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Ha
iniziato la sua carriera negli anni Cinquanta, raccontando il movimento per i
diritti civili, per poi continuare nel decennio seguente come corrispondente
per la guerra del Vietnam. In seguito si è dedicato al giornalismo sportivo,
parlando soprattutto di basket. Nella sua carriera è stato insignito di tutti i
premi più importanti per il giornalismo, compreso il Premio Pulitzer. Nei
suoi libri è riuscito a unire la prospettiva di un grande storico, le conoscenze
di un tenace giornalista sportivo e la passione di un tifoso, per ritrarre alcuni
tra i giocatori e le squadre
www.magazzinisalani.it
www.illibraio.it
Titolo originale:
ISBN 978-88-9367-944-2
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma o attraverso alcun
mezzo, elettronico o meccanico, incluse le fotocopie, o attraverso alcun supporto di memoria, senza
permesso scritto dell’editore. Per ulteriori informazioni: Random House, 201 East 50th Street, New
York, NY 10022.
La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 1999 da Random House. Questa nuova
edizione è stata predisposta da Random House.
Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Erano stati due giorni davvero molto positivi per David Stern: il baseball
stava perdendo immagine e pubblico, mentre Michael Jordan aumentava a
dismisura la fama dell’NBA, perfino in una città solitamente restia a
omaggiare le celebrità americane. Poi, la sera dell’ultima partita, un uomo
di mezza età, nero e molto alto, si avvicinò al settore dove sedevano Stern e
la moglie Dianne. Michael Ray Richardson disse a Stern: «Voglio
ringraziarla per avermi salvato la vita». Da giovane, Richardson era stato
una stella dell’NBA, prima scelta dei Knicks al draft, ma si era rovinato con
l’alcol e la droga ed era stato uno dei primi giocatori esclusi dalla Lega per
via della politica del ‘alla terza che fai, sei fuori per sempre’. Ora si era
stabilito a Nizza e giocava per una squadra di lì. «Se non fosse stato per lei,
avrei continuato a rovinarmi. Ma grazie a quello che lei ha fatto, ho smesso
e ora sono pulito». Fu un momento commovente: in campo, alcuni dei
migliori giocatori al mondo stavano ultimando il riscaldamento, mentre
sulle tribune c’era qualcuno che aveva giocato al loro stesso livello e che
ora aveva quarantadue anni e un po’ di pancia, che si era distrutto con la
droga e che giocava in un campionato di basso livello, che probabilmente
aveva perso tutti i suoi soldi ma che era grato di essere ancora vivo. Di
solito, David Stern aveva la risposta pronta, ma quella volta rimase in
silenzio. Mise un braccio attorno alle spalle di Richardson e lo abbracciò.
In quel periodo, subito prima dell’inizio della stagione 1997/98, Michael
Jordan era all’apice della sua fama. Era il miglior giocatore di basket al
mondo, ma alcuni lo ritenevano addirittura il miglior giocatore di basket
della storia. Un buon numero di esperti era d’accordo. Ormai, la questione
era andata anche oltre la pallacanestro: Michael Jordan era il più grande
atleta di sempre? Veniva paragonato al leggendario Babe Ruth, un giocatore
che aveva superato di gran lunga anche i migliori tra i suoi contemporanei.
Certo, a fare questi paragoni erano soprattutto giovani uomini sulla trentina,
anche se Ruth era morto da quarantanove anni e aveva giocato la sua ultima
partita nel 1935.
I paragoni all’interno del mondo del basket erano ugualmente difficili.
Allora, i Bulls di Jordan avevano vinto il campionato in tutte le ultime
cinque stagioni in cui lui aveva potuto giocare sempre, ma i Boston Celtics
avevano trionfato undici volte nei tredici anni in cui avevano avuto il
grande Bill Russell, un giocatore dominante, con un’intelligenza, una
velocità e una potenza eccezionali. Ovviamente, tutto ciò era successo in
un’NBA molto diversa, con molte meno squadre e in cui il livello atletico di
molti giocatori non era altrettanto elevato; in quell’NBA, il talentuoso
general manager dei Celtics Red Auerbach era quasi sempre riuscito a
spennare i suoi rivali e a circondare Russell di compagni di squadra
straordinari. Di conseguenza, la questione su chi fosse il migliore tra Jordan
e Russell rimaneva irrisolta, anche se il famoso regista e appassionato di
basket Spike Lee espresse un’opinione molto netta: «Jordan è stato il
migliore di tutti i tempi» dichiarò, «perché è stato un giocatore completo.
Non c’era nulla che non potesse fare in campo: tirare, passare, andare a
rimbalzo, difendere». Perciò, concluse Lee, cinque Michael Jordan
avrebbero potuto battere cinque Bill Russell o cinque Wilt Chamberlain. Un
ragionamento affascinante, perché tiene conto di un certo tipo di
completezza atletica.
Che sia stato o meno il migliore, non c’è dubbio che sia stato il
personaggio più coinvolgente e carismatico nell’intero mondo sportivo
degli anni novanta. Era l’atleta che gli spettatori in tutto il mondo volevano
vedere giocare, specialmente nelle partite importanti, perché sembrava
sempre in grado di essere all’altezza.
Era già ricco, avendo guadagnato circa 78 milioni di dollari tra stipendio
e sponsor nella stagione precedente, e quella in arrivo sembrava
prometterne altrettanti o addirittura di più. Stava per diventare un uomo-
azienda, e chiamava ‘i miei partner’ tanto i proprietari della squadra di
basket per cui giocava quanto i dirigenti delle aziende di scarpe, di
hamburger e di bibite che rappresentava. Era probabilmente il più famoso
americano al mondo, e in molte remote parti del globo era più famoso del
Presidente statunitense o di qualunque star del cinema o del rock. I
giornalisti e i diplomatici americani inviati nelle zone più arretrate dell’Asia
e dell’Africa restavano senza parole quando visitavano dei piccoli villaggi e
incontravano dei bambini che indossavano riproduzioni sdrucite della
maglia dei Bulls di Michael Jordan.
C’erano ottime prove statistiche dell’importanza di Jordan per il basket e
di quanto il suo lustro personale avesse aggiunto all’incredibile successo e
alla fonte di guadagni della pallacanestro. Mentre la carriera di Jordan
cominciava a sbocciare il basket era già in rampa di lancio, grazie ai
notevoli risultati ottenuti da Magic Johnson e Larry Bird, ma il suo arrivo
nei playoff accrebbe di gran lunga il pubblico, avvicinando al gioco milioni
di persone che erano più fan di Michael Jordan che del basket
professionistico. Durante le sue prime apparizioni alle Finals lo share
televisivo aumentò in maniera sistematica, raggiungendo un inaudito 17.9%
nella sua terza apparizione ai playoff, nel 1993 contro i Phoenix Suns.
Questa percentuale si tradusse in circa 27,2 milioni di americani. Ma per
Dick Ebersol, quello che era davvero interessante di questi risultati era che
gran parte di essi era dovuta direttamente a Jordan.
Il network e la Lega provarono sulla loro pelle quanto questo fosse vero
un anno dopo, quando Jordan si prese un anno sabbatico giocando a
baseball e i Bulls non arrivarono alle Finals. Lo share di buona parte dei
playoff rimase più o meno lo stesso, ma quello delle Finals crollò a 12,4%
(circa 17 milioni di spettatori). Questo significava che circa un terzo del
pubblico aveva seguito le finali essenzialmente per ammirare Michael
Jordan. Due anni dopo, quando ritornò a giocare a basket e portò i Bulls a
vincere altri due anelli, lo share tornò al 16,7% nel 1996 e al 16,8% nel
1997: più o meno 25 milioni di persone.
L’espressione ‘il migliore che si sia mai allacciato un paio di sneakers’
veniva usata sempre più spesso per descriverlo. ‘Se Michael Jordan non è
infallibile’ scrisse Melissa Isaacson del Chicago Tribune ‘è comunque la
prova più valida che abbiamo che nulla è impossibile’. Fu nominato più e
più volte come possibile MVP del campionato e delle Finals e più e più
volte sembrò in grado di portare un gruppo di giocatori discreti ma non
eccezionali a diventare dei campioni. Alla fine di ogni serie di playoff,
all’MVP veniva regalata una macchina, consegnata da David Stern in
persona; negli ultimi anni Stern aveva cominciato a definirsi il
parcheggiatore di Michael Jordan.
La parola genio era usata per definirlo in maniera sempre più frequente.
Harry Edwards, un sociologo dell’Università di Berkeley, non era molto
impressionato dai risultati degli sportivi contemporanei, quanto piuttosto
preoccupato che i clamorosi successi degli atleti di colore gettassero
un’ombra impositiva su molti giovani neri, impedendo loro di fare carriera
in altri campi. Eppure, parlò di Jordan come del più alto livello mai
raggiunto dall’umanità, ai livelli di Gandhi, Einstein o Michelangelo. Se,
aggiunse, avesse dovuto mostrare a un alieno «l’epitome del potenziale
umano, della creatività, della perseveranza e dello spirito, presenterei
sicuramente Michael Jordan». Doug Collins, il terzo allenatore
professionista di Jordan, una volta disse che Michael apparteneva a quella
rara categoria di persone che erano così tanto sopra la norma da poter essere
identificate come geni. Come Einstein o Edison, per esempio. Collins non
aveva mai detto quella frase prima, sicuramente non riferendosi a un
giocatore. Un compagno di squadra di Jordan, il pur talentuoso B.J.
Armstrong, nei suoi primi anni ai Bulls accumulò una frustrazione enorme,
perché non riusciva ad arrivare al livello di Jordan o delle sue apparenti
aspettative: credeva che il gioco fosse troppo più semplice per Jordan che
per chiunque altro, ed era andato in biblioteca a leggere una serie di libri sul
genio, per capire se c’era qualcosa che potesse imparare per essere come
Jordan o quantomeno competere con lui.
E quando Jordan, dopo il terzo anello, decise di ritirarsi, fu riluttante nel
dare al suo coach Phil Jackson quella che per lui sarebbe sicuramente stata
la peggior notizia possibile. Fece presente il suo desiderio, ma aggiunse che
se Jackson avesse cercato di convincerlo a continuare lui non si sarebbe
ritirato. Il suo tono fu molto cauto: temeva che Jackson, uomo molto furbo,
avrebbe effettivamente cercato di trattenerlo. Ma l’abile risposta di Jackson
fu che lui non avrebbe provato a fargli cambiare idea: doveva essere
Michael ad ascoltare e assecondare le voci dentro di sé. Ricordò solo a
Jordan il piacere tutto particolare che avrebbe negato a milioni di persone
lasciando la pallacanestro, perché le sue doti erano uniche. Il suo talento, gli
disse Jackson, non era semplicemente quello di un grande atleta, ma
trascendeva lo sport per diventare una forma d’arte. Il suo dono era simile a
quello di Michelangelo e quindi Jordan doveva almeno comprendere che
esso non apparteneva solo all’artista, ma anche a tutti quei milioni di
persone che restavano a bocca aperta davanti alle sue opere e che
ricavavano, in una vita altrimenti piena di banalità, un enorme piacere da
quello che faceva. «Michael» aggiunse, «il puro genio è qualcosa di
veramente molto raro e se sei abbastanza fortunato da averlo, devi pensarci
bene prima di rinunciare a usarlo».
Jordan ascoltò attentamente e rispose: «Apprezzo molto, ma credo che
tutto ciò sia finito, ormai». Diede retta alle voci dentro di sé e lasciò il
gioco, ma il fatto che Jackson, in quel momento, non fece valere il proprio
interesse personale cementò un rapporto già molto forte, e contribuì in
qualche modo a creare il processo che avrebbe un giorno portato al rientro
di Michael Jordan.
Quello che aveva di speciale era il suo effetto non solo sui tifosi, ma
anche sui suoi colleghi. «È il figlio di Dio» disse il compagno di squadra
Wes Matthews durante il primo anno di Jordan. Un buon numero di
giocatori più talentuosi di Matthews era d’accordo, anche se usavano parole
leggermente diverse. Jayson Williams dei Nets lo definì ‘Gesù con un paio
di Nike’.
Anche Jerry West, universalmente riconosciuto come uno dei cinque-sei
migliori giocatori di tutti i tempi, diventato il general manager dei Lakers,
ne parlò come di un genio, dicendo che era straordinariamente completo
non solo come giocatore di basket, ma anche come uomo, destinato, grazie
al suo straordinario talento, a diventare l’immagine pubblica di una lega un
tempo molto problematica. «È come se un Dio generoso avesse gettato più
polvere d’oro su Michael che su chiunque altro» disse.
Dopo che Jordan portò i Bulls alla conquista del loro secondo anello,
Larry Bird disse che non che non c’era mai stato un atleta come lui. «Su
una scala da 1 a 10, le altre superstar sono a 8, e lui a 10».
«Michael Jordan» dichiarò lo scrittore Scott Turow, residente a Chicago,
«gioca a basket meglio di come chiunque altro al mondo faccia qualunque
altra cosa».
Oltre a doti fisiche uniche, aveva un impareggiabile desiderio di
eccellere, un’innata rabbia competitiva e una passione ineguagliabile. Con
gli anni, tutto ciò era diventato sempre più evidente. All’inizio della carriera
gli osservatori, impressionati dalla sua maestria, cercavano di spiegare la
sua ascesa ai massimi livelli citando soltanto il suo talento; ora, in una fase
più avanzata della sua carriera, non poteva più contare su tutte quelle
giocate individuali che lo avevano reso celebre, ed era diventato sempre più
ovvio che quello che davvero lo distingueva era la sua volontà, il suo rifiuto
di lasciare che qualunque avversario o anche il passare del tempo
ostacolassero la sua fame di vittorie. «Vuole strapparti il cuore e fartelo
pure vedere» disse una volta Doug Collins. «È come Hannibal Lecter» disse
l’esperto giornalista del Boston Globe Bob Ryan, citando lo spietato killer
del Silenzio degli innocenti. Il suo stesso compagno di squadra Luc
Longley, quando un reporter televisivo gli chiese una sua descrizione in una
sola parola, disse semplicemente ‘predatore’.
All’inizio della nuova stagione, che molte persone pensavano potesse
essere la sua ultima, Michael Jordan dominava non solo il gioco, ma anche
l’immaginario degli appassionati di sport negli Usa, al punto che tutti i
giornalisti stavano già cominciando a scrivere articoli su chi sarebbe
diventato il prossimo Michael Jordan. Uno dei primi fu scritto da Mike
Lupica per Men’s Journal, che aveva nominato tra i papabili Grant Hill dei
Detroit Pistons, un giovane che mostrava talento sia in campo che fuori ma
che non era carismatico come Jordan; Kobe Bryant, una giovanissima stella
dei Los Angeles Lakers, forse più emozionante di Hill ma ancora
drammaticamente acerbo in campo; e naturalmente Shaquille O’Neal, il
gigante buono dei Lakers, un giovane di talento e potenza evidenti. Tutti
questi discorsi sul nuovo Michael Jordan divertivano molto quello
originale: «Io sono ancora qui» disse al suo amico e preparatore Tim
Grover. «Non vado da nessuna parte. Non ancora».
Il fatto stesso che uno come Michael Jordan sia esistito sembra, col senno di
poi, il risultato di un meraviglioso errore genetico e l’idea che qualcuno
possa arrivare in così poco tempo dove lui è arrivato e fare quello che lui ha
fatto sia sul campo che fuori sembra altamente improbabile. Perché oltre
alle sue eccezionali abilità atletiche, aveva anche altre qualità. Era piacente
e affascinante, con un sorriso che sembrava suscitare gioia e mettere a
proprio agio chiunque lo ricevesse. Inevitabilmente, si rese presto conto dei
benefici che derivavano dall’avere così tanto successo nello sport ed essere
anche di bell’aspetto, dal poter sfruttare la combinazione tra fama e
bellezza. Era alto ma non troppo – 2,01 m – e con un corpo che sembrava
inquietantemente perfetto, con spalle larghe, vita stretta e solo il 4% di
grasso corporeo. (L’atleta professionista medio americano era tra il 7 e
l’8%, mentre l’uomo medio americano tra il 15 e il 20%). Curava il suo
abbigliamento e si vestiva straordinariamente bene, era forse l’uomo
americano meglio vestito dai tempi di Cary Grant, anche se la gamma di
abiti che poteva indossare era molto più ampia. Uno dei membri della
troupe che girò le pubblicità della Nike notò che era più elegante lui in tuta
da ginnastica rispetto a molte star del cinema in giacca e cravatta. Jordan
incalzava Jim Riswold, il pubblicitario di Portland responsabile degli spot
della Nike, prima di ogni ripresa: «Fammi fare bella figura». Riswold una
volta gli rispose: «Michael, potrei filmarti mentre spingi delle bambine
sotto delle macchine nel traffico del centro o mentre getti dei cuccioli
nell’acqua bollente. Faresti comunque bella figura».
Nel passato, l’ideale americano di bellezza era sempre stato bianco: per
molto tempo gli uomini statunitensi si erano guardati allo specchio
sperando di vedere Cary Grant, Gregory Peck o Robert Redford. Jordan,
senza barba né capelli, aveva dato all’America niente meno che una nuova
definizione di bellezza, per una nuova era.
Quello che l’America e il resto del mondo vedevano era un vassallo del
nuovo mondo, un giovane i cui modi apparivano addirittura principeschi. E
la cosa più straordinaria era che tutto ciò non dipendeva affatto dalle sue
origini. Il suo nonno paterno era un mezzadro in una piantagione di tabacco
nella Carolina del Nord e i suoi genitori erano persone semplici, che
lavoravano duro. Erano stati i primi membri delle rispettive famiglie a poter
godere dei pieni diritti di cittadinanza, e avevano cresciuto un ragazzo dal
portamento naturalmente aggraziato. Per via del modo amorevole in cui era
stato cresciuto e dell’infinita serie di trionfi degli ultimi anni, la sua comfort
zone era talmente ampia da intimorire: la sua sicurezza nei propri mezzi era
inscalfibile.
Il modo in cui si comportava con qualsiasi tipo di persona, anche nel più
breve degli incontri, era molto educato, specialmente per qualcuno soggetto
a tutte quelle pressioni, e tutti quelli a cui sorrideva sembravano diventare
migliori solo per aver ricevuto quella gentilezza. Sapeva bene di avere
fascino e lo usava in maniera naturale ma anche cauta, dosandolo bene e
trattenendosi quando gli faceva più comodo. Apprezzarlo era facile e le
persone sembravano fare a gara per piacergli. Un esperto giornalista
sportivo come Mark Heisler scrisse in un articolo che non aveva mai voluto
piacere a un atleta come voleva piacere a Michael Jordan. C’era una folla di
direttori di giornale che volevano stampare articoli di lui perché, come
succedeva con la principessa Diana, la sua foto in copertina aumentava di
gran lunga le vendite. Qualunque uomo potente e ricco voleva essere suo
amico, parlare di lui e ovviamente andarci a giocare a golf.
Per tutti questi motivi era diventato, oltre a un grande giocatore di
pallacanestro, anche un ottimo venditore: innanzitutto stava vendendo il
gioco a milioni di persone che vivevano in Paesi lontani e che non avevano
mai visto nessuno giocare a basket, ma anche a milioni di appassionati che
non avevano mai visto nessuno giocare a basket in quel modo. E poi
vendeva scarpe Nike a chi voleva saltare più in alto, Big Mac a chi aveva
fame, prima la Coca-Cola e poi il Gatorade a chi aveva sete, gli Wheaties a
chi desiderava una marca di cereali 100% made in Usa e boxer Hanes a chi
aveva bisogno di mutande. Vendeva occhiali da sole, profumi per uomo e
hot dog. Ma più di ogni altra cosa, vendeva se stesso, ed era un’attività che
anno dopo anno diventava più facile, perché all’ultimo titolo se ne
aggiungeva un altro, e un’altra straordinaria giocata all’ultimo secondo
rimpiazzava quella precedente. C’era già una statua che commemorava la
sua carriera fuori dal palazzetto dove giocava, lo Union Center di Chicago:
un edificio che lui odiava ma che era stato costruito principalmente per
accogliere le masse di tifosi che volevano vederlo giocare, e che per farlo
pagavano grandi quantità di denaro. La statua lo rappresentava in volo
(mentre saltava per schiacciare), ma paragonata all’uomo che
commemorava sembrava grezza e volgare. Arte che non imitava la vita, ma
la sminuiva.
Ogni anno sembrava aggiungere un nuovo capitolo alla leggenda. In
attesa della nuova stagione, il più importante capitolo fino a quel momento
era probabilmente già stato scritto nel giugno precedente, quando Michael
si era svegliato malato prima di Gara Cinque delle Finals contro gli Utah
Jazz. Se fosse un problema legato all’altitudine o un’intossicazione
alimentare, non si capì mai. Tempo dopo, si disse che si era svegliato con la
febbre a 39,5, ma non era vero: la temperatura era alta, ma non così tanto
(non più di 38), ma era stato così male durante la notte che sembrava
impossibile potesse giocare. Verso le 8 del mattino le sue guardie del corpo
chiamarono Chip Schaefer, il preparatore atletico della squadra, per dirgli
che Jordan era messo male. Schaefer corse in camera di Jordan e lo trovò
rannicchiato in posizione fetale, avvolto nelle coperte e vittima di una
debolezza quasi commovente. Non aveva dormito, aveva un fortissimo mal
di testa e aveva avuto per tutta la notte una nausea insopportabile. Il più
grande cestista del mondo sembrava un debole e fragile zombie, ed era
impensabile che quel giorno potesse scendere in campo.
Schaefer lo attaccò subito a una flebo e cercò di idratarlo il più possibile.
Gli diede anche delle pillole per farlo riposare: aveva capito meglio di
molte altre persone la ferocia che animava Michael Jordan, quello spirito
impossibile da abbattere che gli consentiva di giocare in situazioni in cui i
migliori professionisti al mondo, traditi dai loro corpi, avrebbero ceduto,
benché riluttanti. Durante le Finals del 1991 contro i Lakers, Jordan si era
infortunato a un piede segnando il canestro che aveva pareggiato la partita.
Schaefer era riuscito in qualche modo a realizzare una scarpa che lo
proteggesse nella partita successiva, ma Jordan l’aveva rifiutata, perché
limitava la sua rapidità nel fermarsi, ripartire e tagliare. «Preferisco il
dolore» aveva detto.
Ora, in quella camera d’albergo di Salt Lake City, anche vedendolo in
quelle condizioni, Schaefer sapeva che Jordan sarebbe in qualche modo
riuscito a giocare, sapeva che lui, in situazioni come quella, poteva usare la
sua malattia per motivarsi ancora di più, che poteva vederla come un’altra
sfida da superare. Riuscì ad arrivare allo spogliatoio prima della gara,
ancora fragile e debole. Tra i giornalisti si diffuse rapidamente la voce che
Michael avesse l’influenza e la febbre a 39. Molti diedero per scontato che
non avrebbe giocato. James Worthy, un opinionista della Fox, non ne era
così sicuro: aveva giocato con Michael a North Carolina, l’aveva visto
diventare il miglior giocatore dell’NBA e sapeva di cosa era capace. «La
febbre non ha nessuna importanza» disse Worthy agli altri inviati della Fox.
«Giocherà. Capirà cosa può fare, conserverà le energie e farà una grande
partita».
Nello spogliatoio, i compagni di Jordan erano sconvolti da quello che
avevano di fronte. Bill Wennington ricorda che la sua pelle, normalmente
piuttosto scura, era di un colore allarmante, a metà tra il bianco e il grigio, e
i suoi occhi, sempre così pieni di vita, sembravano morti. Poco prima
dell’inizio della partita, una troupe della NBC mostrò le immagini
dell’arrivo al Delta Center di un Jordan fragile e macilento, che a malapena
camminava ma che provò comunque a riscaldarsi. Fu uno di quei rari
momenti di inusuale intimità sportiva, con la televisione che mostrò sia la
malattia di Jordan sia la sua determinazione a giocare a ogni costo. Era
un’esperienza unica e coinvolgente: quando mai prima di allora la malattia
e la debolezza erano state così visibili sul volto di un atleta così grande
prima di una partita così importante? In avvio sembrò che Utah potesse
spazzare via i vulnerabili Bulls: all’inizio del secondo quarto, erano in
vantaggio 36-20. Ma i Bulls rimasero aggrappati alla partita perché Jordan
riuscì a giocare a un livello eccezionale, segnando ventuno punti nel solo
primo tempo. A metà partita, erano sotto solo di quattro: 53-49. Era difficile
comprendere come Jordan potesse giocare, figuriamoci capire come facesse
a essere il migliore in campo. Quello a cui si stava assistendo era un
dramma che trascendeva il basket.
A fine primo tempo, riuscì a stento a lasciare il campo con le proprie
gambe. Durante l’intervallo, disse a Phil Jackson di non utilizzarlo molto
nel secondo tempo, solo in alcuni momenti. Poi uscì dagli spogliatoi e giocò
quasi interamente i due quarti che rimanevano. Nel terzo non combinò
granché, segnando solo due punti, ma Utah non riuscì comunque a chiudere
la partita. Verso la fine del quarto quarto la telecamera lo inquadrò da
vicino, mentre tornava in difesa dopo un canestro: più che il miglior atleta
al mondo, Jordan sembrava il peggior partecipante a una maratona
amatoriale corsa in un caldo torrido in procinto di arrivare ultimo. Ma un
conto era il suo aspetto, un conto quel che faceva in campo nei momenti che
contavano.
Con quarantasei secondi sul cronometro e Utah sopra di un punto, Jordan
subì un fallo mentre andava a canestro. Il telecronista Marv Albert disse:
«Guardate il linguaggio del corpo di Michael Jordan. Sembra faccia fatica
anche a stare in piedi». Segnò il primo libero e pareggiò, sbagliò il secondo
ma riuscì a prendere il rimbalzo. I Jazz, inspiegabilmente, lo lasciarono
libero e lui segnò da tre: ora mancavano ventisei secondi e i Bulls erano in
vantaggio 88-85. Fu il momento decisivo per la vittoria finale: 90-88. Finì
con trentotto punti segnati, quindici nell’ultimo quarto. Era stata una
prestazione indimenticabile, una stupefacente dimostrazione di
determinazione spirituale; aveva dato una prova evidente del perché lui era
diverso da chiunque altro facesse il suo lavoro. Era l’atleta più dotato della
Lega, ma a differenza di altri giocatori dal grande talento, aveva
un’ulteriore qualità, tipica di quei superbi artisti a cui il lavoro risultava così
semplice: superava sempre i suoi limiti.
All’inizio della stagione 1997-98 i Bulls faticarono molto e tutte le cose che
Jackson temeva potessero andare male andarono perfino peggio. Avevano
vinto sei partite e ne avevano perse cinque quando arrivarono a Los
Angeles per incontrare i Clippers, una squadra sempre in alto mare. Se le
cose non stavano andando molto bene per i Bulls, per i Clippers stavano
andando ancora peggio: guidati da Bill Fitch, ex allenatore al college di Phil
Jackson, avevano un record di 1-10 ed erano probabilmente la peggior
franchigia della Lega. Giocavano in un palazzetto piuttosto trasandato, la
vecchia Los Angeles Sport Arena, e attiravano al massimo due o tremila
tifosi nelle partite contro squadre minori. Facevano il tutto esaurito solo
quando si presentavano i Bulls o i Lakers, e di conseguenza i loro tifosi
tendevano ad acclamare più le squadre ospiti, incitando i Clippers solo
verso la fine della partita, se era ancora aperta. I Clippers sembravano una
squadra maledetta: per quanto finissero in fondo alla classifica e per alta
che fosse la loro scelta al draft, non miglioravano mai e anche quando
riuscivano a prendere giovani giocatori di talento, quegli stessi giocatori se
ne andavano appena potevano.
Quella notte, tuttavia, i Clippers sembravano destinati a vincere. I Bulls
giocarono in modo terribile e sembravano aver completamente perso la loro
aura di imbattibilità. Era la loro quinta partita in trasferta e dovevano ancora
vincerne una. All’inizio del secondo quarto Los Angeles guidava 36 a 18.
Anche Jordan era in difficoltà: aveva segnato solo 3 dei suoi primi 14 tiri. A
poco a poco, però, i Bulls cominciarono a rimontare e a mettere in difficoltà
gli avversari. Jordan chiuse con 18 su 36, il che significava che aveva
messo a segno 15 dei suoi ultimi 22 tiri. Jordan si era preso la responsabilità
di risollevare la squadra e alla fine del tempo regolamentare il punteggio era
92 pari, solo grazie al fatto che Jordan aveva segnato gli ultimi sette punti di
Chicago. A trentanove secondi dalla fine del primo overtime, i Clippers
erano in vantaggio 102 a 98, ma Jordan segnò e portò il punteggio a 102 a
100. Poi, con quindici secondi rimasti, subì fallo, ma sbagliò il primo libero.
Jackson gli urlò di sbagliare il secondo apposta: lo fece e riuscì a prendere il
rimbalzo. Con otto secondi ancora da giocare, andò a canestro e segnò il
pareggio.
Nel secondo overtime, Jordan segnò tutti i 9 punti di Chicago: aveva
segnato 22 degli ultimi 26 punti dell’intera squadra. Los Angeles non segnò
mai. Jordan sembrava esausto e sbagliò tre tiri liberi nel finale, ma segnò
comunque gli ultimi 13 punti della partita. Si era rifiutato di lasciare che i
Bulls, vulnerabili e in difficoltà, perdessero quella partita, in una notte in
cui sembravano incapaci di giocare al loro livello. Aveva giocato 52 minuti
e segnato 49 punti. Una gara di nessuna importanza era diventata
fondamentale. Una probabile sconfitta era diventata una vittoria. Quel tipo
di partite capitava circa dieci o dodici volte durante una stagione: il potere
della sua volontà trionfava contro la spossatezza del suo corpo. Pochissimi
dei tifosi occasionali lo capivano: bisognava rimanere con la squadra giorno
dopo giorno, vedere tutte le partite, specialmente quelle non importanti, per
capire che lui si comportava così tutte le sere. La sua straordinaria forza di
volontà faceva un’enorme differenza nel bilancio finale tra vittorie e
sconfitte e significava che alla fine della stagione i Bulls avrebbero sempre
avuto il vantaggio del campo in una serie cruciale: le Finals di Conference.
In quella partita tra i Bulls e i Clippers, inoltre, si incrociarono per
un’altra volta le strade di due allenatori che erano anche due vecchi amici:
Phil Jackson and Bill Fitch. In quel momento erano un perfetto esempio di
strade divergenti. Jackson stava cercando di vincere il suo sesto titolo in
nove anni da allenatore e aveva la miglior percentuale di vittorie nella storia
del gioco. Fitch, che trentacinque anni prima aveva reclutato Jackson dalla
high school di Winston e lo aveva fatto giocare per la University of North
Dakota (ed era, oggi come allora, dipendente dal suo lavoro), allenava
quella che era, probabilmente, la peggior squadra della Lega e lavorava per
quella che era, sicuramente, la dirigenza più traballante. Fitch aveva iniziato
la stagione con il poco invidiabile primato del maggior numero di sconfitte
per un allenatore nella storia NBA. Questa era la sua sconfitta numero
1.052. Fitch aveva avuto un profondo impatto sulla carriera di Jackson e
quando Joe Jackson, fratello maggiore di Phil, parlava della carriera
professionale del fratello, ci teneva a precisare quanto fosse stato fortunato
ad avere un allenatore così talentuoso e giovane quando era solo un giovane
e influenzabile studente universitario. Un allenatore che avrebbe potuto
dargli molto ed effettivamente lo fece.
Dopo quella partita, Jackson assaporò la sua prima vittoria in trasferta e il
fatto di aver evitato l’onta di una sconfitta contro i Clippers, anche se con
un margine risicatissimo. Rivolse però un pensiero affettuoso a Fitch: «Il
gioco lo divora. Stanotte non dormirà, rimarrà sveglio tutta la notte a
guardare le immagini della partita». Quando era a Boston ad allenare i
Celtics, lo soprannominarono ‘Capitan Video’ a causa della sua
propensione a stare seduto in una stanza da solo, a guardare dei filmati. I
due si conoscevano ormai dal primo anno di high school di Jackson, nel
1962. Ora Fitch guadagnava 2 milioni all’anno e Jackson, il suo protetto di
un tempo, ne faceva 6: niente male per entrambi, anche se date le difficoltà
di allenare nelle rispettive squadre, gli stipendi avrebbero dovuto
probabilmente essere invertiti.
Una partita di NBA a Los Angeles nel novembre 1997, perfino una partita
dei Clippers, sembrava molto lontana da quella primavera del 1962 alla
Williston High School, quando Fitch aveva incontrato Jackson per la prima
volta. Ai tempi Jackson era al suo primo anno di superiori ed era già uno
studente modello e un atleta promettente: giocava a football, giocava a
basket, giocava a baseball ed era membro della squadra di atletica. Alto
1,90 per 72 chili, Jackson stava crescendo a un ritmo molto rapido (un anno
prima era 1,70 per 65 chili) e si guadagnò in fretta il soprannome
‘Ossicino’. Fitch era stato appena nominato allenatore di basket della
squadra dell’università del Nord Dakota. Il posto era stato offerto a un altro
allenatore, che lo aveva accettato, ma la moglie gli aveva detto che se fosse
andato lassù, ci sarebbe andato da solo perché faceva semplicemente troppo
freddo. L’incarico andò a Fitch quasi in automatico. Lavorò duro sul
reclutamento, cercando di creare praticamente da un giorno all’altro un
programma per il basket in una scuola conosciuta soprattutto per il football
e l’hockey. Fitch aveva allenato sia la squadra di basket che quella di
baseball a Creighton ed era stato talent scout per gli Atlanta Braves. Proprio
durante quell’incarico aveva sentito parlare di un giovane di nome Phil
Jackson, di cui si diceva fosse un ragazzone alto e magro di 1,80 o 1,90.
«Imperdibile» dicevano le relazioni degli scout regionali.
Fitch, disposto a tutto per dare una forte spinta iniziale al suo programma,
guidò fino a Winston in un freddo giorno di aprile per vedere Jackson
partecipare a un meeting di atletica. «Lancio del disco, per la precisione»
ricorda Fitch. «Era un giorno molto ventoso e lui aveva il fisico di una
matita. Se non altro, gli appunti degli scout del baseball su quel punto
avevano ragione. Nessuno poteva essere così magro e abbastanza forte da
lanciare il disco. Penso che dovessero legarlo a terra per evitare che volasse
via. Mi innamorai subito di lui. Era tutto quello che cerchi quando stai
provando a reclutare un bravo ragazzo molto rispettoso. Rispondeva sempre
‘Sissignore, nossignore’ ed era un ottimo studente, sinceramente
intenzionato a eccellere. Si capiva subito. Entrambi i genitori erano pastori
in una Chiesa. Gli dissi che lo volevo per il mio programma fin dal primo
giorno». Sollecitato dal suo allenatore della high school, Jackson fece
vedere a Fitch quello che chiamava ‘il trucco della macchina’: si sedeva nel
sedile posteriore di qualsiasi automobile e allungando le braccia riusciva ad
aprire le portiere da entrambi i lati della macchina. Qualche mese dopo,
Fitch guidò fino all’altra parte dello Stato per tenere un discorso al
banchetto annuale delle squadre sportive di Winston. Lo fece
principalmente per far firmare a Jackson un contratto con Nord Dakota. «La
cosa più pericolosa che ho fatto nella mia intera vita» ricorda. «Ho subito
anche un’operazione a cuore aperto, ma la volta in cui sono stato più vicino
a morire è stato quel viaggio. Ci fu una tormenta di neve. Ne caddero più di
50 cm: era la peggior tempesta da anni e nessuno poteva attraversarla.
Lungo tutta l’autostrada le macchine erano sepolte. In quei giorni, nel Nord
Dakota, una delle cose che dovevi fare quando affrontavi un lungo viaggio
in inverno era portare delle candele e metterle nel cruscotto, così, se per
caso fossi rimasto bloccato, avresti potuto accenderle e forse (forse)
qualcuno ti avrebbe trovato. Quel giorno c’erano macchine con le candele
accese lungo tutta la strada e io credevo di essere l’unica persona che stesse
cercando di attraversare la tormenta. Tre giorni dopo, stavano ancora
recuperando corpi congelati nelle macchine». In qualche modo, Fitch arrivò
alla festa e fece una grossa impressione sui tifosi locali quando chiamò sul
podio il giovane Phil Jackson, tirò fuori un paio di manette e gliele mise ai
polsi dicendo «Io voglio te».
A Jackson, Fitch piaceva immensamente. Era giovane, aveva solo
trentadue anni al tempo, ed era molto allegro: il suo calore e il suo
entusiasmo erano in netto contrasto con la freddezza dell’altro allenatore
che stava cercando di ingaggiarlo, Johnny Kundla dell’Università del
Minnesota. Kundla sembrava distante e distaccato, forse perché gestiva un
programma molto più potente, abituato a reclutare tutti i ragazzi che voleva.
Convocò Jackson e altri quattro ragazzi che sarebbero entrati all’università
l’anno successivo a un incontro a Minneapolis, e disse loro che erano i
cinque freshman che voleva per la squadra riserve (ai tempi i ragazzi al
primo anno di università non potevano far parte della squadra principale).
Era come se non ci fosse alcuna scelta da fare. Lui li voleva, quindi loro
sarebbero venuti. «Sarete la classe dell’anno prossimo. Qui abbiamo un bel
programma, che vi piacerà. Vi piacerà anche l’università. Se avete qualche
domanda chiamatemi» e poi uscì dalla stanza. «Quello era lo stile di Johnny
Kundla» avrebbe detto Jackson più di trent’anni dopo, non senza un certo
acume. Scelse invece Nord Dakota.
Gli piaceva molto giocare lì. Da giovane aveva mostrato molto più
potenziale come lanciatore nel baseball e un buon numero di squadre
professioniste erano interessate a metterlo sotto contratto, ma qualcosa che
neppure lui comprendeva lo spingeva verso il basket. Paul Pederson, due
anni più vecchio di Jackson, era la stella della squadra e anche uno studente
eccezionale: Fitch scelse di metterli in camera insieme, così che Pederson
potesse guidare Jackson nei suoi primi anni al college. Pederson pensava
che Fitch si fosse sempre reso conto di avere un rapporto speciale con
Jackson e che fosse molto protettivo nei suoi confronti. Pungente e caustico
con molti dei suoi giocatori, era sorprendentemente gentile con Jackson,
conscio della fatica fisica che stava affrontando per irrobustire il suo corpo
mentre era anche esposto a una considerevole quantità di stress emotivo, a
causa del conflitto tra il modo severo in cui era stato cresciuto da una
famiglia di fondamentalisti religiosi e il rilassato (qualcuno avrebbe detto
peccaminoso) stile di vita del college.
Jackson era un ottimo atleta che lavorava sodo, con un talento fuori dal
comune e alcuni punti deboli. Alto, sempre un po’ goffo ma con una buona
rapidità nei piedi, aveva braccia molto lunghe e un ottimo gancio mancino,
che fece la sua fortuna durante gli anni del college. La cosa su cui Fitch
lavorò era la sua fase difensiva e in particolare la marcatura, sia perché
voleva renderlo più agile finché era ancora al college, sia perché lo stava
preparando per una possibile occasione tra i professionisti. Fitch lavorò
costantemente con Jackson su qualcosa che avevano chiamato ‘La partita di
hockey’: era un 3 contro 3 in cui Jackson guidava la difesa. Fitch lo metteva
sempre contro il giocatore più basso e più veloce, il loro playmaker. Era un
esercizio di destrezza unico, che a Jackson sarebbe servito molto in futuro.
Durante i suoi anni al college, Nord Dakota fece piuttosto bene. Nel suo
secondo e terzo anno finirono rispettivamente terzi e quarti nella Divisione
II della NCAA, perdendo entrambe le volte con Southern Illinois, squadra
guidata da un giovane giocatore di nome Walt Frazier, che Jackson dovette
marcare, con scarso risultato. («Era molto più veloce di me» ricorda
Jackson. «Mi fece mangiare la polvere molte volte»). Per numerose ragioni,
principalmente etniche, Nord Dakota non era considerato terreno fertile per
il basket e l’opinione professionale di molti scout era che l’unica cosa che
quella zona poteva produrre erano ragazzini bianchi lenti, pesanti e devoti.
Ma due uomini lo notarono. Uno era Jerry Krause, ai tempi scout per i
vecchi Baltimore Bullets (che sarebbero diventati i Washington Bullets, che
sarebbero a loro volta diventati i Washington Wizards). Krause andò a
vedere Jackson nell’inverno del 1966-67, il suo ultimo anno, lo apprezzò e
voleva che fosse la scelta del draft dei Bullets.
Krause, che avrebbe finito per avere un enorme ruolo nella vita di
Jackson, aveva sentito parlare di un giovane e sgraziato giocatore di Nord
Dakota, con braccia insolitamente lunghe, e aveva guidato attraverso una
tempesta di neve (a quanto pare un requisito fondamentale del rischioso
compito degli scout) per vedere Jackson giocare contro Loyola. Bill Fitch
gli chiese «Jerry, hai mai visto delle braccia più lunghe?» e poi fece fare a
Jackson il trucco della macchina, quella stessa acrobazia che lo aveva
colpito così tanto quattro anni prima. Quella notte, ricorda Krause, Jackson
segnò 18 tiri di fila. Sperava di prenderlo al terzo giro, ma anche i New
York Knicks lo stavano seguendo.
Red Holzman, lo scout dei Knicks, apprezzava molto Jackson: quello che
lo impressionava di più era il modo in cui Jackson guidava la transizione
difensiva della squadra. Lo faceva in un modo sorprendentemente
disinvolto, pur non essendo esattamente agile. «Come riesci a farglielo fare?
Come fai a farlo muovere così bene?» chiese Holzman a Fitch, dopo averlo
visto lavorare sulla difesa. Fitch gli disse della partitella 3 contro 3. I
Knicks lo presero al secondo giro, due scelte prima di Baltimore.
Nel 1981, quando Michael Jordan iniziò il suo primo anno di università,
Dean Smith era all’apice del suo potere e della sua reputazione. Il suo
programma era considerato il migliore del Paese, anche se doveva ancora
vincere il suo primo campionato nazionale. Bob Ryan, il decano dei
giornalisti dell’NBA, aveva notato che Smith non ingaggiava i suoi
giocatori: li sceglieva. Intendeva dire che il programma di Smith era così
ricco e potente che lui, a differenza degli altri allenatori, aveva il lusso di
poter fare delle scelte e prendere solo i giocatori che voleva e che si
sarebbero adattati rapidamente al programma, lasciando stare ragazzi
talentuosi ma che non si sarebbero piegati alle sue richieste, particolarmente
rigorose. Era una definizione piuttosto lusinghiera e conteneva un buon
grado di verità, ma fece comunque arrabbiare Smith.
Gli allenatori che venivano in visita e i giocatori a cui era accordato il
considerevole onore di essere ammessi agli allenamenti di Carolina
venivano sempre colpiti da una serie di cose. La prima era quanto fosse
tutto tranquillo, quasi silenzioso, a parte il rumore dei palloni che
rimbalzavano, l’occasionale grido ‘Matricola!’ quando la palla finiva fuori,
un breve colpo di fischietto che indicava la fine di un esercizio e l’inizio di
un altro, o il rumoroso grugnito di un giocatore che superava la linea finale
di uno degli infiniti esercizi fisici che Smith faceva fare agli atleti per
tenerli al massimo della condizione fisica. Un’altra cosa che si notava era
l’organizzazione brillante e attenta, con una diversa tabella affissa ogni
giorno in bacheca, che stabiliva nel dettaglio come sarebbe stato utilizzato
ogni minuto di allenamento. Rick Carlisle, che aveva giocato contro
Carolina nei suoi anni a Virginia State, e che fu ammesso ad assistere agli
allenamenti mentre lavorava come assistente allenatore tra i professionisti,
pensava che guardare i Tar Heels allenarsi fosse una rivelazione. Non solo
era tutto organizzato al secondo, ma c’era sempre uno degli allenatori in
piedi di fianco al campo che alzava le dita per far vedere quanti minuti
sarebbe durato ogni esercizio. Non c’era da stupirsi che, quando aveva
giocato contro di loro, la squadra gli fosse sembrata sempre così calma e in
controllo, a prescindere da quanto fosse frenetico l’ambiente in palestra. La
risposta era lì, in quegli esercizi in cui replicavano a ripetizione ogni
possibile situazione di gioco. Come avrebbero giocato, per esempio quando
erano sotto di 6 punti a quattro minuti dalla fine. Nulla avrebbe mai dovuto
sorprenderli e nulla, pensò mestamente Carlisle, lo faceva.
A nessuno era consentito arrivare in ritardo all’allenamento, perché non
dovevano mai essere indietro sulla tabella di marcia: il ritardo danneggiava
tutta la squadra, e nulla avrebbe dovuto mai danneggiare o rallentare la
squadra. Quando andavano in trasferta, tutto doveva essere fatto nel modo
giusto: i giocatori dovevano essere ben vestiti e non dovevano essere in
ritardo. Dovevano tutti regolare gli orologi su quello che chiamavano GST,
Guthridge Standard Time, in onore del secondo di Smith, Bill Guthridge,
che molto spesso viaggiava con loro. Nel primo anno di Jordan, mentre
l’autobus della squadra, spaccando il minuto, stava lasciando Carmichael
per andare a giocare gli ACC, una macchina si avvicinò: nella macchina
c’era James Worthy, la stella della squadra. A causa di un semaforo rosso
non fu in grado di attraversare la strada e raggiungere l’autobus, che partì
esattamente all’orario stabilito: Worthy dovette seguirlo in macchina,
sapendo che avrebbe ricevuto un bel richiamo disciplinare. In un’altra
occasione, tre titolari arrivarono tre minuti in ritardo al pranzo pre-gara,
perché erano andati a farsi tagliare i capelli e il barbiere era stato lento.
Partirono dalla panchina, e furono mandati in campo tre minuti dopo
l’inizio della partita.
A Dean Smith piaceva essere responsabile di ogni cosa e non amava le
sorprese, quindi a Carolina tutto era controllato con la massima attenzione:
era un sistema estremamente gerarchico dove tutti dovevano aspettare il
proprio turno. L’allenatore, per esempio, prendeva le decisioni cruciali su
quello che avrebbe fatto la squadra (su quanto sarebbero durati i viaggi o in
quale ristorante avrebbero mangiato i giocatori) consultandosi con i più
esperti. Le matricole erano in fondo alla gerarchia, più in basso dei
magazzinieri. Durante gli allenamenti, quando una palla vagante stava
rotolando oltre le linee, qualcuno avrebbe gridato ‘Matricola!’ e un
freshman, non un magazziniere, avrebbe dovuto correre a prenderla. Se
l’allenatore ordinava una pausa per dissetarsi, questa sarebbe stata divisa
per classi. In un break di tre minuti, i più esperti sarebbero stati chiamati per
primi, trenta secondi dopo sarebbe toccato a quelli del terzo anno, un
minuto dopo a quelli del secondo anno e poi, con un solo minuto rimanente,
uno degli allenatori avrebbe detto, come se lo fosse quasi dimenticato: «Oh
già, le matricole».
Tutto era costruito attorno al concetto di squadra e contro l’idea di
individualità e i pericoli dell’ego smisurato. Era un sistema con una rigida
disciplina. Chi osservava da vicino Dean Smith pensava che negli anni
avesse deliberatamente scelto di perdere alcune partite che avrebbe potuto
vincere semplicemente lasciando il gioco più aperto e dando ai suoi
giocatori maggiore libertà, perché credeva che nel lungo periodo si andasse
più lontano lavorando come squadra e sacrificando l’individualità allo
sforzo comune. Pensava anche che il tipo di disciplina e altruismo che
richiedeva ai giocatori sarebbe stato loro più utile nella vita. L’espressione
di certe emozioni era decisamente sconsigliata. Se durante una partita un
giocatore riceveva un fallo tecnico, all’allenamento successivo sarebbe stato
obbligato a sedersi comodo a bordocampo bevendo una Coca-Cola mentre i
suoi compagni facevano degli sprint in più per espiare il suo peccato. Negli
anni, non furono molti i giocatori di Carolina che ricevettero falli tecnici.
Tutto ciò aveva molteplici scopi: rispetto per la squadra, rispetto per il
gioco, rispetto per l’avversario. I giocatori di Smith non avrebbero mai
dovuto far nulla che potesse umiliare l’avversario. Durante una partita
contro la molto debole Georgia Tech, Carolina era avanti di 17 punti e
Jimmy Black e James Worthy cominciarono a fare un po’ di circo: Black
passò un pallone dietro la schiena a Worthy, che schiacciò. Smith, furioso, li
fece immediatamente sedere in panchina entrambi. Arrabbiatissimo, gli urlò
contro: «Non fate mai più una cosa del genere! Non vi permettete di fare i
fenomeni! Vi piacerebbe se voi foste sotto di 17 e qualcuno lo facesse a
voi?»
Tutto questo definiva un’etica, un sistema e, alla fine, una comunità, una
situaizone che se non era unica era sicuramente un’eccezione
nell’ipercompetitivo mondo dello sport americano. Alla fine degli anni
settanta, Carolina aveva sostituito UCLA come miglior programma di
basket del Paese. Alcindor/Jabbar, Walton e altri loro fantastici compagni di
squadra (alcuni dei quali furono reclutati più facilmente dopo che il centro
ebbe firmato) e col tempo lo stesso John Wooden se n’erano andati, le
matricole non erano granché e il collante che teneva insieme UCLA
mostrava delle crepe. Diversi allenatori erano arrivati sperando di riportarla
alle glorie passate, ma se n’erano andati prima di quanto sperassero. Negli
anni ottanta il passato era una maledizione per UCLA, ma rinforzò
moltissimo la reputazione di Carolina.
Dean Smith era perfetto per gestire un programma di alta qualità in una
scuola di altrettanta qualità nel particolare periodo in cui allenò. Era un
momento in cui l’autorità degli allenatori non era ancora stata erosa dalle
crescenti pressioni provenienti dal mondo esterno, pressioni che
consentivano a giovani giocatori di talento di arrivare al college con troppo
potere contrattuale, di rimanerci brevemente (spesso a loro piacimento) e di
andarsene nei professionisti molto presto, perché un primo contratto
triennale da professionista veniva considerato sempre più spesso come un
surrogato per gli anni del college. Quando Smith si ritirò, sicuramente
quelle pressioni stavano cominciando a pesare anche su Carolina: i migliori
giocatori dei suoi ultimi anni, come Rasheed Wallace o Jerry Stackhouse
rimasero per un tempo più breve e arrivarono tra i professionisti molto
meno pronti rispetto a loro predecessori quali Worthy, Jordan o Sam
Perkins. Dean Smith era tranquillo e in un certo senso introverso, tutto il
contrario del suo affabile predecessore Frank McGuire, un uomo che aveva
il fascino tutto particolare dei migliori politici di origine irlandese della sua
generazione. Smith era perfettamente consapevole dei limiti intrinseci del
suo carisma personale. Altri allenatori erano emotivi, lui no. Sembrava
provare sempre lo stesso livello di emozioni e se c’era qualcosa per cui i
colleghi a volte lo criticavano in privato era la mancanza del sacro fuoco
prima delle partite, il fatto che trattava una qualunque partita di inizio
stagione e una partita delle Final Four con la medesima freddezza.
Probabilmente era una delle cose che i suoi giocatori amavano di lui: la sua
coerenza e il fatto che non giocasse mai con le loro emozioni.
I primi anni di Smith a Carolina erano stati difficili. All’inizio era un
totale estraneo, un uomo trasferitosi dal Kansas e senza radici locali in uno
Stato in cui quelle radici invece contavano molto. Un uomo riservato che
non si sentiva a suo agio in quel mondo semplice ma frenetico e
cameratesco che era lo sport. A modo suo, era anche molto ambizioso e
motivato: lasciava pochissimo al caso e possedeva una concezione del bene
e del male piuttosto solida, che andava molto oltre il basket. Il basket era
quasi un’estensione della sua stessa religiosità.
