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BALASAR DETTO SLAAN STALL DEL CLAN SINMARA

Mio padre, Marduk detto Goldstall, per via della sua abilità negli affari, che permisero la nascita e
impulsarono l’affermazione della gilda SanKyay, scaglie di ferro, con il consenso di tutto il clan Sinmara, mi
aveva attribuito, fin da bambino, come tradizione, SlaanStall, come soprannome.

Fin da bambino ho sempre amato colpire con forza il rosso ferro caldo. Desideravo, ardentemente, come il
respiro dei miei padri, dimostrare l’abilità del Sinmara e della SanKyay.
Conquistando il rispetto e la fiducia di Nidavellir, colpo dopo colpo.
Lame per prendere la vita, spesse armature per difenderla, segreti chiavi o lucchetti per nascondere la
verità dell’eremita, che dopo una vita di meditazione, non vuol lasciar il mondo come un fuscello in un
vulcano. Questo ha appreso mio padre e questo ho appreso io. Siamo fabbri.

Lasciandosi alle spalle le stradi comuni, seguendo il canto di martello e incudine, la forgiatura profumata di
ferro, si trovano il nostro respiro di fuoco che scioglie, le nostre braccia rimodellano.

Commerciamo con città e villaggi di uomini elfi e nani, ricevendo oro, cibo o materia prima.
Per quello i migliori sono i nani. Probabilmente con loro è più facile andare d’accordo, perché anche loro
devono aver subito la vanità degli elfi e la stupidità degli uomini. Per questo. abbiamo instaurato un
rapporto di fiducia reciproca, tanto da convincerli a insegnarmi il nanico.
O forse più semplicemente, gli era più comodo chiudere un accordo nella loro lingua, così da lasciarmi il
lato corto.

Fin da bambino, ho sempre saputo che grazie al nostro duro lavoro, avremmo potuto migliorare la nostra
posizione, ci saremmo potuti accerchiare di essere con i quali compartire lo stesso beneficio.
Non è forse questa integrazione?
Il Sinmara non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla, protezione e fama presto sarebbero stati
abbastanza vicini da poterli cogliere con la mano.

E con questi stolti pensieri, che mi recavo ad un incontro, con dei nuovi clienti.
I due uomini che ci incontrammo, non avevano certo l’aspetto dei nostri normali clienti, ma comunque
conoscevamo bene quello sguardo. Avrebbero usato quella montagna di armi, armature, catene, punte di
freccia e pugnali per armare un esercito, che avrebbe sparso dolore e distruzione. E cosa gli impediva di
usarle contro i propri creatori?
Mio padre, in quel giorno maledetto, rifiutò, racimolando tempo poter portar la decisione davanti al
Consiglio. Non aveva una buona sensazione e non avrebbe mai anteposto la sicurezza dell’accampamento
e del clan, nemmeno per aver due ali d’oro.
Mio padre si era guadagnato il rispetto dei Saggi del Consiglio, grazie al suo buon fiuto negli affari.
Io d’altra parte me lo stavo guadagnando per la mia abilità nella forgiatura, ma lo ereditavo dall’essere
figlio di Marduk, per cui i Saggi, mi ascoltavano, anche troppo. E ancor di più mio padre.

Se quel giorno, dannato, avessi ascoltato gli insegnamenti di mio padre, adesso il Clan Sinmara esisterebbe
ancora. Siccome mio padre non era certo di potersi fidare, aveva consigliato ai Saggi di rifiutare l’offerta dei
due tizi, e il Consiglio concordava con lui, nel non esporsi a inutili rischi.
Io d’altro canto, traboccando di ambizione, mi ero intromesso e, con finta sicurezza, maschera della mia
arroganza ero riuscito ad ottenere il permesso per un secondo incontro con i rappresentanti della banda.
L’incontro sarebbe stato amministrato da mio padre, ma a me era stata concessa l’opportunità di
assisterlo.
Si sarebbe dovuto solo aspettare che mio padre si liberasse di altre trattative, e nel giro di 2 lune, avrei
avuto la mia occasione di brillare.
Si potrebbe pensare che fosse un giusto compromesso, ma nemmeno così mi fermai.
Sapevo che quei pochi di buono non avrebbero avuto la pazienza di aspettare, e che, quando il gruppo di
messaggeri inviato dal Clan, gli avrebbe comunicato la decisione presa, avrebbero, tra un insulto e l’altro,
girato a largo da noi e cancellato l’offerta.
Così decisi di seguire i messaggeri di nascosto, e spiai la conversazione.
Come immaginavo, la notizia non fu presa bene, e solo la pazienza dei messaggeri permise a umani e
dragonidi di limitarsi all’invettiva.

