un grande pubblico.
Se fosse riuscito a rimanere concentrato, sarebbe stato il pezzo perfetto
per i Bulls. La squadra aveva già due dei migliori difensori della Lega e
Rodman sarebbe stato il terzo. Il punto dove erano ancora estremamente
vulnerabili era il centro, ma la velocità di Rodman poteva sopperire alla
mancanza di agilità di Longley. Grazie alla sua velocità, i Bulls potevano
essere pericolosi in due maniere diverse: a loro piacimento, avrebbero
potuto attraversare il campo con rapidissime fiammate oppure, rispettando
l’età ormai non giovanissima dei loro migliori giocatori, difendere in modo
feroce e sfiancare gli avversari. A chi si intendeva di basket era chiaro che,
con l’aggiunta di Rodman, i Bulls stavano per diventare una grandissima
squadra.
Quella stagione fu quasi un sogno. «Lei non avrà nessun problema con
me» disse Rodman a Jackson, durante il loro primo incontro. E aggiunse:
«Anzi, vincerà un anello». Era tutto al posto giusto. Michael Jordan,
umiliato dalla sua stessa prestazione contro Orlando nei playoff del 1995, si
presentò non solo in grande forma, ma anche con grande voglia di vendetta.
Da quando era tornato dal baseball, secondo alcuni membri dello staff dei
Bulls, era diventato una persona con cui era più facile giocare. Prima del
suo fallimento nel baseball, aveva avuto quindici anni di ascesa continua:
sul monte di battuta, si era scontrato con i propri limiti per la prima volta da
quando non era riuscito a entrare nella prima squadra della high school e
aveva trovato qualcosa di importante in cui, per quanto ci provasse, non
poteva eccellere. Questa esperienza lo cambiò e lo rese più tollerante: in
passato, ci era andato giù pesante con alcuni dei suoi compagni, perché
credeva che non stessero lavorano sodo, che non ci stessero mettendo più di
tanto impegno. Per alcuni di loro era un giudizio veramente molto crudele.
Aveva così tante doti naturali che non si rendeva conto di quanto giocare
fosse facile per lui. Ben pochi giocatori avevano le sue pure abilità atletiche
e pochissimi fra quelli che le avevano possedevano anche la sua fantastica
visione di gioco e quelle reazioni cinetiche che lo avevano portato i
massimi livelli e che facevano sembrare, come aveva detto qualcuno che lo
conosceva bene, che le partite per lui andassero al rallentatore. Ora, al suo
ritorno, con nuovi compagni di squadra, sembrò meno critico: l’unica cosa
che chiedeva ai suoi compagni era che dessero tutto, sia in partita che in
allenamento. La sola cosa che non tollerava era l’inerzia.
Il resto della squadra sembrò adattarsi piuttosto bene. Pippen era
entusiasta di riaverlo vicino e di essere sollevato dal ruolo, che gli si
addiceva poco e che sicuramente non voleva, di leader e uomo immagine
della squadra. Se il periodo di Jordan nel baseball lo aveva reso più
tollerante nei confronti delle frustrazioni che gli altri giocatori affrontavano,
lo stesso periodo aveva insegnato a Pippen quanto fosse difficile essere
Jordan e avere a che fare con le infinite responsabilità fuori dal campo che
derivavano dall’essere la stella dei Chicago Bulls. Ron Harper, uno che in
passato aveva segnato parecchio sia con Cleveland che coi Clippers, si era
unito alla squadra l’anno prima, ma era stato una delusione piuttosto grossa:
era sempre fuori forma e aveva faticato a adattarsi agli schemi di una
squadra che sembrava sconsolata, in lutto per le perdite di Jordan e Grant.
Ma per questa nuova stagione, Harper tornò in grande forma, sapendo che il
rientro di Jordan avrebbe cambiato il suo ruolo e che non sarebbe stato,
come invece era successo per buona parte della sua carriera, la guardia
titolare. Si reinventò all’ultimo momento come uno specialista difensivo e
gli riuscì piuttosto bene. Questo significava che, oltre a Rodman, i Bulls
potevano schierare contro gli avversari altre tre guardie difensivamente
eccezionali: con una difesa così superiore, avrebbero distrutto qualunque
altra squadra.
Mostrarono voglia di ricominciare fin dal primo giorno di allenamento.
Quel giorno, molti dei Bulls erano in una forma migliore di molti altri
giocatori alla fine della preparazione. I compagni salutarono Rodman con
una certa cautela: la sua reputazione lo precedeva. Il primo giorno di
allenamento, Jackson radunò la squadra e gli disse: «Dennis, non me ne
frega un cazzo di quello che fai fuori dal campo, ma qui abbiamo delle
regole: sono poche, ma fondamentali». Poi, gli presentò una breve lista di
regole che sostanzialmente comprendevano essere in orario agli allenamenti
e alle partite, e dare tutto ogni volta che si andava in campo. In quelle prime
settimane, a volte i compagni provarono a parlare con lui, ma ottennero
poche risposte e quindi limitarono le conversazioni al minimo. Era il più
tranquillo e riservato dei compagni di squadra. Spesso sembrava staccarsi
da tutti gli altri: andava in sala video da solo con le cuffie in testa, a
guardare video delle partite, un uomo che non chiedeva altro che di isolarsi
nel suo mondo. Ma giocare con lui era molto facile. Era un atleta di grande
intelligenza cestistica, in grado di imparare rapidamente schemi offensivi
complicati e che dava quasi sempre tutto. Rapido e forte fisicamente, utile
anche senza segnare, non sembrava semplicemente un pezzo mancante di
quella squadra, sembrava il pezzo mancante perfetto di quella squadra.
All’improvviso, i Bulls, che erano stati così vulnerabili la stagione
precedente, sembravano avere ben poche debolezze dimostrabili. I giocatori
che erano arrivati dopo che Jordan aveva lasciato per giocare a baseball si
adattarono rapidamente al suo modo di giocare. C’erano alcuni pezzi
particolarmente importanti: il centro era Luc Longley, talentuoso ma timido,
con una visione di gioco migliore della rapidità nelle gambe, e che stava
ancora cercando di imparare come sfruttare al meglio il suo corpo
massiccio; Steve Kerr, che aveva sostituito Paxson come tiratore puro, era
sempre pronto a tirare da tre se Jordan veniva raddoppiato; Bill Wennington
era la quintessenza del centro di riserva, ma con un buon tocco al tiro; e,
ovviamente, c’era Toni Kukoc ˇ elettrizzato dal fatto che Jordan fosse
tornato ma che continuava a far fatica a trovare il suo posto nel basket
americano.
Vinsero ventitré delle prime venticinque partite. Persero il primo scontro
con Orlando, in trasferta, e Jordan segnò meno di Penny Hardaway, salutato
da molti come uno dei suoi possibili eredi. Ma quando Orlando andò a
Chicago per il match di ritorno, Jordan stoppò il primo tiro di Hardaway per
dargli il benvenuto, e segnò 36 punti contro i suoi 26. Il rito di passaggio
poteva aspettare. Rodman prese 19 rimbalzi. La fiducia dei Bulls crebbe
partita dopo partita: in una lunga serie di gare tra dicembre e gennaio,
fecero trentuno vittorie e due sconfitte. Come Bill Wennington avrebbe
dichiarato tempo dopo, erano convinti che tutto quello che dovevano fare
fosse andare in campo ogni sera e giocare nel loro stile: avrebbero vinto.
Quello che avrebbero fatto gli avversari non contava, se i Bulls riuscivano a
imporre il proprio gioco e rispettavano le loro stesse aspettative.
Quando arrivò la sosta per l’All Star Game, il loro record era di 42-5, in
perfetta media per realizzare una stagione con settanta vittorie. La gente
cominciò a chiedersi se fossero la miglior squadra di sempre, e a
paragonarli alle grandi formazioni del passato. Bill Bradley li vide giocare e
fece notare i terribili problemi di accoppiamento che causavano ai loro
avversari. Se avessero giocato contro i vecchi Knicks che avevano vinto
degli anelli, notò Bradley, lui sarebbe stato accoppiato a Scottie Pippen, che
era più alto, più forte, più veloce, un giocatore infinitamente versatile e un
atleta decisamente superiore: «Tutto quello che avrei potuto fare» disse,
«sarebbe stato chiedere aiuto a qualcuno».
Quando i Bulls sconfissero i Lakers di 15 punti a Los Angeles, Magic
Johnson, che era tornato brevemente dopo aver lasciato il gioco a causa
della sua malattia, disse che non aveva mai visto una squadra migliore:
«Sono forti come noi quando abbiamo vinto l’anello, ma sono molto meglio
di quando hanno vinto loro. Fanno paura». E quella sembrava essere l’idea
più diffusa. Rodman stava prendendo più rimbalzi che mai e a metà
stagione Sports Illustrated lo mise di nuovo in copertina, con una domanda:
‘IL MIGLIOR RIMBALZISTA DI SEMPRE?’
L’isteria mediatica attorno a loro ebbe un incremento straordinario. Alla
già eccessiva fissazione per il ritorno di Michael, si aggiunsero quella per
Rodman e quella per le settanta vittorie. Quella legata a Michael era
ovviamente scontata, era la ragione di vita di schiere di giornalisti che
sembravano affascinati anche dai minimi sviluppi. Assistendo a questo
interesse per ogni mossa e ogni parola di Jordan, Tim Hallam, capo ufficio
stampa dei Bulls, cominciò a chiamare la squadra ‘Gesù e gli Apostoli’.
Diceva ai giornalisti, imitando lo stile dei telegiornali locali: «Gesù ha
consumato un frugale pasto prepartita da solo nella sua camera da letto. I
dettagli alle 11».
L’ossessione per Rodman, invece, sembrò crescere durante la stagione,
come se i media avessero bisogno di carne fresca, dopo essere stati addosso
a Jordan così a lungo, e come se l’aura di divinità che circondava Michael
stesse diventando noiosa. Agli sportivi piace vedere certi contrasti come
una lotta tra il bene e il male. Era stato così col giovane Cassius Clay contro
Sonny Liston, e per una serie di squadre di basket contro i Detroit Pistons.
Ma avere Jordan e Rodman nella stessa squadra era qualcosa di nuovo:
tifando per i Bulls, si tifava sia per il bene che per il male, e il Principe delle
tenebre giocava insieme al Re della luce. All’improvviso sembrava che
l’intero Paese fosse affascinato da questo ragazzo timido, problematico e
decisamente taciturno, soprattutto perché esibiva strambi tagli di capelli, si
copriva di tatuaggi e deteneva il record per il maggior numero di orifizi con
un piercing nell’NBA. L’interesse per Rodman rivelava il lato peggiore dei
moderni media, la loro fascinazione (e fame) per la devianza: stavano
facendo il loro gioco con un provocatore, anche se lo stesso provocatore
sembrava non capirlo fino in fondo. Se buona parte dei media non si curava
più di tanto dell’autenticità dei propri nuovi eroi, questo era particolarmente
vero per Rodman. Scrisse un libro, peraltro piuttosto brutto, che vendette
circa 500.000 copie e sulla cui copertina appariva nudo su una motocicletta.
Arrivava alle presentazioni del libro indossando un vestito da sposa:
perfettamente consapevole dell’ambiguità del personaggio che stava
creando, cominciò a frequentare i locali gay. Un giornale locale teneva un
diario quotidiano del colore dei suoi capelli, partita dopo partita, e del
numero totale di cambiamenti, colore per colore, per l’intera stagione.
Periodicamente espulso dagli arbitri, iniziò a togliersi la maglietta e a
gettarla sulle tribune e quelle magliette diventarono oggetti da collezione di
grande valore: i tifosi cominciarono a farsi vedere con dei cartelli in cui gli
chiedevano di lanciare loro la sua maglietta.
Rodman era ospite nei principali talk show del Paese: ovviamente, non
aveva nulla da dire e veniva spesso intervistato da persone che non avevano
nulla da chiedergli. Con milioni di americani insonni che guardavano
avidamente la tv nelle loro camere da letto, Rodman stava lì seduto, con gli
occhiali scuri, affondando nella poltrona e mormorando qualche
monosillabo. «Ma tu pensi» chiese un divertito Colin Powell a David Stern
dopo uno di quegli show, «che il tifoso medio di NBA sappia che quando
Dennis Rodman torna a casa la sera si siede nella sua camera al buio da solo
e ascolta Vivaldi?» Man mano che il culto cresceva, Rodman andava
sempre più spesso, dopo le partite, in ristoranti selezionati, circondato da
amici e conoscenti, e si sedeva in silenzio, parlando pochissimo mentre gli
altri lottavano per la sua attenzione. In realtà stava lasciando il palco a
quelli che lo circondavano. Le sue sponsorizzazioni crebbero: prima di
essere preso dai Bulls era quasi in bancarotta, ma ora stava diventando
piuttosto ricco.
I compagni di Rodman si divertivano molto. Stava giocando bene le sue
carte, pensavano: non si stava mostrando al mondo, stava facendo sì che il
mondo si mostrasse a lui. In generale, ai compagni piaceva: era un buon
uomo spogliatoio, anche se piuttosto distaccato, era straordinariamente
veloce sotto i tabelloni e molto determinato. La verità è che nessuno sapeva
veramente con chi avevano a che fare, perché nessuno lo conosceva
davvero. Sembrava piacere soprattutto a Luc Longley, che andava
d’accordo con tutti e andò a cena con lui qualche volta: disse agli altri che
Rodman era piuttosto silenzioso, ma tutto sommato piacevole. Questo a
tutti gli altri bastò.
Nessuno, naturalmente, voleva deludere Jordan, e questa era una grossa
leva che Phil Jackson usava per tenere Rodman concentrato. Quello che
spingeva tutti a dare il loro meglio, più di ogni parola da parte di qualsiasi
membro dello staff tecnico, era l’espressione dura ed esigente di Jordan. La
cosa che lasciava senza parole, come stavano imparando i suoi compagni,
era che giocava ogni partita come se fosse un incontro dei playoff e non si
prendeva serate libere. Durante quella stagione, solo in un’occasione Jordan
sembrò giocare senza la sua normale intensità: era a inizio annata, la sesta
partita di una lunga serie di trasferte a ovest. Fin lì, i Bulls avevano fatto
undici vittorie e due sconfitte e arrivarono a Vancouver per giocare contro i
Grizzlies. Quella sera, Jordan sembrò rilassarsi: all’inizio del quarto quarto
aveva segnato solo 10 punti e i Bulls erano sotto di 2. Poi Darrick Martin,
un giovane che lo stava marcando, commise uno sbaglio fatale, un errore
troppo frequente da parte dei giocatori inesperti, nuovi nella Lega e che
volevano a tutti i costi fare una buona impressione: cominciò a provocarlo.
«Non sei poi così forte» gli sussurrò. «Posso fermarti quando voglio».
Il coach dei Grizzlies lo fece sedere immediatamente in panchina ma era
troppo tardi. Martin aveva svegliato il cane che dormiva. Con Vancouver
avanti 72-73 e 5:37 sul cronometro, Jordan iniziò una striscia. Prima una
schiacciata, poi un tiro in sospensione, poi un lay-up per un gioco da tre
punti, un altro tiro in sospensione e un tiro libero. La sua striscia fu
interrotta solo da una tripla di Kukoc ˇ . Poi, nei tre possessi successivi,
Jordan segnò ancora un tiro dalla media distanza, un lay-up e, dopo aver lui
stesso rubato palla, una schiacciata. Ora il risultato era 91-83 per i Bulls.
Aveva fatto 9/12 dal campo e aveva segnato 19 punti nel solo quarto quarto.
Darrick Martin non rientrò. I Bulls vinsero 94-88.
Nonostante tutto il successo di cui stavano godendo, non era sempre
facile tenere Rodman sul pezzo. Non tutti i suoi comportamenti da ribelle
erano fasulli, c’era dietro una reale paranoia. Il suo era una sorta di
spettacolo: in parte era una recita, ma parte era una rabbia genuina, radicata
nel profondo della sua anima e nessuno – né gli arbitri né gli allenatori –
sapeva distinguere le due cose. Non era sempre chiaro nemmeno se
Rodman sapesse quando passava dalla provocazione artificiosa alla rabbia
sincera. Poteva, sera dopo sera, spingere sempre più in là i limiti, lottando e
trattenendo gli avversari, facendo infiniti falli che nessuno vedeva, ma se gli
arbitri fischiavano, immediatamente si infuriava ed era sicuro di essere
preso di mira. «Mi fottono così tanto che avrei bisogno di una cintura di
castità» disse una volta. Secondo il viceallenatore Jim Cleamons, quello che
salvò Rodman e mantenne il suo comportamento entro dei confini
accettabili fu il contrasto tra Chicago e San Antonio: a Chicago gli
allenatori e i compagni di squadra tendevano a reagire a molte delle sue
azioni con uno sbadiglio, mentre a San Antonio tutti gridavano e lo
esortavano ad abbandonare quei comportamenti aberranti.
Il fardello era soprattutto sulle spalle di Jackson. Il loro rapporto era
meravigliosamente complicato: si basava su ammirazione e affetto, ma era
anche un sottile tiro alla fune psicologico. Rodman lanciava una serie di
provocazioni per capire quanto in là poteva spingersi e Jackson, come un
padre un po’ rigido e un po’ permissivo, lasciava che il suo giocatore
capisse da solo che c’erano dei limiti, anche se continuava a volergli bene.
A volte le provocazioni erano poca roba. Per esempio, arrivare
all’allenamento con le scarpe slacciate, mentre tutti dovevano arrivare
avendole allacciate, ma Rodman lo faceva solo mentre scendeva in campo.
Nessuno poteva indossare gioielli durante l’allenamento ma Rodman cercò
di mettere di nascosto qualche braccialetto e Jackson, con un largo sorriso
(tutto faceva parte di un gioco: Jackson doveva beccarlo ma in un modo che
minimizzasse l’intera faccenda) gli si avvicinava e diceva: «Dennis, ti
sembra un gioiello quello?» Se Rodman faceva i capricci in campo, Jackson
rimaneva rilassato, sorrideva e diceva ai suoi assistenti (ma non alla
squadra): «Mi ricorda me da giovane».
Il loro gioco a due permetteva a Rodman di fare un po’ il ribelle, di
rimanere ancora una testa calda perché la sua immagine lo richiedeva,
conscio del valore commerciale che questa cosa aveva assunto, ma senza
minacciare la concordata etica della squadra. Entrambi giocarono molto
bene. June Jackson amava dire che quello che aveva salvato suo marito
dovendo avere a che fare con Rodman era che aveva già cresciuto un buon
numero di adolescenti e quindi, ogni volta che c’era una crisi, aveva idea di
come non andare troppo oltre. Doveva scegliere le sue battaglie ed essere
sicuro che fossero importanti. (Tuttavia, suo marito non sembrava troppo
d’accordo. «Se Dennis è come i miei figli?» disse due anni dopo. «No, i
miei figli si comportano bene»).
Ma il buon comportamento di Rodman non durò per l’intera stagione. A
metà marzo, molto frustrato durante una gara contro New Jersey, andò testa
a testa con un arbitro. E poi si dilungò in una tirata contro gli ufficiali della
Lega, incluso il commissioner. Gli diedero $20.000 di multa e lo sospesero
per sei partite, il che significava una perdita di altri $183.000.
Qualcuno chiese a David Stern dei commenti su Rodman, anche alla luce
del mantra ripetuto spesso da Stern, secondo cui l’NBA era una famiglia.
Rodman faceva davvero parte della famiglia NBA? E se sì, che razza di
famiglia era? Stern se la cavò molto bene. Certo, rispose, Rodman era parte
della famiglia. «Alcune famiglie hanno uno zio eccentrico, noi abbiamo il
cugino Dennis. Sapete, un sacco di giocatori e di allenatori hanno questa
idea del noi contro tutti: è una tecnica motivazionale tipica dello sport.
Rodman potrebbe averla trasformata in una forma d’arte».
Il pericolo insito in tutta quella celebrazione era crederci davvero e
credere nel mito della propria grandezza basato sulla vittoria di settantadue
partite di Regular Season, battendo il record di sessantanove dei Lakers del
1971-72. Alla fine dell’anno Ron Harper se ne uscì con lo slogan: ‘Seventy-
two and ten don’t mean a thing / without the ring’.5
Per Jordan, i playoff erano sostanzialmente un conto alla rovescia:
servivano quindici vittorie per vincere il titolo, tre nel primo turno e poi
quattro in ognuno dei successivi tre. Era quello il suo vero calendario. Dopo
ogni vittoria dei playoff, entrava nello spogliatoio e diceva ‘dodici’,
intendendo che mancavano dodici vittorie, oppure ‘nove’ e alla fine
‘quattro’, ‘tre’, ‘due’, ‘uno’. Quelli erano gli unici numeri che contavano
davvero.
Nei playoff spazzarono via Miami in tre partite. Poi vinsero 4-1 con New
York e questo gli offrì quello che volevano di più: una rivincita contro
Orlando nella finale di Conference e l’occasione di vendicare la sconfitta
dell’anno prima. In realtà finì prima ancora di cominciare. L’anno prima il
giocatore dominante era stato Grant che giocava sostanzialmente in una
squadra senza un’ala forte, marcato da Pippen come da chiunque altro.
Quest’anno, messo contro Rodman, Grant di fatto sparì. Verso la fine di
Gara Uno si fece male scontrandosi contro il compagno di squadra
Shaquille O’Neal, ma anche prima di allora aveva segnato zero punti, fatto
zero rubate, zero stoppate, zero assist e solo un rimbalzo. Rodman finì con
13 punti e 21 rimbalzi. Ai Bulls bastarono quattro partite per liberarsi dei
Magic. Prima dell’inizio della serie, Rodman aveva detto di Orlando:
«Hanno il talento per diventare campioni. Ma non sanno cosa serve per
diventarlo». Era la voce di un’intera generazione di giocatori NBA che
parlava dei loro eredi putativi.
Nelle Finals giocarono contro i SuperSonics, una squadra che aveva vinto
sessantaquattro partite di Regular Season e che aveva considerevoli abilità
fisiche, ma non era particolarmente coesa nella propria metà campo. I Bulls
vinsero le prime due partite in casa e poi, quando andarono a Seattle,
alzarono l’intensità, come spesso facevano nelle trasferte importanti. A
metà di Gara Tre, il punteggio era 62-38 per Chicago, e alla fine fu 108-86
per i Bulls, che avevano, come disse George Karl, «gli occhi iniettati di
sangue». Sul 3-0 si rilassarono. Seattle li spazzò via in Gara Quattro e vinse
Gara Cinque: questo significava che i Bulls sarebbero tornati a Chicago
davanti 3-2 e ciò riaccese la loro concentrazione. Gara Sei assomigliò molto
alla prima parte della serie: Chicago difese molto duro e fu molto più
concentrata in attacco. La vittoria fu relativamente semplice: 87-75.
Ammirato, George Karl dopo la partita disse che i Bulls gli ricordavano
un’altra era, perché avevano una forza mentale impareggiabile. Non ti
davano opportunità, sapevano esattamente quando alzare la pressione
difensiva e si fissavano sulle tue debolezze con un’implacabile crudeltà:
oltre al loro talento, disse, quello che li spingeva erano questa forza mentale
e un grande cuore. Karl aveva ragione e aveva capito qualcosa di molto
importante nell’evoluzione di Michael Jordan e dei Bulls. All’inizio, quello
che attirava gli occhi e l’ammirazione dei tifosi era il puro talento di Jordan,
la leggiadria delle sue giocate. Nei primi anni, quando aveva avuto
problemi con compagni di squadra meno forti, i Bulls erano comunque uno
dei migliori spettacoli nello sport, grazie alla bravura individuale di Jordan.
Era stato un periodo di grandi onori individuali, compensati però da una
altrettanto grande frustrazione per non aver vinto. Ma poi, circondato da
compagni di squadra più forti, era passato alla fase due e aveva imparato a
trionfare. Era diventato un campione o, come disse Bryan Burwell, un
giornalista che lo seguiva in quegli anni, era passato dall’essere un