Nei primi tempi ebbe difficoltà a ingaggiare giocatori, a causa delle
violazioni commesse da McGuire prima di lui. Le sue prime squadre non
ebbero molto successo e Billy Cunningham, uno dei suoi primi grandi
giocatori – ma anche un uomo che una volta era sceso di corsa dall’autobus
della squadra per abbattere un’effige di Smith che stava venendo appesa nel
campus – si chiedeva sempre se Smith avrebbe mai potuto avere successo
venticinque anni dopo, in un’altra epoca. Il problema, secondo
Cunningham, non era il suo talento come allenatore, quanto piuttosto se con
la crescente pressione a vincere, e a vincere immediatamente, Smith
avrebbe avuto la possibilità di fondare un sistema e creare quella dinamica
trionfante che alla fine sarebbe stata così di successo per lui e per
l’università. Se c’era un collante che teneva insieme il sistema di Carolina,
era il fatto che ogni giocatore poteva rendersi conto che, per lo staff tecnico,
nessuno era una star. Il dodicesimo uomo in panchina era trattato
esattamente come il miglior giocatore e Smith avrebbe lottato per aiutare un
panchinaro a trovare un lavoro dopo la laurea tanto quanto lo avrebbe fatto
per il giocatore più dotato della squadra e, fuori dal campo, li avrebbe
trattati entrambi allo stesso modo.
Cunningham, che mentre giocava a Carolina era stato uno dei migliori
giocatori del Paese ed era stato scelto piuttosto presto nel draft, credeva che
Smith fosse stato più duro con lui che con altri giocatori meno bravi,
fulminandolo col suo sarcasmo se tirava troppo presto durante un possesso
o non portava un blocco nella maniera corretta. La lezione era chiara: non
c’erano preferiti e delle eccezionali abilità non garantivano a nessun
giocatore dei favoritismi da parte dell’allenatore. Al contrario, Smith era
decisamente convinto di doversi aspettare molto di più da quelli a cui era
stato dato molto di più. Quando i giocatori vedevano l’intrinseca
imparzialità del programma, la mancanza di favoritismi per i migliori e
imparavano che la correttezza dell’allenatore non dipendeva dalla loro
media punti, accettavano quasi tutti le regole, i migliori come i peggiori,
sapendo nel profondo del cuore che era meglio essere spinti che non essere
coccolati.
Il programma continuò ad accrescere il suo successo e Dean Smith
diventò, che gli piacesse o meno, molto più famoso di chiunque altro
nell’università. I suoi amici pensavano che quella fama lo mettesse a
disagio, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nel fatto che un allenatore
potesse diventare più famoso e più potente dei migliori professori o del
rettore di una grande università. (Non fu felice quando la UNC costruì un
nuovo palazzetto e gli diede il suo nome. Ufficialmente Dean E. Smith
Center, per tutti Dean Dome. Lo accettò solo perché pensava che
l’università ne avesse bisogno e perché le persone che avevano preso quella
decisione gli avevano assicurato che, se non avessero usato il suo nome,
l’investimento sarebbe potuto andare molto male). Smith era anche molto
consapevole dei benefici della sua posizione. In un certo senso, diventò un
ottimo talent scout proprio perché rimase fedele ai suoi principi: non
avrebbe mai potuto essere come Lefty Driesell, brillante e sicuramente più
animoso talent scout che non nascondeva nulla di se stesso né delle sue
scelte: un imbonitore allegro e della vecchia scuola. Al contrario, Smith era
involontariamente freddo e distaccato, quasi come un rispettato parroco
locale che per puro caso era tanto devoto a un ideale di vita buona, virtuosa
e religiosa quanto al concetto di vittoria nel basket. (Le convinzioni
religiose di Smith erano una parte importante della sua vita. Per molto
tempo fu un fumatore ma sembrava vergognarsene, cercando di nascondere
le sue pause sigaretta quasi come un ragazzino che cercava di ingannare i
suoi genitori. Gli piaceva anche bere, ogni tanto, ma faceva quasi di
nascosto anche quello). A causa della natura molto formale della sua
personalità, spesso trattava meglio i genitori che non i ragazzi. Con i
familiari la sua mancanza di carisma era spesso un’ottima risorsa; era molto
bravo a rassicurarli, dicendo loro che sapeva cos’era giusto per i loro figli
nel lungo periodo e che i suoi valori non erano nient’altro che un’estensione
dei loro.
La sua grande forza non erano le sue parole ma la sua vita. Il suo
programma era la sua verità. E per più tempo l’avesse gestito più forte
sarebbe diventata, anno dopo anno, la sua forza magnetica. Alla fine, quello
che riuscì a ottenere, le vite che i suoi giocatori condussero e la loro
devozione per lui raccontano Dean Smith meglio di qualunque altra cosa.
Tutto ciò aveva dei benefici: gli permetteva per esempio di scegliere
giocatori in modo più sobrio e più delicato rispetto a molti avversari. Era
particolarmente bravo a trattare con persone vecchia scuola e timorate di
Dio come i Worthy o i Jordan, che avevano cresciuto i loro figli in un rigido
sistema di valori, apprezzavano il lavoro duro e non si fidavano di talent
scout che promettevano una strada in discesa verso il successo.
Dean Smith non prometteva mai nulla. Altri programmi regalavano soldi
e macchine, o garantivano un certo tempo in campo, assicurando alle
matricole che sarebbero state subito tra i titolari. I ragazzi all’ultimo anno di
high school potevano arrivare in un campus come matricole e trovare una
loro foto con l’uniforme della scuola nel quintetto iniziale della squadra. Lo
stile di Smith era tutto il contrario. Quello che diceva ai giocatori era: noi
non ti promettiamo quanto giocherai, ma pensiamo che tu possa giocare qui,
pensiamo di poterti rendere un giocatore migliore, sappiamo che riceverai
un’educazione straordinaria e crediamo che ti piaceranno le persone nel
nostro programma, specialmente gli altri giocatori. La premessa era che
tanto più bravi erano i ragazzi, tanto più probabilmente Carolina li avrebbe
presi, e allo stesso tempo i ragazzi scartati erano quelli che nel lungo
periodo avrebbero causato problemi. Questo stile di selezione piuttosto
morbido funzionava molto bene con alcuni genitori.
Negli anni sessanta, settanta e ottanta, la posta in palio nel mondo del
basket divenne sempre più importante e i riconoscimenti per i responsabili
dei migliori programmi sempre più grandi, ma Smith rimase
straordinariamente fedele a se stesso. Molti allenatori più giovani che erano
considerati ottimi talent scout stavano mettendo in mostra, innanzitutto, loro
stessi e solo in un secondo momento i loro programmi; Smith invece non
fece mai quell’errore. Vendeva sempre il programma e l’università, e il suo
era un ottimo programma in un’ottima università, dove un ragazzo, anche se
non fosse mai arrivato tra i professionisti, sarebbe stato preparato per
affrontare una carriera e avrebbe avuto diverse possibilità. Usava inoltre i
giovani di talento già ingaggiati da Carolina come arma segreta: erano
prove viventi dell’eccellenza del programma e di reclutatori di straordinaria
efficienza, perché i ragazzi delle high school conoscevano già i loro nomi e
speravano di seguire le loro impronte. Era come se dicessero: «Siamo un
club esclusivo, un gruppo di amici. Vieni anche tu, entra a far parte di
qualcosa di unico. Ti piacerà e tu piacerai a noi».
La tradizione era importante. A Chapel Hill il passato non solo era vivo,
non solo era considerato sacro, ma era anche abilmente usato per aprire le
porte del futuro. Il fascino della storia, tutte quelle grandi squadre e tutti
quei grandi giocatori che avevano attraversato i corridoi di Chapel Hill ed
erano diventati poi famosi anche tra i professionisti erano una componente
importante della sua aura mistica, sacrale e molto concreta. Tutto ciò non
era una parte astratta dell’ingaggio dei giocatori: era un punto centrale. I
migliori talent scout di Carolina erano i giocatori che erano già inseriti nel
programma o quelli che si erano da poco laureati e avevano fatto il salto tra
i professionisti. Erano sempre pronti ad alzare il telefono per dire a un
ragazzo che poteva diventare un giocatore di grande valore, quanto avessero
amato giocare a Carolina, sfruttando l’autorità che avevano ottenuto con i
loro successi. E così poteva succedere che una sera un ragazzino delle
superiori, tremando, mettesse giù il suo telefono di casa e il giorno dopo
potesse dire ai suoi amici che James Worthy o Michael Jordan lo avevano
chiamato per suggerirgli Carolina. Ma ancor più degli ex studenti, erano
l’affabilità, l’entusiasmo degli attuali giocatori e il cameratismo che si
creava nel programma a essere così efficaci. Ovviamente gli atleti
riempivano le conversazioni di riferimenti alle partitelle che giocavano in
estate, quando i grandi ex giocatori (Phil Ford, Walter Davis, Mitch
Kupchak, Mike O’Koren e, più avanti, James Worthy, Sam Perkins e
Michael Jordan) tornavano e giocavano con loro, tutti i giorni. Era roba che
dava alla testa.
Inoltre, tutto ciò era in netto contrasto con molti altri college, dove le
scelte erano fatte esclusivamente dagli allenatori e dagli assistenti allenatori
e dove i responsabili apparivano decisamente preoccupati dalla possibilità
che i giocatori attuali interagissero con le matricole quando non c’era
nessun altro in giro. In molte scuole si cercava in tutti i modi la strada più
veloce e ciò rendeva il terreno, dal punto di vista etico, piuttosto scivoloso.
In quelle università, i programmi molto più cinici e gli allenatori non
toglievano mai gli occhi dai giocatori, per paura che parlassero con le
matricole delle strabilianti promesse che erano state fatte loro ma che poi
non erano mai state mantenute una volta arrivati al campus. In alcune
scuole con programmi di basket o di football eccezionali e di straordinario
successo, si creava un forte senso di lealtà tra gli ex alunni e il corpo
studentesco; a Carolina, i sentimenti più forti arrivavano direttamente dai
giocatori.
Nessuna scuola sfruttava il proprio passato con più abilità di Carolina.
Alla fine del suo anno da rookie con i Washington Bullets, Mitch Kupchak
ritornò a Chapel Hill e gli fu presentato un ragazzino allampanato di soli
quindici anni. «Mitch, vorrei farti conoscere James Worthy» gli disse Roy
Williams. «Speriamo tutti che James possa diventare una grande stella qui».
E Kupchack, anni dopo, ancora ricordava quella volta in cui era andato da
Los Angeles a New Orleans per vedere Carolina giocare contro
Georgetown. Era il primo anno di Michael Jordan e Kupchak era nell’atrio
dell’università quando Bill Guthridge arrivò insieme a un ragazzo magro e
disse: «Michael, vorrei farti conoscere uno dei migliori giocatori del
passato: Mitch Kupchak».
Poiché a Chapel Hill c’erano molte regole e poiché si richiedevano
sacrificio e pazienza, era fondamentale che i ragazzi accettassero le regole
del gioco. Col tempo, lo facevano quasi tutti ed era estremamente raro che
uno studente, deluso, si trasferisse altrove. I giocatori si lasciavano
coinvolgere perché lo scopo finale diventava ovvio: le regole esistevano per
renderli giocatori migliori e persone migliori, non per rendere Smith più
famoso o più ricco, o per fargli avere un ruolo da capo allenatore in NBA.
La spinta veniva soprattutto dalla pressione dei compagni, dal fatto che i
ragazzi più grandi e le star del passato lo avessero accettato e avessero
aspettato il loro turno. Chi si credeva di essere una matricola per dire che le
regole non valevano per lui quando i migliori giocatori della squadra si
erano fatti portavoce di tutto il sistema?
Era come se fosse un’università dentro l’università, con le sue particolari
lezioni che riguardavano più la vita in generale che il basket. C’erano dietro
quei valori tradizionali, quasi calvinisti, che erano costantemente a rischio
nella cultura degli sport americani sempre più materialista e guidata dalla
forza sempre più predatoria di una nuova cultura dello spettacolo, in cui i
soldi potevano comprare ogni cosa, anche e soprattutto la lealtà. L’etica di
Carolina sembrava venire da un altro tempo: più ci si sacrificava per un
obiettivo – cioè più alto dal punto di vista personale era il prezzo da pagare
– più quel sacrificio, un giorno, avrebbe avuto valore. Ciò che si otteneva
troppo facilmente non aveva nessuna importanza. C’era anche un secondo
corollario, ed era semplicemente che la squadra era più importante del
singolo, a prescindere da quanto quest’ultimo fosse rispettato, talentuoso o
spinto da qualcuno. Tutto ciò che faceva sul campo lo faceva insieme ai
compagni e per i compagni. Più avrebbe pensato a loro e meno a se stesso,
meglio sarebbe stato.
Quando era ora di lasciare Carolina, i giocatori avevano ormai stabilito
un fortissimo legame con quell’uomo distaccato, spesso burbero e che a
volte sembrava irraggiungibile, ma che aveva giocato un ruolo
fondamentale nella loro vita e in quella dei loro amici più intimi. Quando
stavano per andarsene, quello stesso uomo calava la maschera e parlava
loro come un amico, non solo come un’autorità. Il punto essenziale dei loro
sentimenti era la semplice convinzione che lui si fosse occupato di loro più
come uomini che come giocatori di basket, e che avesse lavorato più
duramente per prepararli alla vita che non all’NBA. Come avrebbe detto
James Worthy anni dopo: «Era come se ci fosse una lunga lista di cose che
Dean Smith poteva insegnarti, e il basket fosse in fondo a quella lista:
prepararti alla vita era più importante di ogni altra cosa. Ci insegnò che
bisogna essere pazienti e aspettare il proprio turno, essere cortesi con le
persone e rispettare i compagni di squadra e il gioco».
Quello che rafforzava il legame, ovviamente, era il fatto che Smith
sembrava prestare loro più attenzione dopo che si erano laureati, aiutandoli,
se possibile, a trovare una strada e dedicando più energie ai giocatori con un
talento più limitato che a quelli le cui capacità erano tali che non avrebbero
avuto problemi dopo la laurea. Tra i professionisti, i general manager
avevano imparato a essere estremamente cauti con i giocatori che Dean
Smith spingeva in modo particolare: era considerato il suo modo, spesso
inconscio, di ripagare i meno talentuosi per gli anni di fedeltà. A volte
sembrava che si dedicasse realmente a loro solo una volta che fossero
diventati appetibili per qualcuno.
I ragazzi di Dean Smith avrebbero dovuto assistere alle lezioni e la loro
frequenza era controllata in modo rigido. Dovevano anche andare in chiesa,
a meno che non avessero una nota dei loro genitori che dichiarava che non
ci andavano neanche a casa. C’erano anche un sacco di lezioni che non
avevano nulla a che fare col basket: lezioni su come avere a che fare con i
media, sul fatto di guardare i giornalisti negli occhi quando si parlava con
loro e su come sapere cosa dire prima di iniziare a parlare. Insegnava loro
ad avere a che fare con le persone che volevano parlare con loro, come
vestirsi e cosa ordinare in un ristorante, e come alzarsi in piedi quando una
donna si avvicinava al tavolo. I rapporti che il programma creava – con la
scuola, con l’allenatore e soprattutto tra i giocatori – erano davvero notevoli
e probabilmente non avevano eguali nello sport universitario. Avrebbero
sempre chiamato Smith ‘Coach’. Uomini adulti, di trenta o quarant’anni,
che lo consultavano sempre prima di prendere decisioni importanti per le
loro carriere. Quando le squadre professionistiche di basket si sfidavano in
partite decisive per avere un buon posizionamento nella griglia dei playoff,
prima della palla a due gli ex giocatori di Carolina che ora militavano in
squadre avversarie si ritrovavano a bordocampo a parlare del Coach. Un
anno George Karl, classe del 1973 e allenatore dei Seattle SuperSonics,
parlò con Mitch Kupchak, classe del 1976 e assistente general manager dei
Los Angeles Lakers, loro acerrimi rivali nella Western Conference, della
possibilità, mentre andavano all’All Star Game di New York, di fermarsi a
Chapel Hill per incontrare il Coach e guardare una partita tra Carolina e
Duke. Lo fecero. Quando una terribile tragedia colpì la famiglia di Scott
Williams, ex giocatore di Carolina, fu una tragedia di tutta Carolina. Suo
padre uccise sua madre e poi si tolse la vita. Al funerale della madre di
Williams, a Los Angeles, un dirigente dell’NBA notò che oltre a Dean
Smith c’erano anche Mitch Kupchak e James Worthy, due che erano stati a
Chapel Hill molto prima di Williams. «Non sapevo lo conoscessi» disse.
«È uno di noi» rispose Kupchak.
Donnie Walsh, che era parte del cerchio magico di Carolina e, nel 1998,
allenatore degli Indiana Pacers, pensava che ci fosse una certa
contraddizione professionale nel fatto che alcuni uomini di Carolina
cercassero di gestire a loro volta un programma. Il problema era che Dean
Smith era una figura così potente nelle loro vite che erano abituati ad
ascoltarlo e a prenderle le sue parole come Vangelo. Ma non avrebbero
potuto più farlo se fossero diventati dirigenti di altre squadre, perché i suoi
interessi e i loro non sarebbero stati necessariamente compatibili.
L’interesse primario di Smith era ottenere buoni posti per i suoi ultimi
ragazzi, il loro interesse sarebbe stato invece quello di migliorare il loro
programma: le due cose non erano per forza in correlazione. Larry Brown,
un altro membro del gruppo di Carolina, continuò ad ascoltare un po’
troppo e prese alcuni dei ragazzi di Smith: all’inizio il Coach lo apprezzò,
ma poi, quando furono tagliati, si infuriò, perché far fuori uno dei suoi
ragazzi era come far fuori lui.
Chuck Daly, ex allenatore di Penn State, dei Detroit Pistons e del Dream
Team, disse che a Carolina c’era un vero e proprio culto. Daly era uno dei
pochi estranei a cui era permesso partecipare alle rimpatriate che si
tenevano ogni estate al campo da golf di Pinehurst, sotto la supervisione di
Smith. «Molti culti sono pericolosi. Questo è uno di quelli buoni, ma è
comunque un culto». Kevin Loughery, un ex allenatore NBA e un uomo
che aveva passato parecchio tempo ad allenare squadre piuttosto scarse e
che aveva ricevuto anch’egli una dispensa per giocare a golf a Pinehurst,
aggiungeva: «Non ho mai tifato per Carolina, ho sempre tifato per gli
outsider: sapevo fin troppo bene cosa significava avere la squadra meno
talentuosa. Ma dopo aver incontrato Dean Smith, ho scoperto che, se non
potevo tifare per lui, perché le sue squadre erano così piene di talento, non
potevo nemmeno tifare contro di loro, perché fui colpito dall’estrema lealtà,
dalla venerazione che così tanti uomini di successo avevano per lui e quel
sentimento che provano per lui era assolutamente sincero».
Non tutti quelli fuori dal programma, in particolare i suoi avversari,
ammiravano così tanto Dean Smith. Alcuni erano infastiditi da quella che
ritenevano solo una pietas di facciata, che nascondeva un istinto di
competizione feroce. Altri non sopportavano l’ombra di superiorità morale
che lui sembrava sempre proiettare, come se quello che faceva fosse sempre
un po’ più puro e meno materialista di quello che facevano loro; come se
allenare una squadra di basket forse più nobile che essere un avvocato o un
procuratore; come se allenare al college fosse più puro che allenare tra i
professionisti; e, infine, come se allenare a Carolina fosse più puro che
allenare da qualunque altra parte. Alcuni pensavano che il Coach fosse in
realtà molto meno immacolato dell’immagine che dava all’esterno, e altri
erano infastiditi dal modo in cui cercava di manipolare la stampa, cercando
sempre, nonostante la forza delle sue squadre, di avere il ruolo dell’outsider.
Secondo Lefty Driesell, Dean Smith era l’unico uomo della storia che ha
vinto settecento partite partendo sfavorito in tutte quante. Mike Krzyzewski,
l’allenatore di Duke, che gestiva un programma di forza e integrità del tutto
paragonabili e che aveva lottato con lui per molti anni per la vittoria finale e
per avere gli stessi ragazzini di straordinario talento in squadra, disse che se
fosse mai diventato Presidente degli Stati Uniti avrebbe nominato Dean
Smith capo della CIA «perché è la persona più subdola che io conosca».
C’era un’altra cosa molto importante di Smith che molti sportivi bianchi
non realizzavano: come Michael Wilbon aveva notato, era una divinità
molto più per l’America nera che per quella bianca. Gli afroamericani erano
perfettamente consapevoli della sua storia a Carolina e del fatto che Smith,
sulla questione razziale, fosse in netto anticipo sui tempi.
Wilbon segnalava che buone parti dell’America nera furono davanti a un
dilemma non indifferente nel marzo 1982, quando Georgetown, allenata dal
nero John Thompson, giocò contro Carolina nella finale di NCAA.
Thompson era considerato dai neri uno di loro, ma anche Smith era visto di
buon occhio, come una sorta di compagno di viaggio. Aveva garantito
l’integrazione nel suo programma molto prima di qualunque altra scuola del
Sud, mai con rigidità ma con grazia, abilità e anche tenerezza. A inizio
carriera, in un periodo in cui il suo stesso lavoro sembrava a rischio e
l’integrazione non era certo di moda, aveva anche aiutato a far assumere
degli afroamericani in un popolare ristorante del centro di Chapel Hill.
Già nel 1961, Smith aveva cercato di ingaggiare Lou Hudson, un ottimo
giocatore che non era stato in grado di soddisfare i requisiti accademici di
Carolina ed era andato a Minnesota, per poi avere un’eccezionale carriera
da professionista. Smith continuò a provare e alla fine riuscì ad abbattere il
muro, ingaggiando Charlie Scott nel 1966. Durante gli anni in cui Scott fu a
Carolina, Smith lo trattò con grande sensibilità, in uno Stato che non era
pronto a vedere una cosa così sconvolgente come un nero che giocava a
basket per la squadra dell’università. Smith rese Scott un membro della
famiglia fin dall’inizio, portandolo in chiesa fin dalla sua prima visita (una
chiesa bianca, non nera come Scott invece si aspettava). Quando un tifoso
delle università della Carolina del Sud urlò crudeli insulti razzisti a Scott,
due assistenti dovettero fermare Smith che stava cercando di andare sulle
tribune. A differenza di molti allenatori dell’epoca, che ingaggiavano dei
neri più per dovere che perché credessero davvero all’integrazione, Smith
andò fino in fondo: anni dopo, Scott diede al suo secondo figlio il nome del
suo vecchio allenatore. Gli effetti sui giocatori di colore erano tutt’altro che
indifferenti: «Mio padre» dichiarò James Worthy, «ammirava moltissimo
Smith, anche prima che mettesse piede in casa nostra. Non aveva finito le
elementari, ma leggeva i giornali e guardava Walter Cronkite alla
televisione, era un uomo che sapeva le cose, e sapeva quello che Dean
Smith aveva fatto a Chapel Hill e come si era comportato con Charlie Scott,
non solo facendolo giocare, ma rimanendo al suo fianco. Quello era il tipo
di uomo per cui voleva che io giocassi e questo era molto più importante
per lui dei soldi che offrivano altre scuole».
Nel 1984, i Chicago Bulls erano una franchigia piuttosto scadente, in una
città dove il basket sembrava uno sport di serie B, che d’inverno veniva
completamente oscurato dall’hockey, la cui squadra, i Black Hawks, era
estremamente popolare. Chicago era più interessata al football, perché il
destino dei Bears sembrava riflettere l’immagine complessiva della città:
una squadra rude e molto fisica, che giocava uno sport rude e molto fisico
in una città rude e molto fisica: ‘la città dalla spalle larghe’, come l’aveva
definita Carl Sandburg. In estate, invece, Chicago si dedicava al baseball: la
parte nord della città seguiva i Cubs, la parte sud i Withe Sox. Il basket, nel
1984, era del tutto marginale e, in una città malata di sport come Chicago,
questo la diceva lunga sulla dirigenza dei Bulls.
Prima dell’acquisto da parte di Jerry Reinsdorf e della sua cordata, il
membro più importante della dirigenza era Arthur Wirtz, un immobiliarista
importante e parecchio temuto. Era quanto di più lontano si potesse
immaginare dagli affabili proprietari di squadre sportive degli anni novanta.
Era stato una figura leggendaria nella rigida struttura di potere della
Chicago dei suoi tempi, un potentato vecchia scuola, di un’epoca in cui
Chicago era ancora in mano a pochi baroni che sapevano come esercitare il
loro potere. Era un uomo enorme (quasi due metri per più di 130 chili), che
assomigliava molto, secondo uno dei suoi partner, a Sydney Greenstreet e
che prediligeva la costruzione di giganteschi e tetri edifici di lamiera, che
sembravano metafore architettoniche della sua stessa fisicità.
Era un venditore vecchio stile e non era particolarmente interessato allo
sport, soprattutto al basket, ma era il proprietario del Chicago Stadium e
aveva bisogno di affittuari: una squadra NBA lo occupava per quarantuno
giorni, anche senza i playoff.
Non amava fronzoli come la pubblicità e il marketing, che erano invece
gli ingredienti chiave del nascente, favoloso mondo dello sport moderno. A
fine anni settanta Brian McIntyre, che sarebbe poi diventato capo ufficio
stampa dell’NBA, era stato assunto dai Bulls e aveva scoperto con orrore
che in biglietteria lavorava una sola persona. Incredibilmente, il front office
dei Bulls non aveva un addetto alla vendita degli abbonamenti annuali, la
linfa vitale delle società sportive professionistiche. Quando Michael Jordan
venne ingaggiato, nel 1984, erano stati venduti solo duemila abbonamenti.
McIntyre ricorda una battuta che circolava all’epoca: c’era stato un furto in
biglietteria, si diceva. I ladri avevano riportato indietro un gran numero di
abbonamenti annuali.
McIntyre suggerì che i Bulls assumessero degli studenti del college part-
time per vendere gli abbonamenti annuali, pagandoli con un 10%
dell’incasso. Ma Wirtz non ne aveva voluto sapere: non pensava che
avrebbero venduto abbastanza biglietti e, altrettanto importante, non
sopportava l’idea di perdere il 10% del guadagno. Quando McIntyre arrivò,
il contratto con la radio locale prevedeva la trasmissione di una ventina di
partite per $5.000 l’una. Alla fine, il prezzo crebbe, anche se la stazione
aveva un segnale così debole che buona parte della città non poteva sentire
le radiocronache. La cosa che McIntyre ricordava meglio era un episodio
capitato un anno in cui i Bulls avevano addirittura raggiunto i playoff: era in
ritardo al lavoro, stava andando troppo forte in macchina e un poliziotto lo
fermò per eccesso di velocità. McIntyre cercò di evitare la multa offrendo
dei biglietti per i playoff. «Odio il basket» rispose il poliziotto. «Non ha
mica dei biglietti per l’hockey?» Il poliziotto, pensò McIntyre, avrebbe
potuto parlare a nome dell’intera città di Chicago.
Durante l’anno precedente Reggie Theus, la stella della squadra, si era
scontrato con lo staff tecnico e, a inizio stagione, non era ancora arretrato di
un millimetro dalle sue posizioni. L’allenatore Kevin Loughery, irritato
dallo scontro e dal fatto che Theus fosse convinto che ogni possesso
offensivo dovesse terminare con un suo tiro, lo aveva messo in panchina.
Questa mossa infastidì sia Theus che i tifosi, convinti che lui fosse l’unica
luce della squadra. A volte, Theus sventolava un asciugamano sopra la
testa, per spingere i tifosi a prendere le sue difese e una volta, durante una
partita, aveva ordinato una pizza.
Neppure il sorteggio delle scelte del draft, che avrebbe dato loro la
possibilità di ingaggiare i migliori giocatori di college del Paese, era andato
bene ai Bulls negli anni prima dell’arrivo di Jordan. A causa del loro infimo
livello e dell’ultima posizione che ne era derivata, cinque anni prima i Bulls
si erano giocati, con il lancio di una monetina, la prima scelta del draft
contro i Lakers: il premio era un ragazzo di East Lansing, Michigan, di
nome Magic Johnson, un giocatore brillante, il cui talento era evidente e
che era molto conosciuto perché aveva giocato il Big Ten Tournament. La
possibilità che arrivasse a Chicago aveva suscitato un notevole interesse in
città e la dirigenza dei Bulls aveva cercato di sfruttare la cosa, facendo
decidere ai tifosi se scegliere testa o croce nel sorteggio.
Quando si dovette stabilire chi si sarebbe preso Magic Johnson, Rod
Thorn scelse testa come chiedevano i tifosi. Ovviamente uscì croce. Al
posto di Johnson, i Bulls presero David Greenwood, niente più che un
accettabile mestierante. Non scelsero nemmeno Sidney Moncrief, che finì a
Milwaukee e lì diventò uno dei migliori giocatori del decennio sia in
attacco che in difesa. Qualche tempo prima, Jonathan Kovler, uno dei
dirigenti dei Bulls, aveva buttato lì che quel lancio di moneta valeva 25
milioni, ma anni dopo avrebbe commentato: «In realtà mi sbagliavo. Ne
valeva 200».
In effetti, tutte le scelte di Chicago nei draft recenti erano state disastrose.
A volte, il problema era che sceglievano tra i primi in un anno in cui c’era
poco talento a disposizione e altre volte, quando sceglievano per primi,
semplicemente sceglievano male.
Nella stagione 1983-84 vinsero solo ventisette partite e ne persero
cinquantacinque, il che diede loro la terza scelta nel draft dell’84, dopo
Houston e Portland. Sembrava che nell’NBA, in quel periodo, tutti
volessero un centro: era un’epoca precedente a quando Michael Jordan e
altri giocatori della sua statura avrebbero cambiato la filosofia generale del
draft. Era evidente che il miglior centro disponibile era un ragazzo
dell’università di Houston di nome Hakeem Olajuwon. Lo volevano
praticamente tutti. Era grosso, era atletico, aveva un’ottima etica del lavoro
e giocava relativamente da poco tempo, quindi ci si poteva aspettare che
sarebbe migliorato anno dopo anno, e in effetti fu così. Molti esperti
pensavano che, dopo di lui, Michael Jordan fosse la scelta più ovvia. Ma lui
era una guardia, non un centro, né un’ala grande né un playmaker. Poteva
una semplice guardia cambiare faccia a un’intera franchigia? La mitologia
NBA, a quel tempo, era che le guardie non potessero, da sole, risollevare
una squadra mediocre: un’ottima guardia era solo il pezzo finale di una
grande squadra, non l’architrave.
Il secondo miglior centro era Sam Bowie, che aveva giocato a Kentucky.
Alto e di buona intelligenza cestistica, aveva però un grave problema: aveva
subito un brutto infortunio a una gamba durante il college (e in NBA ne
sarebbero seguiti altri). C’era anche una questione meno scoperta: ci si
chiedeva se Bowie amasse abbastanza il basket e se avesse la passione che
si richiedeva per portare se stesso e la sua squadra ai massimi livelli. I Bulls
avevano delle perplessità. Da poco avevano scelto al draft Ronnie Lester,
che era arrivato come merce avariata. Ma Portland, che sceglieva per
seconda, aveva detto chiaramente che voleva un centro. Molti pensavano
dipendesse dal fatto che i Trail Blazers avevano avuto il loro unico quarto
d’ora di gloria quando avevano costruito una squadra in grado di vincere
l’anello intorno a un centro di talento, Bill Walton (anche se era abbastanza
chiaro che Bowie non era Walton); altri pensavano che fosse perché
avevano già avuto un giocatore simile a Jordan, Clyde Drexler, che però
nella sua prima stagione aveva faticato ad adattarsi ai rigidi schemi
d’attacco di coach Jack Ramsay. Portland, per la gioia degli scout di
Chicago, avrebbe preso un centro. Non tutti pensavano che fosse una gran
mossa: Bobby Knight che era stato, da allenatore, avversario di Jordan al
college e lo aveva allenato nei primi giorni di ritiro prima delle Olimpiadi
del 1984, si era innamorato di lui e aveva cercato di spingere il suo caro
amico Stu Inman, general manager di Portland, a prenderlo.
«Ma abbiamo bisogno di un centro» aveva risposto Inman.
«Stu, prendilo e fallo giocare come centro» gli aveva risposto Knight.
Il dirigente dei Bulls che si occupava del draft era Kovler, un uomo ricco
e giovane, erede della fabbrica di liquori Jim Beam e dipendente dal basket.
Era l’uomo di facciata dietro cui si nascondeva una proprietà piuttosto
ingombrante, con un largo numero di soci. A volte, a Chicago veniva
proposto un ottimo affare, che però sfumava prima che Kovler riuscisse a
radunare tutti i soci e prendere una decisione. Lo scout principale, che
rispondeva direttamente a Thorn, era un giovane di nome Mike Thibault:
era uno dei classici uomini la cui vita girava interamente intorno all’NBA,
nato per (o condannato ad) avere a che fare con lo sport per tutta la vita
come assistente allenatore o scout, conoscendo tutto del gioco, amandolo
senza ricavarci mai troppi soldi e passando la vita sui voli di linea diretti in
microscopiche città per guardare partite apparentemente insignificanti tra
squadre semisconosciute. Ma era stato attirato dall’inconfondibile allure
dello scouting, dalla ricerca del grande giocatore ancora da scoprire, dalla
speranza di scovare dei giocatori nella media che però insieme, con la
speciale sinergia che lo sport poteva creare, avrebbero composto un
amalgama che era molto più della somma delle sue parti.
La terza scelta del draft era oro puro. La Lega si era espansa e c’erano
molte più squadre, il che significava che la possibilità di avere una scelta
alta nel draft era sempre più rara e gli errori, a causa dell’aumento degli
ingaggi, sarebbero costati molto di più. Thibault aveva visto giocare
Michael Jordan almeno dodici volte quell’anno e Rod Thorn altrettante.
Anche se era difficile stabilirlo con certezza a causa della particolare natura
del programma di Carolina, avevano deciso che Michael Jordan sarebbe
diventato un ottimo giocatore professionista, forse addirittura un grande
giocatore professionista. Obiettivamente, un giocatore di basket così
completo era una cosa piuttosto rara.
Prima di cominciare a guardare Jordan, Thibault aveva sempre pensato
che il giocatore di college più competitivo mai visto fosse Magic Johnson.
Ora, studiando questo giovane, arrivò a pensare che Jordan avesse dentro un
fuoco che bruciava addirittura più di quello di Johnson. Aveva più volte
visto Jordan prendere completamente il controllo del gioco e la voce che
continuava a sentire dagli assistenti allenatori di Carolina era che in
allenamento fosse ancora più spettacolare. Thibault decise abbastanza in
fretta che voleva Jordan e sperava soltanto che Portland non cambiasse idea
e prendesse Sam Bowie.
Thorn era d’accordo. Era preoccupato dalla condizione fisica generale di
Bowie, specialmente dopo il disastro con Lester, e dal suo amore per il
gioco, ed era ugualmente entusiasmato da Jordan. Aveva visto meno partite
di Thibault, ma in un certo senso era diventato amico di Dean Smith e gli
era stato permesso di sedersi nella sala di proiezione di Chapel Hill e
guardare i filmati delle partite di ACC. Era una cortesia abbastanza unica,
che lo aiutava a trovare buoni giocatori non solo tra quelli di Carolina, ma
anche tra gli avversari. Thorn apprezzava parecchie cose di Jordan: era
evidente che fosse migliorato anno dopo anno, aggiungendo nuove
specialità al suo gioco, in particolare in difesa. Ma soprattutto, c’era
l’atletismo: quei brevi momenti dove con uno scatto improvviso arrivava
dal nulla e faceva una giocata che nessun altro giocatore di college avrebbe
potuto fare. Seduto lì, da solo, Thorn guardava giocare Jordan e spesso
stoppava il video, sconcertato da quello che aveva appena visto, e tornava
indietro per guardarlo ancora e ancora, ipnotizzato. Alcune delle giocate
offensive di Jordan e il suo istinto in difesa erano semplicemente
impensabili. Capì che stava guardando un giocatore diverso da qualunque
cosa avesse mai visto prima. Man mano che la stagione procedeva, parlò
con le persone di Chicago e la sua voce divenne sempre più fiduciosa:
stavano per prendere un grande giocatore, diceva.
Anche Dean Smith era entusiasta di lui, ma Smith tendeva a essere
entusiasta di tutti i suoi giocatori. Il fatto che Billy Cunningham
apprezzasse così tanto Jordan, però, confermò a Thorn e Thibault che
avevano davvero qualcosa di grosso tra le mani. Erano ancora poco sicuri di
Kovler: Thibault temeva che avesse ancora in mente di scegliere un centro e
disse a Thorn che, se Kovler avesse esitato nel giorno del draft, sarebbe
stato loro preciso dovere scavalcarlo e scegliere Jordan. Ma Kovler era con
loro e il 19 giugno 1984 i Chicago Bulls ingaggiarono Michael Jordan, da
North Carolina, come terza scelta del draft.
C’era un altro giocatore, quell’anno, che Thibault ammirava molto: un
ragazzino di nome John Stockton che giocava per Gonzaga, una piccola
scuola di Spokane. Pensava che fosse tosto, con mani molto grandi e
un’ottima visione di gioco. Per un breve periodo, Chicago cercò di
scambiare giocatori e posizioni di scelta per avere un’occasione anche per
Stockton, ma Frank Layden, Utah, vedeva in lui lo stesso potenziale di
Thibault e i Jazz lo presero come loro prima scelta. L’idea di avere Jordan e
Stockton nella stessa metà campo difensiva continuò sempre a intrigare
Thibault.
Il giorno del draft, Ron Coley, che aveva fatto l’assistente allenatore
volontario alla Laney High School di Wilmington, chiamò James Jordan e,
nominando due delle guardie migliori dei suoi tempi, gli disse: «Oscar
Robertson e Jerry West, levatevi. Sta per debuttare la miglior guardia della
storia del basket».
9
New York;
Quando uno dei suoi ragazzi stava per entrare nello sport professionistico,
Dean Smith tendeva a supervisionare e orchestrare l’intera operazione:
invitava soltanto agenti di cui si fidava e si assicurava che nessuno dei suoi
atleti si facesse spennare da inaffidabili avventurieri. A quei tempi due
uomini che lavoravano insieme, Donald Dell e Frank Craighill, avevano
una corsia preferenziale a Carolina. Dell era stato una stella del tennis ed
era diventato agente rappresentando altri tennisti di prima grandezza,
mentre Craighill veniva dal mondo della finanza, aveva studiato a Chapel
Hill ed era stato ricercatore all’Università di Morehead, cosa che Dean
Smith apprezzava. Sembrava che a Smith piacessero sia Dell che Craighill e
in breve i due erano entrati a far parte integrante del programma sportivo di
Carolina. A quei tempi l’interesse primario di Dell era il tennis, il basket era
marginale per lui. L’organizzazione di Dell e Craighill aveva lavorato bene
per i giocatori di Smith, per esempio aveva ottenuto un ottimo contratto per
Tom LaGarde, un centro grosso e un po’ goffo con un ginocchio già
malconcio che nel 1977 era stato la settima scelta al draft nazionale; un
contratto che si diceva fosse più vantaggioso di quello ottenuto da Walter
Davis, quinta scelta nella stessa stagione. Smith aveva apprezzato l’abilità
nel valorizzare un giocatore non eccezionale. Dopo quell’episodio i due
cominciarono a lavorare per altri giocatori dell’Università del North
Carolina, fra cui Phil Ford, Dudley Bradley e James Worthy.
Quando Dean Smith decise che Michael Jordan doveva lasciare il college
dopo il terzo anno, David Falk era un socio molto giovane di Dell. C’è un
elemento di casualità nel modo in cui i due divennero agenti di Jordan.
Quell’anno Dell e Craighill si erano separati: Dell e Falk erano rimasti
insieme mentre Craighill e un altro socio, Lee Fentress, avevano aperto
un’agenzia concorrente. Quella divisione aveva creato un dilemma per
Dean Smith. Era legato a entrambi i gruppi e quindi non sapeva bene a chi
affidare i suoi ragazzi.
Quando uno dei suoi giocatori usciva dall’università in anticipo, come
stava facendo Jordan, a Dean piaceva fare un’attenta ricognizione
economica, per assicurarsi che valesse davvero la pena di rinunciare
all’anno del diploma. In quell’occasione aveva lasciato che a fare la
valutazione fossero Dell e Falk, che quindi erano lievemente in vantaggio.
Alla fine, Smith concesse loro di avere Jordan, mentre Sam Perkins andò
con Craighill e Fentress.
A quei tempi i due lavoravano così: Dell si occupava del contratto
originale e poi Falk, che era molto più giovane ma anche molto più esperto
di basket, interveniva per gestire gli accordi collaterali con il giocatore, fra
cui il contratto per le sneakers che allora era considerato secondario.
Quando Jordan uscì dall’università, nel 1984, fra gli ex studenti di Carolina
che erano già passati al professionismo si cominciava a parlare molto più di
David Falk che non di Donald Dell, perché era Falk la persona con cui
avevano a che fare, quello che li seguiva passo per passo e gestiva tutti gli
accordi collaterali, che con l’aumento esponenziale della notorietà dei
giocatori dell’NBA non erano più così secondari. Come osservò poi Falk:
«Dean Smith vedeva ancora me come il ragazzino e Dell come l’uomo
adulto, ma i suoi giocatori cominciavano a vedere me come l’uomo con cui
avevano concretamente a che fare».
Dal primo momento in cui entrò nell’agenzia di Dell, visto il modo in cui
aumentavano i profitti collaterali, Michael Jordan si affidò essenzialmente a
David Falk: in seguito avrebbe ripetuto spesso di averlo scelto perché aveva
lo stesso taglio di capelli di suo padre, ovvero era praticamente calvo. Pochi
si avvantaggiarono più di Falk dei cambiamenti in atto nel basket e nello
sport americano. In un breve lasso di tempo – in pratica un decennio –
passò dall’essere un giovanotto brillante che sgomitava alle soglie del
mondo del basket, e che sembrava in soggezione davanti al prestigio e alla
raffinatezza di Dell al punto di cercare di imitarlo nell’abbigliamento e nel
modo di parlare, a un potente procuratore milionario la cui influenza in certi
momenti sembrava rivaleggiare con quella dello stesso commissioner e
superare quella di molti proprietari di squadre. Due fattori contribuirono
alla sua ascesa: innanzitutto il drastico cambiamento delle leggi sul lavoro,
grazie al quale il potere passò quasi completamente dalle mani dei
proprietari delle squadre a quelle dei giocatori e quindi dei loro agenti, e in
secondo luogo l’ottimo lavoro che fece per Michael Jordan. Stava nascendo
una nuova era e Falk era presente. In un’epoca di libera rappresentanza e di
stipendi apparentemente illimitati, la sua scuderia di atleti arrivò a
comprendere non soltanto Michael Jordan ma una ventina dei migliori
giocatori della Lega, fra cui Patrick Ewing, Allen Iverson, Juwan Howard,
Alonzo Mourning, Dikembe Mutombo, Keith Van Horn e Antoine Walker,
alcuni dei quali avevano firmato con Falk nella speranza che facesse per
loro quello che aveva fatto per Jordan: renderli icone culturali capaci di
trascendere i confini del basket, o in alternativa ottenere contratti da 20
milioni di dollari all’anno, che nel 1998 era una cifra ammissibile.
David Falk non era sempre morbido nell’esercizio del suo nuovo potere.
Non disdegnava di evidenziare i limiti di coloro che riteneva si trovassero
più in basso di lui nella gerarchia in cui si muoveva. Il compito di un bravo
agente non era quello di essere gentile ma quello di curare al meglio gli
interessi dei propri clienti, anche facendosi dei nemici se necessario. Era
diffusa la convinzione che nessuno curasse gli interessi dei clienti, nella
grande maggioranza dei casi, meglio di David Falk: non c’era quindi da
stupirsi che nessuno avesse più nemici di lui. Nel mondo del basket
professionistico ci si domandava se fosse o no una buona idea rientrare fra i
clienti secondari di David Falk: un proprietario si sarebbe sfogato su un suo
cliente meno importante perché non poteva farlo con quelli di prima
grandezza? Oppure invece sarebbe stato più generoso con lui, nella
speranza di ottenere il favore di Falk quando ci fosse stato da gestire una
superstar?
Michael Jordan non si preoccupava minimamente del fatto che il suo
agente fosse detestato, in privato, da molti plenipotenziari del basket. Era
ben felice di aver guadagnato livelli di popolarità apparentemente illimitati,
ma non aveva fretta di veder fraternizzare il suo agente con chiunque
facesse parte delle strutture di potere. Come disse una volta di lui,
accostandolo a uno dei giocatori più temuti della Lega: «Somiglia molto a
Rick Mahorn: non piace a nessuno, a meno che non stia in squadra con te».
John Thompson, cliente e amico di Falk, una volta disse che se vuoi un
cane da guardia per la tua casa, non prendi certo un barboncino.
L’ascesa al potere di David Falk nel mondo dello sport non era certo
predestinata. Era un ragazzo della classe media, originario di Long Island,
che nei primi anni di attività non aveva particolari qualità se non la passione
per lo sport e il desiderio di fare l’avvocato. Suo padre gestiva due
macellerie. Si era laureato a Syracuse, segno che non era riuscito a entrare
nell’élite della Ivy League, e alla facoltà di legge non era fra i
rappresentanti più in vista della sua generazione, non certo una prima scelta,
insomma. Ebbe a dire: «Ero un personaggio marginale sulla bilancia delle
giovani promesse della legge e dovetti rendermi conto che nessuno mi
avrebbe cercato con particolare entusiasmo».
Fu ammesso alla George Washington Law School di Washington D.C. ed
entrò come apprendista negli uffici di un agente sportivo per ottenere
qualche contatto nel settore. Cercò di approcciare Bob Woolf a Boston e
Larry Fleisher a New York, ma erano lupi solitari che non avevano
collaboratori. Poi qualcuno gli suggerì di provare con Donald Dell. Falk lo
chiamò più volte senza successo finché un giorno, furioso per
l’inaccessibilità di Dell, decise di continuare a provare finché non gli avesse
risposto, cosa che Dell fece, secondo i calcoli di Falk, al diciassettesimo
tentativo. Fissarono un appuntamento e, secondo Falk, Dell lo fece aspettare
per tre ore, ma alla fine fu preso come apprendista. A volte andava a scuola
di sera o d’estate e durante il giorno lavorava per Dell. Gli fu assegnato il
lavoro d’ufficio per Arthur Ashe e lui lo svolse con raro impegno,
controllando ogni aggiornamento delle cifre di bilancio, cosa che pochi
agenti facevano, e rendendosi indispensabile per Ashe, tennista che Falk
ammirava immensamente.
Anche in quei primi tempi metteva grande passione e impegno nel
rapporto con i clienti. Un anno gli capitò di rappresentare un giovane
cestista di nome Rod Griffith, che era stato scelto da Denver.
Quell’autunno, i limiti di Griffith diventarono evidenti al management dei
Nuggets, che stava per tagliarlo. Falk cominciò a chiamare ogni giorno
Donnie Walsh, il general manager, per perorare la causa del suo cliente e
nel giorno in cui i Nuggets volevano mandare via Griffith, Falk capitò al
ritiro della squadra. Walsh si chiese se non avesse poteri paranormali. «Mi
colpì il fatto che, dato che non c’erano voli commerciali da Washington alla
Air Force Academy, dove ci stavamo allenando, probabilmente era riuscito
a trovare il modo di viaggiare sull’Air Force One» disse in seguito Walsh,
«ma quel livello di impegno non poteva lasciare indifferenti e almeno per
un po’ funzionò, perché quel giorno non lo tagliammo».
Falk sembrava sempre iperattivo: pensava in fretta, coglieva i dettagli in
fretta e si sentiva in obbligo di parlare in fretta. Le parole e i pensieri
sembravano esplodere da lui, come se fosse impaziente di sentire per primo
quello che diceva, forse per paura che se non avesse parlato abbastanza
velocemente qualcun altro avrebbe potuto dare voce ai suoi stessi pensieri e
prendersi il merito. Più guadagnava potere meno dubbi aveva sull’estremo
valore del proprio tempo, certo molto più alto del tuo e probabilmente di
quello di chiunque altro, eccezion fatta, forse, per lo stesso Michael Jordan.
Negoziare con Falk, disse un general manager dell’NBA, era come lottare
con un geniale polpo, per la quantità di mosse e la resilienza che metteva in
campo. «Minaccia, promette, urla. Se non fai quello che vuole è tutto finito,
non vuole più saperne di te, la tua squadra non vincerà mai più una partita e
tu verrai licenziato per la tua scarsa lungimiranza. Se invece fai quello che
vuole, potresti essere in procinto di accogliere il nuovo Michael Jordan».
I suoi giocatori erano sempre dalla parte giusta in ogni conflitto, e intorno
a David Falk c’erano inevitabilmente moltissimi conflitti. Tutti gli altri
avevano torto. I suoi erano sempre i buoni. Un accenno a un libro su
Michael Jordan scritto da Sam Smith, gran parte del quale a quanto pareva
basato sulle interviste con Horace Grant, scatenò una lunga e appassionata
sequela di improperi su Grant, incentrata prevalentemente sulla sua scarsa
intelligenza. Chiunque si mettesse contro di lui in una causa legale, lasciò
intendere una volta Falk al giornalista Rick Telander, sarebbe stato
schiacciato.
Moltissimi proprietari e general manager avevano una profonda
avversione per Falk, ma la nascondevano meglio che potevano e si
facevano in quattro per accontentarlo, per paura che il loro nuovo centro e
superstar, scontento del contratto da soli 18 milioni di dollari all’anno e
intorno al quale era appena stata costruita una struttura sportiva da 3
miliardi complessivi (naturalmente col nome di una linea aerea), potesse
decidere che preferiva un clima diverso e più felice, e una struttura sportiva
più nuova intitolata a una linea aerea concorrente.
A volte i general manager si chiedevano quali fossero i limiti del potere
di Falk, e quale la natura dei suoi capricci. Quando una stella del basket
sembrava scontenta di qualcosa, lo era davvero o piuttosto lo era Falk?
Forse Falk voleva farsi una tintarella invernale e in gennaio e febbraio
preferiva andare a Miami invece che a Minneapolis o Vancouver? Avrebbe
potuto portare via la loro stella per spostarla nella squadra di un’altra città,
dove aveva un’altra star più anziana con un disperato bisogno di aiuto da
parte di un altro atleta di talento? C’era una cosa che non cambiava mai
riguardo a David Falk, ed era che nelle sue peregrinazioni fra i palazzetti
per andare a tenere la mano ai suoi vari giocatori, otteneva sempre dei posti
favolosi.
Michael Jordan e David Falk contribuirono l’uno al successo dell’altro e
ciascuno ricavò notevoli vantaggi da quella collaborazione. Certo, Jordan
era quello che alla fine portava a casa il risultato, quello che scendeva in
campo e segnava i punti decisivi ogni partita, ma è anche vero che David
Falk contribuì a rivoluzionare la rappresentanza di un giocatore di basket, il
processo di entrare in una squadra e creare l’idea del singolo giocatore
come superstar pubblicitaria, un atto iconografico che a quei tempi era
sconvolgente. Prima che Falk chiudesse il primo favoloso accordo per
Michael Jordan, i grandi budget delle sneakers si concentravano
preferibilmente sui tennisti: Arthur Ashe, Jimmy Connors o John McEnroe
guadagnavano milioni, mentre i cestisti dovevano accontentarsi delle
briciole. L’accordo con Michael Jordan cambiò le carte in tavola: anche un
giocatore di basket, pur facendo parte di una squadra, poteva essere una
star.
Fin dall’inizio, Falk intuì che Michael Jordan era speciale, che avrebbe
potuto superare gli angusti confini del suo sport, che aveva un carisma al
quale le persone comuni avrebbero reagito e che lo collocava in un’élite di
atleti speciali come Pelé, Muhammad Ali e Arthur Ashe, i quali si erano
guadagnati maggior fama e celebrità al di fuori degli Stati Uniti piuttosto
che in patria.