Ricordo che aspettai a stento che l’ultimo dei messaggeri uscì dalla locanda, prima di avvicinarmi ai due.
Inizialmente titubanti, presto si rallegrarono molto di ciò che uscì dalla mia bocca.

“Signori dovete scusare i miei fratelli, sono sicuro che abbiano agito in buona fede, non hanno intenzioni
cattive, ma sono abituati a seguire le indicazioni del nostro antico Consiglio”

E subito il soldato più alto, con falso tono compiacente:


“Tu invece, dragonide, hai appreso a comportarti, forse proprio per pensare con la tua testa”

“Io Balasar dei Sinmara vi assicuro…” saltai, esaltato io, ma il più basso rabbiosamente mi fermò:

“Diavolo di un dragonide, non gridare tanto, e risparmiami le storie dei tuo fratelli draghi, voi altri siete
sempre tutti uguali…”

In quel momento, il guerriero più alto, attirò l’attenzione di mezza locanda, esplodendo in una fragorosa
risata.
“Tu e io, amico Balasar dei Sinmara, abbiamo lo stesso problema. I nostri fratelli parlano e agiscono senza
pensare che prima di tutto ci sono gli affari. I tuoi fratelli hanno detto due lune prima di poter riprendere la
trattativa, immagino che se tu ci abbia avvicinato, avrai qualcosa di meglio”.

“Ah è proprio vero che dobbiamo accettare tutti i fratelli che Bahumut ci invia! Non vi mentirò, per noi
risulta molto difficile pensar di poterci fidare di tipi come voi, che chiedono tante armi con così tanta fretta.
Noi non giudichiamo e non facciamo domande, su come verrà usato il nostro ferro, ma ciò non toglie che
abbiamo occhi anche noi. Servire la vostra banda è per noi è un grosso rischio, soprattutto a livello
economico.”

A quel punto ricordo di essermi sentito molto fiero di me stesso, convinto di tenere la trattativa salda nelle
mie mani, solo ora mi rendo conto di quanto mi stessi equivocando.
Il piccoletto, picchiò il pugno sul tavolo, sembrando dimenticarsi della discrezione che tanto reclamava
poco prima, e ridendo forte: “Ah! Non sai quanto hai ragione!”.
E anche l’altro dietro di lui, battendo forte le mani, esclamò gioioso:
“Assolutamente giusto! Molto ben detto! E questo proposito, ti prego, seguimi subito, così che ti possa
mostrare quanto siamo seri!”

Non era la risposta che mi aspettavo, ma ogni perplessità svanì, quando, seguendoli in un vicolo dietro la
locanda, mi mostrarono un carro carico con 10 barili pieni di monete d’oro.
I due sghignazzavano e si scambiavano pacche sulle spalle, esultanti, come se già avessero avuto il loro
carico forgiato.
Io, estasiato da tutto quell’oro, pensai immediatamente che i Sinmara mi avrebbe celebrato per gli anni
avvenire, chiamandomi Slaan Goldstaan “Forgiatore di ferro d’oro”.
I due sembravano morirsi di voglia per liberarsi di quell’oro. Pensai che potesse essere rubato, e subito ne
fui certo. Lo avevano rubato chissà dove, e adesso lo avrebbero usato per armarsi nuovamente e rubarne
ancora di più.
Subito mi fecero pressione per poter portare l’oro all’accampamento, io ero titubante, non avrei dovuto
permettere che due tipi del genere scoprissero la posizione esatta del nostro accampamento, ma capitolai
rapidamente alle loro ragioni. E d'altronde a me sarebbe toccata un’entrata trionfante.
Arrivati all’accampamento, ai miei fratelli si tesero tutti i nervi, le mani si strinsero forti su bastoni e lance e
i petti si gonfiarono di lava. Fino a quando mostrammo loro i barili carichi di loro.
Nel giro di qualche non c’era un solo membro dei Sinmara che non stesse plasmando ferro con roventi
sbuffi.
Mio padre era felice per me, avevo ottenuto una grande ammirazione, e tutti iniziarono a riferirsi a me
come Tumuh, ambizioso. Ma comunque avevo agito troppo d’impulso per i suoi gusti e non perdeva
occasione di lasciarlo intendere.