meraviglioso perdente a essere un determinato e spietato vincitore. In quegli
anni, a brillare era ancora il puro talento, il fatto che poteva fare cose che
nessun altro poteva fare su un campo da basket, ma anche la forza dei
compagni Pippen e Grant. Quando ritornò dal periodo sabbatico nel
baseball, tuttavia, era pronto per la terza fase della sua carriera: in quelle tre
stagioni dal 1995 al 1998, divenne un giocatore diverso, più esperto, ancora
più concentrato, e ancora più tosto.
Quello che gli appassionati di basket vedevano ora in Jordan era qualcosa
che era stato parzialmente nascosto nelle prime fasi della sua carriera: la sua
volontà non solo di eccellere, ma di dominare, che lo consumava. Era
invincibile e la sua determinazione era senza pari. Per gli appassionati che
lo avevano seguito fin dalla partita contro Georgetown nel 1982, quello che
ora era evidente non era il talento (che era ancora maestoso e che poteva
dominare anche un All Star Game), ma soprattutto la sua forza di volontà.
Nessuno controllava le proprie prestazioni più scrupolosamente di lui.
Era perfettamente conscio della possibilità di perdere qualche colpo, così
come era perfettamente conscio del fatto che i media lo osservavano
costantemente, smaniosi di scrivere che non era più il Jordan di una volta.
C’era un ritornello che era diventato costante nelle sue interviste
postpartita: «So che voi credete che stia perdendo colpi, ma io continuo a
portare a casa le partite». Ma era anche un uomo infinitamente orgoglioso e
conosceva bene le storie di quegli atleti che si erano innamorati un po’
troppo del gioco e avevano continuato per molto, anche dopo che le loro
abilità avevano cominciato a declinare. Sapeva anche che un atleta non
sarebbe mai stato il miglior giudice per stabilire quando quel processo
sarebbe cominciato. Aveva detestato guardare Larry Bird alla fine della sua
carriera, con la schiena a pezzi, un grande giocatore che veniva cancellato
da mediocri.
Come sempre, il suo atteggiamento fu contagioso per i compagni di
squadra. L’unica eccezione era Rodman, che giocava con un’intensità
teoricamente simile a quella di Jordan, ma che a volte andava
completamente fuori fuoco. Cercava di intrappolare gli altri in giochi
mentali, e finiva in trappola lui, diventando vittima di se stesso e passando
il confine tra controllo e sregolatezza. Ma a parte questo, i Bulls erano lo
specchio di Jordan: consumati professionisti che conoscevano benissimo
non solo il gioco, ma anche la Lega, e capivano cioè alla perfezione la
sotterranea, estenuante pressione che la stagione metteva loro addosso.
Erano intelligenti e talentuosi e avevano un obiettivo. Sapevano esattamente
cosa fare quando andavano in campo, e il più delle volte lo facevano.
La stagione 1996-97 non fu diversa dalla precedente: il numero di vittorie
in Regular Season scese di tre, fermandosi a sessantanove, ma di fatto né il
talento né la determinazione furono inferiori. E c’erano anche pochi segni
di quello che speravano gli altri allenatori e i giocatori, cioè che quella
squadra cominciasse a mostrare l’età che aveva. L’unico inciampo venne da
Rodman, e fu nel suo tipico stile. A metà stagione si lanciò su una palla
vagante e poi, sdraiato tra i cameramen lì ammassati, sotto gli occhi del
mondo intero decise di dare un calcio nell’inguine a uno dei fotografi. Un
gesto a dir poco stupido e gratuito, peraltro contro una di quelle figure che
negli anni erano state la cassa di risonanza delle imprese di Rodman e che
gli costò una sospensione di undici partite. Mentre era fuori, i suoi
compagni riuscirono a riempire il vuoto e ne vinsero dieci. Ma Rodman
saltò altre tredici partite a fine stagione, a causa di una slogatura al
collaterale del ginocchio, e Chicago ne perse quattro. Con lui in campo, i
Bulls erano chiaramente una grande squadra, apparentemente senza punti
deboli: quarantotto vittorie e sette sconfitte, perfettamente in linea per
battere il record della stagione precedente, se l’avessero desiderato. Senza
lui, il record era 21-6: quello di una buona squadra ma nulla più, che
doveva lavorare molto di più del solito in difesa e che era vulnerabile,
specialmente contro avversari che avevano lunghi veloci e potenti. Le
statistiche, però, raccontavano solo parte della storia. Con Rodman, i Bulls
prendevano in media 17 rimbalzi offensivi e 47 totali a partita; senza di lui
ne prendevano 13 offensivi e 42 totali.
Nel 1997, le Finals furono un po’ più difficili perché Pippen aveva subito
un brutto infortunio a un piede nell’ultima gara della serie contro Miami e
Rodman, ancora convalescente dall’infortunio al ginocchio, sembrava
sottotono. Ma un acquisto realizzato verso fine stagione da Krause fece una
grossa differenza: Brian Wilson diede loro la necessaria stazza e la velocità
sotto canestro per sconfiggere Utah. Alla fine, la differenza in negativo
rispetto all’anno prima fu del tutto trascurabile: ai playoff del 1996, i Bulls
avevano avuto un record di 15-3; nel 1997, nonostante gli infortuni, di 15-4.
Se c’è una partita che rappresentò perfettamente la trasformazione di
Michael Jordan nell’ultimo periodo della sua carriera e che consentì ai tifosi
di rendersi conto del livello che aveva raggiunto – grazie al suo talento, ma
non solo – fu Gara Cinque delle Finals del 1997, quando, molto malato, non
solo giocò ma dominò la partita. Sembrava a malapena in grado di reggersi
in piedi e sicuramente non di scendere in campo, eppure segnò 38 punti, 15
nell’ultimo quarto.
Era consapevole di essere vicino alla fine dal suo viaggio tra i
professionisti. Non era più un ragazzino che giocava coi grandi, era un
adulto a tutti gli effetti, un uomo molto coscienzioso, un multimilionario
con una grande esperienza sportiva, una grande esperienza con i media e
una grande esperienza negli affari, nonché un astuto negoziatore in tutti e
tre i campi. Quando Jim Riswold, dell’agenzia pubblicitaria Wieden &
Kennedy, gli suggerì una pubblicità che avrebbe mostrato lui e Tiger Woods
da piccoli – mentre guidavano macchinine a pedali e giocavano a minigolf
–, si oppose: capiva l’idea, si rendeva conto che era una grande idea per una
pubblicità potenzialmente straordinaria e ammirava molto Tiger; conscio
dello schiacciasassi che i media stavano facendo passare su Woods, era
diventato una sorta di consigliere per lui. Ma quello non era più lui: non era
più un ragazzino, era molto professionale in tutti gli aspetti della vita e non
c’è da stupirsi che gli spot della Nike della sua ultima stagione lo
dipingessero come un manager.
Era un ottimo compagno di squadra. Una certa crudeltà e una certa
determinazione a distruggere alcuni compagni durante gli allenamenti, che
erano state il suo marchio di fabbrica quando era giovane, ora se n’erano
andate. Ci fu una spiacevole scazzottata nell’estate del 1995, quando
Michael se la prese con Steve Kerr, decisamente più piccolo. Nessuno era
sicuro di quale fosse stata l’esatta causa, ma era chiaramente una
combinazione di cose: la frustrazione di Jordan per le sue scarse prestazioni
della primavera precedente, alcuni diverbi sul ruolo di Kerr come
rappresentante della squadra presso il sindacato dei giocatori e la
sensazione che Kerr non stesse nascondendo il suo disappunto per il fatto
che Jordan non gli passava la palla quando era libero. Ma Kerr, un giocatore
molto duro e decisamente spigoloso, si era fatto valere e questo per Jordan
contava molto. Aveva risposto a ogni gomitata di Jordan e a ogni suo pugno
e quella stessa sera Jordan lo aveva chiamato per scusarsi, una cosa che
nelle sue incarnazioni precedenti non avrebbe fatto in maniera così
repentina. Da lì in poi, i due non ebbero più problemi.
Ma anche se si comportava meglio coi compagni, era più distaccato che
mai da loro. Erano come impiegati che condividevano l’ufficio e
lavoravano insieme, ma quando la sera finivano, se ne andavano ognuno per
la propria strada. I suoi compagni lo capivano, capivano le pressioni che
subiva e che quello che si richiedeva a lui era così differente che era
impossibile per lui condividerlo con loro. Sapevano che non poteva
mostrare troppo di se stesso, per paura che anche una piccola confidenza
finisse su qualche giornale o rivista.
Sapeva che in tutto questo grande circo che circondava la sua vita, l’unica
cosa reale era il suo amore per il basket. Di solito, quando i playoff si
avvicinavano, l’ultima cosa che voleva era essere infastidito da una
pubblicità, ma quell’anno la Nike gliene propose una che riguardava
proprio l’amore per il gioco.
Jim Riswold aveva dovuto scriverla e riscriverla più volte per trovare una
versione che lo soddisfacesse. La prima volta era una cosa tipo: «Puoi
trovare la mia faccia ovunque, ma c’è un solo posto dove puoi trovare la
mia anima: un campo da basket». A Riswold piaceva ma continuò a
lavorarci finché una notte scarabocchiò queste parole su un tovagliolino da
cocktail: «E se il mio nome non fosse sotto i riflettori? E se la mia faccia
non fosse in televisione ogni secondo? Se non ci fosse una folla che mi
aspetta a ogni angolo? Riesci a immaginarlo?» Pausa. «Io sì». Avrebbe
dovuto essere filmata in una palestra completamente al buio, con Jordan da
solo che si allenava sui tiri liberi. Jordan l’adorò. Disse a Riswold che
quello era esattamente il modo in cui si sentiva riguardo al gioco, ma
soprattutto alla celebrità che stava ingolfando la sua vita. Playoff o no, disse
a Riswold che lo avrebbe girato.
Viveva in un quartiere di Chicago relativamente tranquillo e la sua vita
privata rimase sempre molto privata. La cosa non era scontata, date la
potenza dei riflettori sotto cui viveva e l’apparente convinzione dei media
che non ci fosse più nulla al mondo di realmente privato. Nel 1989, a Las
Vegas, aveva sposato Juanita Vanoy, ex modella e segretaria, dieci mesi
dopo la nascita del loro primo figlio Jeffrey; sarebbero arrivati due altri
figli, Marcus e Jasmine. A livello locale, tenne il profilo più basso che
poteva. La NBC chiese ad Ahmad Rashad, un commentatore che era
diventato un suo amico intimo, di realizzare un servizio su quello che
faceva Michael Jordan nei suoi giorni liberi. Rashad disse loro: «Sareste
sorpresi da quanto è normale, fa quello che un sacco di altri uomini fanno
con le loro famiglie nei loro giorni liberi: porta i figli a scuola e fa un sacco
di noiose commissioni». La differenza, secondo Rashad, era che i suoi
vicini capivano il fardello della sua celebrità. Erano abituati agli
appostamenti e al fatto che lui cercasse di evitarli e gli garantivano la
privacy che voleva. Il caos iniziava solo quando si avventurava in altre aree
di Chicago o in altre città, dove le sue visite erano inaspettate e dove si
radunavano folle smisurate.
Per le sue molte occasioni di vita sociale (e alcune di affari) era il mondo
che tendeva ad andare da lui, perché per lui uscire era sempre più difficile.
Tra quelli che frequentava più spesso c’era Buzz Peterson, il suo vecchio
compagno di squadra nel campo di Dean Smith. Erano rimasti molto amici,
così come le loro famiglie, e a volte andavano in vacanza insieme alle
Hawaii. La carriera di Peterson era stata rovinata da una serie di infortuni e
non era mai davvero sbocciata. Era stato preso dai Cleveland Cavaliers con
la diciassettesima scelta al draft e aveva giocato per un po’ in Europa, prima
di realizzare che il suo futuro sarebbe stato da allenatore, non da giocatore.
Per un periodo si mosse seguendo i contatti di Carolina, lavorando per
Eddie Fogler, uno dei vecchi assistenti di Smith, a Vanderbilt. A metà anni
novanta, Peterson stava allenando Appalachian State a Boone, Carolina del
Nord, e stava facendo molto bene.
Una primavera, Michael Jordan lo invitò a Chicago per stare con lui
durante i playoff. Si trovavano straordinariamente bene tra loro e l’enorme
differenza nelle curve delle loro carriere non aveva in nessun modo
intaccato l’affetto reciproco. Era la quintessenza di Michael Jordan, un
riflesso del suo forte senso di lealtà e dell’amicizia. Lui e Peterson erano
stati amici per almeno quindici anni e nulla si era messo tra loro, nemmeno
le impressionanti ricchezza, fama e successo di Michael e ogni volta, anche
se era passato del tempo, potevano riprendere la loro amicizia da dove
l’avevano interrotta. Se c’erano delle tensioni tra i due, dipendevano dai
rispettivi dress code. Michael aveva un’attenzione maniacale per il suo
abbigliamento e voleva avere stile anche sul campo da golf, mentre Buzz si
accontentava di vestiti di seconda mano; quindi litigavano spesso prima di
uscire, con Michael che cercava di dare a Peterson dei vestiti più alla moda.
Un giorno, mentre stavano per iniziare una partita di golf, Jordan gli
disse: «Voglio ringraziarti per una cosa». «Che cosa?» rispose Peterson.
«Mi hai reso davvero un ottimo giocatore di basket». «E come?» chiese
Peterson perplesso. «Beh, a Carolina tu eri il migliore, non io. Eri tu quello
che avrebbe iniziato una grande carriera e tutti a casa dicevano che tu ti
saresti affermato e io no. Tutte quelle persone mi hanno detto che non avrei
mai giocato perché ero la tua riserva, e che non avrei mai lasciato la
panchina. E così ogni giorno che ci allenavamo, io mi dicevo ‘Devi
diventare meglio di lui, devi migliorare, devi fare gli esercizi meglio di
come li fa lui, devi tirare meglio di lui e devi lavorare sulla tua difesa’. Ogni
volta che facevamo un esercizio, io mi dicevo che dovevo farlo meglio di
te». Quella confessione lasciò Peterson senza parole, non era sicuro di saper
rispondere ma alla fine disse: «Perché non me l’hai detto prima? Avrei
voluto anch’io competere con te». Più tardi capì però che, anche se per gli
standard di Michael aveva dormito sugli allori, era stato felice di essere se
stesso, felice di essere a Chapel Hill e non aveva mai pensato di dover
diventare migliore. Capì che per eccellere gli era mancata una certa rabbia.
Jordan non si interessava di politica e non era a suo agio con quella nuova
parte della vita delle celebrità americane che prevedeva una loro presa di
posizione su qualunque questione politica o sociale, che ne avessero le
qualifiche o meno. Rifiutava tutte le richieste di endorsement che non
fossero strettamente pubblicitarie, tranne per cause speciali, come una
campagna contro l’abbandono scolastico. La sua preoccupazione per gli
appoggi politici dipendeva in buona parte dalla sua paura che questi
potessero diminuire il suo valore di testimonial pubblicitario. Quando
Harvey Gantt, uno dei primi leader del movimento per i diritti civili degli
afroamericani, si candidò come senatore della Carolina del Nord contro
Jesse Helms, la nemesi dei neri di tutto lo Stato (e di molte altre persone),
sembrò ovvio che qualcuno che era nero e che era straordinariamente
popolare all’interno dello Stato esprimesse un’intenzione di voto. Ma
Jordan non prese posizione, facendo notare che anche i repubblicani
compravano sneakers.
Alcuni attivisti neri provavano perciò un certo risentimento nei suoi
confronti. Pensavano che, a differenza di altri eminenti atleti neri del
passato come Muhammad Ali o Arthur Ashe, Jordan non avesse fatto
abbastanza per la loro comunità. Sembrava una pretesa ingiusta: dopotutto,
a nessun affermato atleta bianco veniva chiesto di esporsi su ampie
questioni sociali. Nessuno aveva mai preteso che il tanto celebrato Joe
DiMaggio parlasse di diritti civili. Ma per i neri le cose erano sempre un po’
diverse: Arthur Ashe una volta aveva dichiarato che essere neri in America
era come avere un secondo lavoro a tempo pieno.
Ma forse Michael Jordan era diverso. Rappresentava una diversa
generazione di giovani afroamericani, per cui molte porte che un tempo
erano erano state chiuse (non solo per lo studio, ma anche dal punto di vista
commerciale e da quello sociale) erano ora spalancate, e lui stesso aveva
aiutato ad aprirne alcune esattamente quanto molti altri. In un certo senso
era capace di prendere una posizione sulla questione razziale, ma non tanto
con le sue parole, quanto con le sue azioni, con il modo in cui giocava nelle
partite decisive sotto pressioni asfissianti, con il modo in cui si comportava
sul campo e fuori, sotto il più intrusivo dei riflettori mediatici nella storia
moderna e infine anche con la sua astuzia nel campo degli affari. Nel suo
caso, era come se alcune cose non dovessero essere dette perché erano state
fatte.
L’altro motivo per cui non parlava molto di politica era chiaramente
perché non era molto bravo. Ad alcune persone veniva naturale, provavano
nelle loro stesse anime le sofferenze di cui parlavano; altri, semplicemente,
no. Spesso quelli che avevano questa dote erano cresciuti in famiglie dove
almeno uno dei genitori era in qualche modo coinvolto nella politica;
Jordan, invece, era cresciuto in una famiglia con codici di comportamento
rigidi ma del tutto borghesi, su come comportarsi, su come andare bene a
scuola e avere successo sul lavoro, senza manifestare alcun desiderio di
riscatto dal punto di vista politico o sociale. Anzi, gli insegnamenti della
famiglia Jordan erano stati di fatto l’opposto: quello che fu trasmesso a lui e
ai suoi fratelli furono le grandi possibilità che li aspettavano se avessero
lavorato duro, più che gli storici pregiudizi che le persone avevano dovuto
subire in passato; si insegnò loro che era importante e naturale avere amici
di entrambe le etnie e questo era quello che aveva sempre fatto. Quando un
giornalista menzionò la cosa parlando con Deloris Jordan, sottolineando
quanto fosse stata notevole la scalata di Michael (un giovane di colore che
stava per diventare una delle figure pubbliche più conosciute e più pagate al
mondo), la sua reazione immediata fu rispondere che tutta quell’enfasi sulla
questione razziale era una delle cose più sbagliate del Paese. Tutti
avrebbero dovuto ricordarsi che le persone sono innanzitutto persone.
La disinvoltura e la fiducia in se stesso che Jordan mostrava parlando coi
giornalisti nelle chiacchierate prima e dopo le partite – in cui si trattavano
temi che lui padroneggiava alla perfezione e in cui riusciva sempre ad avere
l’ultima parola contro gente che con le parole si guadagnava da vivere – e la
compostezza che aveva mostrato quando aveva avuto a che fare con registi
e operatori girando centinaia di pubblicità lo abbandonavano all’improvviso
quando si cominciava a parlare di politica. Non ne sapeva molto, non se ne
interessava particolarmente e non gli veniva naturale: diventava scostante e
si imbarazzava. Inoltre, come uno dei suoi amici faceva notare, c’era la
possibilità che le sue idee politiche non fossero esattamente le stesse di
quelle delle persone che cercavano di convincerlo a prendere una posizione
su molte battaglie. In effetti, era probabilmente più conservatore di quanto
ci si sarebbe aspettato. Quando il suo buon amico Charles Barkley aveva
detto a sua nonna che si sarebbe candidato come governatore per i
repubblicani, lei era rimasta scioccata: «Ma le uniche persone che votano
per i repubblicani sono i milionari!» aveva detto.
«Nonna, io sono un milionario».
Nulla rivela la maturazione di Michael Jordan negli ultimi tre anni della
sua carriera più del cambiamento del suo atteggiamento verso Scottie
Pippen. Per buona parte del primo periodo, Jordan aveva parlato poco di
Pippen e, in alcune occasioni in privato, anche abbastanza male. I suoi
dubbi sull’episodio dell’emicrania del 1990 erano evidenti, e anche dopo
che i Bulls ebbero vinto tre campionati, a volte sembrava, a chi era loro
attorno, che fosse stranamente distaccato da Scottie. Quello che gli dava
fastidio in quegli anni, secondo i compagni, era che Pippen non fosse
costante. Giocava grandi partite, in cui poteva realizzare una tripla doppia,
seguite da serate in cui scompariva. La vera grandezza nell’NBA dipendeva
più di ogni altra cosa dalla costanza. Il trio Bird-Parish-McHale faceva
sempre i suoi 60-65 punti a serata.
Dopo che Jordan tornò dal baseball, fu molto più generoso con Pippen, il
quale chiaramente era a sua volta maturato parecchio. «Scottie è il miglior
giocatore della squadra» disse in quelle prime settimane dopo il ritorno.
Sembrava apprezzare di più Pippen adesso e ne parlava come di un fratello.
La differenza, secondo B.J. Armstrong, era che quando Jordan era più
giovane non c’era nulla che non potesse fare in campo da solo: poteva fare
50 punti ogni volta che voleva, poteva portare la palla da un canestro
all’altro senza problemi, prendere tutti i tiri che voleva e farlo per tutta la
partita. Aveva bisogno di buoni compagni per vincere, ma non aveva
bisogno di buoni compagni per essere Michael Jordan. Ma ora, più vecchio
e con la necessità di conservare le energie e di dare alle partite il giusto
ritmo, realizzava che per essere Michael Jordan aveva bisogno di Scottie
Pippen. Per la prima volta, la dipendenza era reciproca. Aveva bisogno che
Pippen portasse la palla da un lato all’altro del campo e gliela servisse dove
lui la voleva, per controllare l’andamento della partita e adattarlo a un ritmo
accettabile per se stesso e per creare un’altra minaccia agli avversari sia in
attacco che in difesa. Quando iniziò la seconda serie di anelli, secondo
Armstrong, sapevano entrambi molto bene in ogni momento cosa l’altro
voleva e di cosa l’altro aveva bisogno. Erano l’uno nel cervello dell’altro,
un po’ come due gemelli.
Una delle ragioni per cui invece Jordan continuava a essere duro con
Jerry Krause era il modo in cui Krause trattava con gli altri Bulls, che erano
parti importanti della squadra ma vulnerabili nelle discussioni dei contratti.
Era il modo che Jordan aveva di essere un buon compagno di squadra. In
quelle trattative, credeva Jordan, Krause non era solo molto più severo e
ingeneroso di quanto fosse necessario, ma tendeva anche a sminuire la
controparte. Era una sensazione che risaliva alle trattative di Krause con
John Paxson, anche dopo che Paxson si era dimostrato un membro di valore
di una squadra in grado di vincere l’anello. Per gli standard NBA, era
decisamente sottopagato per essere la guardia titolare di una squadra
campione in carica: guadagnava meno di $500.000 all’anno e Jordan
credeva che Krause fosse stato troppo rigido, trattando Paxson come se non
potesse avere valore in nessun’altra squadra della Lega. Un anno, sconvolto
dal modo in cui stavano trattando Paxson, Jordan chiese a David Falk di
rappresentare il compagno di squadra e Falk riuscì a procacciargli un’ottima
offerta da San Antonio, almeno il triplo di quello che prendeva a Chicago,
in modo che i Bulls dovessero pareggiarla. Questo tipo di affari, nel tempo,
avrebbe creato rancore da entrambe le parti.
29
Chicago, 1998