Ciò che David Falk contribuì a fare con Michael Jordan modificò la
natura del rapporto fra procuratore sportivo e atleta. È vero che il momento
era perfetto e che combinava una serie di fattori favorevoli, i più evidenti
dei quali riguardavano l’evoluzione tecnologica delle comunicazioni, ma è
anche vero che Falk aveva l’atleta perfetto per quell’epoca, un virtuoso in
uno sport in cui l’abilità tecnica richiesta era evidente anche ai neofiti e che
inoltre era un giovane di sfolgorante bellezza e rara eloquenza. Dean Smith,
che rappresentava l’altra metà del mondo di Jordan, non era del tutto
soddisfatto delle infinite possibilità commerciali prodotte dal successo
dell’atleta (o almeno dell’idea che un agente avesse più potere di un
allenatore) e lo si sentì dire che sua figlia avrebbe potuto rappresentare
Michael Jordan bene quanto Falk. È anche vero che se pure Falk, sotto ogni
punto di vista, aveva fatto per Jordan un lavoro che nessun agente nella
storia aveva mai fatto per un altro atleta, non ottenne più un altro giocatore
dell’Università della Carolina.
La verità che bisogna riconoscere a Falk è di aver visto il futuro prima di
chiunque altro. Perché, dopotutto, quello che era successo con Jordan non si
era verificato pochi anni prima, con l’avvento di Magic Johnson? Era
approdato al professionismo nel 1979, dopo aver vinto il campionato
NCAA e nell’anno dell’esordio aveva portato i Lakers alla vittoria
nell’NBA giocando meravigliosamente nella finale contro Philadelphia. Los
Angeles era sicuramente una città molto più adatta di Chicago per
promuovere un’icona dello sport con la potenzialità di trascendere i confini
tradizionali della cultura e della società. Come Jordan, Johnson aveva un
sorriso bellissimo e accattivante, era addirittura possibile che il giovane
Magic Johnson avesse una personalità ancora più spumeggiante del giovane
Michael Jordan. E a differenza di Jordan aveva anche un meraviglioso
soprannome, ‘Magic’. In parte era una questione di tempo: Johnson era
arrivato alla vigilia dell’esplosione della nuova e più ricca cultura sportiva,
mentre Jordan aveva trovato la strada già aperta dai pionieri. Chiaramente
Jordan aveva raccolto ciò che Johnson e Bird avevano seminato. Ma è
anche vero che, a differenza di Jordan, Johnson era stato rappresentato
malamente da persone che lo consideravano semplicemente un giocatore di
basket. Alla fine, Johnson cambiò agente, soprattutto dopo aver visto
quanto guadagnava Jordan.
Al momento dell’esordio di Jordan, nel 1984, i profitti provenienti dalle
sneakers stavano cominciando ad aumentare in modo esponenziale. A quei
tempi, i due colossi erano Converse e Adidas. Nike era relativamente
piccola e non particolarmente rilevante nel mercato delle scarpe da basket,
anche se nel complesso stava crescendo sempre di più. All’inizio degli anni
ottanta si pensava che soltanto Kareem Abdul-Jabbar avesse un contratto di
sponsorizzazione per le sneakers a cinque zeri: $100.000. Si diceva che
Bird e Johnson ne prendessero circa 70.000. Solo pochi anni prima, nel
1977, la Nike aveva firmato con Marques Johnson, la terza scelta nel draft,
per soli $6.000. Un anno più tardi esordì Phil Ford e ne ottenne 12.000. Nel
1981, quando Mark Aguirre fu la prima scelta in assoluto, ottenne un
contratto da $65.000. L’anno successivo James Worthy, rappresentato da
Dell (e Falk), era stato il numero uno della nazione e aveva firmato un
contratto a lungo termine con la New Balance, otto anni per 1,2 milioni di
dollari, circa $150.000 l’anno. Quella, secondo Falk, era stata la
rivoluzione.
Falk amava ripetere che al momento dell’esordio di Jordan il regno delle
sponsorizzazioni per i giocatori di basket era come il mondo prima di
Cristoforo Colombo, quando molta gente era ancora convinta che la Terra
fosse piatta. Il gioco più radicato in America era ancora il baseball e il più
entusiasmante era considerato il football americano. Le sponsorizzazioni
ricevute dai giocatori erano in generale piuttosto limitate, a parte rare
eccezioni come Joe Namath, e quelle degli atleti neri erano ancora più
marginali. Il giovane Willie Mays era stato una figura carismatica nello
sport più celebrato degli Stati Uniti (il baseball), la sua personalità
travolgente era impossibile da camuffare, imitare o nascondere, ma
naturalmente a Madison Avenue l’opinione comune era che il paese non
fosse pronto per un testimonial nero in una popolazione a prevalenza
bianca. La fama di Mays risaliva agli anni cinquanta, quando la percezione
era che il Paese non fosse pronto, e trent’anni dopo i pubblicitari
sembravano ancora aggrappati alla stessa convinzione.
Falk però pensava che fosse arrivato il momento di superare la barriera
del colore della pelle nella pubblicità sportiva: il Paese era cambiato, le
statistiche erano differenti. Inoltre, dopo aver frequentato il mondo del
tennis aveva capito che il puro talento atletico era solo una parte della
questione, che alcuni giocatori avevano qualità personali che li rendevano
insolitamente attraenti per i pubblicitari. Sentiva che Michael Jordan era
diverso da molti altri giocatori di sport di squadra, che in lui c’era un
fascino speciale, una grazia accattivante. Jordan parlava bene, faceva
un’ottima impressione su una gran varietà di persone e aveva un sorriso
decisamente ammaliatore.
Falk aveva deciso fin dall’inizio che quando avesse incontrato le aziende
di sneakers avrebbe messo in campo quella che chiamava la sfida di
Kennedy: che cosa potete fare per noi? Qual è il vostro piano di marketing?
Quanto sarà importante il budget per gli spot televisivi? Dedicherete a
Michael Jordan una linea di scarpe? E una linea di abbigliamento? Falk
sapeva che si stava avventurando in un territorio sconosciuto. Magic
Johnson, un campione già affermato, un personaggio estroverso e vincente
– che cosa poteva esserci di meglio? – non aveva ottenuto niente del genere,
e nemmeno Julius Erving. Falk capiva di partire in svantaggio. Non solo
restava l’ostinato pregiudizio sul fatto che i neri non fossero testimonial
efficaci, ma c’era il fatto che Jordan non era stato neanche la prima scelta
nel draft e che Chicago, a differenza di Los Angeles o New York, non era
considerato un grande polo mediatico. E poi Jordan non era un centro, e a
quei tempi erano i centri a portare i veri soldi.
I manager della Converse rimasero sbalorditi dall’audacia – anzi
dall’arroganza – di Falk nel pretendere così tanto per qualcuno che non era
nemmeno apparso sui loro radar. Joe Dean, uno dei manager, disse che
l’azienda aveva sessantatré dipendenti che superavano i due metri, per fargli
capire che era specializzata nell’assumere ex cestisti e che la cultura interna
si fondava sul basket. Facciamo le cose nel modo giusto. Vi tratteremo
come trattiamo Magic Johnson, Larry Bird e Dr. J. Falk pensò che non
sapevano quello che dicevano: in realtà stavano dicendo «siamo i più
grandi, abbiamo tutti i giocatori migliori, non abbiamo bisogno di essere
creativi e innovativi, in definitiva non abbiamo davvero bisogno di voi».
Falk non fu l’unico a infastidirsi per quell’atteggiamento. Il padre di
Michael, James, prendeva parte attivamente alle negoziazioni e
osservandolo Falk concluse che aveva un ottimo fiuto per gli affari. A un
certo punto durante l’incontro con la Converse James Jordan alzò gli occhi
e disse: «Non avete qualche idea nuova, creativa?»
Per puro caso le necessità della Nike corrispondevano a quelle di Falk. In
quel periodo l’azienda usciva da un momento morto. Negli anni settanta era
stata una compagnia in ascesa che aveva sfruttato la prima ondata della
mania del jogging con le scarpe da corsa e aveva ottenuto un successo quasi
istantaneo, ma poi sembrava aver incontrato un muro. Nel mondo del basket
Nike era una realtà molto piccola. Tutti i professionisti più blasonati
usavano le Converse: Bird, Johnson, Isiah Thomas. Uno dei manager, Peter
Moore, anni dopo osservò: «Se fossi andato in un parco giochi a chiedere ai
bambini che scarpe da ginnastica volevano, mi avrebbero risposto le
Converse».
La strategia di Nike fino a quel momento era stata quella di arruolare un
gran numero di giocatori bravi ma non eccelsi per cifre relativamente basse
– la media sembrava aggirarsi sugli ottomila dollari a testa – senza mettersi
minimamente in concorrenza diretta contro Converse e Adidas. Se fosse
stata organizzata una partita fra i giocatori sponsorizzati da Nike e le star
della Converse sarebbe stata una disfatta epocale, come quella dell’Angola
contro il Dream Team quasi dieci anni dopo. Quella politica però stava per
cambiare, anche a causa dei problemi economici. Phil Knight, il capo della
Nike, voleva ridurre il budget dedicato al basket: troppi soldi spesi per
troppi giocatori senza ritorni apprezzabili in termini commerciali.
Il manager della Nike incaricato del cambio di strategia era Rob Strasser,
il più alto in grado dedicato alla valutazione dei talenti. Strasser non era un
cauto aziendalista, ma un uomo che agiva d’impulso fidandosi del proprio
istinto, e quando aveva un’idea il suo istinto gli diceva di buttarsi. ‘Just do
it’, in pratica. La nuova strategia prevedeva di concentrare tutte le risorse su
un solo giocatore che sarebbe diventato il simbolo dell’azienda, rendendolo,
in caso di successo, più grande di un semplice cestista. Dato che tutti i
campioni affermati erano già sponsorizzati da altre aziende, avevano
bisogno di un rookie. La questione, all’avvicinarsi del draft, era chi
scegliere.
Le aziende di sneakers avevano i propri talent scout, proprio come le
squadre professionistiche. Lo scout della Nike era un personaggio
onnipresente di nome Sonny Vaccaro, che sembrava saperla lunga sul
mondo del basket della costa orientale e aveva ottimi agganci con certe
scuole. Era amico personale di John Thompson di Georgetown, di Bill
Foster, di Duke e di Jim Valvano della North Carolina State. Inoltre, gestiva
il Dapper Dan Game, uno dei primi campionati nazionali delle scuole
superiori, ed era quindi in una posizione invidiabile con gli allenatori dei
licei che volevano promuovere i propri ragazzi e con quelli delle università
che volevano reclutarli. Vaccaro si muoveva con grande abilità fra campi di
gioco, licei e università, creando contatti e scovando talenti in un mondo in
cui tutti erano abituati a cercare contatti migliori di quelli esistenti. Per
Sonny Vaccaro, avventurarsi in campetti malfamati nella speranza di
trovare un altro diamante grezzo era la cosa più naturale del mondo.
Sonny Vaccaro non conosceva Michael Jordan di persona, ma lo aveva
seguito da vicino fin dal terzo anno del liceo e aveva deciso da tempo che
era qualcosa di speciale. Nulla lo aveva colpito di più del canestro decisivo
che aveva segnato nella finale del campionato NCAA del 1982. Era stato
straordinario, un ragazzino disposto a tentare l’ultimo tiro sotto una
pressione inaudita e capace di segnare con tanta disinvoltura.
Vaccaro non aveva dubbi sul giocatore da mettere sotto contratto: era
Michael Jordan. Spinse sul suo nome con tutte le sue forze nel corso di una
riunione strategica all’inizio dell’inverno del 1984. Anche se Hakeem
Olajuwon fosse stato scelto un po’ prima di lui nel draft, giocava da poco
tempo ed era nigeriano, stava ancora studiando l’inglese. L’unico altro
giocatore con un po’ di carisma era un giovane grassottello di nome Charles
Barkley, che veniva da Auburn. Dato che la decisione era cruciale per
l’azienda, a un certo punto i manager chiesero a Vaccaro se fosse disposto a
scommettere la sua intera carriera alla Nike su Michael Jordan.
Assolutamente sì, fu la sua risposta. E se avesse avuto la possibilità di
firmare con dieci atleti a $50.000 a testa oppure con uno solo a $500.000,
avrebbe comunque scelto di concentrarsi sul singolo? Assolutamente sì,
ripeté lui, se quel singolo era Michael Jordan. Così la Nike si convinse a
puntare su Jordan.
La Nike però rappresentava un problema per Michael Jordan, perché in
realtà le scarpe che produceva non gli piacevano particolarmente. Alle
partite di Carolina aveva usato le Converse perché Dean Smith aveva un
accordo con l’azienda, ma le sue preferite erano le Adidas ed era quello il
marchio che avrebbe voluto. Purtroppo, il management di Adidas non
ricambiava i suoi sentimenti. Falk e Nike invece avevano interessi paralleli
e quell’estate, durante le Olimpiadi, Rob Stresser e Peter Moore andarono a
Washington per incontrare Falk. Moore ebbe l’impressione che Falk fosse
pieno di idee, non tutte particolarmente efficaci. Propose che la Nike
creasse uno spot in cui Jordan faceva una schiacciata la cui scia tracciasse il
baffo del logo. Oppure uno spot in cui Jordan giocava a biliardo e la
traiettoria del boccino disegnasse il baffo. Falk voleva che Jordan firmasse
una linea di sneakers e l’azienda era d’accordo, sarebbe stato un vantaggio
per tutti. L’unica idea proposta da Falk che piacque a tutti fu il nome della
linea, Air Jordan. Moore fece uno schizzo molto semplice, un logo a forma
di ali spiegate con un pallone da basket al centro. Moore era un disegnatore
di grande talento e regalò al mondo anche il nuovo logo del Jump Man, in
cui Michael spicca il volo in procinto di schiacciare. Al termine
dell’incontro tutti sembravano soddisfatti della direzione che avevano
preso.
Era sempre più chiaro che la Nike non solo era molto interessata a
Jordan, ma gli avrebbe anche concesso quasi tutto quello che chiedeva, ma
lo scarso interesse dell’atleta verso il marchio rappresentava un problema.
Falk e i suoi genitori sudarono sette camicie anche solo per convincerlo a
salire su un aereo per Portland. Come molti altri esordienti in quel periodo,
Michael pensava che un contratto per le sneakers non fosse né più né meno
che un accordo di fornitura, che bastasse scegliere la scarpa che ti piaceva
di più, farsi dare dei soldi per promuoverla e poi ricevere un sacco di scarpe
gratuite da distribuire agli amici. Che quell’accordo fosse solo una parte di
qualcosa di più grande, che prevedeva la vendita di se stesso come
giocatore, e che potesse guadagnare più soldi come testimonial che dal suo
normale stipendio non gli era ancora del tutto chiaro, perché non era ancora
del tutto chiaro a nessuno, nemmeno ai manager della Nike o a Falk. Alla
fine, Deloris Jordan disse al figlio che lei e il padre sarebbero stati su
quell’aereo per Portland e che avrebbe fatto meglio a salirci anche lui,
punto.
Nike preparò una presentazione speciale per Michael. Anche se per gli
standard a cui il mercato sarebbe arrivato sembra relativamente modesta,
per quei tempi era all’avanguardia. Avevano realizzato un video con le
azioni migliori del campionato universitario e delle Olimpiadi, pronto da
mostrargli. Nel momento chiave, però, quando Strasser premette il pulsante
play del videoregistratore, l’apparecchio non funzionò. Poi però si mise in
moto e la famiglia Jordan poté vedere il video, accompagnato dalla musica
del successo delle Pointer Sisters, Jump. Peter Moore aveva anche portato
dei bozzetti delle sneakers, che non erano solo bianche ma colorate.
Avevano anche schizzi di felpe e altri capi di abbigliamento sportivo. In uno
dei bozzetti le scarpe erano rosse e nere. «Non potrei indossarle» disse
Jordan. «Sono i colori del diavolo».
«Michael» rispose Strasser, «a meno che tu non riesca a convincere i
Chicago Bulls a cambiare i colori della squadra per prendere il blu di
Carolina, saranno questi i tuoi colori».
Peter Moore pensò che era come reclutare una stella del liceo per
un’università. Dopo quel primo incontro, andarono tutti al gigantesco Nike
store, che sembrava il negozio di giocattoli più grande del mondo per
l’abbigliamento sportivo: gli dissero di prendere tutto quello che voleva e di
metterlo nel carrello. Jordan ne uscì con sei grosse borse rigonfie. E poi ci
fu la macchina. Vaccaro aveva suggerito di regalare a Jordan qualcosa di
tangibile, e Rob Strasser aveva detto che sapeva che a Jordan piacevano le
auto e che gliene avrebbero data una. Tirò fuori il modellino di una Porsche.
Era una specie di scherzo, ma Phil Knight non ne sapeva niente e impallidì
quando sentì le parole di Strasser, sicuro che stesse sprecando i suoi soldi
per un giocatore senza garanzie che non aveva ancora firmato un contratto.
Strasser aggiunse in fretta: «Michael, con tutti i soldi che farai potrai
comprarti tutte le auto che vorrai».
Peter Moore si rese conto che James e Deloris Jordan cominciavano a
convincersi. Erano chiaramente colpiti dall’entusiasmo puro di Strasser, dal
fatto che l’azienda considerasse Michael così speciale e dall’impegno che
avevano messo nella presentazione. L’opinione di Michael invece era
impossibile da capire. Aveva presenziato all’incontro seduto accanto a Falk
e ai genitori senza mostrare alcuna emozione, completamente impassibile.
Falk, che a quei tempi non conosceva così a fondo il proprio cliente, ne era
rimasto stupito. C’era un’azienda che stava facendo tutto il possibile – sia
dal punto di vista umano che finanziario – e quel giovanotto sembrava del
tutto immune alle sue seduzioni. Non appena uscirono dall’ultima riunione,
Jordan si voltò verso Falk e disse: «Firmiamo».
«Ma non hai accennato nemmeno un sorriso, non hai mostrato un briciolo
di entusiasmo» gli rispose Falk.
«Era la mia faccia da affari» disse Jordan, e a quel punto Falk si rese
conto che aveva davanti qualcosa di più di un altro giovane atleta di talento,
che in quel ragazzo c’erano dimensioni che non aveva ancora imparato a
conoscere.
Quella sera andarono tutti a cena fuori. Quando la famiglia Jordan entrò
nella limousine, trovò un videoregistratore che trasmetteva di nuovo il
video di Michael con la musica. I manager della Nike avevano scelto un
ristorante famoso in centro e mentre scendevano le scale che portavano alla
sala al livello inferiore, incrociarono molte persone che sembravano
riconoscere Michael. Moore si rese immediatamente conto che stava
assistendo a qualcosa di diverso dal solito. Jordan scendeva le scale con
grazia naturale, alto e bello, una specie di giovane principe americano,
perfettamente a suo agio, e la gente cominciava a girarsi al suo passaggio.
Michael si accorse che lo riconoscevano e rispose con un sorriso
perfettamente naturale. Era chiaro che il potere di quel sorriso era
formidabile. Erano cittadini di Portland appartenenti alla classe medio-alta,
tutti bianchi. Quella scena fu una vera e propria epifania per Peter Moore: la
carica del sorriso di quel ragazzo era unica. Quando sorrideva, la razza
semplicemente scompariva. Michael non era più un nero, era soltanto una
persona a cui desideravi stare accanto, qualcuno che volevi come amico.
Negli anni successivi Moore rifletté sul fatto che quel sorriso esprimeva
autentico carisma: apparteneva a un uomo perfettamente a suo agio con se
stesso e di conseguenza anche con gli altri. Sembrava dire che sarebbero
accadute solo cose belle, e ancora di più, dava una spinta che trascinava le
persone comuni al di là dei propri pregiudizi abituali. Se Michael Jordan,
con quel sorriso così luminoso, non si preoccupava della razza, perché
dovevi preoccupartene tu?
Più tardi, quella sera, quando la famiglia Jordan fu di nuovo caricata sulla
limousine accompagnata dalla musica delle Pointer Sisters, Rob Strasser si
rivolse a Peter Moore e gli chiese se pensava che sarebbero riusciti a
firmare con Jordan. «Credo di sì» rispose Moore. «Sembrano tutti a loro
agio con noi». Poi aggiunse: «Se firmiamo, credo che otterremo qualcosa di
speciale: ha una personalità che non ho mai visto in nessun atleta prima
d’ora». Se gioca abbastanza bene, pensò Moore, abbiamo davvero qualcosa
di grosso.
Era vero che firmare era possibile, ma sarebbe costato parecchio. Falk
pretendeva una serie di garanzie a livello pubblicitario e quando l’accordo
fu concluso segnò una rivoluzione nel nuovo mondo dello sport come
intrattenimento, perché assicurava a Jordan circa un milione di dollari
all’anno per cinque anni. Il management della Nike non poteva sapere –
come non lo sapeva, se è per questo, nemmeno la dirigenza dei Bulls – di
aver fatto uno dei migliori affari di quel periodo.
Quando tornò a Chapel Hill, Jordan disse a Buzz Peterson che la Nike
avrebbe prodotto un modello di sneakers col suo nome. Peterson pensò che
si stesse montando la testa, con tutti quei premi e trofei, il Naismith e il
resto. No, insistette Jordan, lo faranno davvero. Peterson ribatté: «Michael,
non hanno dedicato un modello di scarpe né a Larry Bird né a Magic
Johnson, che sono stelle dell’NBA. Tu non sei stato neanche la prima scelta
nel draft». Più tardi, quando uscì la linea delle Air Jordan, Michael disse ad
alcuni amici che se avevano qualche soldo da parte poteva valere la pena di
investire nelle azioni della Nike, perché secondo lui stavano per decollare.
Beh, pensò Peterson, l’allenatore lo ha tenuto in riga per un bel po’ ma
adesso si è davvero montato la testa.
11
Los Angeles;
All’inizio sembrava solo una partita poco interessante come tante: i miseri
Chicago Bulls contro i grandi Boston Celtics. Invece, come disse Dick
Stockton che la commentò per la CBS, fu la vera festa di esordio di Michael
Jordan, il suo autentico debutto come giocatore professionista davanti a un
pubblico di tifosi che ancora non se lo aspettavano. Pensandoci a posteriori,
ciò che fece nel pomeriggio del 20 aprile 1986 era del tutto prevedibile,
dato il suo istinto per le imprese eclatanti. E infatti Jordan lo aveva previsto:
il giorno prima aveva giocato a golf con Danny Ainge, una delle guardie di
Boston, e due giornalisti sportivi. Alla fine della partita Jordan si era voltato
verso Ainge e gli aveva detto: «Vi aspetta una sorpresa, domani».
«Non credo proprio» aveva risposto Ainge. «Sarà D.J. a marcarti». D.J.
era Dennis Johnson, la grossa guardia di Boston.
«Beh, allora di’ a D.J. che potrei avere una sorpresa per lui domani» lo
avvertì Jordan. «Digli di riposarsi bene, stanotte».
Era lo scenario ideale: una partita di playoff al famoso Boston Garden
contro la squadra migliore della Lega, trasmessa su un canale nazionale. Era
la seconda stagione di Jordan nell’NBA e non vedeva l’ora di giocare a quel
livello. Aveva perso quasi tutto l’anno per una frattura al piede durante la
terza partita della stagione.
Quell’anno la squadra dei Celtics era considerata da molti addetti ai
lavori, fra cui diversi giocatori della squadra stessa, come la migliore
dell’era di Larry Bird. Aveva perso soltanto una delle quarantuno partite
disputate in casa. Dodici anni più tardi Kevin McHale, una delle stelle della
squadra, diventato poi dirigente dei Minnesota Timberwolves, rifletté su
quegli anni incredibili: «Se un Dio misericordioso venisse mai a dirmi: ‘Ok,
McHale, sei stato proprio un bravo cittadino quindi puoi tornare indietro e
giocare ancora una stagione di basket, solo perché ti piaceva tanto’,
sceglierei quella 1985-86».
Era proprio la sfida ideale, contro i Celtics sulla tv nazionale la domenica
pomeriggio, e ancora meglio se il suo avversario era Dennis Johnson. I
Celtics lo avevano preso perché era grosso e pieno di talento e avevano un
disperato bisogno di qualcuno che potesse bloccare Andrew Toney, la
fantastica guardia di Philadelphia i cui successi contro i Celtics precedenti
all’avvento di D.J. gli avevano fatto guadagnare il soprannome di
‘Strangolatore di Boston’.
Se il requisito per essere considerati una dinastia era il dominio assoluto
della Lega, i Celtics di Larry Bird non erano una dinastia autentica, perché
avevano dovuto condividere un ciclo con i Lakers di Magic Johnson.
Insieme, però, le due squadre erano senza dubbio una dinastia: in un
periodo di nove anni Los Angeles aveva vinto cinque titoli e Boston tre, con
l’unica eccezione dei Sixers di Julius Erving. In occasione della prima
vittoria dei Celtics nell’era Bird, Red Auerbach, che quando vinceva era
sempre corretto e affascinante, aveva sollevato il trofeo dicendo: «Che ne è
stato della dinastia dei Lakers di cui ho tanto sentito parlare?»
Nel 1985-86 i Celtics avevano una grande squadra: per alcuni puristi,
soprattutto quelli che apprezzavano i centri, erano semplicemente la
migliore squadra dell’era moderna, con una magnifica prima linea formata
da Bird, McHale e Robert Parish – che insieme arrivavano a ventisei
presenze agli All Star Games – e una difesa tenuta da Johnson e Ainge.
Bird, Parish e McHale erano chiamati ‘The Big Three’ (I tre grandi). E
quell’anno avevano inserito un perfetto complemento, il leggendario Bill
Walton, che nel periodo migliore era stato uno dei due o tre centri più forti
in circolazione. Anche se nel 1985 la sua abilità era ormai limitata da una
serie di brutti infortuni ai piedi, giocando per pochi minuti rimaneva un
giocatore quasi magico per la capacità di difendere e fare passaggi in
attacco.
Durante quella stagione Walton, ormai al tramonto dopo una serie di
pesanti interventi chirurgici al piede, aveva pagato di tasca propria per
rescindere un ricco contratto con i Los Angeles Clippers. Quella mossa gli
aveva permesso di uscire da una sorta di purgatorio per approdare in quello
che per lui era il paradiso del basket, anche se per un compenso
decisamente più basso (andarsene dai Clippers gli era costato circa
$800.000). Aveva provato prima con i Lakers telefonando a Jerry West, un
vecchio amico, ma West gli aveva risposto: «Bill, ti conosco bene e adoro il
tuo stile, ma ho visto le radiografie [dei tuoi piedi] e non posso fare niente».
Allora Walton aveva preso il telefono per chiamare Red Auerbach,
l’artefice di tutti quei trofei per i Celtics. «Qui è Bill Walton dei Los
Angeles Clippers» aveva annunciato. «Mi piacerebbe venire a giocare per la
sua squadra. Credo di potervi essere d’aiuto». Per caso c’era Larry Bird
nell’ufficio di Auerbach, quando Walton lo aveva chiamato: gli disse di
prenderlo subito, senza fargli domande a proposito dei piedi. Se Walton
riteneva di poter giocare, per Bird era sufficiente.
Walton era preceduto da una reputazione da superstar, si temeva che
avrebbe potuto pretendere privilegi speciali, così i Celtics decisero di
metterlo subito al suo posto. Il primo giorno Walton si rivolse all’addetto
alla club house e gli chiese un caffè. Il giorno dopo nello spogliatoio
comparve un cartello scritto a mano che diceva: «Fattelo da solo il tuo
maledetto caffè, Bill». In quella squadra non era consentito a nessuno di
credersi migliore degli altri, anche se naturalmente tutti sapevano che era la
squadra di Larry Bird. Quando Walton fece un commento critico su Rick
Carlisle durante un allenamento, Bird rispose: «Ehi, Rick, digli di chiudere
il becco. Sei qui da un anno soltanto ma probabilmente hai giocato più
partite di lui in tutta la carriera».
Felice di essere uscito dalla Siberia del basket, di giocare in una squadra
tanto appassionata in un momento di declino della sua carriera e felice
anche di essere un normale giocatore, che non aveva la responsabilità della
squadra sulle spalle, Walton definì quell’anno come uno dei migliori della
sua vita. Era felice anche di aver sostituito Danny Ainge come bersaglio
principale delle battute di spirito dei compagni. In quella squadra
significava qualcosa. Erano bravi e per questo erano anche presuntuosi e si
prendevano in giro con toni strafottenti. In occasione di una partita a Los
Angeles, durante il riscaldamento preliminare, McHale e Carlisle si stavano
allenando da soli. Carlisle, che aveva un aspetto da ragazzino, indossava
una semplice tuta grigia senza i loghi dei Celtics. Stavano tirando dai lati
opposti del campo. McHale andò a cercare un agente di sicurezza e gli
chiese, indicando Carlisle: «Chi è quel tizio? È un nuovo giocatore dei
Lakers?» L’uomo rispose che pensava che Carlisle giocasse per i Celtics.
«Non l’ho mai visto in vita mia» rispose McHale. «Senta, al coach [K.C.]
Jones non piacerà per niente, potrebbe essere una spia dei Lakers». Allora
l’agente di sicurezza andò ad allontanare Carlisle. Il giocatore più giovane
continuava a gridare: «Sono con lui», indicando McHale, che però non
smetteva di scuotere la testa.
Poi ci fu la partita a Portland, prima della quale Bird aveva deciso che il
basket era troppo facile e quindi quella sera avrebbe tirato soltanto con la
sinistra. Fece i primi quattro canestri e McHale gridò a Jerome Kersey, il
giocatore che marcava Bird: «Ehi, Jerome, aspetta che cominci a usare la
destra». Certe sere, poco prima del fischio d’inizio, McHale raggiungeva
l’altro lato del campo e diceva a un giocatore avversario che D.J. o Ainge
avevano detto che lo avrebbero fatto a pezzi. Si era guadagnato il diritto di
comportarsi così perché in occasione della sua prima partita da titolare in
NBA, contro i Washington Bullets, Bird – che era arrivato una stagione
prima di lui – era andato da Elvin Hayes, la grande star di Washington, per
dirgli: «Elvin, volevo solo farti sapere che il nostro rookie, McHale, ha
detto che stasera ti avrebbe asfaltato».
La loro sicurezza nasceva dalla presenza di un giocatore veramente
grande come Larry Bird, che trascinava la squadra con la sola forza di
volontà. La sua eccezionalità e la sua determinazione lo ponevano a un altro
livello, ed erano contagiose. I compagni non osavano deluderlo. Non
avrebbero mai voluto che Bird pensasse male di loro come giocatori, perché
ai loro occhi era il migliore in assoluto e quindi aveva il diritto di giudicare
tutto ciò che avveniva nel loro piccolo, intenso universo chiuso.
A nessuno era concesso di dargli una delusione, nemmeno agli arbitri.
Quell’anno, durante una partita contro gli Atlanta Hawks, avevano giocato
male nel primo tempo ed erano sotto di 22 punti. Peggio ancora, più
cresceva il loro vantaggio, più gli Hawks si permettevano commenti
sprezzanti, e la maggior parte proveniva da giocatori dei quali i Celtics non
avevano una grande opinione. K.C. Jones era talmente disgustato dalla
squadra che durante l’intervallo non disse una parola. Al momento di
rientrare in campo, Bird, con un’espressione insolitamente aggressiva, andò
da uno degli arbitri e disse: «Noi non molliamo, non fatelo neanche voi», un
chiaro avvertimento sulla sua intenzione di fare sul serio fino alla fine. Poi
si lanciò in una rimonta inarrestabile, segnando 17 punti nel terzo quarto e
riducendo lo svantaggio dei Celtics a soli 8 punti. La squadra vinse ai
supplementari. I compagni di Bird si esaltarono davanti a tanta
determinazione e cominciarono ad aspettarsela ogni volta.
E Bird la dimostrava ogni giorno, non soltanto in partita ma anche in
allenamento. Una volta il Green Team (la seconda squadra) colse il White
Team (i titolari) in una giornata storta e accumulò un notevole vantaggio.
Tutti cominciarono a fare battute e si unì perfino K.C. Jones, deluso dalle
prestazioni dei suoi titolari. Questo mandò in bestia Bird che all’improvviso
cominciò a fare tiri da tre punti, centrandoli tutti. Ogni volta, volutamente,
tirava da più lontano, prima da sei metri, poi da sette, otto e nove. Fece
sempre canestro. L’allenamento stava per finire, il punteggio era equilibrato
e c’era tempo soltanto per un’ultima azione. Bird portò la palla in fondo al
campo. Quando arrivò alla linea di metà campo l’intero Green Team gli si
lanciò contro, lasciando Parish, McHale, Ainge e D.J. completamente liberi.
Appena entrato nella metà campo avversaria Bird lanciò il pallone e fece
canestro, assicurando la vittoria al White Team. Bird cominciò a saltellare
per il campo, esultando con le braccia al cielo.
La sua leadership si basava più sull’esempio che sui discorsi, ma era
capace di ferire i compagni anche con le parole, se pensava non stessero
dando il massimo. Gli altri sapevano che nessuno aveva sofferto più di lui,
in partita e in allenamento. Al suo arrivo in NBA, era conosciuto come un
ottimo tiratore che era anche bravo nei passaggi – aveva mani enormi e
un’eccellente visione periferica – ma il fatto che un giocatore con limiti
corporei così evidenti, per gli standard della Lega, fosse anche un grande
rimbalzista aveva sorpreso tutti. Era così bravo perché si allenava molto ed
era eccezionalmente abile a individuare ogni minima breccia fra i giocatori
assiepati sotto canestro e a trovare il modo di infilarci a forza quel corpo
imperfetto per raggiungere la posizione voluta. Se il pallone cadeva nelle
sue vicinanze, era suo: aveva quelle mani gigantesche ma
meravigliosamente agili, sostenute da polsi forti e robusti. Se c’era una
chiave del gioco di Bird, ed erano in pochi a vederla, secondo Jimmy
Rodgers – che era stato assistente allenatore a Boston per parecchi anni –
stava proprio nei polsi. Sotto molti aspetti era un tiratore di polso: bastava
una lieve flessione e andava a canestro.
L’altro talento che aveva, e che condivideva con Magic Johnson e
Michael Jordan, era un acuto senso della posizione di tutti gli altri giocatori
in campo. Bill Fitch, il primo allenatore professionista di Bird, aveva
incoraggiato i suoi ragazzi a scattare istantanee, come diceva lui, usando gli
occhi come macchine fotografiche. Rodgers concluse che Bird era il miglior
fotografo in circolazione. Gli bastava un’occhiata per capire dove si
trovavano gli altri nove giocatori e gli arbitri, per ogni azione. Significava
che i suoi passaggi no look non erano realmente alla cieca, perché in realtà
sapeva dove si trovavano i compagni, dove si stavano spostando e quanto ci
avrebbero messo a raggiungere la nuova posizione. La sua capacità
percettiva arrivava ad anticipare i ragionamenti degli altri giocatori,
compresi i compagni di squadra.
Una volta, all’inizio del campionato, Parish era fuori e Walton doveva
giocare da titolare: era arrivato presto ed era praticamente solo in campo a
fare stretching quando comparve Bird, che arrivava sempre in anticipo. «So
che cosa stai pensando» gli disse. «Pensi che stasera tirerai al posto di
Robert e che farai 20 punti. Beh, scordatelo. Quei punti extra sono miei. Il
tuo compito è prendere i rimbalzi sul lato debole». La cosa incredibile,
raccontò in seguito Walton, era che Bird aveva ragione, era esattamente
quello che stava pensando.
Bird costringeva i compagni a stringere i denti. Lui soffriva, soffriva
molto, e non si aspettava niente di meno da loro. C’era stata una stagione in
cui Cedric Maxwell era tornato dopo aver firmato un ottimo contratto – si
parlava di $800.000 per quattro anni – e alcuni compagni pensavano che
non avesse più tanta voglia di faticare. Un giorno, dopo gli allenamenti,
Maxwell era seduto negli spogliatoi e diceva che grazie a quel contratto
avrebbe potuto fingere un infortunio al ginocchio e ottenere una specie di
pensionamento. Bird, irritato da quei discorsi, intervenne in tono secco:
«Vuoi un infortunio? Non vuoi più giocare? Tira fuori il ginocchio e me ne
occupo io, anche subito». Era un chiarissimo avvertimento: il contratto non
doveva avere niente a che fare con il livello di energia impegnato in
allenamento e in partita. Tutti dovevano dare il massimo, sempre. Erano
fortunati a essere lì, a fare qualcosa che amavano per compensi
principeschi. E gli infortuni che stroncavano una carriera non erano uno
scherzo e dovevano essere temuti come la peste.
Bird emanava determinazione, odio per la sconfitta e volontà di giocare
sempre al massimo livello possibile, e quindi i compagni di squadra
finirono per assumere lo stesso atteggiamento, quasi assorbendolo per
osmosi. Danny Ainge una volta commentò: «Ho assistito a quel processo da
vicino. Nessuno di noi voleva deluderlo, volevamo essere degni di lui.
L’effetto che aveva sui compagni era eccezionale. Ogni membro della
squadra si elevava con lui, non solo per essere all’altezza delle sue
aspettative su ciascuno di loro, che erano già abbastanza alte, ma anche di
ciò che si aspettava da se stesso, che era ancora di più». McHale
all’università era considerato un giocatore di talento ma non
particolarmente tosto, e Parish all’ingresso nella Lega aveva fama di essere
morbido, ma nessuno dei due fu delicato giocando al fianco di Bird. Lui
non lo avrebbe permesso. Negli spogliatoi, prima di una partita importante,
Bird (che di solito non faceva grandi discorsi), diceva qualcosa come
«Stasera scriverò un altro capitolo della mia storia, sarà un’altra grande
vittoria per i Celtics» e i compagni gli credevano, erano convinti che
sarebbe stato all’altezza della sfida e che li avrebbe trascinati con sé.
Anche se il suo nome e quello di McHale erano sempre associati nelle
descrizioni di quell’eccezionale prima linea, fra loro c’era una sottile
corrente di tensione inespressa, a causa delle diverse personalità. McHale
sotto molti aspetti era un gran lavoratore, ma forse non aveva tutta la
determinazione di Bird. Bird era convinto che se McHale, con quelle
braccia così lunghe e quell’agilità in post basso, si fosse impegnato appena
più seriamente, nessuno avrebbe più potuto fermarlo e avrebbe potuto
segnare – facilmente – 50 punti a partita.
Quindi, certe sere Bird decretava che McHale non si stava impegnando
abbastanza per liberarsi e non gli passava la palla, anche se normalmente
sarebbe stato considerato libero. Dal canto suo McHale, l’uomo più
socievole del mondo, tanto amante delle chiacchiere da poter diventare un
eccellente politico o barista e che ogni giorno andava al lavoro non soltanto
per giocare a basket ad alto livello ma anche per il piacere di stare con i
compagni, sembrava pensare che Bird fosse troppo monodimensionale, che
non avesse una vita al di fuori del basket. In parte era vero. Anni dopo, Bill
Walton avrebbe dichiarato che c’erano stati soltanto tre momenti di
autentica felicità nella vita di Bird ed erano state le tre vittorie nel
campionato dell’NBA. Era anche possibile che sia Bird che McHale
avessero ragione. Gli osservatori più attenti avevano notato che quando
Bird parlava del miglior compagno di squadra che avesse mai avuto
nominava sempre Dennis Johnson invece di McHale, come per dire che
secondo lui Kevin McHale non aveva mai raggiunto un’autentica
grandezza.
Bird aveva un certo grado di purezza. La sua vita era il basket, niente di
più e niente di meno. In un’epoca in cui le nuove strutture sportive
costavano quasi un miliardo di dollari ed erano contornate da sky box di
lusso, parlava del luogo dove la sua squadra disputava le partite come della
‘palestra’. Il suo sistema di valori era semplice, senza fronzoli. Non
conosceva altri universi, e non era interessato a esplorarli. Valutava gli altri
esclusivamente dal loro comportamento in campo: erano buoni giocatori,
pronti a sacrificarsi per la squadra oppure idioti fissati con le statistiche?
Era a disagio con la frenesia che il suo stesso arrivo nella Lega e la sua
rivalità con Magic Johnson avevano contribuito a creare. Altri, come
Magic, erano felici della celebrità che quella svolta culturale aveva portato,
ma Bird non la apprezzava e la considerava una possibile distrazione
dall’essenza della sua vita, che era quella di giocare a basket e di vincere
insieme alla sua squadra. Non aveva bisogno di godersi i lati positivi e stava
molto attento a evitare i lati negativi.
Il resto della cultura popolare, che tanto attirava i suoi compagni – dato
che anche loro erano stelle nel firmamento di quella cultura, si mescolavano
con le rock star e i divi del cinema e venivano accolti con calore in stupidi
talk show – non gli interessava minimamente. Una volta, durante una serata
libera in una trasferta a Dallas, era seduto con alcuni amici nella lobby di un
albergo, gremita di giovani. All’improvviso, verso le sette di sera, tutti i
giovani se ne erano andati come per un segnale convenuto, chiaramente
diretti in qualche posto. Era strano, dato che i Celtics non avrebbero giocato
fino alla sera successiva. Dove stavano andando tutti quanti? Aveva chiesto
al suo amico Shaughnessy, giornalista del Globe. Al concerto di Bruce
Springsteen che si svolgeva nelle vicinanze, aveva risposto lui. «Chi è
Bruce Springsteen?» aveva chiesto Bird e Shaughnessy, pensando alle cose
che le due star avevano in comune, alle loro radici popolari e alla loro
semplicità, nonché alla similitudine del tipo di pubblico appassionato che li
seguiva, aveva risposto: «Larry, è come te ma nel rock and roll». Quella
risposta aveva incuriosito Bird abbastanza da farlo andare al concerto e
anche se la musica non gli era piaciuta particolarmente, aveva apprezzato
l’impegno di Springsteen e il fatto che sudasse tanto. Era qualcosa che
capiva bene.
Sapendo di avere dei limiti fisici, e di non potersi concedere nemmeno il
più piccolo cedimento, ogni estate Bird tornava a casa, nell’Indiana, e si
allenava coscienziosamente, cercando non solo di restare al massimo della
forma con una dieta rigida, ma anche di migliorare le sue prestazioni
atletiche inventando nuovi tiri. Un anno era un alto-basso con finta iniziale.
Un altro era un tiro studiato per creare spazio a un giocatore come lui, che
di certo non stava diventando più giovane: un falso terzo tempo seguito da
un rapido passo indietro mentre rilasciava il pallone. Un anno migliorava i
tiri di sinistro: al momento dell’esordio nella Lega era già bravo, ma con il
procedere della carriera sentì la necessità di un’abilità aggiuntiva e lavorò
per affinarla. All’inizio dei ritiri precampionato, agli altri giocatori piaceva
scoprire quale nuova mossa Bird aveva aggiunto al suo gioco.
Bird si aspettava che i suoi compagni ci tenessero quanto lui e
dimostrassero la stessa lealtà alla squadra. Nella stagione 1986-87, dopo
una grande partita in cui era accoppiato a Julius Erving, che era al suo
ultimo anno di carriera e quindi in declino, aveva insultato piuttosto
pesantemente l’ex stella del basket, sottolineando la differenza di punti
segnati, 42 a 6. Erving reagì male e ne nacque una lite furibonda, che lasciò
tutti di stucco perché i due grandi giocatori avrebbero dovuto essere
superiori ed era noto che si rispettavano a vicenda. Il giorno successivo Bird
arrivò piuttosto abbattuto e guardò una registrazione del litigio. Si vedeva
che Julius lo inseguiva e lo colpiva più volte. Rimase sbalordito da quello
che vedeva: Moses Malone e Charles Barkley erano intervenuti per aiutare
Erving e trattenere Bird, mentre Robert Parish si era tenuto in disparte senza
fare niente, assolutamente niente per aiutare il suo compagno di squadra.
Bird riguardò il video per essere sicuro: sì, Parish era rimasto a guardare
mentre un compagno veniva preso a pugni. Era furioso e abbandonò gli
allenamenti all’istante. I suoi amici più intimi non seppero mai se i
compagni di squadra avessero capito che cosa lo aveva fatto infuriare, ma a
uno di loro aveva detto: «Hai visto Robert durante il litigio? L’hai visto?»
Nella stagione 1985-86 la squadra di Boston non aveva punti deboli. Isiah
Thomas, che aveva studiato i Celtics nella speranza di imparare il loro
segreto e di trasmetterlo ai suoi Pistons, ricordò una frase di K.C. Jones che
sembrava riassumere l’arroganza di quella stagione. I Celtics stavano per
imbarcarsi in una serie di quattro trasferte e qualcuno gli aveva chiesto
quante vittorie voleva. «Mi accontenterò di quattro» aveva risposto
l’allenatore.
Per il giovane Michael Jordan, appena arrivato nella Lega e
disperatamente desideroso di giocare ai massimi livelli, i Celtics erano
chiaramente l’eccellenza. Erano la Carolina del professionismo: avevano
tradizione, spirito di squadra, determinazione, profondità e orientamento
all’obiettivo.
Mentre i Celtics quell’anno avevano dominato la Lega, Jordan aveva
vissuto la stagione più deprimente della sua vita. Alla prima partita della
stagione i Bulls avevano battuto Cleveland ai tempi supplementari e Jordan
aveva ricevuto un brutto colpo da Bill Laimbeer nella seconda partita, ma
era riuscito a trascinare la squadra alla vittoria. Poi però, tre sere dopo, in
una partita contro Golden State si era rotto il piede sinistro. Fu l’unico
infortunio grave della sua carriera. Aveva saltato per raggiungere la palla
ma era caduto male, mettendo il piede in posizione innaturale. Le prime
radiografie non avevano mostrato nulla, ma aveva problemi nel ripartire
dopo una fermata brusca e non era riuscito a giocare le ultime due partite
della trasferta.
Alla fine, al rientro a Chicago, venne individuata una frattura all’osso
navicolare del tarso, talmente inclinata che era stato difficile trovarla anche
con la TAC. Nessuno sapeva quanto potesse essere grave o quanto ci
avrebbe messo il piede a guarire. Inizialmente si era parlato di sei/otto
settimane, ma in breve quell’ottimismo svanì. All’improvviso Michael
Jordan fu costretto a saltare quasi un’intera stagione e a seguire un
programma di riabilitazione. Fu una perdita molto grave per lui, perché il
gioco lo rendeva felice e gli dava un senso di identità: Michael Jordan era
uno dei rari cestisti ad avere nel contratto la clausola ‘love of the game’, che
gli permetteva di fermarsi in qualsiasi campo sul suolo americano, infilarsi
un paio di sneakers e mettersi a giocare con chiunque volesse, cosa che
faceva piuttosto spesso. Una clausola del genere poteva spaventare la
dirigenza di una squadra, per via dei possibili infortuni che il giocatore di
punta avrebbe potuto subire in una partitella improvvisata dove qualche
energumeno avesse deciso di abbattere la grande star, ma era un aspetto su
cui Jordan aveva insistito e che rifletteva la gioia pura e infantile che
ricavava dal gioco.
L’infortunio quindi fu devastante. Era alla seconda stagione NBA e
all’improvviso veniva escluso da ciò che amava di più e doveva vivere in
un piccolo appartamento in una città in cui era ancora in un certo senso un
estraneo. L’inverno a Chicago senza basket si dimostrò una prova molto
dura. Chiese il permesso di tornare a Chapel Hill per la convalescenza: lì
aveva un appartamento e molti amici, fra cui l’intero staff tecnico
dell’Università della North Carolina. Gli fu concesso, e cominciò a
impiegare il tempo nel suo tipico stile. Dato che per il momento non poteva
correre o saltare, si allenò ai tiri per ore e ore ogni giorno. Alla fine,
all’insaputa dei responsabili di Chicago, cominciò a giocare in partitelle
informali, anche in cinque contro cinque. Fu comunque un periodo molto
difficile per lui: fino a quel momento non si era reso conto fino in fondo di
quanto amasse lo sport.
Il controllo del processo di guarigione attraverso le TAC era ancora una
novità e il piede di Michael fu utilizzato come una specie di progetto di
ricerca. I macchinari erano talmente nuovi che i medici non sapevano
calibrare esattamente i progressi che registravano, in quanto non c’erano
precedenti con cui confrontarli. A volte, pensava il dottor John Hefferon, il
medico della squadra, sembrava di guardare crescere l’erba. La lentezza del
recupero a poco a poco fece infuriare Jordan, che mordeva il freno per
tornare a giocare. Quando il piede cominciò a guarire e il dolore si attenuò
si convinse di essere in grado di giocare di nuovo. Si presentava nello
studio di Hefferon sicuro che ogni visita fosse l’ultima e che finalmente gli
avrebbero tolto il gesso. A febbraio e marzo, sempre più impaziente,
arrivava con una scarpa per il piede ferito, sperando di poter tornare a casa
senza gesso. Continuava a ripetere di essere pronto a tornare a giocare, ma
Hefferon gli diceva che non ne era tanto sicuro, così Jordan finiva per
autografare la scarpa e lasciarla in regalo alla segretaria dello studio. Un
giorno Hefferon gli disse che dovevano rifare il gesso e Jordan si rifiutò. Ci
vollero tutte le doti persuasive del dottore per fargli cambiare idea. Jordan si
aggrappava all’argomento che avrebbe usato anche in altri momenti critici:
nessuno conosce il mio corpo meglio di me e io so di essere pronto per
giocare. Hefferon, più di tutte le persone coinvolte nella decisione,
prendeva sul serio i suoi discorsi. Nei soli due anni in cui aveva lavorato
con lui, aveva imparato che non solo era un atleta di talento e un uomo
intelligente, ma che era insolitamente preciso nel descrivere qualunque
dolore o sintomo di malessere. Riteneva che avesse una profonda
autoconsapevolezza e che fosse giusto ascoltarlo.
Non volendosi prendere da solo la responsabilità di quella decisione,
Hefferon cominciò a chiedere consulti ad altri ortopedici, ma nessuno di
loro era sicuro al cento per cento delle condizioni di Jordan. Chiaramente si
muovevano su un terreno privo di garanzie, e avevano a che fare con un
giovane atleta pieno di passione che rivoleva a tutti costi la sua vita. Il
rischio fisico di dimetterlo troppo presto era evidente. Ma la tensione
cresceva sempre di più ed Hefferon capì che c’era un altro rischio a
controbilanciare il primo, e cioè il distacco dalla squadra del giovane
giocatore più talentuoso, gioioso e carismatico che avesse mai avuto.
Quando Jerry Krause, il general manager della squadra, gli chiese quale
fosse il rischio di un nuovo infortunio, il medico rispose che non poteva
saperlo per certo, ma che probabilmente si aggirava intorno al 10%. Però,
aggiunse, si trattava di un giocatore molto appassionato che era stato
escluso dalla sua fonte principale di gioia e che non vedeva l’ora di tornare
a giocare, e se non lo ascoltavano sarebbe stato un problema. Se non lo
avessero lasciato giocare, Jordan probabilmente non li avrebbe mai
perdonati. Di fronte a quel rischio, concluse, un rischio fisico del 10% non
era poi granché.
I rimpalli fra giocatore, medici e dirigenza continuarono. A un certo
punto Krause fece uno dei due errori fatali nel rapporto con Jordan; errori
che crearono una crepa, all’inizio marginale ma che in seguito si sarebbe
rivelata molto più grave. Parlando con Jordan respinse la sua ennesima
richiesta di poter giocare dicendo che avrebbero deciso lui e Jerry
Reinsdorf, perché Jordan era una loro proprietà. Era una cosa veramente
stupida da dire a qualsiasi giocatore, e in particolare a un giocatore nero, e
Jordan non la dimenticò né la perdonò mai. Fu l’inizio di una rottura fra il
giocatore di punta e la dirigenza della squadra che negli anni peggiorò
sempre di più e non fu mai sanata.
Il secondo errore fu più sottile. Jordan si era convinto – e molti
osservatori della squadra pensavano che molto probabilmente avesse
ragione – che la dirigenza dei Bulls avesse un altro motivo per tenerlo fuori.