Il lavoro procedeva celere e l’accampamento traboccava di materie prime, oro e armi. Un bottino troppo
ghiotto per chiunque. Ci avvicinavamo alla fine dei lavori, e le frecciate di mio padre aumentavano, anche a
causa della stanchezza che si accumulava. Così quel giorno, dopo una stupida discussione decisi di
allontanarmi dall’accampamento e lasciar che sbollisse la sua rabbia.

Non ricordo nemmeno niente di quel giorno, il fumo delle fiamme che bruciavano la pelle d’orata di tutti i
miei fratelli, ha cancellato qualsiasi altro dettaglio nella mia mente. Non ricordo con chi parlai prima di
abbandonare il campo, non ricordo cosa dissi o cosa mi fu detto.

Tutto era perso, non avevo più nulla. Vagai per l’accampamento, ormai svuotato di ogni suo valore, per
giorni. Non sapevo cosa stavo facendo, non riuscivo a capirlo, ero un involucro di carne per il nulla.
Quando mi accorsi cosa era successo corsi più veloce che potevo, sperando che potessi ancora fare
qualcosa per cambiare quello che già da lontano appariva scontato. Tutti erano stati trucidati, torturati e
bruciati vivi. Nessuno si era salvato. Quelle che prima erano fucine e case per i miei fratelli orano erano
mucchi di braci, il legno e la paglia delle costruzioni ora diventano cenere mista alla carne dei miei fratelli e
di mio padre. Faticai a riconoscere molti di loro, gli ultimi istanti delle loro vite erano stati troppo cruenti e
la stessa essenza dell’essere vivente era svanita, lasciando solo la putrida trasformazione della morte.
Non mangiai e non dormii per giorni, mi obbligavo a respirare a pieni polmoni l’odore dello sterminio,
pensando di poter ripagare le mie, e soltanto mie decisioni che avevano portato, tutti, tranne me, all’oblio.
Mentre cercavo di dare una degna sepoltura ai resti dei miei fratelli mi rendevo conto di quanto fossi
perso. Sarebbe stato più facile morire bruciato vivo, assieme al mio clan, che vivere col il peso del rimorso,
il rammarico e lo stato di perdizione in cui versavo.
Credo che in un qualche modo, i miei fratelli, con l’aiuto di Bahumut, tramite il calore dei loro ultimi respiri,
mi indicarono la via. Mi trascinai dove mio padre nascondeva l’alabarda della nostra famiglia. Non era
un’arma particolarmente potente, era di buona fattura, per noi era il simbolo della rivalsa, fu la prima
alabarda che mio padre forgiò, in essa racchiuse tutta la speranza per la sua famiglia e per i Sinmara.
I banditi non l’aveva trovata, era nascosta in un incavo scavato nella parte superiore di un grande albero
fuori dall’accampamento. Vicino ad esso una roccia che sembrava l’ala di Bahumut ci indicava la via.
Tenendola per le mani mi resi conto che avrei dovuto espiare le mie colpe. Non potevo permettere che
l’ultimo ferro forgiato dai Sinmara venisse usato per spargere sangue di innocenti. Era mia sacra
responsabilità salvare le vite, prima che il nostro ferro le prendesse. Non avrei più permesso ai violenti di
spargere terrore e sangue. Avrei versato il mio a difesa dei più deboli.
Così ho iniziato a vagare per le terre selvagge, in cerca di giustizia e dei responsabili della fine dei Sinmara.
Lungo i miei peregrinaggi mi imbattei in un ladruncolo da quattro soldi, che offriva ai passanti una spada
forgiata dai dragonidi. Non ci volle molto per me per riconoscere la provenienza dell’arma. E ci volle ancora
meno per il ladruncolo di confessare che nel suo ultimo viaggio a Rivalunga, era finito a bere con due
guerrieri che rispondevano alla descrizione dei due uomini che avevo portato al cospetto dei Sinmara, e
durante i bagordi della notte lui gli avesse rubato la spada, convinto di poterci fare un bel po' di monete
d’oro. Questa convinzione gli era venuto quando i due, presi dall’alcool, gli avessero raccontato di come
avessero derubato un accampamento di dragonidi che gli stavano forgiando le armature.
Non avevo bisogno di altro.
Quello che sempre avevo saputo adesso mi veniva confermato.
Mi avevano tolto tutto e non avrei riposato fino ad aver avuto la mia vendetta.

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