La stagione 1997/98 arrivò al suo punto di svolta quando Scottie Pippen


tornò: i Bulls erano di nuovo la squadra da battere. La lunga assenza di
Pippen aveva costretto Jordan a dare molto di più di quanto tutti volessero
nella prima parte di stagione. Il lato positivo era che Pippen era più fresco.
La squadra era meno costante che in passato: l’intensità, la concentrazione e
la stabilità mentale erano più importanti, ora, rispetto al puro talento e più
decisiva era una partita, meglio giocavano. La diretta conseguenza di ciò
era però una tendenza a distrarsi nelle partite che contavano meno. Tex
Winter, pessimista ufficiale della dirigenza, continuava a rimuginare, sicuro
che le cose non stessero andando bene. Restò pessimista per buona parte
della stagione, divertendosi a lanciare profezie apocalittiche. I giocatori lo
avevano soprannominato ‘Mister No’. Tipica fu una partita di preseason
contro Philadelphia, una squadra giovane che stava cercando di darsi
un’identità inserendo alcuni ragazzi di talento, che però non sembravano
assemblati granché bene. Quella sera, però, Philly giocò bene e Winter
lasciò il palazzetto, preoccupato di quanto sarebbero diventati forti i 76ers.
«Tex» disse Jackson, «saranno fortunati se vinceranno trenta partite».
«Phil» rispose Winter, «sono più talentuosi di noi».
«Non è una questione di talento. È la costanza mentale, è l’attitudine a
giocare come collettivo. Saranno fortunati se vinceranno trenta partite». Ne
vinsero trentuno e arrivarono ultimi nella loro Division.
«Quante partite possiamo vincere senza Scottie?» gli chiese Winter.
«Sessanta, se Scottie torna per metà stagione» rispose Jackson.
Jackson pensava che, se fosse andato tutto bene, i Bulls avrebbero potuto
vincere cinquantacinque partite senza grossi problemi e avere una piccola
chance di arrivare a sessanta. La coesione offensiva che avevano con
Pippen dava loro una fluidità che prima era mancata: gli avversari non
potevano più concentrarsi su Jordan come facevano prima. Man mano che il
numero di vittorie aumentava, tutti i giocatori diventarono più fiduciosi.
C’era però la diffusa sensazione che Dennis Rodman si stesse distraendo un
po’ di più, ora che la squadra aveva meno bisogno di lui. A fine gennaio,
saltò un allenamento prima di una partita contro New Jersey e Jackson lo
rispedì a casa.
Più lo conosceva, più Jackson era sicuro che quello con cui il suo
giocatore stava combattendo era un deficit dell’attenzione, quasi
sicuramente una condizione genetica, che limitava severamente l’abilità di
un individuo di concentrarsi, causando frustrazione e, in parallelo,
sociopatia. Tutti sintomi di Rodman – si annoiava facilmente, reagiva in
maniera negativa anche al minimo segno di autorità, aveva sia l’istinto a
mettere in pericolo la sua carriera, ancora e ancora, in modi assolutamente
gratuiti e superflui, che esplosioni di iperattività – erano le classiche
manifestazioni di quel disturbo. Come lo era il fatto che, quando aveva
realizzato di essere un buon giocatore di basket (l’unica cosa che sapeva
veramente fare), aveva lavorato così tanto per perfezionarsi. Era tipico delle
persone con un disturbo dell’attenzione: frustrate da tutto il resto, una volta
che trovavano la loro vera vocazione erano implacabili. Secondo Jackson,
perfino il fatto che Rodman amasse così tanto Las Vegas e che tendesse ad
andarci ogni volta che poteva era un segno di quel disturbo: per qualcuno
che si annoiava così facilmente, Las Vegas, con i suoi costanti rumori e tutte
quelle luci artificiali, era una sorta di paradiso. Ogni anno, durante i playoff,
i Bulls finivano sempre più al centro dell’attenzione nazionale e Jackson
riceveva lettere da insegnanti di sostegno di tutto il Paese che avevano a che
fare principalmente con ragazzi con deficit dell’attenzione, e che notavano
che molti dei loro studenti avevano gli stessi sintomi di Rodman. Per loro,
Dennis era un simbolo: potevano mostrare ai loro studenti che qualcuno con
i loro stessi problemi aveva avuto una grande carriera.
Tuttavia, Rodman stava diventando una nota sempre più dissonante, pur
non desiderandolo, e Jackson a volte parlava di lui con la squadra,
chiedendo di comprenderlo. Il resto della stagione sarebbe stato difficile,
diceva, e Rodman si stava ovviamente allontanando, ma loro ne avevano
bisogno. Anzi, non solo ne avevano bisogno, ricordò Jackson, ma a loro
piaceva anche: in tutte le tribù indiane c’è qualcuno come Rodman, uno che
va controcorrente – Heyokah, in lingua Sioux –, il bastian contrario, quello
che deve sempre opporsi al buon senso. Era un omaggio alla maturità e alla
professionalità degli altri giocatori, e l’abilità e l’onestà con cui Jackson era
riuscito a inserire un giocatore difficile in una squadra così forte e riflessiva
facevano sì che gli altri giocatori non portassero mai rancore per il
comportamento di Rodman, o per il fatto che Jackson gli concedesse un po’
di più che agli altri. Tra gli altri giocatori e lo staff tecnico c’era un tacito
accordo: avevano sacrificato molto per avere questo ultimo tentativo di
vincere il campionato, avevano bisogno di Rodman per farlo e amavano
Dennis, nonostante tutto. Dal loro punto di vista, nessun altro allenatore
avrebbe potuto ottenere così tanto da lui per così tanto tempo. Ma tutta
quella recita traballava. Tex Winter disse a Jackson, più avanti nella
stagione: «Non so come fai a sopportarlo. Non potrei mai avere a che fare
con un giocatore del genere. Non avrei la pazienza». L’ironia di tutta quella
situazione, secondo Jackson, era che, anche se non riusciva a pensare a due
americani culturalmente più differenti di Winter (uno degli ultimi prodotti
duri e puri della Grande Depressione) e Rodman, nessuno lavorò meglio e
in modo più affettuoso con Rodman rimanendo spesso fino a tardi, dopo gli
allenamenti, per concentrarsi su alcuni fondamentali. Rodman sembrava
amare Winter e a Winter sembrava piacere Rodman.
A volte, durante quella stagione, i Bulls parevano una squadra tenuta
insieme con lo sputo. Se avessero dovuto diventare così vecchi era una
questione interessante. A causa della free agency, il modo di assemblare una
squadra di basket era molto diverso: il draft era meno importante e contava
di più l’abilità nell’ingaggiare svincolati di talento. Ovviamente, i Bulls
avevano un grande potenziale di attrattiva perché potevano usare Jordan,
Pippen e Jackson per sedurre i free-agent giusti e portarli a Chicago:
chiunque voleva giocare con Jordan. Ma quella era una strada molto
difficile per Krause. Aveva parlato esplicitamente dei suoi piani per
costruire la squadra dopo Jordan e il fatto che Jordan avesse un ruolo
principale nel formarla avrebbe rovinato tutto. L’unico giocatore su cui
Krause chiese aiuto a Jordan fu Kukocˇ, ma Jordan non volle saperne.
I Bulls non erano quasi mai particolarmente brillanti in attacco, ma
c’erano momenti in cui alzavano all’improvviso la pressione in difesa e
diventavano letali. Il numero di vittorie continuava ad aumentare
costantemente. A inizio febbraio, Michael Jordan andò a New York per
giocare l’All Star Game. Anche se aveva l’influenza, e anche se si parlava
molto di una giovane stella dell’ovest di nome Kobe Bryant, Jordan mise la
sua firma sulla partita e fu nominato MVP.
L’onda lunga dei dissidi con la dirigenza non influenzò mai le sue
prestazioni in campo. Jackson, sempre molto astuto, usava quelle tensioni
come un modo per creare coesione nella squadra, incoraggiando un
atteggiamento da ‘noi contro tutti’: i Bulls non avrebbero dovuto solo
affrontare Lakers, Pacers, Knicks, Jazz e SuperSonics, ma anche la loro
stessa dirigenza. Molto di ciò era implicito nel fatto che Jackson aveva
definito la stagione ‘l’Ultimo Ballo’: l’idea era che avrebbero affrontato
quest’ultima avventura da orfani, e non importava che fossero i campioni in
carica. Jackson e tutti i giocatori, da Jordan in giù, credevano che la
proprietà avesse ricostituito la squadra per un ultimo tentativo con enorme
riluttanza, come se non volessero avere la responsabilità di smantellarla.
Certo, i tifosi credevano che quella stagione fosse la fine di qualcosa che
non avrebbero mai più rivisto. Spinti dalla diffusa convinzione che
quell’anno sarebbe stato il canto del cigno di Jordan e che quindi la sua
apparizione in molti dei palazzetti sarebbe stata l’ultima, l’isteria raggiunse
nuove vette. C’erano almeno due troupe che stavano girando un
documentario e che lo seguivano costantemente, una delle due mandata
dalla stessa NBA. Dovunque i Bulls andassero, le partite erano sold out.
Quando giocarono ad Atlanta, 62.046 persone comprarono il biglietto,
molte delle quali non avrebbero visto nulla. A Philadelphia, un giornale
locale stampò uno speciale di cinquantadue pagine su di lui. Quando arrivò
a New York per giocare quella che avrebbe potuto essere l’ultima partita al
Madison Square Garden, Jordan indossò un paio di vecchie Air Jordan e
molti giornalisti interpretarono la cosa come un modo squisito (e piuttosto
commerciale) da parte di Michael di dire che quella era la sua ultima volta.
Dopo la partita, i giornalisti si affollarono in una stanza trasformata in sala
stampa e un buon numero di cinici ed affermati cronisti sportivi di New
York non solo portarono lì i loro figli piccoli, ma se li misero anche sulle
spalle, in modo che, un giorno, avrebbero potuto dire che avevano visto
Michael Jordan.
In ogni città dove la squadra alloggiava, moltissime persone affittavano
delle camere nell’hotel della squadra, solo per poter dire che erano stati
nello stesso hotel dei Chicago Bulls. Migliaia di curiosi si radunavano
intorno all’hotel all’ora in cui i Bulls sarebbero usciti per andare al
palazzetto, per vederli anche solo fare i due passi che separavano l’hotel e
l’autobus che li stava aspettando.
Ovviamente, i fotografi erano ovunque, e non solo i trenta o quaranta
ingaggiati da varie agenzie di informazione per fotografare Michael mentre
volava verso il canestro per schiacciare, ma anche altre migliaia: dilettanti
armati solo di macchinette usa e getta, che cercavano di immortalarlo
mentre saliva o scendeva dall’autobus o, meglio ancora, mentre entrava in
campo. Si sedevano ai loro posti e scattavano furiosamente mentre Michael
entrava sul campo prima della palla a due, facendo sembrare ogni
palazzetto un gigantesco albero di Natale. Volevano conservare quel
momento speciale come souvenir per il futuro: Jordan era solo un
minuscolo puntino, catturato da una piccola macchina fotografica da una
grande distanza, ma quella era comunque una prova (esattamente come
milioni di foto della Torre Eiffel o della Statua della Libertà) che sì, un
giorno loro erano stati lì e avevano visto giocare Michael Jordan.
La folla di giornalisti, americani e stranieri, che si affollava attorno allo
spogliatoio di Jordan divenne sempre più grande e le domande sempre più
esoteriche. Jonathan Eiger, un giovane giornalista che stava lavorando a un
pezzo per la carta stampata, si trovò dietro a un giornalista francese e diede
un’occhiata furtiva alle domande del collega: ‘1. Qual è la cosa più
importante per te? 2. Hai qualche eroe? 3. Cosa significa essere Michael
Jordan? 4. Quale figura storica ammiri di più? 5. Credi in Dio?’
Dopo aver iniziato l’anno con otto vittorie e sette sconfitte, i Bulls fecero
54-13 nel resto della stagione, con una media vittorie superiore all’80%. Il
loro record finale fu di sessantadue vittorie e venti sconfitte, il migliore
della Lega a pari con Utah. Il giorno dopo la fine della stagione, Jackson
arrivò in una riunione dello staff tecnico con un largo sorriso: «Non so voi»
disse ai suoi assistenti, «ma io ho una clausola del mio contratto che parla di
un bonus di $50.000 in caso di record migliore». Durante le concitate
trattative sul contratto di Jackson dell’anno prima, la dirigenza aveva
chiarito che i 6 milioni che stavano dando a Jackson dovevano essere un
incentivo sufficiente, e che non c’era nessun bisogno di bonus: Jackson e
Todd Musburger erano d’accordo, ma quando il contratto fu effettivamente
scritto, quelle clausole furono lasciate dentro per errore. Jackson era molto
divertito da questo colpo di fortuna, un errore che valeva più del suo intero
salario degli anni nei campionati locali. Reinsdorf invece non si divertiva
affatto: sostenne che i Bulls non avevano il record migliore delle NBA,
visto che avevano perso il vantaggio del campo contro i Jazz, dunque la
clausola non era applicabile. Alla fine, si accordarono per un bonus di
$25.000.
Mentre la squadra si stava preparando per i playoff, Jackson organizzò
una riunione speciale con giocatori, staff tecnico e preparatori. Era
fermamente convinto che per quanto l’anello fosse un premio importante, il
vero premio fosse il viaggio in sé: l’amicizia e la connessione umana che,
negli ultimi anni, li aveva uniti nei giorni buoni e in quelli meno buoni.
Poiché era probabilmente l’ultima volta in cui sarebbero stati insieme,
chiese a tutti di chiudere in bellezza una stagione difficile ma di grande
successo, scrivendo qualcosa, poche parole, magari addirittura una poesia,
sul tempo che avevano passato insieme e su quello che la stagione aveva
significato per ognuno di loro: cinquanta parole, o anche meno. Aveva
imparato quell’esercizio da sua moglie June, che lavorava in un ospizio e
che a volte faceva un esercizio simile con gli anziani che stavano morendo.
Alla fine, la squadra avrebbe bruciato tutti i messaggi in un bidone.
Secondo il preparatore Chip Schaefer, quella mossa era Phil Jackson allo
stato puro. Innanzitutto, a ben pochi allenatori sarebbe venuta in mente, e
anche di quelli ancor meno avrebbero avuto il coraggio di farlo davvero,
perché non sembrava una cosa da uomini. E anche se ne avesse avuto il
coraggio, davvero un altro allenatore sarebbe riuscito a coinvolgere un
gruppo di insensibili e cinici giovani milionari? Si rivelò un momento
incredibilmente commovente. Parteciparono tutti. Alcuni giocatori avevano
scritto delle lunghe dediche, mentre altri parlarono a braccio, senza appunti.
Alcuni parlarono di come gli anni a Chicago avessero cambiato le loro vite,
dei figli che erano nati lì, del piacere di giocare insieme a grandissimi come
Jordan o Pippen e dell’emozione di aver vinto ben due anelli. Il discorso più
toccante fu probabilmente quello di Ron Harper, che parlò di cosa aveva
significato avere il ruolo, limitato e ben poco affascinante, dello specialista
difensivo, dopo essere stato per anni la stella di squadre molto più scarse.
Ma era molto più dolce, disse, essere solo un ingranaggio di una squadra
vincente, che una superstar in una meno forte.
La cosa sorprendente fu il grado di intimità. Uomini come quelli, atleti
professionisti, non erano abituati ad aprirsi emotivamente: il codice non
scritto e machista dello spogliatoio prevedeva che alcune emozioni,
semplicemente, non andassero mostrate. La rabbia (contro gli arbitri, contro
gli avversari, contro l’allenatore, perfino contro i compagni di squadra)
andava bene, ma qualunque emozione più complessa poteva essere vista
come un segno di debolezza. Anche Michael Jordan parlò. Aveva scritto
una breve poesia, il che sorprese alcuni dei suoi compagni di squadra,
perché Jordan di solito era molto abbottonato: viveva nella sua bolla, gli
piaceva conoscere i sentimenti degli altri giocatori e le loro debolezze, ma
non voleva che nessuno conoscesse i suoi. Ma la poesia era delicata e
soave: era la fine? chiedeva. E se era la fine, cosa aveva in serbo il futuro?
Il fatto che anche lui avesse partecipato significò molto per tutti gli altri.
Nel primo turno dei playoff, i Bulls affrontarono New Jersey. I Nets erano
stati per molto tempo una delle franchigie più disastrate della Lega, ma ora
erano un’ottima squadra, con giocatori di talento: Jayson Williams, che si
stava rivelando uno dei migliori rimbalzisti della Lega; Keith Van Horn, un
rookie molto interessante, esplosivo sotto canestro e con un’eccezionale
media nel tiro da fuori; Kerry Kittles, un giocatore giovane ma già molto
stimato; e Kendall Gill, per molto tempo una delle migliori guardie della
Lega. Il playmaker Sam Cassell aveva talento, ma a volte era più un
problema che altro perché aveva la tendenza a distribuire il pallone
innanzitutto a se stesso. Erano giovani, affamati e in crescita, molto più
divertenti da guardare dei loro cugini sull’altra sponda dell’Hudson, i
Knicks, che giocavano in maniera molto fisica, cercando di sfiancare gli
avversari quando non direttamente di abbatterli. Con un po’ di fortuna e se
nessuno avesse deciso di diventare un free-agent, in pochi anni i Nets
avrebbero potuto diventare una delle squadre migliori dell’NBA.
Se i Bulls fossero o meno pronti per i primi turni di playoff, era una
questione ancora aperta. Avevano vinto sessantadue partite ma non erano
stati così impressionanti come nella stagione passata; altre squadre si
stavano accorgendo della loro età avanzata e in effetti sembrava che
giocassero solo a folate, più che per intere partite. «Sono invecchiati un
anno ma non sono migliorati» disse il coach di Seattle George Karl. Il
numero del Chicago Tribune che uscì subito prima dei playoff aveva un
articolo di Bernie Lincicome dal titolo ‘I BULLS SONO TROPPO STANCHI PER
L’ULTIMA MARATONA’. Nell’articolo si leggeva che i Bulls «devono rendersi
conto che il loro tempo è passato. Sono morti che palleggiano». In Gara
Uno, Chicago sembrò entrare in campo senza preoccupazioni, come se non
prendesse seriamente sul serio gli avversari, finché non fu quasi troppo
tardi. Anche se Williams giocò con il gesso a causa di un pollice rotto, e
Van Horn si perse buona parte della gara a causa di un’influenza che lo
costrinse a stare attaccato a un respiratore fino a poco prima di entrare in
campo, i Nets presero 53 rimbalzi contro i 39 dei Bulls e in generale
giocarono con molto più entusiasmo. Chicago ebbe la possibilità di
chiudere la partita all’inizio del terzo quarto, ma lasciò che gli ospiti
rimanessero in corsa. I Nets avrebbero già potuto vincere durante il tempo
regolamentare, se Kittles non avesse sbagliato un tiro dalla media distanza.
Si andò all’overtime sulla parità 89-89, ma anche nei supplementari i Bulls
continuarono a giocare piuttosto male. Dopo più di quattro minuti, il
punteggio era 91 pari, Kittles aveva la palla in mano e passò la linea di metà
campo con quarantacinque secondi ancora da giocare. Jordan lo stava
marcando e cominciò a portarlo a sinistra, verso la sua mano debole.
Appena Kittles si spostò a destra, Jordan lo anticipò, gli rubò la palla, si
fece tutto il campo e schiacciò, con Kendall Gill che saltava dietro di lui.
Mentre era in aria, Gill arrivò alle sue spalle e commise fallo, ma Jordan
riuscì comunque a segnare. Il tiro libero supplementare diede ai Bulls un
vantaggio di 3 punti. Nel possesso successivo, Gill arrivò sulla linea di
fondo e cercò di schiacciare ma Pippen, con una grande giocata difensiva,
lo stoppò. I Bulls avevano vinto, ma non era stata una partita memorabile.
Jordan non aveva tirato molto bene (11/27 dal campo) ma era andato in
lunetta 23 volte, quasi quanto l’intera squadra avversaria, segnando 17 tiri
liberi.
Se la prima partita doveva essere una sveglia, i Bulls non la sentirono. In
Gara Due partirono anche bene, e a quattro minuti dalla fine del terzo
quarto erano avanti di 20. Ma poi andarono in letargo, attaccando senza
troppa logica e sbagliando tiri liberi. Alla fine del terzo periodo, il
vantaggio si era ridotto a 11 punti e, all’inizio del quarto, addirittura a 7.
Dopo un canestro di Toni Kukocˇ e uno di Chris Gatling, Steve Kerr mise
fine al parziale dei Nets segnando da tre. Alla fine vinsero ancora, ma non
certo in modo trascendentale. Erano in vantaggio di due partite ma
sembravano abulici e privi del loro killer instinct. Nella terza partita, la
prima in trasferta, finalmente giocarono come campioni. Fu una lezione di
basket sia in attacco che in difesa: tutto quello che facevano sembrava
andare bene. Jordan chiuse con 15/22, 38 punti. I giovani, allegri ed
esuberanti Nets erano stati spazzati via. Ora, il numero magico era dodici.
I prossimi erano i Charlotte Hornets. Era una squadra complicata, una
franchigia problematica: solo pochi anni prima, Charlotte aveva cercato di
imporsi come un modello di nuova e moderna franchigia in espansione, con
un nuovo e moderno palazzetto in una nuova e moderna città della Sunbelt,
dove i dirigenti, i giocatori e i tifosi avrebbero fatto tutto come si doveva.
Gli Hornets scelsero bene ai primi draft, ingaggiando giocatori di talento e
guadagnandosi in modo abile il supporto dei tifosi. Poi, nell’autunno del
1993, Larry Johnson, una di quelle tante stelle della moderna pallacanestro
che lasciavano perplessi, perché non si capiva bene se fossero davvero dei
buoni giocatori, aveva firmato un contratto inspiegabilmente oneroso e
molto lungo, uno dei primi a cambiare la natura stessa degli ingaggi NBA:
dodici anni per 84 milioni di dollari totali. Lo firmò più o meno nello stesso
periodo in cui la schiena cominciò a tormentarlo e in cui la sua abilità di
andare a rimbalzo cominciò a declinare in modo precipitoso. Anche il suo
comportamento fuori dal campo iniziò a dare segni di cedimento: era stato
un componente del famigerato Dream Team Two, il cui comportamento ai
mondiali di Toronto del 1994 era riuscito a offendere praticamente tutti,
allenatori, media e giocatori stranieri. Johnson sembrava non essere in
sintonia con il suo compagno di squadra di Charlotte Alonzo Mourning, un
centro giovane e talentuoso, e quando Johnson firmò il suo nuovo contratto,
Mourning, rappresentato da David Falk, se ne andò subito a Miami. Il
periodo di Johnson a Charlotte divenne sempre meno felice, e alla fine fu
venduto a New York, scambiato con l’altrettanto problematico Anthony
Mason, uno dei giocatori più fisici della Lega ma anche un ragazzo che
sembrava sempre scontento di qualcosa.
Mason aveva un fisico da giocatore di football – più di 2 m per quelli che
sembravano a occhio e croce 115 kg –, giocava in modo molto fisico, era
solido in difesa, specialmente contro avversari più alti, che riusciva ad
allontanare dalle loro zone preferite del campo, e aveva un buon tiro dalla
media distanza. Ma come molti giocatori di NBA non aveva una reale
concezione dei suoi stessi limiti: poiché gestiva la palla abbastanza bene per
essere un centro, gli piaceva palleggiare. Faceva fatica a capire gli spazi del
campo e il movimento complessivo della squadra, e tendeva a tenere troppo
il pallone in mano, palleggiando all’infinito e dando agli avversari
l’opportunità di riposizionarsi in difesa. Proprio per questo, Mason aveva
passato buona parte della stagione a litigare con l’allenatore di Charlotte
Dave Cowens, un uomo che proveniva da un’era del basket più tranquilla,
dove l’ego era meno importante.
I Bulls avevano già affrontato Mason in una serie playoff quando giocava
nei Knicks, ma ora era il giocatore perfetto per Rodman, che era molto più
veloce coi piedi e molto più agile sia di corpo che di testa. Per alcune
squadre, Mason era un giocatore molto difficile da marcare, ma in questa
serie l’accoppiamento sarebbe stato favorevole ai Bulls, senza che il povero
Mason, in apparenza, capisse nemmeno il perché.
Nella prima partita, i Bulls partirono piano e dopo il primo quarto
Charlotte era avanti 23-15, ma poi Jordan cominciò a fare sul serio e
Chicago infilò un parziale di 16-0. Dopo aver segnato 12 dei primi 23 tiri,
gli Hornets affrontarono una prolungata siccità tra il secondo e terzo quarto,
quando segnarono solo 4 tiri su 23. Anche se non tutti i meccanismi
funzionarono alla perfezione, Chicago giocò abbastanza bene in attacco e
Pippen marcò molto bene Glen Rice, la talentuosa guardia degli Hornets,
che chiuse con 9/25. I Bulls vinsero facilmente 83-70, ancora una volta,
grazie alla difesa.
Charlotte accennò una rimonta in Gara Due. I Bulls, apparentemente
sicuri di aver preso le misure agli Hornets e troppo in fiducia, giocarono
molto male. Sicuramente Chicago faceva troppo affidamento sulle proprie
abilità difensive, come se potessero chiudere la porta agli avversari ogni
volta che volevano. Questa volta, giocarono in modo fiacco e fecero ancora
molta fatica in attacco, eppure iniziarono il quarto quarto avanti di 8, dopo
aver concesso a Charlotte solo 49 punti nei primi tre periodi. Ma le guardie
di Charlotte cambiarono passo: nel quarto quarto, l’ex Bull B.J. Armstrong,
che era stato lasciato andare a metà stagione, segnò 8 punti e Dell Curry 13.
Fu una partita dura e poco gradevole, ma Charlotte vinse. Per gli Hornets
avrebbe potuto essere uno spartiacque importante, perché i Bulls avevano
perso il vantaggio del campo. Ma la difesa dei Bulls fu ancora all’altezza
della situazione e le altre partite non furono mai in discussione. Charlotte,
che durante la stagione aveva avuto una media di 96 punti a partita, fu
tenuta a una media di 82 e Mason, che sembrava imponente e minaccioso
contro buona parte delle altre squadre, appariva lento e quasi imbarazzante
contro Rodman, che prese dai 7 ai 17 rimbalzi più di lui ogni partita; Rice,
uno dei migliori marcatori della Lega, fu tenuto a una media di 20 punti a
partita, contro i 22 della Regular Season. Ma durante i playoff NBA è
cruciale che i grandi giocatori giochino meglio che nella Regular Season.
30
Chicago; Indianapolis, 1998