I Bulls avevano vinto le prime tre partite con lui. Senza di lui avevano perso
otto delle successive nove e quando finalmente lo lasciarono tornare in
campo, e solo per pochi minuti, avevano un record di 24 vittorie e 43
sconfitte. Secondo Jordan e altri, Krause e Reinsdorf preferivano tenerlo
fuori non solo per proteggere il piede ma per assicurarsi un posto nella
lotteria in cui le sette squadre peggiori del campionato avrebbero potuto
scegliere nel draft i migliori giocatori universitari disponibili quell’anno.
Con la lotteria, i Bulls avrebbero avuto una possibilità, anche se piccola, di
aggiudicarsi Brad Daugherty o Len Bias, i due giocatori migliori che
sarebbero usciti dalle università quell’anno. Per un atleta competitivo come
Jordan quell’idea era semplicemente aberrante: significava che i suoi datori
di lavoro non erano votati alla vittoria quanto lui, che accettavano l’idea
della sconfitta e che erano disposti a rinunciare alla stagione in corso e a
qualsiasi speranza di entrare nei playoff per migliorare la squadra futura.
Anche in una squadra secondaria con giocatori scarsi come quella dei Bulls
agli inizi, Michael Jordan non avrebbe mai accettato l’idea della sconfitta.
Era convinto che se avesse giocato i Bulls avrebbero avuto comunque la
possibilità di arrivare ai playoff e che in quel caso avrebbe potuto trascinarli
alla vittoria.
La decisione sul suo rientro si faceva sempre più controversa e alla fine
fu organizzata una conference call con tutti i principali rappresentanti dei
Bulls: Reinsdorf, Krause, Lester Crown (un ricco uomo d’affari di Chicago
che era probabilmente il principale finanziatore della squadra), Stan Albeck
(l’allenatore che aveva sostituito Kevin Loughery), Hefferon, altri due
medici e lo stesso Jordan. Jordan perorò di nuovo la propria causa, ma
nessuno lo ascoltò. Alla fine fu raggiunta una soluzione di compromesso:
Jordan avrebbe giocato, ma soltanto per sei minuti ogni due quarti. Tanto
per assicurarsi che Albeck fosse consapevole dei limiti imposti, Reinsdorf
gli inviò una lettera ufficiale. Significava che l’allenatore era fra due fuochi:
Jordan da un lato, che voleva sempre più minuti, e Reinsdorf e Krause
dall’altro, che pretendevano la stretta osservanza dell’accordo. In una
partita Albeck lo lasciò giocare per cinque secondi in più, che secondo i
regolamenti NBA contavano come un intero minuto. Il giorno dopo Krause
lo chiamò per dirgli che la proprietà era furente perché Jordan aveva giocato
sette minuti. In breve, Tim Hallam fu incaricato di sedere al tavolo degli
arbitri con un cronometro, per accertarsi che Jordan non superasse i limiti.
Naturalmente Jordan non li sopportava. Voleva arrivare ai playoff e
scontrarsi con i Celtics.
I Bulls erano ancora in svantaggio contro Cleveland nella corsa per
l’ultimo posto disponibile ai playoff, ma con il rientro di Jordan
cominciarono a rimontare. La settantasettesima partita si giocava in Indiana.
Indiana era andata rapidamente in vantaggio e i Bulls erano sotto di 15
punti a metà partita. Albeck fece entrare Jordan all’inizio del secondo
tempo. «Facci rientrare in partita» gli disse, e Jordan fece esattamente
questo: in meno di quattro minuti il punteggio si era riequilibrato e rimase
così fino alla fine, ma quando mancavano ventotto secondi Chicago era
sotto di un punto. Il tempo di Jordan però era scaduto. Albeck dovette farlo
uscire e lui andò fuori di testa. Cominciò a urlare: «Non puoi farlo!
Dobbiamo arrivare ai playoff!», ma Albeck lo sostituì con Kyle Macy.
Mentre il tempo scorreva la guardia di Chicago John Paxson fece un tiro
lungo, nient’altro che un tentativo disperato agli occhi di Albeck, ma andò a
segno e i Bulls vinsero.
Dopo la partita i giornalisti di Chicago si avventarono su Albeck. «Come
hai potuto fare questo a Michael?» gli chiesero, e lui si domandò la stessa
cosa. Il giorno dopo un reporter chiamò Reinsdorf per chiedergli che cosa
fosse successo e lui rispose che Albeck non era bravo in matematica.
L’allenatore capì che a fine stagione sarebbe stato licenziato, ma anche con i
pochi minuti concessi a Jordan riuscì a dominare quelle ultime partite: i
Bulls vinsero cinque delle ultime sei partite e Jordan segnò una media di
29,6 punti. Questo bastò a escluderli dalla lotteria e portarli ai playoff
contro i Celtics.
Nella prima partita al Boston Garden Jordan giocò bene. I Celtics non si
erano degnati di dedicargli due marcatori e segnò 49 punti. Fu un’ottima
prestazione da parte di un giocatore di talento, ma non fu davvero
straordinaria. I Bulls avevano organizzato l’attacco intorno a lui, tenendolo
libero e passandogli sempre la palla. I Celtics avevano vinto facilmente 123
a 104. Ma la partita della domenica fu speciale. Fu una grande partita,
quella in cui Michael Jordan attirò l’attenzione del mondo del basket. In un
certo senso si può dire che gran parte della fama straordinaria che si
guadagnò in seguito derivasse da quella partita. Nessuno si aspettava
davvero quello che accadde. La cosa meravigliosa dello sport, secondo
Dick Stockton, il commentatore della CBS, era che entrando in uno stadio o
in un palazzetto come il Boston Garden non si poteva sapere se sarebbe
accaduto qualcosa di veramente straordinario, forse addirittura un pezzo di
storia. Da ragazzo Stockton aveva assistito alla famosa ricezione del
tremendo lancio di Vic Wertz da parte di Willie Mays nelle World Series di
baseball del 1954. Da adulto aveva commentato la famosa partita nella
World Series del 1975 in cui Carlton Fisk aveva battuto un fantastico home
run nel dodicesimo inning portando i Red Sox alla vittoria per 7 a 6 contro i
Cincinnati Reds, considerata quasi universalmente la migliore squadra di
tutti i tempi. Assistendo a quella partita dei Bulls contro i Celtics sentiva di
partecipare a un altro momento storico per lo sport.
I Celtics erano talmente favoriti che trattarono i Bulls come una specie di
squadra esordiente e non prestarono particolare attenzione. La strafottenza
della squadra, sempre secondo Stockton, era condivisa anche dai tifosi di
Boston, che chiaramente non attribuivano a quell’incontro lo stesso
interesse di una partita contro i 76ers, che a quei tempi erano i loro
principali avversari nella Eastern Conference. Per un po’ restarono a
guardare le imprese di Jordan, più silenziosi del solito, in attesa che
esaurisse le energie e che i Celtics prendessero il dominio della partita come
era giusto che fosse. Gradualmente, però, con il procedere della partita, con
Jordan che sembrava tenere a bada da solo l’intera squadra avversaria,
Stockton colse un cambiamento nel pubblico, una specie di mormorio di
incredulità, preoccupazione e infine di malcelata ammirazione. Era come se
i tifosi non fossero più ben sicuri del proprio ruolo: dovevano esultare per
l’esibizione di virtuosismo o esprimere l’ansia crescente per il fallimento
degli amati Celtics nel liberarsi di quei Bulls così presuntuosi?
Il Michael Jordan che giocò quel giorno, rivisto in video, sembra il
fratello minore del Michael Jordan degli anni novanta. Era più snello,
decisamente meno muscoloso. Allora pesava più o meno ottantacinque
chili, dodici in meno di quelli che il suo corpo più robusto avrebbe
sostenuto sette anni più tardi. Aveva ancora un po’ di capelli: il cranio
rasato, che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, e in seguito quello
di un’intera generazione di giovani cestisti di colore nell’NBA, non aveva
ancora fatto la sua comparsa. Indossava ancora i pantaloncini corti, non
quelli lunghi che avrebbe adottato in seguito, lanciando la moda in tutta
l’NBA.
Quello che saltava all’occhio nel suo stile era il tempismo, la capacità di
vedere tutto il campo e di conoscere al millisecondo il tempo che aveva a
disposizione per ciascun possesso di palla, prima di decidere se passare o
tirare. Erano in pochi a riuscirci. Stan Albeck una volta gli chiese che cosa
pensava quando una squadra avversaria gli metteva contro due marcatori, e
rimase sbalordito dalla risposta precisa: «Penso che ho fra mezzo secondo e
un secondo per decidere se palleggiare e tentare di superarli o di spezzare il
raddoppio, oppure tirare prima che il secondo difensore mi raggiunga. Se
riesco a superarli posso puntare direttamente a canestro. Ma tu vuoi sapere
che cosa succede dopo?» Albeck disse di sì. «Mi trovo davanti un tizio di
due metri che tenta di bloccarmi, ma gli schiaccio comunque in faccia».
Bill Walton e Dennis Johnson, entrambi grandissimi difensori, quel
giorno vennero espulsi per eccesso di falli e sia Parish che Ainge
conclusero la partita con cinque falli a testa: Walton fece quattro falli a
Jordan, Johnson tre, Ainge, Parish e McHale uno. Subì un totale di dieci
falli da quelli che erano considerati fra i migliori difensori della Lega.
Jordan continuava a superare i difensori e ad avvicinarsi al canestro e la sua
agilità aveva costretto Walton a buttarsi su di lui all’ultimo secondo. Per
Walton era stato un momento eccitante, anche se doloroso. Di solito un
centro che giocava in difesa era in grado di valutare tutti i grandi attaccanti
che cercavano di superarlo, riconoscendo le loro mosse e finendo per
scoprire le angolazioni da cui si muovevano e i limiti della loro azione.
Invece quel giovane giocatore sembrava sfidare i limiti conosciuti, arrivava
in terzo tempo dopo aver superato l’ultima linea di difesa, composta da due
eccellenti difensori, e – quando sembrava che il tempo normale per un tiro o
un passaggio fosse quasi scaduto e ci si preparava a bloccarlo – riusciva ad
andare oltre, superandoti come se avesse una marcia in più. Pensavi di aver
capito la sua traiettoria, e lui la allungava. Oppure pensavi di aver intuito
l’azione di attacco che voleva fare e lui, mentre era sospeso in aria, spostava
la palla nell’altra mano. Era uno spettacolo sconvolgente.
I Celtics sapevano che Jordan era bravo, ma non avevano mai considerato
lui o la sua squadra come una reale minaccia. Quello che riempì di
meraviglia Bob Ryan del Boston Globe fu il fatto che Jordan operava
all’interno della normale strategia offensiva dei Bulls, non era come se la
squadra lavorasse soltanto per liberare lui. La realtà era semplicemente che
all’interno di quella strategia offensiva, lui non poteva essere fermato né
marcato, perché era troppo veloce. Nel prosieguo della partita, i giocatori
dei Celtics cominciarono a godersela. La maggior parte di loro era
consapevole di quello a cui stava assistendo. Quel pomeriggio, pensò Chris
Ford, uno degli assistenti allenatori dei Celtics, guardare Michael Jordan era
piacere puro. Stava guardando un giocatore esprimersi a un livello che
nessuno aveva mai raggiunto prima, e contro la squadra migliore della
Lega.
A metà del terzo quarto, quando Dennis Johnson ebbe raggiunto il
massimo numero di falli, Danny Ainge entrò a sostituirlo. Johnson era un
po’ più robusto, Ainge era un po’ più veloce, ma quel giorno nessuno
avrebbe potuto fermare Jordan. Ainge decise che almeno avrebbe costretto
Jordan a giocare in difesa (in quella partita segnò 24 punti). Pensò che
quello fosse un gran giorno per il basket: «Era talmente bravo che eri
tentato di fermarti e guardarlo, semplicemente. Non era solo quello che
faceva, ma il modo in cui lo faceva. Sapevamo che era molto bravo, ma
nessuno di noi era ancora consapevole che sarebbe stato il miglior giocatore
che si fosse mai allacciato un paio di sneakers, però stavamo per scoprirlo e
quel pomeriggio fu un buon inizio».
Alla fine del primo tempo supplementare Jordan sbagliò un semplice tiro
in sospensione che avrebbe segnato le sorti della partita. I Celtics vinsero al
secondo supplementare per 135 a 131. Alla fine, Jordan era sfinito. La
partita era durata 58 minuti e lui ne aveva giocati 53, gli ultimi 39 senza
interruzioni. Più tardi K.C. Jones commentò: «Pensavo che avesse giocato
78 minuti. Di sicuro sembrava così».
Michael Jordan segnò 63 punti, un record nei playoff. Non tutti si erano
resi conto di quanto fosse stato fantastico. Kevin McHale stava facendo la
doccia dopo la partita quando gli portarono le statistiche. Disse qualcosa a
proposito del fatto che Jordan aveva fatto una grande partita, poi abbassò gli
occhi, vide 63 punti e restò sbalordito. Jordan invece non era contento.
Dopo la partita disse ai giornalisti: «Scambierei tutti quei punti per la
vittoria. Ci tenevo tantissimo». Ancora anni dopo, quando gli parlavano di
quella partita pensando di suscitare un moto di nostalgia, lui cambiava
discorso in fretta. «Non è una delle mie preferite» diceva, per poi
aggiungere: «Perché abbiamo perso. Questo fatto non può cambiare».
Nessuno era rimasto più colpito di Larry Bird. «Era Dio travestito da
Michael Jordan» disse ai giornalisti, che apprezzarono molto la battuta –
una battuta immortale per una partita immortale – e apprezzarono anche di
più la partita stessa, in cui un solo Davide aveva sconfitto tanti Golia,
nonché il fatto che si fosse svolta nel primo pomeriggio, dando loro tutto il
tempo necessario per lavorare alle proprie storie e cercare di eternare quello
che era successo. ‘Ha dipinto il suo capolavoro sul soffitto della Cappella
Sistina del basket, e non gli è servita un’impalcatura per arrivare lassù’
scrisse Ray Sons sul Chicago Sun-Times. ‘Michael sa volare’.
Aveva messo a segno 22 tiri dal campo su 41 e 19 tiri liberi su 21. Tredici
canestri erano arrivati da tiri in sospensione, sette da terzi tempi, uno da una
schiacciata e uno da un’interferenza a canestro valido.
Bird, col suo istinto meraviglioso nel riconoscere e accogliere i grandi
talenti, lo aveva visto per primo e ora lo vedevano anche gli altri: era il
prototipo di un nuovo, super giocatore. C’erano già stati grandi saltatori
prima di lui, come Julius Erving e David Thompson, ma il loro gioco era
incompleto: Erving era molto dotato fisicamente e nessuno riusciva ad
arrivare a canestro con tanta enfasi e teatralità, e David Thompson faceva
salti eccezionali, ma nessuno dei due era considerato particolarmente bravo
a concludere. Invece era arrivato questo giovane che non sembrava avere
punti deboli: sapeva saltare e palleggiare, sapeva tirare e passare.
Chris Ford, che aveva allenato Bird e altri avversari di Jordan, alla fine
arrivò a pensare che nonostante le grandi differenze fisiche e negli stili di
gioco, gli aspetti simili fra i due fossero più rilevanti: c’erano la fame di
eccellenza, la necessità assoluta di conquistare un anello, l’effetto che
avevano nel trascinare i compagni, l’aura di invincibilità che li circondava.
Avevano un’altra cosa in comune, sempre secondo Ford, che li separava da
tanti giovani esordienti di grandissimo talento che finivano in squadre
deboli per colpa dei capricci del draft e non vedevano l’ora che scadessero i
tre anni del primo contratto per spostarsi in una franchigia più forte.
Entrambi avevano un senso di lealtà. «Se venivi scelto da una squadra in
fondo alla classifica, significava che parte del tuo compito era quello di
cambiare le sorti della squadra e renderla vincente, anzi, portarla all’anello.
Era un compito profondamente sentito: non significava soltanto essere un
giocatore, ma anche un cittadino, ed era fondamentale per entrambi. Larry
pensava di dovere a Boston la vittoria, e Michael provava la stessa cosa per
Chicago. Era il loro lavoro, faceva parte del contratto» disse Ford. «Temo
che non siano in molti oggi a pensarla così».
Dopo quella vittoria così sudata, per Gara Tre i Celtics cambiarono
strategia. Il giorno successivo, agli allenamenti, qualcuno osservò che
alcuni altri giocatori dei Bulls erano Dave Corzine, Jawann Oldham, Sidney
Green, Kyle Macy e Gene Banks, nessuno dei quali poteva essere una
minaccia per i Celtics. La strategia sarebbe cambiata: avrebbero
raddoppiato su Jordan fin da subito, in modo da tenerlo lontano dalla palla.
Funzionò. Due giorni più tardi andarono a Chicago per la terza – e se
necessario per la quarta – partita. Kevin McHale salì in aereo senza valigia,
soltanto con un paio di scarpe in più e un kit per la rasatura. Qualcuno gli
chiese dove fosse il suo bagaglio e lui rispose: «Non ne ho bisogno,
resteremo soltanto una notte». Fu davvero così. Con la nuova strategia
chiamata ‘Stop Michael’, Jordan fece molta più fatica a prendere la palla e i
Celtics vinsero facilmente 122 a 104.
I ricordi di quella serie durarono a lungo. Durante le Conference Finals
del 1998 contro Indiana, un giornalista chiese a Larry Bird, che a quei tempi
allenava i Pacers, di quella partita. Bird, desideroso di sfatare il mito
dell’invincibilità di Jordan, disse: «L’unica cosa che ricordo è che
vincemmo». Più o meno nello stesso periodo Bill Walton, diventato
commentatore sportivo alla NBC, entrò negli spogliatoi dei Bulls per
intervistare Michael Jordan, solo per sentirsi ricordare che dodici anni
prima era riuscito a farlo espellere per eccesso di falli.
13
New York City; Portland, 1986
Non molto tempo dopo quella partita, due fanatici del basket unirono le
forze per creare una serie di spot televisivi che accrebbero
considerevolmente la fama di Michael e contribuirono a portarla ben oltre i
confini dello sport. Erano Jim Riswold, un giovane e irriverente autore
impiegato in una piccola agenzia di pubblicità di Portland (in Oregon)
chiamata Wieden & Kennedy, e Shelton Jackson (Spike) Lee, un regista di
Brooklyn alle prime armi.
Riswold era originario di Seattle, dove aveva frequentato l’Università di
Washington: non sapendo bene chi o che cosa volesse diventare, rimase
all’università per sette anni nel corso dei quali prese tre diverse lauree in
filosofia, storia e comunicazione. Adorava il basket e lavorava part time per
i Seattle SuperSonics, occupandosi della promozione e della pubblicità
locale. Grazie a questo incarico si avvicinò al mondo della pubblicità e dato
che negli annunci di lavoro non figurava alcuna azienda che assumesse
filosofi, decise che il posto giusto per mettere a frutto i suoi talenti, quali
che fossero, era proprio quello. Nel 1984, l’anno dell’esordio di Michael
Jordan in NBA, Riswold lasciò Seattle e andò a lavorare per la Wieden &
Kennedy.
Portland era in pratica la casa della Nike. In quel periodo però la Nike
affidava la maggior parte delle attività pubblicitarie alla Chiat/Day, una
delle grandi agenzie di New York, famosa per il talento dei suoi creativi. La
Wieden & Kennedy aveva avuto una parte del budget, in precedenza, ma
era relativamente piccola e piuttosto ordinaria. In quel periodo era
considerata la seconda agenzia della Nike, un posizionamento non
particolarmente desiderabile. Più o meno quando Riswold fu assunto, però,
la Wieden & Kennedy ottenne un contratto per la pubblicità di uno scooter
Honda. Grazie alla creatività di Riswold proposero un’idea originale, uno
spot anticonformista e sgranato con Lou Reed sullo scooter Honda
accompagnato dalla sua canzone Walk on the Wild Side. Era difficile dire se
fosse stato girato da raffinati professionisti o da principianti assoluti, ma era
trendy e stranamente coinvolgente, in parte anche perché il messaggio
pubblicitario arrivava soltanto all’ultimo minuto.
Seguirono altri spot della Honda, tutti ugualmente interessanti, che si
rivelarono molto importanti per affermare l’identità della piccola agenzia,
così lontana dal centro della scena newyorkese, e contribuirono a far
assegnare alla Wieden & Kennedy il contratto della Nike per gli spot con
Michael Jordan. Jim Riswold era così sicuro di essere l’uomo giusto per
realizzarli che andò letteralmente a implorare i suoi capi di assegnarglieli.
Gli spot precedenti realizzati dalla Chiat/Day per Jordan erano piuttosto
convenzionali e si concentravano sulle sue eccezionali doti atletiche e sulla
bellezza del suo corpo. La sua identità – che tipo di uomo fosse, se fosse
uno che volevi guardare giocare per poi andare a cena con lui, oppure se
volevi soltanto guardarlo giocare, e infine se avesse qualche lato nascosto –
non era ancora stata esplorata. Riswold però aveva un’idea diversa. Aveva
letto da qualche parte che Bill Russell pensava che Michael Jordan fosse un
meraviglioso essere umano e che una volta si era congratulato con il signore
e la signora Jordan per aver cresciuto non soltanto un grande giocatore di
basket ma anche uno splendido figlio, e questo lo aveva colpito perché
sapeva – come chiunque avesse frequentato Russell – che non faceva
complimenti del genere alla leggera, neanche agli ex giocatori dei Celtics.
In realtà la sua carriera di general manager dei SuperSonics non era finita
benissimo, soprattutto perché molti dei giocatori più giovani, che
inizialmente erano entusiasti di poter giocare per il grande Bill Russell, in
breve si erano ritrovati a subire il suo disappunto e il suo aperto disprezzo.
Se però Jordan era un essere umano tanto esemplare da guadagnarsi le
lodi dell’esigentissimo Russell, poneva anche una sfida appassionante per
qualsiasi pubblicitario: rivelare le sue qualità uniche in un filmato di soli
trenta secondi. Fino a quel momento era stato detto soltanto che era un
atleta fantastico e milioni di ragazzi americani che volevano saltare più in
alto avevano comprato le sue scarpe, ma quel tipo di messaggio aveva dei
limiti. Se la Nike fosse riuscita a dimostrare che era anche uno splendido
essere umano, se avesse rivelato il fascino naturale che tante persone,
compreso lo stesso Riswold, avevano sentito dopo averlo incontrato,
avrebbero avuto un vero personaggio, da poter sviluppare attraverso una
storia. In quel periodo, nel 1986, Riswold e Bill Davenport, il suo
produttore esecutivo, erano a Los Angeles per girare un altro spot e
andarono al cinema. Il film che videro, About last night, non era niente di
eccezionale, ma il trailer di un altro film, Lola Darling, affascinò Riswold.
Mostrava il regista e sedicente protagonista del film, un giovane e magro
ragazzo di colore di nome Spike Lee, che cercava di convincere il pubblico
a vedere il suo film e nel frattempo vendeva calzini tubolari, due paia per
cinque dollari, dicendo che se nessuno fosse andato a vederlo avrebbe
passato la vita a vendere calzini per strada. Calzini, due paia cinque dollari,
ripeteva durante la dissolvenza.
Riswold era cresciuto con la rivista Mad e i Monty Python, così come con
Jack Sikma e Gus Williams, e il trailer lo convinse subito. Andò a vedere il
primo film di Spike Lee, girato in economia con circa $175.000 dollari. Lo
trovò divertente e quasi dolce nella sua innocenza. Anni dopo Spike Lee
disse che Riswold e Davenport avevano apprezzato il film per via di un
certo stile funky, non troppo raffinato perché a quei tempi non si poteva
permettere la raffinatezza: era quello che finì per definire involontariamente
pauvre. Per risparmiare non solo aveva interpretato il ruolo del
protagonista, ma aveva usato il proprio appartamento come set.
La grande sorpresa del film, per Riswold, fu che mostrava una specie di
culto per Jordan, o meglio, per le Air Jordan. Il protagonista del film, Mars
Blackmon, faceva il corriere a New York ed era profondamente innamorato
della bellissima Lola Darling. L’unica cosa che amava più di Lola Darling
erano le sue Air Jordan, e quando arrivava il momento di fare l’amore con
Lola si rifiutava di toglierle. Per Riswold era una vera manna dal cielo: un
film che conteneva già uno spot («L’unica cosa che la Nike mi abbia mai
dato per il film» commentò Lee con una certa irritazione, anni dopo, «è
stato il poster di Michael appeso in casa di Mars. Ho dovuto comprare due
paia di Air Jordan con il budget del film»).
Spike Lee, talentuoso e dotato di un innato senso per la moda, non era
certo un figlio del ghetto. Era un laureato del Morehouse College di terza
generazione, caratteristica che lo collocava saldamente in un’élite nera.
Sentiva profondamente la ricchezza della cultura e del talento della sua
gente e aveva molto chiaro il livello a cui la società bianca dominante li
aveva soffocati o ignorati. Il padre era un musicista jazz, un purista che
rifiutava di usare strumenti elettrici, e la madre insegnava letteratura e storia
nera alla Saint Ann’s, un’eccezionale scuola privata di Brooklyn. Lee era da
sempre tifoso dei Knicks e una delle grandi crisi della sua giovinezza si era
verificata quando la data di un concerto del padre si era sovrapposta a una
partita dei New York Knicks contro i Los Angeles Lakers nella finale NBA
al Madison Square Garden. Naturalmente alla fine era andato al Garden.
Il Mars Blackmon di Spike Lee era, come lo stesso Lee, un tifoso
sfegatato dei Knicks e un uomo per cui era difficile scegliere fra l’amore
per lo sport e l’amore di una donna. Nella vita reale di Spike, per esempio,
nella primavera del 1985 la storia con la fidanzata stava andando in
frantumi e lei avrebbe voluto fare un discorso serio sul loro futuro. Lui però
era troppo elettrizzato dal fatto che i Knicks avessero scelto Patrick Ewing
al draft per concentrarsi su di lei. La relazione con quella ragazza si
concluse molto presto, ma quella con i Knicks divenne molto più intensa: il
giorno dopo il draft Lee si precipitò al Garden a comprare un abbonamento
stagionale, anche se non poteva permetterselo. Inizialmente aveva dei posti
orrendi nell’ultimo anello, ma più avanti, quando interpretando il Sancho
Panza di Michael Jordan ebbe guadagnato fama e potere (dieci anni dopo i
Knicks usarono un videoclip fatto da lui per convincere Allan Houston a
lasciare Detroit), riuscì ad avanzare sempre di più, fino ad arrivare ad avere
i posti migliori in assoluto, ancora più di quelli di un altro regista fanatico di
basket, Woody Allen. Per Lee il gioco non era niente di meno di una forma
d’arte e vedeva Michael Jordan non tanto come un atleta quanto come un
artista, membro di un pantheon di geni di colore il cui talento trascendeva
non soltanto le circostanze delle loro origini ma anche la categoria che la
vita sembrava aver loro assegnato: uomini come Duke Ellington, Miles
Davis, John Coltrane e Louis Armstrong.
Quando Lee aveva scritto Lola Darling era stato difficile per lui non
usare un giocatore dei Knicks come idolo del protagonista e inizialmente
aveva pensato a Bernard King. Alla fine, però, aveva dovuto riconoscere
che Michael Jordan era unico, la nuova grande superstar, e la scelta fatale
era stata compiuta.
Fra i tre corteggiatori della disinvolta Lola Darling, nel film, inizialmente
Mars sembra il meno attraente: un po’ goffo, un po’ eccessivo, non certo la
prima scelta. Il preferito naturale, Jamie Overstreet, ha la pelle più chiara ed
è attraente, anche se forse un po’ troppo impostato, ma è anche – e con
Spike Lee ogni riferimento al basket è sempre una metafora più ampia – un
fanatico di Larry Bird. A un certo punto Lee fa dire a Mars: «Bird è il
peggior figlio di puttana della Lega». In un certo senso Mars è il
personaggio più amabile del film, o almeno quello che fa più tenerezza:
parla un linguaggio da strada colorito e appassionato, molto accattivante.
A Riswold il film piacque immensamente e capì che Lee con il suo
enorme talento poteva essere la persona giusta, l’adoratore di Jordan che
avrebbe potuto aiutarli a risolvere l’equazione di come girare uno spot che
mostrasse le grandi qualità dell’atleta senza trasformarlo in qualcosa che
non era, e cioè un attore.
Il giorno successivo Riswold chiamò Lee. Inizialmente il futuro regista
sembrava un po’ diffidente, temendo che si trattasse dello scherzo di un
compagno del corso di cinema («A quei tempi, Spike rispondeva ancora al
telefono di persona» commentò in seguito Riswold, divertito). A Riswold fu
subito simpatico. Gli disse che sperava di poterlo inserire nello spot nei
panni di Mars Blackmon, e anzi che sperava che Lee dirigesse le riprese.
Per Lee, che era uscito da poco dalla scuola di cinema, era la chiamata che
attendeva da tempo. Nella sua ingenuità, dato che aveva vinto il premio del
suo corso per il filmato più eccezionale, intitolato Joe’s Bed-Stuy
Barbershop: We Cut Heads, si era aspettato di essere contattato da gente del
calibro di Steven Spielberg e George Lucas. Chiamate che naturalmente
non arrivarono mai. Riswold ricorda che Lee chiese: «Potrò lavorare con
Michael Jordan?» Ma certo che poteva. Lee era entusiasta all’idea di
dirigere uno spot: era un settore dal quale nel passato i registi neri erano
stati quasi sempre esclusi. E in più avrebbe guadagnato $50.000 per il
disturbo. Dopo aver arruolato Lee, Riswold e Davenport andarono da
Michael Jordan, che diede la sua approvazione.
Qualche anno dopo, Riswold concluse che lavorare per una piccola
agenzia indipendente situata in Oregon, lontano dalla capitale mondiale
della pubblicità, era stato un grande vantaggio per tutti perché avevano
dovuto affrontare meno ostacoli: meno inibizioni, meno regole, molta meno
tradizione. Non c’era nessuno che potesse dire a Riswold che cosa poteva o
non poteva fare, anche perché non c’erano precedenti su cui basarsi.
Nessuno poteva impedirgli di scommettere i soldi della Nike e la
reputazione della Wieden & Kennedy su un giovane regista nero che
nessuno aveva mai sentito nominare. E a Portland l’etnia non era un
problema. Portland era una città del Nordovest senza un vero e proprio
ghetto, almeno non uno come quelli nel Nordest, e sembrava molto meno
preoccupata delle questioni razziali rispetto ad altri luoghi. Molti giocatori
neri che avevano militato nei Trail Blazers finivano per stabilirsi lì al
termine della carriera, perché era un posto molto piacevole dove vivere e
mettere su famiglia. In realtà, la prima volta che la famiglia Kennedy perse
le primarie fu proprio in Oregon nel 1968, quando Robert Kennedy fu
sconfitto da Gene McCarthy e i sostenitori dei Kennedy in seguito si
lamentarono per l’assenza del ghetto, che probabilmente avrebbe favorito la
creazione della tipica alleanza dei Kennedy.
Secondo Riswold gli spot funzionarono per vari motivi. Il primo era che
sia lui che Lee erano dei fanatici e avevano portato nel progetto lo stesso
senso di meraviglia che ci avrebbe messo qualunque tifoso. La razza non
era un fattore in gioco. Riswold non pensava a Jordan come a un uomo di
colore. Aveva sempre amato il basket, e il basket era nero, e come molti
giovani della sua generazione era convinto che se gli altri avessero visto
nello sport quello che ci vedeva lui – la bellezza e la sensibilità artistica – lo
avrebbero amato quanto e forse più degli altri sport apparentemente più
popolari. Naturalmente, più lo avessero amato e meno si sarebbero
preoccupati del fattore razza. E davanti a loro c’era quel giovane che non
solo giocava in modo magistrale, ma era semplicemente bellissimo.
Michael Jordan, come era sua abitudine, mise alla prova Spike Lee.
Durante il loro primo incontro Jordan, che era già famoso, aveva squadrato
Lee e aveva detto soltanto: «Spike Lee», ma in tono di sfida, come se, come
ricordò in seguito il regista, volesse dirgli: «Mostrami quello che sai fare».
Ma andarono subito d’accordo. Il coraggio degli spot Nike, secondo Lee,
risiedeva nel fatto che l’azienda gli aveva permesso di dirigerli e in più di
recitare con Jordan. Non c’era coraggio nel rappresentare Jordan nei panni
dell’eroe, era già una star ed era splendido. Con lui si potevano fare cose
che non sarebbero mai state possibili con Larry Bird. Eppure era lì, accanto
a un tizio smilzo e occhialuto che per di più era nero e un po’ sopra le righe.
Non era detto che la maggioranza degli americani fosse pronta ad accettare
Spike Lee come partner di un’icona.
Eppure funzionò fin dall’inizio. Le prime riprese mostrano un Jordan un
po’ rigido e incerto – nel corso degli anni acquistò disinvoltura – ma era
pronto a fare egregiamente la parte della spalla. Nei primi spot Mars si
rivolgeva direttamente al pubblico, impersonando il classico tifoso. Una
delle riprese mostrava Lee sulle spalle di Jordan, abbracciato al canestro
con al collo una grossa catena d’oro ‘MARS’. Nel bel mezzo del discorso
Jordan, con un sorriso meravigliosamente disinvolto, lasciava Lee appeso al
bordo e schiacciava in mezzo alle sue braccia.
Fin dal principio Jordan aveva colpito tutti con il suo fascino innato, il
suo spirito e la sua evidente sicurezza in se stesso. Sapeva chi era, e si
piaceva. Non c’era nulla di minaccioso in lui. Era molto severo – bisognava
guadagnarsi il suo rispetto e chiaramente stava attento al modo in cui la sua
immagine veniva sfruttata – ma come uomo dimostrava la massima
disinvoltura ed eleganza. Se non le esprimeva a parole, erano comunque
evidenti nel sorriso, nella mobilità delle espressioni, nella capacità di
inarcare le sopracciglia proprio al momento giusto. Era bello, era amabile,
aveva quel sorriso luminoso e probabilmente era il miglior giocatore di
basket del mondo.
Gli spot erano la perfetta contropartita per l’altra incarnazione di Jordan,
il predatore perfetto, il guerriero che tre o quattro sere a settimana scendeva
in campo e semplicemente distruggeva i nemici. Le squadre avversarie si
trovavano di fronte il killer, mentre i tifosi che guardavano gli spot della
Nike vedevano il seduttore, un uomo spiritoso e intelligente che sembrava
piacere a tutti.
«Facemmo centro, e non con la genialità ma seguendo ciò che sentivamo
giusto e mostrando la sua umanità» commentò Riswold anni dopo. «Il resto
venne di conseguenza.»
«Phil [Knight] e la Nike mi hanno trasformato in un sogno» disse Jordan
molti anni più tardi.
Gli spot della Nike erano così fantastici, naturalmente, che innescarono
un effetto valanga, ispirando altre aziende come
McDonald’s, Coca-Cola, Hanes e più tardi Gatorade a seguire lo stesso
stile. Questo modificò gli equilibri di potere e permise a David Falk di
presentarsi ad altre aziende dichiarando che una buona parte della
pubblicità a livello nazionale per i loro marchi era già stata realizzata. Per
usare le sue parole: «Le Air Jordan hanno aperto la strada a una serie di altri
accordi. La Nike ha speso più di 5 milioni di dollari in pubblicità e adesso
possiamo andare da uno stilista come Guy Laroche […] e dire ‘Non devi
spendere così tanto, perché Nike, McDonald’s e Coca-Cola lo stanno già
portando in televisione anche per te’». Era il cosiddetto effetto contagio.
Phil Knight lo detestava, ma non poteva farci niente.
E così era nata un’icona americana. Nel moderno contesto della cultura
dell’intrattenimento, in una società ossessionata dalla celebrità, ciò che
veniva fissato sulla celluloide spesso sembrava sostituire la realtà e un
pubblico sempre più distratto ricavava la propria verità dagli schermi
televisivi. Uomini dall’eroismo totalmente fasullo e limitato ai set di
Hollywood venivano sempre più percepiti come eroi autentici e le loro
azioni, anche se fittizie, avevano una risonanza durevole che formava un
suo livello di realtà. Era già successo in passato: un Congresso pieno di
gratitudine, anche se vittima di un’illusione, aveva conferito una medaglia a
John Wayne come eroe americano anche se da giovane aveva evitato di
partecipare alla Seconda guerra mondiale per dedicarsi alla sua nascente
carriera di attore. Anni dopo un giovane di nome Sylvester Stallone, che
non aveva voluto combattere in Vietnam e aveva trascorso parte di quegli
anni come insegnante in un collegio femminile in Svizzera, si era costruito
una carriera impersonando un supereroe amareggiato e indurito proprio
dalla guerra del Vietnam. Ormai, con l’aumentare dell’influenza della
cultura popolare, i confini fra autenticità e finzione erano sempre più
sfumati.
Questo rendeva Michael Jordan quasi unico come icona culturale. Perché
lui, sera dopo sera, scendeva in campo a dimostrare la sua eccellenza
atletica, continuando a vincere partite importanti all’ultimo minuto e
surclassando i giocatori migliori del mondo. Questo gli conferiva un grande
potere presso gli appassionati di sport americani, anche quelli che in
precedenza si erano interessati al basket solo marginalmente e che ora si
avvicinavano sempre di più, via via che si spargeva la voce che stava
nascendo una superstar. E poi c’era la sua seconda incarnazione, che grazie
alla forza della creatività – e alla frequenza con cui venivano trasmessi gli
spot della Nike – gli conferiva lo stesso ascendente di un divo del cinema.
Gli spot erano brevi, ma erano molto numerosi e realizzati con tale fascino
e talento da formare una narrazione unitaria. L’effetto cumulativo fu quello
di creare una figura con la forza e il carisma di una stella del cinema di
prima grandezza. E a differenza di tanti personaggi proiettati dalla
macchina dei sogni di Hollywood nei cinema e nelle case, le cui azioni
erano però artificiali, le sue imprese erano autentiche. Jordan conosceva la
posta in gioco e stava molto attento a come si comportava fuori dal campo,
fra l’altro per evitare di danneggiare l’immagine che si stava cristallizzando
e che gli stava portando tanti vantaggi economici.
Così, gradualmente, superò i confini dello sport, trascinato dalla sua
grande abilità, dal suo aspetto e dal suo fascino sempre più a fondo nella
psiche del pubblico americano, come nessun campione sportivo aveva mai
fatto prima. Il successo chiamava successo. Era un processo che si
alimentava da solo: chi non conosceva o non amava il basket spesso era
attirato dagli spot e dalla bellezza del protagonista e quindi cominciava a
guardare qualche partita, quando veniva a sapere che giocava lui. E in
quella partita, Michael Jordan faceva quasi sempre qualcosa di eccezionale
e in un modo o nell’altro conquistava tutti. In campo migliorava sempre di
più, e fuori dal campo la sua fama aumentava. In un mondo in cui tante star
e tanti eroi erano fasulli, lui rimaneva sempre autentico.
14
Chicago, 1986-1987
L’ascesa di Michael Jordan nel mondo del basket, all’inizio, non fu priva di
implicazioni generazionali – i primi a esserne attirati furono i tifosi più
giovani, ammaliati dalla bellezza e dall’originalità dei suoi gesti, mentre
molti dei più adulti si chiedevano se fosse in grado di trascinare un’intera
squadra alla grandezza – quindi non c’è da stupirsi che a casa di Phil e June
Jackson il primo a rendersi conto del suo talento fosse il figlio Ben, che
quando Michael giocò l’ultima partita da universitario, nel 1984, aveva
cinque anni. Ben aveva cominciato a seguire Jordan quando giocava ancora
nella ACC e insisteva perché il padre gli prestasse più attenzione,
soprattutto dopo che Jordan era diventato la star della squadra olimpica nel
1984. Continuava a ripetere: «Papi, devi guardarlo». In seguito anche in
casa Jackson, come accadeva in tante altre famiglie americane, apparve una
fotografia del piccolo Ben Jackson con la maglia dei Chicago Bulls numero
23 e la lingua fuori, nella tipica posa certificata da Michael Jordan.
Phil Jackson, che allora allenava in una lega minore, la Continental
Basketball Association (CBA), diede ascolto al figlio e l’anno dell’esordio
di Jordan andò da Albany, dove allenava i Patroons, a Glen Falls, New
York, per vedere un’amichevole dei Bulls. Era vicino a una transenna che
sporgeva sopra il campo e non era certo nella posizione migliore per
esaminare un cestista. Da quella prima partita non ricavò granché, a parte il
fatto che Jordan sembrava voler andare a canestro ogni volta che toccava
palla. Dopo la partita, Jackson andò negli spogliatoi e parlò con Kevin
Loughery, che in passato lo aveva allenato. Loughery gli disse che Jordan
era un autentico fenomeno e che sarebbe diventato una stella di prima
grandezza. Ma in quel momento i mondi di Michael Jordan, alle soglie di
una brillante carriera e in procinto di essere nominato rookie dell’anno e di
raggiungere le vette della gloria grazie a una serie di spot pubblicitari, e di
Phil Jackson, che allora si arrabattava a sbarcare il lunario nella CBA, non
potevano essere più lontani. Jackson inoltre d’estate allenava nella Lega di
Portorico, per arrotondare e perché gli allenatori più seri che conosceva,
come Red Holzman, gli avevano detto che quella era la prova suprema per
capire se si era davvero portati per stare in panchina, e probabilmente era
così.
A quei tempi guadagnava più o meno $35.000 all’anno nella CBA e altri
12.000 con il lavoro estivo. Faceva di tutto per rientrare nell’NBA, ma si
era accorto di essere diventato una specie di paria nel mondo molto
conservatore del basket professionistico. Quando partecipava a eventi come
le selezioni per giocatori universitari all’ultimo anno, di talento ma ancora
ignorati dagli scout, nessuno degli addetti ai lavori sembrava voler parlare
con lui.
Il fisico di Jackson aveva cominciato a dare segni di cedimento alla fine
degli anni settanta, dopo una buona ma non eccezionale carriera come ala o
centro di riserva in due campionati con i New York Knicks. A New York
era un giocatore molto famoso, dava ai tifosi locali l’impressione di essere
uno spirito affine al loro, modaiolo e irriverente. Viveva proprio a
Manhattan, andava al Garden a piedi dal suo appartamento nel West Side e
girava per la città in bicicletta. Era arrivato da poco dal Nord Dakota e non
soltanto era ansioso di migliorare come giocatore ma era anche un
esploratore entusiasta della città ed era eccezionalmente avvicinabile, in un
ambiente dove il basket era molto amato e la squadra dei Knicks era
venerata. Non aveva fatto come molti altri atleti professionisti, che si erano
isolati dalla città in cui abitavano, anzi sembrava prosperare nella vita
newyorkese ricca e frenetica. «Era diverso dalla maggior parte degli altri
professionisti» disse di lui il giornalista e amico di una vita Charley Rosen.
«Era convinto che quello che faceva e pensava il suo interlocutore fosse
altrettanto importante di quello che faceva e pensava lui. Era curioso di
conoscere gli altri quanto gli altri lo erano di conoscere lui. Non alzava
barriere per nascondersi».
La carriera da professionista se l’era guadagnata grazie all’intelligenza,
alla dedizione e alla capacità di adattarsi continuamente alle necessità
dell’allenatore e dei compagni. Le abilità di attacco che in Nord Dakota gli
erano state così utili avevano perso quasi completamente di rilevanza nel
basket professionistico. All’università era considerato alto e aveva un
ottimo gancio, ma nel professionismo non risultava più tanto alto e il gancio
non serviva a molto contro difensori alti e atletici che non avevano
problemi a bloccarlo. Lo avevano salvato la passione per il gioco, le braccia
lunghe e la disponibilità a spendersi in difesa. Giocava in modo molto fisico
e gli avversari avevano imparato presto a rispettare i gesti imprevedibili e
pericolosi dei suoi gomiti. «Dovevo giocare contro di lui ogni giorno in
allenamento ed era terribile» commentò una volta il compagno di squadra
Bill Bradley. «Non faceva altro che colpirti, continuamente – non in modo
cattivo, solo molto fisico – e aveva quelle braccia enormi. Era come essere
marcati da un ragno gigante. Dopo essermi allenato con lui, giocare in
partita contro i difensori avversari era un sollievo».
Era un elemento perfetto per quella squadra. In un certo senso era una
squadra per intenditori ed era un posto ideale per imparare a giocare. A
volte sembrava che la squadra di New York avesse un bravo allenatore in
panchina, Red Holzman, e altri cinque in campo. I giocatori, anche per gli
standard di quel periodo, erano sorprendentemente bassi – la squadra dei
titolari in pratica era formata da quattro guardie e un’ala – ma tutti erano
bravi a tirare, a passare e a difendere in modo intelligente con un ottimo
gioco di squadra. La palla si spostava da uno all’altro molto rapidamente,
tutti collaboravano per creare mismatch e occasioni di tiro.
Quando i lunghi più dotati di quella squadra – Willis Reed, Dave
DeBusschere e Jerry Lucas, tutti tiratori migliori di lui – cominciarono a
ritirarsi, Jackson fu obbligato a giocare da titolare e i suoi punti deboli –
l’assenza di un tiro in sospensione affidabile e una certa vulnerabilità nel
palleggio – divennero evidenti, accelerando la fine della sua carriera. Era un
giocatore che poteva dare a una buona squadra diciotto o venti minuti molto
intensi: giusto il tempo di far riposare i titolari. La sua presenza in campo
contribuiva a garantire che non ci fossero cedimenti in difesa o
rallentamenti nelle strategie di gioco. Ma se una squadra aveva bisogno di
trentacinque minuti e di una spinta in attacco, Jackson non era l’uomo
giusto. Durante l’ultima parte della sua carriera nessuna squadra avversaria
si preoccupò certo di elaborare strategie per fermare i tiri in sospensione di
Phil Jackson.
Nel 1984 viveva in una specie di esilio, allenando nella CBA e
sforzandosi di riscattare una reputazione secondo la quale aveva qualcosa di
diverso dagli altri, era troppo anticonformista. Chi lo conosceva bene
sapeva quanto fosse intelligente, ma i vertici del mondo del basket erano
troppo infastiditi dalla sua fama di hippie, lo consideravano come un ribelle
che in gioventù, a New York, si era opposto al fondamentalismo del
Midwest, facendosi crescere i capelli e la barba e assumendo il ruolo di
ambasciatore del mondo del basket professionistico nella nascente
controcultura. Insieme a un compagno di squadra di colore, Eddie Mast, si
era fatto crescere la barba per celebrare i cambiamenti in atto e Red
Holzman non aveva avuto niente da ridire. Li chiamava i fratelli Smith,
riferendosi ai due uomini barbuti raffigurati sulle confezioni delle pastiglie
per la tosse. Anni dopo Holzman disse che Jackson era un giovane molto
affascinante «che cercava un difficile equilibrio fra ribellione e religione».
Jackson aveva protestato contro la guerra in Vietnam e in generale
sembrava un po’ troppo politicizzato per essere un giocatore di basket. A
quei tempi gli atleti potevano parlare delle loro convinzioni politiche, ma
soltanto se si allineavano a quelle convenzionali. Alla fine degli anni
sessanta e all’inizio dei settanta, Jackson aveva intrapreso un cammino di
crescita e scoperta personale, politica, filosofica e sessuale. Alla fine le sue
proteste si dimostrarono più personali che politiche, ma la maggior parte dei
dirigenti sportivi non se ne rese conto.
Non aveva aiutato nemmeno il fatto che avesse scritto un libro con
Charley Rosen, intitolato Maverick, sulla cui copertina era raffigurato lui
stesso con la barba. E peggio ancora della copertina era il contenuto, che in
un paio di passaggi secondari descriveva nel dettaglio, fra le altre cose, i
suoi esperimenti con le droghe, fra cui gli allucinogeni come l’LSD. Al
momento delle selezioni era questo che rimaneva impresso ai dirigenti, non
l’intelligenza o il palese amore per lo sport.
Quindi, nell’autunno del 1984, Jackson era alla sua seconda stagione
come allenatore nella CBA e cominciava a chiedersi se sarebbe mai riuscito
ad aggiudicarsi un posto di assistente allenatore nell’NBA. Non che allenare
nella CBA e a Portorico non gli piacesse: amava il basket e quei posti gli
piacevano, perché erano essenziali. Nella CBA i giocatori cambiavano
continuamente, quasi tutti vivevano nella speranza che un giorno sarebbe
arrivato un colpo di fortuna e sarebbero stati chiamati in NBA. Jackson
sapeva che ogni bravo giocatore che trovava gli sarebbe stato portato via
all’inizio dei playoff, come era giusto che fosse.
Comunque allenare nella CBA aveva qualcosa di onesto e di originale. La
squadra vincitrice di ogni quarto si aggiudicava un punto e al vincitore della
partita andavano tre punti: l’allenatore dei Patroons riceveva $25 di bonus
per ogni punto. Significava che se la squadra vinceva in ogni quarto e
quindi la partita, Jackson poteva ricevere un bonus di $175. Non c’è da
stupirsi che a volte, durante le partite disputate in casa, fra gli applausi del
pubblico si sentisse la voce solitaria di June Jackson che esultava con molto
più entusiasmo degli altri alla fine di ogni quarto vittorioso: «Sì! I soldi per
la spesa!».
Nella CBA si faceva la vera gavetta. Il livello del gioco era incostante. I
rapporti fra giocatori e allenatori erano spesso difficili: una volta un atleta
della CBA, furente per aver giocato troppo poco, infilò la testa
dell’allenatore in un gabinetto. In certi periodi alcune squadre avevano
chiuso i battenti senza pagare gli stipendi. Un allenatore era stato pagato in
posate d’argento. Una volta i Patroons cercarono di assumere un centro
della squadra dei Wildcats di Casper, in Wyoming, di nome Brad Wright:
2,13m, in uscita da UCLA, ma la squadra si rifiutò di cederlo. In quel
periodo i proprietari dei Wildcats proponevano un evento promozionale in
cui portavano una decappottabile in campo, aprivano il tettuccio e
incoraggiavano i tifosi a creare degli aeroplanini con i programmi. Se un
aeroplanino riusciva a entrare nell’auto, il tifoso che lo aveva lanciato la
vinceva. Sfortunatamente però la squadra non possedeva la macchina. Dato
che era molto lontana dagli spalti e che di solito gli aeroplanini di carta
avevano una gittata limitata, sembrava una trovata piuttosto sicura. Ma un
tifoso molto abile riuscì a realizzare uno splendido aeroplanino e a spedirlo
dentro la macchina. Per recuperare i soldi per pagare la macchina che
avevano promesso, i Wildcats dovettero cedere Wright alla squadra di
Albany.
Non era un mondo di voli privati, e neppure, in realtà, di autobus di linea.
Nonostante le grandi distanze fra le destinazioni delle trasferte, i Patroons
spesso si spostavano con un enorme furgone guidato da Phil Jackson. Il
giorno della partita lui e l’assistente Charley Rosen stancavano i giocatori
con un allenamento impegnativo, poi li caricavano sul furgone e alzavano il
riscaldamento al massimo per farli addormentare. Poi mettevano la musica
a tutto volume. Jackson era un abile guidatore e andava forte, intanto faceva
le parole crociate del New York Times stendendo il giornale sul volante. Nel
furgone si stava molto stretti, fra i nove giocatori, tutti molto grossi, e i due
allenatori. Certi viaggi erano davvero pesanti, in condizioni climatiche
avverse e con pochissimo tempo per arrivare alla partita. Una volta, mentre
andavano a Toronto, vennero fermati alla frontiera canadese. La guardia
fece un gesto verso il retro del furgone. «Scopo del viaggio?» Jackson,
esausto, rispose: «Sto portando degli schiavi fuggitivi in salvo in Canada».
La situazione economica di certe squadre della CBA era un po’ incerta,
ma nulla in confronto alla Lega di Portorico. Là ogni nuovo allenatore
riceveva un’auto e la prima cosa che gli allenatori veterani gli dicevano era
che qualsiasi cosa succedesse – dato che era molto probabile che venisse
licenziato dopo qualche partita – non doveva mai restituire le chiavi prima
di aver ricevuto l’intero compenso pattuito, perché il proprietario della
squadra sarebbe stato costretto a pagarlo finché aveva le chiavi della
macchina. Quando Jackson ci andò per la prima volta gli amici gli dissero
di non preoccuparsi se veniva licenziato, perché lo avrebbe subito assunto
un’altra squadra. Una volta fu licenziato dalla squadra che lo aveva
convocato e subito riassunto dalla squadra rivale, con sede in un villaggio a
soli dieci chilometri di distanza.