La squadra di Indiana che giocò contro Chicago nella finale di Conference


era piena di sorprese e la prima era l’allenatore, Larry Bird. Per molti anche
il semplice fatto che avesse scelto di sedersi in panchina era stata una
sorpresa e lo era ancora di più il fatto che si fosse rivelato molto bravo.
Nella sua prima stagione, fu nominato Allenatore dell’anno. Tutto ciò era
contrario a una delle convinzioni più diffuse in tutto il mondo dello sport,
cioè che le superstar non possano diventare buoni allenatori e dirigenti
perché per loro era stato tutto troppo facile, perché non avevano provato la
frustrazione che colpiva i giocatori normali, e perché essendo arrivati sulla
vetta della montagna, in panchina avrebbero avuto meno motivazioni
rispetto a uomini le cui carriere erano state decisamente più limitate e che
avevano bisogno di dimostrare cose che non erano riusciti a dimostrare in
campo.
Inoltre, molte persone avevano l’idea che Bird non fosse particolarmente
intelligente. Era un’immagine a cui nessuno aveva lavorato meglio di Bird
stesso: spiritoso, dotato di battuta pronta e ironia pungente, Bird per molto
tempo aveva nascosto la sua intelligenza ai media e al resto del mondo
meglio che aveva potuto fingendo di essere rimasto un ingenuo ragazzo di
campagna dell’Indiana. Aveva deliberatamente fatto sì che ben pochi
giornalisti lo conoscessero bene e quelli che riuscivano ad avvicinarlo
dovevano dimostrare per un lungo tempo il loro amore per il basket: una
sorta di rito di iniziazione. Uno dei pochi che gli era stato vicino era Bob
Ryan del Boston Globe: parte del suo lavoro era tradurre le parole e le
azioni di Bird in un linguaggio comprensibile al resto del mondo del basket.
Ryan una volta disse che Bird «si ostinava a rimanere un ignorante»,
un’espressione che avrebbe suscitato grande scandalo tra i difensori del
politicamente corretto. In realtà era una definizione di meravigliosa
accuratezza, perché Larry Bird voleva sapere solo quello che aveva bisogno
di sapere e nulla di più. Si sentiva molto più a suo agio a lasciare che il
mondo lo credesse uno stupido, piuttosto che ad avere a che fare con le
grandi responsabilità in cui sarebbe inevitabilmente incorso se la gente
avesse pensato che era un tipo sveglio. Quelli che avevano giocato con lui e
contro di lui, però, sapevano quanto fosse brillante e calcolatore. Negli
ultimi anni aveva reso chiaro a tutti che era interessato ad allenare, ma alle
giuste condizioni.
Indiana era casa sua, e nel 1997, quando i Pacers si misero a cercare un
nuovo allenatore, il responsabile della squadra Donnie Walsh incontrò Bird.
Parlarono per circa un’ora e mezza e Walsh fu sorpreso da quanto Bird
fosse preparato e da quanto desiderasse quel lavoro. Descrisse con
precisione quello che avrebbe fatto: i suoi allenamenti sarebbero stati molto
duri, e i giocatori sarebbero stati in ottima forma già all’inizio della
stagione. Avrebbe preso due soli assistenti e li avrebbe riempiti di
responsabilità (altrimenti, perché pagare il loro stipendio?), avrebbe
preparato bene la squadra ma non avrebbe passato le partite a lamentarsi o a
strillare. Era la squadra che andava in campo, e non sarebbe stato lui a
gestire le partite dalla panchina. Non avrebbe imposto molte regole, ma
sarebbe stato molto severo su alcune infrazioni, come il ritardo. Era la
chiave per una squadra disciplinata. Walsh fu subito impressionato e lo
assunse. Bird aveva chiaramente un forte desiderio di allenare: conosceva i
punti forti e quelli deboli di tutti i componenti della squadra, conosceva il
modo per ottenere autorità e conosceva il gioco meglio di chiunque altro.
Anche se gli attuali giocatori dell’NBA sapevano ben poco della storia della
Lega, le magie di Bird erano sufficientemente recenti da essere impresse
anche nella memoria dei più giovani, e la sua carriera da giocatore sarebbe
stata sicuramente un importante bagaglio di legittimità e autorità. Inoltre,
Larry Bird era un uomo assolutamente onesto e semplice: Walsh questo già
lo sapeva, ma ora se ne rendeva conto più chiaramente che mai. Non
avrebbe mai fatto strani giochetti con le persone, non amava avere a che
fare con i media, ma i cronisti brillanti e che mostravano amore per il gioco
avrebbero ricevuto risposte altrettanto brillanti. Non avrebbe cercato di
imbrogliare nessuno né usato giri di parole: i giocatori avrebbero sempre
saputo cosa pensava o cosa si aspettava. Fu effettivamente molto severo fin
dall’inizio con chi era in ritardo: la prima infrazione comportava una multa
di $1.000, la seconda di 2.500$ e alla terza il giocatore sarebbe stato
sospeso. Forse il sindacato dei giocatori avrebbe avuto da ridire sull’ultima
parte, ma non ci si arrivò mai. Una volta, durante la preseason, quasi tutti i
giocatori erano sul loro charter e la scaletta stava per essere ritirata, quando
Travis Best e Dale Davis arrivarono all’aeroporto e attraversarono di corsa
la pista. Qualcuno chiese a Bird: «Vuole che abbassiamo la scaletta e li
facciamo salire?» «No» rispose, «andiamo». Era una lezione per tutti.
Qualche giorno dopo, Reggie Miller, guardia e stella della squadra, chiese a
Bob Ryan: «Ma per caso il coach ha fatto il militare?» «No» rispose Ryan,
ricordandosi però che quando i Celtics giocavano a San Antonio, c’erano
sempre un sacco di tifosi in uniforme che venivano dalle basi militari lì
vicino e Bird, vedendo quelle uniformi, dava sempre il massimo. «Ma gli
piace l’esercito e gli piace l’autorità».
Bird mantenne la parola e allenò di conseguenza: la disciplina all’interno
della squadra migliorò sensibilmente e a inizio stagione i Pacers erano già
in perfetta forma. Altre squadre avevano molti viceallenatori (i Bulls, per
esempio, ne avevano quattro), ma Bird ne aveva solo due. Walsh gli disse
che avrebbe potuto prenderne un terzo, ma Bird rispose: «E cosa me ne
faccio? Già così ho troppo poco lavoro». Aveva ancora un istinto
competitivo feroce. Prima di una partita contro Cleveland, il cui allenatore
era Mike Fratello, si rifiutò di rilasciare la consueta intervista prepartita a
Hubie Brown. Walsh fu immediatamente convocato per vedere se si poteva
risolvere il problema, e gli chiese: «Non ti piace Hubie?»
«Certo che mi piace, ma è un caro amico di Mike Fratello e gli riferirà
tutto quello che gli dico». Bird era così: non avrebbe fatto neppure
un’intervista, se non la riteneva utile, e non avrebbe mai aiutato un
allenatore avversario.
La sua squadra era diventata una sorta di estensione della sua stessa
personalità: quell’anno, giocarci contro era molto più difficile rispetto al
passato. Ma non era una squadra perfetta e alcune debolezze erano piuttosto
evidenti. Rik Smits era alto e aveva un buon tiro, ma non era molto atletico;
Antonio Davis e Dale Davis erano ottimi atleti ma non avevano grande
tecnica o un buon tiro. Il playmaker Mark Jackson gestiva l’attacco come
voleva Bird, ma era decisamente troppo lento per gli standard NBA. Reggie
Miller poteva giocarsela con Michael Jordan per il titolo di miglior tiratore
della Lega, ma non era altrettanto bravo a crearsi buoni tiri, e in difesa non
era nemmeno lontanamente forte quanto Jordan.
La grande abilità di Bird e dei suoi assistenti fu quella di nascondere i
difetti della squadra volta per volta, adattandosi agli avversari, esaltando i
punti forti e nascondendo quelli deboli. Avevano una panchina
sorprendentemente lunga e Bird stava ottenendo molto anche da giocatori
che fino a lì non avevano combinato granché. L’esempio migliore era Jalen
Rose, la cui carriera era stata, fino a quel momento, molto deludente e che
sembrava sul punto di essere inserito nella lista delle peggiori teste calde
dell’NBA. Era stato un membro dei Michigan Fab Five, una squadra più
famosa per i fallimenti che per i successi e per il talento sprecato più che
per quello sfruttato. Poiché in campo erano molto arroganti, non piacevano
né ai tifosi né agli allenatori e si pensava che nel bene o nel male (ma
soprattutto nel male) Rose fosse il loro leader. Era una guardia enorme, alto
più di 2m e fisicamente molto forte, ma a Denver, dove era stato la prima
scelta del draft, aveva deluso e buona parte della Lega lo considerava
irrecuperabile: troppo ego e troppa poca forza mentale. Durante la stagione
precedente, l’allenatore Larry Brown aveva nascosto a malapena il suo
disprezzo per Rose, ma Bird ne aveva visto il lato migliore e il ragazzo
stava cominciando a sbocciare. Quando giocava in un modo che a Bird non
piaceva, l’allenatore, semplicemente, lo toglieva. La sua presenza aggiunse
molto valore alle rotazioni difensive dei Pacers. Avevano vinto cinquantotto
partite, erano più giovani dei Bulls e avevano una panchina più lunga.
I Bulls vinsero la prima partita grazie alle loro qualità, ma soprattutto
nonostante i loro difetti. Attaccarono in modo semplicemente terribile, ma
in difesa furono eccezionali. Nel primo tempo riuscirono a malapena a
tirare: fecero 4/22 nel primo quarto, una percentuale del 22%. La siccità
continuò nel secondo quarto, ma i Bulls strinsero gradualmente le maglie in
difesa. Anche tirando male, riuscirono a mantenersi vicini agli avversari. A
un minuto e quaranta secondi dalla fine del primo tempo, Mark Jackson
segnò il 40-31, poi i Bulls realizzarono un piccolo parziale prima
dell’intervallo, generato soprattutto nella metà campo difensiva, e chiusero
il primo tempo 40-37. Avrebbero potuto essere sotto di 12 o 15 punti, ma
invece erano solo in svantaggio di 3, anche se Jordan aveva solo 1/9 dal
campo e Pippen e Kukocˇ 1/8. Significava che nel primo tempo i loro tre
marcatori avevano tirato col 12% e, nonostante ciò, erano ancora attaccati
alla partita.
Nel secondo tempo, ancora una volta grazie soprattutto alla difesa,
Chicago riaprì il parziale, che arrivò fino a 16-0. I Bulls ora erano avanti
47-40 e resistettero fino alla vittoria finale: 85-79. I Bulls chiusero con solo
il 35% dal campo. Fu una di quelle sere in cui qualunque altra squadra
avrebbe perso. La chiave fu Pippen, ma nessuno, guardando solo il
tabellone punti, se ne sarebbe accorto. Segnò solo un tiro su nove, ma
dominò Mark Jackson e fece a pezzi l’attacco di Indiana. I Pacers furono
costretti a iniziare sempre il loro attacco molto più lontano dal canestro di
quanto volevano e con meno secondi sul cronometro e questo significava
che i Bulls avevano molto tempo per riorganizzare la difesa. Chris Mullin,
tiratore puro e membro dell’All Star Team, piuttosto lento e non molto
atletico, non ricevette mai la palla dove la voleva: segnò solo 2 punti in
ventisei minuti giocati. I Pacers, che avevano la reputazione di essere una
squadra molto efficiente in attacco, con la quarta media di palle perse a
partita più bassa della Lega, persero ventisette palloni. Il rapporto tra assist
e palle perse di Jackson durante la stagione era stato un ammirabile 4:1 ma
contro un giocatore più grosso, più forte e più rapido come Pippen realizzò
sette assist contro sette palle perse. «Scottie è fantastico» disse Steve Kerr
dopo la partita. «Riesce a dominare la partita anche segnando solo 4 punti.
È questo che lo rende uno dei migliori di sempre: non ha bisogno di segnare
neanche un singolo punto per aiutarci a vincere una partita». Mullin scosse
la testa: «[La difesa di Chicago] ci ha fottuto. A volte sembrava che fossero
in sette o in otto a difendere».
Gara Due, a Chicago, fu simile, solo che questa volta i Bulls attaccarono
meglio. Pippen fu di nuovo un incubo per Jackson e, di nuovo, distrusse
l’attacco dei Pacers. Lo scontro sembrava impari: anche stavolta, Jackson
perse la palla sette volte. I Bulls finiranno con quindici rubate contro le due
dei Pacers: una vittoria piuttosto facile. Nella conferenza stampa dopo la
partita, Bird cercò di fermare l’emorragia e fece un chiaro riferimento alla
difesa di Pippen, diretto alle orecchie della Lega e degli arbitri. Disse che
gli sarebbe piaciuto vedere quanti falli gli arbitri avrebbero fischiato a
Scottie Pippen se avesse dovuto marcare Michael Jordan. Pochi minuti
dopo, durante la conferenza di Jordan, qualcuno riferì quello che aveva
detto Bird. Michael tirò fuori il suo largo e caloroso sorriso, quello che
teneva da parte più che altro per le pubblicità e disse: «Larry ha detto
questo? Beh, ora parla davvero come un allenatore».
La serie si spostò a Indianapolis e fin dalla prima palla a due sembrò che
le allusioni di Bird avessero avuto effetto. Gli arbitri fischiarono subito due
falli a Pippen, almeno uno dei quali piuttosto dubbio, e Scottie dovette
allentare la pressione in difesa. Questo consentì ai Pacers di attaccare
meglio: Bird iniziò a cambiare rotazioni e a prendere più giocatori dalla
panchina, dando più minuti a giovani come Jalen Rose, la rapida guardia
Travis Best o Derrick McKey. Bird era un lealista di prima categoria: il suo
istinto gli suggeriva sempre di schierare i giocatori che lo avevano portato
fin lì, ma si era reso conto dei limiti di Jackson e Mullin contro una squadra
rapida come i Bulls. Per tutta la stagione, Chicago aveva sofferto le guardie
piccole e rapide: era una delle loro debolezze più significative in difesa,
perché anche se Steve Kerr era un giocatore di buona intelligenza difensiva,
non era né veloce né fisico e Best era molto più veloce di lui. Rose era
grande e grosso, entrò ancora fresco nei momenti della partita in cui Jordan
poteva essere stanco. Inoltre, poiché Jordan non aveva giocato molto contro
di lui, non sapeva esattamente come affrontarlo.
Nel terzo quarto i Bulls avevano scavato un solco di 8 punti. Non era
stato facile e se l’erano conquistato con estrema fatica, ma a 1:53 dalla fine
del terzo quarto si lasciarono un po’ andare, forse per la stanchezza, forse
per l’arroganza, forse perché la loro difesa aveva fatto così bene fino a quel
momento della serie che erano sicuri di poterla stringere in qualunque
momento. Cominciarono a giocare in modo superficiale e a prendere tiri da
fuori invece di avvicinarsi al canestro. Commisero falli stupidi in difesa,
che non solo concedevano punti facili a Indiana, ma consentivano ai Pacers,
più lenti, di organizzare la difesa. All’inizio del quarto periodo, si
ritrovarono improvvisamente in parità. Le palle perse dei Pacers si ridussero
a tredici contro le quattordici dei Bulls e la panchina di Indiana segnò 40
punti contro i 25 di quella di Chicago. I Pacers vinsero 107-105.
Iniziò così una partita a scacchi. I punti forti di Bird erano la panchina e
la relativa giovane età dei suoi giocatori. Il suo piano gara prevedeva di
stremare Jordan, facendolo marcare da diversi difensori che giocassero nel
modo più fisico possibile, e soprattutto di opporre forze fresche ai Bulls
proprio in quei momenti in cui normalmente Chicago sfruttava la
stanchezza dei suoi avversari e si metteva in tasca le partite grazie al killer
instinct. Dopo Gara Tre, Phil Jackson parlò in privato con la squadra di
come avessero lasciato che la partita gli sfuggisse dalle mani tra la fine del
secondo quarto e il terzo, che era proprio il momento in cui normalmente
davano il colpo di grazia agli avversari. Il piano di Jackson prevedeva di
nascondere il più a lungo possibile la mancanza di cambi all’altezza,
cercando di far rifiatare Pippen e Jordan appena era possibile, per gestire
l’attacco in un modo che consentisse ai suoi titolari di conservare le energie
e cercare di sfruttare la forza mentale di Chicago nelle partite importanti.
Da metà Gara Tre in poi, i Pacers giocarono molto meglio dei Bulls,
vincendo tre delle restanti cinque partite e andando molto vicini a vincere la
settima a Chicago. («Ma non hanno mai vinto a Chicago» faceva notare
Jackson. «Quello era il vero test»). Bird usò le rotazioni e la panchina in
maniera molto abile e più la serie si prolungava, più gli accoppiamenti che
fino a lì avevano favorito così pesantemente i Bulls sembravano ora
pendere dal lato di Indiana.
I Bulls apparivano stanchi, man mano che la serie progrediva, ed era
evidente dalle palle rubate: in Gara Uno erano state diciannove (comprese
quattro di Pippen e cinque di Jordan), in Gara Due quindici, in Gara Tre
otto, in Gara Quattro solo tre.
Gara Quattro fu molto tirata, fino a quando un tiro di Jordan vicino alla
sirena diede a Chicago un vantaggio di tre: 94-91. Best segnò il 94-93 e
Pippen perse l’occasione di chiudere la partita sbagliando due tiri liberi con
4.7 secondi ancora da giocare. Dopo il secondo errore, ci fu una battaglia
sulla palla vagante che finì fuori. Un arbitro ordinò la palla a due, ma un
altro cambiò la decisione e diede la rimessa a Indiana con 2,9 secondi. I
Pacers batterono da metà campo. Reggie Miller uscì dai blocchi liberandosi
di Ron Harper, spinse via Jordan che si era ritrovato a marcarlo sul cambio
e segnò da tre, portando Indiana in vantaggio con sette decimi di secondo
sul cronometro. In meno di un secondo, Jordan tentò un ultimo tiro, che
rimbalzò sul ferro ma uscì. Indiana aveva vinto. Phil Jackson, cercando di
influenzare gli arbitri come aveva fatto Bird, disse che i Bulls erano stati
presi di mira e paragonò la partita alla famigerata finale delle Olimpiadi del
1972, quando degli arbitri piuttosto amichevoli avevano dato ai russi
diverse possibilità di vincere. Era però difficile incolpare gli arbitri degli
errori di Pippen ai liberi (finì con 2/7 dalla lunetta) o per il fatto che i Bulls
erano sembrati piuttosto stanchi.
Gara Cinque, di nuovo a Chicago, fu un massacro. Era come se Indiana
non fosse affatto scesa in campo. A metà del primo quarto i Bulls infilarono
un parziale di 19-6 e chiusero il periodo 29-16. Presero ancora più il largo
nel secondo quarto, finché non furono sul 49-24 con 4 minuti ancora da
giocare prima dell’intervallo. A metà partita erano 57-32 e il finale fu 106-
87.
Indiana recuperò rapidamente per Gara Sei. Era ormai chiaro che per
Chicago era una questione di sopravvivenza. Usando una difesa disegnata
sulla lavagna da Dick Harter, uno dei viceallenatori, i Pacers stavano
picchiando Jordan più che potevano, difendendo contro di lui come avevano
fatto i Pistons tempo prima: facendogli pagare caro ogni punto e cercando
deliberatamente di sfiancarlo fisicamente. Verso la fine della partita, si
poteva vedere sempre più spesso Michael Jordan piegato sulle ginocchia,
con le mani sui fianchi: un chiaro segno di esaurimento. Antonio Davis e
Dale Davis giocarono molto bene, neutralizzando Rodman. In Gara Sei, i
Pacers usarono ancora la panchina come chiave per la vittoria: dalle riserve
arrivarono infatti 25 punti (tra cui 8 di Rose e 6 di Best) contro i soli 8
dell’intera panchina dei Bulls. Chicago fu in grado di tenere la partita
aperta, ma non riuscì a contenere Best nel finale e perse 92-89.
Si arrivò dunque a Gara Sette ed era ormai chiaro, come Phil Jackson
avrebbe detto più avanti, che quella era la serie più dura che i Bulls
avessero mai affrontato negli anni delle vittorie dei campionati. Il Chicago
Tribune, prima della partita, titolò: ‘UNA PASSERELLA PER GLI ANZIANI’ e il
sottotitolo si chiedeva se i veterani dei Bulls non fossero troppo stanchi per
sopravvivere. I Bulls furono in realtà fortunati ad avere il vantaggio del
campo, anche se erano chiaramente stremati e i Pacers non sembravano
particolarmente nervosi all’idea di giocare a Chicago contro i campioni in
carica. La nota positiva per i Bulls fu Toni Kukoc ˇ . Phil Jackson l’aveva
schierato titolare in quattro partite su cinque, facendo partire Rodman dalla
panchina e Kukocˇ stava rispondendo alla grande. Non era solo il fatto che
stesse tirando bene, perché quello lo aveva sempre fatto, era che sembrava
più a suo agio con i compagni, giocava con più coraggio e più forza.
Durante quella serie, non sembrò semplicemente un ragazzo talentuoso che
per puro caso aveva una maglia uguale agli altri, ma un compagno di
squadra a tutti gli effetti, un uomo la cui volontà aveva la stessa fibra di
quella dei suoi compagni. Difese meglio: non era un buon difensore uno
contro uno ma sapeva anticipare il gioco piuttosto bene e questo gli
consentiva di essere utile in una difesa di squadra.
I Pacers andarono subito in vantaggio 20-8, ma Rodman, entrando dalla
panchina, risollevò Chicago. All’intervallo i Bulls erano avanti di due e
nello spogliatoio Jordan si scagliò contro i compagni, che secondo lui non
stavano giocando abbastanza duro. Nel terzo quarto, Kukoc ˇ fece grandi
cose segnando tre triple, ma Indiana non si staccò e, verso la fine del quarto
periodo, la gara sembrava stare scivolando via dalle mani dei Bulls. Jordan,
in particolare, sembrava esausto e la sua media al tiro ne era il riflesso:
segnò solo nove dei venticinque tiri dal campo e solo dieci dei quindici
liberi. Ma si rifiutava di essere battuto qui, a casa sua, in una partita in cui la
sconfitta gli avrebbe negato il sacrosanto diritto di andare alle Finals per
un’ultima volta. La stanchezza poteva influenzare i suoi tiri in sospensione,
ma non il suo terzo tempo, quindi andò a canestro, ancora e ancora, e
durante i time out urlava ai suoi compagni: «Non perderemo questa
partita!» Guardando quel suo straordinario giocatore, Phil Jackson vide tutti
i segni della fatica, ma vide anche un grande campione che semplicemente
si rifiutava di perdere. Chuck Daly, che aveva allenato contro di lui per anni
e che poi lo aveva avuto nel Dream Team, una volta lo aveva chiamato
‘L’uomo bionico’, perché per l’intera carriera aveva giocato partite come
questa, in cui diventava più forte quando tutti gli altri intorno, anche se più
giovani, stavano crollando. «Fategli un taglio e non troverete sangue,
muscoli e tendini, ma solo cavi, microchip e circuiti» aveva detto Daly.
Jackson sapeva bene cosa stava facendo Dick Harter: organizzare una