La Lega di Portorico era ancora più dura della CBA, a causa del
maggiore divario culturale fra allenatore e giocatori e la barriera linguistica,
non irrilevante. I pochi giocatori provenienti da New York, che parlavano
inglese, si offrivano di tradurre le istruzioni di Jackson ai compagni e si
divertivano a dire esattamente il contrario di quello che lui voleva. Come
minimo quella situazione lo obbligava ad allenare a un livello molto
essenziale, attenendosi ai fondamentali, e a imparare a entrare in contatto
con i giocatori superando grandissime differenze. Era costretto a cercare di
capire chi fosse ciascuno di loro e che cosa volesse dallo sport, un’abilità
che nel prosieguo della sua carriera si sarebbe rivelata fondamentale. Il
compenso inoltre era abbastanza ragionevole – $1.500 a settimana per otto
settimane. Se l’assegno arrivava, naturalmente.
Sia nella CBA che a Portorico Jackson si immerse in un basket
professionistico senza fronzoli e senza alcuno spazio per
l’autocommiserazione, e se la cavò egregiamente. Era intelligente e aveva
memoria fotografica, quindi anche se non c’erano i fondi per registrare le
partite lui si ricordava ogni azione anche a distanza di tempo. Era molto
bravo con i giocatori. Li trattava con rispetto e li considerava come
individui, senza porre condizioni a cui non avrebbero ubbidito, come il
coprifuoco e i controlli notturni. Percepiva le idiosincrasie di ognuno di loro
e cercava, nei limiti concessi dal suo ruolo, di adattarsi. Secondo Charley
Rosen ci fu un altro aspetto che giocò a suo favore, sia lì che in seguito,
quando rientrò nell’NBA, ed era lo stesso aspetto che inizialmente aveva
giocato contro di lui: era davvero diverso dagli altri. Non pensava come gli
altri allenatori e non si esprimeva come loro, e i giocatori facevano più
fatica a inquadrarlo. Non si presentava con un elenco di regole e un bisogno
di autorità. Era aperto, ascoltava, trattava tutti con rispetto e non usava la
prepotenza come facevano troppi altri che sgomitavano per farsi un nome.
Jackson si sforzava di capire i loro obiettivi e di vedere se riusciva a farli
collimare con quelli della squadra. Era molto intelligente, sempre un passo
avanti a tutti, e sapevano di non poterlo ingannare. Secondo Rosen il fatto
che fosse così imprevedibile era un vantaggio, teneva alto l’interesse dei
giocatori.
L’altra caratteristica che giocava a suo favore, secondo Rosen, era che
con tutta la sua sensibilità e disponibilità verso i giocatori era anche molto
duro e ogni cosa che diceva era sostenuta da una forte integrità. Certo, era
un allenatore insolitamente abile e sensibile, un uomo reso tollerante verso
le fragilità e le vulnerabilità degli altri dalla propria esperienza personale,
disponibile a vedere le persone per come erano veramente e non come
stereotipi, ma era anche molto esigente e su certe cose non transigeva.
Certo, era un esploratore che voleva introdurre le filosofie orientali, con i
loro ideali di semplicità e purezza, in una cultura sempre più materialistica,
ma era anche estremamente competitivo.
Dato che spesso mancava un giocatore, di solito si allenava con la
squadra ed essendo stato un bravo difensore pretendeva un gioco molto
fisico e continuava a praticarlo in prima persona. Alcuni giocatori avevano
anche quindici o vent’anni meno di lui e certi erano più veloci di quanto lui
fosse mai stato, ma non cedette mai di un palmo. Un giocatore di nome
Dave Magley, originario del Kansas, durante un allenamento riuscì a
mettere a segno troppi tiri contro di lui e Charley Rosen ricorda che Jackson
gli piantò deliberatamente il ginocchio nella coscia, tanto per ricordargli
qual era il prezzo da pagare per giocare contro un professionista.
Anche se quello si poteva considerare uno dei gironi più bassi
dell’universo del basket, Jackson era profondamente convinto che gli
allenamenti fossero sacri e quindi non ammetteva spettatori esterni. Aveva
imparato da Red Holzman che quello era il luogo dove ai giocatori era
concesso sbagliare e dove l’allenatore poteva criticarli senza il timore che le
sue parole uscissero dalla cerchia familiare. Lo stesso valeva per gli huddles
durante le partite. Anche quelli erano sacri. Una volta la squadra avversaria
aveva assunto il famoso San Diego Chicken, il più bravo fra le mascotte in
circolazione, come iniziativa promozionale. Durante un time out il mimo
vestito da pollo si infilò nell’huddle dei Patroons insieme ai giocatori.
Jackson gli si avvicinò con un grande sorriso e gli disse, in modo molto zen:
«Pollo, se non te ne vai fuori dai coglioni ti do un calcio nel culo».
In quegli anni a volte si chiedeva se sarebbe mai stato chiamato
dall’NBA. Altri suoi coetanei, ex giocatori che non avevano fatto la gavetta
nella giungla della CBA, venivano convocati e lui stava ancora aspettando.
Si faceva vedere agli eventi in cui si radunavano i professionisti del basket,
come il Chicago Combine, una delle grandi selezioni per i giocatori
universitari, ufficialmente per vedere se riusciva a scovare qualche talento
per i Patroons ma soprattutto per farsi notare dai pezzi grossi dell’NBA.
Invece non succedeva mai nulla, e nessuno sembrava voler ingaggiare un
contatto visivo. Jackson alla fine decise che la sua possibilità migliore era
quella di tentare con un personaggio piuttosto strano e in un certo senso
iconoclasta di nome Jerry Krause, il nuovo general manager dei Chicago
Bulls. Anche Krause era un outsider nel mondo del basket di alto livello,
ancora più di Jackson. Almeno Jackson era alto due metri, aveva giocato in
campionato e aveva molti amici fra gli ex giocatori e i giornalisti sportivi,
mentre Krause non aveva mai giocato, nemmeno all’università, era basso e
tarchiato, meno di uno e settanta, ed era sempre parecchio sovrappeso.
Periodicamente cercava di dimagrire: una volta Jerry Reinsdorf gli offrì un
premio se avesse perso peso e Krause scommise almeno una volta con
Michael Jordan che avrebbe perso un numero preciso di chili entro qualche
settimana, ma rinunciò quasi subito. Si diceva che per quanto fosse capace
di fare molte cose pregevoli come talent scout itinerante, una cosa che
proprio non gli riusciva era passare davanti a un Dunkin’ Donuts senza
fermarsi. La sua passione per i dolci era evidente anche nelle macchioline
che spesso comparivano sui suoi abiti. I giocatori lo chiamavano ‘Crumbs’,
briciole. Di sicuro non faceva parte della cerchia dei veterani del
professionismo, quelli che avevano giocato a livello medio o alto, che
conoscevano il gergo dello sport ed erano a proprio agio in quell’ambiente,
muovendosi dentro e fuori dagli spogliatoi con assoluta disinvoltura.
Non era facile scovare talenti nel basket universitario negli anni sessanta
e settanta: prima dell’avvento di ESPN e delle tv via cavo, quando
divennero disponibili i video di moltissime partite, il lavoro prevedeva
infiniti viaggi su piccoli aerei e minuscole macchine a noleggio per
raggiungere palestre fuori mano in scuole che nessuno, a parte gli altri
scout, aveva mai sentito nominare, per valutare i talenti acerbi. Chi lo
faceva doveva affrontare molta solitudine e uno dei modi per evitarla era
quello di viaggiare insieme. I cinque o sei scout più importanti sembravano
migrare in blocco verso certe scuole o certe partite: Scotty Stirling, Jerry
Colangelo, Stu Inman, Jerry West, Bob Ferry. Il vantaggio era la reciproca
compagnia, lo svantaggio era che finivano per vedere le stesse cose e
confermare le reciproche opinioni. Se un buon giocatore aveva una serata
no, tendevano a svalutarlo tutti insieme, rovinandogli la reputazione in
modo decisamente eccessivo.
In generale gli altri scout non erano particolarmente gentili con Krause.
Non riuscì mai a entrare nel club. Sembrava sempre che si sforzasse troppo.
Vestiva in modo trasandato ed era opinione diffusa che la sua igiene
personale lasciasse molto a desiderare. Bob Ferry, che era alto più di due
metri, aveva giocato da professionista per dieci anni e si era scontrato
spesso con Krause quando entrambi lavoravano per i Baltimore Bullets, si
divertiva a punzecchiarlo durante le partite in modo piuttosto crudele,
prendendo di mira in particolare la sua scarsa cura personale e l’interno
delle sue auto, che secondo lui erano stracolme di confezioni di cibo dei
vari fast food che costellavano le strade americane. Uno degli altri scout
notò che quel tipo di atteggiamento ricordava un po’ il bullismo degli
studenti del liceo contro i compagni più emarginati.
Krause non rispondeva mai a quelle battute. La sua risposta era quella di
lavorare sodo, più di tutti. Era uno scout, non c’era altro nella sua vita.
Sapeva di avere buon occhio, il resto del suo corpo non era rilevante e
comunque non poteva farci niente. Nel corso degli anni trasformò le
difficoltà in punti di forza. Armato di un’incrollabile determinazione e di
un’infinita dedizione al lavoro, escluso dai suoi pari, si creò una propria rete
di contatti e cominciò a scandagliare instancabilmente ogni angolo del
mondo del basket alla ricerca di talenti. Inizialmente esplorò le piccole
università nere del Sud, prima che, negli anni sessanta e settanta, i giovani
talenti di colore cominciassero a frequentare le migliori scuole di basket
della nazione. Quando quella ricca vena cominciò a esaurirsi si spostò in
Europa, dove ogni tanto si trovava un tesoro e dove poteva ascoltare le voci
su potenziali nuove star dell’NBA, come un centro lituano (Arvydas
Sabonis) che sapeva passare come Walton, e una guardia jugoslava (Drazen
Petrovic) che ricordava Pete Maravich.
Nei primi tempi a volte parlava con qualcuno dei pochi altri scout che
conosceva, e di cui si fidava, di quello che avrebbe fatto quando avesse
avuto una propria squadra, come era sicuro che sarebbe successo. Gli altri
guardavano quell’ometto basso e grasso, trasandato e malvestito e pensando
all’importanza dell’aspetto per i ruoli di rappresentanza scuotevano la testa
di nascosto, pensando ‘Jerry, sei bravo nel tuo lavoro e nessuno si impegna
più di te, ma questo non succederà, né ora né mai’.
Quando trovava un contatto che considerava valido non si limitava a
chiamare e parlare per cinque o dieci minuti, ma chiamava e parlava per ore
e prendeva un sacco di appunti, ricontrollando nel corso degli anni quanto
fossero accurate le previsioni delle sue fonti. Lavorando da solo, senza
legami stretti, divenne sempre più riservato e si guadagnò la fama di
paranoico perché cercava di nascondersi dagli altri scout se per caso
venivano ad assistere alla sua stessa partita. Quando accadeva, Krause
cercava di rendersi invisibile o almeno di fingere di non guardare il
giocatore che palesemente entrambi erano venuti a valutare. Quando i Bulls
vinsero il campionato e si ritrovarono in ultima posizione al primo turno del
draft, se qualcuno gli chiedeva un’opinione sui due o tre migliori giocatori
esordienti diventava ermetico e diceva il meno possibile. Perfino Jerry
Reinsdorf a volte lo prendeva in giro per questo: «Dai, Jerry, non c’è
bisogno di essere così reticente: non lo prenderemo comunque, perché
siamo al ventisettesimo posto».
Alla parete del suo ufficio era appesa una citazione anonima: «Ascolta
tutto, osserva tutto, non dire niente». La prima volta che la vide Johnny
Bach, l’assistente allenatore, ne restò sbalordito. Bach era un esperto di
storia e in particolare della Seconda guerra mondiale e aveva riconosciuto
immediatamente lo slogan dell’ammiraglio Wilhelm Canaris, il capo
dell’Abwehr, i servizi segreti tedeschi. «Jerry» gli disse, «è una frase molto
strana da tenere appesa al muro per un ebreo di Skokie». Bach uscì
dall’ufficio sicuro che il suo capo non avesse la minima idea dell’origine di
quelle parole.
I giornalisti e gli altri scout lo chiamavano ‘il Segugio’ e anno dopo anno
diventò sempre più riservato: registrava i giocatori negli alberghi sotto falso
nome e li portava al centro allenamenti dei Bulls per delle sessioni notturne,
in modo che non ci fosse nessuno e che non rischiasse di incontrare qualche
giornalista. Una volta portò Will Perdue, che era all’ultimo anno alla
Vanderbilt: non era particolarmente sorprendente perché l’interesse dei
Bulls per un centro grosso e resistente era dato per scontato. Billy
McKinney, uno dei vice di Krause, andò a prenderlo di notte all’aeroporto e
riferì al telefono dell’auto: «Qui Agente Blu ad Agente Arancio. Il pacco è
stato ritirato ed è in consegna». La sessione di allenamento era prenotata a
tarda notte e Perdue venne registrato in albergo sotto falso nome, il che creò
un problema il giorno successivo, quando l’autista che andò a prenderlo si
presentò nella lobby chiamando lo pseudonimo che a quel punto il giocatore
aveva dimenticato.
Era stato Jerry Krause a volere che i Baltimore Bullets scegliessero Phil
Jackson nel 1967 e lo considerava ancora una delle sue scoperte. Krause
non era il tipo da abbandonare qualcuno su cui aveva investito e si era
tenuto in contatto con Jackson nel corso degli anni: rispettava la sua
intelligenza e pensava che col tempo sarebbe diventato un bravo allenatore.
Quando andò alla CBA nessuno gli restò più vicino di Jerry Krause. Una
volta lo chiamò per chiedergli un’analisi dei giocatori della CBA e Jackson
fece i salti di gioia: era una rara occasione di dimostrare quanto valeva. Si
sedette al computer e scrisse un resoconto dettagliato su ogni giocatore
rilevante della Lega. Krause ne fu molto colpito: Jackson era davvero bravo
come aveva sospettato. In breve cominciarono a fare lunghe conversazioni
in cui Krause, sempre alla ricerca di informazioni e di pettegolezzi sul
basket, interrogava a fondo Jackson sull’area quasi sotterranea dello sport in
cui si muoveva. Quelle chiamate divennero la principale speranza di
Jackson nella sua aspirazione ad approdare nell’NBA; Krause da parte sua
era impressionato dai resoconti di Jackson, dalla sua profonda conoscenza
del gioco e dalla sottigliezza con cui discuteva dei diversi metodi per
motivare i vari giocatori. Krause era convinto dell’intelligenza di Jackson,
anzi se poteva esserci un problema era che lo fosse addirittura troppo per
fare da assistente a certi allenatori, che sarebbero andati in ansia se avessero
pensato che era migliore di loro.
Krause aveva già lavorato in precedenza per i Bulls come responsabile
dei giocatori fra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta.
L’allenatore, a quei tempi, era Dick Motta e il loro rapporto era stato
terribile: erano due uomini molto emotivi che sembravano tirare fuori il
peggio l’uno dall’altro. Semplicemente, Motta odiava Krause e ne era
cordialmente ricambiato. Pat Williams, il general manager, preso in mezzo
nel tremendo conflitto quotidiano fra i due, era certo di aver sviluppato
capacità diplomatiche degne del segretario di Stato. Il momento peggiore fu
il draft del 1970. Quell’anno, Krause si era invaghito di un giocatore del
New Mexico di nome Jimmy Collins. Motta invece aveva guardato per caso
uno dei gironi dell’NCAA ed era rimasto fortemente colpito da una piccola
guardia di nome Nate Archibald dell’Università del Texas-El Paso, il cui
talento in passato non aveva potuto emergere a causa del ritmo rallentato
preferito dalla sua squadra. Quella sera, Motta chiamò Pat Williams e gli
disse che dovevano accaparrarsi Archibald. «Diventerà un grandissimo
giocatore in NBA» insistette. Krause era altrettanto convinto della scelta di
Collins. Dopo varie discussioni fu stabilito che avrebbero scelto prima
Collins e poi Archibald al secondo turno, in ventisettesima posizione.
«E se Archibald sarà già stato preso, quando arriveremo al secondo
turno?» chiese Williams a Motta.
«Allora ce lo ritroveremo contro ogni anno» rispose lui. Cincinnati se lo
aggiudicò con la seconda scelta del secondo turno e la cosa finì lì. Collins
fu un flop, giocò un totale di 612 minuti in due stagioni prima di andarsene,
mentre Archibald giocò per tredici anni e partecipò per sei volte all’All Star
Game. Da quel momento in avanti il rapporto fra Krause e Motta divenne
realmente tossico e in breve Motta mise la dirigenza davanti a un
ultimatum: o io o lui. Quindi Krause se ne andò a lavorare a Phoenix.
Tornò a Chicago come general manager dopo il primo anno di Michael
Jordan, chiamato da Reinsdorf che aveva messo insieme un gruppo di
finanziatori. Quando Krause nominò Stan Albeck come allenatore gli
suggerì di chiamare Jackson in qualità di assistente. Quando fu convocato
da Portorico per il colloquio Jackson si presentò a Chicago con la barba e
un panama con una lunga piuma, nonché una maglietta sgargiante. In realtà
non aveva mai avuto una reale possibilità di ottenere l’incarico. Krause non
voleva la prima scelta di Albeck, un tizio di nome John Killilea, e Albeck
non voleva Jackson: i due uomini furono oggetto di uno scambio, pedine
tolte dalla scacchiera in una partita più grande di loro.
Tre anni più tardi Phil Jackson allenava ancora nella CBA e aveva deciso
di uscirne, perché non voleva dedicare la sua vita a quella Lega. Lui e June
avevano quattro figli insieme, e Phil aveva un’altra figlia da un matrimonio
precedente. In pratica finanziava gli anni alla CBA con i guadagni delle
stagioni da giocatore. Se l’NBA non era accessibile, avrebbe dovuto
trovarsi un altro lavoro. C’era la possibilità di entrare nell’ambito
accademico, magari nel campo della filosofia o della religione, o forse di
andare alla scuola di legge. Aveva fatto un test attitudinale che aveva
mostrato buone possibilità in entrambi i settori, ma anche attitudini
nell’economia domestica o come guida per escursioni. Stava valutando le
sue opzioni quando arrivò una nuova chiamata di Krause. Anni dopo,
quando fra i due uomini si accese un conflitto, Krause ricordò a Jackson che
lo aveva salvato dal sussidio di disoccupazione, cosa che era vera solo in
parte perché Jackson aveva effettivamente compilato i moduli ma non
aveva mai inoltrato la richiesta. E comunque un uomo dotato come Phil
Jackson non sarebbe rimasto disoccupato a lungo.
Era l’estate della stagione 1987-1988 e nello staff di Doug Collins si era
aperta una posizione vacante quando uno degli assistenti, Gene Littles, era
passato ai Charlotte Hornets come responsabile dei giocatori. Krause disse a
Jackson di proporsi. Lui e Butch Beard, un altro ex giocatore dei Knicks,
erano gli unici candidati. «Questa volta voglio che ti tagli i capelli, ti radi e
ti metti un completo» gli disse. Aggiunse anche un altro consiglio:
indossare entrambi gli anelli vinti con i Knicks. Jackson non sembrava
convinto di quell’idea, perché contrastava con la sua istintiva modestia, ma
Krause insistette dicendo che sarebbe stata una buona cosa per i giocatori
più giovani vedere gli anelli. Doug Collins non sembrava avere preferenze
particolari e Krause non ebbe problemi a ottenere l’incarico per Jackson. Il
fatto che Jackson fosse un outsider e che in quel momento fosse piuttosto
disprezzato dall’establishment del basket probabilmente giocò a suo favore
perché Krause sembrava convinto, anche se inconsapevolmente, che
Jackson avrebbe avuto un forte obbligo di lealtà verso l’uomo che gli aveva
offerto la prima occasione concreta di entrare nell’NBA. Krause amava
guardare avanti e ci teneva ad avere un uomo di fiducia che muoveva i fili.
A quel punto le porte dell’NBA si erano aperte. L’incarico era arrivato
all’inizio della stagione, quindi June Jackson e i bambini restarono a casa, a
Woodstock, dove lei aveva appena aperto un ospizio, e lui prese una stanza
d’albergo a Chicago. Non poteva arrivare in una situazione migliore. Doug
Collins era un allenatore geniale e molto determinato e aveva altri due
assistenti più anziani, oltre la sessantina, che furono di grande aiuto a
Jackson nel processo di adattamento: Tex Winter, una specie di decano del
basket, che allenava da quarant’anni, e Johnny Bach, anch’egli fra i più
abili e rispettati esperti del settore.
Jackson arrivò proprio quando i Bulls stavano cominciando a crescere.
L’anno precedente, al draft, Krause aveva fatto la scelta migliore della sua
carriera, quella che aveva consolidato la sua reputazione. Aveva preso i due
giocatori che finalmente avrebbero fornito a Michael Jordan l’aiuto che gli
serviva: Scottie Pippen e Horace Grant, che formarono lo zoccolo duro del
primo ciclo vittorioso. Pippen giocava in modo molto grezzo –
guardandolo, qualsiasi professionista era in grado di riconoscere le infinite
possibilità fisiche create dalla sua struttura unica e dal grande talento
naturale, ma anche di capire che fino a quel momento non era stato formato
a dovere – quindi quell’anno il compito principale di Jackson fu di lavorare
con lui. Si impegnò per migliorare il suo stile di gioco, insegnandogli come
andare a canestro e come gestire al meglio la sua incredibile prestanza
fisica. Tutto questo contribuì a creare un legame di fiducia fra i due, che si
sarebbe rivelato molto utile negli anni a venire.
Con Michael Jordan invece Phil Jackson non cominciò in modo tanto
positivo. In precedenza, parlando con gli altri allenatori, era entrata nel
discorso la sua grandezza. Jackson aveva citato Red Holzman dicendo che i
grandi giocatori di basket erano quelli che rendevano migliori i compagni.
Doug Collins propose immediatamente che lo dicesse anche a Jordan e
Jackson, pur chiedendosi se non fosse una trappola, alla fine acconsentì.
Scese a vedere Jordan e ripeté quello che aveva detto, anche se in tono
leggermente apologetico e sottolineando chiaramente che Collins gli aveva
chiesto di riferirglielo. Jordan ascoltò quasi senza intervenire, senza
espressione, anche se non era contento. Più tardi parlò di quella
conversazione con i compagni e aggiunse che era molto più facile fare
passaggi efficaci quando a riceverli c’erano Earl Monroe, Walt Frazier e
Bill Bradley.
Era un ritornello che Michael Jordan aveva sentito anche troppo spesso e
che avrebbe sentito ancora, con sempre maggiore insistenza: poteva essere
il più grande talento in campo, il miglior giocatore di tutti i tempi, ma aveva
passato il test decisivo, quello di elevare i compagni? Più o meno in quel
periodo un vecchio amico di Jackson, Bill Bradley, che allora era senatore
degli Stati Uniti, ricevette una visita dall’ex collega Oscar Robertson,
considerato una delle due guardie migliori della sua epoca. «Quel Michael
Jordan è davvero speciale» disse Bradley, ma Robertson non fu d’accordo.
«No, non lo è, almeno non per me». Bradley fu stupito da quella risposta e
gliene chiese il motivo. «Un giocatore veramente speciale rende bravo
anche il peggior elemento della squadra» spiegò Robertson «e Michael non
ci è ancora arrivato».
All’interno dell’élite del basket Jordan non era ancora considerato alla
stregua di Larry Bird e Magic Johnson, che sembravano trascinare i
compagni alle finali anno dopo anno. Il fatto che fra i compagni di Bird ci
fossero McHale, Parish, Johnson e Ainge, fra quelli di Magic Johnson
Abdul-Jabbar, Worthy e Mychal Thompson (tutti e tre, come Magic stesso,
prime scelte nel draft) più Michael Cooper e Byron Scott, e che fra quelli di
Jordan ci fossero Granville Waiters, Quintin Dailey, Dave Corzine, Brad
Sellers e Orlando Woolridge non fu menzionato. Michael Jordan era ben
consapevole di quel ritornello e non vedeva l’ora di superarlo e di avere dei
compagni che potessero arrivare insieme a lui al livello successivo.
Riversava la sua furia contro gli dèi del basket, che lo lasciavano privo di
aiuto, ma fino a quel momento non aveva mai parlato col suo agente della
possibilità di lasciare Chicago per trovare una squadra migliore.
Riconosceva che il suo compito era quello di far crescere la squadra, ma
sembrava che nella mente di Krause il progetto di migliorarla procedesse
troppo lentamente e questo non aiutava la sua relazione con Jordan.
Jerry Krause pensava che la squadra che aveva preso in mano nel 1985
fosse un disastro. Alcuni giocatori erano bravi ragazzi ma senza talento,
altri non solo avevano poco talento ma anche problemi caratteriali. Almeno
cinque elementi della squadra originaria erano entrati in programmi di
disintossicazione. Il prototipo di quel genere di giocatori sembrava essere
Orlando Woolridge. Era dotato, robusto, con un corpo che sembrava
cesellato nella pietra, ma secondo i compagni non giocava in modo fisico.
A volte Jordan si sfogava contro di lui durante gli allenamenti: «Se avessi
un corpo come il tuo vedresti gli avversari volare via». Krause non vedeva
l’ora di cominciare a scaricare i pesi morti e lo fece in modo rapido e
spietato, sfruttando accuratamente i draft per creare un substrato di elementi
selezionati che gli avrebbe permesso poi di attirare in futuro giocatori di
qualità.
Lentamente avrebbe creato una nuova squadra. Sarebbe stata una novità
nel mondo del basket, una squadra creata intorno a una guardia, e questo
significava che i compagni avrebbero dovuto imparare a essere altruisti.
Innanzitutto, aveva bisogno di un po’ di forza in prima linea e di una
guardia del corpo che proteggesse Jordan nelle partite in cui gli avversari
cercavano di piazzare qualche colpo basso. Bisognava che ci fosse un
prezzo da pagare per chi provava ad abbatterlo.
Il primo acquisto significativo avvenne nella primavera del 1985, quando
Krause notò un giovane giocatore della Virginia Union dal corpo grande e
potente che sembrava disposto a buttarsi a terra per recuperare qualsiasi
palla. Il suo nome era Charles Oakley e secondo Krause aveva tutte le
qualità per essere un rimbalzista eccezionale: il corpo giusto e il giusto
atteggiamento, e in più, come benedizione aggiuntiva, le mani giuste.
Krause chiamò Clarence (Big House) Gaines, il leggendario allenatore del
North Carolina Central, una delle sue fonti preferite. La squadra di Gaines
giocava regolarmente contro Oakley e Gaines pensava che fosse davvero
speciale: un ragazzo grande, forte e affamato con una meravigliosa etica del
lavoro, molto malleabile, che poteva solo migliorare.
Il problema con Oakley, per quanto riguardava Krause, era che con il
procedere dei tornei universitari e con il Chicago Combine, il suo valore
continuava a salire. Quell’anno Chicago aveva l’undicesima scelta,
Cleveland la nona e Phoenix, una squadra che si riteneva facesse un ottimo
scouting, la decima. Jerry Colangelo spergiurava che Phoenix avrebbe preso
Ed Pinckney, ma Krause temeva la scelta di Cleveland. Alla fine, fece un
patto con i Cavaliers: concesse loro Ennis Whatley e il suo posto al secondo
turno del draft, e Cleveland scelse Charles Oakley per Chicago. Chicago
scelse Keith Lee per Cleveland e poi se li scambiarono. A Chicago i tifosi
che si erano radunati per il draft fischiarono la scelta di Lee e anche lo
scambio con Oakley, ma il primo pezzo del puzzle era stato piazzato.
Oakley si rivelò essere tutto quello che Krause aveva sperato, e anche di
più. Ancora meglio, Michael Jordan, che aveva cominciato a guardare la
dirigenza con occhio scettico, se non ostile, adorava Oakley che divenne
non soltanto la sua guardia del corpo personale, il suo protettore in campo,
ma il suo migliore amico nella squadra.
Ma le trattative di Krause non erano finite. Voleva qualche tiratore puro
da mettere al fianco di Jordan per limitare le doppie marcature che avrebbe
affrontato. Scelse Kyle Macy di Phoenix, un talento eccezionale che però
aveva un’abilità fisica piuttosto limitata per gli standard dell’NBA. Anche
se quel primo anno Macy giocò trenta minuti a partita, i suoi limiti erano
palesi, soprattutto in difesa. Krause però fece anche una mossa per
compensare, scegliendo un giovane giocatore chiamato John Paxson che
proveniva da San Antonio. Molto prima di assoldare Macy, Krause aveva
cominciato a corteggiare Paxson, il fratello minore, più basso, di un
giocatore da All Star di nome Jim Paxson. In quel momento c’erano altre
offerte sul tavolo per Paxson, una di Atlanta e una molto buona di Phoenix.
Quando Macy entrò nei Bulls, Paxson pensò che Chicago si sarebbe tirata
indietro, ma con sua sorpresa Krause alzò l’offerta: tre anni garantiti. Per un
giocatore che lottava con tutte le sue forze per restare nella Lega e che nelle
prime due stagioni aveva segnato una media di 4,5 punti a partita, era una
benedizione.
C’era poi l’ulteriore attrattiva di giocare accanto a Michael Jordan,
sapendo di poter avere molte più occasioni di tiro grazie a lui. Krause disse
a Paxson che sperava di creare qualcosa di nuovo a Chicago, una squadra
costruita intorno a un tiratore, ed era un’idea intrigante. Tutti i membri della
squadra dovevano saper tirare bene e la palla si sarebbe mossa in fretta. A
Paxson piacque l’idea, gli sembrava che le sue attitudini fossero quelle
giuste. Macy probabilmente era il tiratore migliore fra i due, anche se non
era ancora certo che avesse le forze fisiche sufficienti. Anche se Macy in
quella stagione giocò più minuti e segnò più punti, Paxson era chiaramente
un giocatore e un atleta più completo e soprattutto a Jordan era più
simpatico.
Era fondamentale guadagnarsi il rispetto di Jordan, se non la sua fiducia
assoluta, e Paxson l’aveva fatto già ai tempi dell’università. Avevano
entrambi partecipato a una tournée in Europa con una squadra di giovani
promesse. Durante una partita in una piccola palestra jugoslava, Paxson
aveva segnato un tiro decisivo, in sospensione da fuori all’ultimo secondo.
Jordan non aveva dimenticato quel tiro e non fu mai duro con Paxson come
lo era con la maggior parte degli altri. L’anno successivo Macy se ne andò e
Paxson entrò a far parte integrante degli schemi di gioco come perfetto
compagno di Jordan: sapeva esattamente che cosa doveva e non doveva fare
e non usciva mai dal suo ruolo. Una volta Chuck Daly disse: «Era sempre
legato a Michael, come se ci fosse una fune fra loro, ed era pronto a
ucciderti ogni volta che lui prendeva la palla».
Jordan non fu particolarmente soddisfatto delle scelte al draft dell’anno
successivo. Non fu un’annata ricca e i Bulls, che avevano il nono turno,
scelsero Brad Sellers da Ohio State. Era alto e magro, due metri e tredici
per soli cento chili, e giocava di finezza e non di forza. A quanto pareva
aveva un buon tiro da fuori ma non era il tipo da subire – o dare – colpi
bassi, che invece era ciò che serviva ai Bulls.
Sellers era stato una scelta personale di Krause e gli allenatori non
sapevano bene cosa fare di lui. Il giocatore che Doug Collins, altri assistenti
e Michael Jordan volevano a tutti i costi era una guardia di talento di Duke
di nome Johnny Dawkins. Dawkins aveva fatto bene nella ACC ed era stato
l’artefice di una vittoria particolarmente difficile contro Carolina, quando
Jordan era ancora a Chapel Hill. Per un po’ era sembrato che i Bulls
avrebbero preso lui. La sera prima del draft Collins aveva addirittura detto
all’allenatore di Duke, Mike Krzyzewski, che Chicago avrebbe scelto
Dawkins, rappresentato da David Falk. Ma Krause non era entusiasta di
Dawkins: pensava che fosse troppo magro e che non avrebbe avuto la forza
di resistere alla durezza dell’NBA. Dawkins invece si dimostrò molto
meglio di Brad Sellers e giocò nella Lega per otto anni buoni.
Quello era il genere di decisione che Jordan non perdonava facilmente.
Sia lui che Falk ritenevano che indicasse un grave difetto di Krause: il suo
ego interferiva con le sue scelte e non gli consentiva di agire nel modo più
razionale durante i draft. Secondo loro, se il giocatore più ovvio avesse
funzionato, Krause non ne avrebbe ricavato abbastanza merito, quindi era
portato a rischiare con decisioni astruse perché, se si fossero poi rivelate
vincenti, avrebbe ottenuto un credito speciale del quale, a quanto pareva,
aveva disperatamente bisogno. Gran parte del risentimento latente che
Jordan covava nei confronti di Krause, e che lo portò a una diffidenza
sempre maggiore, derivava dalla scelta Dawkins-Sellers.
Con Sellers, Krause fece un secondo errore. Non solo lo impose, ma lo
esaltò in tutti i modi con staff e giocatori, esagerando con l’entusiasmo sul
suo radioso futuro nel professionismo. Michael Jordan non permise mai a
Jerry Krause di dimenticare una sola parola di quei discorsi. Aveva deciso
quasi subito che Sellers era un giocatore troppo morbido, quando i Bulls
avevano un disperato bisogno di forza. Sellers non giocava come un centro
ma come un’ala piccola in un corpo di due metri e tredici e Jordan, in
allenamento, era particolarmente brutale con lui.
Era un presagio dei tempi a venire. Krause aveva sempre nuove prove di
quanto fosse difficile trovare i giocatori giusti per coesistere con Michael
Jordan. Quando Jordan si fissava su un giocatore non lo mollava più e
continuava a sfidarlo a fare meglio, in modi che pochi, soprattutto in quella
squadra, erano in grado di sostenere. A volte gli allenatori si chiedevano, ad
alta voce, se non fosse troppo duro con i compagni ma lui rispondeva,
correttamente, che se non sopportavano la pressione in allenamento come
avrebbero potuto sopportarla durante i playoff? Quando Johnny Bach lo
avvertì che stava distruggendo uno dei compagni durante gli allenamenti di
preseason, rispose con freddezza: «Devo prepararmi, Johnny».
La verità era che nell’organizzazione dei Bulls esisteva già una divisione
che avrebbe portato a conseguenze molto gravi. Michael Jordan aveva
cominciato a tormentare Jerry Krause e a trattarlo con disprezzo. Non era
un bello spettacolo, neanche per coloro che stavano dalla sua parte in quel
conflitto e che non avevano particolare simpatia per Krause. C’era una certa
crudeltà nel suo atteggiamento, una crudeltà non necessaria. Le origini dello
scontro erano complesse. In parte risalivano chiaramente alla gestione
dell’infortunio al piede da parte di Krause, anche se Jordan avrebbe potuto
– ma non lo fece – prendersela in uguale misura anche con Reinsdorf, a
quel riguardo.
Un altro elemento era l’innato disgusto per una persona che sembrava
avere un terribile bisogno di prendersi il merito di moltissime cose, alcune
delle quali aveva effettivamente fatto, altre no. Il comportamento di Krause
contrastava nettamente con la consapevole modestia che era il marchio di
fabbrica di Carolina, a partire da Dean Smith, che non si arrogava mai il
merito di nulla.
Dopo aver faticato tanto e tanto a lungo come outsider nel mondo dello
sport professionistico, prima di arrivare ai vertici, Jerry Krause aveva la
tendenza ad attribuirsi anche meriti non suoi. Le storie che raccontava
riguardo al suo ruolo erano considerate esagerate. Ripeteva sempre con
dovizia di particolari come aveva notato e prescelto il grande Earl Monroe
quando era a Winston-Salem. Anche se era vero che Winston-Salem era la
tipica piccola scuola nera che in passato era stata sistematicamente ignorata
dagli scout, il talento di Earl Monroe non era esattamente un segreto.
Quando i Bullets lo avevano preso era stato la seconda scelta del draft a
livello nazionale. Sia Gene Shue, il capo allenatore di Baltimore, che Bob
Ferry, il suo assistente, avevano avuto un ruolo importante nella sua
selezione. «Jerry non ebbe niente a che fare con la scelta di Earl Monroe»
dichiarò anni dopo Gene Shue. «Era il nostro scout: un giovane che batteva
il territorio per noi e che si impegnava moltissimo. Nessuno lavorava più
sodo di lui. Ma Earl Monroe non era un segreto, tutti sapevano di lui, e
aveva giocato in modo spettacolare in diverse partite a cui avevo assistito
anch’io, era uno dei giocatori più entusiasmanti che avessi mai visto. Gli
unici dubbi venivano da qualche addetto ai lavori che pensava si mettesse
troppo in mostra e si chiedeva se sarebbe riuscito a inserirsi nell’ambiente
dell’NBA. Ma io adoravo quella sua componente di esibizionismo. Bisogna
ricordare che Baltimora era una città difficile da coinvolgere. Quindi quello
che per qualcuno era uno svantaggio, per me era un valore aggiunto: io
cercavo di portare un po’ di eccitazione in una squadra che era quasi morta.
Jerry non aveva potere decisionale». Anni dopo Kevin Loughery, che era
allenatore dei Bulls quando la coppia Reinsdorf-Krause prese il potere, e
che aveva giocato insieme a Earl Monroe per quattro anni, disse che non
appena appresa la notizia del cambio di gestione aveva capito che avrebbe
dovuto andarsene. «Ero stato a Baltimora quando c’era anche Krause e
sapevo che in quel periodo non era altro che un fattorino sopravvalutato.
Sapevo anche che le storie che raccontava su come aveva scoperto Earl
Monroe erano molto esagerate e che l’ultima persona che avrebbe voluto
intorno era un testimone del suo passato».
Quando sentiva Krause raccontare la storia di Monroe, Michael Jordan
spesso gli gridava, dal fondo dell’autobus: «Certo, Jerry, e se non fosse
stato per la tua brillante scoperta Monroe sarebbe andato oltre la terza
scelta?» Jordan diceva anche che entro pochi anni, quando i ricordi delle
persone si fossero offuscati e ci fossero stati in circolazione meno testimoni
diretti, Krause si sarebbe preso il merito di aver scelto anche lui. Quello che
infastidiva alcuni degli allenatori era il fatto che inizialmente Krause
sembrava divertito da quelle battute o comunque sembrava fraintenderne
una parte, illudendosi di essere finalmente entrato nella cerchia degli eletti.
Una parte del problema fra Krause e Jordan, comunque, risaliva a qualcosa
di antico come i cortili delle scuole, dove certi ragazzi sono popolari e altri
sembrano nati per fare da bersaglio. Jordan, che aveva talento, era dotato,
era sempre il migliore in qualsiasi attività decidesse di intraprendere, era la
personalità alfa e vedeva in Krause – basso, poco attraente, disperatamente
desideroso di farsi accettare ma privo di qualunque requisito di base – la
personalità omega, quella condannata a restare ai margini estremi di
qualunque gruppo.
Era una dinamica strana e disgraziata e fece del male a entrambi. Krause
tendeva a stare troppo intorno ai giocatori e si attirava ancora più battute da
parte di Jordan. Tex Winter, uno dei pochi membri dell’organizzazione dei
Bulls che andava d’accordo con entrambi e che si mantenne sempre
neutrale in quella tensione in costante crescita, pensava che Jordan in quelle
occasioni mostrasse il suo lato più crudele e meno amabile. Ma pensava
anche che Krause si sforzasse troppo di avvicinarsi a Jordan e di diventare
suo amico. Doug Collins si rendeva conto della situazione e cercò di
avvertire entrambi sollecitandoli a lasciar perdere. Quando la sua posizione
era ancora relativamente sicura, Collins disse a Krause che il loro compito
non era quello di diventare amici di Jordan ma di guadagnarsi il suo
rispetto, e che probabilmente sarebbe stato meglio interagire con lui il meno
possibile.
16
Chicago; Seattle, 1997
Chicago, 1982-1987
Il draft del 1987 aveva posto le basi per il primo anello dei Bulls. I Bulls
scelsero sia Scottie Pippen che Horace Grant: il primo sarebbe diventato
non solo una presenza fissa agli All Star Game ma uno dei cinquanta
migliori giocatori NBA di sempre, il secondo sarebbe in seguito stato
riconosciuto come una delle due o tre ali grandi migliori della Lega.
Entrambi avevano raggiunto la piena maturità atletica piuttosto tardi. Fra i
due, Grant non si era fatto notare particolarmente durante i tornei
preliminari, perché Pippen attirava tutta l’attenzione su di sé con il suo
fisico meraviglioso e le braccia lunghissime e le sue quotazioni erano salite
rapidamente. La sua università di provenienza, la Central Arkansas, a
prevalenza bianca, non era particolarmente rilevante nel mondo del basket e
non era meta annuale di pellegrinaggi da parte degli scout. In un’epoca di
scouting sempre più sofisticato, in cui sembrava possibile identificare già
dalla preadolescenza i giovani americani che nel giro di dieci anni
sarebbero diventati grandi atleti professionisti, Scottie Pippen dimostrò che
perfino in un mondo sportivo industrializzato c’era ancora spazio per le
sorprese. Al liceo, nella piccola città di Hamburg in Arkansas, era stato un
buon giocatore, anche se non il migliore della squadra. Non era alto, circa
uno e ottantacinque, inoltre era molto magro. Secondo il suo allenatore di
high school, Donald Wayne, aveva un’ottima visione del campo ma era
lento (un giudizio che avrebbe stupito i suoi avversari in NBA), soprattutto
perché i suoi piedi erano cresciuti molto in fretta e il resto del corpo non si
era ancora adeguato. Al liceo non aveva dato particolari segni di eccellenza
atletica, tanto che nessuna delle università della zona, tutte appartenenti alla
seconda o terza Divisione, avevano mostrato interesse verso di lui
nonostante gli sforzi dell’allenatore. Qualche assistente allenatore era
andato a vederlo, ma nessuno ne era rimasto colpito.
Alla fine, più per aiutare un bravo ragazzo che per una premonizione dei
suoi futuri successi sportivi, Donald Wayne chiamò il suo vecchio
allenatore all’università, Don Dyer, che in quel momento lavorava a Central
Arkansas, a Conway. Wayne chiese a Dyer, come favore personale, di dare
una possibilità a Pippen: pensava che fosse una bella persona, anche se non
un grande giocatore di basket, ed era fermamente convinto che i bravi
ragazzi con una forte etica del lavoro dovessero avere la possibilità di
accedere all’università e di uscire dalla condizione di povertà rurale della
regione. Chiese a Dyer di offrirgli una borsa di studio: non poteva garantire
che Pippen sarebbe stato un buon giocatore a livello universitario, ma ci
teneva moltissimo a dargli un’opportunità. Era convinto che per un ragazzo
giovane fosse molto importante avere un’occasione di andare all’università,
almeno sarebbe stato libero di sfruttarla come meglio poteva. Dyer aveva
stima di Wayne e decise di correre il rischio: lo fece non tanto perché
pensava di acquistare un grande giocatore, ma perché sentiva di fare la cosa
giusta per il suo ex allievo. Al momento non aveva borse di studio
disponibili, così Pippen arrivò grazie a un programma federale per ragazzi
bisognosi chiamato Pell Grant e inizialmente lavorò come team manager.
Poco dopo però due dei beneficiari delle borse di studio di Dyer
abbandonarono la squadra e Pippen ne ottenne una.
Secondo Dyer, a quei tempi Scottie pesava circa sessantaquattro chili ma
Arch Jones, il suo assistente e futuro successore, pensava che fossero
addirittura cinquantanove. Dyer però riconobbe che il ragazzo aveva del
talento. Al primo anno si comportò egregiamente, giocò sempre di più e alla
fine fu promosso titolare. Aveva un ottimo senso del gioco, in parte perché
al liceo aveva giocato come playmaker e aveva imparato a tenere sempre
sott’occhio tutto il campo. Inoltre, stava cominciando a crescere, da uno e
novanta al secondo anno a uno e novantasei al terzo fino a superare i due
metri all’ultimo anno. Al secondo anno saltò metà della stagione perché i
suoi voti erano peggiorati e aveva perso il diritto di giocare. Dyer
comunque era convinto che la squadra stesse migliorando, soprattutto
grazie all’apporto di Pippen. All’improvviso divenne chiaro che era il
miglior giocatore che avessero avuto da anni. Guadagnò peso, fino ad
arrivare a ottantotto chili, ma era sempre veloce e leggeva il campo con
abilità. Dyer gli affidò tre diversi ruoli: centro, ala grande e ala piccola.
Questo tornò molto utile a Pippen quando entrò nel basket professionistico
perché, anche se in base alla corporatura era destinato al ruolo di ala
piccola, all’università aveva trascorso così tanto tempo a gestire la palla che
i suoi talenti erano sorprendentemente variegati. All’ultimo anno era ancora
in crescita e Dyer decise che avrebbe potuto ambire a diventare
professionista. Non era facile prevedere quanto sarebbe diventato bravo,
finché i suoi avversari erano Arkansas Tech, Ouachita State e Henderson
State, ma in certi momenti sembrava essere il più bravo di tutti ed era
capace di numeri che Dyer e Jones avevano visto fare soltanto ai
professionisti.
Appena arrivato all’università, a diciassette anni, Scottie Pippen aveva
scritto in un tema per il corso di educazione fisica che da grande voleva
giocare nell’NBA. In quel momento, magro com’era, sembrava un sogno
impossibile. Ma quando arrivò al terzo anno divenne chiaro che era il
miglior giocatore della squadra e forse della Conference, e per quanto
potevano vedere i suoi allenatori, non c’erano limiti a quanto poteva
migliorare: erano convinti che le sue doti atletiche gli avrebbero permesso
di giocare a livello NBA, ma non avevano modo di fare stime precise.
Entrambi gli parlarono del suo sogno e gli dissero che lo consideravano
realizzabile, se continuava a impegnarsi al massimo. Se durante un
esercizio che gli riusciva più facilmente rispetto agli altri Jones vedeva che
si risparmiava, lo pungolava dicendo: «Questo ti costerà caro». Intendeva
che gli sarebbe costato il posto all’NBA. Era diventato un tormentone:
«Questo ti costerà caro».
Dyer e Jones si impegnarono, ciascuno a suo modo, per offrirgli una
possibilità di diventare professionista. Dyer conosceva Bob Bass, che a quei
tempi lavorava per San Antonio, e lo chiamò per parlargli di Pippen, inoltre
scrisse ai Dallas Mavericks. Nessuna delle due iniziative suscitò alcuna
reazione. Intanto Jones, stupito dalla sua stessa audacia, pur essendo un
semplice allenatore di provincia prese il telefono e chiamò Marty Blake, il
responsabile dello scouting dell’NBA. «Marty» gli disse, «tu non mi
conosci e non conosci la mia Conference, ma ho un ragazzo quaggiù che
gioca molto bene e penso che potrebbe interessare all’NBA». L’Arkansas
Intercollegiate Conference (AIC) era piccola, ma Blake, un veterano che
aveva battuto ogni angolo del paese negli anni cinquanta, la conosceva
bene. Jones gli descrisse l’atletismo di Pippen, parlò delle sue braccia
eccezionalmente lunghe e della sua capacità di ricoprire diversi ruoli. Blake
lo prese sul serio e disse che avrebbe mandato uno scout. Così iniziò la
scoperta e da allora nella regione comparvero una serie di altri scout.
Jerry Krause sentì parlare di Pippen proprio da Marty Blake, che lo
chiamò per avvertirlo di una partita in Arkansas in cui avrebbe giocato
Pippen: disse che ci sarebbero stati altri scout e che gli conveniva prestare
attenzione perché il ragazzo sembrava avere doti atletiche eccezionali.
Menzionò la sua velocità e le braccia insolitamente lunghe. Krause mandò
Billy McKinney, ma McKinney era nuovo del mestiere e non aveva
assistito a molte partite della seconda Divisione, quindi non riuscì a valutare
ciò che vide. Il giorno successivo, quando Krause lo chiamò per chiedergli
la sua opinione, McKinney rispose che in realtà non sapeva bene cosa dire.
«In che senso?» volle sapere Krause. «Beh, è un buon atleta e ha due
braccia davvero lunghe, ma il livello del gioco è terribile».
Il ruolo di McKinney nella scelta di Pippen finì per diventare un punto
dolente fra lui e Krause. A un certo punto, dopo che McKinney aveva
lasciato i Bulls, Krause decise che si stava prendendo troppi meriti e i due,
che prima erano in buoni rapporti, smisero di rivolgersi la parola. Più tardi
l’amicizia riprese, ma solo per rompersi di nuovo quando McKinney, che
ormai lavorava per i Seattle SuperSonics, scrisse nel proprio curriculum di
aver scoperto Pippen per primo e Krause pretese che cancellasse
quell’affermazione.
Chiamarono l’allenatore di Pippen per chiedere dei video, ma anche
quelli non fornirono elementi conclusivi. Quando Krause e McKinney
andarono al torneo di Portsmouth, il primo evento di selezione per i
giocatori che aspiravano a essere scelti nel draft, e Krause vide scendere in
campo un ragazzino molto magro, diede di gomito a McKinney e gli disse:
«Quello deve essere Pippen». «Come lo sai?» chiese McKinney. «Quelle
sono le braccia più lunghe che abbia mai visto» fu la risposta. Krause visse
quel momento come una delle rare illuminazioni in cui si sentiva
assolutamente sicuro di aver visto un lampo della futura grandezza. Pensò
fra sé: ‘Mio Dio, quel ragazzo ha veramente qualcosa di speciale, di
diverso’. Gli era successo in pochissime occasioni: quando faceva lo scout
per il baseball e aveva visto per la prima volta il giovane Kirk Gibson e, nel
basket, quando aveva visto Earl Monroe. Gli scout veramente bravi sono in
grado di riconoscere nei giocatori acerbi e ancora in crescita gli atleti che
diventeranno e di prevedere gli effetti futuri del processo di maturazione,
naturalmente se sostenuto da allenatori professionisti.
C’era già tutto, pensò Krause: un corpo snello ma potente e un’incredibile
grazia e fluidità naturale. Pippen non era ancora un bravo tiratore, ma aveva
ottime mani con dita eccezionalmente lunghe e questo lo avrebbe aiutato
molto nel processo di miglioramento, perché gli avrebbe permesso di
controllare facilmente la palla. Guardandolo pensò che, come Michael
Jordan, quel giocatore avrebbe potuto ricoprire tre diversi ruoli nell’NBA:
ala piccola, guardia o se necessario playmaker. Aveva abbastanza doti
atletiche – velocità, potenza e istinto – per diventare un bravo difensore. I
Bulls erano già all’avanguardia nella Lega con un programma di
allenamenti mirati gestito da Al Vermeil, fratello dell’allenatore di football
americano Dick Vermeil.
A Portsmouth Pippen diede ottima prova di sé e il segreto fu svelato.
«Coach» disse ad Arch Jones al rientro a Conway, «mi sembra che sia
andata molto bene, mi hanno chiesto di andare al prossimo evento alle
Hawaii». Il problema di Pippen a quel punto, secondo Krause, era che il
segreto era arrivato anche agli altri. Le sue quotazioni salirono rapidamente:
nella storia recente dell’NBA erano stati pochissimi a scalare i ranghi così
velocemente dopo la fine della stagione regolare, tanto da arrivare in cima
al primo turno, come fece lui. Un vero incubo per il Segugio: la sua
scoperta si stava guadagnando la ribalta e peggio ancora, sembrava avviata
verso la lotteria delle squadre peggiori della stagione precedente.
Nell’epoca moderna del basket nessun grande talento, reale o potenziale,
poteva restare nascosto a lungo. Alle Hawaii Pippen giocò in modo ancora
più spettacolare e le sue quotazioni salirono ancora. E c’era ancora la
Chicago Combine, un evento importante per i giocatori che cercavano di
raggiungere i primi turni del draft.
Né Jimmy Sexton né Kyle Rote Jr., i nuovi agenti di Pippen, ci tenevano
particolarmente che giocasse alla Chicago Combine. Avevano capito che
Krause lo voleva a tutti i costi, insieme a diversi altri general manager –
Krause parlava già di Pippen come di una potenziale futura superstar – e, se
fosse andato a quell’evento e avesse giocato male, avrebbe soltanto potuto
peggiorare la propria situazione. Alle loro si aggiunse un’altra voce
contraria, quella di Krause, che non apprezzava il crescente interesse
intorno a Pippen: era addirittura disposto a pagargli una settimana di
vacanza alle Hawaii durante la Chicago Combine, solo per tenerlo nascosto.
L’unica persona che non era d’accordo era lo stesso Pippen, che al torneo si
stava divertendo e soprattutto aveva scoperto che dopo aver giocato in un
ambiente tanto limitato – a differenza dei giocatori delle scuole più
importanti, non aveva mai preso un aereo per una trasferta – non solo era
bravo quanto gli atleti più famosi ma spesso era anche meglio di loro e
poteva metterli sotto. Non vedeva l’ora di andare a Chicago e dimostrare
che il suo talento era autentico. Ci andò e giocò ancora meglio che alle
Hawaii: probabilmente fu il migliore di tutti (Don Dyer andò a vederlo a
Chicago e incontrò Bob Bass di San Antonio, che gli disse: «Beh, tu avevi
cercato di avvertirmi, vero?»).
Jerry Krause era sempre più nervoso: aveva trovato un diamante, che
però era sempre meno grezzo. Cercò di fare in modo che Sexton e Rote
limitassero i contatti con le altre squadre. L’anno precedente Len Bias era
stato la seconda scelta a livello nazionale da parte dei Celtics e subito dopo
era morto di overdose, quindi le squadre insistevano per conoscere meglio i
giocatori. Krause implorò Sexton e Rote di non portare Pippen in posti
come il New Jersey e Cleveland, che avrebbero avuto le prime scelte nel
draft.
Pippen era sempre più a disagio all’interno di quel processo: volare in
tante città diverse, incontrare strani e potenti proprietari di squadre e
general manager, cercare di rispondere alle loro domande e di essere quello
che cercavano, senza neanche sapere che cosa fosse. Chiese a Sexton di
accompagnarlo in quei viaggi, una cosa piuttosto insolita. Quando
arrivarono a Chicago per conoscere Krause e Doug Collins avevano già
incontrato Indiana e Phoenix e li aspettavano il New Jersey e Cleveland.
Collins era giovane, appassionato e carismatico e fece un’ottima
impressione su Pippen: lo vedeva già giocare nella stessa squadra e nello
stesso quintetto con Michael Jordan per dieci anni! Vedeva un brillante
futuro per una squadra giovane, che aveva non uno ma molti anelli davanti
a sé. Non usò la parola dinastia, ma il concetto era quello. Pippen si
entusiasmò: gli piaceva Chicago, gli piaceva Collins e l’idea di giocare con
Michael Jordan era molto attraente. In seguito disse a Sexton che non
voleva più viaggiare o visitare altre città: se possibile, voleva giocare a
Chicago.
A Chicago aveva lavorato con gli allenatori e aveva incontrato anche Al
Vermeil, che si era immediatamente reso conto di quello che aveva visto
Krause. Aveva riconosciuto da subito l’eccezionale fluidità di Pippen. Disse
a Krause che il ragazzo aveva un corpo insolitamente efficiente: era così
elastico che consumava meno energie nella corsa, perché non doveva
spingere forte con i piedi. Più procedevano gli allenamenti più i tecnici
rimanevano sbalorditi. Uno degli esercizi usati dai Bulls per le valutazioni
si chiamava side-to-side: gli allenatori disponevano diversi palloni lungo la
linea dei tiri liberi e il giocatore doveva fare più schiacciate possibile in
trenta secondi. Fra le altre cose, serviva a evidenziare la velocità in avanti e
laterale. I giocatori dei Bulls lo consideravano un esercizio killer. Pippen
batté il loro record: quindici schiacciate. Poi gli chiesero di saltare quattro
volte di seguito e misurarono al computer l’elevazione e l’intervallo fra i
salti: di nuovo una performance eccezionale. In quel periodo pesava
novanta chili e superava i due metri, ma Vermeil era certo che potesse
aggiungere una decina di chili senza perdere in velocità.
Il problema a quel punto era se i Bulls, che avevano l’ottava scelta,
sarebbero riusciti ad aggiudicarselo. A quanto pareva Sacramento era
interessata, e aveva la sesta scelta. Seattle invece non era in lizza perché
cercava un centro, e aveva la quinta e la nona scelta. All’ultimo minuto
Krause riuscì a fare uno scambio, offrendo a Seattle una scelta al secondo
turno del draft e un’amichevole in autunno, che avrebbe attirato una gran
folla grazie alla presenza di Michael Jordan, in cambio della quinta scelta.
In poche settimane Scottie Pippen era passato da una posizione media nel
draft alla quinta scelta a livello nazionale.
Horace Grant fu una sorpresa ancora più grande di Scottie Pippen. Il
primo a notarlo, più per caso che per altro, fu Johnny Bach, il talentuoso
assistente allenatore dei Bulls. Ogni tecnico aveva una serie di video da
esaminare e determinati giocatori universitari da controllare. Bach stava
studiando un certo Joe Wolf, un giocatore di oltre due metri di Carolina che
avrebbe potuto essere il centro di cui avevano tanto bisogno, ma che non gli
piacque: giocava bene ma gli sembrava limitato, spinto più che altro da un
sistema molto forte. Probabilmente nell’NBA avrebbe agito da
manovalanza: a volte quello che un giocatore dava nel campionato
universitario era tutto quello che aveva, anzi poteva anche essere
sopravvalutato. Wolf non sembrava abbastanza veloce e Bach, che aveva
quarant’anni di esperienza nel campo, non era convinto del suo stile. «Vidi
che correva in modo pesante, sforzando molto il corpo, e mi sembrò di
vedere dei danni alla schiena nel suo futuro» commentò in seguito.
Durante la valutazione però vide una partita che Wolf aveva giocato
contro Clemson e fu colpito dal lungo che marcava Wolf, Horace Grant.
Non era grosso e pesante come Wolf ma era snello e forte, e molto veloce.
Si muoveva con un’agilità eccezionale per uno della sua stazza. Aveva un
ottimo istinto da rimbalzista, su entrambi i lati del campo. Evidentemente
non era stato allenato bene come Wolf, pensò Bach, ma aveva un grande
vantaggio: era ancora magro ma aveva le spalle molto larghe, il che
significava che si sarebbe irrobustito: non sarebbe stato un altro Brad
Sellers. Bach chiese altri video a Clemson e alla fine si convinse che Grant
era il giocatore che voleva. Gli altri allenatori guardarono i video e gli
diedero ragione: la decisione fu unanime. Con la presenza di Jordan e
l’arrivo di Pippen, pensavano che un’ala grande veloce come Grant sarebbe
stato un acquisto molto più adatto di Wolf per la squadra che stavano
costruendo. Quando Horace Grant si presentò per il provino, Al Vermeil fu
molto colpito. A quei tempi probabilmente pesava circa novantotto chili,
ma con quelle spalle pensò di poterlo portare anche a centocinque o
centosei senza rallentarlo.
Anche se la prestazione di Grant in alcuni esercizi non fu sbalorditiva
come quella di Pippen, era comunque atleticamente eccezionale per un
giocatore della sua corporatura. Corse i venti metri in 2’’98, un ottimo
risultato per un lungo (qualche anno più tardi, dopo un allenamento
costante, non solo diventò più grosso e forte, ma anche più veloce, e arrivò
a 2’’85). Tutto considerato fu un provino grandioso: Grant si era dimostrato
più veloce di quanto credessero e anche un tiratore migliore delle
aspettative.
Quando arrivò il giorno del draft fu proprio Jerry Krause ad avere le
maggiori difficoltà nel prendere una decisione: era lui quello che rischiava
di più. A un certo punto sembrò che avesse concluso con Grant, poi invece
diede altri segni di tentennamento. Dean Smith spingeva molto per Joe Wolf
e Krause sapeva che anche Michael Jordan lo voleva a tutti i costi. Secondo
Collins era l’ombra di Brad Sellers a pesare sulle spalle di Krause, perché
era stato un’enorme delusione e Krause si era preso un bel po’ di insulti a
causa sua, soprattutto da parte di Jordan. E ora aveva davanti Grant, il cui
corpo non aveva ancora finito di svilupparsi. E se fosse stato un altro
Sellers? Non potevano permettersi di sprecare un’altra scelta. Quando si
aveva una superstar come Michael Jordan c’era una finestra limitata entro
cui agire per circondarlo dei compagni giusti, e la stessa grandezza di
Jordan faceva scivolare la squadra sempre più giù nell’ordine di scelta del
draft.
Il personaggio chiave per l’acquisto di Grant da parte di Krause fu
probabilmente Tex Winter, il membro dello staff tecnico più vicino a
Krause. Winter non si era mai lasciato coinvolgere nelle infinite
schermaglie fra le fazioni della dirigenza e le sue opinioni rappresentavano
la purezza dello spirito del basket, in un certo senso. Il giorno del draft, al
momento della seconda scelta dei Bulls, Krause sembrava propendere per
Wolf. Winter gli disse: «Jerry, tutto lo staff vuole Grant: siamo tutti
d’accordo. Come puoi farci questo?» Era probabilmente l’unico a poter fare
un discorso del genere senza sembrare un traditore. Krause si fece
convincere e prese Grant.
Michael Jordan osservò il processo del draft con una certa diffidenza.
C’erano due giocatori dell’Università della Carolina che avrebbe preferito,
Wolfe come centro e Kenny Smith come guardia (Smith fu scelto subito
dopo Pippen ed ebbe una splendida carriera da professionista). Tutti gli altri
membri dello staff erano in estasi. Il giorno successivo Doug Collins disse a
Jordan: «Michael, non sono certo il tipo che si entusiasma troppo per
l’arrivo dei giocatori universitari, ma credo che questi due faranno davvero
la differenza».
Jordan lo guardò freddamente, come per dire che aveva già sentito quelle
parole. «Staremo a vedere» rispose. Con Krause fu molto più duro. Quando
Krause gli disse che sarebbe stato felice di giocare con Scottie Pippen,
Jordan, chiaramente scettico, ribatté: «Tu sei quello che ha portato anche
Brad Sellers».
I pezzi erano al loro posto, ma serviva altro tempo. I due nuovi acquisti
erano giovani e inesperti, prodotti incompleti. Nessuno dei due era
preparato per la durezza della disciplina in NBA: erano ragazzi di
campagna in una grande città, giovani e improvvisamente pieni di soldi.
Potevano godersi tutti i vantaggi di quel nuovo mondo, la ricchezza, la fama
e la liberazione dall’ambiente asfittico delle piccole città del Sud dove
erano cresciuti. In quel periodo stavano spesso insieme a un giocatore di
nome Sedale
Purtroppo per i Bulls, c’era un’altra squadra che aveva raggiunto l’apice un
po’ prima di loro e che aveva cominciato a sfidare l’egemonia dei tanto
decantati Celtics di Bird, McHale e Parish. Erano i Detroit Pistons guidati
da Isiah Thomas, Bill Laimbeer e Adrian Dantley. Erano una squadra molto
fisica (più tardi furono soprannominati ‘The Bad Boys’, i cattivi, cosa che
mise piuttosto a disagio diversi dirigenti dell’NBA) e giocavano in modo
aggressivo, sfidando la natura stessa dell’arbitraggio del basket. «Detroit
era il nostro albatros» disse una volta Johnny Bach, l’assistente allenatore
dei Bulls. Se non battevano Detroit, i Bulls potevano scordarsi le Finals.
I Pistons erano esplosi qualche anno prima dei Bulls, grazie all’abilità del
general manager Jack McCloskey e del suo intimo amico, l’allenatore
Chuck Daly. Quando i Bulls cominciarono a elevare il proprio livello di
gioco scoprirono che i Pistons erano un passo avanti a loro e che erano un
po’ più uniti, un po’ più profondi, un po’ più fisici e un po’ più determinati
e focalizzati nel gioco. Nella stagione 1987-88 i Bulls avevano innestato
due giocatori eccezionali in un nucleo debole, ma l’anno precedente i
Pistons avevano aggiunto John Salley e Dennis Rodman a un nucleo forte.
L’ombra che si allungava sul Chicago Stadium mentre i Bulls cominciavano
a risalire la china non era quella di Larry Bird e dei Celtics, o di Magic
Johnson e dei Lakers, ma quella di Isiah Thomas e dei Pistons.
L’ascesa dei Pistons era iniziata nel 1981, quando avevano acquistato
Isiah Thomas dall’Università dell’Indiana con la seconda scelta a livello
nazionale. Era piccolo – registrato come uno e ottantacinque, ma forse in
realtà qualche centimetro in meno – immensamente dotato, geniale, e non
conosceva la paura. Se fosse stato alto due metri, dichiarò il portavoce della
squadra Matt Dobek, sarebbe stato Michael Jordan. In quel draft Dallas
aveva la prima scelta, ma Thomas aveva cercato di alienarsi la dirigenza
durante una visita preliminare dichiarando che non era particolarmente
entusiasta di giocare per loro: per usare le sue immortali parole, non gli
interessavano «quelle stronzate da cowboy». Lo stratagemma aveva avuto
l’effetto voluto e i Mavericks, davanti a quel rifiuto, scelsero Mark Aguirre.
Se Thomas non avesse spaventato Dallas e se i Pistons avessero scelto
Aguirre – un giocatore di talento, ma non eccezionale – i Pistons non
avrebbero mai raggiunto la vetta.
Thomas aveva cercato di convincere anche la dirigenza di Detroit a non
sceglierlo, ma Jack McCloskey lo aveva studiato molto accuratamente e
aveva capito che era il tipo di guardia intorno a cui si poteva costruire
un’intera squadra. «Ma io non voglio giocare qui» aveva detto Thomas a
McCloskey in occasione del loro primo incontro. «Io voglio andare a
Chicago».
«Beh, Isiah» gli aveva risposto McCloskey, «questo non ha importanza,
perché noi ti sceglieremo e tu verrai a giocare qui».
«Avete in squadra anche qualcuno a cui io possa passare la palla?» gli
aveva chiesto Thomas.
«Ti troverò i compagni giusti» gli aveva promesso il general manager.
Avevano intuito chiaramente le sue fantastiche potenzialità, era il raro
giocatore piccolo che grazie alla propria intelligenza, alla leadership in
campo e all’abilità da tiratore sarebbe riuscito a dettare il ritmo di qualsiasi
partita. Era veloce, leggero e affascinante, una gemma estratta dal cuore del
ghetto di Chicago, il prodotto di un quartiere e di una famiglia in cui anche
troppi coetanei erano caduti nella spirale della droga e le possibilità di
raggiungere un qualsiasi tipo di successo sembravano infinitesimali. Forse
proprio a causa dell’ambiente estremamente difficile in cui era cresciuto,
aveva una fisicità inarrivabile per un giocatore della sua corporatura. E poi
c’era l’intelligenza, abbacinante. «È più intelligente di tutti quanti noi messi
insieme» amava ripetere Daly.
Quello che non avevano colto era la sua fame di successo, il suo raro
carisma e infine l’incredibile impatto della sua forza di volontà, quando la
dirigeva sulle persone che aveva intorno.
Alla prima conferenza stampa, Thomas dichiarò che voleva portare i
Pistons a competere al livello dei Celtics e dei Lakers, e diversi dei presenti
gli risero apertamente in faccia. Il primo giorno di allenamenti con la
maglia dei Pistons si scontrò con Ronnie Lee, un giocatore molto fisico,
noto per la violenza che usava contro gli attaccanti più famosi. Lee gli fu
addosso fin dall’inizio, con blocchi continui, e continuò così finché Thomas
non si girò verso di lui e gli disse: «Fallo un’altra volta e ti prendo a pugni».
La cosa finì lì. Sarebbe stata una bella scazzottata, pensò McCloskey
osservando da bordocampo.
Thomas contribuì a creare la cultura dei Pistons, anche se quando lo
avevano scelto nel draft era rimasto sbalordito. Proveniva da Indiana State,
una delle università con il più solido programma di basket dell’intero Paese,
e aveva giocato con Bobby Knight, uno degli allenatori più esigenti in
circolazione. Era abituato all’eccellenza e alla tradizione, e a ricevere
pesantissimi rimproveri se non si adeguava a standard inarrivabili. I Pistons
non avevano nulla di tutto questo: né identità né tradizione né cultura, e a
quanto pareva neanche uno scopo preciso. Thomas non aveva nessuna
intenzione di andare avanti così e già dall’anno dell’esordio cominciò ad
assistere a tutte le finali di NBA, per studiare le squadre che ci arrivavano e
capire che cosa avevano di diverso, il segreto che le rendeva vincenti. Non
era facile scoprire quei segreti. Magic Johnson era forse il suo più caro
amico all’interno del basket professionistico e giocava nei playoff ogni
anno, ma quando Isiah andò a trovarlo durante le Finals gli disse
bruscamente: «Non sarò io a dirti che cosa ci vuole per vincere a questo
livello, dovrai impararlo da solo».
Che cosa ci voleva per arrivare ai playoff? E per vincerli? Oltre che con i
professionisti del basket parlò anche con quelli del football americano,
come Al Davis e Chuck Noll. Cominciò a capire che occorreva uno scopo
ultimo, un obiettivo comune a cui ognuno contribuisse con tutte le proprie
forze, l’unanimità sull’assoluta necessità della vittoria. I giocatori dei
Celtics che provenivano da altre squadre e che in precedenza si
preoccupavano soltanto delle statistiche personali avevano cambiato
atteggiamento una volta arrivati a Boston. Anche loro avevano cominciato a
sacrificare i propri risultati per il bene della squadra e avevano accettato il
proprio ruolo, per quanto limitato. Thomas concluse che le squadre vincenti
si consideravano sempre come un’entità separata, che si opponeva al resto
del mondo. Se non avevano nemici che cercavano di defraudarli di ciò che
era loro di diritto, se li inventavano per riuscire a lanciarsi verso l’obiettivo.
Per la prima stagione di Thomas i Pistons, grazie a uno di quegli scambi
interni all’NBA che nessuno prendeva troppo seriamente, presero un centro
proveniente da Cleveland, un giocatore di nome Bill Laimbeer che
sembrava destinato a diventare al massimo una riserva di modesto livello.
Nessuno lo considerò un acquisto epocale, né si rese conto che Laimbeer
sarebbe stato un elemento cruciale per la costruzione di una squadra da
anello. All’università aveva giocato a Notre Dame e quando McCloskey lo
aveva visionato ai provini per le Olimpiadi del 1980 lo aveva trovato
addirittura ridicolo, lento e impacciato, quasi completamente privo di
sensibilità per il gioco. Poi Laimbeer era andato in Europa a perfezionarsi.
Al ritorno negli Stati Uniti era approdato a Cleveland, dove giocava come
riserva di James Edwards (che in seguito sarebbe diventato la sua riserva).
McCloskey, incontrandolo nelle sue ricognizioni fra i giocatori della Lega,
si stupì di trovarlo così cambiato. Era un ottimo tiratore e anche se, come
diceva Chuck Daly, non si staccava mai più di cinque centimetri da terra,
era diventato sorprendentemente abile come rimbalzista perché sapeva
sempre come posizionarsi al meglio. Come centro aveva dei limiti, ma era il
meglio che i Pistons avevano a disposizione. McCloskey e Daly convennero
che un centro in grado di segnare punti e prendere rimbalzi, anche se lento,
era comunque una bella scoperta. Si potevano usare dei giocatori più veloci
per proteggerlo in difesa. Così Detroit concluse lo scambio.
Una delle prime cose che McCloskey e Daly notarono in lui fu che
sembrava avere pochissima passione per il basket in sé: Daly dubitava
addirittura che gli piacesse giocare. In allenamento era terribile e prima
delle partite, quando veniva filmato, lo si sentiva spesso lamentarsi con
Mike Abdenour, il preparatore atletico, del livello di fatica mentale che
doveva sopportare, come se giocare un’altra partita fosse troppo per lui. Era
il primo a lasciare la palestra dopo gli allenamenti quotidiani e non si
fermava mai, come facevano quasi tutti gli altri, per esercitarsi ancora un
po’ ai tiri.
Però aveva uno spirito molto competitivo e se non gli piaceva il gioco in
sé, gli piaceva la sfida che comportava. L’assistente allenatore dei Pistons,
Dick Harter, a volte pensava che perseguisse una missione personale, quella
di dimostrare a tutti che non era soltanto l’ennesimo centro dalla pelle
bianca, grosso, lento e tutto sommato sostituibile, ma che sapeva giocare al
massimo livello della Lega. Voleva cancellare lo stigma di aver militato in
un girone più basso del basket professionistico. La scelta di Laimbeer fu la
seconda di una serie di mosse che in sette anni avrebbe guadagnato a
McCloskey la fama di stratega di prim’ordine, poiché aveva trovato tanti
pezzi diversi che presi singolarmente sembravano non soltanto di poco
valore ma anche stranamente eterogenei, eppure sommati insieme avevano
dato un risultato superlativo.
Laimbeer non era una persona facile da gestire. Era una specie di bullo, a
parole fuori dal campo e nei fatti durante il gioco e gli allenamenti. Era
volutamente maleducato con i giornalisti che accedevano agli spogliatoi dei
Pistons e quando, prima di una partita, si avvicinava il momento in cui
dovevano uscire, cominciava con il conto alla rovescia: «Cinquanta secondi
all’uscita dei media… trenta secondi all’uscita… e adesso fuori, tutti i
giornalisti fuori». Giocava sporco e lo sapeva: dati i suoi limiti fisici era
l’unico modo a sua disposizione per restare nella Lega. A volte dopo una
partita si vantava delle sue bravate, i colpi bassi che aveva messo a segno
impunemente e il modo in cui aveva fatto perdere le staffe a un giocatore
più dotato, come per esempio Parish o Abdul-Jabbar. «È un gioco mentale,
non fisico» ripeteva. Nella maggior parte dei palazzetti era detestato dai
tifosi avversari e molti giocatori delle altre squadre lo odiavano
cordialmente: erano convinti che fosse capace di infliggere danni che
potevano mettere fine a una carriera se solo gli fosse tornato utile, e che lo
avrebbe fatto con totale disinvoltura, soltanto per quella che appariva come
cattiveria innata.
Avere a che fare con lui non era facile nemmeno per gli allenatori e i
compagni di squadra. Spesso sembrava insolitamente viziato. Rispondeva
male agli allenatori, perfino a Daly che gli aveva offerto la sua grande
occasione, e nel continuo scontro fra tecnico e giocatori non solo non lo
sosteneva mai, ma spesso gli si contrapponeva apertamente. Daly non ne
faceva un dramma: Laimbeer era semplicemente fatto così. Quanto ai
compagni, negli spogliatoi era spesso brusco e sbandierava le sue posizioni
conservatrici. Se qualcuno gli faceva notare il modo antipatico con cui li
trattava, rispondeva: «Non ho intenzione di restare amico di quella gente
quando avrò finito qui dentro». La sua mancanza di educazione e cortesia
infastidiva allenatori e compagni, ma lo sopportavano perché giocava
sempre al massimo e in campo era molto intelligente.
Durante il primo ritiro Laimbeer e Thomas divisero la camera e Thomas
si rese conto che il compagno non poteva essere più diverso da lui: alto,
bianco, proveniente dall’alta borghesia. Il padre era a capo di un’azienda e
quindi per un certo periodo si disse che Laimbeer era uno dei rari giocatori
dell’NBA che guadagnava meno del proprio padre. Era repubblicano e ateo
mentre Thomas era cresciuto nel ghetto, era nero, democratico e
profondamente religioso (il suo nome completo era Isiah Lord Thomas III).
In qualche modo però trovarono un terreno comune. Quello che Thomas
apprezzava di Laimbeer era la passione: era convinto delle proprie idee
politiche e votato alla vittoria. Decise che potevano diventare amici,
dividere la stanza in trasferta e formare la struttura portante della nuova
cultura vincente dei Pistons. Dick Harter più tardi notò che la loro sinergia
aveva portato una cosa ai Pistons: «La potenza dei due giocatori più
intelligenti di tutti i tempi. Quello che avevamo non era semplicemente la
determinazione, da sola non sarebbe bastata. Quello che avevamo era
un’incrollabile determinazione e un nucleo di intelligenza eccezionale».
A poco a poco si aggiunsero gli altri pezzi, anche se a Thomas sembrò un
processo insopportabilmente lento. Dato che nei primi anni non aveva
compagni validi, aveva sviluppato una tendenza a tirare più spesso di
quanto volesse l’allenatore (nel secondo anno tirò oltre millecinquecento
volte, quasi trecento in più di quanto avrebbe fatto nelle stagioni vincenti
dei Pistons). Daly lo spingeva a passare di più il pallone ma il suo
problema, lo stesso che avrebbe avuto Michael Jordan più tardi a Chicago,
era che non si fidava dei compagni, e non aveva torto. In due occasioni la
delusione della sconfitta fu tale che pensò di mollare. Una volta il
preparatore atletico, Mike Abdenour, chiamò Daly per dirgli di andare a
parlare con Isiah, che Zeke era in camera sua, talmente depresso che voleva
abbandonare il basket. «E cosa farai se te ne vai?» gli chiese Daly. «Tornerò
all’università e prenderò la laurea in criminologia» rispose Thomas.
«Dovrai seguire anche un Master?» chiese Daly. Thomas non lo sapeva per
certo. «E quanto guadagnerai?» chiese ancora Daly. Thomas non sapeva
neanche questo. Però era sicuro di un’altra cosa: «Non sopporto più di
perdere. Non posso giocare altre partite come questa». Quella sera Daly non
insistette e si limitò a consigliare a Isiah di pensarci bene e di prendersi un
paio di giorni per decidere, sapendo che la stessa forza che lo aveva spinto
alla disperazione, la passione per la sfida e la vittoria, lo avrebbe trattenuto,
e che la delusione e lo sconforto erano l’altro lato dell’amore per il basket e
del bisogno di eccellere.
Un altro acquisto importante per i Pistons fu Vinnie Johnson, una grossa
guardia tiratrice dal fisico compatto che arrivò in seguito a uno scambio con
Seattle. Proveniva dalla Baylor ed era stato scelto relativamente presto nel
primo turno del draft, ma dato che i SuperSonics a quei tempi avevano già
molte guardie, come Gus Williams, Dennis Johnson e Fred Brown, non era
riuscito a giocare tanto quanto probabilmente avrebbe meritato. E poi
Seattle voleva un’ala di nome Greg Kelser. Così Vinnie Johnson si unì ai
Pistons e dimostrò la stessa passione di Thomas e Laimbeer per la vittoria. I
Pistons fecero un balzo di rispettabilità e passarono da ventuno a trentanove
vittorie. Poi ci fu un periodo apparentemente piatto. A metà degli anni
ottanta cominciarono a fare le mosse che avrebbero cementato la squadra.
La prima, forse la più cruciale, fu la scelta nel draft di Joe Dumars, da
McNeese
State. Era grosso, sapeva tirare ed era un buon difensore. Era proprio quello
che serviva come guardia al fianco di Thomas: un buon giocatore sia in
attacco che in difesa.
Quell’anno i Pistons aggiunsero un altro pezzo cruciale, Rick Mahorn,
che improvvisamente li trasformò in una squadra più fisica e focalizzata.
Mahorn era grosso e forte, e pur non essendo particolarmente dotato era un
giocatore che gli allenatori adoravano perché era un ottimo compagno di
squadra, intelligente, allegro e saggio fuori dal campo, con uno splendido
senso dell’umorismo e bravissimo con tutti gli altri giocatori, soprattutto
con i più giovani, ai quali cercava di spiegare le complessità della vita
nell’NBA. Avere Rick Mahorn significava poter contare su una squadra più
sana e felice fuori dal campo. In campo era un difensore di razza, molto
temuto. Sostenuto da Mahorn, Laimbeer – che era già un ottimo
rimbalzista, ma con una corporatura che non intimidiva nessuno – sembrò
sbocciare. Un anno più tardi Detroit scambiò Kelly Tripucka, un tiratore
con dei problemi in difesa, cedendolo a Utah per Adrian Dantley, che
avrebbe partecipato a sei All Star Game prima del ritiro. Dantley, che era
relativamente piccolo per giocare nel ruolo di ala, era forte e robusto
nonché molto determinato, uno dei migliori in post basso. Forse non era il
complemento perfetto per un giocatore veloce come Thomas, però dava
potenza di fuoco in attacco. Prendeva la palla e si portava a canestro con la
forza, costringendo gli altri giocatori a fare fallo. Bob Ryan, il
corrispondente sportivo del Boston Globe, usava il suo nome per definire
una specifica statistica di gioco, per esempio quando un giocatore segnava
30 punti con 7 tiri e 16 tiri liberi. Una volta commentò: «La migliore
Dantley di tutti i tempi dovrebbe stare incisa sulla sua lapide: 9-28-46,
ovvero 9 tiri e 28 tiri liberi, per un totale di 46 punti». McCloskey era
entusiasta del gioco di Dantley, perché in poco tempo metteva in difficoltà
la squadra avversaria per eccesso di falli e consentiva ai compagni di
preparare la difesa mentre faceva i tiri liberi.
L’anno successivo, i Pistons aggiunsero gli ultimi due pezzi fondamentali
per la corsa all’anello. Anche se il loro turno nel draft era più o meno a
metà, nel 1986 fecero scelte fantastiche. Presero John Salley, uno stoppatore
alto e agile, e Dennis Rodman, che non vedevano l’ora di aggiudicarsi.
Avevano scelto Salley al primo turno come undicesimo e Rodman all’inizio
del secondo turno, ma era quest’ultimo che volevano disperatamente.
Avevano cominciato a sentir parlare di lui a metà stagione: un giovane
atletico che aveva giocato a malapena allo junior college e che poi si era
trasferito all’Università di Southeastern Oklahoma. McCloskey lo aveva
visto in una partita di postseason e si era invaghito di lui. Era praticamente
privo di formazione ma aveva un incredibile e grezzo talento atletico. Era
un gran saltatore, con gambe velocissime, sembrava uno scattista olimpico
finito per caso in un campo di basket. Correva per il campo senza alcuno
sforzo. Inoltre, McCloskey aveva riconosciuto in lui una speciale
aspirazione all’eccellenza. «Fu quello ad attirarmi, bastava guardarlo per
accorgersene: aveva quasi un fuoco negli occhi. Era stato ignorato e
disprezzato così a lungo, non soltanto dal mondo del basket ma anche dal
resto del mondo in generale, che quando ebbe finalmente una possibilità
contro atleti di provenienza più blasonata fu inarrestabile. Stava scoprendo
di essere più bravo di loro e potevi vedere la passione nei suoi occhi».
All’improvviso, i Pistons erano diventati una squadra solidissima.
Avevano un’ottima rotazione di otto giocatori. Il talento dei due rookie era
evidente, così come gli abbinamenti che l’astuzia di Daly poteva finalmente
sfruttare al meglio. Nessun’altra squadra era così forte nell’area intorno al
canestro, quella che Johnny Bach chiamava «lo stagno dove lottano gli
alligatori», quanto Detroit con Laimbeer, Mahorn, Salley e Rodman. I
Pistons potevano adeguarsi alle diverse squadre, mandare avanti gli
attaccanti più dotati in certe occasioni e i difensori in altre. In breve,
cominciarono a inanellare più cappotti da 5 punti di qualsiasi altra squadra,
secondo il portavoce Matt Dobek. Dobek aggiungeva che un cappotto da 5
punti sembrava una contraddizione ma i Pistons, se verso la fine della
partita si trovavano con un vantaggio di 5 punti, potevano mettere in campo
Salley, Rodman, Dumars, Thomas e Laimbeer: Laimbeer era lento ma si
trovava sempre nella posizione giusta e gli altri erano difensori eccezionali,
quindi a fine partita erano in grado di cancellare gli avversari dal campo.
Diventarono la squadra che nessuno voleva affrontare. Erano
immensamente fisici e Laimbeer era considerato dagli altri giocatori come
il re dei colpi bassi, uno che amava inchiodare gli avversari nei momenti di
maggiore vulnerabilità, più per sconvolgere il loro equilibrio mentale e
fargli perdere le staffe che per altro. Il suo punto di forza era l’assoluta
indifferenza per l’opinione pubblica: sembrava godersi i fischi che si
riversavano su di lui nei palazzetti delle trasferte. La squadra acquistò il
nomignolo di ‘The Bad Boys’, preso da una battuta di Al Pacino nel film
Scarface: «Coraggio, augurate la buona notte al cattivo, coraggio. È
l’ultima volta che lo vedete un cattivo come me, ve lo dico io». Nella
stagione 1988-89 Detroit pagò multe per $29.100 – al secondo posto c’era
Portland con soli $10.500. Laimbeer, Rodman e Mahorn insieme ne
avevano prese per $11.000, più di qualsiasi altra squadra al completo.
Gli allenamenti divennero migliori, secondo alcuni giocatori erano più
combattuti e più contestati di molte partite NBA di stagione regolare. Ogni
anno, nel giorno della ripresa degli allenamenti, Daly diceva ai giocatori
che la quantità di minuti giocati in partita sarebbe dipesa dall’impegno in
allenamento e tutti davano il massimo. Nessuno era esentato dal duro
codice della squadra. Soffrivano sia in allenamento che in partita. Più tardi,
Isiah Thomas avrebbe commentato: «Eravamo l’ultima squadra di
gladiatori».
Daly era l’uomo ideale per allenare quella squadra: era dotato di
intelligenza e senso dell’umorismo e aveva lavorato a lungo nelle piccole e
modeste vigne del basket, cominciando come allenatore al liceo di
Punxsutawney, in Pennsylvania, per otto stagioni, e risalendo la china molto
lentamente, livello per livello, quasi sempre come assistente. Non si poteva
dire che Daly non avesse fatto la gavetta. Non permise mai che il successo o
la ricchezza gli dessero alla testa. Capo allenatore o no, stipendio milionario
o no, aveva sempre lo stesso spirito di abnegazione, faceva quello che
faceva perché era l’unica cosa che voleva fare. Si diceva che avesse
ottenuto l’incarico a Detroit soltanto perché la squadra era così scarsa che
non la voleva nessun altro. Qualche anno prima Bob Ryan aveva incrociato
Daly durante il weekend dell’All Star Game, in un momento in cui Daly
cercava lavoro. Era appena stato licenziato dopo una breve parentesi a
Cleveland – che allora era una delle peggiori organizzazioni della Lega –
era disoccupato e molto pessimista sul proprio futuro. Disse a Ryan che
aveva cinquant’anni e che gli incarichi andavano tutti ai giovani: «Chi
assumerebbe un vecchietto come me?» Apprezzava i vantaggi economici
derivati dal successo della sua squadra e i guadagni aggiuntivi offerti dalle
stazioni televisive e dai negozi di abbigliamento; aveva un debole per gli
abiti eleganti, in particolare. I giocatori lo chiamavano ‘Daddy Rich’.
Oltre alla passione per la vittoria, però, Daly in gioventù aveva imparato
altre lezioni più complesse e non dimenticava mai che il basket non era una
guerra ma un gioco e che costituiva solo una minima parte della vita. Aveva
una visione meravigliosamente scettica della natura umana, che gli veniva
dalle radici irlandesi, esemplificata da una frase di Yeats secondo la quale,
in tempi di grande gioia, gli irlandesi si consolano con la certezza che la
tragedia sia dietro l’angolo.
Fu quello che rischiò di succedere ai Pistons nella stagione 1986-87, il
primo anno in cui c’erano Salley, Rodman e Dantley. I Celtics avevano
cominciato a rallentare. Quell’anno avevano vinto cinquantanove partite,
ma a fine stagione Detroit ne aveva vinte cinquantadue e stava
guadagnando terreno. Aveva giocatori più giovani e una rosa più completa.
Quell’anno persero all’ultimo minuto contro i Celtics ai playoff, ma erano
chiaramente in ascesa. Stavano per soffiare ai Celtics il ruolo di squadra da
battere sulla costa Est, frapponendosi fra i Bulls e il loro destino di gloria.
Un anno più tardi i Pistons sconfissero i Celtics e andarono alle Finals, dove
avrebbero potuto vincere se Isiah Thomas non si fosse infortunato
malamente a una caviglia in Gara Sei.
I Pistons rappresentavano un ostacolo particolarmente difficile per una
squadra come i Bulls, che stava ancora maturando e in cui il talento puro
dei giocatori più giovani non era ancora sostenuto dalla solidità fisica e
mentale necessaria per vincere l’anello. La forza particolare dei Pistons, la
loro determinazione e la focalizzazione sull’obiettivo facevano di loro gli
avversari più temibili per una squadra in crescita. I Pistons avevano
l’infallibile capacità di individuare i punti deboli, fisici o psicologici di ogni
avversario. La stessa spaventosa competitività di Michael Jordan giocava a
loro favore: Chuck Daly aveva creato una strategia difensiva su misura per
Jordan, chiamata ‘Jordan Rule’, studiata appositamente per affaticarlo il più
possibile, facendogli sudare ogni tiro e costringendolo a dare fondo a ogni
energia fisica. Jordan, con il suo atteggiamento da guerriero, per molto
tempo continuò ad abboccare, accettando la sfida e portando i Bulls sempre
più vicini al livello dei Pistons, ma senza mai raggiungerli.
Anche nel periodo in cui i Pistons erano sul punto di superare i Celtics,
Chuck Daly si rese conto che la sua squadra non avrebbe regnato a lungo.
La loro corsa era alimentata da forza di volontà e talento puro, ma ormai i
tempi in cui potevano scegliere per primi nei draft e aggiudicarsi buoni
giocatori erano ben lontani e non solo i Bulls avevano il miglior giocatore
in circolazione, ma anche Scottie Pippen sarebbe diventato una superstar, e
Daly lo sapeva. I tempi in cui Jordan doveva trascinarli da solo, quelli in cui
segnava 40 o 50 punti – Daly li chiamava ‘punti astronomici’ per la quantità
esorbitante – erano quasi conclusi. Intorno a lui si stava lentamente
formando un gruppo di talenti. Daly era sicuro che Pippen fosse l’araldo
della squadra che avrebbe vinto l’anello. Non aveva ancora espresso
appieno il suo potenziale, ma ci sarebbe arrivato presto. Gli serviva soltanto
una determinazione più forte e quella, dato che si allenava ogni giorno
contro Michael Jordan, non avrebbe tardato ad arrivare.
19
Chicago, 1988-1990;
Nel 1988 divenne chiaro che se Chicago voleva risolvere il problema dei
Pistons aveva bisogno di un lungo. I Pistons avevano Laimbeer e James
Edwards come riserva, più Mahorn, Salley e Rodman. I Bulls avevano due
ottime ali grandi ma giocavano senza un centro. Dave Corzine si impegnava
molto ed era benvoluto sia dalla dirigenza che dai compagni, ma i suoi
limiti erano evidenti ed era diventato un bersaglio per i tifosi, che sfogavano
la delusione per il mancato miglioramento della squadra concentrando i
fischi su di lui. Jerry Krause fece un’analisi dei centri disponibili al draft,
ma quando la sua squadra raggiunse le cinquanta vittorie capì che aveva
pochissime possibilità di aggiudicarsi il giocatore che voleva. Nella classe
dell’anno successivo c’era Rik Smits, alto più di due metri e venti e
abbastanza dotato ma decisamente incompleto, un giocatore che avrebbe
richiesto di investire grandi risorse, e poi Ron Seikaly da Syracuse e Will
Perdue da Vanderbilt. Avevano buone possibilità con Perdue, che però era
ben lontano dal diventare un centro in grado di condurre una squadra a
conquistare l’anello.
Krause cominciò a cercare fra i centri che già giocavano in NBA e il
posto più logico sembrava essere New York, dove i Knicks potevano
schierare un quintetto con due torri gemelle: Patrick Ewing, appena
arrivato, e il centro veterano Bill Cartwright. Non era stata una mossa
vincente: né Ewing né Cartwright si sentivano a proprio agio e quindi
Cartwright forse sarebbe stato disponibile a uno scambio. L’ascesa di
Horace Grant aveva dato a Krause una carta da giocare: anche se Charles
Oakley era emerso come secondo miglior rimbalzista della Lega per due
anni consecutivi, alla fine del primo anno di Grant era evidente che era lui il
giocatore più dotato e che dovevano fargli giocare più minuti. Questo
significava che era possibile scambiare Oakley. Krause avrebbe voluto
cederlo per ottenere il diritto di scegliere Smits nel draft, ma la manovra
non gli riuscì. Così si concentrò su Cartwright, il cui ingresso nella Lega era
stato strombazzato come quello di una star: era uno di quei giovani che
attiravano l’attenzione troppo presto – da universitario era comparso sulla
copertina di Sports Illustrated – però non aveva la corporatura giusta per
l’NBA: era alto e snello, con le spalle strette, ma gli mancava la perfetta
muscolatura di giocatori come Ewing e Olajuwon. Quello che il suo corpo
non rivelava, però, erano la sua determinazione e la sua intelligenza, e il
fatto che si fosse adattato insolitamente bene ai limiti imposti dall’NBA,
trasformandosi (cosa piuttosto strana) in un giocatore più difensivo che
offensivo. Era dotato di un’astuzia particolare, studiava con attenzione le
mosse dei centri più dotati che marcava e sapeva tenere la posizione con
estrema tenacia. Si scoprì che nessuno marcava Patrick Ewing meglio di
Bill Cartwright e questo fu un enorme vantaggio per i Bulls.
Cartwright aveva continuamente problemi ai piedi e i Bulls fecero
accurati controlli. Anni dopo Krause definì quella trattativa la più difficile
della sua carriera. Oakley era stato il suo primo grande successo con i Bulls
ed era stato tutto ciò che un dirigente potesse desiderare, come uomo e
come giocatore: aveva sempre cuore e dedizione, e mai paura. Data la storia
di infortuni di Cartwright, Krause fu molto cauto con la scelta dei Bulls di
quell’anno. Invece di Dan Majerle, che i media ogni tanto
soprannominavano ‘Thunder’, tuono, un giocatore che avrebbe voluto con
tutte le sue forze e che aveva già ampiamente sponsorizzato all’interno della
squadra, scelse Perdue come centro di riserva. Fra i centri disponibili
avrebbe preferito Seikaly, da Syracuse, che era più forte in attacco, ma
quando arrivò il turno di Chicago Seikaly era già stato scelto; Smits, poi,
era stato la seconda scelta in assoluto, cosa che non aveva stupito nessuno.
A causa dei tempi dello scambio, i Bulls non ebbero la possibilità di
avvertire Oakley in anticipo. Lui e Jordan, il suo più caro amico nella
squadra, erano in viaggio per Las Vegas per assistere a un match di Mike
Tyson quando appresero la notizia dai media. Si infuriarono entrambi.
Jordan sembrava addirittura il più inferocito dei due: Oakley era la guardia
del corpo, quello preposto a punire chiunque tentasse un colpo basso contro
Jordan, e all’improvviso gli veniva portato via per sostituirlo con
Cartwright, un giocatore che decisamente non suscitava la sua
ammirazione. Poco dopo lo scambio, Jordan chiese a Bach: «Johnny, chi
sarà la nuova guardia del corpo?» Era una domanda legittima.
«Horace Grant» propose Bach.
«Maledizione, potrei picchiarlo io stesso» rispose Jordan, «come farà a
proteggere me?»
Cartwright non suscitava il rispetto di Jordan, né come uomo né come
giocatore. Lo chiamava ‘Medical Bill’ per via dei suoi infortuni passati.
Riteneva che non avesse le mani buone e quindi a volte in allenamento gli
passava la palla in modo inutilmente violento, così che gli sfuggisse,
dimostrando che aveva ragione. Jordan non si sbagliò mai così
completamente su un altro giocatore quanto su Bill Cartwright, sia dal
punto di vista umano che atletico, ma ci mise quasi due anni a capirlo e ad
ammetterlo. Cartwright portò ai Bulls qualcosa di cui avevano un tremendo
bisogno, e cioè un centro di qualità. Aveva certamente dei limiti – in effetti
non aveva un buon controllo di palla – e negli anni era peggiorato in attacco
via via che il suo corpo si logorava, in particolare a livello delle ginocchia.
Ma era un giocatore intelligente e tenace e si sarebbe rivelato un ottimo
elemento in difesa. Nonostante il suo arrivo, però, quella non fu una grande
annata per i Bulls.
A un certo punto della stagione 1988-1989, nel suo terzo anno da
allenatore, Doug Collins cominciò a perdere il suo ascendente sulla
squadra. Era stato un anno impegnativo, perché l’anno precedente avevano
vinto cinquanta partite e con l’ingresso di Cartwright sembravano destinati
a raggiungere la grandezza. Probabilmente Collins era stato l’allenatore
perfetto per una squadra giovane: aveva pungolato senza sosta Grant e
Pippen e non c’era dubbio che sotto la sua guida entrambi fossero sbocciati.
Nessuno dubitava dell’intelligenza di Collins. Ma se c’era una cosa che non
sapeva fare – ed era una grave mancanza in una stagione lunga e spossante
come quella dell’NBA – era fare un passo indietro. Alcuni dei suoi
assistenti lo avevano avvertito di cercare di rilassarsi ogni tanto, di accettare
la sconfitta con più leggerezza, soprattutto in quelle serate amare in cui un
allenatore lascia il palazzetto convinto che la sua squadra meritasse la
vittoria. Per un allenatore dell’NBA era una qualità importante saper
accettare qualche sconfitta anche quando sentiva di non meritarla.
Collins però non era il tipo da lasciar perdere. Era molto diretto su questo
punto: «Io sono come sono, e alleno come sono» diceva. La sua dedizione e
la sua emotività lo rendevano però monotono e alla terza stagione i
giocatori smisero di dargli retta. Cominciarono a lamentarsi del suo stile
troppo passionale, che li portava a una sorta di montagne russe emotive. Un
giorno urlava contro di loro e il giorno successivo li abbracciava e giurava
di amarli. In un certo senso, gli mancava l’equilibrio necessario per guidare
una squadra nell’NBA – di solito erano i giocatori a dimostrarsi volubili
mentre l’allenatore, appollaiato sul suo pilastro di imperturbabilità, doveva
placarli. Michael Jordan stava sempre abbastanza attento nelle dichiarazioni
pubbliche, perché era stato educato a non mettere in discussione l’autorità
per nessun motivo e un allenatore, a differenza di Krause, per lui
rappresentava l’autorità, ma chi gli stava intorno coglieva comunque i suoi
dubbi. «È un allenatore giovane, molto emotivo» confidava agli amici.
Nello stesso periodo la crepa fra Collins e Krause divenne una spaccatura
sempre più profonda. All’arrivo di Collins era stato stabilito che non solo
Tex Winter sarebbe stato assistente, ma che la squadra avrebbe adottato il
suo schema offensivo brevettato, chiamato ‘attacco a triangolo’. Anzi, era
stato proprio Winter, il più vecchio e intimo amico di Krause nel mondo
degli allenatori, a dare l’approvazione finale alla scelta di Collins.
Virtualmente era Winter il primo referente di Krause. Ancora nel 1985, il
giorno in cui fu annunciato l’incarico di Krause presso i Bulls, Winter,
allora sessantatreenne, stava guardando ESPN. Indicò la tv e disse alla
moglie: «Quell’uomo là, Jerry Krause, mi chiamerà entro ventiquattr’ore
per offrirmi un lavoro», cosa che infatti avvenne.
L’attacco a triangolo ideato da Winter prevedeva che i giocatori partissero
da diverse posizioni in post, per poi effettuare tagli continui per raggiungere
punti diversi del campo da cui, presumibilmente, sarebbe stato più facile
attaccare il canestro. Lo scopo era tenere la difesa avversaria sotto una
pressione costante: gli attaccanti cercavano senza tregua un punto debole,
un’angolazione migliore, un’occasione di tiro o un mismatch. La speranza
era che non solo questo avrebbe messo in mostra lo speciale talento
offensivo di Jordan, ma che avrebbe permesso a Chicago di coinvolgere di
più gli altri giocatori negli schemi offensivi. Era però una speranza vana.
Michael Jordan non sembrava apprezzare particolarmente l’attacco a
triangolo e nemmeno Collins ci faceva troppo affidamento. In breve, fu
accantonato e i Bulls rincominciarono a dipendere dal talento puro di
Jordan. Collins continuava ad aggiungere nuovi schemi. Quando un’altra
squadra metteva in atto uno schema che funzionava contro Chicago, i Bulls
lo aggiungevano subito al proprio repertorio. I giocatori chiamavano la
strategia offensiva della squadra ‘uno schema al giorno’.
Nel terzo anno, spesso durante l’allenamento si verificava una scena
bizzarra. Gli allenatori stavano tutti insieme, eccetto Tex Winter che sedeva
per conto suo e prendeva appunti, come se fosse un inviato di qualche altra
squadra con il compito di studiare gli allenamenti dei Bulls. Quella distanza
dal resto dello staff tecnico non era un buon segno. Una volta Winter disse a
Collins: «Doug, nonostante la tua intelligenza spesso mi chiedo se sai
quello che stai facendo».
Peggio ancora, il rapporto fra Collins e Krause era diventato tossico.
Cominciarono a litigare sulle scelte del draft e le decisioni relative ai
giocatori. Lo scontro fra Collins e Krause su Brad Sellers e Johnny
Dawkins era stato particolarmente brutale, ma ce ne furono altri in seguito.
Nel 1988 la tensione aveva raggiunto un punto critico. Collins, polemico e
incapace di controllare le emozioni, cominciò a sfidare apertamente Krause.
Perché stava sempre intorno agli allenatori? Perché partecipava sempre alle
trasferte? Krause rispondeva che lo faceva perché era il general manager e
Collins ribatteva che non c’era alcun bisogno che il general manager
viaggiasse con la squadra. Se Collins arrivava agli allenamenti e vedeva
Krause gli urlava: «Che cosa ci fai qui? Perché sei venuto?» Era una guerra
per il territorio, sulla pelle dei giocatori, e stava diventando uno scontro
sempre più acceso fra due ego ipertrofici.
Phil Jackson sapeva che la situazione era drammatica. Fino a quel
momento era riuscito ad andare abbastanza d’accordo con tutti i membri
dello staff. Con Johnny Bach c’era un ottimo rapporto e da lui aveva
imparato molto su come redigere i report sui giocatori che valutava.
Jackson era molto affezionato a Tex Winter e sembrava addirittura riuscire a
gestire Krause. Riconosceva le sue idiosincrasie e la scarsa capacità di
rispettare gli spazi personali, ma lo considerava un uomo intelligente
(dopotutto aveva avuto il buon senso di assumerlo) e si sentiva a suo agio in
sua compagnia. Senza rendersene conto era probabilmente il successore
designato. Quasi dieci anni dopo, nel 1997, quando divenne chiaro che
Krause si era invaghito di un allenatore dell’Iowa State chiamato Tim
Floyd, e che voleva sostituire Jackson con lui, qualcuno gli parlò di
quell’infatuazione e Jackson rispose tristemente: «Mi ricordo quando si era
invaghito di me».
Durante la stagione 1988-89, la disintegrazione cominciò. Il primo
segnale fu durante una partita a Milwaukee, subito prima di Natale. Collins
fu espulso molto presto e passò le redini a Jackson, lasciandogli appunti
dettagliati su ciò che voleva fare e soprattutto sugli schemi che voleva
attuare. In quel momento i Bulls erano in svantaggio e Jackson in pratica
ignorò i desideri di Collins e, dato che era un allenatore orientato alla
difesa, si affidò al pressing, scelta che funzionò. Riguardo all’attacco
intervenne molto poco, lasciando che la squadra trovasse il proprio ritmo, e
alla fine i Bulls recuperarono e vinsero con un buon margine. Quella
vittoria fu particolarmente amara per Collins perché Krause e sua moglie
Thelma quella sera avevano invitato June Jackson a sedere accanto a loro, e
le telecamere trasmisero a Chicago l’immagine del trio.