difesa che puniva Michael ogni volta che andava a canestro, non solo per
fermarlo, ma anche per sfinirlo e far sì che nel quarto quarto le sue gambe
non rispondessero più, sapendo che Jordan avrebbe preso tutte le botte
volentieri pur di vincere. Era un piccolo prezzo da pagare. Non era più una
questione di talento, era solo ed esclusivamente cuore. Qualche giorno
dopo, Jackson avrebbe editato il video degli ultimi sei minuti della partita
per farne una clip da usare per la serie contro Utah, perché sapeva che
avrebbero avuto problemi di stanchezza e voleva mostrare alla sua squadra
la forza di volontà di Jordan.
Per quattro volte negli ultimi sette minuti e mezzo di Gara Sette, Jordan,
pur stremato, semplicemente prese il pallone e andò a canestro, nonostante
l’area affollata, cercando di guadagnare dei falli. Fu sempre premiato dagli
arbitri e chiuse con 5/7 ai liberi. Una delle sue più grandi partite dal punto
di vista spirituale, se non da quello artistico. I Bulls riuscirono a resistere e
a vincere di cinque punti (88-83) e Jordan reagì come un bambino: corse
fuori dal campo non solo entusiasta ma anche, in un certo senso,
frastornato, come uno studente alla campanella dell’ultimo giorno di scuola.
Era ugualmente allegro sull’aereo che li portava a Salt Lake City per
giocare contro Utah. Non solo avevano raggiunto nuovamente le Finals, ma
avevano evitato un proiettile: avevano battuto i Pacers in una serie in cui
Indiana sembrava avere tutte le carte in regola per vincere. Non era stata
fortuna – i Bulls se ne erano guadagnato ogni centimetro – ma Jordan
sapeva meglio di ogni altro quanto erano stati vicini a perdere e quanto si
era sentito stanco alla fine. Era emozionato all’idea di tornare alle Finals e
di avere un’altra chance di giocare contro Utah. Dopo aver giocato contro i
Pacers, era ansioso di affrontare una squadra le cui guardie erano più basse,
ma non più rapide e, nel caso di John Stockton e Jeff Hornacek, nemmeno
più giovani.
31
Chicago; Salt Lake City,

giugno 1998

Michael Jordan aveva desiderato giocare contro Utah nelle Finals per tutta
la stagione, soprattutto perché, dopo le Finals dell’anno prima, troppe
persone avevano detto che i Jazz avrebbero vinto se avessero avuto il
vantaggio del campo. Smaniava per dimostrare che si sbagliavano e che,
anche se Karl Malone era un ottimo giocatore, di cui ammirava molto le
qualità, c’era una grossa differenza tra loro due. Anche lo staff di Chicago,
felice di non dover vedere gente come Travis Best, Jalen Rose o i fratelli
Davis, era piuttosto contento di giocare contro Utah. Pensavano che il
vantaggio del campo non avesse grande significato per i loro giocatori: a
causa della loro straordinaria abilità di concentrazione, i Bulls in trasferta
alzavano il livello in maniera eccezionale. Inoltre, gli accoppiamenti erano
ottimali.
Certo, Utah era un’ottima squadra, molto intelligente e con un solido
gruppo di veterani, più efficace in attacco di qualunque franchigia nella
Lega. A differenza di altre squadre con più talento, inoltre, Utah non si
abbatteva mai e sbagliava raramente approccio alle situazioni di gioco.
L’uomo con i maggiori meriti per aver creato la squadra, per aver
mantenuto la franchigia viva nei giorni più difficili e alla fine averla
trasformata in una squadra di alta qualità era il presidente Frank Layden.
Forse due delle migliori decisioni che aveva preso in due decenni di
gestione della squadra erano avvenute in due anni consecutivi, il 1984 e il
1985, quando aveva scelto al draft prima John Stockton e poi Karl Malone.
Nelle finali di Conference, Utah aveva giocato contro gli straordinari
Lakers, una squadra molto più forte fisicamente che aveva appena spazzato
via Seattle, ma i Jazz li avevano fatti sembrare un gruppo di smarriti
ragazzini su un campetto di periferia. La guardia dei Lakers Nick Van Exel,
dopo la serie, aveva dichiarato: «Giocare contro di loro è come essere dei
ragazzini delle case popolari che giocano contro dei professionisti. I
ragazzini cercano sempre di fare passaggi dietro la schiena, giocate
spettacolari e schiacciate. Mentre loro fanno pick’n’roll e altre cose
semplici, non perdono tempo a lamentarsi, non si arrabbiano tra loro, non si
danno il cinque. Giocano come una squadra, rimangono concentrati. Non
credo che il talento dia loro fastidio: hanno un piano per la partita e lo
seguono. Non fanno nulla di strano, si attengono a quello che devono fare».
Ma giocare contro i Bulls non era come giocare contro dei ragazzini delle
case popolari. I Bulls erano così forti mentalmente da poter sfruttare alcune
debolezze insite negli stessi punti forti dei Jazz. L’età, che era stato un
fattore così importante contro Indiana, stavolta non avrebbe contato
granché: i tre migliori giocatori di Utah avevano più o meno la stessa età
dei veterani dei Bulls. Stockton aveva trentasei anni, Malone quasi
trentacinque e girava spot per un trattamento contro la calvizie, e Hornacek
trentacinque.
Due delle squadre coi quintetti titolari più anziani nell’intera NBA erano
arrivate alle Finals, ma non era un caso: i cinque uomini più importanti
(Jordan, Pippen, Rodman, Malone e Stockton)

erano, anche se in modo diverso, tutti giocatori sbocciati tardi, o comunque


si concepivano come tali. Nonostante le loro storie fossero molto diverse,
tutti e cinque avevano ormai raggiunto il picco delle loro abilità, ed erano
drammaticamente migliorati dopo che erano entrati nella Lega, una cosa
che stava diventando sempre più rara. Ciò che aveva consentito a quelle due
squadre di raggiungere le Finals era il fatto che i loro migliori giocatori
condividevano la stessa etica del lavoro.
La Lega era seriamente preoccupata perché, in realtà, molti giovani non
stavano rendendo come si sperava e coi loro comportamenti scostanti si
stavano rivelando molto poco affascinanti per il grande pubblico.
Nell’NBA, anche se i giocatori più vecchi avevano solo trenta o
trentacinque anni al massimo, c’era stato un salto generazionale abbastanza
netto. La generazione dei più vecchi, uomini come Jordan, Malone e
Barkley (anche lui difficilmente si sarebbe potuto considerare uno stinco di
santo a inizio carriera, ma aveva sempre giocato col cuore), aveva rilasciato
dichiarazioni pubbliche sul menefreghismo dei giovani giocatori, che fin da
inizio carriera si godevano tutti quei lussi conquistati dai loro predecessori.
Malone, all’inizio degli allenamenti di quella stagione, si era arrabbiato con
due giovani dei Jazz che avevano firmato contratti piuttosto onerosi ma si
erano presentati fuori forma. Aveva pubblicamente definito il centro Greg
Ostertag ‘un grassone’.
La Lega era così preoccupata del fallimento dei giovani nel soddisfare le
aspettative che durante l’All Star Game fece notevoli pressioni sulla NBC
perché le telecamere inquadrassero spesso tre dei giocatori giovani di
maggior richiamo – Keith Van Horn, Kobe Bryant e Tim Duncan – come a
dire: guardate, non sono tutti dei casi disperati.
I giocatori più vecchi pensavano che i giovani, semplicemente, non ci
arrivassero. Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird erano giocatori di
pallacanestro la cui fama e le cui doti avevano trasceso così tanto i normali
limiti del loro sport che con il tempo erano stati trattati come rockstar, ma
non avevano mai dimenticato che tutti gli onori erano arrivati perché
avevano giocato bene e con grande impegno. Questo però non era
necessariamente vero per la nuova generazione: alcuni dei ragazzi
sembravano non capire la differenza tra essere una rockstar ed essere un
giocatore di pallacanestro, e credevano di essere entrambi. Shaquille
O’Neal, atleta dal talento formidabile già indicato come possibile erede di
Michael Jordan, era ancora un giocatore incompleto ma un intrattenitore a
tutto tondo: sapeva cantare e cantava, sapeva recitare nei film e recitava,
poteva vendere prodotti e li vendeva, a volte poteva perfino giocare a
basket. Lui e il suo agente firmarono un contratto da capogiro con
un’azienda di sneakers, la Reebok (O’Neal si presentò a un incontro con la
Nike con già addosso una giacca della Reebok, il che lasciò Phil Knight
sconcertato), un altro con la Pepsi, un contratto cinematografico e
ovviamente uno come rapper. Era già molto ricco prima ancora di giocare la
sua prima partita.
Non tutti pensavano che il gioco di O’Neal fosse completo. La sua
carriera era già iniziata da diversi anni quando qualcuno fece notare che
doveva ancora vincere un anello, ma lui disse che non era un commento
giusto, perché al college aveva già vinto tutto. Sembrava in qualche modo
estraneo alla storia della Lega e quando fu organizzato un enorme evento
per celebrare i cinquant’anni dell’NBA, fu l’unico giocatore vivente che
non si fece vedere. Una volta si allenò con Lenny Wilkens, leggendario
allenatore di Atlanta che presto sarebbe diventato l’unico uomo a entrare
nella Hall of Fame sia come giocatore che come allenatore, e disse a un
amico: «Questo vecchio è piuttosto bravo. Giocava da qualche parte?»
Quando Rick Majerus, coach dell’università di Utah, famosissimo per la
sua capacità di allenare i centri, cercò di insegnargli qualcosa sul
movimento dei piedi, O’Neal se ne andò, dicendo che era roba da bambini.
Nel 1997-98 aveva finalmente cominciato a migliorare e a dare occasionali
segnali di grandezza, ma la sua squadra era comunque stata spazzata via da
Utah, e alcune persone, seri studiosi del gioco, pensavano che, date la sua
forza, stazza e rapidità, O’Neal era solo in parte il rimbalzista che avrebbe
potuto essere. Cosa forse più importante, si dimostrò anche solo l’ombra del
venditore che avrebbe potuto essere e a fine stagione la Rebook annunciò
che avrebbe rescisso il suo contratto. Molti di coloro la cui vita dipendeva
dal basket pensarono che fosse la miglior notizia della stagione.
È ovviamente ingiusto fare di O’Neal il simbolo della sua intera
generazione, ma i giocatori nuovi erano diversi. Molti indizi sembravano
dire che avevano ottenuto troppo e troppo presto e che il sistema di valori
che molti dei veterani della Lega avevano imparato dai loro predecessori
(fossero allenatori, compagni di squadra o entrambi) non era stato ereditato
da loro. A differenza di molti dei giocatori del Dream Team originale,
alcuni dei quali avevano carriere iniziate in un momento molto complicato
della storia della Lega, nessuno dei giovani poteva ricordare quel periodo in
cui l’NBA era in difficoltà e affatto benestante. Chuck Daly disse che
allenare una squadra di giocatori moderni era come avere a che fare con
dodici diverse aziende, più che con dodici giocatori. La ricchezza della
Lega e il diritto dei giocatori di riceverne una fetta considerevole erano dati
di fatto e il punto ormai sembrava essere non quanto i giocatori si sarebbero
impegnati, ma quanti soldi gli fossero dovuti. I più vecchi parlavano
apertamente della loro arroganza.
Molti dei nuovi giocatori erano stati coccolati sin del tempo in cui erano
nella high school, avevano frequentato campi speciali ed erano stati
corteggiati da aziende di scarpe da ginnastica, talent scout del college e, col
tempo, anche agenti dei professionisti. Come fece notare Bob Ryan, la
maggior parte di loro, a differenza di molti dei giocatori che erano arrivati
prima, non avevano mai avuto un altro lavoro che non fosse il basket e di
conseguenza non si rendevano conto di quanto fossero fortunati. Venivano
viziati come bambini fin dall’inizio, avevano contratti garantiti ed erano
protetti dagli agenti qualunque cosa facessero: era quindi molto difficile per
gli allenatori avere un rapporto con loro. Avevano avuto sempre il coltello
dalla parte del manico, con i loro coach alla high school, al college e, col
tempo, anche nei professionisti. Avevano passato sempre meno tempo al
college, il che li rendeva non solo meno capaci di socializzare rispetto ai
loro predecessori, ma anche con doti tecniche significativamente meno
complete.
Poiché le regole dell’NBA mettevano un tetto agli stipendi dei rookie, i
giovani arrivavano tra i professionisti sempre prima, scelti dalle squadre più
scarse della Lega, usavano il loro primo contratto come una sorta di
sostituto del college e, quando scadeva, erano subito pronti a chiedere più
soldi. In effetti, molti di loro cominciavano a chiedere di essere venduti già
alla fine del secondo anno, facendo sapere alla dirigenza che non si
sarebbero presentati agli allenamenti per forzare la mano. I Bulls e i Jazz
erano stati meno influenzati da questi cambiamenti, perché avevano scelto
di affidarsi agli ultimi superstiti della generazione precedente. Non era una
sorpresa, quindi, che avessero entrambi raggiunto le Finals.
Gli accoppiamenti erano piuttosto favorevoli a Chicago. Rodman, coi
suoi piedi straordinariamente rapidi e la sua notevole resistenza fisica,
aveva buon gioco contro Malone e Jordan, Pippen e Harper avrebbero
potuto dare dei problemi seri alle guardie di Utah. Ma la chiave per battere i
Jazz era cercare di limitare la loro arma migliore: il modo in cui gestivano
l’attacco. Nessun’altra squadra della Lega attaccava con l’organizzazione di
Utah, specialmente nei giochi a due tra Stockton e Malone: era così che
facevano a pezzi squadre meno forti, come gli immaturi Lakers. C’era però
un lato negativo: erano molto prevedibili. Contro una squadra composta da
superbi difensori, giocatori molto pazienti e che erano in grado di leggere
con grande anticipo le loro intenzioni e di ridurre la loro capacità di
eseguire gli schemi, avrebbero potuto sgonfiarsi, perché non avrebbero
avuto opzioni di attacco alternative. Quello che funzionava molto bene
contro squadre normali durante la Regular Season, poteva non funzionare in
lunghe serie di playoff contro grandi difensori. Il prezzo che pagavano per
la loro disciplina era una mancanza di pura creatività, dell’abilità di avere
guizzi di ingegno quando l’attacco disegnato alla lavagna si trovava
momentaneamente in scacco.
Questo si rifletteva nella differenza tra Jordan e Malone. Erano entrambi
grandi giocatori, lavoravano entrambi molto duro ed entrambi erano
migliorati moltissimo dopo che erano entrati nella Lega. Prima dell’inizio
della stagione, i rookie dei Denver Nuggets erano venuti a Salt Lake City
per giocare contro quelli di Utah. Un giorno, l’allenatore di Denver Bill
Hanzlik radunò tutti i suoi giocatori alle 7 del mattino, li stipò in un
minivan senza dire loro lo scopo di quella missione mattutina e li portò in
una palestra molto alla moda in centro città. Lì, col sudore che gli colava
sugli occhi, impegnato in un allenamento brutale, c’era l’MVP dell’NBA
Karl Malone. «Signori» disse Hanzlik, «ecco cosa significa essere in
NBA».
Jordan e Malone erano entrambi ottimi giocatori vecchia scuola ed
entrambi erano in grado di prendere sulle spalle le loro squadre sera dopo
sera, ma c’era una grossa differenza che li separava. L’abilità di Jordan di
crearsi dei tiri dal nulla e quindi di venire fuori alla distanza verso la fine di
partite importanti, in cui entrambe le squadre aumentavano
significativamente la pressione difensiva, era decisamente superiore a
quella di Malone. Malone era diventato un ottimo giocatore, migliorando
anno dopo anno non solo come tiratore ma anche come passatore nei giochi
a due, ma dipendeva molto da compagni di squadra come Stockton, che
potevano creargli delle opportunità. Era grosso, era forte, ma non era
esplosivo. Di conseguenza, quando i Bulls riuscirono a rallentare Stockton,
riuscirono anche a limitare Malone o addirittura a isolarlo. Jordan e lo staff
tecnico di Chicago credevano che, nel quarto periodo di partite molto tirate,
avrebbero potuto limitare Karl Malone in un modo in cui Utah non avrebbe
mai potuto limitare Michael Jordan.
Il punto di vista di Chicago su Malone era molto diverso da quello di
molti addetti ai lavori. Malone, secondo lo staff di Chicago, non era arrivato
nella Lega come un tiratore, ma aveva lavorato così duramente che nel
tempo era diventato uno dei migliori marcatori tra i lunghi della Lega, con
una media di poco inferiore a 30 punti per partita negli ultimi anni. Ma in
fondo, pensavano, non aveva l’animo o la testa di un tiratore e sospettavano
che alla fine delle partite importanti, con il punteggio ancora in bilico, ciò
sarebbe stato decisivo. Era riluttante a tirare in continuazione, come invece
facevano giocatori che si percepivano come tiratori, come Bird, Jordan o
Reggie Miller.
Lo staff dei Bulls pensava anche che Utah fosse vulnerabile perché
Stockton stava diventando leggermente più lento, rimanendo dietro agli altri
se non di un intero passo, di buona parte. Questo limitava non solo lui, ma
anche Malone, e verso la fine della serie, mentre i Bulls cominciarono a
mostrare la loro superiorità e Malone a essere duramente criticato dai
media, c’erano importanti addetti ai lavori che pensavano che si stesse
puntando il dito verso il giocatore sbagliato e che l’uomo il cui livello era
davvero crollato fosse Stockton, non Malone. La cosa che lo staff di
Chicago, se possibile, voleva evitare era dover raddoppiare Malone: erano
disposti a concedergli 35, anche 40 punti a partita, se necessario, perché
anche se avesse tirato bene, sarebbe comunque stato il responsabile di molti
dei tiri di Utah e questo avrebbe portato i suoi compagni fuori dalla partita.
Utah, pensava lo staff di Jackson, era molto pericolosa quando Malone
prendeva ritmo, quando gli avversari cominciavano a raddoppiarlo e lui
riusciva a coinvolgere altri giocatori.
I Bulls avevano faticato non poco a battere Indiana, mentre i giocatori di
Utah erano freschi: i Jazz, a inizio serie, erano favoriti. Jordan pensava che
quella fosse la situazione perfetta: «Saremo anche gli outsider, ma siamo
comunque i campioni in carica». Jackson considerava Utah un avversario
minaccioso e riteneva incredibile quello che erano riusciti a fare contro i
Lakers, ma pensava anche che Los Angeles fosse la preda perfetta per loro,
così vulnerabile al loro gioco disciplinato e controllato.
Gara Uno sarebbe stata a Salt Lake City, e Jackson sperava di vincerla: i
Jazz non giocavano da dieci giorni ed erano arrugginiti. Ma i Bulls erano
stremati dalla serie con Indiana e probabilmente avevano problemi con
l’altitudine: sembravano piuttosto lenti e stanchi, sempre in leggero ritardo
sulle rotazioni difensive. Forse era l’aria. Grover, Jordan e gli altri membri
del Breakfast Club avevano lavorato per prepararsi a Salt Lake City e
all’altitudine, cercando di accumulare scorte di ossigeno: era stato, nelle
parole di Grover, come preparare un centometrista a correre la maratona.
Stockton tagliava in due la difesa troppo spesso. Eppure, prima di
arrendersi, i Bulls recuperarono 8 punti nel quarto quarto e costrinsero Utah
all’overtime.
In Gara Due, lo schema dei Bulls cominciò a funzionare. Il piano della
battaglia prevedeva di rimanere attaccati alla partita, difendere duro,
conservare le energie, concedere qualche tiro a Malone e lasciare che
Jordan vincesse la partita nel finale. Malone chiuse con 5/16 e 16 punti
totali, senza segnare neppure un canestro nel secondo tempo. Jordan,
invece, fece 14/33 dal campo e soprattutto 9/10 ai liberi. Il modo e i
momenti in cui segnò i suoi canestri raccontano la storia della partita.
All’inizio del quarto quarto aveva segnato 20 punti e solo 4 liberi. Ma poi
cominciò ad andare a canestro in terzo tempo. Segnò quattro volte nel
quarto periodo e, altrettanto importante, fece 5/6 ai liberi. I Bulls vinsero
Gara Due: i Jazz avevano perso il vantaggio del campo che si erano
guadagnati lavorando così duramente per tutta la stagione. Ancor peggio, la
serie sembrava evolversi proprio come desiderava lo staff dei Bulls: le
guardie di Chicago limitavano la libertà di movimento di Stockton, isolando
quindi Malone e impedendogli di essere parte di un attacco fluido,
trasformandolo in uno che prendeva più tiri in sospensione della media,
limitando le sue gite in lunetta e non consentendogli di dettare il ritmo della
partita.
Per Gara Tre si tornò a Chicago e per Utah fu un incubo. Per la prima
volta dai tempi di inizio serie contro Indiana, i Bulls apparivano veramente
freschi. In difesa furono praticamente perfetti: rubavano la palla,
chiudevano le linee di passaggio e riuscivano a fare rotazioni difensive così
veloci che i tiri di Utah sembravano quasi sempre forzati, tentativi disperati
all’ultimo secondo. Era come se sapessero esattamente cosa Utah avrebbe
fatto in ogni possesso. Stockton, uno dei giocatori più tecnici e forti
nell’intera NBA, quella notte sembrò mostrare tutta la sua età. I Bulls
usavano Pippen come difensore libero, il che era pericolosamente ai limiti
di una difesa illegale: più grosso e più veloce, avrebbe rallentato e mandato
in un angolo Stockton, per poi tornare in marcatura su un giocatore meno
forte. I Jazz semplicemente non riuscivano a gestirlo e quella difesa ricordò
a qualcuno a Chicago quello che Stockton aveva detto dopo le Finals
dell’anno prima, cioè che Utah non era stata in grado di trovare una
soluzione per Pippen e in particolare per la sua versatilità in difesa. I Jazz
avrebbero voluto coinvolgere maggiormente Malone nell’azione – aveva
segnato solo quattordici dei quarantuno tiri che aveva preso nelle prime due
partite – e lo fecero: segnò i suoi primi sei tiri. Ma gli altri giocatori di Utah
chiusero il primo quarto con 1/16 dal campo. Dopo il primo quarto il
punteggio era 17-14 per Chicago, all’intervallo 49-31 e dopo tre quarti 72-
45. Il finale fu 96-54: la vittoria più larga nella storia delle Finals. I 54 punti
di Utah erano il punteggio più basso mai fatto in una qualsiasi partita NBA
dall’introduzione del cronometro dei 24 secondi.