La presenza di June Jackson accanto ai Krause fece inferocire Collins,
che la interpretò come una cospirazione. Il giorno successivo, furente,
accusò Jackson di sabotaggio nei confronti della sua filosofia di
allenamento. E aggiunse che Jackson tramava alle sue spalle insieme a
Krause, un’accusa del tutto falsa. Ne seguì un lungo e spiacevole incontro
fra Collins, Krause e Jackson in cui tutti i rancori vennero alla luce. Nel
corso di quell’incontro, il non trascurabile sentimento di amicizia fra
Collins e Jackson fu gravemente danneggiato.
Qualche settimana più tardi Jackson doveva visionare i Miami Heat a
Miami e non riuscì ad assistere alla partita dei Bulls a causa degli orari dei
voli. Il giorno successivo ricevette una telefonata da Krause che gli
intimava di non perdere altre partite per il resto della stagione. Chiaramente
c’era qualcosa nell’aria. La stagione non finì bene: la squadra perse otto
delle ultime dieci partite. Invece di vincerne cinquantacinque, come il
management aveva sperato, ne vinse soltanto quarantasette. Doug Collins fu
licenziato e Phil Jackson prese il suo posto come capo allenatore.
Phil Jackson non si considerava il successore designato, se mai credeva
che fosse Billy McKinney, un protetto di Krause ma anche di Winter, ma
McKinney aveva accettato un’offerta dai Minnesota Timberwolves come
responsabile dei giocatori, anche se Krause non gli aveva dato la sua
benedizione. Quando ricevette l’incarico Jackson aveva quarantaquattro
anni. A Chicago si era comportato sempre in maniera impeccabile e
nessuno lo considerava più un hippie. Nella foto ufficiale dei Bulls del suo
primo anno come assistente è perfettamente rasato: aveva offerto la folta
barba in sacrificio ai poteri forti del basket e ai loro pregiudizi. Nel secondo
anno erano comparsi un paio di grandi baffi, chiaramente una specie di
compromesso culturale. Le foto successive, scattate nel corso di un
decennio, mostrano i suoi capelli ingrigire a una velocità allarmante, forse a
causa dei suoi geni o forse per la pressione delle cento partite e dei playoff a
cui i Bulls partecipavano ogni anno.
Il suo comportamento fuori dal campo, il suo passato da apprendista della
controcultura e il successivo interesse per la gentilezza auspicata dal
buddhismo facevano spesso dimenticare la sua incrollabile determinazione
e il fatto che avesse due incarnazioni distinte: grande intensità in campo e
grande delicatezza all’esterno. Anche ai tempi della controcultura era stato,
naturalmente, un giocatore pieno di passione: quel sentimento nasceva dal
tipo di infanzia che aveva vissuto e i valori assimilati erano ormai parte
integrante della sua identità. La madre era una lavoratrice indefessa e fin
dall’età di due anni gli faceva notare che alla sua età il fratello maggiore
aveva già un vocabolario di mille parole. Era cresciuto in quel tipo di
fondamentalismo, sapendo di non dover sprecare nulla, di doversi spingere
sempre al massimo livello delle proprie capacità.
Nel corso degli anni Jackson si era allontanato parecchio dalle
convinzioni religiose dei genitori, anche se non tanto quanto i fratelli.
Chuck Jackson era diventato un oppositore del cristianesimo e Joe Jackson,
psicologo, si era interessato alle religioni orientali ancora più
profondamente di Phil. Phil finì per costruirsi uno strano amalgama di
credenze religiose, fatto di cristianesimo, buddhismo zen e filosofie dei
nativi americani, risultato di trent’anni di ricerche e confronti in campo
etico e religioso e sintetizzabile in un codice di comportamento incentrato
sulla tolleranza verso gli altri.
Dal punto di vista filosofico Jackson era alla ricerca di un’etica che gli
consentisse di appassionarsi a ciò che faceva: era più un umanista che un
materialista. Però voleva anche godersi i vantaggi che una società sempre
più consumistica distribuiva a quelli che considerava vincenti e dei quali,
come allenatore di successo, aveva finalmente ricevuto una parte. Questo lo
allontanò molto dalle certezze religiose della madre, la cui frase preferita
era «Cristo è l’unica risposta». Naturalmente la madre non perse mai la
speranza che tornasse alla religione con cui lo aveva cresciuto. Anni prima,
quando il giornalista Garry Wills l’aveva chiamata per prepararsi a
presentare Jackson al pubblico di Chicago, Elisabeth Jackson aveva
concluso la chiacchierata dicendo: «Può riferire a mio figlio che spero
sappia di poter sempre tornare qui e diventare un ministro del Signore».
Non era molto probabile. Le sue origini religiose non smisero mai di
metterlo a disagio e per gran parte della vita si sforzò di mantenere un
legame con il cristianesimo pur rifiutandone gli aspetti troppo rigidi che gli
erano stati inculcati.
I genitori di Jackson erano entrambi pentecostali, membri di un
movimento carismatico che si era diffuso in tutto il paese negli anni
successivi alla Prima guerra mondiale. Il padre proveniva dal Canada
orientale e la madre dall’Ovest degli Stati Uniti, si erano conosciuti al
Central Bible College di Winnipeg. Nella loro chiesa il padre era il ministro
del culto del mattino e la madre del culto serale. Jackson ricordava le
fiamme e lo zolfo dell’inferno che grondavano dai loro sermoni. A casa loro
non erano permessi cinema, alcol, fumo, televisione (quando finalmente
nella loro zona arrivò un ripetitore), nessun piacere terreno. Le altre
religioni erano disprezzate. Quando Phil conosceva qualche nuovo
compagno a scuola e ne parlava in casa, la madre chiedeva subito: «È
cristiano?» In quella famiglia fondamentalista la risposta poteva benissimo
essere: «No, è cattolico». L’unico libro disponibile era la Bibbia, l’unica
rivista il Reader’s Digest. I figli dovevano comportarsi da bravi cittadini e
non perdere mai la calma. La moglie June aveva capito che la rabbia era
qualcosa di alieno per Phil, e che quella degli altri lo rendeva nervoso. Una
volta commentò: «È una conseguenza della sua educazione religiosa. In
quella casa la rabbia era un grave peccato».
Charles Jackson, il padre di Phil, per quanto rigido era un uomo di grande
bontà e tutti lo amavano. Aveva la responsabilità religiosa dell’intero Stato,
a lui facevano capo una settantina di chiese. A un certo punto aveva
sollevato il suo stesso nipote da un incarico a causa di un errore commesso,
ma il nipote continuò comunque a idolatrarlo fino alla morte per la
gentilezza che gli aveva dimostrato anche in quel frangente.
Elisabeth Jackson, invece, era quella che spingeva accanitamente i figli
verso l’eccellenza. Era cresciuta nel Montana, in una famiglia poverissima
con cinque fratelli. Joe Jackson ricordava che fino all’età di sedici anni a
casa dei nonni materni il bagno era costituito da una latrina esterna,
nonostante il freddo quasi insopportabile. Tutti i fratelli di Elisabeth erano
stati i migliori del loro corso ed erano stati scelti per pronunciare il discorso
del diploma: lei si era sempre rammaricata di non esserci riuscita per soli
due decimi di punto, soprattutto perché perdeva sempre le prime sei
settimane di scuola a causa della mietitura autunnale. Aveva una forte
inclinazione allo stoicismo: a diciotto anni aveva insegnato in una scuola
del Montana orientale così povera che durante l’inverno bruciavano lo
sterco di mucca per riscaldarla. Continuava a ripetere ai figli che potevano
diventare tutto ciò che volevano, li obbligava a imparare a memoria brani di
libri e definizioni del vocabolario. Ogni settimana dovevano memorizzare
un passo delle Scritture. Se i figli le sembravano svogliati, lei citava
qualche lunga definizione che aveva imparato trent’anni prima. Non
avrebbe mai battuto la fiacca e non accettava che lo facessero i suoi
familiari. Le cose andavano fatte per bene. In quella casa c’erano quattro
uomini e ciascuno di loro indossava una camicia pulita ogni giorno, il che
significava lavare e stirare ventotto camicie alla settimana. Sapeva
esattamente quanto tempo ci avrebbe messo, quasi al minuto.
Se c’era una lezione che Elizabeth Jackson avrebbe voluto che rimanesse
impressa ai figli, anche se il resto della loro educazione fosse andato
perduto quando si fossero avventurati nel mondo, secondo Chuck Jackson
era l’idea che in qualsiasi caso non dovevano sprecare i doni di Dio:
dovevano sfruttare al massimo i propri talenti.
In casa loro si ripeteva spesso che i doni ricevuti erano molti. Elisabeth
aveva creato un grande cartello che aveva appeso nella cameretta di Phil
quando era bambino: «Giovanni 3:16. Dio infatti ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma
abbia la vita eterna»2.
Già da ragazzo Phil Jackson era a disagio con la natura fortemente
emotiva ed evangelica della loro chiesa. La gente che parlava in lingue
sconosciute e si buttava per terra dimenandosi erano persone che
conosceva, che in genere erano tranquille, sobrie ed estremamente riservate,
finché all’improvviso non sembravano preda di emozioni incontrollabili.
Per un ragazzino era una vista sconvolgente e gli suscitava un senso di
repulsione.
Tutti e tre i ragazzi Jackson (Phil era il più giovane) si buttarono con
passione nell’atletica, secondo Chuck Jackson perché era una delle poche
attività consentite e perché permetteva loro di vivere una certa normalità:
era l’unica occasione in cui potevano fare le stesse cose dei loro coetanei. I
genitori approvavano gli sport, che consideravano buoni e puliti, al
contrario, per esempio, delle opere sataniche di Hollywood. I fratelli
maggiori avevano già combattuto alcune battaglie – come per esempio
quella per il diritto di partecipare alla partita di football del venerdì sera – e
quando venne il suo turno Phil si trovò la strada parzialmente spianata. Per
esempio, a lui fu consentito di giocare a football a differenza dei fratelli.
Almeno i lunghi viaggi per le trasferte spesso gli facevano perdere il
servizio divino.
I ragazzi furono involontariamente isolati dagli amici quando erano
piccoli, perché non potevano fare quello che facevano gli altri, e quindi non
ebbero la possibilità di confrontarsi con i coetanei. Non potevano parlare
dei film, dei programmi tv o delle canzoni. Chuck Jackson commentò: «La
separazione era avvenuta molto presto, senza che potessimo avere alcun
controllo sulla situazione, così ci ritrovammo a essere stranamente
distaccati e obiettivi rispetto a cose che la maggior parte dei ragazzi
accettava automaticamente».
Crescendo, il rifiuto di quegli aspetti della religione dell’infanzia e la
ricerca indefessa di qualcosa di diverso resero Phil Jackson insolitamente
tollerante verso gli altri. Secondo il fratello Joe erano cresciuti in
un’atmosfera terribilmente giudicante e Phil non era a suo agio con
l’inappellabilità di quei giudizi. Il comportamento umano lo affascinava,
senza suscitare in lui particolari critiche. La madre, una donna che non era
portata a percepire le sfumature di grigio, una volta disse: «Phil è come un
lubrificante con le altre persone». June Jackson era d’accordo: il marito era
capace di andare d’accordo con ogni tipo di persona, era un buon
ascoltatore e vedeva gli altri come erano davvero, li accettava e quasi
sempre li apprezzava per questo. Aveva un senso del sé particolarmente
saldo ed era sinceramente interessato a chi aveva intorno: con l’evolvere
della sua carriera di allenatore divenne sempre più bravo anche come
psicologo.
In parte era un talento innato, e in parte lo aveva appreso dal suo
allenatore ai New York Knicks, Red Holzman. Si era reso conto di quanto
fosse saggio soltanto a posteriori. Quando Jackson era arrivato a New York,
per esempio, aveva trovato una situazione potenzialmente esplosiva a causa
della disputa sui minuti giocati fra Bill Bradley e Cazzie Russell. Bradley
era bianco, Russell nero. Entrambi avevano giocato ai massimi livelli del
basket universitario e la loro reputazione era salita alle stelle in seguito a
una famosa partita dei playoff NCAA fra le rispettive squadre. Nessuno dei
due si era adattato facilmente all’NBA: Bradley era troppo lento come
guardia e Russell si era dimostrato un giocatore incompleto, era un tiratore
potente ma spesso impreciso e non era particolarmente bravo nei passaggi,
inoltre era inconsistente in difesa.
Ciascuno di loro naturalmente aveva i propri sostenitori, che vedevano
soltanto i punti di forza e non i difetti: i fan di Bradley erano maschi della
Ivy League, che esercitavano un’influenza sproporzionata nella vita
pubblica della città, e che finalmente vedevano uno dei loro sul campo del
Garden, quelli di Russell erano meno numerosi ma molto agguerriti e fra
loro c’erano alcuni esponenti dei media locali, potenti e senza peli sulla
lingua, che lo esaltavano in tutti i modi, uscivano con lui e gli ripetevano
continuamente che era il più grande. I fan di Russell anticipavano il
fenomeno di quelle che più avanti sarebbero state chiamate ‘posse’, gruppi
di persone il cui principale legame con il basket era rappresentato da uno
specifico giocatore del quale gonfiavano l’ego, denigrando al contempo i
compagni di squadra. Col tempo i membri delle posse cominciarono a
identificarsi con il giocatore prescelto. Era una contrapposizione
potenzialmente esplosiva, perché a New York quella squadra stava
suscitando sempre maggiore ottimismo ed entusiasmo, perché entrambi i
giocatori erano stati pompati prima ancora di arrivare e perché uno era
bianco e l’altro nero. Holzman non si schierò mai e non fece alcuna
dichiarazione pubblica, un comportamento già notevole in sé. Agiva come
se il problema non esistesse, lasciando che i giocatori lo gestissero
autonomamente, in campo e negli spogliatoi. Era come se quello che per
molti era un forte scontro di personalità non avesse in realtà alcuna
importanza.
«Penso che Red sapesse fin dall’inizio che Bill, con la sua eccezionale
intelligenza, era un leader naturale, anzi credo che Red sapesse addirittura
che Bill stava già guidando la squadra, da una posizione di svantaggio: cioè
la guidava pur non avendo ancora trovato una propria posizione, portando
in campo una tale abilità e una tale chiarezza di visione che la squadra
migliorava in sua presenza» disse Jackson anni dopo. «Red voleva lasciare
che gli altri, prima i compagni di squadra e poi i tifosi, arrivassero a vedere
quello che vedeva lui in Bill e Cazzie».
Al secondo anno, Bradley era stato spostato nel ruolo di ala piccola e la
sua abilità nel creare migliori occasioni di tiro per i compagni, muovendosi
senza la palla, aveva già contribuito a cambiare la squadra. Chiaramente
tutti giocavano meglio e in modo più fluido quando in campo c’era lui.
Russell invece non si era evoluto e sembrava sempre in qualche modo
monodimensionale. Continuava a essere un valido elemento e a volte
quando c’era bisogno di segnare punti Holzman si rivolgeva a lui.
Gradualmente però i minuti di Russell diminuirono, quelli di Bradley
aumentarono e la diatriba semplicemente evaporò, dato che era ormai
chiaro a tutti che gran parte della coesione unica che si era creata nella
squadra si doveva all’instancabile movimento di Bradley. Negli spogliatoi i
giocatori, i neri per primi, risolsero la questione interna. Russell era loquace
e tendeva a chiacchierare molto mentre Bradley era silenzioso ed
estremamente riservato: non voleva farsi risucchiare nel ruolo di grande
speranza dalla pelle bianca. Ma erano i giocatori neri, e in particolare Walt
Bellamy, che punzecchiavano Russell quando usava parole insolite; mezzo
nudo, imitava l’accento di Oxford e chiedeva: «Di grazia, Mister Russell, in
qualità di rinomato esperto della lingua inglese, pensa di poter spiegare alle
sfortunate anime ignoranti di questa compagine il termine chilometrico testé
utilizzato…?»
Holzman gestì abilmente l’ego di Russell, evitando sempre lo scontro
diretto. Scelse di vedere soltanto quello che gli tornava utile e di ignorare il
resto, fidandosi della maturità dei giocatori di entrambe le appartenenze
etniche e lasciando che fossero loro a risolvere la questione al suo posto.
L’unica volta che redarguì Russell fu quando infranse le regole della
squadra. Secondo una di queste regole, la squadra doveva muoversi sempre
come un gruppo unico. In quel periodo disputavano molte partite con
Philadelphia: Cazzie Russell aveva una Cadillac nuova e una volta
raggiunse la città con quella. Poco prima della partita Red gli chiese quanto
costava il pedaggio da New York a Philadelphia e Cazzie rispose 8 dollari.
Red disse: «Bene, allora togliamo questi 8 dai 100 di penalità per essere
arrivato da solo. La tua multa sarà di 92 dollari, quindi». Era un modo
gentile di ricordargli che le regole valevano per tutti, indiscriminatamente.
Jackson si trovò ad affrontare un problema simile quando assunse
l’incarico a Chicago. Per lui ovviamente era la grande occasione, per quanto
la situazione sotto certi aspetti fosse difficile. Si accingeva ad allenare il
miglior giocatore della Lega insieme a un gruppo di altri atleti di evidente
talento, che proprio in quel periodo stavano raggiungendo la maturità
professionale, ma che per la natura stessa della grandezza della superstar sul
campo si muovevano con una certa titubanza. Trovare un modo di
amalgamarli, una soluzione chimicamente equilibrata sarebbe stata una
grande sfida. Era il sesto anno di Jordan e il suo atteggiamento si era fatto
più duro. Si era abituato alla mancanza di un attacco e diffidava di tutti gli
altri, eccezion fatta per Paxson. Il problema di Jackson era quello di capire
la suddivisione del possesso di palla, la quota di tiri da attribuire a Jordan
(o, detto in modo brutale, quanto abbassarla). Se Michael Jordan era a suo
modo un genio, la sfida definitiva per il suo allenatore era quella di
mescolare quel genio con i talenti dei comuni mortali.
La squadra ereditata da Jackson era a un bivio. Collins si era esaurito
emotivamente, ma aveva portato Pippen e Grant a un livello molto più alto.
Anni dopo fu chiaro a tutti che, grazie alla passione e alla determinazione di
Collins, Jackson si era trovato fra le mani una squadra alle soglie della
grandezza. Pippen e Grant erano ormai vicini a un livello da All Star Game.
Jackson sentiva che la prima necessità della squadra era quella di un
attacco degno di questo nome. Non si considerava un esperto in questo
senso, ma voleva un sistema offensivo di qualche tipo. L’attacco di
Chicago, al momento del suo arrivo, dipendeva troppo dal talento speciale
di Jordan, in pratica si riduceva a «passate la palla a Michael e toglietevi di
mezzo». Un sistema offensivo sarebbe stato importante per chiarire agli
altri giocatori il proprio ruolo in campo e per coinvolgerli al punto da
invogliarli a impegnarsi al meglio e a dare filo da torcere alle difese
avversarie. Jackson era consapevole della difficoltà, anche per i giocatori
migliori, di coesistere con un compagno dal talento eccezionale e dalle alte
richieste psicologiche come Jordan. Come disse una volta Dave Corzine,
Jordan era così bravo che se i Bulls vincevano era per merito suo, ma se
perdevano era sempre colpa degli altri.
La considerazione che Jordan aveva dei compagni restava una questione
importante, soprattutto quando gli si chiedeva di condividere la palla.
Riconosceva i meriti di Grant, ma non lo riteneva un grande giocatore né un
elemento affidabile quando si trattava di segnare punti cruciali a fine partita.
Pippen costituiva un problema più complesso. Migliorava continuamente, la
sua abilità atletica poteva rivaleggiare con quella dello stesso Jordan,
soprattutto in difesa, e sorprendentemente aveva un ottimo senso del gioco.
Non era ancora un tiratore perfetto, però stava migliorando anche in quello.
Ma il suo livello di determinazione e di efficacia nei momenti critici delle
partite importanti era ancora in discussione per Jordan, che nutriva forti
dubbi dei quali Pippen era ben consapevole. L’unico giocatore con cui
Jordan si trovava a suo agio e del quale si fidava completamente era
Paxson, il che era già incredibile dato che era particolarmente difficile
ricoprire il secondo ruolo di guardia al suo fianco. Paxson non solo era un
tiratore molto affidabile, ma conosceva anche i propri limiti: sapeva quello
che doveva e soprattutto quello che non doveva fare quando Jordan era in
campo.
A Jackson piaceva l’attacco a triangolo di Tex Winter. Per una stagione
aveva allenato insieme a lui nella Lega estiva ed era diventato un suo
grande ammiratore. Riteneva che i continui spostamenti e i ruoli ben
definiti assegnati ai giocatori, che richiedevano tagli da una posizione
all’altra, fossero adatti ai talenti di cui era arrivato a disporre. Inoltre
pensava che quel tipo di attacco avrebbe reso Michael Jordan ancora più
pericoloso per gli avversari, valorizzandolo in post alto – con la sua forza e
l’abilità ineguagliabile nel salto, nessuna guardia nella Lega sarebbe stata
altrettanto efficace – e permettendogli di risparmiare energie e di allungare
la propria carriera. Ma il triangolo non era facile da imparare: ad alcuni
giocatori veniva naturale, ma nel corso degli anni ce ne furono altri che lo
trovarono bizzarro, perché non riuscivano a capire l’esatta natura dei
movimenti, che erano preordinati ma anche autonomi. Il problema primario
sarebbe stato quello di convincere Jordan, un processo che richiese quasi
due intere stagioni. Jackson, cresciuto in una squadra come i Knicks che ai
suoi tempi, grazie agli spostamenti e all’intelligenza, riusciva a battere
sistematicamente avversari più fisici pur non avendo grande forza, lo
considerava un attacco molto adatto ai giocatori che aveva a disposizione.
In quel periodo Jackson era al centro di un equilibrio fra le forti
personalità di Tex Winter e Michael Jordan e le loro diverse filosofie di
gioco. Tex Winter aveva sessantotto anni e allenava da quasi cinquant’anni:
aveva cominciato nel 1947 a Kansas State come assistente a tempo pieno
per $3.000 all’anno. Era un uomo affascinante, assolutamente autentico,
sempre disposto a esprimere la propria opinione, sempre corretto. Era il
prodotto di un’America infinitamente più povera: era diventato adulto nel
periodo peggiore della Grande Depressione e aveva conosciuto l’epoca in
cui gli stipendi erano irrisori e la classe media era quasi inarrivabile per i
vasti strati della popolazione che non ci erano nati. Avrebbe potuto essere il
nonno di alcuni giocatori e il suo conservatorismo, sia in campo finanziario
che sociale, contrastava vistosamente con i valori di coloro che lo
circondavano. Non sprecava il denaro. Per Tex un pranzo per due persone
raramente superava il costo di 8 o 9 dollari. Mentre altri allenatori
consideravano virtualmente immangiabili i pasti gratuiti offerti dai Bulls
alla stampa prima delle partite, Tex Winter, figlio della Depressione,
sembrava apprezzarli molto e partecipava sempre.
Era stato scelto da Krause fin dall’inizio come presenza autorevole, quasi
un guru, ma non era un uomo di Krause: rappresentava soltanto se stesso ed
era sempre completamente onesto. Era questo che gli attirava tante
simpatie: era semplice e diretto, non faceva giochetti politici. La cultura del
basket moderno non gli interessava, considerava l’ostentazione e il culto
della celebrità come distrazioni. A modo suo era un assolutista. Per la
natura della sua personalità e l’atteggiamento aperto era il beniamino dei
cronisti sportivi ma era anche una presenza molto importante
nell’organizzazione, un uomo con una visione chiara di ciò che voleva
ottenere da ogni azione. La sua filosofia del basket e quella di Michael
erano diametralmente opposte. In un certo senso avevano entrambi torto e
ragione allo stesso tempo. Inevitabilmente le differenze saltavano
all’occhio: Jordan, con la sua inarrivabile prestanza atletica e la capacità di
cambiare da solo il corso di una partita e dominarla, vedeva in Winter il
simbolo di uno sport antidiluviano, legato a un’epoca in cui i giocatori non
possedevano le speciali qualità che aveva lui e che quindi aveva dovuto
sviluppare un sistema di compensazione. Il parere di Jordan aveva un suo
valore, nessuno sapeva leggere una difesa meglio di lui e segnare più
rapidamente, ed era tutto frutto dell’istinto: giocare all’interno di uno
schema troppo articolato poteva fargli perdere quell’istinto. Winter
naturalmente non sopportava l’idea di un attacco così dipendente dal talento
di una superstar. Gli piaceva ripetere: «Penso che Michael sia un giocatore
fantastico, ma non per questo ne faccio un idolo».
I due uomini avevano un dibattito aperto sull’essenza del buon basket.
Winter gli diceva: «Nella parola ‘TEAM’ non c’è la lettera ‘I’3».
Jordan rispondeva: «Ma c’è nel verbo ‘vincere’».
Jordan era profondamente convinto che lo sport fosse cambiato, che la
nuova generazione di giocatori con il loro talento puro, l’altezza e la
velocità rendesse antiquato il vecchio sistema a schemi fissi e che il basket
ormai favorisse chi sapeva creare da sé le occasioni di tiro. Per questo si
oppose al tentativo di Jackson di reintrodurre l’attacco a triangolo. Non ne
era stato entusiasta quando ci aveva provato Collins e questa volta era
ancora meno convinto. Temeva che potesse limitare il suo gioco senza
apportare reali vantaggi. «È un attacco delle pari opportunità» diceva, e non
in senso positivo. Jackson cercò di spiegarglielo in modo diverso. La palla
era come la luce di un riflettore, ed era importante condividerla con i
compagni. Contava molto sull’enorme ambizione di Jordan, che non si
focalizzava sui riconoscimenti personali ma sull’anello. Continuava a
ripetergli che facendo a modo suo erano già arrivati al massimo che
potevano ottenere ai playoff, e che avvicinandosi sempre di più alle finali
avrebbero trovato difese sempre più agguerrite che alla fine sarebbero
riuscite a limitare l’azione di un singolo giocatore, per quanto straordinario.
Arrivò a suggerire che potesse essere una buona idea se Jordan non avesse
vinto il titolo per il maggior numero di punti segnati, come aveva fatto negli
ultimi due anni.
Così, quell’anno si aprì la disputa fra Phil Jackson e la sua superstar,
entrambi individui estremamente testardi. Jordan era ancora diffidente nei
confronti dei compagni e quando esprimeva i suoi dubbi Jackson
ammetteva che alcuni di loro non erano al suo livello e probabilmente non
lo avrebbero mai raggiunto. Era possibile che non avrebbe mai avuto
compagni migliori, ma di certo non avrebbero potuto evolversi o dare un
maggiore contributo alla squadra se tutto continuava a reggersi soltanto su
di lui. Doveva correre il rischio di condividere la palla. Altrimenti la
stagione sarebbe finita come tutte le altre, avanzando nei playoff senza mai
arrivare alla vetta. Le difese delle squadre migliori avrebbero trovato il
modo di bloccarlo. Il talento individuale, per quanto unico, non avrebbe
potuto portarli fino alla vittoria finale.
La prima stagione di Jackson, quella del 1989-90, fu un’esperienza
formativa per tutti, un periodo di ricerca, coronato da un successo soltanto
parziale, per trovare la determinazione che distingueva le squadre vincenti.
Per molti giocatori assimilare l’attacco a triangolo non fu semplice. «È
come imparare un ballo da sala» commentò Will Perdue, il centro di riserva,
che aveva un gioco di piedi decisamente imperfetto.
In quella stagione Jordan giocò spesso in attacco, ma a volte se ne tirava
fuori, frustrato perché non ritrovava il gioco di pura reazione che aveva
perfezionato nel tempo oppure perché quando decideva di fidarsi dei
compagni e passare la palla loro lo deludevano. A volte, incoraggiato da
Johnny Bach, l’assistente allenatore, semplicemente riprendeva in mano il
gioco. Bach, che aveva prestato servizio in marina, diceva: «Michael, io
sono solo un assistente ma in momenti come questi l’ammiraglio Halsey
avrebbe ordinato alla sua flotta: ‘Attaccate, attaccate, attaccate!’».
Ovviamente Jordan non aspettava altro. Giocando a modo suo era in grado
di fare due o tre tiri in sospensione a fine partita e assicurarsi la vittoria. Poi
prendeva in giro Winter: «Tex, devo chiederti scusa per essere uscito dallo
schema alla fine».
A poco a poco però cominciarono a emergere dei miglioramenti, si fece
strada la sensazione che stavano diventando una squadra, una squadra che
applicava l’attacco a triangolo. Nella seconda metà della stagione i Bulls
avevano un record di ventiquattro vittorie e tre sconfitte. Jackson stava
costruendo abilmente un compromesso fra i desideri di Tex Winter e quelli
di Michael Jordan, un equilibrio sano, perché l’efficacia del triangolo si
basava anche sulla minaccia costituita per gli avversari dalle iniziative
inarrestabili di Jordan. Johnny Bach era a metà strada fra Winter e Jordan.
Apprezzava molto la genialità individuale di Jordan e pensava, come lui,
che in certi momenti occorresse semplicemente affidarsi all’istinto. Durante
quella stagione, Winter rimase molto colpito dagli sforzi di Jordan. Non era
facile per un giocatore così dotato darsi una disciplina, contrastare il proprio
istinto e sforzarsi di applicare una strategia offensiva estranea e
apparentemente limitante. Gli diede una piena sufficienza per quella
stagione e riconobbe il suo tentativo di valorizzare i compagni. Più Jordan
si avvicinava agli altri giocatori e più loro rispondevano, modificando la
natura della squadra. Non ci erano ancora arrivati, ma il cambiamento si era
innescato. Ai playoff sconfissero Milwaukee 3-1 al primo turno, e al
secondo turno vinsero 4-1 contro Philadelphia.
Arrivarono quindi alla finale di Conference contro i Pistons, per la loro
terza sfida ai playoff consecutiva. La prima volta, nel 1988, avevano vinto
soltanto una partita. L’anno seguente ne avevano vinte due. Speravano di
essere finalmente pronti. I Pistons però vinsero la prima partita e
all’intervallo della seconda, con i Bulls in svantaggio di 15 punti, Jordan
fece una sfuriata ai compagni per la loro mancanza di determinazione.
Anche se persero, nel secondo tempo ridussero leggermente il distacco e
vinsero le successive due partite a Chicago. Jackson era convinto che la sua
squadra avesse più talento, che per vincere a quel livello le mancassero
soltanto la sicurezza e l’esperienza. Secondo lui i Bulls erano così tanto
vulnerabili nei confronti dei Pistons proprio a causa dello spirito guerriero
di Jordan, perché Chuck Daly aveva creato la trappola perfetta con le sue
‘Jordan Rules’ difensive, contando sulla sua competitività. In pratica gli
poneva la sfida finale: devi batterci di persona, e devi batterci con la forza.
Jordan tendeva a reagire nel modo più prevedibile, scontrandosi
frontalmente con la difesa e facendo magari partite mostruose, il cui
copione però era stato scritto da Chuck Daly. Jackson voleva che la sua
squadra e la sua stella giocassero con maggiore astuzia, sfruttando al
massimo la propria velocità, rispondendo alla difesa di Detroit con delle
finte – fra i loro lunghi, soltanto Rodman era veloce quanto i migliori
elementi di Chicago – e poi passando la palla per creare occasioni di tiro.
In parte riuscirono a farlo e i Bulls vinsero la terza e la quarta partita. In
Gara Cinque, ad Auburn Hills, i Pistons sbaragliarono nuovamente i Bulls,
ma i Bulls si assicurarono facilmente Gara Sei, disputata a Chicago. Questo
portò a una Gara Sette nei sobborghi di Detroit, un luogo dove i Bulls non
avevano mai vinto una partita di playoff. Fu un disastro. Paxson aveva una
caviglia infortunata e le condizioni di Scottie Pippen erano ancora peggiori.
Un anno prima era stato portato fuori da Gara Sei dopo aver ricevuto da Bill
Laimbeer una gomitata alla testa così violenta che rimase confuso per il
trauma fin dal primo minuto di gioco. Questa volta, subito prima della
partita più importante della loro vita, Pippen accusava un’emicrania e ci
vedeva a malapena. Prese dell’aspirina che sembrò peggiorare la situazione.
Disse a Mark Pfeil, il preparatore atletico, che aveva problemi alla vista.
«Puoi giocare?» gli chiese Pfeil.
Pippen stava per rispondere di no, ma Jordan si intromise: «Ma certo che
può giocare». Pfeil diede a Pippen un impacco ghiacciato e lui cercò di
giocare, ma non riuscì a entrare davvero in partita. Centrò un solo tiro su
dieci. Più tardi disse che riusciva a malapena a distinguere le divise dei
compagni da quelle dei Pistons. La sconfitta fu schiacciante, con una
differenza di 19 punti, e costituì un brutto colpo per i Bulls e in particolare
per Michael Jordan.
Al termine della partita Jordan era quasi inconsolabile. Jack McCloskey
lo vide mentre attraversava il parcheggio diretto al bus. McCloskey era in
piedi davanti all’ingresso e scusandosi con la moglie le disse che doveva
andare ad aiutare quel giovane giocatore di talento. «Signor McCloskey,
riusciremo mai a battere i Pistons? Conquisteremo mai l’anello?» gli chiese
Jordan.
«Michael, verrà il tuo momento, e verrà molto presto» rispose lui.
Jordan salì sul bus e si sedette in fondo, da solo col padre, perso nel suo
oscuro mondo. Probabilmente fu il punto più basso della sua carriera. Quel
giorno, in fondo al bus, si mise a piangere. I Bulls avevano di nuovo perso
contro i rivali di sempre e di nuovo mise in discussione il valore dei
compagni, in particolare quello di Pippen. A Jordan non importava capire i
motivi scatenanti della sua emicrania, se fosse stata reale, se fosse stata
innescata dalla tensione o da qualcos’altro. Per lui contava solo il fatto che
Pippen lo aveva di nuovo deluso in un momento critico e l’incertezza su di
lui – sulla sua determinazione, non sul suo talento – non si risolse.
La delusione del momento oscurava il fatto che i Bulls erano in ascesa,
che avevano vinto cinquantacinque partite in stagione e che erano arrivati
ancora più avanti nelle finali di Conference, vincendo tre partite quando
negli anni precedenti ne avevano vinta una e poi due. La differenza fra i
Bulls e i Pistons era molto sottile ormai, e anzi i giocatori più giovani dei
Bulls erano più completi e avevano più talento dei giovani dei Pistons.
Michael Jordan, alle soglie dei ventotto anni, stava per raggiungere l’apice
della sua condizione, in cui le incredibili abilità fisiche si mescolavano a
una conoscenza sempre più approfondita del gioco a livello professionistico
e a un’astuzia sempre più consumata. Anche Pippen e Grant erano in
ascesa. I Pistons invece avevano raggiunto il massimo delle loro possibilità
e non potevano andare oltre, anche se erano ancora in pochi a rendersene
conto, forse lo staff e un paio di giocatori.
20
Chicago, 1990-1991
Dopo aver battuto Detroit nella finale della Eastern Conference, i Bulls
affrontarono i Los Angeles Lakers per la loro prima occasione di
conquistare l’anello. Per i Lakers era la nona presenza alle finali nell’era di
Magic Johnson, iniziata nel 1980, undici anni prima. Non c’erano più né
Kareem Abdul-Jabbar né Michael Cooper e in teoria Johnson avrebbe
dovuto essere ormai al crepuscolo, ma era ancora un giocatore straordinario
con una squadra molto forte alle spalle. Se in campo aveva cominciato a
declinare, gli avversari non lo avevano ancora capito. Johnson aveva ancora
un gruppo stellare a supporto, con James Worthy, Sam Perkins, A.C. Green,
Mychal Thompson, Byron Scott e Vlade Divac. I Lakers, allenati da Mike
Dunleavy, quell’anno avevano vinto cinquantotto partite. Avevano smesso
di fare i vecchi numeri degli inizi e utilizzavano una strategia offensiva più
mirata, studiata anche per conservare energie, ma erano comunque una
franchigia formidabile e i giocatori erano abituati alla pressione
dell’attenzione mediatica e della confusione che si creava intorno alle finali
NBA. Non si poteva dire lo stesso dei Bulls, eccezion fatta naturalmente per
Michael Jordan, che era costantemente sotto i riflettori. Quello scontro era
esattamente ciò che la dirigenza dell’NBA e della NBC avevano a lungo
desiderato: i giovani e rudi pistoleri di Chicago contro i veterani di Los
Angeles, una superstar ingombrante ma più anziana contro una in ascesa,
quella che l’intero Paese aspettava di vedere nelle Finals.
In un certo senso fu lo scontro di due fantastici sorrisi. Magic Johnson
aveva un sorriso luminoso, che sembrava più abituale per lui di quanto non
fosse per Michael Jordan. Il sorriso di Jordan era più controllato, così come
il suo carattere, forse era ancora più brillante ma si vedeva più raramente,
solo in occasioni speciali come le cerimonie dell’anello e le sedute
fotografiche per i vari sponsor. Questa selettività lo rendeva più efficace
presso il pubblico, alla fine della partita il cipiglio del guerriero spariva
all’improvviso per lasciare il posto al fiammeggiante sorriso del vincitore. Il
sorriso di Johnson era il suo segno distintivo in campo, sembrava esprimere
il puro piacere del gioco e guardandolo era facile dimenticare quanto fosse
esigente con i compagni, che redarguiva all’istante a ogni sospetto di
distrazione o superficialità. Il compagno di lungo corso Mychal Thompson
ebbe a dire: «Dimenticate il sorriso di Magic, non lo rappresenta davvero.
Lui era come Ali, e anche Ali sorrideva molto, ma quello che volevano era
ucciderti e non si sarebbero accontentati di niente di meno».
Lo scontro in finale fra Lakers e Bulls diede l’occasione agli addetti ai
lavori di confrontare due superstar molto diverse. Johnson in campo era un
leader naturale e giocava nel ruolo giusto, quello di playmaker. Secondo la
perspicace analisi di Mark Heisler del Los Angeles Times, che aveva seguito
a lungo entrambi gli atleti, l’istinto di Jordan era quello di fare, più che di
guidare gli altri. Non gli veniva naturale condividere la palla e far
migliorare i compagni. James Worthy, uno dei pochi a conoscerli bene
entrambi, una volta disse che Johnson in realtà era più intenso di Jordan:
«Michael è più intenso in se stesso, Magic è più intenso per tutti quanti».
Era ben noto il fatto che Jordan pretendesse moltissimo dai compagni,
soprattutto perché aveva avuto tante difficoltà lavorando con giocatori di
basso livello. Johnson invece non aveva fama di essere uno che pungolava e
redarguiva, perché fin dall’inizio aveva avuto la fortuna di essere circondato
da grandi giocatori. La squadra dei Lakers al suo arrivo era già come
un’ottima automobile che aveva soltanto bisogno di un sistema di
avviamento, e quello era lui. Per lui vincere era una cosa seria: al liceo
aveva portato Michigan State alla vittoria nell’NCAA a soli diciannove anni
e poi aveva preso i Lakers, che non erano più andati in finale dal 1973,
portandoli all’anello già nel primo anno, vincendo da rookie quando non
aveva neanche raggiunto l’età legale per gli alcolici in molti stati americani.
Non era bravo negli uno-contro-uno, non era un tiratore perfetto e la sua
abilità nel salto era piuttosto limitata, ma aveva un’immensa fame di
vittoria, viveva il gioco con grande gioia e il suo istinto in campo, che gli
diceva quando e dove passare la palla, era quasi inarrivabile. Aveva
un’ottima visione periferica e un perfetto controllo di palla grazie alle mani
enormi, inoltre la sua altezza – due metri e sei, inaudita per un playmaker –
significava che non solo i difensori non riuscivano a bloccargli la visuale
ma che poteva creare continuamente problemi di accoppiamento. L’estrema
sensibilità in campo, la capacità di fare il passaggio giusto al momento
giusto in accordo con il flusso del gioco era davvero speciale. Gli allenatori
e gli scout che seguivano le partite concentrandosi esclusivamente su di lui,
nel tentativo di scoprire quali fossero i suoi punti deboli, spesso se ne
andavano scuotendo la testa, convinti che non ne esistesse nessuno.
Magic Johnson era il prototipo del maschio alfa nel basket, il suo
comportamento in campo era un’estensione naturale della sua personalità.
Conoscendolo era difficile immaginare un’area in cui non avrebbe preso il
comando. I Lakers erano diventati la sua squadra praticamente da subito.
«Quando lo abbiamo scelto al draft lo consideravamo un ottimo elemento»
ebbe a dire Jerry West anni dopo «e pensavamo che avrebbe gestito molto
bene la palla, condividendola con i compagni. Ma non avevamo idea che
avrebbe conquistato la squadra ed esercitato la sua leadership così in fretta,
già a metà della prima stagione».
I soprannomi riflettevano diversi aspetti del suo carattere. Per i tifosi e
per la maggior parte dei cronisti sportivi era Magic, per le magie che faceva
in campo. Era il nomignolo usato da chi non lo conosceva bene, chi viveva
fuori dal mondo del basket ma voleva sentirsi un addetto ai lavori. Quelli
che lo conoscevano di persona, invece, lo chiamavano Earvin (il suo nome
di battesimo), che a lui piaceva molto. I compagni di squadra e gli amici più
stretti – i pochi eletti – lo chiamavano ‘Buck’, che in inglese significa cervo
maschio, un soprannome ideato dal compagno di squadra Norm Nixon al
suo arrivo a Los Angeles perché la sua energia, la spinta vitale e la fame di
vittorie gli ricordavano un giovane cervo.
Col tempo, dopo un periodo di consolidamento e l’arrivo in panchina di
Pat Riley, i Lakers diventarono una squadra molto determinata. Riley non
perdeva mai di vista l’obiettivo, era un giovane dalle radici popolari che
come giocatore era sempre stato consapevole dei propri limiti fisici. Sapeva
che quella era la sua grande occasione di conquistare l’anello. Un giorno,
dopo la fine della sua carriera da professionista, era virtualmente
disoccupato e aveva avuto la fortuna di incappare in un lavoretto come
assistente del commentatore sportivo Chick Hearn, che seguiva i Lakers, un
uomo che non aveva alcun bisogno né desiderio di un assistente. Il suo
compito principale consisteva nel dire: «Giusto, Chick» diverse volte nel
corso della telecronaca, come disse Mark Heisler. Poi gli era capitata
l’occasione di fare l’assistente allenatore per i Lakers e quando Paul
Westhead era stato licenziato aveva preso in mano la squadra, perché Jerry
West non voleva saperne di occuparsi della parte tecnica. Riley stesso era
sbalordito da quella concatenazione di eventi, ma dopo aver vinto il primo
anello decise di non lasciarsi sfuggire l’opportunità e di dare tutto quello
che aveva per mantenere il titolo.
Riley sapeva bene a chi andavano i maggiori meriti. Un giorno si trovava
insieme a un gruppo di amici estranei al mondo del basket e chiese loro di
trovare due parole che lo distinguessero da chiunque altro. Gli amici fecero
diversi tentativi: onestà? Lealtà? Determinazione? Semplicità?
Preparazione? Tutte sbagliate. Alla fine le disse lui: «Magic Johnson».
Riley e Johnson spinsero la squadra al massimo: se Riley era il generale,
come disse una volta James Worthy, Magic Johnson era il sergente
istruttore, quello che doveva alleviare il più possibile la pressione sul
generale. Gli allenamenti dei Lakers erano faccende molto serie. Era tutto
preordinato, non bisognava sprecare neanche un minuto. Magic Johnson era
il gendarme: era il primo ad arrivare ogni giorno, per schiarirsi la mente con
calma negli spogliatoi e pensare a tutto ciò che doveva fare per se stesso e
poi per i compagni. Non voleva confusione in spogliatoio, soprattutto prima
delle partite, per conservare la concentrazione. Niente altoparlanti: se
qualcuno voleva sentire la musica, doveva usare le cuffie. Il messaggio era
chiaro: quello era un ambiente di lavoro, non un’occasione sociale o un
club. Era Johnson a redarguire chi arrivava in ritardo agli allenamenti:
«Vediamo un po’. Tutto bene? Nessun malanno? Nessun lutto in famiglia?
Hai avuto un incidente d’auto venendo qui? Grazie a Dio!» Era un
messaggio molto chiaro. Era molto duro con A.C. Green, perché non aveva
le mani buone e non riusciva a gestire certi tipi di passaggi, e anche con
Vlade Divac che all’arrivo dalla Jugoslavia era un po’ troppo morbido per il
basket americano. Un compagno di squadra disse che a volte Johnson si
rivolgeva a Divac come avrebbe fatto con un cane; un cane a cui non era
particolarmente affezionato. Se i Lakers perdevano due partite di seguito,
Johnson si infuriava terribilmente, anche più di Riley.
La squadra che si era formata in quel decennio era davvero grande.
Soltanto i Celtics nel loro momento migliore erano paragonabili. Era
considerata una squadra morbida per la velocità e la capacità di giocare in
modo raffinato, nonché perché giocava a Los Angeles, che non era
considerata una città rude come per esempio Chicago o Detroit, ma nulla
poteva essere più lontano dalla verità. Pat Riley non allenava squadre
morbide e di certo Magic Johnson non ci giocava. I Lakers erano molto
determinati. Anche se ormai al posto di Riley era subentrato Dunleavy, i
Lakers erano ancora una squadra di tutto rispetto quando i Bulls li
affrontarono nella loro prima finale di campionato. Sarebbe stato un
confronto affascinante.
L’attacco di Jordan era molto spettacolare, perciò in pochi capivano che il
vero segno distintivo della squadra era la difesa. Un anno dopo Don Nelson,
che allora allenava Golden State, disse a Phil Jackson: «Non sai quanto sei
fortunato».
«Credo di saperlo bene, ma per che cosa in particolare?» chiese Jackson.
«I tuoi due migliori attaccanti sono anche i tuoi due migliori difensori» fu
la risposta. Era vero, si trattava di una condizione molto rara. Phil Jackson
non si illudeva di essere particolarmente bravo ad allenare l’attacco, ma
sapeva di essere molto efficace come allenatore della difesa. Quando aveva
preso in mano la squadra, nell’autunno del 1989, aveva insistito molto
perché i giocatori facessero un pressing costante. Il primo ritiro fu molto
duro. Dovevano essere tutti in forma perfetta e spingere al massimo sulla
difesa, l’energia impiegata avrebbe poi creato opportunità di attacco. Il
talento ce l’avevano, ma dovevano impegnarsi al massimo.
Michael Jordan era un ottimo difensore. Alcuni, come Mike Dunleavy, lo
consideravano il migliore in assoluto nel suo ruolo. Per questo era un
giocatore così completo. Il merito di tutto ciò andava a Dean Smith, che
vedendo le sue incredibili doti naturali e l’efficacia in attacco lo aveva
spinto a eccellere anche in difesa. Da quella fatica iniziale era uscito un
rarissimo esemplare di giocatore, una magnifica forza offensiva che era
anche disposta a impegnarsi nel lavoro sporco, sfiancante e spesso
trascurato, all’altra estremità del campo. All’inizio della carriera da
professionista Jordan aveva detto ai giornalisti che un giorno sperava di
vincere il titolo di miglior difensore dell’anno, oltre che di miglior
giocatore. Jan Hubbard, che allora scriveva per il Dallas Morning News,
aveva scritto che non era possibile, che giocare in attacco al suo livello
richiedeva troppe energie e che raggiungere lo stesso livello in difesa ne
richiedeva altrettante, nessuno poteva averne abbastanza per entrambi. Poi
però, nella stagione 1987-88, Jordan vinse entrambi i premi. Hubbard
scrisse di essersi sbagliato ma Michael, che voleva sempre avere l’ultima
parola, non gli permise mai di dimenticare che anche se solo per un
momento aveva sottovalutato Michael Jordan, un reato che andava oltre la
semplice infrazione giornalistica e sconfinava pericolosamente nel penale.
Durante quella stagione, Scottie Pippen si dimostrò un difensore forse
ancora migliore di Jordan, o comunque più versatile. Con quelle braccia
insolitamente lunghe, più di quelle di Jordan, riusciva a coniugare il gioco
di piede di una guardia con la capacità di occupare lo spazio di un centro. In
quel primo periodo fu aiutato soprattutto dalla possibilità di allenarsi ogni
giorno contro Jordan. L’equazione era semplice: se Pippen riusciva a
marcare Jordan, poteva marcare chiunque altro. I due, insieme a Horace
Grant, probabilmente l’ala grande più veloce in circolazione, rendevano
formidabile la difesa dei Bulls. Johnny Bach aveva soprannominato il trio ‘i
dobermann’ perché erano giovani, veloci e implacabili in difesa. In più
Cartwright in difesa aveva uno spiccato senso della posizione, anche se
aveva perso molta della sua efficacia in attacco: era molto complicato per i
centri avversari riuscire ad aver ragione di lui in partita. A prescindere dal
ritmo di gioco, i Bulls erano molto difficili da battere: la loro difesa era
estremamente agguerrita e quindi potevano vincere le partite a basso
punteggio, ma avevano anche esplosività negli attacchi in campo aperto e
quindi sapevano spuntarla anche quando si sforavano i 100 punti.
Prima di quel confronto diretto erano in pochi a sapere quanto valessero
davvero i Bulls. Sapevano quanto era forte Jordan, ma quella era un’altra
storia. Certo, quell’anno avevano sbaragliato i Pistons, ma soltanto chi
aveva giocato contro Detroit sapeva quanto fossero duri e quanto fosse
difficile batterli. Per contro, tutti sapevano quanto erano bravi i Lakers, o
pensavano di saperlo, perché erano sulla cresta dell’onda da un sacco di
tempo.
I primi due incontri si disputarono a Chicago. Nel primo i Bulls
dimostrarono un po’ di incertezza e una sorprendente lentezza nelle
rotazioni difensive. Alla fine Sam Perkins fece un tiro da tre e assicurò la
vittoria ai Lakers per 2 punti. Phil Jackson sentiva che la squadra aveva
giocato al di sotto delle proprie possibilità, che aveva pagato il nervosismo
della prima partita ed era sicuro di poter fare qualche aggiustamento alla
difesa per impedire il dilagare dell’attacco dei Lakers. Non era
particolarmente scontento. Avevano perso una partita ma gli era piaciuto
molto di quello che aveva visto ed era certo di poter recuperare. In Gara
Due un secondo fallo fischiato a Jordan piuttosto presto gli forzò la mano.
Accoppiò Pippen con Magic, una mossa difensiva su cui stava ragionando
da tempo. Fu un colpo di genio: Pippen era alto quasi come Johnson, ma
molto più veloce in quel momento delle rispettive carriere e Johnson non
era abituato a una combinazione del genere. La difesa di Pippen contro
Johnson sembrò mandare in confusione l’attacco dei Lakers, che soffrivano
anche l’assenza di James Worthy, fuori per una brutta distorsione alla
caviglia: Pippen era più bravo a controllare la palla e di conseguenza a
superare il pressing rispetto a Byron Scott, l’altra guardia. Senza Worthy la
pressione su Johnson era più difficile da gestire. I Bulls se ne accorsero e
aumentarono il pressing difensivo.
Nel frattempo i Bulls stavano trovando il proprio ritmo: nel terzo quarto
mandarono a segno 17 tiri su 20 dal campo e presero in mano la partita.
Jordan finì con 15/18 e Paxson con 8/8. Uno dei quindici canestri di Jordan
fu spettacolare: mentre si avvicinava a canestro con la palla nella mano
destra vide Sam Perkins, il suo ex compagno di squadra di Carolina, che gli
veniva incontro. Sembrò fermarsi a mezz’aria per un momento, poi passò la
palla nella sinistra e segnò. Nessun altro cestista avrebbe potuto realizzare
quel tiro, uno dei contributi al blowout: 107-86, un risultato che sfatò del
tutto l’idea che i Bulls fossero troppo giovani e inesperti per affrontare i
Lakers. A Chicago avevano vinto una partita a testa. Mentre si recavano a
Los Angeles, Phil Jackson disse che lì voleva vincerne due su tre. «E perché
non tre su tre?» chiese Jordan.
In Gara Tre, a Los Angeles, Jordan segnò un tiro in sospensione da
quattro metri e venti superando Byron Scott a 3,4 secondi dalla fine,
rendendo necessari i tempi supplementari. I Bulls, che erano più giovani e
freschi, vinsero, ma Jordan si infortunò all’alluce nell’atterraggio del salto
che aveva chiuso la partita. Il dolore fu immediato – all’inizio pensò che
fosse rotto – e limitò la sua capacità di fermarsi e ripartire di scatto. Chip
Schaefer, preparatore atletico dei Bulls dal 1990, cercò di costruire una
scarpa speciale per proteggere la parte ferita, ma quando la provò Michael
si rese conto che non riusciva più a fare i suoi tagli abituali. Subito prima
dell’inizio di Gara Quattro si rivolse a Schaefer e disse: «Preferisco il
dolore». Preferiva usare le solite sneakers e continuare a soffrire. Lo fece e
segnò 36 punti, portando Chicago alla terza vittoria consecutiva. Nel
secondo tempo Magic Johnson inveì contro i compagni, insistendo perché si
impegnassero di più. Sam Perkins centrò un solo tiro su 15. Non fu soltanto
un cappotto spaventoso, 97-82, ma un cappotto creato da una difesa
eccellente. I Bulls tagliarono fuori l’attacco dei Lakers, facendo segnare a
Los Angeles il proprio record negativo di punti in casa dall’introduzione dei
ventiquattro secondi. I Lakers cominciarono a rendersi conto che il vecchio
ordine stava per cambiare. Dopo Gara Tre, Johnson aveva dichiarato che
sarebbe stata una serie lunga: «Non c’è niente di stabilito». Dopo Gara
Quattro, però, era palesemente scosso. «Un massacro vecchio stile, non me
lo sarei mai immaginato» commentò. Quello che sembrava inconcepibile,
una serie di tre partite consecutive perse a Los Angeles, ormai appariva
realistico.
I Bulls chiusero la serie in Gara Cinque al Los Angeles Forum. Questa
volta però Los Angeles vendette cara la pelle. A sei minuti dalla fine i
Lakers erano in vantaggio di un punto. Gli allenatori di Chicago temevano
che Jordan abbandonasse gli schemi di attacco per provare a fare tutto da
solo ed era l’ultima cosa che volevano, soprattutto perché Magic Johnson
aveva la tendenza ad attuare una specie di difesa a zona, abbandonando
Paxson e lasciandolo libero per tenersi qualche passo indietro e togliere a
Jordan e Pippen la possibilità di andare a canestro. Era dall’inizio della serie
che Jackson spingeva Jordan a cercare Paxson. «Michael, chi è libero?» gli
chiese verso la fine di Gara Cinque. Nessuna risposta. Glielo chiese altre
due volte e infine Jordan disse: «Pax».
«E allora passagli la stramaledetta palla» concluse Jackson. Per i
giocatori fu un momento evolutivo fondamentale, se non per quella partita e
per quella serie, almeno per il futuro (anni dopo, quando la distanza fra
Jackson e Krause divenne incolmabile, Jerry Reinsdorf ricordò quel
momento come uno dei più felici di Krause: «Jerry continuava a dire che
era stato uno dei grandi momenti di Phil, che nessun altro allenatore sarebbe
stato in grado di convincere Michael a farlo»). I Bulls vinsero 108-101.
Avevano vinto quattro partite consecutive, sbaragliando Los Angeles in
casa come avevano fatto con Detroit: nelle due serie avevano raggiunto un
record di otto vittorie e una sconfitta e avevano vinto tutte e cinque le
partite giocate in trasferta. Il pubblico si rese conto che gran parte del
merito andava alla difesa, che era riuscita a mantenere i Lakers entro i 90
punti a partita, quando negli anni precedenti avevano segnato una media di
110 punti a partita nella serie finale. Il testimone era davvero passato di
mano.
Dopo la partita in cui aveva conquistato l’anello per la prima volta dopo
sette anni in NBA, Michael Jordan scoppiò in lacrime. I giornalisti chiesero
a Magic Johnson se anche lui si era lasciato trasportare dall’emozione alla
sua prima vittoria. Lui rispose: «No, allora ero troppo giovane e inesperto e
non capivo fino in fondo che cosa significava. Adesso so esattamente che
cosa prova Michael, perché l’ho provato più avanti nella carriera, quando
per conquistare il titolo ci volevano molto più impegno e sudore».
22
Chicago, 1997-98
Barcellona, 1992
Nel baseball ebbe vita dura. Date le sue doti naturali eccezionali e la sua
singolare determinazione nessuno può sapere quanto sarebbe diventato forte
se avesse giocato a baseball a Carolina e poi avesse scelto di diventare
professionista lì, lasciando perdere il basket o cercando di tenere le due
discipline in equilibrio, come fecero Deion Sanders e Bo Jackson. Ma
quando cambiò sport, nel 1994, era stato lontano dal baseball ormai per
tredici, cruciali anni, cioè dal suo ultimo anno delle superiori. Inoltre, la sua
statura nel baseball era uno svantaggio, perché offriva ai lanciatori una
vasta area di strike, senza nessuna compensazione. I suoi riflessi,
meravigliosamente sincronizzati con il minimo movimento di un avversario
nel basket, erano costruiti completamente per un altro sport, uno sport in cui
poteva prendere decisioni anche senza pensare: ora, dovevano essere
totalmente rimodulati, in una fase peraltro piuttosto avanzata della sua
carriera. Il compito si sarebbe dimostrato molto difficile. Quello che aveva
deciso di fare era piuttosto ammirevole: un giocatore al massimo delle sue
capacità – probabilmente il migliore di sempre –, un uomo dall’orgoglio
unico che all’improvviso abbandonava uno sport in cui eccelleva,
desideroso di iniziare dai ranghi inferiori di un altro sport altrettanto
impegnativo, disposto ad accettare l’idea di fallire. Sarebbe stata già
abbastanza dura così, ma data la sua fama avrebbe dovuto anche fare tutto
ciò davanti agli occhi di tutti, rischiare il fallimento sotto i riflettori dei
media. Non sono molte le persone che, dopo aver ottenuto il successo con
così tanto duro lavoro, avrebbero rischiato di rendersi ridicole in
un’avventura di tale visibilità, neppure per fare qualcosa che amano. Il
fallimento privato è una cosa, quello pubblico un’altra. Una copertina di
Sports Illustrated con il titolo ‘LASCIA PERDERE, MICHAEL’ e che lo definiva
una disgrazia per il baseball lo mandò su tutte le furie. Non perdonò Sports
Illustrated e chi ci scriveva, e per un bel po’ non volle collaborare coi suoi
giornalisti.
Per Tom Boswell del Washington Post, uno dei migliori giornalisti
sportivi del Paese, quello che stava facendo era una sorta di omaggio a un
padre amorevole. Il baseball era lo sport che aveva legato James a Michael,
quando Michael era ancora un giovane e semplice giocatore di Little
League. Era lo sport in cui suo padre pensava fosse più bravo, quindi ora
stava provando a giocare a baseball per tornare indietro nel tempo e trovare
un po’ di sollievo. La cosa interessante era che Phil Jackson era d’accordo.
Giocò per i Birmingham Barons, una squadra di serie minore di proprietà
di Jerry Reinsdorf. Era un buon compagno di squadra. Gli altri giocatori
erano dieci o più anni più giovani di lui, e decisamente più poveri. (Oltre
agli $850 al mese che prendeva per giocare a baseball, con anche $16 al
giorno in buoni pasto, guadagnava circa 30 milioni di dollari di
sponsorizzazioni, oltre ai 4 milioni che Reinsdorf continuò a pagargli). Tra
le altre cose, affittò un bus di lusso e lo prestò ai Barons perché la squadra
ci viaggiasse. Un mezzo decisamente migliore di quelli a disposizione della
maggior parte delle squadre di serie minore per le loro trasferte: viaggi
lunghi dodici ore in calde giornate estive. Si divertiva con il catcher Rogelio
Nunez, e cercò di migliorare il suo inglese: diceva una parola e, se Nunez
era in grado di fare lo spelling, Jordan gli dava $100. Nessuno lavorava più
duro di lui per cercare di migliorare: era il primo ad arrivare
all’allenamento, ogni giorno, lavorava con i suoi istruttori alla battuta e se
ne andava per ultimo. Nessun allievo aveva mai ascoltato un maestro più
avidamente di quanto lui ascoltava Walter Hriniak, suo allenatore alla
battuta.
Ma la scintilla, semplicemente, non scattò. Era un atleta così superiore a
tutti gli altri nel basket, così veloce, così potente, così ossessionato, che in
qualche modo riusciva sempre a superare qualunque ostacolo si mettesse
sulla sua strada. Sembrava improbabile che Jordan potesse fallire in
qualsiasi cosa in cui si impegnasse. In qualche modo, il mondo dello sport
(ma non il mondo del baseball) si aspettava che avesse grande successo
anche con mazza e guantone. E partì anche abbastanza bene, con una media
battuta di circa .300 nelle prime settimane, ma poi i lanciatori cominciarono
a rifilargli palle curve e slide, e la sua media crollò. Aveva difficoltà a
adattarsi alle palle curve, e la sua velocità di giro mazza, per qualcuno così
potente e agile, era decisamente deludente. Nonostante la stazza e la
muscolatura, non riuscì a trasferire la sua forza nel baseball. Forse era vero
quello che Ted Williams aveva suggerito anni prima? Colpire una palla da
baseball era davvero la cosa più difficile di tutti gli sport? La risposta
sembrava essere di sì. In 436 turni di battuta, colpì solo tre fuori campo e
cinquanta valide. Per un certo periodo si aggirò intorno alla ‘linea
Mendoza’, la leggendaria media battuta inferiore a .200 che certificava il
fallimento nel baseball. Questo era in sé piuttosto negativo, ma scendere
ulteriormente, per un uomo orgoglioso come lui, sarebbe stato un dolore
terribile. La sua media vicino alla fine della stagione era .201 e il suo
allenatore Terry Francona si offrì di tenerlo fuori per una partita. Lui invece
giocò, colpì una valida e rimase sopra quella sottile linea rossa.
Secondo gli esperti di baseball, uno dei suoi problemi era che il suo corpo
era completamente sbagliato. Il miglior corpo per il basket non era per nulla
efficace nel baseball: il programma di allenamento di Jordan aveva sempre
fatto sì che le sue gambe fossero più magre possibile, ma per i giocatori di
baseball la potenza nelle gambe e nelle cosce era fondamentale. I giocatori
di baseball erano piuttosto tozzi, più robusti dei cestisti sia nella parte alta
che nella parte bassa del corpo: la loro potenza veniva da lì. Jordan,
secondo gli esperti, era costruito più come un cavallo da corsa. Una delle
cose che Jordan imparò dal suo fallimento fu il rispetto per le abilità
atletiche dei giocatori di baseball, anche se erano più bassi, più tozzi e,
almeno per le caratteristiche prototipiche del giocatore NBA, non
sembravano nemmeno atleti. C’erano giocatori alti a malapena 1,75m, con
una percentuale di grasso corporeo del 20%, che potevano vedere cose che
lui non vedeva e fare cose che lui non poteva fare, e che avevano il potere
di mandare la palla dove volevano, che a lui semplicemente mancava.
Phil Jackson aveva sempre pensato che l’amore di Michael Jordan per il
basket fosse qualcosa di speciale, che avesse una purezza rara da trovare a
qualsiasi livello. Jackson non aveva mai pensato che Jordan stesse lasciando
il basket per sempre, ma solo che fosse molto stanco. Quando Jordan lo
chiamò, dopo che Scottie Pippen si era rifiutato di tornare in campo nel
finale della partita con i Knicks, fu solo per ricordargli che era ancora uno
dei Bulls. Era sostanzialmente la chiamata di un compagno di squadra.
La persona dei Bulls con cui Jordan rimase più a stretto contatto durante i
suoi due anni sabbatici nel baseball fu B.J. Armstrong. Nei giorni in cui
avevano giocato insieme erano stati amici, ma non particolarmente intimi.
Dopo i primi anni nel professionismo, Jordan aveva iniziato a limitare
sempre più i contatti con i suoi compagni di squadra. I vecchi tempi,
quando poteva stringere buoni legami con gente come Charles Oakley,
erano finiti da tempo. A causa della sua sempre più sfavillante notorietà, le
differenze tra la sua vita e quella degli altri giocatori aumentavano ogni
anno e ogni forma di rilassato cameratismo diventava più difficile. C’erano
altri fattori che aumentavano il gap: lui amava il basket, ma era anche un
lavoro, e diventando più maturo desiderava separare lavoro e vita privata.
Inoltre, c’era un’altra ragione: l’assedio portato dai media alla sua vita
privata si era fatto sempre più stretto, quindi era un bene che i suoi
compagni sapessero poco di lui, perché avrebbero trovato sulla loro strada
un flusso costante di giornalisti che avrebbero finito per voler scrivere di
loro, ma che in realtà erano sempre pronti a scrivere di Jordan. Preferiva
vedersi con i suoi vecchi amici di North Carolina, che non avrebbero mai
incontrato dei giornalisti, che lo avrebbero avvisato immediatamente se un
reporter li avesse contattati e che non erano gelosi di lui.
Ma nelle due stagioni in cui stette lontano dal basket fu in costante
contatto con Armstrong, quel giovane e ingenuo ragazzo dell’Iowa che una
volta, trovando così difficile giocare con Jordan, era andato in biblioteca a
leggere libri sul genio. Il fatto che abbia scelto Armstrong non deve
sorprendere: Armstrong era sveglio, aveva una mente analitica, era
indipendente dagli altri giocatori e dallo staff tecnico. B.J. pensava che
Jordan avesse lasciato il basket perché aveva perso la sua innocenza, quella
speciale, quasi infantile qualità che solo i grandi atleti hanno e che permette
loro di giocare per molto tempo, anche dopo che i soldi hanno smesso di
essere così importanti, anche dopo che sono coperti di titoli e di gloria. Pur
non essendo ai livelli di Jordan, Armstrong sapeva quanto l’innocenza fosse
importante per avere successo in un campo difficile come l’NBA, e lui
stesso, durante la sua carriera, era andato molto vicino a perderla. Ma
quando il suo pessimismo raggiungeva i massimi livelli, passava vicino a
un campetto e guardava dei ragazzini giocare finché non scendeva la sera, e
rivedeva il giovane B.J. Armstrong palleggiare fino a tarda notte sognando
l’NBA. A quel punto si ricordava di essere stato abbastanza fortunato da
vivere il suo sogno, e questo lo aiutava a dare il giusto peso alle sue priorità.
Era sicuro che i fardelli e le aspettative che si erano create nella stagione
1993 avevano fatto dimenticare a Michael il semplice piacere di giocare a
basket.
Nell’autunno del 1993, quando Michael Jordan, durante una riunione
privata al Berto Center, aveva annunciato il suo ritiro per la prima volta ai
suoi compagni di squadra, Armstrong gli aveva detto: «Tu ora possiedi due
delle cose più spaventose che si possano immaginare: tutti i soldi del
mondo, e tutto il tempo del mondo». Ma Armstrong aveva sempre
sospettato che il baseball fosse solo un tentativo temporaneo di trovare una
direzione, per qualcuno che aveva perso la propria bussola interiore.
Quindi, quando iniziarono le chiamate da parte di Jordan, non fu sorpreso.
Certo, Jordan chiamava a orari strambi, spesso la mattina presto, sveglio
prima di chiunque altro per allenarsi sulla battuta, o la sera tardi, dopo una
partita e un viaggio in autobus. Anche quando Armstrong diceva alla
reception dell’hotel che non voleva essere disturbato, Jordan riusciva in
qualche modo a raggiungerlo. Quando gli domandava come ci era riuscito,
Jordan rideva e diceva: «Andiamo, amico…» Il che significava: io sono
Michael Jordan. Davvero credi che la reception di un albergo mi possa
fermare?
Armstrong non chiedeva mai a Jordan come se la stava cavando nel
baseball ma quello che sentiva nella sua voce fu, all’inizio, un senso di
euforia per essersi liberato del fardello di essere Michael Jordan. Parlava
sempre di quanto si divertiva a stare con ragazzi giovani e motivati, che ce
la mettevano tutta per arrivare alle serie maggiori e che lottavano ancora per
inseguire i loro sogni. Non c’erano ego ingombranti, diceva Jordan, solo
sogni e speranze. Quando si giocava a carte, si vincevano al massimo un
paio di dollari. Era rigenerante per lui stare con ragazzi abbastanza giovani
da sognare di avere carriere sportive simili alla sua. Armstrong era certo che
l’esperienza nel baseball avesse consentito a Jordan di recuperare la sua
innocenza e di capire quali erano le sue reali priorità, esattamente come
passare da un campetto di notte aiutava Armstrong a capire quali erano le
sue, e a riscoprire la persona che era stato quando era giovane.
Questa fu la prima nota che sentì. La seconda nota, inizialmente più
bassa, ma che poi si alzò sempre più, era che Michael voleva parlare di
basket: voleva essere aggiornato, specialmente sui giovani giocatori che
arrivavano nella Lega. Latrell Sprewell stava cominciando a emergere come
un giocatore con cui tutti dovevano fare i conti e Jordan voleva sapere tutto
di lui. Armstrong gli disse che era uno splendido atleta, veramente,
veramente forte. Alcuni avevano scritto che sarebbe stato il prossimo
Michael Jordan. Armstrong non fu sorpreso che, qualche settimana dopo,
per puro caso Michael passò da San Francisco, che per puro caso era la città
dove giocava Sprewell, perché per puro caso Michael voleva visitare Rod
Higgins, un amico che per puro caso era anche viceallenatore di Golden
State, e che per puro caso questo incontro avvenne durante un allenamento.
Guardando la scena, Armstrong ritrovò il Michael Jordan che lui conosceva
e ammirava, e che tutti gli altri temevano. Presto le chiamate diventarono
più frequenti e più precise. Voleva sapere di Penny Hardaway, che stava
cominciando a farsi un nome, e di Jason Kidd. Voleva sapere tutto sui
giovani giocatori dei Bulls e come Jackson li stesse gestendo.
Armstrong stava molto attento a non chiedere mai a Michael dei suoi
piani – in un certo senso, senza che ne avessero mai parlato, li considerava
un argomento tabù – ma era sicuro che Michael sarebbe tornato e che il suo
cuore si sarebbe rivolto di nuovo verso il basket, che quel tempo passato
lontano lo avesse curato.
Nemmeno Phil Jackson si stupì più di tanto del fatto che Jordan fosse
pronto per tornare. Nell’inverno tra il 1994 e il 1995, era in vista uno
sciopero dei giocatori di baseball e i proprietari proposero di far giocare i
giocatori fuori dai roster nelle squadre di Major League, per stroncare lo
sciopero. Jackson ebbe il presentimento che avrebbe avuto notizie di
Jordan. A inizio febbraio, Jordan passò a trovarlo e parlarono della
possibilità di uno sciopero. Jackson gli disse: «Sai, se davvero ci sarà uno
sciopero, devi pensare a cosa vuoi fare. Non hai ancora molto tempo a
disposizione nel basket. Puoi giocare qui il finale di stagione, sono circa
venticinque partite».
«Sono parecchie» rispose Jordan. «Che ne dici di venti?» Quando
Jackson sentì quelle parole, capì che Jordan stava pensando le stesse cose
che stava pensando lui, e che se i proprietari delle squadre di baseball
avessero giocato male le loro carte (come sembrava molto probabile)
avrebbe presto riavuto il suo giocatore migliore. Alla fine, la dirigenza dei
White Sox cercò di obbligare Jordan e altri giocatori delle leghe minori a
essere riserve in MLB e Jordan lasciò il baseball per sempre, infuriato per
quello che riteneva il tradimento di un accordo privato.
Una mattina del marzo 1995, Armstrong ricevette una telefonata verso le
6 del mattino: era Jordan, che gli chiese di incontrarlo al Berto Center.
Armstrong non voleva che il suo amico tornasse e fallisse e gli chiese per
prima cosa se era sicuro di volerlo fare e, come seconda cosa, se era sicuro
di esserne ancora capace. Jordan rispose di essersi allenato nelle ultime
settimane, e quando Armstrong arrivò al Berto Center quella mattina,
Michael si stava ancora allenando, da solo, tirando e prendendo il rimbalzo.
All’improvviso, su proposta di Jordan, cominciarono a giocare uno contro
uno. B.J., che era più piccolo di Jordan, con felpa e scarpe da ginnastica,
Jordan vestito casual, in mocassini. All’inizio Armstrong si perse nel
piacere del gioco: i ritmi erano bassi e rilassati. Segnava lui, poi segnava
Michael. Ma prima che se ne rendesse conto, era come ai vecchi tempi,
quando giocare contro Michael Jordan significava uccidere o essere uccisi,
con entrambi che chiamavano i falli all’altro. «Sei sicuro di volerlo fare?»
chiese Armstrong guardando Jordan in mocassini.
«È stupendo, continuiamo» rispose. Alla fine i suoi vestiti erano zuppi di
sudore ma aveva vinto 10-7. «Non riesci ancora a marcarmi» disse ad
Armstrong. «E stavo giocando in mocassini». Il giorno dopo, Jordan
chiamò la Nike e ordinò delle sneakers e il giorno ancora successivo
rilasciò una dichiarazione assolutamente inequivocabile: «Sono tornato».
Armstrong non fu sorpreso. Più avanti disse a Bob Greene di aver sempre
pensato che Jordan sarebbe tornato al basket. «Perché?» chiese Greene.
«Perché le persone non cambiano».
Tornò in campo a metà marzo, suscitando un clamore mediatico senza
precedenti. Il suo ritorno fu un evento di rilevanza nazionale: la prima
partita fu il 19 marzo, una sconfitta dopo due overtime contro Indiana in cui
ebbe la media di 7/28. Era domenica e la NBC aveva previsto di trasmettere
in diretta Bulls-Pacers solo in metà del Paese, ma quando il ritorno di
Jordan fu ufficiale, ampliò la copertura, escludendo solo alcuni mercati
locali. Fu la partita con l’audience più alto degli ultimi cinque anni. Dopo la
partita, quando alcuni giornalisti avvicinarono il coach di Indiana Larry
Brown negli spogliatoi, lui disse: «Voi ragazzi siete incredibili. I Beatles ed
Elvis sono tornati e venite a parlare con me».
Jordan sembrava anche disposto a scherzare sul suo tentativo fallito nel
baseball. Jim Riswold scrisse il copione di una pubblicità in cui Jordan,
tornato a giocare a basket, si stava allenando ai tiri liberi. Un po’ intontito,
come se si fosse svegliato da un incubo, scuoteva la testa e diceva di aver
fatto un sogno in cui si ritirava, finiva a giocare nelle serie minori del
baseball e diventava un esterno piuttosto scarso con risultati sotto la media,
che viaggiava tra piccole città in autobus e riceveva $16 di buoni pasto.
«Perché ti riferisci a me come ‘un esterno piuttosto scarso’?»
«Michael» gli rispose Riswold, «come dovremmo chiamare uno con una
media battuta di .200?» Ci fu una pausa.
«Oh, al diavolo. Va bene così».
Riswold girò anche una pubblicità ancora migliore, che ritraeva Jordan
fare l’anonima vita da giocatore di baseball delle serie minori. Eccolo lì, al
bancone di una sudicia tavola calda di una piccola città durante una
trasferta. La pubblicità doveva dare un senso di solitudine e frustrazione.
Una simpatica cameriera nera di mezza età lo aveva servito e lo stava
osservando. Quando Michael si alzava per andarsene, si metteva la mano in
tasca e lasciava una piccola mancia, al massimo un dollaro, sul bancone.
«Sai, tesoro» diceva lei gentilmente, «non ci sono palle curve in NBA». Lui
si fermava, le dava una lunga e profonda occhiata e poi si riprendeva metà
della mancia. Riswold ne era orgoglioso e Jordan approvava, ma la Nike
decise di non mandarla in onda.
Era stato lontano per ventuno mesi e non era decisamente in condizione
per giocare a basket (una condizione molto diversa da quella necessaria per
giocare a baseball). Inoltre, la squadra era cambiata molto. Bill Cartwright,
fiaccato dagli infortuni alle ginocchia, se n’era andato. Horace Grant, dopo
uno scontro molto aspro con la dirigenza sul suo contratto, se n’era andato,
ed era diventato la stella di Orlando. Era arrivato Toni Kukocˇ, che però si
stava adattando all’NBA in maniera lenta e difficile. Un buon numero di
nuovi giocatori non aveva mai giocato con Jordan, lo veneravano e non fu
semplice per loro abituarsi alla sua presenza. Tuttavia, i Bulls, che avevano
un record di 34–31 prima del suo ritorno, con lui in campo fecero tredici
vittorie e quattro sconfitte. In una memorabile partita contro i Knicks, si
rivide il vecchio Michael Jordan: segnò 55 punti. Al primo turno dei playoff
vinsero 3-1 contro Charlotte, ma furono eliminati subito dopo da Orlando,
in una serie in cui la mancanza di condizione atletica di Jordan fu un fattore
cruciale. Nella prima partita perse otto palloni e i suoi errori consentirono a
Orlando di vincere. Era stato imbarazzante. Ma, cosa più importante per il
futuro, i Bulls non erano stati in grado di contrastare Horace Grant.
Dopo la sconfitta con i Magic, Jordan rimase per più di un’ora a parlare
coi giornalisti. Fu aperto e trasparente e si prese la responsabilità per la
sconfitta. Non era in condizione di giocare, disse, ed era stato difficile per
alcuni suoi compagni adattarsi a lui. Accettò le critiche e quelli che lo
conoscevano capirono che non vedeva l’ora di iniziare una nuova stagione,
per riguadagnare il suo spaventoso atletismo.
Nella prima estate dopo il ritorno, andò a Hollywood per girare uno
strano film i cui protagonisti erano lui, Bugs Bunny e altri personaggi dei
cartoni animati. Ma dopo l’umiliazione dei playoff, era determinato a essere
nella migliore condizione di tutta la sua carriera. Come parte dell’ingaggio,
la Warner Bros dovette costruire un campo di basket in modo che non
staccasse troppo a lungo dal gioco: qualunque giocatore professionista o del
college che passava di lì giocava una partitella. Gli altri erano lì per
divertirsi e non perdere la mano, ma prima di quelle partitelle Jordan,
aiutato da Tim Grover, faceva sempre un allenamento di bentornato
straordinariamente impegnativo, per compensare gli anni in più e il periodo
in cui era stato lontano dal canestro. Solo dopo quell’allenamento e dopo
aver girato qualche scena del film, giocava una partita a tutto campo con gli
altri.
I vecchi amici notarono che stava anche lavorando particolarmente sodo
su un colpo che era stato una parte poco utilizzata del suo repertorio, ma
che ora stava diventando un suo marchio di fabbrica. Era un tiro in
sospensione in cui teneva il pallone in mano, fingeva di andare a canestro e
all’ultimo secondo saltava cadendo leggermente all’indietro, in modo da
separarsi dal difensore. Data la sua abilità nel salto e la costante minaccia
che andasse a schiacciare, era un tiro virtualmente indifendibile. Era anche
la concessione molto furba di un giocatore ai cambiamenti che il tempo
aveva lasciato sul suo corpo e al fatto che stava entrando in una nuova fase
della sua carriera. Era più vecchio e più saggio e quello che il suo corpo non
poteva più fare in termini di pura abilità atletica poteva essere compensato
da quello che poteva fare la sua conoscenza del gioco e degli avversari. Non
doveva sprecare nulla. Lasciava che le giovani stelle come Gary Payton dei
Seattle SuperSonics si riempissero la bocca con quello che avrebbero fatto
contro di lui. Lui invece stava zitto e usava le loro parole per motivarsi. Poi,
immancabilmente, scendeva in campo e li distruggeva. Il suo modo di
giocare aveva una nuova qualità, una sorta di freddezza, era come se il suo
stile fosse stato sottoposto a un processo di distillazione, in cui segnava
meno di quanto avesse fatto prima, ma sprecava anche molto meno.
Subito dopo la sconfitta contro i Magic ai playoff qualcuno gli chiese –
proprio perché i Magic sembravano così dominanti con O’Neal, Grant e
Hardaway – se nell’NBA fosse nata una nuova generazione. Lui non era
d’accordo: «Mancano ancora un rimbalzista e un’ala grande».
28
Chicago; Seattle;
giugno 1998
Michael Jordan aveva desiderato giocare contro Utah nelle Finals per tutta
la stagione, soprattutto perché, dopo le Finals dell’anno prima, troppe
persone avevano detto che i Jazz avrebbero vinto se avessero avuto il
vantaggio del campo. Smaniava per dimostrare che si sbagliavano e che,
anche se Karl Malone era un ottimo giocatore, di cui ammirava molto le
qualità, c’era una grossa differenza tra loro due. Anche lo staff di Chicago,
felice di non dover vedere gente come Travis Best, Jalen Rose o i fratelli
Davis, era piuttosto contento di giocare contro Utah. Pensavano che il
vantaggio del campo non avesse grande significato per i loro giocatori: a
causa della loro straordinaria abilità di concentrazione, i Bulls in trasferta
alzavano il livello in maniera eccezionale. Inoltre, gli accoppiamenti erano
ottimali.
Certo, Utah era un’ottima squadra, molto intelligente e con un solido
gruppo di veterani, più efficace in attacco di qualunque franchigia nella
Lega. A differenza di altre squadre con più talento, inoltre, Utah non si
abbatteva mai e sbagliava raramente approccio alle situazioni di gioco.
L’uomo con i maggiori meriti per aver creato la squadra, per aver
mantenuto la franchigia viva nei giorni più difficili e alla fine averla
trasformata in una squadra di alta qualità era il presidente Frank Layden.
Forse due delle migliori decisioni che aveva preso in due decenni di
gestione della squadra erano avvenute in due anni consecutivi, il 1984 e il
1985, quando aveva scelto al draft prima John Stockton e poi Karl Malone.
Nelle finali di Conference, Utah aveva giocato contro gli straordinari
Lakers, una squadra molto più forte fisicamente che aveva appena spazzato
via Seattle, ma i Jazz li avevano fatti sembrare un gruppo di smarriti
ragazzini su un campetto di periferia. La guardia dei Lakers Nick Van Exel,
dopo la serie, aveva dichiarato: «Giocare contro di loro è come essere dei
ragazzini delle case popolari che giocano contro dei professionisti. I
ragazzini cercano sempre di fare passaggi dietro la schiena, giocate
spettacolari e schiacciate. Mentre loro fanno pick’n’roll e altre cose
semplici, non perdono tempo a lamentarsi, non si arrabbiano tra loro, non si
danno il cinque. Giocano come una squadra, rimangono concentrati. Non
credo che il talento dia loro fastidio: hanno un piano per la partita e lo
seguono. Non fanno nulla di strano, si attengono a quello che devono fare».
Ma giocare contro i Bulls non era come giocare contro dei ragazzini delle
case popolari. I Bulls erano così forti mentalmente da poter sfruttare alcune
debolezze insite negli stessi punti forti dei Jazz. L’età, che era stato un
fattore così importante contro Indiana, stavolta non avrebbe contato
granché: i tre migliori giocatori di Utah avevano più o meno la stessa età
dei veterani dei Bulls. Stockton aveva trentasei anni, Malone quasi
trentacinque e girava spot per un trattamento contro la calvizie, e Hornacek
trentacinque.
Due delle squadre coi quintetti titolari più anziani nell’intera NBA erano
arrivate alle Finals, ma non era un caso: i cinque uomini più importanti
(Jordan, Pippen, Rodman, Malone e Stockton)
Sono molto grato agli autori con cui ho lavorato nell’ultimo anno per la loro
amicizia e il loro aiuto. Steve Jones, un collega meraviglioso, divertente e
acuto, è stato una spalla fin dal mio primo libro sul basket e abbiamo avuto
modo di approfondire la nostra amicizia nell’ultimo anno. Tra quelli con cui
ho lavorato, voglio nominare soprattutto Bob Ryan: siamo amici da più di
vent’anni, da quando io, un suo fedele lettore, scrissi il mio primo libro sul
basket e lui mi contattò per aiutarmi e darmi il benvenuto nel suo mondo. È
un collega inestimabile e che adoro. Non è solo una costante fonte di
aneddoti («Era Gara Sei delle Finals e sul cronometro rimanevano solo un
minuto e cinquanta secondi. Bird ricevette palla dalla rimessa. Si era fatto
male a un dito della mano sinistra nel possesso precedente, e i Lakers
stavano quindi cercando di mandarlo a sinistra. Ma lui sapeva che lo
avrebbero fatto e…») ma ha anche uno splendido codice etico: la sua
passione per il gioco e il suo senso di quello che, al suo interno, è giusto e
sbagliato, rimangono senza pari. Coloro che lo seguono, sono i beneficiari
di quella passione.
Nel 1956, come inviato alle Olimpiadi di Melbourne, Red Smith scrisse
che lì erano ben rappresentati due dei grandi poteri del mondo post-bellico:
il Giappone e Sports Illustrated. Questo è più o meno il modo in cui oggi si
sente ogni giornalista sportivo quando si parla della ESPN. Sembra avere
uomini ovunque, molti di gran talento, e nonostante lavorino per la
televisione, amano andare sul campo e comportarsi come cronisti. Bryan
Burwell e David Aldridge mi hanno aiutato molto e chiunque si occupi di
quest’epoca dell’NBA deve essere particolarmente grato al duro lavoro di
Sports Illustrated e delle persone che ci scrivono, soprattutto Jack
McCallum, Frank Deford, Rick Reilly, Curry Kirkpatrick, Phil Taylor e
Alexander Wolff. Deford, bisogna aggiungere, raggiunge un livello di
professionalità (letteraria e intellettuale) così alto da rendere il suo lavoro
uno standard a cui aspirare.
Chi ci ha preceduto, ci rende sempre il lavoro più facile; in questo caso i
libri di Sam Smith (The Jordan Rules e Second Coming), Mitchell Krugel
(Michael Jordan), Rick Telander (The Year of the Bull), Melissa Isaacson
(Transition Game), Bob Greene (Hang Time e Rebound) e Roland Lazenby
(Blood on the Horns). Inoltre, Lazenby ha pubblicato una serie di altri titoli
molto utili per qualunque fanatico del basket: And Now Your Chicago Bulls,
The Lakers e The NBA Finals: A Fifty-Year Celebration.
I due libri di Phil Jackson, Più di un gioco (insieme al sempre attento
Charley Rosen) e Basket&zen sono preziosi. Due altri titoli mi hanno
aiutato molto a scrivere la parte su Carolina: The Dean’s List di Art
Chansky e A March to Madness di John Feinstein. The Unauthorized
Biography of Dennis Rodman di Dan Bickley (come anche il best-seller
scritto dallo stesso Rodman, Bad as I Wanna Be) mi hanno aiutato a
tratteggiare quel ragazzo così strano. Due libri sulla Nike, Just Do It di
Donald Katz e Swoosh di J.B. Strasser e Laurie Becklund, sono stati molto
utili.
Per la parte sui Celtics, The Last Banner di Peter May, Ever Green di Dan
Shaughnessy e Drive, scritto a quattro mani da Bob Ryan e Larry Bird, sono
stati inestimabili. Il lavoro di Isiah Thomas e Matt Dobek, Bad Boys!, mi ha
aiutato per la parte sui Pistons; e Show Time di Pat Riley e The Lives of Pat
Riley di Mark Heisler sono stati inestimabili per comprendere gli anni
migliori dei Lakers, così come, d’altra parte, l’autobiografia di Magic
Johnson My Life, e Best Seat in the House di Spike Lee, che mi ha guidato
nel parlare di Spike Lee.
Infine, i tre tomi di A Hard Road to Glory: A History of the African-
American Athlete di Arthur Ashe rimangono una fonte inestimabile per
chiunque voglia parlare di sport e razza in America.
Ci sono molte persone a cui devo qualcosa. Nella dirigenza dei Bulls, i
meravigliosi Tim Hallam, Tom Smithburg e Darryl Arata, che sono
bravissimi a fare quel che fanno. Date le frizioni all’interno della dirigenza,
stavano sempre camminando in un campo minato e penso siano tra le
persone più professionali che io abbia mai conosciuto. Non ho mai avuto a
che fare con un addetto stampa bravo come Tim Hallam. Tra gli assistenti di
David Stern, sono grato a Linda Tosi, Marie Sailler, Carolyn Blitz, Russ
Granik, Zelda Spoelstra, e Erin O’Brien; tra quelli di David Falk, a Mary
Ellen Nunes; tra quelli di Jimmy Sexton ad Amy Wilson. Mi hanno tutti
reso la vita più semplice. Grace Gallo, assistente di John Walsh alla ESPN,
mi ha aiutato tantissimo, così come Chris LaPlaca. Il direttore delle
informazioni sportive di Chapel Hill Steve Kirschner è stato incredibile,
così come Mike Cragg a Duke.
Dal mio lato, la mia amica Elizabeth Arlen mi ha aiutato con enormi
ricerche di materiali, così come il suo amico Nick Dolin; verso la fine della
lavorazione del libro, Brian Farnham si è dimostrato un fact-checker
inestimabile. Bill Vourvoulias del New Yorker mi ha salvato da un grave
errore, grazie al suo controllo. Il mio amico Bruce Schnitzer si è assicurato
che non mi perdessi Gara Sette delle finali di Eastern Conference,
nonostante una festa per il diploma di mia figlia. Il Reverendo Jack Smith è
stato molto utile nel controllare tutti i riferimenti teologici e biblici. Negli
anni, Graydon Carter si è dimostrato un direttore incoraggiante e sensibile,
un vero amico per molti autori. Mi considero fortunato ad averlo sia come
collega che come amico. Philip Roome ha fatto sì che rispettassi le date
giuste, in un anno con stringenti scadenze e la pubblicazione di un altro mio
libro a metà stagione.
A Random House, il giovane ma molto dotato Scott Moyers ha editato
questo complesso libro con entusiasmo e attenzione, pur sotto la maggior
pressione che io abbia mai visto, e sono anche molto grato a Wanda
Chappell, Kate Niedzwiecki, Tom Perry, Liz Fogarty, Amy Edelman, Andy
Carpenter e Sybil Pincus per il loro lavoro. Il mio avvocato Marty Garbus,
la sua spalla Bob Solomon e la loro assistente Fredda Tourin mi hanno
aiutato a trattare con il complesso mondo degli affari e Carolyn Parqueth ha
fatto un lavoro stupendo nella sbobinatura delle interviste, rendendo così la
mia vita infinitamente più piacevole.
Nota dell’autore
L’idea per questo libro è venuta dal mio amico Doug Stumpf, che è stato il
mio direttore a Morrow, poi a Random House, infine a Vanity Fair.
All’inizio, ebbi molti dubbi, per varie ragioni: avevo già scritto un altro
libro sul basket, ero preoccupato all’idea di scrivere di qualcosa su cui era
già stato scritto così tanto, non smaniavo per entrare in un mondo dove
lavoravano così tanti gionalisti (chi scrive un libro, secondo me, lavora
meglio quando è sostanzialmente solo, lontano dal clamore dei media), ed
ero ancor più preoccupato dall’ingresso in un mondo popolato da gente così
famosa, dove l’accesso era strettamente controllato. Alla fine, mi sono
deciso anche se, nei diciotto anni passati da quando ho scritto The Breaks of
the Game, poche cose al mondo sono cambiate quanto il mondo del basket.
Era un mondo che, ai tempi, amavo molto. Quando scrissi il libro,
durante la stagione 1979-80, i giocatori prendevano ancora aerei di linea,
insieme a quei pochi reporter che li seguivano e che prendevano, oltre ai
voli, anche le stesse navette avanti e indietro dagli aeroporti agli hotel. Data
la lunghezza delle stagioni, i giocatori e i giornalisti finivano per conoscersi
nelle lounge degli alberghi e le barriere crollavano. Il mondo del basket
piaceva non solo a me, ma anche a molti altri addetti ai lavori: mi sembrava
pervaso di umanità e intelligenza, e molti dei migliori allenatori e assistenti
mi ricordavano le persone che avevo conosciuto quando scrivevo di
politica, in un’epoca in cui non c’era la televisione e scrivere di attualità era
molto più divertente. Da quel libro nacquero amicizie (o, almeno, contatti)
con persone di cui ho scritto: Jack Ramsay, Bucky Buckwalter, Kermit
Washington, Bill Walton, Lionel Hollins, Maurice Lucas, Steve Jones e
Mychal Thompson.
Ma quel mondo è scomparso. La separazione causata dagli enormi
contratti e dai voli charter (vietati ai giornalisti) è pressoché totale. I
giocatori non hanno più bisogno di parlare con i reporter e la loro idea di
‘rapporti con la stampa’ si riduce a brevi clip della ESPN che li mostrano
mentre schiacciano. I loro agenti, che all’inizio non avevano quasi alcun
potere e quindi desideravano sempre parlare con i reporter, sono ora molto
meno accessibili: lavorano in un regime di libertà quasi totale e sono, in
molti casi, diventati più potenti dei proprietari.
Ma anche i media sono cambiati. A quei tempi c’era un piccolo manipolo
di reporter che seguiva il basket e lo amava ed era capace di tracciare una
linea precisa tra la vita privata e le attività pubbliche di un individuo. Nei
media contemporanei, specialmente con una squadra piena di celebrità
come i Bulls, quel piccolo drappello di report che osservano il vecchio (e
spesso disprezzato) codice etico sono decisamente meno delle banderuole
che lavorano per i nuovi media, affamati di gossip (in particolare
programmi televisivi che sono parte dei nuovi palinsesti ventiquattr’ore al
giorno). Per i giocatori, questi nuovi giornalisti sono degli estranei e i
giocatori stessi, non senza una certa furbizia, hanno capito che la ragione di
vita di questa gente, come troppo spesso capita nel moderno mondo delle
celebrità, è sì di illuminare la loro ascesa ma anche, molto più importante,
di spezzar loro le ossa quando commettono un errore o iniziano il loro
inevitabile declino. Naturalmente, i giocatori vedono poca differenza tra
loro e i giornalisti seri. Non è un fenomeno che accade solo nel basket o
solo nello sport, ma di certo non rende particolarmente piacevole lavorare
in un luogo affollato come l’NBA: il risultato è un NBA in cui sembra
molto più facile entrare ma in cui, in realtà, l’accesso è molto più difficile
che in passato e, ancor peggio, c’è molta meno umanità. Nelle circa
quaranta partite che ho visto, sono sempre, fedelmente, andato negli
spogliatoi, ma non ho mai considerato quello che sentivo come parte di
un’intervista, perché non mi sembrava tale. Potrei aver passato l’intera
stagione senza fare nemmeno una domanda negli spogliatoi: nel mondo del
giornalismo, potrebbe essere un primato.
Alla fine, ho deciso di scrivere un libro che trattasse anche dei
cambiamenti nel mondo dello sport e di ciò che li ha causati. Quello che mi
interessava non era solo Michael Jordan come giocatore – l’ovvia questione
di cosa lo rendesse un atleta così grande – ma, altrettanto importante, come
fenomeno. La domanda a cui volevo trovare una risposta era semplice.
Quando ero ragazzo, negli anni quaranta, le figure più rappresentative dello
sport americano erano tutti giocatori di baseball bianchi – Williams,
DiMaggio, Musial, Feller – e l’NBA neppure esisteva: com’era stato
dunque possibile che ora l’atleta più famoso del mondo fosse un giovane
nero che giocava a basket, che si era laurerato in una scuola del Sud che,
quando io ero solo un giovane corrispondente dall’estero, non avrebbe
neppure potuto frequentare?
Avevo avuto a che fare con Michael Jordan già una volta. Nel gennaio del
1992, Sports Illustrated lo aveva messo in copertina, nominandolo Sportivo
dell’anno, e mi aveva chiesto di scrivere un pezzo su di lui. Avevo accettato
subito: dopotutto, l’avevo osservato con crescente piacere e ammirazione. Il
tempo che passai con lui quel giorno fu estremamente piacevole: diverse
ore insieme a un ragazzo brillante, eloquente, interessante e interessato,
molto a suo agio con se stesso. Quello che mi portai via dall’intervista fu la
sua eleganza, la vastità immensa della sua comfort zone e la sua grande
intelligenza anche fuori dal campo. Pensai anche che stesse affrontando un
livello di attenzione mediatica mai vista prima con estrema grazia, trattando
chi lo circondava con enorme cortesia. Quando l’articolo uscì, David Falk
mi chiamò per dirmi che Michael stava pensando di scrivere un libro e,
avendo apprezzato molto la nostra chiacchierata, voleva sapere se ero
interessato a collaborare. Gli risposi che avrebbe dovuto aspettare un bel
po’ prima di scrivere un libro, fino a molto dopo la fine della sua carriera, e
che io non avevo mai scritto un libro a quattro mani con nessuno,
nonostante alcune offerte piuttosto allettanti: quindi, non sarei stato un buon
collaboratore. Non chiusi del tutto la porta, però: aggiunsi che non avevo
idea di come l’avrei pensata dieci anni dopo.
Nell’estate del 1997, quando finalmente decisi di scrivere questo libro,
chiamai David Falk. Fece immediatamente resistenza, e più avanti
l’avrebbe fatta anche Michael Jordan. L’agenda di Michael, disse, era
stracolma e comunque su di lui si stava scrivendo anche troppo. Potevo
capirlo. La collaborazione sarebbe stata minima, ovviamente. Alla fine, io e
Falk stipulammo un accordo: durante la stagione, Michael non mi avrebbe
mai visto, ma mi avrebbe incontrato a fine stagione e mi avrebbe dato la
possibilità di fargli qualche domanda. Mi pare che avessimo parlato di due
o tre incontri, di due ore ciascuno. Per me andava bene. La cosa davvero
importante fu che, mentre lavoravo al libro, Michael non cercò mai di
impedirmi l’accesso a persone importanti e vicine a lui e che chiedevano
sempre a lui se fosse bene o meno parlare con i giornalisti. Sono riuscito
così ad avere un accesso privilegiato a persone fuori dal comune, molto
vicine a lui, per esempio Roy Williams, Harvest Leroy Smith, Buzz
Peterson, Tim Grover, Howard White, Fred Whitfield e Dean Smith. Questo
tipo di contatti è vitale per un cronista.
Quando la stagione finì, mi fu sempre più chiaro che Michael voleva
rivedere il nostro accordo ufficioso. Non fui sorpreso. Era più intrigante
capire perché non volesse vedermi: forse era la fatica della battaglia, per
una persona a dir poco distrutta dopo una stagione particolarmente sfibrante
e che era costantemente tallonata da media e agenzie pubblicitarie? Forse,
competitivo come sempre, voleva tenere il materiale migliore per un suo
libro? C’era stato un suggerimento in tal senso da parte di Falk: Michael è
sempre competitivo. Chi può dirlo? Fatto sta che feci quello che i cronisti
seri hanno sempre fatto: lavorai ancora più duro. Eravamo a metà giugno e
sebbene la stagione fosse finita, e così anche le mie speranze di ottenere un
incontro, decisi che avrei fatto un’intervista in più al giorno, ogni giorno per
i successivi tre mesi, anche mentre stavo scrivendo, per rafforzare il libro.
Alla fine, anche se speravo che sarebbe stato possibile fare le due interviste
promesse, sono contento che Michael Jordan mi abbia garantito un ingresso
così facile nel suo mondo e, come scrittore, gli sono molto grato per aver
scritto l’ultimo capitolo, in Gara Sei contro Utah.
Un’ultima parola. A fine anni novanta, il mondo del basket è molto
diverso. È più ricco e più volubile, la posta in gioco è più alta, le pressioni
maggiori e i gesti di umanità disinteressata (come si può immaginare)
sempre meno. I premi sono più alti per tutti, compresi i giocatori: i vestiti
sono migliori, i tagli di capelli sono migliori, e girano – in questo business
come in molti altri – molti più soldi. Se c’è qualcosa, per uno scrittore come
il sottoscritto, che può redimere cambiamenti così rapidi sono le persone
che vivono per il gioco: assistenti, scout, preparatori e giornalisti che amano
il basket e dedicano le loro vite a esso perché non possono neppure
concepire l’idea di occuparsi d’altro. Amano parlare del gioco almeno
quanto amano giocare o guardare le partite. E anche se veder giocare
Michael Jordan sera dopo sera a un livello così alto è stato un vero piacere,
alla fine ciò che ha reso quest’ultimo anno così godibile è stato il tempo
passato con queste persone, a parlare di basket fino a tarda notte.
Lista degli intervistati
Questa è una lista di intervistati del tutto parziale. Alcune delle persone che
ho intervistato non hanno voluto apparire perché hanno continuato a
lavorare con alcuni dei protagonisti di questo libro ed erano preoccupati dal
fatto che i loro nomi fossero citati.
Mike Abdenour, Danny Ainge, Stan Albeck, Mitch Albom, David
Aldridge, Cliff Alexander, Terry Armour, B.J. Armstrong, John Bach, Lacy
Banks, Dave Blackwell, Tom Boswell, Bill Bradley, Dean Buchan, Bucky
Buckwalter, Bryan Burwell, P. J. Carlesimo, Rick Carlisle, Jimmy
Cleamons, Gary Cole, Ron Coley, Doug Collins, Dave Corzine, Bob
Costas, Billy Cunningham, Chuck Daly, Frank Deford, Matt Dobek, Matt
Doherty, Mike Dunleavy, Don Dyer, Dick Ebersol, David Falk, Lee
Fentress, Bob Ferry, Bill Fitch, Chris Ford, Barry Frank, Mike Fratello,
Peter Gammons, Howard Garfinkel, Bob Geoghan, Tim Grover, Steve Hale,
Tim Hallam, David Hart, Dick Harter, Tinker Hatfeld, Dr. John Hefferon,
Mark Heisler, Dick Holbrooke, Lionel Hollins, Red Holzman, Jan Hubbard,
Rod Hundley, Ben Jackson, Chuck Jackson, Joe Jackson, John Jackson,
June Jackson, Phil Jackson, Rodney Johnson, Arch Jones, Steve Jones,
David Kahn, George Karl, Tom Kearns, Steve Kelley, Johnny (Red) Kerr,
Steve Kerr, Bob Knight, Phil Knight, Tom Knight, Dave Konchalski, Jon
Kovler, Jerry Krause, Arthur Kretchmer, Dave Krider, Mike Krzyzewski,
Mitch Kupchak, Frank Layden, Roland Lazenby, Spike Lee, Dr. Michael
Lewis, Bob Ley, Luc Longley, Kevin Loughery, Maurice Lucas, Mike
Lupica, Brendan Malone, Kent McDill, Jack McCloskey, Kevin McHale,
Brian McIntyre, Ray Melchiore, Fred Mitchell, Doug Moe, Mike Monroe,
David Moore, Peter Moore, Lester Munson, Todd Musburger, Skip
Myslenski, Billy Packer, John Paxson, Paul Pederson, Buzz Peterson, Mark
Pfeil, Pat O’Brien, Dan O’Neal, Jack Ramsay, Ron Rapoport, Ahmad
Rashad, Bill Rasmussen, Jerry Reinsdorf, Pat Riley, Jim Riswold, Doc
Rivers, Jimmy Rodgers, Charley Rosen, Josh Rosenfeld, Phil Rosenthal,
Bob Ryan, John Sally, Chip Schaefer, Bill Schmidt, John Seigenthaler,
Jimmy Sexton, Dan Shaughnessy, Randy Shepherd, Gene Shue, Joe
Silverberg, Howard Slusher, Harvest Leroy Smith, Tom Smithburg, Zelda
Spoelstra, David Stern, Dick Stockton, Rick Telander, Mike Thibault, Isiah
Thomas, Rod Thorn, Sonny Vaccaro, Mark Vancil, Peter Vecsey, Al
Vermeil, Ailene Voisin, Donnie Walsh, John Walsh, Bill Walton, Kermit
Washington, Donald Wayne, Tom Weinberg, Rick Welts, Bill Wennington,
Jerry West, Howard White, Fred Whitfield, Michael Wilbon, Lenny
Wilkens, Pat Williams, Roy Williams, Tex Winter, James Worthy.
Note
2 Bibbia CEI.