«È veramente questo il punteggio?» domandò il coach di Utah Jerry Sloan


nella sua conferenza stampa dopo la partita con in mano i fogli delle
statistiche. «Pensavo ce ne avessero fatti 196. Davvero, sembravano 196».
Bob Costas invece disse che l’unica cosa che i Jazz avrebbero potuto fare
sarebbe stata bendarsi gli occhi e chiedere una sigaretta.
Gara Quattro fu meno vergognosa, ma non particolarmente diversa. I
Bulls controllarono il ritmo e i Jazz furono costretti ad adattarsi. I Bulls
riuscirono a impedire a Malone di prendere il controllo della partita (segnò
solo 21 punti) e il punteggio finale, 86-82, rifletteva il fatto che avevano
vinto ancora, principalmente, grazie alla difesa. Il giocatore che aveva avuto
i meriti maggiori nella distruzione dell’attacco di Utah era stato di nuovo
Pippen e nel dopo partita Sam Smith suggerì una cosa che a Chicago era
considerata un’eresia: forse questa volta l’MVP della serie avrebbe dovuto
essere lui. Aveva segnato 28 punti, con nove rimbalzi e cinque assist, e
giocato un’altra meravigliosa partita difensiva. Aveva contribuito a
trasformare una squadra brillante, tosta e fiduciosa in una vulnerabile,
insicura di quello che davvero voleva fare e, ancor di più, incerta di quello
che poteva fare. Le parole di Smith riportavano quello che anche altri
giornalisti di Chicago pensavano, cioè che in vantaggio 3-1, con un’altra
partita da giocare a Chicago e Utah che giocava come se fosse sotto ipnosi,
la serie fosse di fatto finita. ‘Ora che i Jazz sono stati resi irrilevanti’ scrisse
Skip Bayless sul Chicago Tribune, ‘venerdì sera andrà in scena una partita
molto più intrigante di Utah-Chicago: quella tra Michael e Scottie per il
titolo di MVP delle Finals’. Il titolo dell’articolo su Gara Quattro del
Tribune era ‘METTETE IN FRESCO LO CHAMPAGNE’.
Ma in Gara Cinque i Jazz si rifecero sotto. Malone, a lungo imbottigliato
e fatto bersaglio di un numero notevole di critiche, fece una gran partita,
con 17/27 al tiro e 39 punti, e Chicago sembrò fuori dalla partita, non
concentrata. Jordan chiuse con un misero 9/26 e Pippen con un terribile
2/16. C’era la diffusa sensazione che il vento potesse cambiare. Jackson,
tempo dopo, avrebbe detto di aver pensato che l’attesa per quella partita
fosse stata eccessiva. Si era parlato troppo di vincere in casa, di champagne,
di come fermare una sommossa in caso di vittoria e del fatto che quella
fosse o meno l’ultima partita di Jordan con la maglia dei Bulls. Jackson ora
era sicuro di sapere perché nessuna squadra ai playoff aveva mai vinto tre
partite di fila in casa: in parte dipendeva dal fatto che le squadre, arrivate a
quel livello, erano versatili e facevano aggiustamenti di partita in partita.
Ma dipendeva anche da tutta la pressione e le aspettative che si creavano.
Di solito i giocatori impiegavano mezz’ora per arrivare dalle loro case in
periferia allo United Center, ma stavolta molti di loro ci avevano messo
quasi due ore. Se mai ci fosse stata una prossima volta – anche se Jackson
non pensava che sarebbe stato così – avrebbero preso delle camere negli
alberghi del centro o sarebbero venuti in elicottero. Stavano succedendo
troppe cose che non avevano nulla a che fare col basket. Dopo Gara Cinque,
Jackson disse a Jordan: «Michael, ci serve un’altra partita. Dovremo
vincere in trasferta, ma penso sia meglio così». Jordan era d’accordo.
Anche se Chicago aveva bisogno di una sola vittoria, Salt Lake City era
un posto particolarmente minaccioso dove giocare. I tifosi di Utah
ricordavano a Phil Jackson per intensità quelli di Portorico, e pensava che
nessun’altra tifoseria avesse la capacità di piegare al proprio volere gli
arbitri come quella di Utah (anche se, secondo alcuni, la combinazione dei
tifosi di Chicago e di Michael Jordan era ugualmente formidabile).
All’improvviso la serie si faceva un po’ tetra per i Bulls. Gara Sei era molto
importante, perché se Chicago avesse perso ci sarebbe stata Gara Sette,
ancora a Utah, e i Jazz avrebbero sentito l’odore del sangue. Non era una
bella prospettiva, non al Delta Center.
I giornalisti che solo uno o due giorni prima avevano dato Utah per
spacciata ora suggerivano un possibile cambio nell’inerzia della serie. Era
una cosa che ricordava a tutti quanto la vittoria a quel livello fosse effimera,
e che molto spesso la differenza tra il trionfo e il disastro erano solo pochi
punti. Una partita che più avanti sarebbe stata giudicata dei tifosi una
grande vittoria poteva dipendere da una singola, piccola giocata, come in
Gara Due, quando Steve Kerr aveva rubato un cruciale rimbalzo a Karl
Malone. Un dominio come quello visto in Gara Tre era una rarità. Mostrava
anche quanto fosse importante il metro arbitrale, per esempio quanta libertà
veniva data a un giocatore come Pippen nelle sue azioni difensive. E
sottolineava ancora una volta il ‘Fattore Michael’, cioè quanto fosse
importante un giocatore come Jordan. Un’ottima squadra a cui però fosse
mancato qualcuno con la forza volontà di Jordan e la sua determinazione,
dovendo ritornare a Salt Lake City, sarebbe potuta facilmente crollare. Ma
Jordan era diverso: sembrava avere qualcosa di speciale nel DNA, un gene
specifico per momenti come quello. Trasudava fiducia, ed era contagioso.
Subito prima della partita, due giocatori di Chicago saltarono la rifinitura:
Ron Harper perché era stato sveglio tutta la notte in preda a dolori di
stomaco, per colpa di qualcosa che aveva mangiato, e Pippen perché poteva
malapena a camminare. Si era gravemente infortunato alla schiena in Gara
Tre, partita in cui aveva subito un buon numero di falli di sfondamento
(sette, secondo lo staff tecnico), inclusi due particolarmente violenti da
parte di Malone, un giocatore di quasi 115 kg. Aveva dolori fortissimi e la
sua mobilità era seriamente limitata. Aveva fatto delle iniezioni di cortisone
il sabato precedente, prima di Gara Sei, ma non gli avevano dato grande
sollievo. In nessuna partita che non fosse stata così importante, Pippen
sarebbe sceso in campo. Prima della gara era sdraiato sul tavolo dello
spogliatoio e Chip Schaefer lo stava massaggiando, quando Jackson,
facendo in modo che Pippen sentisse la loro conversazione e che capisse
quanto era importante, si girò verso Jordan e gli chiese: «Pensi di farcela a
giocare tutti i quarantotto minuti?»
«Se hai bisogno, io ce la faccio» rispose Jordan. Pippen ci provò: a inizio
partita fece subito una schiacciata, ma sentì immediatamente il dolore e i
limiti che gli imponeva. Poteva anche stare in campo, ma sembrava un
paziente di una casa di riposo, a cui era stato concesso di fare due tiri coi
nipotini. Dopo sette minuti, andò negli spogliatoi e ci rimase per il resto del
primo tempo. Ora i Bulls avevano davanti una sfida enorme: battere Utah in
trasferta con Pippen che poteva a malapena giocare.
La carriera di Michael Jordan era ormai verso la fine e alcune persone si
ritenevano dei Jordanologi, studiosi non solo del gioco ma anche dell’uomo
in sé, e credevano di poter pensare come lui. Erano cioè convinti di poter
comprendere il suo immenso e sensibilissimo intuito per il ritmo e le
caratteristiche di ogni partita, il suo sesto senso per quello che la squadra
doveva fare in un certo momento e che ruolo avrebbe dovuto avere lui. In
quella notte sembrò essere tornato il giovane Michael Jordan, quello che fin
dai primi giorni della sua carriera aveva dovuto trascinare una squadra che
aveva toccato il fondo e cominciato a scavare, quello che era andato al
Boston Garden dodici anni prima e aveva sconvolto il mondo del basket
con un’eroica prestazione da 63 punti. Il Michael Jordan che essenzialmente
si limitava a dire ai suoi compagni di stare a guardare, perché lui avrebbe
fatto tutto da solo. Pippen era di fatto zoppo, Rodman non era in grado di
segnare molti punti, Kukocˇ aveva giocato bene ultimamente ma era sempre
problematico. Harper era un ottimo difensore, ma non era abituato a
mettersi l’intero attacco sulle spalle, ed era anche meno in forma del solito a
causa dei dolori di stomaco. Le prestazioni di Longley ai playoff erano state
semplicemente un disastro (quella sera aveva giocato solo quattordici
minuti, senza segnare ma facendo quattro falli). Kerr era affidabile, ma
Utah, con Pippen fuori, sarebbe riuscita a marcarlo molto meglio.
Quindi era chiaro fin dall’inizio della partita che Jordan si sarebbe
caricato la squadra in spalla per buona parte dell’inizio della gara. Avrebbe
dovuto conservare l’energia in difesa per tutto il primo tempo. A un certo
punto Tex Winter disse a Jackson: «Michael in difesa sta trotterellando».
Jackson rispose: «Beh, Tex, ha bisogno di riposo». Utah avrebbe
tranquillamente potuto mettere alle corde i Bulls e prendere un buon
vantaggio ma non ci riuscì mai. Il quintetto dei Bulls che iniziò il secondo
quarto (Kukocˇ, Bill Wennington, Scott Burrell, Kerr e Jud Buechler) non
era certo in grado di vincere un anello. Eppure, in qualche modo, i Bulls
rimasero attaccati alla partita. Anche con in campo i giocatori partiti dalla
panchina, riuscirono a tenere la difesa molto stretta, non lasciarono mai che
Utah trovasse facilmente gli spazi e impedirono ai Jazz di realizzare 12 o 14
punti di fila che, dati i limiti dell’attacco di Chicago, avrebbero potuto
chiudere la partita. In attacco, era sempre Michael Jordan a prendersi le
responsabilità. Stava conservando le energie meglio che poteva, giocando
meno in difesa e prendendo meno rimbalzi del normale, ma all’intervallo
aveva già segnato 23 punti con 9/19 dal campo (3/6 da tre) e 2/3 dalla
lunetta. All’intervallo, Utah era in vantaggio 42-37. Malone aveva segnato
11 punti.
Tempo dopo, Jordan avrebbe detto che durante la partita era rimasto
fiducioso, perché Utah non l’aveva chiusa quando ne aveva avuto la
possibilità: in una partita come quella, avrebbe dichiarato, in cui il divario
non è mai superiore a due, tre o quattro punti, sei sempre lì. Secondo B.J.
Armstrong, la grande forza di Michael Jordan era riuscire a capire in modo
così acuto il ritmo e l’andamento di ogni partita e di ogni giocatore che
avesse mai visto giocare. Un sacco di giocatori e di allenatori, riguardando
il filmato di una partita, erano in grado di indicare chiaramente il momento
in cui la loro squadra l’aveva persa di mano, ma Jordan riusciva a capirlo
anche nel momento in cui stava succedendo. Era come se lui stesse
giocando la partita in campo e la stesse contemporaneamente studiando
dalla tribuna, completamente distaccato. Era un dono che gli consentiva di
monitorare la sua squadra e di tenerla in piedi, ma anche di spazzare via gli
avversari quando capiva che erano vulnerabili.
Armstrong intuì che Jordan aveva già capito che Utah aveva fallito:
avrebbero dovuto chiudere la partita sfruttando le evidenti debolezze di
Chicago, ma non ci erano riusciti. Se l’avessero fatto, pensava Armstrong,
Jordan avrebbe potuto conservare le sue energie e rimettersi in sesto per
Gara Sette, invece i Jazz gli stavano lasciando la porta aperta già ora.
Davanti a un regalo simile, lui non si sarebbe certo tirato indietro. Erano
nelle sue mani.
Nel secondo tempo, Pippen, seppur ancora infortunato, tornò e giocò
diciannove minuti. In attacco fece sostanzialmente tappezzeria, ma
all’inizio del quarto quarto il vantaggio di Utah era ancora molto risicato:
66-61. Il punteggio basso favoriva i Bulls: significava che avevano gestito
bene il ritmo della partita rimanendo a distanza di fuoco. Nel quarto
periodo, i Bulls cominciarono molto lentamente a rimontare e, con meno di
cinque minuti da giocare, pareggiarono a quota 77. Jordan era chiaramente
molto stanco, ma lo erano anche tutti gli altri. Tex Winter si allarmò quando
Jordan sbagliò quattro tiri in sospensione di fila. «Praticamente non salta
più» disse a Jackson. «Le sue gambe sono andate».
Due minuti dopo, durante un time out, Jackson disse a Jordan quello che
lui già sapeva: doveva andare a canestro. «Lo so» rispose Jordan. «Ci
provo. Non hanno un centro, quindi la via è libera».
Era di nuovo il suo momento. Una tripla di Malone su assist di Stockton
portò Utah in vantaggio 83-79, ma Jordan andò a canestro, subì fallo da
Bryon Russell e, segnando i due tiri liberi, portò la squadra a 83-81 con
2:07 da giocare. Nel possesso successivo, Jordan cercò di nuovo di andare a
canestro e subì di nuovo fallo (questa volta da Stockton), segnò entrambi i
tiri liberi e si fu di nuovo in pareggio: 83-83 con 59,2 secondi. All’ultimo
time out, Jackson e Jordan parlarono di che tipo di tiro avrebbe dovuto
scegliere e Jackson gli ricordò che aveva le gambe stanche e che questo era
un problema per i tiri in sospensione. «Ho ancora un po’ di energie»
rispose.
«Se devi prendere un tiro in sospensione» gli disse Jackson, «il rilascio
del pallone sarà importante. Non lo stai facendo nel modo corretto».
Utah attraversò tutto il campo, attaccando in maniera molto lenta.
Stockton passò a Malone e Chicago raddoppiò rapidamente, ma Malone
trovò Stockton dalla parte opposta del campo con un passaggio
meraviglioso. Ron Harper lo contrastò una frazione di secondo troppo tardi
e Stockton lo punì con un tiro in sospensione che diede a Utah un vantaggio
di tre punti: 86-83. Mancavano 41,9 secondi. I tifosi smisero per un attimo
di trattenere il respiro. Nel time out precedente, poiché Jordan non riusciva
più a tirare in sospensione, Tex Winter aveva disegnato una variante di un
loro schema tipico, che risaliva ai tempi in cui Jackson giocava ai Knicks e
si chiamava ‘Maccheccazzo’: prevedeva che i giocatori di Chicago
liberassero completamente un lato, per isolare Jordan contro Bryon Russell.
Jordan portò il pallone sulla linea di fondo, si mosse verso destra e poi,
poiché Utah non aveva possibilità di raddoppiarlo, andò a canestro sempre
dal lato destro e depositò delicatamente la palla con un lay-up. Un canestro
molto difficile, un terzo tempo spaventoso. Il punteggio era 86- 85 Utah,
con 37 secondi da giocare.
Questo dava a Utah un meraviglioso possesso addizionale, un’occasione
di segnare o almeno di usare Malone per avere dei tiri liberi. Stockton
superò la linea di metà campo al piccolo trotto, cercando di far passare il
tempo, e alla fine passò a Malone con ancora undici secondi sul cronometro
dei ventiquattro. Anche prima che Malone ricevesse il pallone, Jordan era
assolutamente sicuro di quello che Utah avrebbe fatto, di dove sarebbe
andata la palla e di come Malone l’avrebbe gestita. Spuntò dietro di lui e la
rubò. La cosa affascinante di quella giocata fu la calma di Jordan: in un
momento così febbrile, ebbe l’accortezza di allungarsi verso destra, in
modo da avere l’angolo perfetto per toccare il pallone senza commettere
fallo. «Karl non mi ha visto arrivare» avrebbe raccontato più avanti.
C’erano 18,9 secondi sul cronometro quando rubò palla. Aveva il record dei
playoff NBA per le rubate, ma questa era la più importante della sua intera
carriera.
Jordan non chiamò time out, e d’altronde i Bulls lo facevano di rado in
situazioni simili; avevano allenatori sia in panchina che in campo e Michael
Jordan non voleva dare a Utah la possibilità di riorganizzarsi in difesa. La
folla, ricorda Jordan, dopo quella rubata si ammutolì all’improvviso. Era il
suo momento, avrebbe detto più avanti, il momento che aveva voluto e per
cui si era preparato. Un momento che aveva a che fare con (come la
chiamava lui) tutta quella roba buddista che Jackson continuava a propinare
alla squadra: come focalizzarsi, come rimanere concentrati ed essere pronti
per il momento critico di una partita, in modo che, quando fosse arrivato,
avrebbero saputo esattamente cosa volevano fare e come farlo, come se lo
avessero già vissuto. Davanti a momenti critici come quello, i Bulls
avrebbero dovuto mantenere il controllo, sfruttare il momento e non andare
in panico, non lasciarsi sopraffare dalla tensione. L’esempio che a Jackson
piaceva usare era quello di un gatto che aspettava un topo con pazienza, in
attesa dell’occasione giusta, finché il topo, inconsapevole, alla fine usciva
dalla tana e il gatto era lì ad aspettarlo.
Quell’istante sembrò dispiegarsi in maniera molto lenta, avrebbe detto
Jordan, come se fosse scritto su un copione. Vide tutto succedere con
grande chiarezza – il modo in cui la difesa di Utah si stava sistemando e
come si stavano comportando i suoi compagni – e sapeva esattamente cosa
avrebbe fatto. «Non ho mai dubitato di me stesso. Non ho mai dubitato del
gioco».
Utah decise che non poteva permettersi di raddoppiarlo. Steve Kerr, che
era entrato al posto di Harper, era alla sua destra e, se Stockton fosse andato
a raddoppiare Jordan, li avrebbe puniti. Anche Kukoc ˇ , a sinistra, doveva
essere marcato. Rodman, partendo dalla lunetta, tagliò sotto canestro e
all’improvviso Bryon Russell fu l’uomo più solo al mondo, isolato uno
contro uno contro Michael Jeffrey Jordan. Jordan lasciò scorrere il tempo,
da quindici secondi a circa otto, poi, quando Russell cercò di raggiungere la
palla, si mosse verso destra come per andare verso il canestro. Russell lo
seguì cercando di impedirgli il terzo tempo ma Jordan all’improvviso si
fermò, dando a Russell una pacca sul sedere con la mano sinistra per essere
sicuro che la finta avesse funzionato (nulla di paragonabile al colpo che
Reggie Miller gli aveva dato nella serie contro Indiana). Russell stava già
cadendo verso sinistra, quando Jordan si fermò, prese la mira e tirò. Aveva
la visuale aperta ed era un tiro facile, avrebbe detto tempo dopo, la sua
elevazione fu perfetta così come la meccanica. Normalmente, dichiarò,
tendeva a staccarsi un po’ mentre prendeva tiri in sospensione, solo per
avere un ulteriore grado di separazione, ma questa volta, poiché i jumper
precedenti erano finiti tutti corti, non si staccò. Non ebbe neppure bisogno
di farlo, perché Russell, disorientato dalla finta, stava ancora
disperatamente cercando di rimontare.
Nella rivista di ESPN c’è una foto davvero notevole di quel momento,
scattata dal fotografo Fernando Medina. È a colori, occupa due pagine e
mostra Russell che cerca di riguadagnare la posizione mentre Jordan è già
nel punto più alto del suo salto, la palla ha raggiunto la cima del suo arco e
sta iniziando a scendere. L’orologio dice 6,6 secondi. La cosa davvero
incredibile, però, sono le facce di molti tifosi di Utah: anche se la palla non
ha ancora raggiunto il canestro, per loro la partita è finita. Sanno che
entrerà. La certezza della sconfitta si legge sulle loro facce, come se la
freccia li avesse già colpiti, bucando la loro pelle ed entrando nei loro cuori.
Molti di loro tendono le braccia, come se volessero fermare Jordan e
impedire al suo tiro di entrare. Altri hanno già il volto tra le mani, come in
un momento di dolore. C’è una sola eccezione: un ragazzino sulla destra
con la maglia dei Chicago Bulls: le sue braccia sono già in alto, in segno di
vittoria.
La palla entrò senza nemmeno toccare il ferro. Utah ebbe un’ultima
occasione, ma Stockton sbagliò il tiro e i Bulls vinsero 87-86. Ancora una
volta, Jordan si era caricato la squadra in spalla. Aveva segnato 45 punti, 16
nell’ultimo quarto contro i 6 di Malone, e tutti gli ultimi 8 punti della sua
squadra. Nel secondo tempo, stanchezza o no, aveva segnato 22 punti, 10
dei quali, dato chiave, dalla lunetta: ciò rifletteva la sua volontà di andare
sempre più a canestro, man mano che il suo tiro in sospensione diventava
più debole. Un grande giocatore aveva scritto l’ultimo grande capitolo della
sua grande carriera.
Raramente i numeri dicono molto sulle grandi partite di basket. Ma in
questo caso le statistiche del quarto periodo di Jordan e Malone rivelano
qualcosa di eccezionale e mostrano che lo staff tecnico di Chicago era stato
profetico nel prevedere come si sarebbero sviluppati i quarti periodi di
quella serie e quale giocatore sarebbe stato in grado di crearsi delle buone
occasioni con la partita ancora in bilico. In solo una partita, Gara Uno,
quando Jordan era ancora esausto dalla serie contro Indiana, Malone aveva
segnato più punti di lui nell’ultimo periodo (8-5). Gara Tre era stata un tale
dominio che nessuno dei due aveva giocato nel quarto quarto. In Gara
Cinque, dove pure Utah aveva vinto e Malone aveva fatto la sua miglior
partita, avevano realizzato 8 punti a testa. Ma in tre partite molto tirate, due
delle quali a Salt Lake City, Jordan aveva giocato molto meglio. In Gara
Due, Gara Quattro e Gara Sei, si era messo la squadra sulle spalle e in
quelle tre decisive partite, nonostante la fatica e tutto il resto, la sua media
nei quarti periodi era stata di 13 punti, contro i 3 di Malone.
Dopo la partita qualcuno chiese un commento a Jerry Sloan, e lui rispose
che Jordan avrebbe dovuto essere ricordato come il più grande giocatore di
basket di tutti i tempi.
Dick Ebersol guardò gli ultimi minuti di Gara Sei dal camion della NBC.
A inizio partita si era seduto sulle tribune vicino al suo amico David Stern,
ma era diventato così nervoso che alla fine era sceso nel furgone per stare
più vicino ai suoi dipendenti. A Ebersol Jordan piaceva molto e sapeva bene
che sia lui che la sua rete beneficiavano non solo dei suoi straordinari
risultati ma anche del suo carisma: avere Michael Jordan nelle Finals
significava avere 8 o 9 milioni di spettatori sintonizzati sulla NBC in più.
Ebersol era molto compiaciuto dai dati di ascolto della serie fino a quel
punto: alla fine avrebbero indicato uno share del 18,7%, il più alto di
sempre di almeno due punti, che si traduceva in 29,4 milioni di americani
davanti allo schermo (4 milioni più di quelli che avevano guardato le
precedenti World Series). Ma a quel punto Ebersol, da grande esperto di
telecomunicazioni qual era, non stava tifando per Michael Jordan, ma
perché si andasse a Gara Sette e dunque, anche se in modo del tutto
involontario, per Utah. Gara Sette avrebbe portato alla NBC e ai suoi
partner della General Electric altri 10 o 12 milioni di dollari in pubblicità.
Nel corso degli anni, gli exploit di Michael Jordan avevano comportato
molti vantaggi per la NBC, ma Jordan era anche un tale killer che in
nessuna delle Finals in cui aveva giocato si era mai arrivati all’ultima
partita.
Quando John Stockton segnò e portò Utah sopra di 3 punti con 41,9
secondi ancora da giocare, Ebersol era elettrizzato. Sembrava che, alla fine,
avrebbe avuto la sua Gara Sette e stava già facendo dei conti. Si rivolse agli
uomini della produzione, girando la faccia dall’altra parte rispetto agli
schermi, e disse: «Beh, ragazzi, ci rivediamo qui mercoledì, e i ragazzi di
casa [la dirigenza della General Electric] saranno molto contenti di quei 10
o 12 milioni». Ma quando tornò a prestare attenzione alla partita, Jordan
stava già sfidando Bryon Russell senza nessuno che raddoppiasse, e a
Ebersol sembrò che la strada verso il canestro fosse molto più libera di
quanto avrebbe dovuto. Jordan segnò, e in un certo senso Ebersol capì che
era finita, anche se Utah era ancora un punto avanti con soli 37 secondi da
giocare. Jordan gli avrebbe portato via Gara Sette un’altra volta. Non era
ancora sicuro di come avrebbe fatto, ma quando poi Jordan rubò palla a
Malone e segnò quell’ultimo tiro, non fu affatto sorpreso.
Harvest Leroy Smith, che era entrato nella squadra di Laney High quando
Michael Jordan era stato tagliato fuori e che aveva condiviso buona parte
delle prime fasi della carriera con lui, stava guardando la partita da casa, a
Torrance, in California. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, Smith, un
uomo con un’allegria fuori dal comune, aveva parlato con un giornalista e a
un certo punto, ridendo, aveva detto: «Quando vedete Michael, ditegli di
non preoccuparsi quando giocherà contro Utah, perché nessuno di quella
squadra può fermarlo. In effetti, c’è solo un uomo che lo abbia mai davvero
fermato». Chi era? «Ci stai parlando in questo momento» rispose Smith
ridendo forte, «ma sono passati quasi vent’anni».
Era sicuro che Chicago avrebbe vinto, che Pippen fosse in forma o meno.
Circa dieci giorni prima, aveva discusso con un amico di Las Vegas che
aveva l’impressione che quello fosse l’anno di Utah. «Non sarà mai l’anno
di Utah» gli aveva risposto Smith. «Non finché gioca Michael Jordan».
Chicago sarebbe riuscita a gestire Malone, ma nessuno dei Jazz sarebbe
riuscito a gestire Jordan, non nel quarto quarto. Mentre guardava la partita,
Smith si ricordò di quando, nel suo ultimo anno a Wilmington, avevano
giocato contro gli arcirivali di New Hanover High in un torneo di Natale.
«Loro erano avanti di molto, ma nel secondo tempo Michael andò fuori
controllo. Prese completamente il controllo della partita. Non era
intenzionato a farsi sconfiggere, non in qualcosa di così importante». Non
fu sorpreso da nulla, quando vide Jordan portare palla e prendere
quell’ultimo tiro contro Bryon Russell. «Questa volta è andato a destra e poi
si è spinto a sinistra per tirare, l’anno scorso era stato il contrario: prima
sinistra e poi destra. Non c’è modo che quel Russell possa tenerlo».
Tim Grover era lì a Utah, a guardare il suo pupillo sconfiggere per
l’ennesima volta ogni possibile pronostico, conscio che la serie contro
Indiana era stata particolarmente sfibrante per lui e che in Gara Sei contro i
Pacers Jordan aveva accusato molto la fatica. Non era riuscito a darsi spinta
con le gambe quando aveva preso il tiro in sospensione a fine partita:
questo, quasi sempre, significava sbagliare. Ora, con Pippen che non era in
grado di farsi carico della sua parte di lavoro, anche quella Gara Sei era
stata più faticosa del solito per Jordan, che però, secondo Grover, aveva
gestito le energie in maniera brillante. Certo, c’era stato un momento, nel
secondo quarto, in cui la fatica era affiorata ed era brevemente uscito dalla
partita, ma poi si era rimesso in sesto e aveva giocato bene sia nel terzo che
nel quarto periodo, anche se a tratti il suo tiro in sospensione si era un po’
appiattito. Del totale esaurimento che aveva mostrato in alcune delle gare
contro i Pacers non c’era traccia.
Grover conosceva meglio di chiunque altro i segni della fatica di Michael
Jordan, ma mentre ci si avvicinava alla fine della partita con Utah, pensava
che fosse ancora in buona forma. Il terzo tempo con lay-up sopra Russell
per il penultimo canestro, secondo Grover, era impressionante: aveva scelto
perfettamente il momento per quella giocata, andando a canestro nonostante
fosse ben marcato. Era Jordan al suo meglio. Utah era ancora avanti ma
Grover era stranamente fiducioso: Michael aveva fatto cose del genere così
tanto spesso, che i giocatori in campo, soprattutto gli avversari, avrebbero
dovuto prevedere che lo avrebbe fatto di nuovo.
Grover vide Jordan portare la palla nell’altra metà campo dopo quella
rubata cruciale, sapendo che avrebbe gestito il cronometro nel modo giusto,
dando a Chicago abbastanza tempo non solo per un tiro, ma anche per un
eventuale rimbalzo. Prima che Jordan rilasciasse il pallone, Grover era certo
che avrebbe segnato perché l’elevazione era perfetta e il movimento di
polso impeccabile. Grover adorò quel momento: tutti quegli estenuanti
allenamenti, per tutto l’anno, avevano permesso a Michael di essere un
giocatore dominante in una gara decisiva anche quando in realtà ci
sarebbero stati tutti i presupposti perché le sue gambe non reggessero più. Il
maestro (Grover) aveva imparato dall’allievo (Jordan) la lezione più
importante di tutte, il prezzo della grandezza: i tiri all’ultimo secondo
entravano solo grazie a una tecnica allenata all’infinito, innescata da
un’energia immagazzinata con grande attenzione e da una dedizione totale
in allenamento. Se c’era una cosa che non aveva niente a che fare con un
tiro come quello, era la fortuna.
Buzz Peterson, il caro amico di Jordan e suo compagno di camera al
college, guardò Gara Sei con sua moglie nella loro casa di Boone, in
Carolina del Nord. Mentre si avvicinava alla fine della partita, con Pippen
gravemente infortunato e Utah avanti, sua moglie lo guardò e disse:
«Perderanno». Ma Buzz, che aveva giocato insieme a Michael un numero
infinito di partite e un numero ancora più alto di partitelle di allenamento,
conosceva fin troppo bene la suprema fiducia che Jordan aveva in se stesso.
Momenti del genere erano la sua ragione di vita: con la squadra in
svantaggio, avrebbe detto ai suoi compagni che avrebbero vinto. E poi
avrebbe preso il totale controllo dell’ultima parte della gara.
«Non ne sarei così sicuro» rispose. «Michael avrà ancora un’occasione».
Proprio in quel momento, Jordan segnò il lay-up che che portò i Bulls a -1.
Peterson era sicuro che la giocata decisiva sarebbe arrivata nel possesso
difensivo seguente, quando Utah avrebbe attraversato il campo palla in
mano. Peterson era certo di poter seguire il filo dei pensieri di Jordan:
sapeva che avrebbero dato la palla a Malone, sperando in un canestro o
almeno in due liberi. In passato, Peterson aveva visto spesso il suo amico in
quello stesso ruolo, incoraggiato da Dean Smith a lasciare l’uomo che gli
era stato assegnato. Sapeva che Jordan avrebbe cercato di rubare palla a
Malone. Lo guardò farlo e fu sicuro, mentre Michael attraversava il campo,
che la partita era finita e che l’esito del tiro successivo era la cosa più vicina
a una certezza che ci fosse nello sport.
Roy Williams, l’allenatore di Kansas che aveva scelto Michael quando
giocava ancora a Laney, si trovava al suo campo estivo per giocatori delle
superiori, e guardò la partita dallo spogliatoio riservato allo staff tecnico.
Aveva compreso meglio di chiunque altro l’indomabile desiderio di
Michael di vincere e di essere il migliore: dopo la sua prima stagione con i
Bulls, quando era stato nominato rookie dell’anno, Michael era tornato a
Chapel Hill e aveva chiesto di Williams, l’allenatore a cui era più
umanamente legato. Voleva scambiare due parole in privato con lui: se ne
andarono dall’affollato ufficio di Williams e si sedettero sulle tribune
esterne. «Su cosa devo lavorare?» chiese Jordan. «Beh, Michael» rispose
Williams, «sei appena stato nominato rookie dell’anno. Cos’altro ti
manca?» «No, so che lei sarà onesto con me, cosa posso fare per
migliorare?» Williams gli disse di lavorare sul suo tiro in sospensione: se
avesse migliorato quel fondamentale, sarebbe stato impossibile difendere
contro di lui, perché nessuno avrebbe potuto staccarsi. E lui lo fece,
quell’estate e negli anni a venire. Williams sapeva che tutto ciò che Michael
aveva ottenuto era il prodotto di un disegno preciso e di duro lavoro, era un
grande giocatore ma aveva anche la miglior etica del lavoro che lui avesse
mai visto: era questo il motivo per cui, in partite come quella, riusciva
sempre a emergere. Nulla accadeva per caso. In quell’ultimo minuto,
mentre Williams guardava Jordan andare a canestro per i primi due dei
quattro punti che avrebbero ucciso la partita, non era per nulla sorpreso.
Quando i Jazz attraversarono il campo per gestire il loro ultimo tiro,
Williams, conoscendo Michael, sapeva già cosa avrebbe fatto in difesa.
Poteva vederlo anche prima che succedesse. Gridava ai suoi colleghi che
erano tutti lì con lui «Guardate! Guardate!» mentre Michael si muoveva
verso Malone per rubare palla. Poi, mentre Jordan portava la palla dall’altra
parte del campo, Williams ricorda di aver detto che qualche difensore di
Utah avrebbe fatto meglio a raddoppiarlo rapidamente, o sarebbe finita.
L’ultimo tiro deve essere forzato, pensava, non puoi consentire a qualcuno
forte come Michael di gestirlo uno contro uno. Ma nessuno lo raddoppiò.
Quello che Roy Williams ricorda di quell’ultimo tiro fu la squisita
meccanica di esecuzione e il tempo per cui Jordan tenne il polso piegato,
anche dopo aver lasciato la palla. Era qualcosa che gli allenatori
insegnavano sempre ai loro ragazzi, perché aiutava la concentrazione.
Guardandolo tenere il polso piegato, mentre sembrava rimanere sospeso in
aria un secondo di più, sfidando perfino la gravità, Williams pensò che
quello fosse il modo di Michael Jordan di indirizzare la palla nel canestro. E
poi, tutto finì. Tre dei ragazzi che Williams allenava a Kansas erano in quel
campo e lui, l’uomo che diciotto anni prima aveva detto di aver visto il
miglior giocatore delle superiori del Paese, si girò verso di loro e disse che
aveva appena visto la miglior performance in una partita di basket della sua
intera vita. «Ma ho paura che sia anche l’ultima» aggiunse.
Il giorno di quell’ultima partita, Chuck Daly stava giocando a golf a
Isleworth, un noto club di Orlando. Incontrò un uomo di nome John
Mitchell, che in passato aveva giocato a golf con Michael diverse volte.
Parlarono per qualche minuto della partita di quella sera e Mitchell disse a
Daly che aveva un brutto presentimento: «Penso che Chicago sia nei guai. I
segnali non sono buoni e vincere su quel campo è difficile».
«Lascia perdere» rispose Daly. «Sarà tirata fino all’ultimo e poi, a circa
venti secondi dalla fine, Michael avrà la palla in mano, la porterà in attacco
tenendo d’occhio il cronometro e poi, con pochi secondi rimasti, prenderà
un tiro in sospensione e lo metterà. I Bulls vinceranno e la leggenda vivrà in
eterno. Perché lui è fatto così e questo è quello che fa».
Il giorno dopo che Michael si fu attenuto quasi alla perfezione al copione,
Mitchell chiamò Daly: «Secondo me hai sbagliato mestiere. Dovresti fare
l’indovino».
Frank Layden, che era stato il principale architetto dei Jazz, pensava che
quello sarebbe stato l’anno buono per la sua squadra, soprattutto dopo che
avevano annichilito i Los Angeles Lakers. Pensava che Utah fosse più forte
e che Michael Jordan, sebbene fosse chiaramente il miglior giocatore
dell’NBA, fosse leggermente peggiorato. Non molto, ovviamente, ma
abbastanza per lasciare ai Jazz uno spiraglio. Ma verso metà del terzo
quarto, vedendo che i Jazz non riuscivano a staccare i Bulls, divenne
sempre più teso: non voleva iniziare un quarto quarto contro Michael
Jordan con un vantaggio risicato. Mentre guardava le ultime azioni della
partita, aveva la nausea. Prima il terzo tempo di Jordan. Poi Jordan che
rubava la palla a Malone. Anche se Jordan aveva lasciato libero il suo
uomo, Jeff Hornacek, dietro di sé, Layden ne fu comunque impressionato,
perché, per quanto si ricordasse, era la pima volta che Michael lo faceva, in
quella partita. Se Malone fosse riuscito a passare rapidamente la palla a
Hornacek, i Jazz avrebbero vinto. Ma non ne ebbe materialmente il tempo:
l’arrivo della palla e la rubata sembrarono parte di un movimento unico.
Mentre Jordan prendeva l’ultimo tiro, Layden era sicuro che sarebbe entrato
anche prima che la palla gli uscisse dalle mani, perché Michael non
sbagliava quei tiri e la sua tecnica era assolutamente perfetta. Quando la
palla toccò la retina, c’era poco che potesse consolare Layden, che però
pensò: ‘Siamo appena stati battuti dal più grande atleta che io abbia visto in
vita mia, in qualsiasi sport’.
Dean Smith, che dalla fine della stagione 1996-97 non allenava più, non
era un grande appassionato di basket professionistico ma, se poteva,
guardava tutte le partite in cui erano coinvolti i suoi ragazzi, da allenatori o
da giocatori, e aveva guardato ammirato la serie contro Indiana. Pensava
che Gara Sette fosse stata una delle migliori prestazioni di sempre di
Michael Jordan. Il fatto che un giocatore così esausto potesse comunque
garantire quel livello di leadership in una gara decisiva, specialmente in
difesa, lo lasciava senza parole. Durante Gara Sei contro Utah, quando
Jordan segnò il lay-up, fu assolutamente certo che avrebbe poi tentato di
fare una grande giocata difensiva dall’altra parte del campo. «Sapevo che
avrebbe cercato di arrivare da dietro e rubare palla». Quindi, la rubata
contro Malone non lo sorprese affatto. Quello che invece lo sorprese fu il
fatto che, quando aveva la palla in mano, Utah non lo avesse raddoppiato o
triplicato, per far sì che Chicago dovesse dare l’ultimo tiro a un giocatore
meno forte. Michael, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro, viveva per
momenti del genere.
Quell’estate, Smith e Jordan si incontrarono e la prima cosa che Smith
disse al suo pupillo fu: «Michael, stai continuando a migliorare». Intendeva
dire che stava giocando con una conoscenza del gioco sempre maggiore e
con, almeno all’apparenza, un minimo declino fisico.
Nell’estate del 1998, fu stampato un volantino per il campo estivo
‘Michael Jordan’ di Las Vegas. Erano due pagine: su quella di sinistra, c’era
la foto di un giovane e smilzo Jordan mentre segnava il canestro decisivo
contro Georgetown nel 1982, con sotto la scritta ‘CERTE COSE’. Su quella di
destra, c’era il Jordan più maturo e muscoloso di sedici anni dopo, mentre
segnava il canestro decisivo contro Utah. Sotto, c’era scritto ‘NON CAMBIANO
MAI’.
Circa una mezz’ora dopo che Michael Jordan ebbe segnato il canestro
della vittoria, Phil Rosenthal, cronista del Chicago Sun-Times, incontrò
Jerry Krause in campo. Rosenthal aveva un rapporto con Krause
decisamente migliore di quello di molti altri giornalisti ed era stato sempre
affascinato da lui, dalla complessità di un uomo che avrebbe voluto fare
grandi cose ma, in qualche modo, finiva sempre per offendere qualcuno.
Nel caos dei festeggiamenti dopo la vittoria, quello che Krause disse in quel
momento non destò grande interesse nelle persone che correvano sul
campo, ma man mano che quella frase cominciò a circolare attirò più
attenzione e venne considerata da alcune persone vicine alla squadra un
segno, anche se lieve, di risentimento: «Io e Jerry [Reinsdorf] lo abbiamo
fatto [vincere un anello] sei volte». Era Krause allo stato puro: Rosenthal lo
aveva sempre considerato un uomo che avrebbe meritato più
riconoscimento di quello che riceveva, ma che ne voleva molto più di
quello che meritava.
32
Chicago, giugno 1998

Quando i Bulls tornarono a Chicago, ci fu un enorme raduno a Grant Park


per celebrare il sesto anello e, quella stessa sera, una cena privata al
ristorante di Michael Jordan: solo i giocatori, lo staff e le mogli. C’erano
tutti. O meglio, quasi tutti: per qualche motivo, Dennis Rodman riuscì a
perdersela, ma nessuno si sorprese più di tanto. In ogni famiglia c’è una
pecora nera. Fu una serata di grande rumore e grande gioia, perché il
risultato era eccezionale e perché era la fine di un viaggio; l’anno seguente
molti di loro sarebbero finiti altrove. A un certo punto, gli uomini e le
donne si separarono e la festa degli uomini divenne più emotiva e più
rumorosa.
Furono in particolare i brindisi a essere piuttosto sentiti. Jackson ne
propose uno per Ron Harper, parlando di quanto avesse dato alla squadra,
trasformandosi da stella in attacco a specialista della difesa e di come,
quando Jordan era ritornato dal baseball, fosse scivolato ancora più indietro
nelle rotazioni, ma non si fosse arreso. Harper, uno di quelli il cui contratto
sarebbe continuato anche nella stagione successiva, rispose che non era un
problema, perché aveva comunque alle spalle un contratto da cinque milioni
all’anno. «Certo» disse Scott Burrell, «anche se hai una gamba finta». Steve
Kerr propose un brindisi all’agente di Harper: un mago in grado di
strappare alla dirigenza di Chicago tutti quei soldi per un giocatore con una
gamba sola.
L’ultimo brindisi fu proposto da Scottie Pippen. Era praticamente sicuro
che lui non sarebbe tornato, quindi tutti ebbero la sensazione che quello
fosse l’ultimo brindisi dell’‘Ultimo Ballo’. Si alzò e propose di brindare a
Jordan. «Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza di te» disse. Fu
un momento emozionante, l’omaggio di un grande giocatore a uno ancora
più grande in quella che doveva essere la fine di un viaggio fenomenale.
Tutti i presenti si alzarono e brindarono. Quel momento simboleggiava sia
la straordinaria natura di quello che avevano ottenuto negli ultimi otto anni
sia il fatto che i componenti di quella squadra erano giunti alla fine.
Epilogo

Durante i quattordici anni in cui Michael Jordan giocò nell’NBA, nessuno,


a parte forse una manciata di altri giocatori, beneficiò dell’ascesa della
Lega, del suo pubblico e dello spostamento del potere dai proprietari ai
giocatori più di David Falk. All’alba di quella nuova epoca, era un agente
relativamente poco esperto, ma nel 1998 era ormai non solo il più ricco di
tutti i procuratori che avessero mai rappresentato dei giocatori di basket, ma
anche uno dei due o tre uomini più influenti dell’intero mondo della
pallacanestro, un uomo il cui potere, si diceva, era paragonabile a quello
dello stesso David Stern. Se è vero che i cambiamenti legali, economici e
tecnologici che erano avvenuti negli anni ottanta e novanta erano stati
decisamente vantaggiosi per i giocatori, lo erano stati probabilmente ancor
di più per gli agenti. Dall’inizio della sua carriera, si era separato due volte
dai suoi partner: la prima volta, prima di entrare a far parte dell’entourage
di Jordan, lui e Donald Dell si erano separati da Frank Craighill e Lee
Fentress; lui poi si era staccato anche da Dell, in quella che era stata
considerata una separazione professionale piuttosto aspra. Nel 1998,
vendette la società a uno studio più grande, specializzato negli spettacoli dal
vivo negli stadi del Paese: il prezzo stimato fu di 100 milioni e, come parte
dell’accordo, Falk continuò a gestire la sua parte dell’azienda. Un
comunicato stampa che annunciava la vendita faceva notare che la vecchia
compagna di Falk, la FAME (Falk Associates Management Enterprises),
‘rappresentava un numero senza precedenti di giocatori scelti al primo giro
del draft (sei), aveva negoziato oltre 400 milioni di dollari in contratti per
free-agent e negoziato quattro dei cinque contratti più importanti nella
storia degli sport di squadra’.
Nessuno dubitava dell’abilità e dell’intelligenza di Falk, ma c’era una
domanda che preoccupava molte persone che avevano a cuore la Lega e il
gioco in senso lato: Falk aveva un qualunque senso del bene comune?
Pensava ancora che la salute del gioco fosse importante? Secondo alcuni,
c’era il rischio che la dimensione dei contratti di alcuni giocatori sfruttasse
la vulnerabilità delle franchigie meno stabili, minacciando l’armonia della
Lega nel lungo periodo. Falk sembrava godersi il suo potere tanto quanto la
sua ricchezza, la possibilità di non rispondere alle telefonate e di far sì che
le altre persone, in particolare i proprietari, si sentissero vulnerabili quando
parlavano con lui. «State attenti a David, specialmente quando inizia
dicendo quanto vi rispetta» disse una volta un proprietario. «A quel punto,
perderete o il vostro portafoglio o il giocatore più forte della vostra squadra.
È il suo modo di dirvi che è più potente di voi».
Nell’estate del 1998, quando la Lega e il sindacato dei giocatori si
stavano preparando a un’enorme battaglia sulle regolamentazioni
contrattuali e i proprietari organizzavano una serrata, un buon numero di
clienti di Falk, tra cui Patrick Ewing, Dikembe Mutombo e Alonzo
Mourning acquisirono (non certo per caso) posizioni di rilievo all’interno
del sindacato. Questo non significava semplicemente che ora lo scontro era
tra Falk e i proprietari (perché c’erano parecchi altri agenti schierati
attivamente dalla parte dei giocatori), ma le questioni, in particolare quella
su un salary cap più o meno rigido, sembravano riguardare più la libertà che
favoriva l’élite della Lega che non il potere contrattuale di buona parte degli
altri giocatori. Sicuramente, diverse persone che conoscevano l’NBA videro
la serrata come una sorta di scontro tra Stern e Falk e, altrettanto
sicuramente, quando David Falk parlò con la stampa quell’estate, lasciò
intendere che Michael Jordan sarebbe potuto tornare per un’ultima stagione,
se David Stern non si fosse messo di mezzo. La serrata continuò e divenne
sempre più chiaro che Falk era una figura cruciale per il sindacato e che i
problemi colpivano i suoi migliori clienti molto più di quanto colpissero
buona parte dei giocatori. In un articolo particolarmente caustico,
l’influente editorialista del New York Daily Mail Mike Lupica scrisse: ‘Nel
mondo sportivo potrebbero anche esserci persone più ipocrite di David
Falk, ma oggi come oggi non me ne viene in mente nessuna’. Falk,
aggiungeva Lupica, in quelle negoziazioni si comportava ‘come Rasputin’,
ed era il genere di persona, rara a trovarsi, che faceva schierare un
giornalista dalla parte dei proprietari.
Alla fine dell’estate del 1998, mentre le tensioni sui contratti si facevano
sempre più forti e la serrata diventava sempre più probabile, ad alcuni suoi
amici David Stern sembrò molto più triste, se non addirittura malinconico,
come se rimpiangesse la perdita di quella vitale connessione umana che
aveva sempre avuto con i giocatori e di quello che riteneva un rapporto
privilegiato. Si fece crescere la barba e giurò che non se la sarebbe tagliata
finché non si fosse raggiunto un accordo. Allo stesso tempo si dimostrò
ancora una volta un uomo di marketing di prima categoria aprendo un
nuovo, gigantesco NBA Store sulla Fifth Avenue di New York e
riempiendolo di qualunque tipo di prodotto di merchandise che potesse
avere sopra la stampa del logo NBA. Presto, ci sarebbero stati ristoranti a
tema NBA in molte città.
Stern era ben conscio che i suoi critici storici, coloro che avevano odiato
il modo in cui il gioco si era evoluto negli ultimi anni – con il suo Dream
Team che aveva spazzato via i comuni mortali durante le Olimpiadi, con i
suoi accordi per sponsorizzazioni miliardarie con grandi aziende, con i suoi
colossali contratti per i diritti televisivi, con le sue scintillanti nuove arene
con le tribune di lusso e l’obbligatorio rumore assordante, con il crescente
distacco tra i suoi giocatori e i media – pensavano che stesse saltando in
aria sulla sua stessa mina. Pensavano che l’NBA, con Stern nel ruolo di
principale creatore della sua immagine, avesse guardato un po’ troppo al
marketing, nel tentativo di stare alla pari con gli altri sport. Peggio ancora,
mentre guadagnava quello strabiliante successo, l’NBA aveva
inevitabilmente fatto credere a già troppi giocatori di essere al di sopra delle
tradizionali regole di responsabilità economica e sociale, esente da qualsiasi
forma di controllo, e che la fenomenale (e improbabile) crescita della Lega
durante gli anni ottanta e novanta non fosse stata una sorta di straordinaria
coincidenza tecnologica e sociale, quanto piuttosto il frutto di un duro
lavoro. Era per questo che i loro salari erano cresciuti a un ritmo così
straordinario durante il decennio passato, ma con essi era cresciuta anche la
loro separazione dalla realtà.
Stern, a volte, scherzando con gli amici, diceva che avrebbe potuto essere
arrestato per falsa testimonianza, visto che per molto tempo aveva nascosto
i difetti ed esaltato la vena artistica dei giocatori, e soprattutto aveva tentato
di minimizzare l’idea secondo cui gli atleti moderni erano… beh, avidi.
Amava parlare con nostalgia dei suoi primi giorni come dirigente della
Lega, quando aveva lavorato con la generazione precedente di sindacalisti e
di giocatori, uomini che avevano un senso della partecipazione e obiettivi
condivisi. Tutti stavano imparando a proprie spese che era molto più
difficile gestire una partnership condivisa in tempi di vacche grasse, che
non in quelli di vacche magre. Ciò che lo infastidiva ora era che i giocatori
e gli agenti avessero la memoria così corta e nessuno si ricordasse quel
periodo, pur così recente, in cui la Lega non riusciva neanche a far
trasmettere le partite dei playoff in prima serata.
Quello che rendeva particolarmente acuta la sofferenza di Stern era il
fatto che lui non era mai stato semplicemente un fantoccio nelle mani dei
proprietari, come invece spesso capitava ai massimi livelli dello sport.
Amava i giocatori, amava il gioco e si dedicava con passione a entrambi.
Aveva sempre avuto a cuore la salute del gioco su larga scala, una salute il
cui principio e la cui fine, credeva, erano il rispetto da parte del pubblico e
il suo investimento emotivo nei giocatori. Per dirla con Bob Bryan: «Nel
periodo critico in cui l’NBA stava cominciando ad avere successo, tra gli
ingredienti fondamentali ci furono gli accordi contrattuali che la Lega
stipulò coi sindacati: avrei tranquillamente potuto vedere David Stern
rappresentare il sindacato e Larry Fleisher [allora capo del sindacato] essere
il commissioner, perché entrambi amavano il gioco allo stesso modo e
avevano la stessa visione su quello che volevano succedesse in futuro».
Ma questo non era più vero: sotto il peso quell’enorme prosperità, era
cambiato tutto. Negli ultimi anni, i guadagni e i salari avevano avuto
incrementi che lasciavano senza parole, facendo a pezzi qualunque
possibilità di collaborazione. Quando nel 1978 Stern era arrivato nella Lega
come dirigente (tutto sommato ancora poco esperto), la somma degli
stipendi di tutti i giocatori era intorno ai 40 milioni di dollari; vent’anni
dopo, il solo Michael Jordan guadagnava più o meno quella cifra in un solo
anno, il libro paga della sua squadra era quasi il doppio e il totale della Lega
si aggirava intorno al miliardo. Significava che i salari erano cresciuti di
circa il 2.500% in vent’anni. Ma la nuova generazione di giocatori,
rappresentata dalla nuova generazione di agenti, era ben poco interessata
alle storie sui bei tempi andati, che riguardavano quello che sembrava
essere un altro secolo e che raccontavano come si fosse ottenuto così tanto
in così poco tempo.
Nell’autunno del 1998, le trattative tra i dirigenti della Lega e i proprietari
da una parte e i giocatori dall’altra si mossero a rilento. Era un conflitto
sindacale, piuttosto inusuale: un gran numero di miliardari da un lato e un
sacco di milionari dall’altro. Tony

Kornheiser del Washington Post scrisse che milionari alti stavano


scioperando contro milionari bassi, Sam Smith del Chicago Tribune
aggiunse che era come assistere a un incidente tra limousine: ‘Un tizio esce
dalla prima limo, lamentandosi perché nell’urto ha rovesciato il suo
bicchiere di Château Lafite Rothschild, e un altro tizio esce dall’altra limo,
disperato perché c’è un graffio sul suo Rolex’. Nel 1998, il salario medio di
un giocatore era di 2,5 milioni di dollari. David Stern stesso ne guadagnava
7 all’anno, e questo era un punto a cui i giocatori e gli agenti si attaccavano
in maniera particolare. Patrick Ewing, il capo del sindacato, quell’anno
avrebbe guadagnato 18,5 milioni di dollari, come parte di un meraviglioso
quadriennale. E questo era un punto a cui i proprietari si attaccavano in
maniera particolare. Il problema sembrava non essere tanto quanti soldi
venivano guadagnati al momento ma se gli stipendi sarebbero potuti
cambiare in futuro. Ci sarebbe mai stato un limite alla possibilità, per le
squadre, di ingaggiare giocatori migliori? Poteva essere studiata una
formula che attribuiva il giusto compenso a ottimi giocatori dopo un certo
periodo di servizio, senza minacciare la stabilità e l’equilibrio della Lega
intera? I problemi di cui si stava discutendo riguardavano davvero l’80%
dei giocatori o solo un gruppetto di stelle che si sarebbero meritate stipendi
giganteschi?
La verità era che con stipendi così grandi e costantemente in aumento, in
un uno scontro del genere i giocatori erano destinati a perdere. Rispetto ai
primi dissidi con i proprietari, avevano smarrito una risorsa cruciale: il
supporto dell’opinione pubblica. Erano pochi gli appassionati di sport che
avevano mai tifato per i proprietari o che li avevano idolatrati e ben pochi
giovani americani, da adolescenti, avevano sognato di possedere una
franchigia. Dal punto di vista della reputazione, i proprietari non avevano
nulla da perdere. I giocatori sì: completamente distaccati dal mondo che li
circondava, estranei anche ai migliori cronisti che si occupavano di loro,
spinti da agenti che avevano un legittimo interesse nel loro successo, ma
anche paura di essere del tutto onesti con loro, raramente era concesso loro
quello che era concesso a grandi superstar come Michael Jordan. La loro
causa non era particolarmente popolare nemmeno tra coloro che erano
abituati a prendere le parti dei lavoratori nelle negoziazioni contrattuali.
I proprietari volevano che ci fossero dei limiti significativi all’‘eccezione
Larry Bird’ per riuscire a rimanere nei confini del salary cap, su cui peraltro
tutti erano d’accordo. Sostenevano di non voler riportare indietro il tempo o
abbassare gli stipendi, né tantomeno limitare la significativa libertà di
movimento dei giocatori. Quello che stavano cercando di fare, dopo la
firma di Kevin Garnett, era cercare di limitare ulteriori, folli aumenti (non
solo da parte dei giocatori, ma anche di loro stessi). Se accettata, la loro
offerta avrebbe portato il monte stipendi totale a 1,2 miliardi di dollari per
quattro anni, un aumento del 5% scarso. Con i vecchi accordi, invece, i
giocatori avrebbero preso il 52% dei ricavi lordi, ma la curva dei salari
annuali era stata così ripida (circa il 15-16% all’anno) che ora quella
percentuale era arrivata al 57% e non accennava a stabilizzarsi. Dopo aver
chiuso il contratto di Garnett, Kevin McHale aveva dichiarato: «Abbiamo
messo le mani al collo della gallina dalle uova d’oro. E stiamo già
stringendo troppo forte».
Il fatto che Michael Jordan fosse speciale perché aveva aiutato a cambiare
l’economia complessiva del gioco, e che i giorni in cui aveva avuto lo
stipendio più alto erano arrivati verso la fine della sua carriera, sembravano
essere concetti al di là della comprensione dei giocatori.
Quello che stava succedendo, probabilmente, era questo: dopo un periodo
di crescita effettivamente fenomenale di cui tutte le parti avevano
beneficiato oltre le più rosee aspettative, e in cui la Lega aveva goduto di un
aumento di popolarità e di uno sviluppo generale senza precedenti nella
storia dello sport (soprattutto grazie a profondi cambiamenti tecnologici), e
un singolo grandissimo giocatore era diventato una sorta di vetrina per il
gioco, i proprietari, il commissioner, i giocatori e gli agenti stavano ora
cercando di definire qual era la realtà post Jordan, in un mondo che di realtà
ne aveva poca perché mosso dalla fantasia.
Nessuna azienda arricchì Michael Jordan più della Nike e nessuna
beneficiò in maniera maggiore della sua esplosione. Nel 1998, Jordan aveva
guadagnato, nella sua intera carriera, circa 130 milioni di dollari in
sponsorizzazioni della Nike. Escluso il suo periodo sabbatico nel baseball,
la media era di circa 10 milioni di dollari a stagione. In cambio, non aveva
solo garantito alla Nike di guadagnare letteralmente miliardi di dollari, ma
l’aveva anche aiutata a vincere una serie di battaglie all’ultimo sangue
contro la Reebok, al culmine della grande guerra globale delle sneakers.
Quando aveva firmato il contratto con Jordan, la Nike era appena scivolata
alle spalle della Reebok, ma Michael cambiò quell’equazione in modo
clamoroso. Il ricavato lordo del primo anno delle Air Jordan furono 130
milioni di dollari: la rimonta della Nike era cominciata. Nel 1986, a causa di
una serie di errori di calcolo abbastanza gravi da parte dell’azienda, la quota
del mercato americano di scarpe da ginnastica della Reebok era nettamente
superiore: 31,3% contro 20,7%. Quattro anni dopo, soprattutto grazie a
Jordan, la Nike aveva ripreso il comando e lo teneva ben saldo. La Reebok
fu una delle prime aziende a rendersi conto di quanto la presenza di
Michael, sia sul campo che fuori, fosse speciale e difficile da replicare:
investì una grande somma su O’Neal, ma non funzionò. Shaq finì per
rescindere il suo contratto da 15 milioni per cinque anni e nel 1998 diventò
una figura relativamente nuova negli sport americani: un atleta senza un
contratto con un’azienda di sneakers. Era chiaro che non tutti gli atleti, a
prescindere dal loro livello di fascino o di abilità, potevano prendere il
posto di Jordan né in campo né sullo schermo.
Naturalmente, la crescita della Nike non era del tutto attribuibile alla
presenza di Jordan, ma nel 1984 l’azienda aveva ricavi per 919 milioni di
dollari e un utile netto di circa 40. Alla fine del 1997, i ricavi erano
superiori ai 9 miliardi e l’utile netto intorno agli 800 milioni, con delle
percentuali di crescita sorprendenti.
Michael Jordan non era mai stato particolarmente vicino a Phil Knight,
uno degli amministratori delegati più iconoclasti e meno prevedibili nella
storia del business americano. Knight era chiaramente un visionario ma
sembrava spesso estremamente imbarazzato nei rapporti sociali e non era
sotto nessun aspetto il tipo di persona con cui Jordan si sentiva a suo agio.
Negli anni le chiacchiere fra loro furono piuttosto limitate, e a un certo
punto Jordan fu molto vicino a lasciare la Nike per diventare un partner a
pieno titolo di una nuova azienda di sneakers, fondata da Rob Strasser e
Peter Moore, ex dirigenti della Nike con cui lui si sentiva molto più
connesso. Il primo incontro fra Jordan e Knight non era stato affatto
piacevole: Michael aveva fatto aspettare il CEO per diverse ore, e si era
presentato con un atteggiamento ostile e rabbioso. Era stato chiaramente
preparato per quella battaglia dai rinnegati della Nike, che gli avevano
probabilmente fatto notare quanto fosse minima la sua fetta della gigantesca
torta che aveva contribuito a preparare. Ma l’operazione nel suo complesso
presentava troppi rischi, in particolare per qualcuno la cui carriera poteva
finire da un momento all’altro per via di un infortunio, e la prospettiva di un
Phil Knight infuriato che poteva usare il tutt’altro che trascurabile potere
della Nike per tenere una nuova società, pur fondata su Jordan, fuori dai più
grandi negozi di abbigliamento sportivo del mondo non era una cosa che
Michael o Falk volevano affrontare. Il risultato di quelle trattative fu una
quota maggiore dei guadagni per Jordan e, all’inizio degli anni novanta, in
modo molto silenzioso e senza troppa attenzione da parte del pubblico,
cominciò a guadagnare circa 20 milioni all’anno dalla Nike.
Verso la fine degli anni novanta, la Nike non era più un nano che cercava
di tagliare le gambe ai giganti, ma era il più grosso di quei colossi: la sua
notorietà e il suo marchio erano ovunque. Non era semplicemente una
multinazionale, ma una gigantesca piovra, con tentacoli che arrivavano in
qualunque angolo del mondo dello sport. Lo swoosh, il suo logo, sembrava
essere onnipresente e il suo potere metteva piuttosto a disagio i
tradizionalisti. A causa della sua enorme visibilità e della particolare
visibilità dei suoi atleti, divenne inevitabilmente il bersaglio ideale per le
critiche di chi si preoccupava di una questione più ampia: la
regolamentazione del lavoro da parte delle multinazionali americane nei
paesi del terzo mondo. Accuse di paghe inaccettabili, condizioni di lavoro
tutt’altro che sicure e sfruttamento del lavoro minorile furono mosse in
generale contro l’azienda e in particolare contro Jordan, come suo uomo
copertina. Le fabbriche in Vietnam, dove si diceva che gli stipendi fossero
inferiori a due dollari al giorno, furono al centro di polemiche
particolarmente aspre.
Jordan sembrava sconcertato da tutto quel clamore, come d’altronde
anche altre celebrità che erano state coinvolte nella corsa al nome da parte
delle grandi marche: non aveva mai pensato che la grande visibilità che i
suoi sponsor gli garantivano potesse avere un lato negativo, né tantomeno
che sarebbe diventato il bersaglio di persone che manifestavano per il
supposto sfruttamento di minori in qualche lontano Paese. Nella primavera
del 1998, girò la voce che Jordan avrebbe visitato le fabbriche in Vietnam
durante l’estate insieme a un selezionatissimo seguito di giornalisti: un
viaggio che avrebbe prodotto una marea di materiali televisivi e avrebbe
anche fatto un’ottima pubblicità all’azienda. Ma all’inizio dell’autunno, il
viaggio sembrò rimandato a data da destinarsi.
Se c’era qualcuno ancora più sconcertato di Jordan era lo stesso Knight:
l’Asia lo aveva affascinato a lungo e aveva intuito molto tempo prima la
crescente importanza di quella regione non solo come possibile mercato ma,
cosa ancor più importante, come possibile sfidante della tradizionale
egemonia delle economie occidentali. Si considerava un pioniere e un
visionario, in un nuovo ordine mondiale in cui l’importanza dell’Europa
Occidentale era in declino e quella dell’Asia e del Pacifico in crescita,
qualcuno insomma che aveva visto il futuro prima di tutti gli altri capitani
d’industria americani. Non reagiva bene quando lo si accusava che più che
vedere il futuro stesse sfruttando il presente. Le sue iniziali reazioni a
queste critiche furono decisamente poco accorte, soprattutto perché era
sicuro del fatto che la Nike stesse facendo il bene di quei Paesi. Fece
l’errore di concedere un’intervista all’irriverente regista Michael Moore:
forse Knight pensava che fosse un anticonformista come lui e che i due
volessero in fondo la stessa cosa. Quel segmento di intervista finì invece in
un film chiamato The Big One e fu un disastro di immagine sia per lui che
per la Nike. Tra le altre cose, mostrava Moore che invitava Knight ad aprire
una fabbrica a Flint, nel Michigan, una ex zona industriale degli Stati Uniti
attualmente abbandonata, invece di aprirne un’altra in qualche villaggio
dell’Asia. Nel maggio del 1998, rendendosi finalmente conto che buona
parte del resto del mondo non vedeva la sua azienda, o i suoi sotterfugi
economici, come li vedeva lui, annunciò grossi cambiamenti nella
produzione all’estero della Nike: le fabbriche asiatiche avrebbero rispettato
gli standard di salute e sicurezza americani, e l’età minima dei nuovi
lavoratori sarebbe stata aumentata da sedici a diciotto anni. Tuttavia, non
menzionò nessun aumento di paga per i lavoratori: in futuro, la cosa gli
sarebbe costata.
Quando Michael Jordan prese quell’ultimo tiro contro Utah, molte delle
persone che gli erano più vicine, come per esempio Roy Williams,
pensarono che fosse l’atto finale di una brillante carriera. Erano certe che
sulla sua straordinaria avventura coi Chicago Bulls stesse calando il sipario,
nonostante in un certo senso lui stesse giocando meglio che mai e
nonostante il fatto che il suo amore per il gioco non fosse minimamente
scemato: era affamato come sempre. Phil Jackson, però, se ne sarebbe
andato e non vedeva l’ora di svuotare la sua scrivania al Berto Center.
Jordan aveva giurato che non avrebbe mai giocato per un altro allenatore,
anche se c’erano diversi indizi che suggerivano la possibilità di poter
infrangere quel particolare giuramento. Cosa ancora più importante, però,
era improbabile che Scottie Pippen, il pezzo più importante del domino,
sarebbe mai tornato: era furioso con la dirigenza dei Bulls e provava il
bruciante desiderio di andare da qualche altra parte. Sembrava sicuro che se
ne sarebbe andato, lasciando Jordan in balia degli assalti degli avversari
futuri. La stagione 1997-98 era stata molto dura e i Bulls avevano
dimostrato di essere sempre più stanchi: anche se fossero riusciti a prendere
dei buoni free-agent, un’intera stagione senza Pippen come spalla avrebbe
potuto mostrare Jordan come una star ormai in declino, in grado ormai di
fare solo determinate cose in campo.
Ma la serrata cambiò completamente le carte in tavola. All’improvviso,
non solo i movimenti dei giocatori erano limitati, ma i giocatori non
potevano nemmeno parlare con i dirigenti. Nessuno, a inizio dicembre
1998, sapeva ancora quando la stagione sarebbe iniziata, ma nemmeno se ci
sarebbe mai stata una stagione. La situazione di Pippen rimase congelata, e
lui schiumava di rabbia contro l’ingiustizia di quel mondo che, quando
finalmente avrebbe avuto l’occasione di guadagnarsi un grosso stipendio,
aveva messo l’ennesimo ostacolo sulla sua strada. Secondo alcune persone
vicine a Jordan, la possibilità di una stagione più breve avrebbe però potuto
cambiare l’atteggiamento di Michael, rendendolo più disponibile a tornare.
Forse, ritenevano, Michael e una squadra anche tenuta insieme con i cerotti
sarebbero stati in grado di raggiungere i playoff e lì, grazie al potere della
sua straordinaria forza di volontà, sarebbe stato capace di dominare ancora
una volta.
Se a dicembre non era ancora sicuro se avrebbe continuato giocare o
meno, c’erano invece molti elementi su cui basare una stima del suo
particolare ruolo nello sport americano. Non era un uomo che aveva fatto
epoca, almeno non nel senso classico: non era come Jack Johnson, Paul
Robeson, Jackie Robinson, Muhammad Ali e Arthur Ashe, che avevano
avuto vite complicate e le cui dolorose lotte contro pregiudizi di lunga data
e barriere razziali avevano avuto un grande impatto non solo sullo sport, ma
sulla storia del razzismo in America. Non era il primo, per esempio, come
erano invece stati Robinson, Ashe e Johnson, e neppure aveva posto una più
ampia e a volte più complessa questione politica davanti all’establishment
bianco, come avevano invece fatto Robeson e Ali. Il tempismo del suo
ingresso nel mondo dell’educazione, dello sport e della pubblicità americani
era stato impeccabile e ben poche cose gli erano state negate a causa del
colore della sua pelle. Se la sua carriera rifletteva qualcosa di più grande
dello sport in termini storici e razziali, questo era la disponibilità del
capitalismo americano, seppur riluttante, a capire che un talentuoso e
attraente atleta di colore poteva vendere in modo decisamente persuasivo
anche prodotti piuttosto banali. Non che Jordan non avesse affrontato i
pregiudizi, almeno all’inizio. Quando aveva mosso i primi passi come
testimonial, David Falk lo aveva proposto a un vasto numero di grandi
aziende americane e il rappresentante di una di queste aveva suggerito che
Jordan sarebbe stato perfetto per promuovere i Beanie Weanies, un prodotto
a base di salsiccia e fagioli molto popolare tra i neri più poveri del Sud,
un’offerta che dal punto di vista commerciale non era molto diversa da
quando gli Harlem Globetrotters avevano cercato di ingaggiarlo dopo che
era stato eletto Giocatore di college dell’anno a Carolina. Falk e Jordan
avevano cortesemente declinato l’offerta ma già in quel primo anno, tra lo
stupore di tutti, le Air Jordan avevano frantumato ogni record esistente per
un prodotto dedicato a un giocatore. L’argine si era rotto e Jordan aveva
superato le barriere razziali che esistevano nel mondo della pubblicità.
Divenne un collezionista di record anche in questo campo, perché era
abbastanza sicuro che nessun americano di nessun colore fosse mai entrato
in più case negli Stati Uniti o all’estero, o venduto prodotti con più
successo. Nell’estate del 1998, Fortune preparò uno studio dettagliato su
Jordan come figura del capitalismo moderno e stimò che avesse contribuito
a generare entrate per 10 miliardi di dollari per la Lega, le reti televisive e i
vari partner commerciali.
Non apparteneva a quel pantheon di atleti che erano anche figure
storiche, uomini le cui traversie dovute alla razza erano affascinanti quanto i
loro meriti sportivi, quindi quello che lasciò al tifoso medio fu
un’incredibile galleria delle sue performance in campo: una sorta di cometa
umana che quasi per miracolo aveva ripetutamente offerto delle grandi
prestazioni, e tutti noi eravamo stati dei privilegiati a poter vedere quei
lampi nel buio, ancora e ancora, da parte dell’atleta più carismatico che
avesse mai giocato a basket, brillante, armonioso e, ovviamente, feroce.
Possedeva al massimo grado tutte le qualità necessarie per essere un
grandissimo e, in più, era come se qualche ingegnere genetico avesse
inserito nel suo DNA un gene speciale per la competitività. Aveva finito per
rappresentare più di qualunque altro atleta degli ultimi anni l’uomo
invincibile, qualcuno che semplicemente si rifiutava di essere sconfitto.
A volte, più che un atleta, era sembrato un esploratore: era andato oltre i
limiti che erano precedentemente accettati, oltre le colonne d’Ercole di
quello che era umanamente possibile, e in qualche modo, grazie a
un’eccezionale capacità fisica e a una forza di volontà senza pari, aveva
spinto quei limiti ancora più in là. Questo, per i milioni di persone che lo
avevano guardato giocare negli anni, non era certo roba da poco.
Postfazione

E poi, un giorno, se ne andò. Lo sciopero finì e i giocatori tornarono in


campo per una stagione decisamente breve. Non solo Michael Jordan se
n’era andato, ma i Bulls erano una squadra completamente diversa. Era ora
che un altro campione iniziasse la sua scalata e che nuovi giocatori giovani
e talentuosi condividessero quei riflettori che negli ultimi anni erano stati
puntati esclusivamente su Jordan e sui suoi compagni di squadra.
Michael Jordan non si limitò a ritirarsi, scomparve completamente: si
fece vedere di rado, per toccate e fughe su alcuni campi da golf, ma
sembrava crogiolarsi nel fatto di aver ripreso il controllo della sua vita.
Evitava di apparire sui media, rifiutò una serie di offerte da parte della
televisione, ma fece qualche apparizione in alcune scuole: una di queste
visite gli attirò addosso delle critiche, perché Jordan incontrò a malapena gli
insegnanti, per non parlare degli studenti, a cui diede delle fotocopie del suo
autografo. Rimase un’icona commerciale, e anche dopo che si fu ritirato ci
furono numerose grandi campagne pubblicitarie con il suo volto, inclusa
una per una compagnia telefonica in cui appariva insieme a dei personaggi
dei cartoni animati realizzando l’impensabile: far apparire Michael Jordan
poco attraente e non a suo agio. Un altro spot lo mostrava mentre si sfidava
uno contro uno in varie discipline con la stella del calcio Mia Hamm: era
una pubblicità del Gatorade ma era così simile, per stile e ritmo, a quelle
della Nike che probabilmente finì per vendere più sneakers che energy
drink.
I Bulls non furono più gli stessi. Scottie Pippen se ne andò a Houston,
dove firmò un grosso contratto ma, pur giocando insieme a Charles Barkley
e Hakeem Olajuwon, ebbe una stagione difficile: era probabilmente il
miglior giocatore in transizione di tutta la Lega, ma negli schemi più
strutturati e più lenti di Houston sembrava fuori posto. La sua frustrazione
raggiunse livelli considerevoli e a un certo punto si chiese apertamente
perché i Rockets si fossero impegnati tanto per fargli firmare un contratto,
se non avevano intenzione di sfruttare le sue particolari qualità. A Dennis
Rodman, esplosivo, egocentrico e con problemi di alcol sempre più gravi,
non fu rinnovato il contratto. Durante l’estate pare che si fosse sposato con
l’attrice Carmen Electra e che avesse anche divorziato nella stessa
settimana. Dwight Manley, suo agente ormai da tempo, era esausto per tutti
gli anni in cui aveva dovuto fargli da balia in una serie di situazioni
piuttosto spinose: fu licenziato (o diede le dimissioni, a seconda della fonte
della storia), rendendo Rodman più vulnerabile che mai nei confronti del
mondo esterno. Fu una meteora ai Lakers, dove giocò poche partite e ne
saltò molte altre, ma presto si ritirò. A quanto pareva, per fare l’attore.
Senza Jordan, Pippen e Rodman, gli avversari banchettarono su quel che
rimaneva dei Bulls, che finirono con uno dei peggiori record nella storia
della Lega; vinsero però il sorteggio, e con esso il diritto di scegliere per
primi al draft.
Phil Jackson, chiaramente stremato dalle stagioni a Chicago, si prese un
anno sabbatico per leggere, tenere conferenze e valutare le meravigliose
offerte che gli arrivavano da franchigie decisamente nei guai. L’incarico che
avrebbe desiderato era a Los Angeles, perché pensava che i giocatori dei
Lakers, in particolare Shaquille O’Neal, fossero perfetti per l’attacco a
triangolo. Anche se i proprietari dei New Jersey Nets, che avevano già sotto
contratto un gruppo di giocatori di talento e molto giovani, cercarono
disperatamente di ingaggiarlo, lui prese tempo aspettando l’offerta dei
Lakers. Non era sicuro che sarebbe arrivata: i Lakers non pagavano grandi
stipendi agli allenatori e non amavano cercare coach di talento fuori dalla
loro cerchia. Ma quando, dopo un’altra deludente apparizione ai playoff,
divenne chiaro che la squadra non stava migliorando e che i giocatori,
nonostante il loro considerevole talento, non erano ben assemblati (e
dovevano ancora essere risolti gli attriti tra O’Neal e un giocatore di infinito
talento ma ancora decisamente acerbo di nome Kobe Bryant), Los Angeles
chiamò. Jerry Buss, il proprietario dei Lakers, si rese conto che quei
giocatori avevano necessità di un certo ordine e di una certa coesione e fece
a Jackson l’offerta che voleva: cinque anni a circa 30 milioni. Ottenere quel
che si vuole è sempre una cosa pericolosa nella vita, ma come già successo
a Chicago, il tempismo di Jackson sembrò perfetto: arrivò in un momento in
cui delle superstar molto dotate erano estremamente frustrate e disposte ad
ascoltare.
La vita nell’NBA andò avanti anche senza Michael; forse, rispetto agli
anni precedenti, in modo un po’ più banale e incentrato più sul basket e
meno sulla celebrità. La Lega subì l’inevitabile calo degli ascolti legato
all’addio di una superstar come Jordan, in grado di galvanizzare il pubblico.
A causa dello sciopero, molti giocatori arrivarono ai ritiri prestagione
tutt’altro che in perfetta forma e con meno tempo per prepararsi alla nuova
annata e nessuno corrispondeva a questa descrizione più del leader
sindacalista Patrick Ewing. Poiché la stagione fu così corta, furono giocate
troppe partite in troppo poco tempo e molte di esse risultarono, come era
prevedibile, piuttosto brutte. Tuttavia, la stagione fu un’occasione perfetta,
per i fan più accaniti, di ammirare il talento di alcuni dei giocatori giovani.
Vince Carter, un giocatore uscito da Carolina e con abilità fisiche simili a
quelle di Jordan (il cui atletismo era stato ovviamente represso dagli
allenatori di Chapel Hill), causò un certo grado di eccitazione, diventando
Rookie dell’anno e protagonista di molti filmati di highlights.
Divenne presto evidente che il miglior giocatore della Lega era il giovane
centro di San Antonio Tim Duncan, arrivato alla sua seconda stagione. Era
chiaramente il ragazzo più talentuoso a entrare in NBA dai tempi di
Michael Jordan, e anche il più completo, quello allenato meglio e più
bilanciato dal punto di vista emotivo, con un sesto senso per il gioco e per il
ritmo di ogni partita. Sotto canestro era forte e sorprendentemente
muscolare, ma anche in grado di tirare nel modo più delicato possibile.
Apparentemente, non aveva punti deboli e sbagliava molto poco. Sembrava
essere il primo lungo, almeno dai tempi di Bill Walton, a essere da subito
anche un allenatore in campo. Guardarlo giocare, con costante fluidità e
intelligenza, osservare il suo notevole lavoro di gambe – che sarebbe stato
eccezionale per qualsiasi giocatore, figuriamoci per uno alto più di due
metri – era puro piacere per quei tifosi che si stavano stancando della
sempre maggiore fisicità della Lega. Quando giocava contro Shaquille
O’Neal, la differenza tra loro era scioccante, anche se Shaq era più grosso,
più forte e probabilmente più veloce.
Nel vuoto di potere dopo Michael, mentre le squadre si giocavano la
possibilità di succedere ai Bulls, le due franchigie che, basandosi sulle loro
performance del 1998, erano state indicate come favorite prima dell’avvio
della stagione erano gli Indiana Pacers e gli Utah Jazz, ma entrambe
avrebbero deluso le attese. I Pacers non erano migliorati rispetto alla
squadra che aveva spaventato i Bulls durante le finali di Conference
dell’anno prima: allora, erano sembrati una squadra giovane e con una
panchina lunga, ma durante le finali di Conference del 1999, contro una
squadra sorprendentemente atletica come i Knicks, sembrarono invecchiare
di colpo. La stessa cosa successa ai Jazz a ovest: erano ancora una buona
squadra, che eseguiva gli schemi d’attacco con disciplina e intelligenza, ma
erano anche più vecchi e fragili di buona parte degli avversari. Uscirono dai
playoff contro Portland, una squadra molto fisica e con una panchina molto
variegata.
San Antonio vinse l’anello e tutto sommato non fu una sorpresa. Avevano
il miglior giocatore della Lega (Duncan) e anche un altro dei lunghi
migliori, David Robinson. Spesso criticato in passato, Robinson aveva
accuratamente modellato il proprio gioco per adattarsi alla maggiore qualità
di Duncan, facendosi carico del pesante e oscuro lavoro sotto canestro,
lasciando Duncan libero di esprimere quello che era: una minaccia
offensiva a 360°. Come i Bulls, ognuno degli Spurs sembrava sapere cosa ci
si aspettava da lui, sapeva rimanere nei limiti e giocava in modo esemplare
in difesa. Uno dei beneficiari della loro corsa al titolo fu Steve Kerr, tiratore
puro arrivato a San Antonio dopo lo smantellamento della squadra di
Chicago. In pochi avrebbero previsto, un anno prima, che sarebbe stato
l’unico tra i Bulls a vincere il quarto titolo di fila.
Ringraziamenti

Sono molto grato agli autori con cui ho lavorato nell’ultimo anno per la loro
amicizia e il loro aiuto. Steve Jones, un collega meraviglioso, divertente e
acuto, è stato una spalla fin dal mio primo libro sul basket e abbiamo avuto
modo di approfondire la nostra amicizia nell’ultimo anno. Tra quelli con cui
ho lavorato, voglio nominare soprattutto Bob Ryan: siamo amici da più di
vent’anni, da quando io, un suo fedele lettore, scrissi il mio primo libro sul
basket e lui mi contattò per aiutarmi e darmi il benvenuto nel suo mondo. È
un collega inestimabile e che adoro. Non è solo una costante fonte di
aneddoti («Era Gara Sei delle Finals e sul cronometro rimanevano solo un
minuto e cinquanta secondi. Bird ricevette palla dalla rimessa. Si era fatto
male a un dito della mano sinistra nel possesso precedente, e i Lakers
stavano quindi cercando di mandarlo a sinistra. Ma lui sapeva che lo
avrebbero fatto e…») ma ha anche uno splendido codice etico: la sua
passione per il gioco e il suo senso di quello che, al suo interno, è giusto e
sbagliato, rimangono senza pari. Coloro che lo seguono, sono i beneficiari
di quella passione.
Nel 1956, come inviato alle Olimpiadi di Melbourne, Red Smith scrisse
che lì erano ben rappresentati due dei grandi poteri del mondo post-bellico:
il Giappone e Sports Illustrated. Questo è più o meno il modo in cui oggi si
sente ogni giornalista sportivo quando si parla della ESPN. Sembra avere
uomini ovunque, molti di gran talento, e nonostante lavorino per la
televisione, amano andare sul campo e comportarsi come cronisti. Bryan
Burwell e David Aldridge mi hanno aiutato molto e chiunque si occupi di
quest’epoca dell’NBA deve essere particolarmente grato al duro lavoro di
Sports Illustrated e delle persone che ci scrivono, soprattutto Jack
McCallum, Frank Deford, Rick Reilly, Curry Kirkpatrick, Phil Taylor e
Alexander Wolff. Deford, bisogna aggiungere, raggiunge un livello di
professionalità (letteraria e intellettuale) così alto da rendere il suo lavoro
uno standard a cui aspirare.
Chi ci ha preceduto, ci rende sempre il lavoro più facile; in questo caso i
libri di Sam Smith (The Jordan Rules e Second Coming), Mitchell Krugel
(Michael Jordan), Rick Telander (The Year of the Bull), Melissa Isaacson
(Transition Game), Bob Greene (Hang Time e Rebound) e Roland Lazenby
(Blood on the Horns). Inoltre, Lazenby ha pubblicato una serie di altri titoli
molto utili per qualunque fanatico del basket: And Now Your Chicago Bulls,
The Lakers e The NBA Finals: A Fifty-Year Celebration.
I due libri di Phil Jackson, Più di un gioco (insieme al sempre attento
Charley Rosen) e Basket&zen sono preziosi. Due altri titoli mi hanno
aiutato molto a scrivere la parte su Carolina: The Dean’s List di Art
Chansky e A March to Madness di John Feinstein. The Unauthorized
Biography of Dennis Rodman di Dan Bickley (come anche il best-seller
scritto dallo stesso Rodman, Bad as I Wanna Be) mi hanno aiutato a
tratteggiare quel ragazzo così strano. Due libri sulla Nike, Just Do It di
Donald Katz e Swoosh di J.B. Strasser e Laurie Becklund, sono stati molto
utili.
Per la parte sui Celtics, The Last Banner di Peter May, Ever Green di Dan
Shaughnessy e Drive, scritto a quattro mani da Bob Ryan e Larry Bird, sono
stati inestimabili. Il lavoro di Isiah Thomas e Matt Dobek, Bad Boys!, mi ha
aiutato per la parte sui Pistons; e Show Time di Pat Riley e The Lives of Pat
Riley di Mark Heisler sono stati inestimabili per comprendere gli anni
migliori dei Lakers, così come, d’altra parte, l’autobiografia di Magic
Johnson My Life, e Best Seat in the House di Spike Lee, che mi ha guidato
nel parlare di Spike Lee.
Infine, i tre tomi di A Hard Road to Glory: A History of the African-
American Athlete di Arthur Ashe rimangono una fonte inestimabile per
chiunque voglia parlare di sport e razza in America.
Ci sono molte persone a cui devo qualcosa. Nella dirigenza dei Bulls, i
meravigliosi Tim Hallam, Tom Smithburg e Darryl Arata, che sono
bravissimi a fare quel che fanno. Date le frizioni all’interno della dirigenza,
stavano sempre camminando in un campo minato e penso siano tra le
persone più professionali che io abbia mai conosciuto. Non ho mai avuto a
che fare con un addetto stampa bravo come Tim Hallam. Tra gli assistenti di
David Stern, sono grato a Linda Tosi, Marie Sailler, Carolyn Blitz, Russ
Granik, Zelda Spoelstra, e Erin O’Brien; tra quelli di David Falk, a Mary
Ellen Nunes; tra quelli di Jimmy Sexton ad Amy Wilson. Mi hanno tutti
reso la vita più semplice. Grace Gallo, assistente di John Walsh alla ESPN,
mi ha aiutato tantissimo, così come Chris LaPlaca. Il direttore delle
informazioni sportive di Chapel Hill Steve Kirschner è stato incredibile,
così come Mike Cragg a Duke.
Dal mio lato, la mia amica Elizabeth Arlen mi ha aiutato con enormi
ricerche di materiali, così come il suo amico Nick Dolin; verso la fine della
lavorazione del libro, Brian Farnham si è dimostrato un fact-checker
inestimabile. Bill Vourvoulias del New Yorker mi ha salvato da un grave
errore, grazie al suo controllo. Il mio amico Bruce Schnitzer si è assicurato
che non mi perdessi Gara Sette delle finali di Eastern Conference,
nonostante una festa per il diploma di mia figlia. Il Reverendo Jack Smith è
stato molto utile nel controllare tutti i riferimenti teologici e biblici. Negli
anni, Graydon Carter si è dimostrato un direttore incoraggiante e sensibile,
un vero amico per molti autori. Mi considero fortunato ad averlo sia come
collega che come amico. Philip Roome ha fatto sì che rispettassi le date
giuste, in un anno con stringenti scadenze e la pubblicazione di un altro mio
libro a metà stagione.
A Random House, il giovane ma molto dotato Scott Moyers ha editato
questo complesso libro con entusiasmo e attenzione, pur sotto la maggior
pressione che io abbia mai visto, e sono anche molto grato a Wanda
Chappell, Kate Niedzwiecki, Tom Perry, Liz Fogarty, Amy Edelman, Andy
Carpenter e Sybil Pincus per il loro lavoro. Il mio avvocato Marty Garbus,
la sua spalla Bob Solomon e la loro assistente Fredda Tourin mi hanno
aiutato a trattare con il complesso mondo degli affari e Carolyn Parqueth ha
fatto un lavoro stupendo nella sbobinatura delle interviste, rendendo così la
mia vita infinitamente più piacevole.
Nota dell’autore

L’idea per questo libro è venuta dal mio amico Doug Stumpf, che è stato il
mio direttore a Morrow, poi a Random House, infine a Vanity Fair.
All’inizio, ebbi molti dubbi, per varie ragioni: avevo già scritto un altro
libro sul basket, ero preoccupato all’idea di scrivere di qualcosa su cui era
già stato scritto così tanto, non smaniavo per entrare in un mondo dove
lavoravano così tanti gionalisti (chi scrive un libro, secondo me, lavora
meglio quando è sostanzialmente solo, lontano dal clamore dei media), ed
ero ancor più preoccupato dall’ingresso in un mondo popolato da gente così
famosa, dove l’accesso era strettamente controllato. Alla fine, mi sono
deciso anche se, nei diciotto anni passati da quando ho scritto The Breaks of
the Game, poche cose al mondo sono cambiate quanto il mondo del basket.
Era un mondo che, ai tempi, amavo molto. Quando scrissi il libro,
durante la stagione 1979-80, i giocatori prendevano ancora aerei di linea,
insieme a quei pochi reporter che li seguivano e che prendevano, oltre ai
voli, anche le stesse navette avanti e indietro dagli aeroporti agli hotel. Data
la lunghezza delle stagioni, i giocatori e i giornalisti finivano per conoscersi
nelle lounge degli alberghi e le barriere crollavano. Il mondo del basket
piaceva non solo a me, ma anche a molti altri addetti ai lavori: mi sembrava
pervaso di umanità e intelligenza, e molti dei migliori allenatori e assistenti
mi ricordavano le persone che avevo conosciuto quando scrivevo di
politica, in un’epoca in cui non c’era la televisione e scrivere di attualità era
molto più divertente. Da quel libro nacquero amicizie (o, almeno, contatti)
con persone di cui ho scritto: Jack Ramsay, Bucky Buckwalter, Kermit
Washington, Bill Walton, Lionel Hollins, Maurice Lucas, Steve Jones e
Mychal Thompson.
Ma quel mondo è scomparso. La separazione causata dagli enormi
contratti e dai voli charter (vietati ai giornalisti) è pressoché totale. I
giocatori non hanno più bisogno di parlare con i reporter e la loro idea di
‘rapporti con la stampa’ si riduce a brevi clip della ESPN che li mostrano
mentre schiacciano. I loro agenti, che all’inizio non avevano quasi alcun
potere e quindi desideravano sempre parlare con i reporter, sono ora molto
meno accessibili: lavorano in un regime di libertà quasi totale e sono, in
molti casi, diventati più potenti dei proprietari.
Ma anche i media sono cambiati. A quei tempi c’era un piccolo manipolo
di reporter che seguiva il basket e lo amava ed era capace di tracciare una
linea precisa tra la vita privata e le attività pubbliche di un individuo. Nei
media contemporanei, specialmente con una squadra piena di celebrità
come i Bulls, quel piccolo drappello di report che osservano il vecchio (e
spesso disprezzato) codice etico sono decisamente meno delle banderuole
che lavorano per i nuovi media, affamati di gossip (in particolare
programmi televisivi che sono parte dei nuovi palinsesti ventiquattr’ore al
giorno). Per i giocatori, questi nuovi giornalisti sono degli estranei e i
giocatori stessi, non senza una certa furbizia, hanno capito che la ragione di
vita di questa gente, come troppo spesso capita nel moderno mondo delle
celebrità, è sì di illuminare la loro ascesa ma anche, molto più importante,
di spezzar loro le ossa quando commettono un errore o iniziano il loro
inevitabile declino. Naturalmente, i giocatori vedono poca differenza tra
loro e i giornalisti seri. Non è un fenomeno che accade solo nel basket o
solo nello sport, ma di certo non rende particolarmente piacevole lavorare
in un luogo affollato come l’NBA: il risultato è un NBA in cui sembra
molto più facile entrare ma in cui, in realtà, l’accesso è molto più difficile
che in passato e, ancor peggio, c’è molta meno umanità. Nelle circa
quaranta partite che ho visto, sono sempre, fedelmente, andato negli
spogliatoi, ma non ho mai considerato quello che sentivo come parte di
un’intervista, perché non mi sembrava tale. Potrei aver passato l’intera
stagione senza fare nemmeno una domanda negli spogliatoi: nel mondo del
giornalismo, potrebbe essere un primato.
Alla fine, ho deciso di scrivere un libro che trattasse anche dei
cambiamenti nel mondo dello sport e di ciò che li ha causati. Quello che mi
interessava non era solo Michael Jordan come giocatore – l’ovvia questione
di cosa lo rendesse un atleta così grande – ma, altrettanto importante, come
fenomeno. La domanda a cui volevo trovare una risposta era semplice.
Quando ero ragazzo, negli anni quaranta, le figure più rappresentative dello
sport americano erano tutti giocatori di baseball bianchi – Williams,
DiMaggio, Musial, Feller – e l’NBA neppure esisteva: com’era stato
dunque possibile che ora l’atleta più famoso del mondo fosse un giovane
nero che giocava a basket, che si era laurerato in una scuola del Sud che,
quando io ero solo un giovane corrispondente dall’estero, non avrebbe
neppure potuto frequentare?
Avevo avuto a che fare con Michael Jordan già una volta. Nel gennaio del
1992, Sports Illustrated lo aveva messo in copertina, nominandolo Sportivo
dell’anno, e mi aveva chiesto di scrivere un pezzo su di lui. Avevo accettato
subito: dopotutto, l’avevo osservato con crescente piacere e ammirazione. Il
tempo che passai con lui quel giorno fu estremamente piacevole: diverse
ore insieme a un ragazzo brillante, eloquente, interessante e interessato,
molto a suo agio con se stesso. Quello che mi portai via dall’intervista fu la
sua eleganza, la vastità immensa della sua comfort zone e la sua grande
intelligenza anche fuori dal campo. Pensai anche che stesse affrontando un
livello di attenzione mediatica mai vista prima con estrema grazia, trattando
chi lo circondava con enorme cortesia. Quando l’articolo uscì, David Falk
mi chiamò per dirmi che Michael stava pensando di scrivere un libro e,
avendo apprezzato molto la nostra chiacchierata, voleva sapere se ero
interessato a collaborare. Gli risposi che avrebbe dovuto aspettare un bel
po’ prima di scrivere un libro, fino a molto dopo la fine della sua carriera, e
che io non avevo mai scritto un libro a quattro mani con nessuno,
nonostante alcune offerte piuttosto allettanti: quindi, non sarei stato un buon
collaboratore. Non chiusi del tutto la porta, però: aggiunsi che non avevo
idea di come l’avrei pensata dieci anni dopo.
Nell’estate del 1997, quando finalmente decisi di scrivere questo libro,
chiamai David Falk. Fece immediatamente resistenza, e più avanti
l’avrebbe fatta anche Michael Jordan. L’agenda di Michael, disse, era
stracolma e comunque su di lui si stava scrivendo anche troppo. Potevo
capirlo. La collaborazione sarebbe stata minima, ovviamente. Alla fine, io e
Falk stipulammo un accordo: durante la stagione, Michael non mi avrebbe
mai visto, ma mi avrebbe incontrato a fine stagione e mi avrebbe dato la
possibilità di fargli qualche domanda. Mi pare che avessimo parlato di due
o tre incontri, di due ore ciascuno. Per me andava bene. La cosa davvero
importante fu che, mentre lavoravo al libro, Michael non cercò mai di
impedirmi l’accesso a persone importanti e vicine a lui e che chiedevano
sempre a lui se fosse bene o meno parlare con i giornalisti. Sono riuscito
così ad avere un accesso privilegiato a persone fuori dal comune, molto
vicine a lui, per esempio Roy Williams, Harvest Leroy Smith, Buzz
Peterson, Tim Grover, Howard White, Fred Whitfield e Dean Smith. Questo
tipo di contatti è vitale per un cronista.
Quando la stagione finì, mi fu sempre più chiaro che Michael voleva
rivedere il nostro accordo ufficioso. Non fui sorpreso. Era più intrigante
capire perché non volesse vedermi: forse era la fatica della battaglia, per
una persona a dir poco distrutta dopo una stagione particolarmente sfibrante
e che era costantemente tallonata da media e agenzie pubblicitarie? Forse,
competitivo come sempre, voleva tenere il materiale migliore per un suo
libro? C’era stato un suggerimento in tal senso da parte di Falk: Michael è
sempre competitivo. Chi può dirlo? Fatto sta che feci quello che i cronisti
seri hanno sempre fatto: lavorai ancora più duro. Eravamo a metà giugno e
sebbene la stagione fosse finita, e così anche le mie speranze di ottenere un
incontro, decisi che avrei fatto un’intervista in più al giorno, ogni giorno per
i successivi tre mesi, anche mentre stavo scrivendo, per rafforzare il libro.
Alla fine, anche se speravo che sarebbe stato possibile fare le due interviste
promesse, sono contento che Michael Jordan mi abbia garantito un ingresso
così facile nel suo mondo e, come scrittore, gli sono molto grato per aver
scritto l’ultimo capitolo, in Gara Sei contro Utah.
Un’ultima parola. A fine anni novanta, il mondo del basket è molto
diverso. È più ricco e più volubile, la posta in gioco è più alta, le pressioni
maggiori e i gesti di umanità disinteressata (come si può immaginare)
sempre meno. I premi sono più alti per tutti, compresi i giocatori: i vestiti
sono migliori, i tagli di capelli sono migliori, e girano – in questo business
come in molti altri – molti più soldi. Se c’è qualcosa, per uno scrittore come
il sottoscritto, che può redimere cambiamenti così rapidi sono le persone
che vivono per il gioco: assistenti, scout, preparatori e giornalisti che amano
il basket e dedicano le loro vite a esso perché non possono neppure
concepire l’idea di occuparsi d’altro. Amano parlare del gioco almeno
quanto amano giocare o guardare le partite. E anche se veder giocare
Michael Jordan sera dopo sera a un livello così alto è stato un vero piacere,
alla fine ciò che ha reso quest’ultimo anno così godibile è stato il tempo
passato con queste persone, a parlare di basket fino a tarda notte.
Lista degli intervistati

Questa è una lista di intervistati del tutto parziale. Alcune delle persone che
ho intervistato non hanno voluto apparire perché hanno continuato a
lavorare con alcuni dei protagonisti di questo libro ed erano preoccupati dal
fatto che i loro nomi fossero citati.
Mike Abdenour, Danny Ainge, Stan Albeck, Mitch Albom, David
Aldridge, Cliff Alexander, Terry Armour, B.J. Armstrong, John Bach, Lacy
Banks, Dave Blackwell, Tom Boswell, Bill Bradley, Dean Buchan, Bucky
Buckwalter, Bryan Burwell, P. J. Carlesimo, Rick Carlisle, Jimmy
Cleamons, Gary Cole, Ron Coley, Doug Collins, Dave Corzine, Bob
Costas, Billy Cunningham, Chuck Daly, Frank Deford, Matt Dobek, Matt
Doherty, Mike Dunleavy, Don Dyer, Dick Ebersol, David Falk, Lee
Fentress, Bob Ferry, Bill Fitch, Chris Ford, Barry Frank, Mike Fratello,
Peter Gammons, Howard Garfinkel, Bob Geoghan, Tim Grover, Steve Hale,
Tim Hallam, David Hart, Dick Harter, Tinker Hatfeld, Dr. John Hefferon,
Mark Heisler, Dick Holbrooke, Lionel Hollins, Red Holzman, Jan Hubbard,
Rod Hundley, Ben Jackson, Chuck Jackson, Joe Jackson, John Jackson,
June Jackson, Phil Jackson, Rodney Johnson, Arch Jones, Steve Jones,
David Kahn, George Karl, Tom Kearns, Steve Kelley, Johnny (Red) Kerr,
Steve Kerr, Bob Knight, Phil Knight, Tom Knight, Dave Konchalski, Jon
Kovler, Jerry Krause, Arthur Kretchmer, Dave Krider, Mike Krzyzewski,
Mitch Kupchak, Frank Layden, Roland Lazenby, Spike Lee, Dr. Michael
Lewis, Bob Ley, Luc Longley, Kevin Loughery, Maurice Lucas, Mike
Lupica, Brendan Malone, Kent McDill, Jack McCloskey, Kevin McHale,
Brian McIntyre, Ray Melchiore, Fred Mitchell, Doug Moe, Mike Monroe,
David Moore, Peter Moore, Lester Munson, Todd Musburger, Skip
Myslenski, Billy Packer, John Paxson, Paul Pederson, Buzz Peterson, Mark
Pfeil, Pat O’Brien, Dan O’Neal, Jack Ramsay, Ron Rapoport, Ahmad
Rashad, Bill Rasmussen, Jerry Reinsdorf, Pat Riley, Jim Riswold, Doc
Rivers, Jimmy Rodgers, Charley Rosen, Josh Rosenfeld, Phil Rosenthal,
Bob Ryan, John Sally, Chip Schaefer, Bill Schmidt, John Seigenthaler,
Jimmy Sexton, Dan Shaughnessy, Randy Shepherd, Gene Shue, Joe
Silverberg, Howard Slusher, Harvest Leroy Smith, Tom Smithburg, Zelda
Spoelstra, David Stern, Dick Stockton, Rick Telander, Mike Thibault, Isiah
Thomas, Rod Thorn, Sonny Vaccaro, Mark Vancil, Peter Vecsey, Al
Vermeil, Ailene Voisin, Donnie Walsh, John Walsh, Bill Walton, Kermit
Washington, Donald Wayne, Tom Weinberg, Rick Welts, Bill Wennington,
Jerry West, Howard White, Fred Whitfield, Michael Wilbon, Lenny
Wilkens, Pat Williams, Roy Williams, Tex Winter, James Worthy.
Note

1 Una speciale polvere antiscivolo da spargere sulle mani.

2 Bibbia CEI.

3 ‘TEAM’ in inglese significa ‘squadra’; ‘I’ significa ‘io’.

4 Riserva di Bird ai Celtics.

5 ‘Settantadue non servono a nulla senza l’anello’.


Indice

1 Parigi, ottobre 1997


2 Wilmington; Laney High, 1979-1981
3 Chicago, novembre 1997
4 Los Angeles, 1997; Williston, Nord Dakota, 1962
5 Chapel Hill, 1980
6 Chapel Hill, 1981
7 Chapel Hill, 1982-84
8 Chicago, 1984
9 New York; Bristol, Connecticut, 1979-1984
10 Chapel Hill; Chicago; Portland, 1984
11 Los Angeles; Chicago, 1984, 1985
12 Boston, aprile 1986
13 New York City; Portland, 1986
14 Chicago, 1986-1987
15 Albany; Chicago, 1984-1988
16 Chicago; Seattle, 1997
17 Hamburg e Conway, Arkansas; Chicago, 1982-1987
18 Detroit, anni ottanta
19 Chicago, 1988-1990; New York City, 1967-1971
20 Chicago, 1990-1991
21 Chicago; Los Angeles, 1991
22 Chicago, 1997-98
23 Chicago; Portland, 1992
24 La Jolla; Montecarlo; Barcellona, 1992
25 Chicago; Phoenix, 1992-1993
26 Chicago, 1993
27 Birmingham; Chicago, 1994-1995
28 Chicago; Seattle; Salt Lake City, 1995-1997
29 Chicago, 1998
30 Chicago; Indianapolis, 1998
31 Chicago; Salt Lake City, giugno 1998
32 Chicago, giugno 1998
Epilogo
Postfazione
Ringraziamenti
Nota dell’autore
Lista degli intervistati
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